borgo fornasir - utopia rurale alla periferia di cervignano
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Tesi di Laurea in Sociologia urbano-rurale, Trieste, A.A. 2008/2009TRANSCRIPT
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
Corso di Laurea in Sociologia per il Territorio e lo Sviluppo
(CLASSE N. 36)
TESI DI LAUREA IN
SOCIOLOGIA URBANO-RURALE
Borgo Fornasir – utopia rurale alla
periferia di Cervignano
Laureando: Relatore:
Francesco Contin Chiar.mo Prof. Alberto Gasparini
ANNO ACCADEMICO 2008/2009
Trieste, 18 marzo 2010
4
Indice
Introduzione pag. 5
Parte Prima. Nascita e sviluppo del concetto di villaggio sociale
1. Contesto storico e sociale della prima modernizzazione » 11
2. L’Uomo nuovo industriale e moderno » 17
3. Progetti e teorizzazioni utopiche » 21
4. Alla ricerca di utopie rurali. Dalle corti medievali a Latina » 30
4.1 La corte come ideale socio-economico » 31
4.2 Il modello produttivo e sociale della cascina lombarda » 34
4.3 Latina e il mito della città rurale » 41
Parte Seconda. Il Borgo Fornasir
5. La situazione friulana nel ‘900 » 45
6. La bonifica » 51
6.1 Il Manolet e la periferia di Cervignano » 54
7. Genesi e sviluppo del Borgo » 57
8. Una Company country nel cuore della Bassa » 66
9. La fine del sogno » 73
Conclusioni
Dalla memoria alla creazione di nuove utopie » 78
Bibliografia e sitografia » 84
5
Introduzione
Dante Fornasir fu un uomo semplice e generoso, convinto che
anche sulla terra ci possa essere spazio per un po’ di bene
GIUSEPPE FORNASIR
Quando ho accettato di sviluppare il seguente lavoro non ero del tutto consapevole a
che cosa sarei andato in contro. Anzi, ero perfino scettico riguardo il tema da svolgere
perché, pur vivendo a poca distanza da Borgo Fornasir, ignoravo (e sono sincero) la sua
storia e il suo significato.
Situato nel mezzo della “Bassa Friulana”, territorio caratterizzato da zone paludose,
oggi fortunatamente sanate, che nel corso secoli in più riprese hanno visto effettuate ingenti
opere di bonifica, questo borgo rurale si differenzia dal resto degli abitati urbani e agricoli
circostanti per la particolarità e la specificità delle sue origini e della sua struttura.
Ideato e costruito dall’Ing. Dante Fornasir tra il 1933 e il 1940, il Borgo risulta essere
di notevole importanza per le caratteristiche “sociali” che mette in luce. L’Ingegnere infatti,
volle dar concretezza e fattezze reali ai propri ideali di sviluppo e benessere economico
realizzando nei territori del Manolet, acquistati dal comune di Cervignano, un borgo
organizzato attorno all’attività produttiva dell’azienda agricola e gestito in modo da
riprendere le caratteristiche dei villaggi operai sorti in Europa e in Italia a partire
dall’Ottocento.
6
Sulle basi delle utopie socialiste di fine Settecento, Fornasir recupera i temi del
“vivere sociale” cari a Owen e Fourier e soprattutto il modello della città giardino di Howard,
per applicarli ad una realtà inedita, come la bassa pianura friulana della prima metà del
Novecento. Utilizzando questi input teorici, e mescolandoli ad un modello produttivo
sviluppato in tutta la pianura padana, quale quello della cascina lombarda, prende vita
l’esperienza di Borgo Fornasir che unisce, dunque, gli aspetti sociali del vivere ad una
modalità di produzione agricola e legata al territorio. Questa progettazione rappresenta così
uno scarto con le esperienze esistenti e conosciute ai più, in quanto l’elemento
discriminante nei villaggi operai, fino a quel momento, era rappresentato dalla fabbrica,
elemento centrale attorno al quale si sviluppava la vita della comunità.
Disponiamo in Regione di una serie interessante di casi, che vantano alcuni di una
cospicua letteratura, altri sviluppati invece in maniera minore ma comunque ben conosciuti
e molto interessanti. Troviamo città come Torviscosa, sviluppata in funzione della fabbrica di
cellulosa, oppure il quartiere di Panzano e il villaggio Solvay a Monfalcone, sorti il primo
come zona residenziale per il lavoratori del cantiere navale e il secondo legato all’industria di
Ernest Solvay per la produzione di soda, ed ancora il villaggio di Cave del Predil, situato alle
pendici del monte Re, un paese-azienda collegato indissolubilmente alla miniera. Si tratta di
una serie di company town, o meglio villaggi sociali, in cui la vita della comunità è legata in
modo inscindibile alla produzione e dove si godono i vantaggi di una vita più facile (se
confrontata con quella a disposizione altrove) ed adeguata a nuovi e moderni bisogni, con
comodità e agevolazioni forniti dall’azienda per cui si lavora.
A questi si può aggiungere il caso di Borgo Fornasir, in quanto in esso vengono
riprese, in scala ridotta, le principali caratteristiche che connotano questi particolari centri
insediativi.
Il seguente lavoro si articola, dunque, a partire da una breve analisi del contesto
storico e sociale della prima industrializzazione, che ha portato alla necessità di ragionare in
maniera diversa riguardo alla città e agli spazi lavorativi.
7
Muovendosi dagli evidenti problemi che emersero e si manifestarono nelle condizioni
di vita degli operai inglesi di fine ‘700, venne proposto un nuovo modo di vedere la vita e di
pensare ai bisogni dell’individuo. Questa “nuova via” si può riassumere nelle teorizzazioni
utopiche che, a partire da Owen e Fourier, prospettarono la creazione di un ordine sociale
che, a sua volta, permise una qualità della vita e delle condizioni lavorative nettamente
migliori rispetto a ciò che il progresso, lasciato libero di autodefinirsi, aveva creato. Ad essi si
aggiunse l’intuizione di Howard di unire, in un unico insediamento urbano, le caratteristiche
positive della città con gli aspetti che rendono migliore la vita di campagna: questa unità
insediativa prese il nome di città giardino (garden city) e le sue peculiarità verranno riprese
successivamente dallo stesso Fornasir per la realizzazione del quartiere operaio di Panzano.
Sono questi i tre principali esponenti del pensiero utopico che ho deciso di approfondire nel
tentativo di creare un humus teorico in modo da permettere (al sottoscritto e al lettore) di
affrontare in maniera adeguata il tema in questione. La prima parte del lavoro si conclude,
poi, con la ricerca di alcune forme organizzative legate al mondo rurale, che portano in sé
una connotazione fortemente sociale: sono le aziende agricole di derivazione feudale che si
sviluppano attorno alla corte, e che tra il XV e il XIX secolo vanno ad assumere le forme della
cosiddetta cascina lombarda. Con la sua particolare forma organizzativa, la cascina lega
saldamente l’aspetto produttivo a quello abitativo, permettendo così un livello elevato di
sviluppo in condizioni difficili, quali quelle del contesto storico e geografico in cui sono
inserite. Un ultimo accenno viene fatto, infine, al caso della città di Latina, per concludere il
percorso di ricerca delle forme, per così dire, utopiche e urbane legate al mondo agreste.
Con essa pare evidente la commistione dei caratteri della città con una volontà ideologica di
esaltazione della vita rurale, e il suo caso è utile in quanto permette di capire come il
tentativo di sintesi tra i due mondi (campagna e città) non è un’eccezione ma bensì una
costante, un topos teorico e concreto che ha molti esempi e molte esperienze alle spalle.
Nella seconda parte della tesi ci si sposta, con la lente d’ingrandimento, sulla bassa
pianura friulana per mettere a fuoco il contesto storico, sociale ed ambientale in cui il caso in
oggetto è inserito. Dopo un rapido excursus sulla situazione friulana dei primi decenni del
Novecento, l’accento viene posto sulla fervida attività di bonifica e sui risultati più o meno
8
felici raggiunti negli ampi territori paludosi, per poi concentrarsi sui terreni che più
propriamente formano i possedimenti dell’azienda agricola di Dante Fornasir, da lui stesso
sanati e resi coltivabili dopo secoli di incuria.
Gli ultimi tre capitoli della seconda parte sono centrati sul caso particolare di Borgo
Fornasir. Innanzitutto si delineano la genesi, l’idea di partenza e i presupposti che hanno
permesso il suo sviluppo, per poi passare ad una rapida descrizione della disposizione degli
edifici, un accenno ai particolari servizi offerti all’interno di esso e la ricerca dei motivi del
forte sentimento di appartenenza che caratterizzò gli abitanti. Il capitolo che segue raccoglie
i temi lasciati, volutamente, in sospeso nel corso del lavoro per cercare di intrecciare i diversi
argomenti e dare una definizione omogenea dell’esperienza sociale alla periferia di
Cervignano. Essa si può riassumere con il termine di company country, definizione che non
mi esimerò dallo spiegare strada facendo. Infine, l’ultimo passo riprenderà gli eventi che
hanno portato all’epilogo e alla disgregazione della comunità fornasira, per descriverne lo
stato attuale e fare una breve riflessione sul declino del borgo.
Nel capitolo conclusivo mi concedo, inoltre, la licenza di provare ad indicare una
possibile linea di sviluppo per tentare, almeno con la fantasia, a rilanciare le sorti di questo
bellissimo borgo che, non solo, ha una storia importante da raccontare ma che, secondo me,
ha ancora la possibilità di essere protagonista all’interno della più vasta comunità di
Cervignano. Tenterò di tracciare dei possibili scenari futuri, insomma delle visioni, che
ridiano dignità, e una giusta considerazione, al disegno utopico dell’Ingegnere.
Colgo, in questa sede, l’occasione per ringraziare quanti, con la loro esperienza e la
propria disponibilità hanno saputo e potuto aiutarmi nell’elaborazione del testo. Ringrazio in
particolar modo Roberto Fornasir, diretto discendente dell’ingegnere e attuale proprietario
dell’azienda agricola, Nicolò Fornasir e sua figlia Elisabetta, rispettivamente figlio e nipote
del fattore, e Anna Maria Fabbro, anch’essa discendente dei primi abitanti del borgo, che mi
hanno fornito le informazioni necessarie, dovute ad una conoscenza diretta o tramandata, e
il prezioso materiale a disposizione, per permettermi di svolgere un lavoro (spero) adeguato.
9
Ringrazio, infine, per la disponibilità al confronto e il tempo datomi a disposizione il
Sindaco di Cervignano, Pietro Paviotti, la dott.sa Lucia Rosetti, della Biblioteca di Cervignano,
e la prof.ssa Diana Barillari, dell’Università di Trieste, curatrice quest’ultima, assieme a Edino
Valcovich, del catalogo e della mostra fotografica che ha dato l’input al seguente lavoro.
Parte Prima
Nascita e sviluppo del concetto di villaggio sociale
11
1. Contesto storico e sociale della prima modernizzazione
Verso la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo, una grande serie di cambiamenti
di carattere economico e produttivo localizzati in Inghilterra e meglio conosciuti con il nome
di Rivoluzione Industriale, portano ad enormi trasformazioni, stravolgendo l’organizzazione
sociale dell’epoca e segnando un punto di svolta per le generazioni future. L’uso del termine
rivoluzione, usato da Engels (1845) e Hobsbawm (1962), enfatizza le novità emerse e
soprattutto sottolinea che le conseguenze di questo periodo furono talmente dirompenti e
radicali da causare un drastico cambiamento nella vita di milioni di persone. Alla base di
questo processo vi è innanzitutto l’introduzione di alcune migliorie tecniche nel settore
tessile, macchine per filare il cotone e telai meccanici, rispettivamente di Arkwright e
Crompton tra il 1760 e il 1780 e Cartwright nel 1785, che permisero un notevole incremento
della produzione. Accanto ad esse si inserisce la fondamentale invenzione, poi perfezionata
da James Watt tra il 1765 e il 1782, della macchina a vapore.
L’azione combinata di questi elementi porta ad un rapido incremento dell’industria
cotoniera su tutta l’isola e funge da volano per il successivo sviluppo industriale inglese. Dal
cotone si è infatti passati alla produzione meccanica e siderurgica trasformando l’Inghilterra
nell’ “officina del mondo”1.
La produzione non è più direttamente legata alle materie prime fornite dalla natura e
comincia a delinearsi un cambiamento del paradigma energetico che da l’illusione di uno
sviluppo illimitato e continuativo. L’energia non è più fornita dalla forza muscolare di uomini
e animali. Il lavoro domestico, sviluppato fino a quel momento soprattutto nel settore
manifatturiero, è reso impossibile data la complessità e la dimensione dei nuovi macchinari.
Questi mutamenti causano la concentrazione della produzione in opifici, situati in particolar
1 Detti, Gozzini (2000), Storia contemporanea - 1.L’Ottocento, pag. 14
12
modo ai margini delle città: zone caratterizzate da ampi spazi e facilmente raggiungibili dai
mezzi di trasporto che in questo periodo cominciano a svilupparsi, in primis la ferrovia.
Dal lavoro a domicilio, caratterizzato dalla centralità del lavoro manuale, si passa
dunque al cosiddetto sistema fabbrica dove viene rovesciato il rapporto tra uomo e
macchina. I lavoratori concentrati nelle fabbriche vengono sottomessi alla rigida disciplina
delle macchine ed obbligati a rispettare orari di lavoro prestabiliti, per Detti e Gozzini
“persero la loro indipendenza e divennero manodopera”2. Si forma, così, una nuova classe
sociale, la cui unica proprietà risulta essere la prole, che vede nel salario dato dal padrone
l’unica forma di sostentamento; operai salariati che lavorano in luoghi di lavoro insalubri e
vivono in abitazioni inadeguate, per dimensione e struttura; stipati in sobborghi industriali
sporchi e fumosi, caratterizzati da sovraffollamento ed alta mortalità.
Capitani d’azienda volti solo al guadagno e datori di lavoro senza scrupoli, vedono nel
proletariato solo forza lavoro abile per essere sfruttata, retribuita con paghe ridotte al
minimo necessario per il sostentamento e nessuna attenzione per quanto riguarda la salute
e le condizioni di vita. Hobsbawm dipinge in questo modo la condizione lavorativa di un
salariato del XIX secolo:
Se un fattore dominava la vita degli operai ottocenteschi, era l’insicurezza. Essi
ignoravano all’inizio della settimana quanto alla fine avrebbero portato a casa. Ignoravano
quanto sarebbe durato il lavoro presente o, se lo perdevano, quando ne avrebbero trovato un
altro, o a quali condizioni. Ignoravano quando li avrebbe colpiti una malattia o un infortunio, e,
pur sapendo che prima o poi nella mezza età *…+ non sarebbero più stati in grado di compiere
tutto il lavoro fisico richiesto a un adulto, ignoravano che cosa li attendesse da quel momento
fino alla morte3.
Certo, progresso e cambiamento rispetto alla vita contadina di qualche decennio
prima ci sono stati. Gli uomini cominciano ad abbandonare la campagna e la vita di stenti
legata essenzialmente ai capricci del clima: alluvioni, siccità e carestie potevano condizionare
2 Detti, Gozzini (2000), op. cit., pag. 17
3 Hobsbawm (1976), Il trionfo della borghesia, pag. 269
13
la vita di milioni di persone e determinare il livello di progresso di una società, prima
dell’avvento della industrializzazione.
In questo periodo muta pure il modo di lavorare la terra; si assiste ad una
“rivoluzione agraria”4 voluta e decisa dall’alto (Parlamento inglese); i terreni comuni, che
permettevano la sopravvivenza di numerose comunità di villaggio, vengono divisi con siepi e
recinzioni (le cosiddette enclosures) con 3.500 decreti legge tra il 1760 e il 1819; gli ingenti
investimenti dei grandi proprietari terrieri e la meccanizzazione del lavoro allontanano dalla
produzione agraria i piccoli proprietari che vedono così ridotte a zero le proprie possibilità di
sostentamento. Si pone fine all’autoconsumo, modalità di produzione tipica delle campagne
europee del medioevo (vedi Par. 4.1 - La corte come ideale socio-economico, pag. 31), e si
crea un’economia di mercato che determina le basi per la futura economia capitalistica.
Costretti a vendere le proprietà, i piccoli possidenti, che non riescono a trovar occupazione
come braccianti salariati alle dipendenze dei grandi proprietari, sono costretti a spostarsi a
ridosso delle città, in cerca di nuovi lavori, andando ad ingrossare in questo modo le schiere
di lavoratori sottopagati impiegati negli opifici.
A questo fenomeno migratorio si va ad aggiungere la costante crescita della
popolazione, che in Europa passò da 188 a 247 milioni di abitanti nei primi cinquant'anni del
XIX secolo5. Si assiste in questo periodo ad una riduzione delle nascite ma ad un
contemporaneo allungamento della vita media. Si passa infatti da un’aspettativa di vita tra i
25-35 anni fino a toccare i 75-80 di media, con il rispettivo calo delle nascite da i 5 figli a 1-2
per famiglia6. Le famiglie avevano meno figli ma essi tendevano a vivere più a lungo, più del
doppio dei loro padri. Il calo della mortalità è dovuto “sia al diminuire dell’incidenza delle
epidemie *…+ sia a una riduzione della frequenza e dell’intensità delle carestie”7.
Conseguenza diretta sia di miglioramenti sociali e culturali relativi alla prevenzione e alla
difesa da malattie infettive, e soprattutto di un’evoluzione del sistema alimentare, con
l’estensione delle terre messe a coltura e la diffusione del mais e della patata, che ampliano
e diversificano così l’alimentazione. Il calo della natalità è spiegato invece dalle
4 Detti, Gozzini (2000), op. cit., pag. 23
5 Dati riportati dalla pagina web: http://www.parodos.it/sintessirivoluzioneindustriale.htm
6 Dati confrontabili con Detti, Gozzini (2000), pag. 19
7 Detti, Gozzini (2000), op. cit., pag. 19
14
trasformazioni socio-economiche che portano a ritardare l’ingresso dei giovani nel mondo
del lavoro e modificano gli atteggiamenti delle famiglie in tema di riproduzione; il benessere
porta ad avere meno figli e l’utilizzo di pratiche contraccettive favorisce tale scelta.
Per la prima volta nella storia dell’uomo crescita demografica e livello di produzione
non sono inversamente proporzionali ma hanno un livello di crescita costante ed omogeneo.
I due fenomeni seppur coincidenti non sono direttamente collegati, o meglio, non sono in
rapporto di causa-effetto. La spiegazione di questo trend è data invece dalla dinamicità
dell’economia inglese pre-industriale. Essa ha contribuito alla produzione di un’elevata
disponibilità di beni che è riuscita a coprire ed addirittura a superare il fabbisogno interno.
Viene a spezzarsi così il vecchio sistema teorizzato da Malthus (la crescita popolazione
produce una diminuzione delle risorse) e ciò pone le basi per un successivo sviluppo in
chiave industriale, caratterizzato da un’ampia disponibilità di manodopera ed elevata
utilizzabilità di beni alimentari e di consumo. Crescita demografica e sviluppo economico
(soprattutto agricolo) sono entrambi fattori che spingono nella stessa direzione e
contribuiscono alla nascita della produzione industriale inglese e alla conseguente
urbanizzazione.
L’ingente spostamento verso i centri urbani di forza-lavoro proveniente dalle
campagne circostanti crea fin da subito problematiche di natura sociale e comporta un
drastico mutamento dell’aspetto delle città inglesi. Si pensi che dal 1800 al 1881 la
popolazione urbana inglese è passata dal 20% al quasi 70% rispetto a quella agricola e che la
sola Londra all’epoca superava i 750.000 abitanti8.
La crescita esponenziale della popolazione urbana rappresenta dunque un problema
piuttosto che un fattore di sviluppo. Un problema che, fin dai primi anni, deve essere risolto
da architetti e progettisti. Hobsbawm descrive nelle seguenti righe la situazione dei centri
cittadini a metà del XIX secolo e le condizioni di vita dei nuovi arrivati:
per gli urbanisti, i poveri erano un pericolo pubblico, le loro concentrazioni
potenzialmente turbolente andavano spezzate da viali e boulevards atti a spingere di viva forza
gli abitanti dei quartieri popolari pieni come uova, che essi andavano sostituendo, verso qualche
8 Dati riportati da Detti, Gozzini (2000), op. cit., pagg. 28-29
15
insediamento non meglio specificato, ma presumibilmente più igienico e certo meno pericoloso.
La pensavano così anche le compagnie ferroviarie, che stendevano larghe fasce di linee e binari
fin nei centri cittadini, preferibilmente attraverso gli slums, nei quali i costi degli immobili erano
bassi e le proteste trascurabili.9
E ancora…
*…+ chi dice città del mezzo secolo XIX dice “sovraffollamento” e “bassofondo” (o slum);
e più rapidamente la città cresceva, peggio era stipata. Malgrado le riforme sanitarie e l’avvento
di un minimo di pianificazione, è probabile che in questo periodo il sovraffollamento urbano sia
aumentato, mentre né la salute né la mortalità ne risentivano in modo positivo, quando
addirittura non peggioravano.10
I problemi maggiori sono essenzialmente il sovraffollamento e le condizioni igienico-
sanitarie dei quartieri operai che sorgono in prossimità delle fabbriche oppure, in altri casi,
che occupano i centri cittadini, portandoli ad un rapido degrado. Uomini e donne con basso
reddito abitano questi quartieri con enormi difficoltà di sopravvivenza perché privi delle
risorse necessarie per affrontare la “vita di città” e perché slegati dal rapporto con la terra,
capace di fornire fino a qualche tempo prima la sussistenza necessaria e di garantire
quantomeno una vita dignitosa. Anche l’inquinamento, sia acustico che ambientale, creato
dagli opifici si va ad aggiungere alla situazione già critica dei quartieri.
Detti e Gozzini nella parte finale del capitolo 1 (cfr. Storia contemporanea), dedicato
alla rivoluzione industriale inglese, danno un’immagine forte ed emblematica della
situazione dell’epoca che riassume splendidamente quanto ho voluto sin qui trattare:
Fuori dalle fabbriche i lavoratori vivevano in città sovraffollate, sporche e fumose, prive
di servizi igienici e sociali. L’urbanizzazione selvaggia di quel periodo fece crescere tetri e
ripugnanti sobborghi operai, dove la mortalità era altissima e dilagavano l’alcolismo e la
criminalità. Miseria e disperazione sono le parole chiave che ricorrono per descriverli negli scritti
degli osservatori coevi di ogni tendenza. La loro enfasi può apparire contraddittoria con i dati
secondo i quali le condizioni materiali di esistenza dei lavoratori poveri non erano molto
9 Hobsbawm (1976), op. cit., pag. 259
10 Hobsbawm (1976), op. cit., pag. 259
16
peggiorate rispetto a quelle del periodo precedente, ma proprio per questo è significativa. Il
livello di vita non può essere infatti valutato correttamente in termini assoluti, perché la sua
percezione è relativa, variando con la sensibilità e i parametri di giudizio di ogni epoca. Fra Sette
e Ottocento in Inghilterra le differenze sociali si approfondirono e i poveri divennero tanto più
poveri, quanto più il paese nel suo complesso e le sue classi superiori in particolare si
arricchirono.11
11
Detti, Gozzini (2000), op. cit., pag. 35
17
2. L’Uomo nuovo industriale e moderno
In risposta , e quasi come reazione, al preoccupante e crescente disagio, che vede “il
diffondersi di malattie fisiche e psichiche, di degradazione della vita familiare e sociale, del
dissolvimento delle famiglie, di vistose devianze dalle norme più elementari”12, già nella
prima metà del secolo, alcuni teorici illuminati cominciano a proporre soluzioni alternative
che cercano di conciliare produzione industriale e qualità della vita. Talvolta proponendo
recuperi della città, puntando sulla valorizzazione di spazi già esistenti, talvolta seguendo la
strada della “rifondazione”, sulla base della tradizione utopista che vede nel primo periodo
post-industriale i suoi massimi esponenti. Voglio soffermarmi in particolar modo sulla
seconda strada, dando un indirizzo preciso al lavoro che segue, perché rappresenta il punto
di partenza sopra cui vengono poste le basi per una rivoluzione radicale del modo di pensare
e progettare gli spazi abitativi.
“Il sogno di un ritorno alla natura, il desiderio di riscoprire modalità produttive
alternative, la certezza che fosse possibile utilizzare le nuove scoperte tecniche per
migliorare le condizioni di vita dell’uomo”13, sono tutti elementi che si combinano e si
pongono in relazione con il pensiero utopista, ed attraverso le idee di Owen, Fourier e
Howard prendono forma e si concretizzano in progetti reali.
L’obiettivo è quello di creare un Uomo nuovo, inserito in un nuovo ordine sociale,
dove la vita, pure essa nuova nelle sue componenti sociali e di relazione, è fondata
sull’armonia. Armonia che si vuole realizzare e sviluppare attraverso soprattutto
l’organizzazione spaziale delle nuove città/quartieri. Progetti fondati sulla presunta
superiorità della ragione (determinante l’influenza positivista), città costruite (o pensate) in
modo quasi maniacale, tenendo conto di tutti i bisogni che, a tavolino, vengono definiti
12
Gasparini (2000), La sociologia degli spazi, pag. 111 13
Biccarino (2009), Torviscosa come company town – Tesi di Laurea, pag. 13
18
necessari all’utente per una vita dignitosa. Esse vengono edificate, ex-novo, al di fuori delle
città già esistenti, in aperta campagna, dove i costi di costruzione sono nettamente inferiori.
Ciò che oggi viene normalmente considerato di competenza pubblica, a partire
dall’avvento del Welfare State e soprattutto con l’edilizia popolare, all’epoca viene fatto per
iniziativa del privato, che con la sua azione filantropica e demiurgica crea delle situazioni
radicalmente nuove in cui vita di fabbrica e vita privata rimangono a stretto contatto e, anzi,
dove l’importanza della vita privata (del singolo cittadino) viene sostituita con l’egemonia del
pubblico; dove, in altre parole, la privacy lascia il posto alla vita di comunità, trasparente in
ogni suo aspetto.
Vi è una sovrapposizione quasi simbiotica delle due sfere (privato-pubblico) che
permette una qualità della vita superiore alla norma ma priva il soggetto di qualsiasi libertà
personale. “Viene a mancare il processo di autodeterminazione dell’individuo, costretto a
seguire anche nel privato le direttive dell’azienda. Tutto è statico ed uguale, tutto segue
schemi predefiniti, niente può cambiare, la realtà comunitaria non viene trasformata
nemmeno attraverso le relazioni con la gente, la vita dell’uomo nuovo è inserita in un
equilibrio che permette un’armonia generale che non può essere rovinata”14. Vi sono
dunque sicurezza ed equilibrio, caratteristiche entrambe assenti nell’operaio di Hobsbawm
(cfr. Cap. 1): aspetti decisamente favorevoli ed auspicabili, ma che vedono nella staticità e
nella chiusura verso il mondo esterno delle tendenze quantomeno discutibili.
La dimensione privata, e lucrativa, dell’atto demiurgico si ritrova nelle modalità di
costruzione dei nuovi insediamenti abitativi. La creazione di villaggi-operai attorno alla
fabbrica non può essere vista solamente come un atto caritatevole. Ci sono infatti finalità
economiche che spingono anche gli “imprenditori illuminati” verso scelte ben precise: la
campagna viene privilegiata essenzialmente per ridurre il costo iniziale, oltre che per gli ampi
spazi utilizzabili, e gli edifici vengono costruiti con materiale non di prim’ordine. Inoltre
l’isolamento dei villaggi “tiene lontano i dipendenti dalle tentazioni eversive o rivoluzionarie
della città”15, imponendo così una dedizione totale alla fabbrica e alla comunità.
14
Biccarino(2009), op. cit., pag. 15 15
Chemello (2004), Quanto deve la società moderna alle company towns – Tesi di laurea, pag.23
19
Il punto di rottura con i progetti imprenditoriali precedenti è, invece, l’importanza
data all’aspetto sociale. Accanto, e in relazione, alla fabbrica sorgono tutta una serie di
strutture e spazi che permettono all’individuo una vita migliore. La preoccupazione per la
salute dell’operaio non è circoscritta all’interno della sola azienda, come avveniva in
precedenza (e solo in casi considerati “esemplari”), ma è estesa alla vita “al di fuori” di essa.
Le case innanzitutto, dignitose rispetto agli standard dell’epoca, vengono date in
affitto a prezzi vantaggiosi. Vengono poi offerti tutta una serie di servizi quali scuole,
ospedali, chiese, mense, sale per riunioni, negozi, bagni pubblici, teatri, aree verdi e per lo
sport. Non viene trascurato alcun aspetto che in qualche modo possa portare verso un
miglioramento qualitativo della vita. Tutti gli aspetti del vivere vengono, però, organizzati e
gestiti dall’azienda, e finalizzati ad essa. Gli abitanti sono principalmente cittadini “attivi”,
impegnati nel lavoro in fabbrica, che godono di questi benefici fino a che rimangono
all’interno della situazione lavorativa; una volta in pensione cessa anche il rapporto di
welfare instaurato (Gasparini parla di integrazione a tempo16), a meno che il lavoro non passi
al figlio mantenendo una sorta di “privilegio” quasi feudale.
Fondamentale in questa nuova concezione del vivere è la ripresa della dimensione
rurale. Il riavvicinamento dell’uomo all’aspetto naturale, non inteso alla maniera di Rousseau
(nel Contratto Sociale, 1762, ndr), viene visto come componente fondamentale per il
raggiungimento di un adeguato livello di vita. Significativa è innanzitutto la localizzazione
delle nuove comunità in aperta campagna, che oltre ai motivi (utilitaristici) già sopra
elencati, permette il riavvicinamento dell’uomo, alienato e disumanizzato dalla fabbrica, alla
tranquillità agreste. Industria e agricoltura convivono e si (con)fondono così da fornire, da un
lato, quella produzione di beni necessaria all’auto-mantenimento della comunità, e
dall’altro, per far in modo di conciliare i vantaggi della città ai piaceri della campagna.
Howard parla in tal proposito di garden-city, proponendo centri che racchiudono al loro
interno le caratteristiche positive delle città, tra cui alti salari, opportunità di impiego, svago
e vivacità, e gli aspetti positivi della campagna con la bellezza del paesaggio e le case
luminose dotate di giardino e spazi all’aria aperta.
16
Gasparini (2005), L’utopia dell’uomo nuovo e il tempo delle company town, in Delli Zotti (2005), La miniera delle appartenenze, pag. 8
20
La stretta relazione tra welfare aziendale e vita rurale emerge con forza nel caso di
Borgo Fornasir, a cui si aggiunge anche l’ideale curtense di organizzazione economico-
sociale, che verrà in seguito approfondito.
21
3. Progetti e teorizzazioni utopiche
Tra i principali esponenti delle progettazioni utopiche troviamo i già citati Owen,
Fourier e Howard (ai quali si aggiungono molti altri che decido di non affrontare, per non
dilungarmi troppo nella parte teorica). Ognuno di essi, in modo diverso, progetta (e in
qualche caso realizza) il proprio modello di città ideale, seguendo linee teoriche comuni ma
con precise differenze tra le varie teorizzazioni.
In concreto, tutti o quasi gli esperimenti si sono trasformati in eclatanti fallimenti ma,
malgrado ciò, non va assolutamente ridimensionata l’importanza che questi hanno avuto per
lo sviluppo del pensiero socialista e per il “contributo importantissimo al movimento
dell’architettura moderna”17. Essi vedono il superamento dell’individualismo capitalista
solamente attraverso la creazione di comunità armoniche, non fondate sull’uso del denaro e
su scambi finanziari ma dotate di un ordine che permette lo sviluppo positivo dell’intera
comunità e di conseguenza dei singoli individui di cui è formata.
Benevolo, ancora, li definisce “iniziatori di una nuova linea di pensiero e d’azione da
cui comincia effettivamente *…+ un’azione consapevole per la riforma del paesaggio urbano
e rurale”18. E’ questo infatti il punto di partenza su cui si fondano i futuri progetti, utopici e
non, dei villaggi operai tra il XIX e il XX secolo, e il modello del Welfare State attuato a partire
dal secondo dopoguerra.
Nelle prossime pagine pongo in rassegna, brevemente, l’attività e le iniziative dei tre
teorici maggiormente significativi per la comprensione del caso in analisi.
Robert Owen (1771-1858) può essere considerato il capostipite di questa tradizione;
le sue capacità imprenditoriali lo portano a diventare capitano d’azienda già all’età di 20
anni. La sua linea di pensiero, basata sull’esperienza diretta di dipendente, lo discosta
17
Benevolo (1992), Storia dell’architettura moderna - 1. La città industriale, pag. 177 18
Benevolo (1992), op. cit., pag. 169
22
notevolmente dalle abitudini imprenditoriali dell’epoca “tanto da essere considerato un
pericoloso agitatore”19 da politici e imprenditori.
Nel 1799 acquista, con altri soci, lo stabilimento produttivo di New Lanark in Scozia, e
crea in esso un modello di convivenza ideale, partendo dal presupposto che per superare gli
squilibri e le iniquità date dall’ideologia del self-made man si deve partire dalla costruzione
di un ambiente “a misura d’uomo”, in cui l’aspetto sociale è messo in primo piano a
prescindere dall’ossessione egoistica del profitto ad ogni costo.
Sono le condizioni ambientali infatti che determinano la sorte degli individui e non la
capacità del singolo, come previsto nella concezione individualista. Egli propone un “villaggio
per una comunità ristretta, che lavori collettivamente in campagna e in officina, e sia
autosufficiente, possedendo nell’interno del villaggio tutti i servizi necessari”20. Per rendere
possibile il suo progetto introduce macchinari moderni, salari elevati, orari di lavoro non
opprimenti, abitazioni salubri e soprattutto costruisce in prossimità del posto di lavoro tutta
una serie di servizi, tra cui una scuola elementare ed un asilo infantile (il primo caso in tutta
l’Inghilterra).
L’aspetto educativo è centrale nella volontà di Owen. Con l’Istituzione per la
Formazione del Carattere egli infatti intende fornire un’istruzione adeguata ad ogni
fanciullo, integrando scuola, tempo libero e attività di formazione professionale, ed offrendo
quest’opportunità anche agli abitanti adulti ed anziani della comunità. Nei suoi scritti
descrive in questo modo l’Istituzione, immaginata come un “contenitore” per l’educazione:
L'istituzione è attrezzata anzitutto per ricevere i bambini fin dai primi anni, da quando
sono in grado di camminare. L'ambiente di mezzo del piano inferiore è attrezzato per loro,
affinché possano giocare e ricrearsi durante il cattivo tempo: col bel tempo potranno invece
occupare il recinto davanti all'edificio. Man mano che cresceranno d'età, saranno accolti nelle
stanze a destra e a sinistra, dove saranno regolarmente istruiti nei primi rudimenti del sapere, in
modo che prima dei sei anni possano ricevere un insegnamento più completo. Dopo essere
passati per questi corsi preliminari, saranno accolti nell'ambiente dove ora ci troviamo
(utilizzabile anche come cappella), che con le stanze circostanti funzionerà come scuola generale,
19
Benevolo (1992), op. cit., pag. 169 20
Benevolo (1992), op. cit., pag. 170
23
per leggere, scrivere, far di conto, cucire e lavorare a maglia; tutto questo, secondo il piano che
dev’essere realizzato, sarà fatto con considerevole ampiezza fino all'età di dieci anni, prima della
quale nessun ragazzo potrà essere ammesso al lavoro. *…+
Dopo le ore di insegnamento per i ragazzi troppo giovani per lavorare, i locali saranno
puliti, ventilati, e d'inverno illuminati, riscaldati e resi confortevoli in tutti i sensi, per ricevere le
altre classi della popolazione. I locali su questo piano saranno frequentati dai giovani di ambo i
sessi impiegati al lavoro durante il giorno, che desiderino migliorarsi nel leggere, scrivere,
calcolare, cucire o lavorare a maglia, oppure imparare qualche arte utile; per istruirli troveranno
ad aspettarli per due ore, ogni sera, addetti mastri e maestre. *…+
Questo insieme di benefici potrebbe in teoria essere esteso universalmente in un piccolo
ambiente; occorre cominciare ad agire in qualche punto, e una combinazione di eventi singolari
ha fissato quel punto nel nostro stabilimento. Tuttavia, seguendo il principio ora enunciato, ho
sempre pensato che l'Istituzione, quando sarà completata, possa accogliere non solo i figli di chi
abita in questo villaggio; chiunque vive a Lanark o nelle vicinanze e non si senta di educare in casa
i suoi figli, avrà la facoltà di mandarli qui, menzionando semplicemente il suo desiderio, ed essi
riceveranno lo stesso trattamento di quelli che appartengono allo stabilimento.21
Secondo Owen, le condizioni di vita dei lavoratori passano essenzialmente attraverso
le buone abitudini che essi riescono ad acquisire ed insegnare ai propri figli. In questo senso
la creazione dell’Istituzione è l’esempio lampante dell’attività demiurgica e filantropica
dell’imprenditore inglese.
Il programma per il miglioramento delle condizioni degli abitanti della company deve
prevedere un opportuno addestramento, fornire un lavoro appropriato e unire interessi e
doveri per produrre i massimi benefici, individuali e collettivi allo stesso tempo.
Per fare ciò Owen progetta un villaggio organizzato tra le 500 e le 1500 persone, di
pianta quadrata formato da abitazioni private ed edifici pubblici e circondato da un terreno
coltivabile calcolato in 1000-1500 acri.
L’organizzazione degli edifici è spiegata dallo stesso Owen in un rapporto alla
Commissione d’inchiesta sulla legge dei poveri del 1817:
21 Robert Owen, An Address to the Inhabitants of New Lanark, Delivered on Opening the Institution for
the Formation of Character, 1816, in A New View of Society and Other Writings, 1927. Fonte: http://web.tiscali.it/icaria/urbanistica/owen/owen.htm
24
L'edificio centrale contiene la cucina pubblica, i depositi, e tutti i servizi necessari per
cucinare e riscaldare in modo efficiente. A destra v'è un edificio con la scuola dei bambini più
piccoli al piano terreno, una sala di lettura e un luogo di preghiera al primo piano. L'edificio a
destra comprende a pianterreno la scuola per i ragazzi più grandi e una sala di riunione; sopra la
biblioteca e i locali per gli adulti. Nello spazio sgombro dentro il quadrato sono sistemati gli spazi
per gli esercizi fisici e la ricreazione, che si devono supporre alberati.
Tre lati del fabbricato perimetrale sono destinati alle case, soprattutto per le persone
sposate, ciascuna composta di quattro alloggi. Il quarto lato è riservati ai dormitori per tutti i
bambini che eccedano i due per famiglia, o che abbiano più di tre anni. Al centro di questo lato
sono gli alloggi per i sorveglianti del dormitorio, a un'estremità l'infermeria e all'altra una
foresteria per i visitatori. Al centro di altri due lati sono gli alloggi per il sovrintendente generale,
il sacerdote, il maestro di scuola, il medico, ecc., e nel terzo lato i magazzini per tutte le cose
necessarie nel villaggio. Fuori e dietro le case, tutt'intorno, giardini circondati dalle strade. subito
dietro, su un lato, sono gli edifici per gli impianti meccanici e produttivi, le stalle, il mattatoio, ecc.
separati da piantagioni; sull'altro lato la lavanderia, ecc., e a distanza maggiore i fabbricati rurali,
con gli impianti necessari alla fabbricazione del malto, della birra e alla molitura del grano;
attorno si trovano i campi coltivati, il pascolo, ecc., le cui recinzioni sono piantate con alberi di
frutta [...].
Ogni alloggio nei fabbricati perimetrali deve ospitare un uomo, sua moglie ed i figli di età
inferiore ai tre anni, e deve avere caratteristiche tali da assicurar loro molte più comodità dei
consueti alloggi popolari.22
Nonostante gli elevati costi per la costruzione e il mantenimento di simili servizi lo
stabilimento di New Lanark riesce ad ottenere forti profitti. Owen ottiene così la conferma
dell’effettiva funzionalità del proprio progetto, invitando singoli imprenditori, società
industriali e le stesse autorità pubbliche a seguire le sue iniziative.
Dopo l’esperienza scozzese Owen tenta di riproporre le proprie tesi prima ad Orbison
in Inghilterra e nel 1825 con la costruzione del villaggio di New Harmony, in Indiana.
Entrambi gli esperimenti falliscono, “il passaggio dalla teoria alla pratica non riesce, la
22
Robert Owen, An Address to the Inhabitants of New Lanark, Delivered on Opening the Institution for the Formation of Character, 1816, in A New View of Society and Other Writings, 1927.
Fonte: http://web.tiscali.it/icaria/urbanistica/owen/owen.htm
25
concordia immaginata *…+ non si realizza e l’iniziativa fallisce quasi subito, facendogli
perdere il capitale e lasciandolo povero”23.
Gli insuccessi non intaccano però la portata storica delle sue intuizioni, ponendolo
come capostipite del movimento utopista e come punto di riferimento per le successive
progettazioni “illuminate”.
Charles Fourier (1772-1837), contemporaneo di Owen, è un modesto impiegato
francese divenuto famoso per le sue teorie filosofiche. Con il suo pensiero mette in luce
l’assurdità del modello di vita basato sulla contrapposizione degli interessi individuali degli
uomini, auspicando invece l’unione degli sforzi per il raggiungimento di uno stato di
armonia. Divide la storia dell’umanità in una serie di passaggi (sette per la precisione)
caratterizzati dall’organizzazione sociale in essi presente. Attualmente l’umanità si trova tra
il quarto (barbarie) e il quinto periodo (civiltà). La civiltà si distingue per la supremazia della
proprietà individuale che porta l’uomo all’egoismo ed alla competizione degli interessi
personali. Il sesto stadio, a cui l’uomo dovrebbe tendere, limita e pone dei vincoli alla
proprietà privata. Questo periodo, chiamato garantismo, sarà il punto di passaggio che
porterà successivamente, e con una ulteriore serie di accorgimenti, all’armonia e alla
convivenza tra gli uomini: appunto il settimo ed ultimo stadio (armonia).
Per favorire questo processo sono necessari dei cambiamenti di carattere urbanistico
che portano all’abbandono del disordine anarchico, tipico della città industriale, a favore di
una città dotata di ordine logico e pianificata in ogni sua componente. Tale città avrà forma
concentrica: al centro è situata la parte commerciale e amministrativa, attorno si sviluppa la
città industriale e ai margini vi è quella agricola; il rapporto tra superficie edificata e spazi
verdi aumenta man mano che si passa dal centro verso la zona liminare; nel primo “cerchio”
la superficie libera è uguale a quella occupata, nella zona industriale essa è doppia, mentre
nella terza tripla.
Questi progressi sono in realtà processi preliminari che portano allo sviluppo e alla
creazione della città armonica. La città del settimo stadio infatti, quella che dovrebbe
condurre all’armonia, è una città “in cui la vita e la proprietà saranno interamente
23
Benevolo (1992), op. cit., pag. 172
26
collettivizzate”24. Per fare ciò Fourier propone la costruzione di edifici comuni, che chiama
falansteri, contenenti al loro interno gruppi di 1620 persone (falangi) in cui la famiglia
tradizionale lascia posto ad una vita di comunità. Benevolo descrive in questi termini
l’ambiente progettato dal filosofo francese:
la vita si svolgerà come in un grande albergo, con i vecchi alloggiati al pianterreno, i
fanciulli al mezzanino e gli adulti nei piani superiori. Il falansterio sarà arricchito da attrezzature
collettive e servito da impianti centralizzati. Fourier vede l’edificio con le nuove forme auliche
dell’architettura rappresentativa francese; dovrà essere simmetrico, con tre cortili e numerose
entrate, sempre sull’asse dei vari corpi di fabbrica; la corte centrale, detta Place de Parade, sarà
vigilata dalla Tour de Ordre, con l’orologio e il telegrafo ottico.25
La realizzazione di simili edifici viene tentata più volte, anche se non in prima persona
da Fourier (privo dei mezzi economici di Owen), ottenendo però sempre risultati fallimentari.
Gli esperimenti in Francia, Algeria, America e Nuova Caledonia sono il segno evidente della
difficoltà di tradurre in realtà l’utopia tanto agognata.
Sulla stessa linea, ma con alcuni accorgimenti fondamentali, troviamo l’esperienza di
Godin (1817-1889) a Guisa. La riuscita del progetto è data da due aspetti innovativi che si
discostano dalle teorie del predecessore: la forma industriale dell’iniziativa e l’abolizione
della vita in comune. In questo caso ogni famiglia dispone di un alloggio individuale inserito
in un grande edificio, dotato al proprio interno di servizi quali la scuola e il teatro. Per la
particolarità e lo scarto dalle teorie di Fourier, questa nuova organizzazione è chiamata
familisterio.
Il terzo autore che voglio prendere in considerazione è Ebenezer Howard (1850-
1928). Esso appartiene ai teorici della generazione successiva, più precisamente della
seconda metà dell’Ottocento, quando la tradizione utopista si è già affermata e i progetti di
Owen e Fourier sono modelli che già contano di numerose esperienze.
24
Benevolo (1992), op. cit., pag. 173 25
Benevolo (1992), op. cit., pag. 173
27
Nel suo libro Tomorrow, a peaceful path to real Reform (1898), ripresentato al
pubblico nel 1902 con il nome, più conosciuto, Garden cities of to-morrow, egli illustra le sue
teorie urbanistiche. Il concetto di città-giardino, punto centrale del progetto, era già
esistente e stava ad indicare i quartieri agiati situati alla prima periferia dei grandi centri,
creati con l’intenzione di alleviare, almeno per i ceti più abbienti, la congestione dei già
caotici centri cittadini di allora. L’idea di Howard, invece, è radicalmente diversa e segue il
pensiero rivoluzionario dei suoi predecessori: la città nuova ha lo scopo di salvare le città
dall’esplosione demografica (e dall’abuso edilizio) e di risollevare le sorti della campagna,
unendo i vantaggi della vita urbana ai piaceri del vivere in natura.
La semplice spiegazione del perché dei liberi cittadini debbano preferire queste new
towns alle precedenti forme di organizzazione abitativa è spiegata perfettamente con la
teoria dei tre magneti. Gli uomini sono attratti da, e nell’indecisione tra, due grandi calamite
rappresentanti una la città e l’altra la campagna. Entrambi i magneti sono caratterizzati da
numerosi elementi positivi e negativi che a seconda della volontà e dei bisogni del singolo
indirizzano la persona stessa verso una direzione. La città è caratterizzata da opportunità
sociali, alti salari, possibilità di impiego ma anche allontanamento dalla natura, orari di
lavoro estenuanti, inquinamento e condizioni abitative disagiate. La country (come la chiama
Howard, ndr.) offre la bellezza del paesaggio, aria fresca, sole e abbondanza di acqua ma allo
stesso tempo manca di spirito pubblico, necessita di riforme sociali e presenta villaggi deserti
e privi di opportunità.
Accanto ai due magneti si posiziona il terzo, nella figura della garden-city, che
convoglia gli aspetti positivi della prima e della seconda condizione (prezzi bassi, acqua e aria
pura, libertà, cooperazione, assenza di inquinamento, abitazioni adeguate). A questo punto
con una domanda retorica Howard si chiede quale tra queste opzioni verrà scelta dalle
persone, convinto che le decisione ricadrà inevitabilmente sulla terza. L’obiettivo della new
town, in conclusione, è quello di “innalzare lo standard e il comfort di tutti i lavoratori di
qualsiasi grado”26.
26
Nell’originale inglese: “to raise the standard of health and comfort of all true workers of whatever grade”, fonte http://www.library.cornell.edu/Reps/DOCS/howard.htm. Allo stesso indirizzo web si trovano informazioni più specifiche riguardo la “teoria dei magneti”, con interessanti illustrazioni.
28
La creazione di questi centri, con la conseguente (ed alquanto teorica) fuoriuscita
delle persone dalle città, non va a discapito del progresso tecnologico; il mondo agreste non
viene idolatrato ma rivisitato in ottica moderna: “la garden city non si ridurrà ad un semplice
villaggio agricolo in cui una maggior vivibilità è ottenuta grazie all’esclusione delle
fabbriche”27 ma bensì attività industriale e vita agricola si integrano creando le condizioni
per uno sviluppo armonico ed autarchico.
La città, così come pensata da Howard, è spazialmente limitata, ogni suo punto deve
essere facilmente raggiungibile a piedi ed ogni suo dettaglio è pianificato con l’obiettivo di
rendere ottimale la vita degli abitanti. Per far ciò, viene disegnata di forma circolare e
collocata al centro di un’area di 6.000 acri28 con una superficie propria di 1.000 acri. Il
numero degli abitanti non deve superare i 30.000 nella zona urbana mentre ben 2.000 sono
gli addetti al settore agricolo che abitano nella cintura esterna. Sei boulevards tagliano, in
altrettante sezioni uguali tra loro, la città partendo dal centro verso l’esterno. Il punto di
incontro delle sei strade è costituito da un giardino, anch’esso di forma circolare, attorno al
quale vengono eretti i principali edifici pubblici (municipio, teatro, museo, libreria,
ospedale). All’esterno di questa cinta di edifici si sviluppa un grande parco (Central Park)
racchiuso a sua volta da una grande galleria, chiamata Crystal Palace, con il porticato rivolto
verso l’interno. I sei viali principali sono intersecati da cinque strade (avenue) concentriche,
che creano un reticolato di quartieri. Le case, dotate di giardini comuni, si affacciano sulle
strade e sui boulevards e sono costruite su lotti di dimensioni standard di 20x130 piedi29.
Nella parte estrema della città vengono posizionate le fabbriche, le officine e tutti gli
spazi lavorativi necessari per lo sviluppo della comunità; questi edifici sono poi circondati, e
collegati tra loro, dalla ferrovia circolare che racchiude la città.
La vita all’interno è regolata in ogni dettaglio: i negozi possono essere aperti
solamente negli spazi adibiti al commercio, il numero di professionisti in un quartiere è
limitato in modo che ognuno abbia un numero adeguato di clienti, le nuove industrie non
possono essere fumose, insalubri o dannose per l’ambiente.
27
Chemello (2004), op. cit., pag. 59 28
Pari a 24,3 km2. Un acro corrisponde a 0,00405 km
2
29 Dimensioni corrispondenti a 6x40 metri.
29
Le proposte teoriche di Howard si concretizzano nei primi anni del 1900 con le
esperienze di Letchworth (1903) e, successivamente, di Welwyn (1920), entrambe città sorte
nelle campagne alla periferia di Londra, che mantengono tutt’ora una propria fisionomia e
una vitalità assente nelle esperienze utopiche precedenti.
Abbiamo, dunque, sin qui visto alcune proposte, concrete o solamente teoriche, che
prevedono un miglioramento qualitativo della vita, creando delle situazioni radicalmente
nuove, per rispondere ai disagi creati dalla prima industrializzazione nel tessuto sociale
esistente.
30
4. Alla ricerca di utopie rurali. Dalle corti medievali a Latina
Allontanandoci dai casi legati ad una produzione di tipo industriale, fin qui affrontati,
è opportuno ora restringere il campo di ricerca inquadrando le esperienze vicine al mondo
rurale, che meglio spiegano il percorso che si va ad affrontare.
La particolarità, infatti, che rende unico il caso di Borgo Fornasir non va ricercata
nell’uso di particolari tecnologie o nella volontà illuminata di seguire un’ideale di progresso
che porti ad un acclamato benessere. Certamente sono presenti anche queste componenti,
che avvicinano il borgo a tutte le altre esperienze, presenti in diversi casi anche in regione
(Torviscosa, Panzano, Cave del Predil)30. Esse però non rendono l’idea dell’intuizione e non
colgono la novità che allontana diametralmente il caso in questione dalle tipologie dei
villaggi sociali, con le caratteristiche che conosciamo. Non è possibile studiare il borgo con
questi parametri, o almeno non solamente con questi, senza rischiare di effettuare un’analisi
superficiale e quantomeno parziale.
L’intento del seguente capitolo è quello di presentare le caratteristiche sociali e
strutturali del modello curtense altomedievale, caratteristiche riprese in seguito nella
modalità di produzione tipica della cascina lombarda del diciassettesimo secolo, trattando in
ultima analisi il caso di Latina, vista come città ideale sviluppata su basi rurali.
Il punto di partenza per giungere ad una miglior comprensione del caso di Borgo
Fornasir è rappresentato dalla ripresa dell’ideale di organizzazione sociale che si rifà
all’economia curtense del VIII secolo. Naturalmente l’idea di corte è rivista e plasmata in
funzione di nuovi bisogni ed aggiornata alle nuove tecnologie a disposizione; non è un
ritorno ideologico ad un passato lontano, che potrebbe far pensare ad una nostalgia per la
rigidità dell’organizzazione feudale e per i privilegi signorili dell’epoca, ma bensì il tentativo
30
Per ulteriori approfondimenti rimando agli scritti di Fragiacomo (1996 - Fabbrica e comunità a Monfalcone), Delli Zotti (2005 - La miniera delle appartenenze) e alla tesi di laurea di Biccarino (2009 - Torviscosa come company town)
31
di riprodurre un modello socialmente funzionale, ordinato e controllato, che portava già in
seno i caratteri fondamentali dei villaggi sociali.
4.1 La corte come ideale socio-economico
Le prime apparizioni vanno ricercate agli inizi dell’anno 700 quando queste forme
organizzative si affermano e cominciano a diffondersi in tutta Europa, fino almeno al X
secolo. L’affermarsi del sistema curtense in Italia è legato alla penetrazione dei Franchi e si
sviluppa soprattutto nei territori di influenza longobarda, in cui erano già presenti sistemi
insediativi autonomi e indipendenti, o per meglio dire “chiusi”, le cui caratteristiche
presentavano già i segni d’un evoluzione in questo senso. Il modello economico-sociale
importato dai Franchi infatti si diffonde prevalentemente nell’area padana (restano escluse
le zone periferiche come Trentino e Friuli) fino ai territori tosco-emiliani. Rimangono al di
fuori di questa contaminazione le zone dell’Italia centro-meridionale, i cui territori
conservarono un’autonomia strettamente collegata alla tradizione romana, immuni
dall’invasione longobarda31.
Questa forma di organizzazione, che si colloca nel mezzo del passaggio tra l’epoca
romana delle villae e le strutture propriamente feudali tipiche del periodo medievale, è stata
favorita da una serie di eventi storico/sociali di grande valenza. Un numero elevato di
individui è passato da una situazione di indipendenza e libertà individuale ad una condizione
di assoggettamento volontario, posto sotto la tutela di un proprietario terriero (che
diventerà poi signore feudale), in un periodo caratterizzato da un preoccupante e
generalizzato vuoto di potere. L’assenza di un’autorità centrale ha inoltre favorito un rapido
deterioramento del sistema viario esistente, reso efficiente durante la dominazione romana
31
I passaggi descritti, soprattutto per quanto concerne le differenze tra sistema longobardo e tradizione romana, risultano, aimè, affrontati in maniera rapida; per maggiori informazioni sull’argomento rimando ad Andreolli, Montanari (1993), L’azienda curtense in Italia, cap. 11 – L’Italia senza corti.
32
soprattutto per esigenze militari, che permetteva rapidi collegamenti dalle zone centrali a
quelle periferiche.
L’interruzione delle linee di comunicazione ha portato ad una tendenziale
disgregazione del sistema e ad un allontanamento, sia in termini fisici che da un punto di
vista psicologico (in termini di visione del mondo), di luoghi primi vicini tra loro, con una
conseguente chiusura autarchica dei singoli sistemi insediativi. La società si è calata in una
nuova dimensione localistica del vivere che ha avuto come principali conseguenze
l’isolamento degli insediamenti sparsi nelle campagne italiane ed un’insicurezza
generalizzata ad ogni livello.
Il modello curtense si inserisce in questo contesto, in cui i piccoli proprietari terrieri
sono disposti a cedere i propri terreni ai grandi signori, favorendo così l’aggregazione e
l’unificazione di vasti territori nelle mani di pochi proprietari; “l’ingresso in una curtis poteva
significare per il piccolo proprietario un effettivo miglioramento del tenore di vita: maggior
protezione, dietro lo scudo del signore; maggior sicurezza, all’interno di un’unità economica
più ampia e complessa, che nei momenti di crisi produttiva poteva meglio rispondere alle
difficoltà dei singoli*…+; senza contare che, spesso, chi entrava in una curtis otteneva da
lavorare non solo quel po’ di terra che egli stesso aveva ceduto al signore, ma, in più, altra
terra, che andava ad integrarsi con la prima dando maggior respiro ed organicità all’azienda
colonica. Complessivamente, per l’ex piccolo proprietario di precaria condizione economica,
la situazione diventava migliore, o, almeno, più sicura, più garantita”32.
La corte si presenta, dunque, come unità economica, chiusa ed indipendente, a
controllo, diretto o indiretto, di un possidente terriero. Si compone di due parti: la prima
(pars dominica) sotto il diretto controllo del signore; la seconda (pars massiricia) invece,
affidata al lavoro autonomo dei coloni, i quali possiedono così una parziale autonomia
restando però legati al proprietario da una serie di vincoli, che vanno da una certa quota di
lavoro obbligatorio nei terreni padronali (corvées) a determinate quote di prodotto agricolo
pagate come tasse per la concessione dei terreni. Si può scorgere in questi rapporti di lavoro
una sorta di “abbozzo” del modello mezzadrile. La funzione della corvée, però, non si esplica
solamente nel semplice aspetto economico, come riscossione di tributi, ma bensì determina
32
Andreolli, Montanari (1993), L’azienda curtense in Italia, pagg. 73-74
33
una chiara volontà di dominio fisico sui propri sudditi da parte del signore. Andreolli la
definisce come “diritto di disporre della persona e del suo lavoro”33 rimarcando l’esistenza
del rapporto di forza che intercorre tra padrone e suddito, e fornendo così la chiave di
lettura per interpretare le dinamiche sociali caratterizzanti il periodo medievale.
La parte più interessante del sistema-corte, tuttavia, riguarda ciò che prima abbiamo
definito pars dominica. Essa è, come detto, la parte direttamente controllata dal signore, alle
dipendenze del quale lavora una schiera di servi, detti praebendarii, le cui condizioni si
avvicinano molto agli schiavi di epoca romana: erano a completa disposizione del padrone e
ricevevano da esso alloggio, protezione e nutrimento. La direzione dei lavori viene affidata
ad amministratori, o fattori o comunque uomini di fiducia del signore, che conducono
l’economia aziendale in nome del padrone, il quale solitamente non risiede in pianta stabile
all’interno della corte. Anzi, il più delle volte essa rappresenta una delle innumerevoli
proprietà possedute, non certamente l’unica.
L’obiettivo principale della corte è il raggiungimento di uno stato di autosufficienza,
dettato principalmente dalle tendenze localistiche fortemente influenzate dal processo
storico in atto. In Andreolli viene descritta come “vero «mito» della società altomedievale, in
cui si esprimevano, ad un tempo, l’insicurezza del sostentamento quotidiano e l’orgoglio di
possedere tutto”34. E’ su queste basi che si fonda il modello economico curtense, ripreso poi
nel progetto dell’Ingegner Dante Fornasir per la creazione del Borgo: chiusura quasi totale
dei rapporti esterni, ad eccezione dei beni non ottenibili dal lavoro in loco, per sopperire ad
un ambiente non favorevole e ad un periodo critico35. Il deterioramento delle vie di
comunicazione e l’assenza di un potere forte e centrale hanno ridotto quasi a zero commerci
e collegamenti, di idee, beni e persone, obbligando i centri agricoli ad un modello di sviluppo
bloccato: l’autosufficienza, più che una scelta, risulta una necessità. Per assicurare tale
necessità autarchica, il sistema-corte comprende al proprio interno tutto ciò che è
necessario per la sopravvivenza di una comunità.
33
Andreolli, Montanari (1993), op. cit., pag. 18 34
Andreolli, Montanari (1993), op. cit., pag. 17 35
Verranno affrontate nella Seconda parte della tesi le tematiche riguardanti le condizioni dei contadini friulani della prima metà del Novecento, soprattutto nel periodo tra le due guerre (Cap. 5, La situazione friulana nel ‘900).
34
Andreolli e Montanari descrivono in questo modo la complessità produttiva interna
alla corte:
All’interno di ogni azienda si coltivavano cereali, legumi, ortaggi; si produceva vino; si
allevavano bestie da carne, da latte, da lana (maiali, pecore, capre), da lavoro (buoi), da trasporto
(asini), oltre al pollame domestico, alle oche, alle anatre, alle api che davano il miele; si
coltivavano fibre tessili (lino soprattutto, e talvolta canapa). Il legname per il riscaldamento, per
gli edifici, per gli attrezzi si raccoglieva nel bosco che immancabilmente era presente accanto ai
campi coltivati.
Anche i manufatti artigianali si fabbricavano in gran parte sul posto, ad opera sia dei
servi del dominico, sia dei coloni del massiricio. Così il ricorso al mercato si faceva solo in casi
eccezionali *…+.36
Da questa esperienza emerge, dunque, un’immagine della corte che si avvicina ad un
microcosmo autonomo ed organizzato, ripiegato su se stesso e dotato di una propria
gerarchia sociale statica e ben definita. Appunto la chiusura e la sicurezza fornite dal modello
curtense verranno riprese qualche secolo più tardi con lo sviluppo dell’unità produttiva della
cascina a corte, tipica soprattutto della zona padana, lombarda e piemontese in particolare.
4.2 Il modello produttivo e sociale della cascina lombarda
L’esperienza curtense appena descritta, viene riproposta, qualche secolo più tardi,
nelle sue caratteristiche essenziali grazie alla funzionalità del suo modello, portatore di
sviluppo. La tipologia di azienda che viene a crearsi prende le forme della cascina a corte e
andrà a caratterizzare l’economia agraria di tutta la Pianura Padana, a partire dal XIII secolo
fino ad arrivare a metà del Novecento.
Nel XI secolo il modello curtense, come inteso nel paragrafo precedente, entra in crisi
lasciando spazio ad un modello meglio definito come castrense, in cui i proprietari terrieri
36
Andreolli, Montanari (1993), op. cit., pagg. 16-17
35
modificano il proprio atteggiamento e si arrogano di nuovi diritti e poteri diventando dei veri
e propri signori territoriali. Le prestazioni d’opera (corvées) e i pagamenti con i prodotti del
lavoro scompaiono a favore di canoni in denaro fissi, facendo così venir meno la
caratteristica essenziale dell’azienda curtense, quella cioè che legava direttamente la servitù
con il padrone.
Andreolli e Montanari, tenendo conto di queste trasformazioni, decretano “una lunga
e inesorabile agonia”37 del Medioevo curtense ma non descrivono questa fase come una
drastica rottura che porta ad uno sviluppo diverso. Se agonia o no c’è stata, infatti, è
indubbio affermare che le modalità di organizzazione produttiva sono rimaste tali, o quanto
meno hanno subito una notevole influenza dal periodo medievale. Il declino lento ha
permesso così un mantenimento, e quasi una memoria, delle caratteristiche principali
creando le condizioni per una ripresa, qualche secolo più tardi, del modello sia da un punto
di vista economico che sociale. Sono del 1400, infatti, le prime cascine moderne (come
vengono intese oggigiorno) anche se alcuni documenti del XII secolo citavano già il termine
“cascina” o “cassina” di derivazione latina, intendendo con esso un “contenitore di edifici,
persone, animali e cose”38.
Il modello curtense ha in questo modo determinato lo sviluppo e l’andamento di
cinque secoli di storia agraria padana, terminando appena la sua spinta produttiva negli anni
Cinquanta del Novecento. La sua fine è causata dalla meccanizzazione della produzione e dal
conseguente abbandono delle campagne, soprattutto da parte dei giovani attratti dalle
nuove opportunità industriali e dalle luci delle città.
La caratteristica principale, e l’elemento propulsivo, che ha portato all’egemonia di
tale sistema è essenzialmente la coincidenza e la sovrapposizione degli aspetti abitativo e
produttivo, concentrati nello stesso luogo, chiuso e isolato. La cascina, infatti, si presenta
come un sistema complesso e completo che crea una stretta relazione tra vita e lavoro: i
dipendenti dell’azienda trovano in essa impiego e protezione, alloggio e sostentamento.
Dai villaggi disgregati e disomogenei, sviluppati spesso attorno alla chiesa e tipici
delle campagne trecentesche, si è passati, grazie all’azione di possidenti terrieri spinti
37
Andreolli, Montanari (1993), op. cit., pag. 213 38
Locatelli (1994), La cascina e le sue parti: origini, trasformazioni e decadenza, pag. 18
36
dall’aumento della produzione e dai proventi agricoli, alla costruzione di sistemi organizzati
in cui vengono integrati allevamento e agricoltura (cosa innovativa all’epoca, in quanto
questi due aspetti erano slegati ed indipendenti) e messi in stretta relazione con la vita della
comunità. I proprietari investono cospicui capitali, comprendendo il tornaconto economico
che tali realtà avrebbero portato, gettando le basi per un sviluppo capitalistico
dell’agricoltura padana. Gli ampi spazi della campagna lombarda si prestano bene alla
creazione di questi villaggi, compatti e a ciclo chiuso, spesso isolati dai villaggi esistenti,
costruiti talvolta da zero oppure sfruttando l’esistenza di vecchi edifici colonici già presenti.
L’iniziativa individuale dei proprietari terrieri fa sì che le cascine non abbiano uno
sviluppo omogeneo e che non si presentino uguali tra loro nella forma e nelle origini; si
possono riscontrare però in esse alcuni tratti comuni distintivi che si ripetono, come un
modello, in ogni caso conosciuto.
Elemento comune ed emblema della struttura è il cortile. Racchiuso dai fabbricati che
si sviluppano attorno, esso è allo stesso tempo elemento “utile” e simbolico. In questo
spazio si svolgono svariati lavori, dalla spannocchiatura all’essicazione, ed al contempo esso
è elemento di socializzazione e di incontro. A seconda dei lati coperti dagli edifici si
classificano i diversi tipi di cascine: a corte chiusa, a U con il quarto lato chiuso da una cinta
muraria oppure lasciato aperto, a L (chiusa su uno o due lati oppure aperta), a elementi
contrapposti o a elemento unico. Sono essenzialmente i primi due tipi ad essere considerati i
veri esempi di cascina lombarda, in genere più antichi e situati in aperta campagna.
La chiusura, riprendendo il tema dell’economia curtense, oltre che una scelta risulta
essere, il più delle volte, una necessità. Talvolta dotate di fortificazioni e di torrette di
avvistamento, le costruzioni erano tali per difendersi da eventuali furti e attacchi di banditi,
soprattutto nelle ore notturne: “una volta sprangato il portone, la cascina era quasi una
fortezza”39.
La lontananza dai centri abitati e la difficoltà di collegamento con essi comportano
poi la necessità di sopperire in loco a tutte le esigenze essenziali per il sostentamento. Tutte
le fasi della produzione vengono effettuate all’interno della struttura, in questo senso si
39
Colombo, Le cascine di Milano: antiche testimonianze di un mondo contadino. Fonte http://www.storiadimilano.it/repertori/cascine/cascineweb.htm
37
parla di cascina come sistema a ciclo chiuso. Le cascine più grandi e complesse sono dotate
di forno, torchi, mulini e macine e possono essere viste come punto d’appoggio per le
eventuali cascine circostanti di minor dimensioni. Ogni edificio viene costruito in funzione di
un uso razionale e pianificato e sulla base di tale organizzazione le case dei lavoratori sono
disposte a seconda della mansione da essi svolta o del gruppo sociale a cui appartengono.
L’intelligenza e la razionalità di questo sistema sono gli aspetti che hanno permesso la sua
evoluzione e hanno trasformato la cascina nell’elemento trainante dello sviluppo economico
e della modernizzazione dell’agricoltura padana.
In ogni cascina si trovano le stalle per le mucche, i buoi e i cavalli, con accanto ad esse
l’abitazione del capo-stalla e dell’addetto a ciascun animale; solitamente costruita “nei pressi
di una delle due entrate della cascina c’era la stalla dei buoi, animali pigri e quindi più
prossimi alle porte, con accanto l’abitazione del capo bifolco o del bifolco addetto”40. Sopra
le stalle trovano posto i fienili, direttamente collegati con la stalla sottostante, in modo da
far passare più velocemente il cibo; nella parte retrostante è ubicata la concimaia con sopra
costruiti i servizi igienici. Tutto viene costruito in maniera sistematica e con logica
utilitaristica. Stalle, fienili, depositi, porcilaie e pollai sono disposti in base alla loro funzione e
raggruppati per affinità. Vengono comunemente accomunati sotto la denominazione di
rustici.
In continuità con le stalle e le abitazioni annesse c’è la casa padronale, del
proprietario o semplicemente del fattore, riconoscibile per la forma tipicamente a due piani
e dotata di comfort maggiori rispetto agli edifici circostanti. Essa è “ubicata in una posizione
che permette un controllo sull’attività interna dell’azienda, *…+ spicca sia per la dimensione
che per alcuni elementi architettonici (il portico affacciato sull’aia e spesso una loggia) o
particolari decorativi”41. Sul tetto talvolta trova posto una campana, che a seconda delle
situazioni poteva suonare a festa, o come richiamo per la fine della giornata lavorativa
oppure come segnale di allarme in caso di pericoli.
40
Locatelli (1994), op. cit., pag. 25, si evidenzia in questo passo la logica nella progettazione degli spazi della cascina e l’esistenza di addetti specializzati per i diversi animali.
41 Colombo, op. cit., fonte http://www.storiadimilano.it/repertori/cascine/cascineweb.htm
38
Le case dei contadini, invece, ricavate da un fabbricato a corpo semplice stretto e
allungato, privo di elementi decorativi, e posizionate lungo un lato del cortile, sono
composte solitamente da due stanze: una cucina al pian terreno dotata di focolare, usata
come zona-giorno, e una camera da letto al piano superiore. Sono essenzialmente prive di
ogni comodità. In un rapporto del Vescovo di Cremona del 1895 vengono descritte con le
seguenti parole: “Con meraviglia e non senza pena ne vidi (di case dei contadini, NDA) di
molte anguste, senza luce, senza soffitti, senza vetri, difese da impannate di carta, prive
d’aria, prive di pavimento, colle pareti nere, scrostate...buche, tane...dai tetti gronda acqua,
mentre in estate quelle famiglie bruciano dal calore, vi gelano durante l’inverno...”42, a
testimonianza delle condizioni tragiche che talvolta potevano presentarsi.
Oltre agli edifici già accomunati sotto la definizione di rustici, più vicino alla zona
“nobile” e non accostabili ai lavori pesanti sono disposti altri importanti elementi costitutivi
e caratterizzanti della cascina: il forno per il pane, sopra il quale vi è uno spazio adibito ad
asciugatoio per la biancheria, che sfrutta così il calore del primo; la lavanderia, che
comprende al proprio interno vasche in pietra e stufe per l’acqua calda; la cantina, situata in
prossimità o facente addirittura parte della casa padronale; l’arsenale (a cui viene accostata
l’officina), in cui si ripongono e si aggiustano gli attrezzi, avente anche la funzione di rimessa
per i materiali utili alle riparazioni. Elemento ormai in disuso ma tipico di ogni cascina, ed
importantissimo per l’economia del sistema, era la ghiacciaia: il più delle volte interrata, era
costituita da un locale che veniva riempito di ghiaccio o neve durante l’inverno, e
mantenendo una temperatura interna costante, permetteva di conservare formaggi ed altri
alimenti deperibili durante il periodo estivo.
Nelle cascine più grandi e complesse si possono trovare anche il caseificio e il mulino,
mentre quelle con un numero elevato di abitanti (che superano di gran lunga le cento
persone), il più delle volte isolate dai centri cittadini, hanno al proprio interno una chiesetta,
botteghe di alimentari, osterie o rivendite di vino. Non è rara la presenza pure di veri e
propri distaccamenti scolastici che potevano ospitare al proprio interno anche ragazzi delle
cascine circostanti.
42
Fonte http://www.storiadimilano.it/repertori/cascine/cascineweb.htm
39
Come si può notare, la struttura della cascina è caratterizzata da una notevole
complessità e da una completezza produttiva che la dotano di una sostanziale ed tangibile
autonomia, creando le condizioni per un sistema che si può definire a tutti gli effetti
autarchico. Un sistema che “basta a se stesso” e nel contempo produce ricchezza e profitti
che nuovamente investiti permettono la creazione di un circolo virtuoso. Ciò permette di
garantire una qualità della vita relativamente elevata, soprattutto se confrontata con le
condizioni degli abitanti dei villaggi o delle altre realtà contadine del resto d’Italia.
Il funzionamento ottimale della cascina non è, però, inscrivibile solamente alla
disponibilità (e alla varietà) di edifici complessi e funzionali, che permettono un’economia
chiusa e completa. Fondamentale è la stratificazione sociale e la rigida divisione dei ruoli che
permette a questo microcosmo una stabilità e un ordine rari per l’epoca.
La cascina garantisce (o meglio garantiva) vita e lavoro a circa 20 famiglie, per un
totale di oltre 100 abitanti. Si tratta di una struttura plurifamiliare allargata, non sempre
facile da gestire ed organizzare. Il responsabile del mantenimento dell’azienda e dell’ordine
all’interno di essa è il fattore, delegato direttamente dal proprietario a prenderne le veci, e
legato a quest’ultimo tramite contratti d’affitto che avevano una durata di 9-12 anni, ma che
in realtà potevano durare quasi “a vita”. Questa tipologia di contratto “a tempo (quasi)
indeterminato” rendeva a tutti gli effetti il fattore il vero artefice del successo (o insuccesso)
economico dell’azienda.
Alle dipendenze del fattore sottostanno tutti gli altri lavoratori, in genere dei salariati
fissi che per contratto hanno diritto al lavoro, all’alloggio, al vitto e ad un orto indipendente;
questi potevano essere affiancati nel lavoro, soprattutto in determinati periodi dell’anno (in
particolare durante i raccolti), da braccianti giornalieri o stagionali che risiedevano nei
villaggi e che in certe occasioni potevano venir ospitati all’interno della cascina.
Tra i lavoratori fissi le mansioni sono suddivise in maniera specifica e gerarchica;
ognuno è specializzato in un determinato lavoro e nella vita della cascina svolge solamente
quel compito. Locatelli nel proprio articolo elenca i seguenti ruoli che possono presentarsi
all’interno di una cascina di medio-grandi dimensioni.
40
“il capo cavallante, i cavallanti, il capo bifolco, i bifolchi, il capo stalla (detto anche capo
bergamino), i bergamini, il capo mandriano, i mandriani, i contadini-salariati effettivi, il capo
degli avventizi, i braccianti (avventizi assunti per lavori stagionali), i giornalieri (avventizi assunti a
giornata), gli adacquaroli, il camparo, gli ortolani-giardinieri (che accudivano gli orti e i giardini del
conduttore del fondo o del proprietario), i vignaioli, il porcaro (nel caso di numerosi maiali
appartenenti al proprietario o al conduttore del fondo), il casaro, il sellaio, il bigattiere (per bachi
da seta), il tessitore, l’esperto in tabacchicoltura, il sarto, il falegname, il muratore, «il fattore dei
tetti», lo stagnaro, il ciabattino o lo zoccolaro, l’oste, il barbiere, il maestro, il prete dov’erano
presenti una discreta comunità ed una chiesetta di pertinenza della cascina”43
.
Il risultato è quindi una comunità complessa, ordinata e gerarchica, che tende a
presentare le stesse caratteristiche e gli stessi problemi che emergeranno, a partire dalla
seconda metà dell’Ottocento, nei villaggi operai costruiti su modelli sociali ben determinati.
Infatti accanto all’elevato standard di servizi offerti, accanto alle abitazioni (non
sempre) dignitose, ad uno stipendio se non cospicuo almeno assicurato, ad una vita di
comunità forte, o se vogliamo “partecipata”, emergono tutta una serie di limiti tipici delle
esperienze utopiche conosciute. Innanzitutto vi è l’aspetto paternalistico, per meglio dire
gerarchico, che riduce tutta la vita di comunità in funzione della volontà del signore; vi è poi
ciò che Gasparini (2005) ha definito in termini di integrazione a tempo, “per la quale una
persona, e la sua famiglia, resta nella comunità e ne gode i vantaggi da welfare fino a quando
è dipendente dell’azienda: se va in pensione o vuole allontanarsi *…+ perde i benefici offerti
dalla comunità”44; infine vi si può leggere anche una delusione per la vita (sempre in
Gasparini, 2005), resa evidente dalla staticità del modello stesso, bloccato e fermo su se
stesso, che non permette un pieno sviluppo dell’singolo: il risultato è un individuo che viene
privato delle proprie ambizioni e dei progetti che rendono la vita meritevole di essere
vissuta.
La bellezza e l’importanza sociologica del modello della cascina lombarda è dato, in
definitiva, dalla caratterizzazione sociale che emerge con forza da esso; è questo l’aspetto
principale che differenzia la cascina da ogni altra forma di produzione agricola di quell’epoca
43
Locatelli (1994), op. cit., pag. 30 44
Gasparini (2005), op. cit., pag. 8, il concetto di integrazione a tempo è già stato citato al par. 2 “L’uomo nuovo industriale e moderno”.
41
(e anche delle successive); caratteristica che possiamo definire quasi “spontanea” ed
“involontaria” e che avvicina la cascina ai modelli utopici delle company towns, anticipando
però in qualche modo i modelli stessi.
Concludendo l’argomento, intendo proporre la definizione di company country per
riferirmi ad un determinato e circoscritto modello di sviluppo che prende il via a partire da
questi presupposti: un villaggio rurale costruito e sviluppato su basi innanzitutto sociali ed
economiche, promotore di un rudimentale sistema di welfare aziendale, autarchico ma allo
stesso tempo dinamico e capitalistico, avente la possibilità di fornire un livello di vita elevato
e di gran lunga superiore rispetto al mondo al di fuori di esso.
4.3 Latina e il mito della città rurale
Il presente tentativo di ricerca di utopie, insediative e sociali, legate al mondo rurale
non poteva che concludersi chiamando in causa il caso della città di Latina. Essa risulta
emblematica perché racchiude in se le caratteristiche della città nuova, con gli aspetti
positivi e negativi che ne conseguono, avvicinandosi ideologicamente, allo stesso tempo, al
mondo agreste e alla vita di campagna.
La città nasce nel 1932 (data ufficiale il 18 dicembre) al centro di un'ampia zona
strappata alla palude con un ingente opera di bonifica che ha visto l'utilizzo di 18 grandi
idrovore e la costruzione di oltre 16 chilometri di canali, per volontà del Governo di Roma. La
politica fascista di recupero delle aree agricole non utilizzate e il conseguente ripopolamento
delle campagne porta alla creazione di 3.040 case coloniche che dividono i 135 mila ettari di
pianura, divisi tra agro Pontino e agro Romano, in unità terriere produttive. I poderi vengono
affidati alla cura e al lavoro di migliaia di contadini veneti, friulani ed emiliani sollecitati dal
regime a spostarsi dalle proprie case e ad occupare i territori redenti con l'intenzione di
risolvere, almeno in parte, i problemi di miseria e sovraffollamento che falcidiavano il nord-
est italiano. Il programma di “bonifica integrale” e il trasferimento forzato di intere famiglie
42
contadine completavano, assieme alla famosa “battaglia per il pane”, alle politiche
demografiche e all'imposizione di dazi protezionistici, il disegno autarchico voluto dal Duce.
L'agro Pontino bonificato necessita allora di un centro organizzativo e di servizio, in
quanto l'esistente città di Cisterna è troppo decentrata e poco funzionale per i nuovi
territori. Attorno ad un già presente nucleo di edifici eretti dai coloni e dai tecnici idraulici
durante la fase di bonifica, viene progettata ad opera dell'architetto Oriolo Frezzotti, per
ordine diretto di Mussolini, la città di Littoria. Nasce essenzialmente come città agricola,
strettamente legata all'area produttiva circostante, con gli edifici che richiamano anche
esteticamente il carattere di borgo rurale voluto imprimere e che nella forma rispettano
criteri di semplicità con pochi elementi innovativi. Nella progettazione viene applicato un
modello radialconcentrico che permette un collegamento organico del centro con i borghi
circostanti, formati dall'aggregazione dei poderi colonici. Il centro geometrico e simbolico
della nuova città risulta essere il Quadrato, ovvero la piazza posta a testimonianza di quel
nucleo di edifici originari, su cui si affacciano il Palazzo Comunale, le case dell'Azienda
Agraria, l'edificio dell'Ordine Nazionale dei Combattenti e dell'Ispettorato dell'Azienda
Agraria. Da esso si diramano le strade principali verso l'esterno, in uno sviluppo che richiama
la struttura stellare della città di Palmanova45 ma che si differenzia da essa per
l'asimmetricità dei viali che convergono al centro. I boulevard sono poi intersecati da un
anello di strade a ridosso della piazza che ricordano molto da vicino la pianificazione
howardiana della città-giardino e conferiscono un disegno quasi utopico al progetto.
L'esecuzione del piano dei lavori e la costruzione della città avvengono nell'arco di
pochissimo tempo: in nove mesi (5 aprile – 18 dicembre 1932) da un territorio prima
paludoso e malsano sorge una città nuova, dotata di comfort e servizi, che diventa comune
nel 1933 e capoluogo di provincia nel 1934, seconda in regione per numero di abitanti,
dietro solamente a Roma. Il nome Littoria viene cambiato nel 1946 nell'attuale Latina.
La rapida genesi e la bontà del progetto trasformano la città nel simbolo del fascismo:
vengono esaltati il sacrificio e l'intelligenza degli uomini portatori di civiltà in un ambiente
45
Rimando all'articolo di Ludovico Millesi pubblicato nel volume Piccole città, borghi e villaggi edito dal Touring Club Italiano nel 2007 e consultabile all'indirizzo web: http://www.esteticadellacitta.it/cityimage/ritratti/latina.pdf
43
ostile come quello che si presentava allora. Diventa l'emblema di una “politica pacifica e
votata alla riconquista di ogni centimetro del *…+ territorio”46 e conferisce al Duce
legittimazione per la futura politica colonialista.
Latina rappresenta, dunque, la volontà di “addomesticare” e rendere vivibile un
territorio difficile, dimostrando così la superiorità umana, e in questo caso dell’uomo italico,
portatore di progresso e creatore di benessere. La città diventa “mito” in quanto risulta
essere la sintesi tra un movimento modernizzante, la città in se stessa, ed un richiamo alle
origini: la ruralità in questo caso non è un dato di fatto, come nel caso della cascina, ma una
rivisitazione e una rievocazione di un passato glorioso, un modo per creare gli “«uomini
nuovi» del fascismo, vicino alle antiche virtù degli italiani, legati alla terra, e capaci di
«servire» devotamente la causa del produttivismo nazionalista”47.
Il caso di Latina non presenta modelli sociali o produttivi che rientrano direttamente
nella logica del presente lavoro. Modelli predefiniti e statici, ed in quanto statici anche
“utopici” (perché la predeterminazione di un modello implica a monte l’esistenza di un
preciso disegno illuminato e funzionale), che avrebbero potuto fungere da chiave di lettura
per lo studio di Borgo Fornasir. Nel caso della corte l’elemento fondamentale era dato dalla
creazione di un modello economico-sociale valido, portatore di sviluppo e fornitore di
sicurezza; nella cascina, oltre al miglioramento economico e alla sicurezza, lo sviluppo ha
significato benessere e condizioni di vita adeguate (sempre se confrontate con la situazione
circostante) per lavoratori e braccianti. Nel terzo caso, invece, il carattere utopico è dato
dall’accento posto sull’opera di bonifica e sull’attività di rivalsa dell’uomo che riprende
possesso dei territori malsani. Inoltre, utile e funzionale come strumento d’analisi appare il
richiamo alla ruralità e la volontà di “vestire” la città con abiti da campagna, in modo da
creare una sintesi tra mondo urbano, con i suoi servizi, con l’efficienza e l’organizzazione del
lavoro, con gli elevati standard di vita, e il mondo agreste, della country, con i suoi valori, con
l’armonia dei rapporti sociali, con il contatto diretto con la natura.
46
La citazione è presa dai documenti presenti nel sito ufficiale del Comune di Latina http://www.comune.latina.it/layout.php?var=cultura-3 nel capitolo intitolato Inaugurazione della Città.
47 Tranfaglia (1995), La prima guerra mondiale e il fascismo, pag. 513
Parte Seconda
Il Borgo Fornasir
45
5. La situazione friulana nel ‘900
Lo spazio fisico interessato dalla presente ricerca rientra nel vasto lembo di territorio
rappresentato dalla zona delle risorgive che comprende tutta la “Bassa Friulana”, ovvero la
bassa pianura compresa tra i due fiumi Tagliamento e Torre, e, più propriamente, che si
estende dalla città di Latisana a Cervignano del Friuli.
Agli inizi dell'800 si presenta come un territorio potenzialmente fertile, scarsamente
abitato e con un'attività agricola approssimativa. Il limitato sviluppo della zona è da imputare
soprattutto alla presenza di paludi, boschi e pascoli estesi su tutta la superficie. Nel 1850
rappresentavano all'incirca il 58% di tutta la pianura, mentre del restante 42% solamente la
metà era adibita a seminativo1. Percentuali così elevate di ambienti paludosi e malsani hanno
contraddistinto da sempre questa particolare area, limite estremo della grande Pianura
Padana che si caratterizza per i terreni prevalentemente argillosi e per la fascia di risorgive
che la delimitano da nord-ovest a sud-est, separandola nettamente dai territori ghiaiosi e
aridi dell'alta pianura e della zona dei magredi. Le acque che, scendendo dai monti,
penetrano nel sottosuolo dell'alta pianura, incontrando il terreno argilloso e impermeabile
della Bassa sono costrette a riemergere in superficie creando una zona umida e ricca di
vegetazione che va a concludersi, congiungendosi, con la laguna di Grado e Marano2. Le
ampie estensioni boschive e i prati umidi rendono il territorio florido e ricco di materie
prime, ma limitano la “formazione di insediamenti umani *...+ a pochi villaggi di capanne e
occasionali ricoveri stabili nelle zone più interne”3.
Entrando più nello specifico la stessa “zona delle risorgive” può essere divisa in tre
sotto-zone ognuna con diverse peculiarità idrogeologiche caratterizzanti. Attenendosi alla
situazione del 1920 si possono così esemplificare:
1 Dati confrontabili con Gaspari (2002), Le lotte del Cormor, pag. 3
2 Per una descrizione più dettagliata e specifica della situazione idrogeologica dell’intero Friuli V.G.
faccio riferimento al sito internet Arpa FVG: http://www.arpa.fvg.it/index.php?id=169 3 Gaspari (2002), op. cit., pagg. 24-25
46
1. “Zona superiore, estesa per 25.000 ettari, comprendente il perimetro delle risorgive
(limite nord e sud della risorgenza), per la massima parte impaludata a causa
dell'enorme quantità di acqua della falda freatica liberamente defluente alla
superficie.
2. Zona intermedia, a valle della linea inferiore di risorgiva, estesa per 23.000 ettari,
relativamente asciutta, boscosa, attraversata dai corsi d'acqua originati dalla zona
superiore.
3. Zona inferiore o circumlagunare, di 21.000 ettari, quasi completamente palustre,
intercalata da boscaglie anche estese”4.
Proprio in quest'ultima zona si inserisce la città di Cervignano, e dunque alla sua
periferia pure il Borgo Fornasir, su cui nel dettaglio entreremo più avanti.
Nonostante la situazione drammatica in cui imperversa la pianura paludosa del basso
Friuli, essa non è totalmente disabitata. Al contrario, fa da contorno a numerosi villaggi ed
insediamenti rurali che vengono abitati con immense difficoltà da contadini e braccianti
lungo tutti gli ultimi due secoli. In queste zone si vive in condizioni disagiate, con
un'agricoltura arcaica e modalità di produzione precapitalistiche, non paragonabili alla
situazione che nello stesso periodo andava a formarsi nelle vaste pianure lombarde.
È soprattutto un'indecisa, e quanto mai disorganica, politica di risanamento che ha
segnato fortemente lo sviluppo della zona, a causa soprattutto di un continuo cambio
amministrativo che ha visto, negli ultimi due secoli, dapprima la dominazione veneta, poi
l'influenza dell'impero asburgico che intramezza una prima ed una definitiva riconquista dello
Stato italiano. Questo articolato cambio di “proprietario” non ha permesso di affrontare
adeguatamente il tema del risanamento, se non in minima parte nel periodo asburgico, nella
zona più orientale del territorio, e durante il regime fascista. Nella contea di Gorizia e
Gradisca, di cui il cervignanese faceva parte, infatti sono stati presi provvedimenti legislativi
4 Gaspari (2002), op. cit., pag. 22
47
nel 1870 e nel 1884, ma essi riguardavano “sussidi pubblici per opere di bonifica idraulica”5 e
non un vero e proprio progetto unitario che poteva garantire un miglioramento della
situazione.
Bisogna, se ci si riferisce allo stato di arretratezza delle campagne friulane, tener
conto anche delle ostinazioni dell’aristocrazia terriera, che in più di un’occasione ha
interrotto progetti unitari di bonifica, per mantenere così lo status quo delle campagne e
tenere in pugno le sorti dei contadini locali, soprattutto mezzadri e braccianti.
Gaspari dà questa immagine della situazione nei primi due decenni del secolo scorso:
“Nei primi decenni del secolo, la Bassa Friulana rimaneva agli stessi livelli sociali ed
economici del secolo precedente. Il mondo si muoveva verso la modernità ma nella Bassa
coesistevano, accanto alle grandi aziende *…+, ancora i boschi comunali, il cui uso economico era
affatto trascurabile per le popolazioni.
La popolazione era dispersa nelle campagne in migliaia di case di paglia e travi, o, per i
più benestanti, di mattoni, mentre gli insediamenti più grossi non superavano mai la soglia tra
villaggio rurale e cittadina.
Nel 1903 tutta la Bassa Friulana sotto la zona superiore delle risorgive venne classificata
come malarica. Le acque stagnanti, le vaste estensioni di terreno sommerso, impregnavano l’aria
di miasmi mefitici ed erano causa di febbri endemiche.
Fu solo dopo il 1918 che si arrivò ad uno studio approfondito del problema di dare un
nuovo assetto economico-produttivo a tutta la Bassa Friulana”6.
Le condizioni in cui si trova il mondo rurale friulano sono di assoluta povertà e
miseria. I coloni e mezzadri, abbandonati a se stessi in un ambiente difficile, possiedono
strumenti di lavoro rudimentali, che permettono un lavoro approssimativo con una
conseguente scarsa produttività. I braccianti, non possidenti, chiamati anche “sotans” (in
friulano, letteralmente, colui che sta sottomesso) lavorano per alcuni mesi l’anno, rischiando
di rimanere senza occupazione per lunghi periodi. La produzione, prevalentemente di
sussistenza, non permette investimenti onerosi per migliorie tecniche. I grandi proprietari,
5 Ellero (1999), Il secolo delle bonifiche, pag. 64
6 Gaspari (2002), op. cit., pag. 33
48
non interessati alla salute e alle condizioni dei lavoratori, affidano generalmente la terra ai
coloni con rapporti di mezzadria, scaricando su quest’ultimi oneri e costi, ricevendo in
cambio metà del prodotto finito. Le abitazioni, a qualsiasi livello, non permettono una vita
dignitosa, prive di acqua corrente ed elettricità, costruite con materiali umili e deteriorabili,
per nulla adatte ad un clima umido e stagnante come quello in cui sono inserite.
L’agricoltura è essenzialmente promiscua: accanto al granoturco trovano spazio
frutteti, viti e gelsi, assieme all’allevamento di animali di bassa corte, e poi pecore e maiali. La
sopravvivenza passa, però, anche attraverso la raccolta di piante spontanee e di legna da
ardere, raccolte nei campi comunali. Frequenti erano inoltre i furti campestri e la pesca di
frodo, oltre che la particolare caccia alla talpa, di cui poi si metteva ad essiccare le pelli per
essere successivamente vendute.
Sono i cosiddetti comunali, campi di proprietà dei Comuni, solitamente lasciati incolti,
ad essere la principale fonte di sopravvivenza delle popolazioni contadine. Rappresentavano
“una fonte semigratuita cui attingere per i bisogni di sussistenza: latte e altri prodotti
dell’allevamento pastorale, legname da bruciare, erbe alimentari ma anche ingrasso del
maiale, raccolta di fieno e strame, e anche legna da costruzione, una fonte di prodotti
supplementari che andavano ad integrare il bilancio della coltivazione di qualche campo
*…+”7. Un decreto austriaco, nel 1839, aveva imposto la fine di tale abitudine, ma la presenza
dei campi in comune è rimasta invariata nei decenni successivi, con alcuni strascichi fino alla
metà del ‘900 almeno; l’importanza, però, del decreto rimane tale in quanto segna l’inizio del
passaggio da un’economia arcaica, e con un uso promiscuo del territorio, ad un’economia
basata sull’azienda contadina familiare.
Non va dimenticato, inoltre, che la situazione, già di per sé critica, va inserita in un
contesto storico turbolento e concitato, quale quello della prima metà del Novecento.
Innanzitutto lo svolgimento di due guerre mondiali che, nella loro drammaticità,
hanno avuto come sanguinoso terreno di battaglia, tra i tanti, anche il Friuli. La ricostruzione
del “già poco a disposizione” è stata duplice, doppiamente sofferta e faticosa; ricostruire da
zero per poi riperdere tutto una seconda volta, nel pantano della Bassa, ha causato drammi e
7 Gaspari (2002), op. cit., pag. 33
49
inutili sofferenze, che vanno a sommarsi ad una vita non facile, di stenti e lavoro. Senza
contare i lutti, numerosissimi, che hanno colpito indifferentemente ogni famiglia.
Gli anni Venti sono stati poi gli anni del fascismo e delle prime rivendicazioni
contadine, per la revisione dei patti colonici. In risposta alle violenze fasciste, le masse
organizzate di contadini si sono costituite in leghe bianche e rosse, creando i presupposti per
la lotta di classe che porterà a numerosi risultati politici e sociali, soprattutto negli anni ‘50.
Nel 1928, il progetto di “bonifica integrale” voluto da Mussolini, interessa
profondamente queste zone: la Bassa Friulana viene presa come emblema della
riconversione, da parte del regime, di tutti i territori malsani e prima non abitabili. Nella
logica del disegno autarchico, e in linea con la volontà di creare una società prettamente
rurale, a Roma viene propagandata un’immagine di un Friuli idillico e strettamente legato alle
tradizioni sane e genuine del passato, con abitudini tipiche del mondo contadino, sagre
festose e balli folkloristici.
La realtà vede, invece, un continuo aumento della disoccupazione, debiti ingenti che
pesano su quanti hanno cercato di apportare migliorie al processo produttivo, scarsa
richiesta di prodotti, aumento di braccianti e “sottani” come conseguenza della diminuzione
del numero di mezzadri e piccoli proprietari, che strozzati dai debiti si vedono costretti a
vendere ciò che hanno, e in gran parte emigrare.
Neanche l’inserimento, nel contesto friulano, di un impianto industriale
all’avanguardia come la SAICI di Torviscosa (inaugurata nel 1937) riesce a diminuire la
disoccupazione e a creare opportunità di lavoro, se non in minima parte.
Nel secondo dopoguerra il progetto di bonifica integrale non è portato a termine nella
sua totalità, i braccianti e i piccoli contadini hanno lavoro per pochi giorni al mese, la miseria
raggiunge ancora più della metà delle famiglie. L’economia è stagnante, e solamente le
rimesse degli emigrati dall’estero riescono a portare un po’ di ossigeno. La maggior parte dei
paesi sono “privi delle più elementari infrastrutture civili, privi di fognature, con
approvvigionamenti di acqua potabile di dubbia provenienza, *…+ soggetti ad epidemie di tifo
e di scarlattina”8.
8
Gaspari (2002), op. cit., pagg. 52-53
50
Nonostante l’epilogo, da ormai cinque anni, della Seconda Guerra Mondiale, le
condizioni sociali e igienico-sanitarie della popolazione nel 1950 non sono per nulla
migliorate; con gli oltre 50.000 disoccupati che si contano in quel periodo il quadro non offre
di certo rosee previsioni.
Solamente le lotte contadine e le azioni sindacali riescono a portare un lento
miglioramento della situazione. La conquista dei diritti civili e sociali passerà attraverso
scioperi e agitazioni che riscatteranno in parte, e renderanno migliore, la vita misera dei
padri.
Bisognerà attendere gli anni ‘60 e ‘70 per vedere finalmente tramontare un Friuli
arcaico e tradizionale, a prevalenza contadino, a vantaggio di una società modernizzata e tesa
verso il futuro.
51
6. La bonifica
La bassa pianura friulana, al di sotto della fascia di risorgive, si presenta, dunque,
all’inizio del ‘900 come un grande stagno acquitrinoso: circa 70.000 ettari coperti da fitta
boscaglia e prati incolti, che connotano e condizionano la vita rurale e lo sviluppo del
territorio.
Già alcuni tentativi, più o meno articolati, di bonifica erano stati provati in passato, su
singole proprietà o appezzamenti di non molto elevate dimensioni. Nel 1690 Antonio
Savorgnan decise di risanare la sua proprietà di Torre di Zuino, con notevoli risultati, che
portarono poi nelle stesse zone (quasi un secolo dopo, tra il 1927 e il 1937), alla costruzione
dello stabilimento SAICI e all’edificazione della cittadina di Torviscosa, naturalmente dopo
un’ulteriore opera di sistemazione.
Nella seconda metà del Settecento un tentativo di bonifica venne fatto nei territori di
Grado e Aquileia, ma subito bloccato ed abbandonato nel 1790, tra la delusione generale.
Durante tutto l’Ottocento, più volte venne ripreso il tema del recupero delle zone
malsane, sia nei territori italiani che in quelli a giurisdizione austriaca, ma sempre con
risultati deludenti. Nel 1870 e 1884 con due provvedimenti, il governo austriaco offrì sussidi
per la bonifica privata dei territori interessati. La legge 25 giugno 1882 del Regno d’Italia,
invece, suddivideva le opere di bonifica in due categorie: quelle relative alla prima venivano
affrontate al 50% da parte dello Stato e al 50% da Comuni e privati, su quali ricadeva
successivamente la manutenzione; le opere di seconda categoria erano accollate per intero
ai proprietari. Altre leggi si susseguirono nel 1886 e nel 1900.
Il problema, durante tutto il secolo, non venne però risolto. Il motivo principale risultò
essere la mancanza di investimenti cospicui ed adeguati e l’assenza una politica organica e
decisa. Le leggi vennero fatte e con esse anche delle circoscritte opere di bonifica, ma queste
non potevano bastare. Era necessaria, come scrive Ellero, “una cultura adatta al problema”,
52
che riuscisse ad affrontare in maniera omogenea ed efficace la questione “in ambiti
generalmente molto più vasti delle proprietà fondiarie individuali”9.
È col Novecento che si comincia ad affrontare la situazione da un diverso punto di
vista. Nel 1904 furono attivate numerose opere di arginatura, con la conseguente costruzione
di strade e canali, e chiaviche per la regolazione del flusso delle acque. “Nel 1912 furono
ultimate due bonifiche parziali su proprietà Brunner e Tullio fra Aquileia e Punta Sdobba. In
quegli stessi anni furono avviate le bonifiche anche sulla destra del Tagliamento”10.
Solamente a partire dal 1918, però, con il progetto degli studiosi friulani Domenico ed
Ettore Feruglio e gli ingegneri Ferrari e Tonizzo, si ha a disposizione un progetto ampio ed
organico che interessa tutta la zona delle risorgive e che prevede una rivalutazione
economico-produttiva di tutto il territorio. “Si trattava di un grandioso progetto mirante, non
solo a compiere una bonifica idraulica, ma «a fare in modo che l’acqua vada al mare nel più
lungo tempo possibile e nella minor quantità possibile»; a costituire una rete di canali
emuntori ed irrigatori in grado di consentire la formazione di una agricoltura a larga base
irrigua”11.
Il progetto, complesso e lungimirante, che avrebbe permesso uno sviluppo
economico pari a quello del basso-piano lombardo, viene tuttavia ostacolato da un’influente
gruppo di proprietari terrieri che vedono in questo disegno un limite all’esercizio del proprio
dominio. Viene proposto, da quest’ultimi, un “contro-piano” di risanamento, poco credibile,
scadente e “miope”, che non si avvicina neppure lontanamente alla “grandiosità dell’opera di
bonifica”12 proposta da Feruglio.
Il dibattito e la discussione che si accende, tra gli interessi dell’aristocrazia terriera e le
innovazioni proposte dal nuovo progetto di bonifica, supportato sia a livello ministeriale (da
influenti esponenti di governo) che economicamente (da potenti investitori lombardi),
9 Ellero (1999), op. cit., pag. 52
10 Ellero (1999), op. cit., pagg. 64-65
11 Gaspari (2002), op. cit., pag 34; rimando alla lettura del par. 1, cap. II (Gaspari, pagg. 33-40) per
un’illustrazione più approfondita del progetto Feruglio-Ferrari-Tonizzo, e della sua mancata applicazione, di cui sopra faccio solo un piccolo accenno.
12 Gaspari (2002), op. cit., pag. 39
53
necessita, per una sua conclusione, l’intervento diretto di Mussolini che impone la creazione
del “Consorzio di bonifica per la trasformazione della Bassa Friulana”.
Questo consorzio, creato nel 1929, si inserisce nel più ampio progetto di “bonifica
integrale” stabilito per legge il 24 dicembre 1928 (n.3134) e che va, assieme ad altri
provvedimenti, a completare il Testo Unico delle leggi sulle bonificazioni delle paludi e dei
terreni paludosi (D.R. 30 dicembre 1923, n.3256) e la legge Serpieri del 18 maggio 1924 (n.
753). Con questi atti si va a delineare il disegno autarchico voluto dal regime.
Il prefetto Cesare Mori, incaricato dal Duce di dirigere il consorzio di bonifica, si
avvicina maggiormente al progetto di Feruglio rispetto alle logiche del potentato locale, ma
la crisi economica degli anni ‘30, e la successiva entrata in guerra nel ‘40, non permettono un
investimento oneroso, come richiesto; inoltre la battaglia del grano, inaugurata dal regime ed
inserita nella volontà di creare uno stato autarchico, spinge verso uno sviluppo di
un’agricoltura “asciutta” diversamente da quanto previsto nel progetto.
L’esigua disponibilità di fondi e l’imminenza degli eventi bellici, non facilitano di certo
un intervento di risanamento coerente con le necessità del territorio. Arrivati alla metà del
secolo, la Bassa Friulana risulta ancora l’unica zona, nel vasto complesso della Pianura
Padana, ad essere “soggiogata da un disordine idraulico e da una sottoutilizzazione
agronomica”13.
L’opera di bonifica viene svolta, solamente in parte, nella zona circumlagunare con la
creazione di argini e di idrovore che portano l’acqua direttamente al mare. Il lavoro copre un
totale di 3.000 ettari, che sommato alle altre bonifiche parziali, raggiunge solamente il 10%
su un totale di 70.000 ettari che compongono la vasta “palude” friulana.
Per Gaspari, in conclusione, notevoli progressi sono avvenuti tra gli anni Trenta e
Quaranta, ma nonostante ciò la bonifica non può ancora definirsi completa. Numerose zone
rimangono ancora inutilizzabili o scarsamente sfruttate; zone che verranno sistemate
solamente nel secondo dopoguerra e nei decenni successivi.
“La Bassa Friulana alla fine del fascismo si presentava notevolmente differente dalla
Bassa paludosa e misera del 1921: era stata compiuta buona parte della bonifica idraulica
nella fascia prelagunare e si erano costruite diverse case coloniche e strade campestri,
13
Gaspari (2002), op. cit., pag. 40
54
tuttavia la vera trasformazione fondiaria prevista dalla bonifica integrale non era stata fatta in
nessuna delle tre zone *superiore, intermedia e circumlagunare+”14.
Il grande cambiamento promesso dal regime non è stato completato. Si deve prender
atto, però, del lavoro svolto che ha portato ad un sostanziale mutamento del paesaggio. I
nuovi territori, bonificati idraulicamente, non hanno portato ad un reale benessere
immediato ma sono venute a crearsi le condizioni per una vita sostenibile, in un ambiente
finalmente salubre, che trasforma in passato la vita di stenti che ha caratterizzato la Bassa nei
secoli precedenti.
6.1 Il Manolet e la periferia di Cervignano
Un ampio territorio improduttivo e in gran parte abbandonato, situato alla periferia
sud-ovest di Cervignano e compreso tra la cittadina stessa e l’abitato di Terzo di Aquileia,
viene acquistato nel 1933 dall’ingegner Dante Fornasir (Fig. 1).
Si tratta di una vasta bassura malarica conosciuta generalmente col nome di Manolet
e definita anche la “palude di Cervignano”, che in più di un occasione era stata presa in
considerazione per lo studio di un possibile risanamento. Nella seconda metà del
Diciottesimo secolo (1766), Maria Teresa d’Austria prende possesso dei terreni, di proprietà
del Monastero di Aquileia e in concessione alle comunità di Cervignano e S. Martino15, e
attua un primo tentativo di bonifica, vanificato qualche decennio più tardi da nuove
inondazioni che ripresero il dominio sui terreni danneggiando le semine e i raccolti.
Nel 1860 l’iniziativa passa al barone Ettore de Ritter che affida l’opera all’ingegner
Magello senza ottenere risultati soddisfacenti.
Nei primi anni del ‘900 è l’ingegnere e deputato Giacomo Antonelli, originario di Terzo
di Aquileia, ad interessarsi del risanamento del territorio, conscio dei secolari problemi che
affliggevano le popolazioni circostanti. Questo suo interesse porta alla nascita, nel 1907, del
14
Gaspari (2002), op. cit., pag. 42 15
Piccolo borgo, oggi frazione del Comune di Terzo di Aquileia
55
Consorzio della “Prima Bonifica Austriaca” e ad una consapevolezza più matura del problema
da risolvere. Ma i venti di guerra e le limitate risorse finanziarie del periodo non permisero la
realizzazione di alcuna opera.
Nel periodo tra le due guerre, la zona in questione passa nuovamente sotto il
controllo del comune di Cervignano che vende alcune parti a privati, tra cui l’ingegnere
udinese Romano Piussi, che tenta una bonifica parziale della propria porzione e dà inizio ad
una modesta azienda agricola negli anni Venti. La restante parte del territorio viene lasciata
ad uso “comunale”, a disposizione dei meno abbienti.
Figura 1 - Veduta aerea dei terreni del Manolet, compresi tra Cervignano e Terzo di Aquileia ( googlemaps.com).
56
Nel 1933, come detto, l’ingegner Dante Fornasir acquista dal comune di Cervignano e
dal Piussi i terreni che facevano parte dell’originario Manolet, per un totale di circa 125
ettari16, comprendenti anche una parte del Boscat appartenente al comune di Terzo.
Fornasir, rinomato ingegnere che tra le sue opere vanta la progettazione e
realizzazione del quartiere operaio di Panzano (1913-1927), per ordine del Cantiere Navale
Triestino, e la bonifica del Lisert (1929) voluta dalla famiglia Cosulich, si era già occupato in
passato, nei suoi studi giovanili, della questione del Manolet, quand’era alle dipendenze
dell’ingegnere Giacomo Antonelli.
Con un investimento di circa 2 milioni di lire dà il via ad un opera che dura sette anni e
si conclude con la creazione di una moderna e avanzata azienda agricola.
I lavori di bonifica, progettati in prima persona dall’ingegnere, vengono svolti da una
trentina tra operai e braccianti (inizialmente dipendenti di un’impresa edile locale e in
seconda battuta dai futuri abitanti del borgo), sotto la supervisione del cugino Francesco
Fornasir. “Fu necessario lo scavo di quasi 24 km di canali principali e di circa 5 km di collettori
secondari per portare a compimento la bonifica ed il sistema di irrigamento e furono livellate
ampie aree di terreno da destinare all’agricoltura”17.
Il risultato fu la costruzione di una borgata moderna ed efficiente che, all’interno dei
possedimenti, copriva un’area di 4700 mq. e forniva vita e lavoro a circa venti famiglie, per un
totale di oltre 100 persone.
16
Altre fonti parlano di addirittura 140 ettari circa. Fonte V.M. (1940), Bollettino di Cervignano e Pradiziolo, Inaugurazione di nuova chiesa, pag. 6
17 Valcovich, Barillari (2009), Dante Fornasir, ingegnere, pag. 100
57
7. Genesi e sviluppo del Borgo
La situazione del Manolet era già nota all’Ingegnere Fornasir (Cervignano, 11 maggio
1882 – 10 agosto 1958), che, come riporta Diana Barillari18, fece pratica, durante il percorso
universitario al Politecnico di Vienna tra il 1902 e il 1908, presso lo studio dell’ingegnere e
deputato al Parlamento di Vienna Giacomo Antonelli, originario di Terzo di Aquileia e legato
in modo particolare alla situazione della Bassa Friulana. Proprio in quel periodo Antonelli
riferisce in Parlamento dell’annosa questione che affligge i “circa duemila ettari di terreni
paludosi e pressoché improduttivi *…+ nei Comuni di Terzo, Aquileia e Cervignano”19 e rende
impossibile la vita ai suoi abitanti. Ma la ridotta disponibilità di risorse, e successivamente,
l’incombenza del primo conflitto mondiale impedirono al deputato di portare a termine il
proprio impegno e al governo di Vienna di prendere provvedimenti adeguati.
Nel primo dopoguerra la zona interessata torna ad essere propriamente “comunale” e
lasciata a disposizione di quanti traevano da essa il necessario per rendere possibile la
propria sopravvivenza. Solamente alcune parti vengono vendute a privati, tra i quali troviamo
l’udinese Roberto Piussi, sopra citato, ed altri20. Quest’ultimo prova, con poca fortuna, a
sanare il proprio lotto ed a costruire in esso una piccola azienda agricola, attorno al 1920.
Quando Fornasir acquista dai comuni di Cervignano e Terzo e dai vari privati, i cui
possedimenti frammentavano la zona, i 125 ettari che andranno a formare la proprietà, le
uniche costruzioni erette risultano essere tre caseggiati, appartenenti al Piussi: uno adibito a
modesta abitazione e gli altri due, antistanti, utilizzati uno come stalla e l’altro
(presumibilmente) come magazzino.
18
Barillari (2009), Appunti sulla bonifica di Borgo Fornasir, in Dante Fornasir, ingegnere, pag. 37 19
Relazione particolareggiata sull’attività parlamentare nel campo economico del deputato ing. Giacomo Antonelli durante la legislatura 1901-1906, in Fornasir G. (1990) Bonifica e società in Friuli tra ‘800 e ‘900, pag. 101
20 Accanto al Piussi risultano proprietari di ulteriori appezzamenti P. Sarcinelli, N. Rovere e
G. Malacrea che venderanno le proprie parti a Fornasir, fonte Fornasir G. (1990), op. cit., pag. 101
58
Passano sette anni dall’acquisizione (7 febbraio 1933) all’inaugurazione ufficiale della
Chiesa (24 novembre 1940), simbolo del nuovo borgo. Sette anni nei quali viene bonificata
ogni zolla di terreno del vasto possedimento e vengono progettati, e quindi costruiti, gli
edifici che andranno a comporre l’abitato.
I tre edifici preesistenti vengono inglobati nel progetto complessivo del Borgo; il
primo nelle case a schiera per i dipendenti salariati e i restanti due uniti tra loro e trasformati
in un’unica stalla. Il caseggiato dei braccianti si presenta come un unico blocco composto da
sei alloggi sviluppati in verticale: al piano terra è predisposta la zona giorno, al piano
superiore la zona notte e all’ultimo livello c’è la soffitta. Simmetrica e antistante alle case a
schiera è costruita la stalla. I due edifici si fronteggiano creando un ampio piazzale
rettangolare, chiuso sul terzo lato (in direzione sud-ovest) dall’officina, con annesse a
quest’ultima due ulteriori abitazioni. La “parte superiore” del borgo viene completata dagli
edifici che vanno a comporre la rimessa per i mezzi agricoli, la concimaia coperta, la stalla per
i cavalli ed i tori, ed i pollai con galline, oche e tacchini. Tutte le costruzioni seguono, in
continuità con i primi due blocchi, i lati lunghi del piazzale, in una disposizione simmetrica e
regolare, come si evince dalle immagini aeree di pag. 59 (Fig. 2 e 3). Il quarto lato viene,
infine, chiuso dalla porcilaia e dalla stalletta per i conigli. Questa risulta essere la zona
destinata ai cosiddetti “lavori pesanti”.
A sinistra della strada d’accesso proveniente da Cervignano, che taglia in diagonale il
borgo (da NE a SO), e, dunque, sotto quella che prima ho definito come “parte superiore”,
viene costruita la Casa Padronale e, vicina ad essa, tutti gli edifici relativi ai “servizi” e quelli
raggruppabili nei “lavori nobili”: vi troviamo infatti la serra, il dopolavoro aziendale, la
lavanderia con i lavatoi, la cantina ed il granaio, oltre agli alloggi del fattore e dei vari
responsabili a suddette attività.
In totale, vengono costruite all’interno del borgo abitazioni per ventidue famiglie, che
permettono l’insediamento di oltre cento persone e il raggiungimento di una popolazione
attiva di oltre 70 unità.
59
Figura 2 – Immagine aerea del Borgo (Consorzio di Bonifica Bassa Friulana).
Figura 3 – Dall’archivio storico del Consorzio di Bonifica, immagine scattata dall’aereo che evidenzia la disposizione degli
edifici in due blocchi, collegati dal nodo centrale rappresentato dalla Chiesa e dall’aia coperta (Consorzio di Bonifica Bassa
Friulana).
60
Il centro, sia geometrico che simbolico, dell’intera area è rappresentato dalla Chiesa, e
dall’aia coperta ad essa adiacente. Situata al bivio formato dalla diramazione della strada che
collega il borgo a Cervignano, essa sembra il punto di raccordo e di collegamento tra le due
parti dell’abitato, apparentemente scollegate tra loro in termini fisici. Oltre a ciò, essa risulta
essere “simbolica” perché accoglie con l’imponenza del suo campanile quanti si avvicinano in
prossimità del borgo, e funge inoltre, con l’aia coperta, da luogo d’incontro e di relazione.
Proprio il campanile, ricavato dall’innalzamento di una centralina elettrica già esistente e per
questo avente quella particolare forma “squadrata”, è la prima immagine che si scorge
venendo da Cervignano e l’ultima che accompagna coloro che tornano in città.
Il campanile, con due grandi orologi rivolti verso la casa padronale e verso l’apertura
in direzione dei campi, scandisce le giornate e le ore lavorative, e come un faro diventa punto
di riferimento e “luce” per braccianti e contadini che lavorano la terra; è la fonte generatrice,
assieme alla chiesa, del forte senso di appartenenza che lega i componenti di questa
comunità.
Sorpassando l’edificio sacro, le due strade che si creano a partire da esso si dirigono,
quella superiore, verso la parte nord dei possedimenti e l’argine del fiume Ausa, mentre
quella inferiore taglia in verticale la proprietà (che si sviluppa per la maggior parte a sud del
Borgo, Fig. 4) e conduce in direzione degli abitati di Terzo e San Martino.
L’intero caseggiato, così organizzato, si situa all’estremità nord dell’intera tenuta, in
una posizione insolita, e apparentemente non molto funzionale ai lavoratori, perché non
permette il facile raggiungimento delle zone più lontane. Ma in una visione più ampia, che
tiene conto del contesto (e dunque della città di Cervignano), esso risulta posto a metà
strada tra il limite sud dei possedimenti e il centro cittadino, con una distanza di circa 2 km da
una parte e 2 km dall’altra. Risulta essere così, il punto di congiunzione tra il mondo agreste e
quello cittadino, ad una distanza tale che permette un certo contatto “civico” ed allo stesso
tempo un isolamento voluto e reso (volutamente) necessario.
L’autarchia è il modello ideale che ha mosso Dante Fornasir nella progettazione della
sua azienda agricola. Sulla base dell’utopia agricola promossa in quel periodo dal regime
fascista, Fornasir costruisce un borgo fondamentalmente autonomo, dotato di tutti i servizi
essenziali per il mantenimento di un livello di vita adeguato, senza la necessità di
61
“appoggiarsi” ad un centro di maggiori dimensioni, se non per determinate (e limitate)
occorrenze.
Nonostante la presunta vicinanza agli ideali fascisti dell’epoca, Fornasir, però, si
caratterizza per la sua indole imprenditoriale e liberista, che esula totalmente da qualsiasi
volontà di carattere politico e soprattutto di vicinanza al regime. Uomo della mitteleuropa,
rimane estraneo alle sirene fasciste e, anzi, si ritira a vita privata, a partire dal 1940, proprio a
causa del mancato rinnovo della tessera del partito, che non gli consente più di accedere ad
appalti pubblici con la sua impresa di costruzioni21. Costruisce il borgo a sua immagine,
contraddistinto da una sostanziale, e quasi innaturale per l’epoca, neutralità. L’impegno civile
e sociale, lo sposalizio con gli ideali autarchici e i forti investimenti in opere di bonifica,
conferiscono all’ingegnere, e dunque all’intero borgo, un’autonomia e un’autorevolezza che
permettono, comunque, lo svolgimento dell’attività agricola senza interferenza alcuna.
Il lavoro dei campi fornisce grosse quantità di frumento, che permette, in un paio di
occasioni, il raggiungimento del “primato regionale nella produzione”22. Gli uomini sono
aiutati nel loro lavoro da “un’invidiabile corredo di carri gommati, di trattori, di macchine
agricole”23 che consentono una maggior produzione con un limitato dispendio di forze.
L’utilizzo di arnesi meccanizzati esonera, in questo modo, gli animali dai lavori più pesanti,
“cosicché – citando il Bollettino di Cervignano e Pradiziolo – la stalla è orientata alla
produzione del latte ed all’allevamento di soggetti da riproduzione”24. Si contano in azienda,
nel 1940, 130 bovini e 10 cavalli; inoltre, trovano sistemazione, 20 suini, 250 tra polli e
galline, 100 anatre ed oche e 200 tacchini.
21
Le motivazioni per il mancato rinnovo si riassumono nel termine “incomprensione fascista” usato dallo stesso Fornasir nello spiegare la messa in liquidazione della società nel 1932. Fonte Archivio privato Famiglia Fornasir
22 Fornasir E. (2006), Un ecovillaggio nel Borgo Fornasir di Cervignano, pag. 29
23 V.M. (1940), op. cit., pagg. 9-10
24 V.M. (1940), op. cit., pag. 10
62
Figura 4 - Mappa catastale di Borgo Fornasir (Archivio privato)
63
Anche la produzione del pane viene garantita giornalmente, all’interno dell’azienda,
da un forno comune, mentre la legna, per il riscaldamento delle abitazioni private, viene
concessa tramite un contratto mezzadrile: la metà del legname raccolto viene, cioè, fornito
gratuitamente e diviso tra le famiglie.
La fornitura di servizi non si limita a questo: le abitazioni, sopra descritte, sono
assegnate, senza spese di affitto, alla famiglia del lavoratore, e dotate al loro interno di acqua
corrente e servizi igienici, oltre che ammobiliate. “L’arredamento delle case dei salariati –
citando ancora il Bollettino di Cervignano – può essere invidiato da molte famiglie civili, *…+
fornito dal proprietario lieto nella gioia di vedere diffuso il benessere fra i dipendenti”25.
Inoltre un piccolo orto, collegato alle abitazioni e dunque indipendente, completa la
dotazione personale di ogni famiglia.
A completare la gestione illuminata e comunitaria, vi è la messa a disposizione di un
bagno comune, che diviso tra uomini e donne, fornisce l’acqua calda all’intero borgo.
Infine, va ricordato, che anche il tempo libero viene gestito ed organizzato all’interno
dell’azienda. Fornasir costruisce un campo da bocce, un campo di calcio e uno spazio giochi
per i bambini. La sala del dopolavoro riunisce gli uomini a giocare a carte, dopo la faticosa
giornata lavorativa, ed aiuta così a creare quel forte senso comunitario che caratterizza tutto
l’ambiente. Spesse volte, inoltre, all’interno di essa vengono organizzate cene sociali e feste,
soprattutto in occasione delle festività maggiori, quali la Pasqua o il Carnevale, oppure in
concomitanza con eventi fissi od occasionali, come ad esempio la vendemmia o l’annuale
battuta di caccia voluta espressamente dall’ingegnere. La sala viene, poi, adibita a teatro, per
ospitare le rappresentazioni dei bambini (diretti dalla moglie dell’ingegnere, Rosalia) e le
esibizioni del coro aziendale, che contava oltre venti elementi.
Per i figli dei dipendenti, considerando l’importanza che Fornasir dà all’istruzione,
viene garantito il servizio di trasporto fino alla scuola elementare del paese; un carro con i
cavalli, “guidato” da un dipendente dell’azienda, porta tutti i ragazzi in età scolare alla vicina
scuola di Cervignano, d’estate scoperto e d’inverno coperto da un telo.
Inoltre il parroco di Cervignano svolge, nella chiesa, la messa domenicale ed in
occasione di questa, ogni 14-20 giorni, viene organizzata una festa con musica e danze, che
25
V.M. (1940), op. cit., pag. 9
64
coinvolge l’intera comunità sotto il piazzale coperto, emblema del forte spirito di
appartenenza e di unione sociale che lega i componenti della “grande famiglia” Fornasir.
Dante Fornasir, dunque, realizza un’azienda modello nel cuore della palude
cervignanese, dotata di servizi e di comodità che sottolineano quanto l’aspetto del vivere,
soprattutto del vivere bene, venga posto in primo piano, sopra ogni logica di mero guadagno
economico. È questa caratterizzazione sociale, mescolata ad un uso consapevole ed
innovativo della tecnologia, a rendere unico il caso di Borgo Fornasir e ad allontanarlo dalle
altre esperienze agricole, nella Bassa come nel resto del Friuli.
La volontà di creare uno stretto legame fra i dipendenti, ed in secondo luogo tra
questi ed il luogo di lavoro, si accoda alle esperienze illuminate di gestione dell’impresa che
prendono vita dalle teorie utopiste di Owen e Fourier, e che in Friuli si ritrovano con la
famiglia Cosulich, per la quale l’ingegnere ha lavorato, nella creazione dei cantieri navali di
Monfalcone.
Naturalmente, accanto a tutta una serie di motivazioni teoriche e illuminate, trovano
spazio anche giustificazioni puramente tecniche e materiali, come ad esempio la difficoltà ad
assumere manodopera disposta a lavorare terreni così difficili e difficilmente raggiungibili, e
dunque la necessità di rendere “appetibile” il posto di lavoro. Questo è stato riscontrato da
Delli Zotti nel caso di Cave del Predil26, ma si può fare lo stesso discorso riferendosi (sempre
rimanendo in regione) a Torviscosa oppure alla colonia Solvay di Monfalcone o allo stesso
quartiere del cantiere navale.
È chiaro che non si può paragonare un borgo rurale di cento persone ai casi di
Torviscosa o Panzano, oppure al primitivo caso di New Lanark, ma le impostazioni teoriche su
cui si basa il progetto e la volontà demiurgica dell’ingegnere-imprenditore rendono
assolutamente simili i casi, seppur con le rispettive proporzioni, e seppur mancando
l’elemento principale per l’esistenza di una città company, ovverosia la fabbrica.
Accanto a questo, vi è, come visto al Cap. 4, la riproduzione di un modello funzionale
che si avvicina alle, e si riconosce nelle, produzioni (quasi)capitalistiche della cascina
26
Delli Zotti (2005), La miniera delle appartenenze, pag. 13
65
lombarda, e dell’economia curtense in generale. Ciò mi permette l’accostamento del Borgo al
modello organizzativo delle corti Sei/Settecentesche, felicemente isolate, autonome ed
indipendenti.
Il contatto, sotto forma di com-presenza e co-esistenza, di entrambi i modelli teorici
ed organizzativi sopra delineati, dà vita, alla periferia di Cervignano, ad un’esperienza che
non può essere delineata seguendo solamente i parametri di uno dei due modelli. Nel Borgo
Fornasir si fondono le caratteristiche essenziali tipiche della company town assieme alle
particolarità che contraddistinguono le aziende curtensi. Da una parte il villaggio operaio,
teorizzato da Owen, dall’altra la country, con tutti gli aspetti positivi elencati da Howard.
Si è dunque al cospetto di un villaggio sociale, a base rurale, fornitore di servizi tipici e
consoni ad una città, che offre, allo stesso tempo lavoro, sicurezza e felicità, inserito in un
contesto non più malarico e paludoso ma bello e degno di essere vissuto.
66
8. Una Company country nel cuore della Bassa
Il concetto di company country è stato affrontato più volte nel corso del presente
lavoro, presentando, in diverse occasioni, le caratteristiche che connotano questa particolare
organizzazione socio-economica e toccando le sostanziali differenze con i modelli classici di
villaggio sociale.
Qui, ora, vorrei riprendere il filo conduttore che sta alla base di quanto scritto per
tentare di tracciare una (giammai) definitiva definizione di “borgo rurale e sociale” e, in
particolar modo, definire il caso del villaggio sociale “Borgo Fornasir”.
Innanzitutto si può affermare, sintetizzando, che una company town è tale in quanto
riunisce in sé tre dimensioni fondamentali, quali quella del lavoro, della residenza e del
tempo libero. Prima dell’avvento del Welfare state non era scontato trovare queste categorie
collegate tra loro e garantite, anche nelle società più organizzate, e tantomeno era scontato
annoverarle tra i diritti personali di un individuo. Solamente a partire dalle teorizzazioni
utopiche di fine Settecento, e nei conseguenti tentativi di traduzione “concreta”, si cerca di
affrontare il problema abitativo dei lavoratori, creando dei sistemi “casa-fabbrica-svago” che
tendono a coprire ogni dimensione del vivere di un individuo. L’individuo si trova, così,
obbligato in una comunità che è costretto ad accettare come propria, ma che accetta ben
volentieri perché permette una vita dignitosa e di gran lunga superiore se confrontata col
mondo “al di fuori”. Prende vita in questo modo una dialettica, senza soluzione, che oscilla
tra la delusione “per vivere un modello *…+ al quale non si è partecipato alla progettazione né
si può modificare”27 e l’orgoglio di vivere un’esperienza unica, generatrice di legami forti, che
segna la vita di chi partecipa e che difficilmente verrà dimenticata.
27
Gasparini (2005), L’utopia dell’uomo nuovo e il tempo delle company town, pag. 9
67
Sulla base di queste considerazioni, gli Stati moderni prendono atto della bontà
dell’ideale di fondo di tali teorie utopiche e danno origine a quello che tutt’oggi è conosciuto
come Stato sociale (o Welfare state). Ciò permette un superamento della staticità delle prime
progettazioni, perché i diritti che vengono garantiti sono forniti universalmente ed
indistintamente a tutti i cittadini, e non in base al contratto di lavoro. Vengono scongiurate,
così, l’oppressione e il desiderio di fuga che colpiscono, talvolta, gli abitanti della company,
fornendo al contrario la possibilità di autorealizzazione del singolo. L’individuo vive
all’interno dello Stato sociale, libero di compiere il percorso di autodeterminazione più
consono ai propri ideali e, allo stesso tempo, è rassicurato dalla certezza di poter disporre del
necessario per vivere.
Tralasciando l’evoluzione statale che prende piede solamente a partire dal secondo
dopoguerra, l’ing. Fornasir, consapevole delle innumerevoli esperienze già esistenti e forte di
un esperimento vissuto e realizzato in prima persona, con la costruzione del quartiere
operaio di Panzano (in cui lui stesso dimora fino al 1939), decide di concretizzare un proprio
sogno giovanile, avviando l’azienda modello, descritta nel paragrafo precedente, sui terreni
sanati alla periferia di Cervignano.
Stiamo parlando di un sogno, perché il progetto rappresenta il naturale compimento
di tutti gli studi intrapresi dall’ingegnere nel corso della sua brillante carriera. A partire
dall’interesse per le menomate condizioni in cui si trovano i terreni alla periferia del paese
natio, gli studi di bonifica presso il politecnico viennese e il praticantato presso lo studio
dell’ingegnere e deputato Giacomo Antonelli; studi che trovano il proprio culmine con la
bonifica del Lisert, per conto della famiglia Cosulich. Fornasir poi, attraverso la realizzazione
del quartiere operaio, sviluppa e approfondisce il concetto di città-giardino, che si lega
inevitabilmente ad una precisa volontà di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
delle masse operaie, in un’ottica di conquista sociale e di creazione di benessere. Il percorso
si conclude, infine, con i forti guadagni ottenuti grazie al lavoro della propria impresa edile,
costruendo soprattutto a Trieste, che a posteriori viene letta come il tentativo (riuscito) di
accantonare la somma necessaria per la costruzione di questo grande progetto utopico28. La
28
Gli eredi ed attuali proprietari del Azienda agricola “Borgo Fornasir” parlano di una somma di circa 2 milioni di lire investita per l’acquisto dei terreni, l’opera di bonifica e la costruzione degli edifici.
68
realizzazione del Borgo è, dunque, il risultato dell’intera vita dell’ingegnere e come tale,
rappresenta l’ultimo progetto, che racchiude in sé l’impegno nei vari campi, civile,
architettonico ed ambientale, e il conseguente ritiro definitivo a vita privata.
Borgo Fornasir è, così, un insediamento “company”, o per meglio dire sociale, perché
costruito sul modello della città giardino, che evita la congestione e la nevrosi urbana e
mette la popolazione a stretto contatto con la natura e all’interno di un forte contesto
relazionale. Allo stesso tempo, però, questa company non è città. Non è paragonabile ad un
quartiere operaio, perché non vi è la presenza di un’industria che fornisce lavoro ed
occupazione ad un elevato numero di persone, e nemmeno può contare lo stesso livello di
servizi. Il lavoro in questo caso è dato dai campi, e dall’azienda agricola ad essi connessa. Non
vi sono i numeri (e la necessità) di costruire un’intera città attorno all’insediamento
produttivo. Un’azienda agricola, per quanto grande, può dar da vivere a 100-200 persone,
com’è emerso anche dallo studio delle cascine lombarde, ma sicuramente con la
meccanizzazione del lavoro e l’utilizzo di nuove tecnologie queste cifre sono destinate a
scendere. È quindi impensabile lo sviluppo di un insediamento di grandi dimensioni,
collegato ad una “semplice” realtà agricola. Molto più sostenibile e realizzabile è la creazione
di un borgo di dimensioni ridotte, che però mantiene in sé la caratteristica fondante di un
villaggio sociale, e cioè la commistione di lavoro, residenza e tempo libero.
In questo senso, dunque, la country, ovvero la campagna, diventa sociale: siamo in
presenza di un borgo rurale che poggia le basi principalmente sul fattore umano e
relazionale, che fornisce servizi e in cui il tempo libero viene gestito a livello collettivo. Il
lavoro, com’anche il guadagno, sono elementi fondamentali ma non i più importanti. Ciò è
possibile, però, solamente a partire da un ingente investimento iniziale e da una grande
disponibilità di risorse, che permettono una gestione illuminata dell’attività produttiva. Il
profitto, per Dante Fornasir, non riguarda solamente la massimizzazione degli utili e la
riduzione delle spese ma significa miglioramento delle condizioni di vita dei dipendenti,
creazione di nuovi posti di lavoro, benessere diffuso, armonia e felicità. Sono questi gli
obiettivi principali da assolvere.
69
Vi è anche qui, come negli altri casi, la creazione e “l’esibizione alla storia”29 di un
Uomo nuovo: un uomo che vive una “dimensione radicalmente nuova della comunità”30,
vive esperienze relazionali che mai aveva vissuto prima, e gode di servizi e benessere, che
all’esterno, sarebbero stati impensabili. Citando ancora Gasparini, quest’uomo “non è
strozzato dai prezzi del commerciante, i suoi figli sono protetti, possono giocare liberamente,
sono assistiti negli studi, questo uomo ha un tempo libero che può gestire al di fuori delle
costrizioni del bisogno economico” e ancora “la sua salute diventa un valore per l’intera
comunità” e “gode di una casa adeguata ai «nuovi» bisogni dell’abitare”31. Sono tutte queste
le caratteristiche dell’abitante della company, e per logica conseguenza di colui che abita a
Borgo Fornasir. Un individuo che prova orgoglio per aver la possibilità, e il privilegio, di
partecipare ad un’esperienza unica, a qualche cosa di nuovo ed allo stesso tempo migliore,
rispetto a ciò a cui si era abituati. Soprattutto se confrontato con le condizioni di vita della
Bassa Friulana di metà Novecento.
Una tale organizzazione sociale e produttiva, che ha come ideatore e demiurgo
un’unica persona, non può sottrarsi dall’essere retta da uno spirito prettamente
paternalistico. Questa è una caratteristica (Gasparini la vede come limite) fondamentale del
villaggio sociale: la comunità non si regola automaticamente, l’ordine non è naturale, viene
imposto dall’alto, dal creatore, dal demiurgo, o semplicemente (in friulano) dal “Paron”. Ad
esso spettano le decisioni ultime, è il garante della regolarità della vita e il giudice delle
diatribe interne. Esiste una marcata distinzione sociale che separa i dipendenti dal capo.
Essa, però, non viene percepita come tale e vissuta con pesantezza. I ruoli vengono rispettati
rigidamente, ma il forte senso di ammirazione da parte dei lavoratori verso l’ingegnere
“ammorbidisce” la relazione. È questa la forza di tale esperienza e la genialità dell’idea di
Fornasir. I dipendenti si sentono partecipi del progetto perché vengono valorizzati per le loro
caratteristiche, sono fedeli verso il Paron perché ha dato ad essi l’opportunità di una vita
migliore e la possibilità di “essere qualcuno”. Ogni decisione importante viene discussa con i
capifamiglia prima di essere presa e vengono ascoltati i consigli degli abitanti con la
29
Gasparini (2005), op. cit., pag. 7 30
Gasparini (2005), op. cit., pag. 8 31
Gasparini (2005), op. cit., pag. 8
70
consapevolezza che ogni punto di vista vada preso in considerazione. La comunità è unita,
affiatata e, in questo modo, anche cosciente della propria esistenza e del proprio valore. Gli
individui che la compongono non hanno dignità solo nel vivere ma anche, e soprattutto, nel
partecipare. Questo senso di sentirsi importanti, di sentirsi unici all’interno di un gruppo di
pari, permette un miglioramento qualitativo della vita che parte dall’individuo stesso. È
l’individuo che si innalza e diventa protagonista (o co-protagonista) della propria esistenza.
Viene generato e messo in moto, con il progetto di Fornasir, un vero e proprio
“percorso di emancipazione” che ha come inizio la condizione di assoluta, o quasi, povertà e
trova il suo compimento nel possesso di una ricchezza, più che materiale, umana e
relazionale e soprattutto fornisce la possibilità di assicurare un futuro ai propri figli.
Lo sviluppo del singolo, secondo la propria inclinazione, viene visto come un indice di
progresso e mostra la via adatta per la creazione di una comunità felice e, se vogliamo dar
giudizi di valore, migliore. In questo senso l’importanza data alla scuola e l’incoraggiamento
che viene dato ai fanciulli nel continuare gli studi non è che un ulteriore tassello nel progetto
dell’ingegnere: le nuove generazioni non sono chiuse e soffocate all’interno della rigida
organizzazione aziendale. Al contrario, sono spinte a cercare il proprio futuro altrove, nel
rispetto della propria indole, seguendo i propri interessi e i propri sogni perché il mondo non
finisce laddove il suono della campana del Borgo non è più udibile. Comunque il sentimento
d’affetto che lega gli abitanti al luogo (e all’uomo che ha creato tutto ciò) è talmente forte
che non ci sarà mai un totale abbandono. Significativa è, senza dubbio, la testimonianza di
Anna Maria Fabbro che nella sua intervista è riuscita a trasmettere al sottoscritto la stessa
passione e la stessa gioia provate dai propri avi nel vivere quell’avventura. Pur non avendo
partecipato in prima persona all’esperienza, il senso di appartenenza a qualcosa di grande e
di non descrivibile a parole è così intenso e limpido che pare essere persino contagioso. I
ricordi tramandati dai nonni e dal padre paiono prendere quasi vita e nel raccontarli la stessa
comunità, ora dissolta, riprende colore e vivacità.
Anche da un punto di vista architettonico, la sapiente costruzione e disposizione degli
edifici non esaspera la divisione dei ruoli e, anzi, crea un ambiente familiare che avvicina,
anche fisicamente, proprietario e dipendenti. A differenza di Panzano, dove troviamo una
71
sostanziale e marcata caratterizzazione degli spazi dedicati all’una o l’altra categoria sociale32,
il progetto di Fornasir per il Borgo prevede un’uguaglianza di stile che accomuna tutte le
costruzioni e non presenta evidenti differenze, ad esempio, tra la casa padronale, quella del
fattore e le case dei salariati, che paiono in questo modo “sostanzialmente equiparabili”33.
Ciò sta ad indicare che l’esistenza di una differenziazione sociale, più o meno presente in
questa situazione, non viene vista come una frattura insanabile ma c’è piuttosto la volontà di
creare una grande famiglia, dove nessuno venga escluso o possa sentirsi “inutile”.
A testimonianza della concezione familiare che la proprietà ha al riguardo degli
abitanti del borgo, affiora la figura della moglie del Fornasir, Rosalia Saiz, e il ruolo
fondamentale che essa rappresenta all’interno della comunità. La Siora, come veniva
chiamata all’epoca, viene descritta come una donna di gran cuore e con una smisurata
passione per i bambini. Impossibilitata lei ad averne, si prende cura dei figli dei dipendenti
come fossero i propri, li educa e trasmette a loro la propria passione per il teatro e per la
musica, organizzando persino un teatrino da lei personalmente diretto.
Questo aspetto personale che ho voluto citare, a conclusione del capitolo, è
solamente un altro, e non ultimo, elemento che indica l’umanità e connota la conduzione
illuminata di questa azienda agricola. Tutto ciò favorisce la creazione di legami stretti che
tengono unite le famiglie del borgo, creando una comunità coesa e felice, il cui ricordo fa
brillare tuttora gli occhi alle persone che vi hanno partecipato.
Vi è, in definitiva, una struttura paternalistica che governa i rapporti e la vita
all’interno della company country, ma non ha di per sé, a livello generale, una connotazione
positiva o negativa. Ovvero, può essere vista a seconda dei casi come un limite, ad esempio
per la libertà e per lo sviluppo individuale del singolo, oppure come un’opportunità che
permette il raggiungimento di certi standard, abitativi e relazionali, solamente però a livello
aggregato. La bontà o meno dell’esperienza, nel caso particolare invece, è determinata
32
Le case per impiegati e dirigenti presentano dimensioni e caratteristiche riconoscibili rispetto alle abitazioni operaie; diversa è anche la disposizione degli edifici, con una zona operaia ed altre riservate a dirigenti e impiegati. Anche gli spazi comuni sono nettamente separati e l’esistenza di due alberghi, uno per impiegati celibi e l’altro per operai celibi, è la dimostrazione più lampante di questa gerarchizzazione aziendale.
33 Barillari (2009), op. cit., pag. 22
72
dall’idea di comunità o di libertà posseduta dal “Padrone”. La responsabilità ricade
interamente nelle sue mani e nell’idea che esso ha di vita sociale.
Certo, già questo può rappresentare, di per sé, un limite in chiave futura, soprattutto
se il ragionamento viene fatto in una prospettiva di sviluppo. In altre parole, per
un’auspicabile evoluzione democratica a vantaggio di una deriva autoritaria, sarebbe
vantaggiosa una non esclusività del potere e un decentramento delle responsabilità, ma in
questo caso si snaturerebbe completamente l’esistenza dell’insediamento “company” come
fin ora descritto. Inoltre la breve durata dell’esperienza cervignanese non permette un
ragionamento in questa direzione, senza correre il rischio di divagare in congetture prive di
riscontro e in ipotesi fantasiose.
73
9. La fine del sogno
Anche l’esperienza di Borgo Fornasir, come del resto tutte le esperienze utopiche
conosciute, è condizionata dall’usura del tempo e dalla scarsa riproducibilità dello schema,
non abile ad aggiornarsi con il passare degli anni. La staticità del modello è una caratteristica-
limite di ogni company town che prevede, a priori, un’immortalità pronta a sfidare i secoli e
gli imprevisti offerti dalla storia ma che, a conti fatti, risulta effimera ed inefficace, incapace
cioè di rigenerarsi per affrontare nuove situazioni storico-sociali.
Particolari congiunture storiche, infatti, ed inevitabili cambiamenti sociali portano ad
un lento declino della situazione in analisi, che va a concludersi negli anni ’80, quando la
maggior parte degli edifici del borgo si trova ad essere in condizioni di totale o parziale
abbandono e l’attività dell’azienda agricola risulta limitata rispetto ai fasti iniziali.
Il borgo, che nel 1940 vanta il primato regionale nella produzione di frumento,
mantiene un’elevata produttività e un’ottima coesione interna per i primi due decenni di vita
(1933-1953 circa). È questo il periodo d’oro dell’azienda, quello cioè in cui si creano e si
fortificano rapporti di lavoro e d’amicizia destinati a durare a lungo, il periodo in cui nasce la
“comunità” di Borgo Fornasir che ancora oggi viene ricordata con passione dagli eredi dei
protagonisti e da chi quell’esperienza l’ha vissuta in prima persona (anche se appena
fanciullo).
Comincia nel 1953 a “scricchiolare” l’intera struttura a causa dell’allontanamento del
fattore, nonché cugino dell’ingegnere, Francesco Fornasir. Quest’ultimo, direttore
“esecutivo” dell’azienda, entra in conflitto con il Paron, a causa di incomprensioni che mi
risulta difficile interpretare, e viene allontanato per volontà stessa di Dante Fornasir, dal
lavoro e dall’abitazione nel Borgo, senza possibilità di reinserimento. Questo fatto scuote
l’animo della comunità e si ripercuote sulla struttura organizzativa perché, dopo due anni di
74
transizione sotto il controllo del vice-fattore, l’attività viene affidata ad una famiglia di
affittuari veneti.
La famiglia Zanella, proveniente da Rovigo, comincia il rapporto di mezzadria nel 1956
per passare, qualche anno più tardi, ad un contratto di affitto. Il Fornasir e la moglie vivono
ancora all’interno del borgo, nella casa padronale, ma non si interessano più alla produzione.
La composizione del borgo rimane tale, come tali rimangono pure gli abitanti presenti con le
loro famiglie. Ma la nuova direzione conferisce all’azienda un’impronta più volta all’utile e
meno al sociale, con la produzione che diventa intensiva e propensa al mero guadagno. A
questa situazione si va ad aggiungere, nel 1958, la morte dell’ingegner Dante che risulta
essere un ulteriore colpo inflitto al villaggio sociale del Manolet.
L’allontanamento del fattore, prima, e la morte dell’ingegnere, poi, fanno perdere
consistenza al significato originario dell’esperienza, anche se non distruggono nel breve
periodo la composizione sociale che caratterizza il borgo. I rapporti fraterni e le abitudini
comunitarie rimangono inalterate soprattutto perché le famiglie che vi abitano sono le stesse
del 1940.
Solamente l’inesorabile passare degli anni e l’esodo dei figli dei dipendenti, che
cominciano ad intraprendere strade diverse, rendono inevitabile la disgregazione che porta
in breve tempo alla sostanziale desolazione, caratterizzante l’attuale stato. La morte della
Siora Lia nel 1971 non fa altro che aggravare ulteriormente la situazione. Con essa sparisce
l’ultimo collante della società fornasira e tramonta definitivamente il progetto dell’Ingegnere.
Al suo funerale, coloro che negli anni Quaranta erano appena bambini, posano una
corona di fiori con sopra una dedica che recita: “I FIGLI DEL BORGO PER LA MAMMA
ROSALIA”34. Questa immagine racchiude, in tutta la sua struggente semplicità, il significato
intimo delle forti relazioni createsi all’interno dell’abitato e, non ultimi, i risultati ottenuti da
Dante Fornasir, e soprattutto sua moglie, nella realizzazione di questo sogno.
Il resto è storia pressoché recente; la proprietà nel 1976 passa finalmente nelle mani
dei diretti discendenti, dopo una causa quinquennale che vede gli stessi eredi impegnati in
un’azione legale con gli affittuari veneti, che non vogliono perdere il possesso dell’azienda.
34
Diapositiva, archivio privato Anna Maria Fabbro.
75
Dopo vent’anni di declino sotto la direzione Zanella, e qualche anno di immobilismo
dovuto al cambio di proprietà, gli attuali proprietari danno vita ad un agriturismo, ricavato
nelle stanze del vecchio granaio, affiancandolo all’attività dell’azienda agricola. Inoltre
ristrutturano la casa padronale e convertono alcuni altri edifici in funzione di nuovi bisogni.
L’azienda agricola versa tutt’ora in buona salute, ma si è ridotta nelle dimensioni e,
attualmente, offre lavoro a non più di qualche dipendente, che naturalmente non vive
all’interno del borgo.
Non si ha, in definitiva, più traccia dell’idea originaria di vita sociale, quella vita voluta
espressamente e creata con grande impegno dal Paron e dalla Siora. Mancano soprattutto le
condizioni, sia materiali che sociali, per un suo ripristino. Il borgo è in parte disabitato, la
maggior parte degli edifici non si presenta in buono stato e soprattutto non ci sono più le
prerogative che garantiscono l’esclusività del servizio offerto. In altri termini, la vita al di fuori
è migliorata, e con essa i servizi, superando di gran lunga quanto messo a disposizione
all’interno del borgo. Vivere a Borgo Fornasir non è più un privilegio destinato a pochi, ma
una difficoltà, in termini funzionali e “di comodità”, mitigata soltanto dal ricordo di un
brillante passato che ha caratterizzato la storia di queste terre. La campana non suona più a
scandire i ritmi della vita e a preannunciare i giorni di festa. Ormai da molto i bambini non
recitano seguendo i consigli di “mamma” Lia e le donne non discorrono assieme mentre
fanno il bucato. Gli uomini non si riuniscono più al dopolavoro per giocare a carte e
dimenticare le fatiche dei campi. L’idea di Borgo Fornasir è ormai tramontata e la comunità
rimane viva solamente nel ricordo.
La Storia ha riservato a Borgo Fornasir la medesima sorte che è toccata alle iniziative
utopiche presenti in regione e altrove. L’esperimento sociale voluto creare alla periferia di
Cervignano si è concluso alla stessa modo, a causa dell’incapacità, sia di chi ci abita che di chi
dirige, di fornire il borgo (può essere riferito anche ad un’ipotetica città, quartiere o villaggio
sociale) di una nuova “anima”. Di esso non resta che il ricordo di intensi rapporti personali e
di amicizia che rimangono tali anche a distanza di anni e di chilometri.
76
Il cambio di gestione e l’abbandono di una direzione illuminata hanno creato, per
concludere con le parole di Gasparini, “una town [oppure country] che non sa sopravvivere in
maniera originale alla propria company, e ciò la fa sempre più apparire una sorta di ghost
town, dove i soggetti più radicati alla realtà sono i fantasmi (struggenti e dai colori tenui) del
ricordo, del piacere delle amicizie e soprattutto delle esperienze idealizzate”35.
35
Gasparini (2005), op. cit., pag. 11
Conclusioni
78
Dalla memoria alla creazione di nuove utopie
Riprendendo quanto preannunciato nel capitolo introduttivo, provo a tracciare, in
queste pagine conclusive, un’ipotetica idea di sviluppo che possa ridare freschezza
all’insediamento di Borgo Fornasir, nel rispetto della tradizione e del contesto che ne fa da
cornice.
Innanzitutto sono opportune alcune considerazioni, che mi preme sottolineare:
quanto mi accingo a scrivere non ha la pretesa di diventare il modello da seguire per la
rivalutazione della zona in oggetto, e tantomeno viene proposto con la volontà di sminuire il
lavoro dell’attuale proprietà, che con impegno e fatica sta portando a termine un ottimo
progetto. In secondo luogo, appunto, trattandosi di una proprietà privata forse non avrei
neppure il diritto e la concessione di procedere in questa direzione, ma decido comunque di
prendere questa responsabilità per dare conclusione logica al percorso di ricerca. Infine,
come ultima premessa, ribadisco che, seppur appoggiandomi e prendendo spunto da un
progetto concreto (che prende le forme di una tesi di laurea1), ciò che segue può essere
inteso come una semplice riflessione, audace e provocatoria.
Si tratta in definitiva di una visione, un tentativo di immaginare il futuro, e come tale
si basa essenzialmente su congetture e riflessioni personali emerse lungo il tortuoso
percorso di ricerca effettuato.
Il viaggio intrapreso mi ha portato a definire il case study di Borgo Fornasir,
attraverso lo studio dei villaggi sociali “classici” e delle esperienze legate al mondo rurale,
per concludere con l’analisi dei fattori di crisi del modello utopico e con i motivi che hanno
portato al declino del caso specifico. Il Borgo ha perso oggi la sua funzione originaria, gran
1 Nello specifico, prendo come testo di riferimento la tesi di laurea di Elisabetta Fornasir dal
titolo Un ecovillaggio nel Borgo Fornasir di Cervignano: progetto di riqualificazione architettonica e sistemazione ambientale e paesaggistica delle aree rurali circostanti, (2006)
79
parte degli edifici si trovano in condizioni non ottimali, in pratica richiederebbero immediati
lavori di ristrutturazione (oltre che la disponibilità di cospicui fondi finanziari), gli abitanti si
sono ridotti a poche unità e solo alcuni di essi sono direttamente collegati all’attività
dell’azienda agricola.
Ciò che considero maggiormente preoccupante, tuttavia, è la scarsa conoscenza
all’interno della comunità di Cervignano, e dei comuni limitrofi, delle vicende svoltesi in
questo lembo di terra. Non vi è memoria dei fatti accaduti, manca la consapevolezza, nel
“cervignanese” d’oggi, dell’importanza e della particolarità del caso, che rendono
quest’esperienza pressoché unica in regione. La conferma, e allo stesso tempo la spiegazione
plausibile, di questa lacuna nella storia locale mi viene fornita dal Sindaco Paviotti che,
durante il colloquio concessomi, afferma: «Cervignano si caratterizza per una, purtroppo,
scarsa coesione, nel senso che è una cittadina nel quale manca un po’ il senso di identità e
appartenenza. Soprattutto perché vi è stato un fenomeno di immigrazione ed emigrazione
molto forte. […] Una grande parte di Cervignano non ha radici qui, ma è arrivata da altri
luoghi, e quindi Borgo Fornasir, che è una storia che nasce in queste terre ma non c’è più
come realtà da diversi decenni, per molti non è conosciuto».
Questa mancanza non riguarda, però, solamente chi venendo da fuori si è insediato
nel “capoluogo” della Bassa, e tantomeno, quanto affermato, può offrire una giustificazione
che valga indistintamente per tutti. Io stesso, come confessato in introduzione, non ero a
conoscenza di tutto ciò, pur essendo nato in queste terre e provenendo da una famiglia
fortemente radicata nel territorio. Il gap è dovuto soprattutto, dal mio punto di vista, ad una
superficiale e non totale comprensione di ciò che ha rappresentato realmente l’esperienza
del Borgo. Il significato profondo e intimo dell’“esperimento sociale”2 venuto a crearsi nel
Manolet, è stato sottovalutato per lunghi anni, correndo il rischio di essere rimosso
completamente dalla memoria collettiva degli abitanti, non solo di Cervignano ma di tutto il
territorio della Bassa.
2 Crismani (2004), Borgo Fornasir – un angolo di Cervignano da visitare, depliant a cura di “Italia
Nostra”
80
Solo un accurato lavoro di ricerca dei materiali e di testimonianze significative mi ha
permesso di entrare più a fondo nei meriti della questione. Non ho di certo la presunzione
nell’affermare di essere stato il primo ad affrontare l’argomento. Ho avuto, invece, a
disposizione preziosi documenti, libri, depliant e come detto una tesi di laurea, che
confermano l’esistenza di altri e precedenti studi. In questo senso, devo ammettere,
l’iniziativa della mostra fotografica sulla vita dell’ingegner Fornasir3 ha permesso il
raggiungimento di un’ampia fascia di pubblico e ha generato una curiosità attiva nella
cittadinanza, spianando la strada verso una consapevolezza più matura dei fatti accaduti.
A questo punto, e su queste basi, la riflessione mi spinge ad intraprendere due
strade, secondo me, diametralmente opposte per tentare di rendere nuovamente attuali i
temi sociali sollevati dal Fornasir e per mantenere viva la memoria dell’accaduto.
La prima strada, che ha tanto l’aria di un sentiero tranquillo e già battuto, porta alla
creazione di un “luogo” in cui ricostruire ed esaltare i fatti narrati, un museo, un contenitore
di memorie in cui inserire le immagini e i racconti, le lettere e i documenti. Potrebbe essere
ricavato dal recupero di uno dei numerosi edifici rimasti “inoperosi” all’interno del Borgo.
Ciò si muove, a mio parere, in direzione di quanto già progettato dall’attuale proprietà e in
tal caso potrebbe fungere da volano per l’attività economica esistente. Infatti, accanto
all’azienda agricola e al già operativo e funzionante agriturismo, l’intenzione più prossima
pare quella di mettere a nuovo l’edificio che ospitava gli appartamenti dei braccianti per
ricavarne un Bed&Breakfast e favorire così un turismo agroalimentare, che permetta un
distacco sostanziale dalla frenesia della vita cittadina: un tipo di turismo sempre più ricercato
dall’utenza e bisognoso di nuovi spazi e nuove attrazioni. In tal proposito, per favorire il
turismo di nicchia ed intercettare un flusso culturale, oltre che prettamente ludico, la
creazione di un museo parrebbe coerente, tenendo conto peraltro dell’unicità della storia da
raccontare. Potrebbe addirittura essere inserito successivamente in un circuito di “company
3 Voluta e organizzata dal Comune di Cervignano e tenutasi presso il Centro Civico, dal 30 maggio al 14
giugno 2009. Con la mostra è coincisa la pubblicazione del catalogo, a cura di Valcovich e Barillari, Dante Fornasir, ingegnere (2009)
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town e country” che permetta un tour delle esperienze sociali, a livello sia regionale, ma
anche e soprattutto euro-regionale ed europeo4.
Va detto inoltre, che Borgo Fornasir fa già parte di un progetto Interreg che riunisce i
territori dell’agro aquileiese, del carso e della costa slovena, per lo sviluppo e la promozione
delle aree turistiche locali5, e in questo senso ritengo ancora più significativa l’idea di
costruire un “luogo” (come può essere il museo o una mostra permanente all’interno del
borgo stesso) dove poter dar luce all’idea utopica messa in opera in queste zone e in
definitiva per poter, in primo luogo, valorizzare e poi “vendere” ai curiosi il proprio passato.
La seconda strada che decido di intraprendere riguarda, come detto, un progetto
firmato da Elisabetta Fornasir, il cui studio ha riguardato la trasformazione dell’insediamento
in questione in un ecovillaggio. Ora, non voglio entrare nel merito del progetto e descrivere
nei dettagli gli interventi previsti (che mi sembrano molto interessanti) ma solamente
limitarmi a riflettere sull’idea proposta e sulle conseguenze che da essa muovono.
Un ecovillaggio, usando le parole di Elisabetta Fornasir, altro non è che “una
comunità di non ampie dimensioni, che si costituisce sulla convergenza di più volontà verso
precisi obiettivi, e costruisce la propria identità sulla condivisione di ideali di equità e di un
modello di sviluppo ecologicamente più sostenibile”6. Si tratta, in poche parole, di un
sistema insediativo che si basa sul rispetto e sulla sostenibilità ambientale e che ha nel
concetto di co-housing l’elemento fondante.
Nato in Danimarca negli anni ’60, questo modello di convivenza partecipata è
caratterizzato dalla compresenza, in un insediamento di dimensioni limitate, di ambienti
privati e spazi comuni. Accanto alle abitazioni private, infatti, viene creata tutta una serie di
servizi di uso comune gestiti dagli stessi abitanti e a disposizione solo di essi, quali possono
essere cucine, laboratori artigianali, palestre, biblioteche, spazi giochi per bambini ed altro.
Molto diffuso in Europa e negli Stati Uniti (presenti anche in Italia, anche se in
maniera più limitata), il co-housing costituisce un’effettiva realtà dalle fattezze concrete, ma
4 Questo è quanto viene proposto anche da Delli Zotti nello studio del caso di Cave del Predil, con la
proposta di creare un Parco minerario, o un Museo della Miniera, per ridare vitalità all’insediamento montano 5 Il progetto prende il nome di Terre di Aquileia ed è visitabile all’indirizzo web www.terrediaquileia.it
6 Fornasir (2006), Un ecovillaggio nel Borgo Fornasir di Cervignano, pag. 3
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può benissimo essere interpretato come un modello utopico a tutti gli effetti. Pone come
fine ultimo e come ragion d’essere la creazione di una società alternativa, che mette in crisi
l’attuale idea di modernità e di convivenza, che sconfigge l’isolamento e la solitudine
caratteristici delle grandi città. Come nel caso dei villaggi operai ottocenteschi, in questo
modo viene riproposta la creazione di un Uomo nuovo, che necessita di nuovi spazi e servizi
aggiornati, cioè adeguati ai nuovi bisogni richiesti dal vivere. Un uomo forgiato su nuove
basi, con uno stile di vita sostenibile e solidale.
Questa seconda strada, dunque, propone la creazione di una nuova utopia da
sovrapporre a quella precedente, che possa ridar vita e colore al Borgo e superare lo stato di
affanno che attualmente lo caratterizza. Dall’utopia della company town/country si passa
alla creazione di un insediamento co-housing. Con le dovute differenze, entrambi i modelli
sono fondati sul vivere sociale, sono portatori di benessere e generano una tipologia di
ricchezza che difficilmente è quantificabile in termini economici. Rappresentano, in
definitiva, la risposta illuminata ai problemi della società circostante e sembrano posti su una
linea continua, che li lega e li rende conseguenti: due tappe intermedie di un medesimo
percorso che porta verso un miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo. Questo non è
del tutto vero se si considerano le caratteristiche stesse che delineano un modello utopico.
Non ci può essere continuità essenzialmente per il fatto che un’utopia è, per definizione,
statica, non può modificarsi od essere modificata perché perfetta (o almeno considerata
tale). È infatti necessaria la morte del primo modello per permettere la nascita del secondo,
e questo non può avvenire per cambiamenti lineari ma bensì per scarti.
Una grande differenza è significativa e denota il cambiamento, sia storico
(circostante) che del modello stesso: dalla gestione gerarchica dei primi modelli
ottocenteschi si è passati ad un tipo di organizzazione basato essenzialmente sulla
cooperazione. È avvenuta cioè la trasformazione (auspicato in conclusione del Cap. 8) che
permette un evoluzione democratica dell’insediamento company. Non vi è più il
Padrone/Capitano d’azienda che controlla e decide la vita comunitaria. Si è giunti ad un
modello in cui, all’estremo, gli stessi abitanti decidono i propri vicini di casa (principio del
vicinato elettivo) e ogni scelta viene fatta in modo partecipato.
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Grazie alla creazione di una nuova utopia (che come visto è simile, ma in termini
evoluti) si ha la possibilità di riportare in vita Borgo Fornasir, rendendo così onore all’opera
dell’ingegnere e, allo stesso tempo, non fossilizzando le sue azioni ma bensì attualizzandole.
Dunque, senza tradire la volontà originaria e l’idea che ha generato tale esperienza.
In conclusione, a mio parere, il modo migliore per rendere omaggio alla grandezza di
Dante Fornasir, facendo in modo che il suo progetto non vada dimenticato, è fornire di
nuova luce il borgo. Risulterebbe effimero e poco lungimirante limitarsi alla creazione di uno
“spazio della memoria”, un museo in cui ammirare le opere dell’ingegnere, utile ma
relativamente affascinante. Il solo atto del ricordare non renderebbe, affatto, giustizia a
quanto ideato e creato in queste zone. Non potrà mai permettere una concreta e completa
conoscenza di ciò che è stato. Finché non verrà creata una nuova utopia, basata su modelli
teorici applicabili al mondo reale e portatori di risultati concreti, la storia e gli insegnamenti
di Borgo Fornasir non riusciranno ad essere compresi nella loro grandezza. Con il rischio di
ridurre il tutto ad un racconto verosimile, a cui si fa persino fatica a credere.
Se posso premettermi un’ultima considerazione al riguardo, da quanto appreso in
questi mesi di lavoro, dalle testimonianze e dalle diverse voci che ho sentito e con cui mi
sono confrontato, per le riflessioni che mi hanno accompagnato e le emozioni che si sono
susseguite, ho tratto una semplice conclusione: Dante Fornasir, nella costruzione di tutto ciò,
non voleva essere ricordato, ma bensì imitato e preso come esempio dalle generazioni
future.
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