capelletti il capo2

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  • 8/16/2019 Capelletti Il Capo2

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     hæcceit@s web. Rivista online di filosofia, cultura e società/ISSN 2282-5762 

    www.haecceitasweb.com - ISSN 2282-5762 – Ottobre 2013

    Il capo, l’attore.

    L’attorialità come dispositivo identitario, tra corpo individuale e corpo politico 

    Di Paolo Capelletti

    Corpi politici

    Le occasioni di condivisione disponibili – sempre più garantite – all’interno dello spazio sociale

    sono molteplici e non esclusive. Le norme che ne regolamentano l’appartenenza possono essereinfinitamente diverse ma sempre si declinano come dispositivi funzionali: sono finalizzate alla

    sopravvivenza del proprio spazio (dominio) e alla riproduzione della possibilità di quella stessa

    appartenenza.1 In altre parole: lo spazio di condivisione è un corpo, un accorpamento che si

    esprime nel mantenimento e nell’accrescimento2 dei propri membri (delle proprie membra). Chi

    sta alla testa di quel dominio è il capo del corpo.

    Liberté, égalité...

    L’égalité del motto francese è traducibile con diversi termini, come spesso capita con le parole

    applicabili a molti contesti. È una parola che mantiene, del resto, alcune ambiguità che la

    traduzione italiana più immediata, uguaglianza, possiede a propria volta. Uguaglianza di fronte

    alla legge, innanzitutto. Quindi uguaglianza nei diritti, garantiti dal corpo politico, e nei doveri, da

    rispettare in quanto membro del corpo. Nessun membro è superiore agli altri, nessuno è più

    uguale degli altri.3 Nel corpo, quindi, il mio prossimo è uguale a me. Siamo identici. Ci

    riconosciamo l’uno nell’altro. E tutti nel corpo totale. 

    Testa è corpo

    Quanto Hobbes afferma del Leviatano,4 delineando una posizione del sovrano che non lo es-pone

    alla legge ma lo dis-pone al di fuori di essa e del contratto sociale che la erige, va riconsiderato

    1 Cfr. Gilles Deleuze, Immanenza, Mimesis, Milano 2010. 

    2 Cfr. Elias Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981. 

    3 Cfr. George Orwell, La fattoria degli animali , Mondadori, Milano 2000. 

    4

     Cfr. Thomas Hobbes, Leviatano, Laterza, Bari-Roma 1997. 

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    proprio alla luce del concetto di identità. Il capo non è avulso dai desideri del corpo solo in quanto

    lo comanda, l’uguaglianza tra le membra del corpo è – e non incidentalmente ma primariamente e

    necessariamente – uguaglianza con il capo. L’immagine del capo è il simbolo del riconoscimento,

    esso è il capo del corpo proprio in virtù dell’esistenza di un corpo del capo.5 

    Identità=identicità+vergogna

    Alla prova del riconoscimento, l’individuo democratico è spinto a cedere e scivolare in uno tra due

    versanti: il primo è l’appiattimento politico generato dall’esaltazione libertaria – il senso di euforia

    generato dall’appartenenza al Corpo, ai giusti –, il secondo è il rifiuto sdegnato di quello stesso

    riconoscimento, l’autoesclusione motivata dal desiderio di mantenersi indipendenti, superiori,

    inattaccabili dalla sfrenatezza del piacere.6 In entrambi gli umori essenziali il motore motivazionale

    è la purezza: nel primo caso, la sua conquista, celebrata e ritualizzata nell’ascesi libertaria(libertina) e nella scomparsa estatica dentro al sociale; nel secondo, la sua conservazione, la

    sicurezza che la partecipazione a un sociale tanto degradato sporcherebbe il proprio tessuto

    politico e morale.7 Questo secondo aspetto, con l’esplicita condanna della società contemporanea

    e della sua perdita di valori, afferma un distacco da essa tutt’altro che disastroso quanto,

    piuttosto, orgoglioso e repulso da essa. Disgusto, oscenità e, in definitiva, vergogna8 sono i principi

    linguistici attorno a cui si dipana il discorso di chi rifiuta di appartenere, di essere parte, di dirsi

    identico. L’immagine sociale è ciò che non si può sopportare di vedere ammettendo che sia il

    proprio specchio. Una vergogna che è autoesclusione è, d’altra parte, un sussulto moralista per il

    quale si prova un’istantanea vergogna: soffocamento della vergogna nella vergogna. Un riversarsisu se stesso del sentimento di ribrezzo che, tuttavia, comporta anche il disagio per la non-

    appartenenza, la morte politica del non-identico. Tra appiattimento nell’identico e morte nella

    vergogna, l’annullamento del soggetto politico si compie, in una visione. Quella del corpo del

    leader (führer), dell’attore protagonista. 

    5 Cfr. Marco Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda, Parma 2009. 

    6 Cfr. Maurizio Zanardi, Il capitale umano e l’avvenire della politica in Aa. Vv., La democrazia in Italia,

    Cronopio, Napoli 2011. 

    7  Jean Baudrillard, Patafisica e arte del vedere, Giunti, Firenze 2006, p. 81: « È il caso di Umberto Eco,

    quando dice: “Ma non è possibile che gli italiani votino Berlusconi. Sono degli stupidi, alla fin fine, dei

    coglioni!”, perché l’idea che le cose dovrebbero realizzarsi secondo una regola morale iscritta nei cuori e

    negli spiriti è pura ingenuità o, ancor peggio, è criminale: è tipica delle persone che sublimano troppo la

    realtà, un modello di pensiero che sostituisce, una sublimazione del reale». 

    8 Cfr. Marco Belpoliti, Senza vergogna, Guanda, Parma 2010. 

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    Attore protagonista, il corpo allo (dello) specchio

    La vergogna è lo stato dell’esposizione. Come possiamo dire di vergognarci, davanti all’obiettivo

    della macchina fotografica (o da presa), così è nel farci avanti, nel presentarci allo sguardo di uno

    sconosciuto. E di cosa mai dovremmo vergognarci, se nulla abbiamo commesso, se nessuna colpa

    ci induce a un debito morale nei confronti di chi ci guarda (o di ciò che ci fotografa). Come spiega

    Derrida, è la nostra nudità9 a essere presa  – proprio ciò per cui è fatta la macchina, una presa – in

    carico dallo sguardo dell’altro, dallo Sguardo stesso, che è soprattutto il mio, giacché non

    potrebbe esistere senza quello altrui. L’attore è chiamato, quindi, per essere credibile, efficace,

    emozionante, non tanto a non vergognarsi di sé quanto a saper scendere a patti con la propria

    vergogna, farne strumento, trasformarla in ammirazione, devozione, applausi. Lo stesso tipo di

    consenso è quello del politico. L’attore e il capo sono gli individui del consenso ottenuto con la

     performance del corpo, con i gesti, con la voce. In essi si instaura un peculiare effetto della visione,

    uno specchio desiderante: lo spettatore vede la loro immagine e desidera essere identico a loro, illoro riflesso, a loro immagine.

    L’immagine del capo, immaginarsi il capo 

    Dall’inizio della Storia – dei documenti che si propongono di raccontarla e, quindi, della scienza

    che ne fa il proprio oggetto – il racconto dei popoli e delle società è il racconto dei loro capi. Non si

    tratta tanto, o soltanto, di una tendenza storiografica a una narrazione ideologica della grandezza

    dei popoli secondo le imprese, le personalità, il potere dei loro condottieri; a indirizzare versoquesto dominio, squisitamente simbolico, è l’immagine. L’immagine del sovrano, della battaglia,

    della conquista; quella dell’architettura celebrativa, dell’edificio trionfale, del monumento

    funerario. Il corpo del re è mortale nella carne, immortale nel simbolo (questo corpo è a tutti gli

    effetti il corpo sociale, la sua legittimazione al potere).10 Fondazione valoriale di un popolo e

    immagine del suo capo sono intimamente compenetrate e il capo è il primo a esser conscio

    dell’importanza di recitare la propria stessa immagine: da Alessandro Magno a Sarkozy, Obama,

    Gheddafi, Berlusconi. E, d’altra parte, si susseguono i casi di attori professionisti che ottengono

    successo e consenso proponendosi come leader politici. La venuta del capo è il suo ingresso in

    scena, la sua venuta alla luce – quella di scena – è l’invasione del campo visivo. Un’invasione che sicompie con la presa dell’intero sguardo dello spettatore: guardami, non vorresti essere me, essere

    uguale a me? Guardare il capo è immaginarselo, immaginare sé identico a lui. La sua nudità11 è la

    mia, posso andare fiero della mia nudità se essa è un simbolo di potere acquisito anziché subito.

    9 Cfr. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, Jaca Book, Milano 2006. 

    10 Cfr. Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi, Torino 1997. 

    11 Cfr. Mauro Calise, Il partito personale. I due corpi del leader , Laterza, Bari-Roma 2010. 

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    Inscenamento dell’osceno 

    Carmelo Bene proponeva spesso un’etimologia del termine osceno che lo vorrebbe riferito a ciò

    che sta fuori dalla scena (o-skenè). Il fuori-scena è, appunto, ciò che non si vede, ciò che non si

    deve vedere, tutto quello che il copione, la costruzione narrativa, la legge, ha deciso invisibile.

    Così, quando affermiamo «è un’oscenità!», stiamo sì compiendo un’accusa di matrice morale ma

    rovesciandola sulla sua esposizione, sulla sua visibilità. L’osceno – che porta su di sé la cifra

    dell’immondo, dell’indecente (traduzioni che chiudono il cerchio con l’etimo tradizionale, da ob-

    scénus) – è un concetto estetico. Il reato di atto osceno addita non tanto l’atto quanto la sua

    rappresentazione, la sua portata in scena. La legge è il divieto di visione dell’osceno; ed è,

    geneticamente, lo sdoganamento del proprio doppio, della trasgressione, di nuovo dell’osceno.12 Il

    corpo del sovrano, sovrapponendosi plasticamente al corpo della legge, facendone un proprio

    corpo, quello immortale, si è storicamente configurato come il veicolo del godimento simbolico

    del suo popolo. Non solo al sovrano – in veste di sovrano, cioè come Stato, immagine/specchio diogni singolo, la veste rituale – era consentita la trasgressione del divieto, quello sessuale per

    esempio, ma essa era una pratica obbligatoria, dovuta al popolo, un rito istituzionalizzato.13 

    Attraverso il godimento sfrenato del capo, tutta la comunità gode di ciò che è vietato, nella

    quotidianità ordinaria. Nelle democrazie moderne, questo rapporto esplicito tra trasgressione e

    divieto – l’esplicitazione del volto osceno della legge – si è fatto occulto e, tuttavia, infittito. La

    recitazione dell’osceno non è scomparsa dall’attività del capo, piuttosto si è fatta più solleticante,

    più intrigante, ammantata di invisibilità (solo momentanea). L’accesso all’osceno si racconta come

    un fenomeno elitario, esclusivo, la scoperta esoterica della libertà: non più la scarica trasgressiva

    della società vietante, ma l’impianto stesso dell’appartenenza, la decisione tra liberi e non-liberi.Fare parte del cast recitativo è un’ambizione, una supposta conquista di qualcosa che, invece,

    altro non è che l’identità, il compito richiesto dalla società. Stare in scena – ambizione suprema del

    corpo sociale – non è vedere, conoscere, quanto piuttosto farsi vedere, lasciarsi indagare.14 

    Augusto

    Esiste una differenza, nell’attuale immagine del capo? Quali sono I vestiti nuovi  15 del capo? La

    società sovraesposta sembra aver liberato le doti di showman (uomo spettacolo, uomo in mostra)dei leader democratici, un tempo grigie e anonime immagini del rigore che ci si aspettava da un

    serio capo di Stato. La nuova immagine, sempre più efficace dispositivo identitario, è quella del

    12 Cfr. Slavoj Žižek, Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina, Milano 2001. 

    13 Cfr. Georges Bataille, L’erotismo, ES, Milano 1997. 

    14 Cfr. Michel Surya, Della dominazione, casa di marrani, Brescia 2011. 

    15 Cfr. Hans Christian Andersen, I vestiti nuovi dell’imperatore, Edicart, Milano 2006. 

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    clown.16 Nella tradizione degli show clowneschi, due sono i clown principali: il Bianco e l’Augusto.

    Il primo è austero, razionale, concentrato; puro. Il secondo è sfacciato, fuori controllo, goffo;

    osceno. Quello che il leader politico alla Berlusconi compie è la stessa recitazione del pagliaccio

    Augusto: apparentemente folle, del tutto incontrollabile, centro dell’attenzione per chi lo

    rivaleggia – e non può che rincorrerlo, il clown Bianco – e per lo spettatore – che ride di gusto evorrebbe essere lui. Il riso, il divertimento, sono emozioni genuine che scaturiscono dal vedere il

    capo trasgredire a leggi che, segretamente, ciascuno ritiene insensate e ingiuste e alle quali

    ciascuno vorrebbe sfuggire. Il godimento mutuato dal pagliaccio Augusto – lo scardinamento della

    legge – è una cifra fondamentale dello spettacolo attoriale del capo politico e dell’aggregazione

    del corpo sociale. Il nuovo corpo al potere è, così, un agglomerato di vie di comunicazione, una

    pletora riproduttrice di senso simbolico, uno spettacolo continuo.17 

    16 Slavoj Žižek, Dalla tragedia alla farsa, Ponte alle Grazie, Milano 2010, p. 69: «Anche se Berlusconi è un

    clown senza dignità, faremmo bene a non riderne troppo, perché forse, facendolo, stiamo già giocando al

    suo gioco. Il suo riso è più simile all’osceno e folle riso del nemico del nemico del supereroe di un film di

    Batman o Spiderman». 

    17 Cfr. Marco Belpoliti, La foto di Moro, nottetempo, Roma 2008.