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Aristotele: Etica Nicomachea p. 1/135 ARISTOTELE ETICA A NICOMACO

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Aristotele: Etica Nicomachea

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ARISTOTELE

ETICA A NICOMACO

Aristotele: Etica Nicomachea

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Indice

Introduzione all’operaLibro ILibro IILibro IIILibro IVLibro VLibro VILibro VIILibri VIII e IXLibro X

Libro I1. [Il bene è lo scopo]2. [Il bene per l’uomo è l’oggetto della politica]3. [Limiti metodologici della scienza politica]4. [Il fine della politica è la felicità]5. [I tre principali tipi di vita]6. [Critica della concezione platonica del bene]7. [La felicità sta nell’esercizio della funzione specifica dell’uomo: la razionalità]8. [La felicità implica, oltre alla virtù, anche beni esteriori]9. [Come si acquista la felicità?]10. [La virtù autentica, e quindi la felicità, dura fino alla morte]11. [Il defunto non è toccato, sostanzialmente, né dal bene né dal male dei discendenti]12. [La felicità è degna d’onore, come realtà assoluta e divina]13. [L’anima umana e la distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche]

Libro II1. [La virtù ha per presupposto l’abitudine]2. [Bisogna agire in modo da evitare sia l’eccesso sia il difetto]3. [Relazione del piacere e del dolore con la virtù]4. [Condizioni dell’azione morale]5. [Le virtù sono disposizioni dell’anima]6. [Le virtù sono disposizioni a scegliere il giusto mezzo]7. [Tavola delle virtù particolari]8. [Le opposizioni tra i vizi e le virtù]9. [Suggerimenti pratici]

Libro III1. [Gli atti umani sono volontari o involontari?]2. [La scelta]3. [La deliberazione]4. [La volontà]5. [Le virtù e i vizi sono volontari, e perciò implicano responsabilità]6. [II coraggio]7. [Bellezza morale del coraggio]8. [Cinque disposizioni impropriamente denominate coraggio]9. [Il coraggio: osservazioni conclusive]10. [La temperanza e l’intemperanza]11. [Temperanza, intemperanza e insensibilità]12. [Diverso grado di volontarietà dell’intemperanza e della viltà]

Libro IV1. [La liberalità]2. [La magnificenza]3. [La magnanimità]4. [Il giusto amore per gli onori]5. [La bonarietà]6. [L’affabilità]

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7. [La sincerità]8. [Il garbo]9. [Il pudore]

Libro V1. [La giustizia in generale]2. [La giustizia in senso stretto]3. [La giustizia distributiva]4. [La giustizia correttiva]5. [La giustizia come reciprocità. La moneta]6. [La giustizia nella società e nella famiglia]7. [La giustizia naturale e la giustizia positiva]8. [Ingiustizia e responsabilità]9. [È possibile subire ingiustizia volontariamente?]10. [L’equità]11. [È possibile commettere ingiustizia verso se stessi?]

Libro VI1. [La retta ragione. Le due parti dell’anima razionale]2. [Desiderio, intelletto, scelta]3. [La scienza]4. [L’arte]5. [La saggezza]6. [L’intelletto]7. [La sapienza. Differenza tra sapienza e saggezza]8. [Politica e saggezza come conoscenza del particolare]9. [L’attitudine a deliberare bene]10. [Il giudizio e la perspicacia]11. [La comprensione e l’indulgenza. Loro rapporto con l’intelletto]12. [Saggezza e sapienza. Loro utilità]13. [Riflessioni conclusive sulle virtù dianoetiche]

Libro VII1. [Vizio, incontinenza, bestialità]2. [Analisi e discussione delle opinioni correnti]3. [Soluzione delle aporie riguardanti l’incontinenza]4. [L’incontinenza: il suo ambito e le sue forme]5. [Incontinenza, bestialità e morbosità]6. [Incontinenza dell’impulsività e incontinenza dei desideri]7. [Intemperanza, incontinenza, mollezza]8. [L’intemperanza è peggiore dell’incontinenza]9. [Continenza, perseveranza, ostinazione]10. [Conclusioni su continenza e incontinenza]11. [Il piacere: teorie correnti]12. [Confutazione della teoria secondo cui il piacere non è un bene]13. [Piacere, bene, felicità]14. [Considerazioni conclusive sul piacere]

Libro VIII1. [Necessità dell’amicizia. Dottrine sull’amicizia]2. [I tre motivi dell’amicizia: bene, piacere, utilità]3. [Le tre specie dell’amicizia]4. [Confronto fra le tre specie di amicizia. Loro durata]5. [L’amicizia come disposizione e come attività. L’intimità]6. [L’amicizia perfetta e le altre forme di amicizia]7. [Amicizia tra superiore e inferiore, e viceversa]8. [Uguaglianza e disuguaglianza nell’amicizia]9. [Amicizia, giustizia e comunità politica]10. [Analogia tra costituzioni politiche e strutture familiari]11. [Costituzioni politiche, strutture familiari, e corrispondenti forme di amicizia]12. [I rapporti di amicizia tra parenti]13. [L’amicizia fondata sull’utilità]

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14. [L’amicizia fra disuguali]Libro IX

1. [II valore di scambio delle amicizie e nei contratti]2. [II dovere nei vari tipi di amicizia]3. [Rottura dell’amicizia]4. [I sentimenti dell’uomo verso se stesso e verso gli amici]5. [La benevolenza]6. [La concordia]7. [Benefattori e beneficati]8. [L’amore per se stessi]9. [Anche l’uomo felice ha bisogno di amici]10. [Il numero degli amici]11. [Gli amici sono desiderabili in tutte le circostanze]12. [L’amicizia è comunione di vita]

Libro X1. [Il piacere: teorie e fatti]2. [La teoria di Eudosso e la critica di Speusippo]3. [La teoria di Speusippo e sua confutazione]4. [La natura del piacere]5. [Le specie del piacere e il loro valore]6. [La felicità è un’attività fine a se stessa e conforme a virtù]7. [La felicità consiste soprattutto nell’attività contemplativa]8. [Assoluta superiorità della vita contemplativa]9. [Etica e politica]

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Introduzione all’operaL'opera, divisa in dieci libri, venne così intitolata perché fu il figlio di Aristotele, Nicomaco,a raccogliere e divulgare le lezioni tenute dal padre. Soprattutto nei libri V, VI e vi si notanofrequenti interpolazioni e manipolazioni dovute a discepoli del maestro e a successivicompilatori. L'opera fu pubblicata perla prima volta, insieme al corpus delle altre operearistoteliche, da Andronico di Rodi (50-60 a.C.).

Libro II primi due libri dell'Etica e capp. 1-6 del terzo sono dedicati a definire l'oggetto dellaricerca morale che è il bene dell'uomo, inteso non astrattamente, ma come il massimo deibeni che si può acquisire e realizzare attraverso l'azione. Per Aristotele l'etica è una scienzaeminentemente pratica e in essa il sapere deve essere finalizzato all'agire. In questo senso,radicale è la critica rivolta a Platone, che considera ontologicamente il bene come Ideasuprema e, come tale, inattingibile dall'uomo. E il sommo bene a cui ogni individuo tende èla felicità. Ciascuno, però, l'intende a suo modo: chi la ripone nel piacere e nel godimento;chi nella ricchezza; chi nell'onore, chi, invece, nella vita contemplativa. Ma il vero bene, econ esso la vera felicità è qualcosa di perfetto, termine ultimo a cui si richiamano tutte ledeterminazioni particolari: "Ciò che è sufficiente in se stesso è ciò che, pur essendo da solo,rende la vita sceglibile e non bisognosa di nulla; ora, una cosa di questo genere noiriteniamo che è la felicità", la quale consiste in "un'attività dell'anima razionale secondovirtù e, se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la perfetta".Dalla felicità l'indagine si sposta quindi alla virtù. Un'importante distinzione viene fatta,nell'ambito delle virtù umane, tra le virtù dianoetiche, che sono proprie della parteintellettuale dell'anima, e le virtù etiche che corrispondono alla parte appetitiva dell'anima,in quanto guidata dalla ragione.

Libro IINel secondo libro Aristotele si sofferma a esaminare la natura di tali virtù: esse le virtùsono del carattere e derivano dall'abitudine, da cui hanno tratto anche il nome e non sipossiedono per natura, anche se per natura l'uomo ha la capacità di acquisirle, e sideterminano soltanto in base ad una serie azioni di una certa qualità; esse consistono nella"disposizione a scegliere il "giusto mezzo" adeguato alla nostra natura, quale è determinatodalla ragione, e quale potrebbe determinarlo il saggio". Il giusto mezzo si trova tra dueestremi, di cui uno è vizioso per eccesso e l'altro per difetto, cosicché, nel passare adenumerare le singole virtù Aristotele considera:

* il coraggio come giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà,* la temperanza come giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità,* la liberalità come giusto mezzo tra avarizia e prodigalità,* la magnanimità come giusto mezzo tra la vanità e l'umiltà,* la mansuetudine come giusto mezzo tra l'irascibilità e l'indolenza.* La virtù principale, comunque, è la giustizia a cui sarà dedicato l'intero quinto libro.

Libro IIIIl terzo libro concerne l’atto pratico, al fine di definire la volontarietà e l'involontarietàdell'azione: "Poiché involontario è ciò che si compie per costrizione e per ignoranza, siconverrà che volontario è ciò il cui principio risiede nel soggetto, il quale conosce lecondizioni particolari in cui si svolge l'azione". E' chiaro, quindi, come per Aristotele la

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virtù e la malvagità dipendono soltanto dall'individuo, il quale è libero di scegliere inquanto "è il principio e il padre dei suoi atti come dei suoi figli".

Libro IVIl libro quarto è dedicato all'esame di particolari virtù etiche, già enumerate nel secondolibro.

Libro VIl libro quinto tratta della giustizia, la virtù intera e perfetta: "La giustizia è la virtù piùefficace, e né la stella della sera, né quella del mattino sono cosi meravigliose, e citando ilproverbio diciamo: Nella giustizia ogni virtù si raccoglie in una sola. Ed è una virtù perfettaal più alto grado perché chi la possiede è in grado di usare la virtù anche verso gli altri enon soltanto verso se stesso". Esiste una giustizia distributiva a cui compete di dispensareonori o altri beni agli appartenenti alla stessa comunità secondo i meriti di ciascuno, edessa è simile ad una proposizione geometrica in quanto le ricompense e gli onori distribuitia due individui stanno in rapporto tra di loro, come i rispettivi meriti di costoro. Esiste poiuna giustizia correttiva simile ad una proposizione aritmetica, il cui compito è dipareggiare i vantaggi e gli svantaggi nei rapporti contrattuali tra gli uomini sia volontariche involontari. Sulla giustizia è fondato, inoltre, il diritto che Aristotele distingue in dirittoprivato e diritto pubblico, a sua volta distinto in diritto legittimo, che è quello fissato dalleleggi vigenti nei vari stati, e in diritto naturale, che è il migliore in quanto è "ciò che ha lastessa forza dappertutto ed è indipendente dalla diversità delle opinioni". Viene, poi,definita l'equità, la cui natura "è la rettificazione della legge là dove si rivela insufficienteper il suo carattere universale"; cosicché il giusto e l'equo sono la stessa cosa in quantol'equo è superiore non al giusto in sé, ma al giusto formulato dalla legge, che nella suauniversalità è soggetta all'errore.

Libro VIIl sesto libro contiene la trattazione delle virtù dianoetiche, che sono proprie dell'animarazionale. Esse sono la scienza, l'arte, la saggezza, l'intelligenza, la sapienza. La scienza è"una disposizione che dirige la dimostrazione" ed ha per oggetto ciò che non può esserediversamente da quello che è, vale a dire il necessario e l'eterno; l'arte è "una disposizioneaccompagnata da ragionamento vero che dirige il produrre" ed è diversa, pertanto, dalladisposizione che dirige l'agire, in cui consiste la saggezza, che è definita "come l'abitopratico razionale che concerne ciò che è bene o male per l'uomo" ed ha una naturamutevole al pari dell'uomo; l'intelligenza è un abito razionale che ha la facoltà di intuire iprincipi primi di tutte le scienze, nonché i "termini ultimi", i fini, cioè, a cui deveindirizzarsi l'azione, e insieme con la scienza costituisce la sapienza, che è il grado piùelevato e universale del sapere, in quanto è "insieme scienza e intelligenza delle cose piùalte per natura" e, come tale, è ben distinto dalla saggezza.

Libro VIIIl settimo libro tratta della temperanza e dell'intemperanza, della fermezza di carattere edella mollezza, e in ultimo, del piacere, definito "l'atto di un abito che è conforme anatura". In questo senso il piacere, come disposizione libera e costante, svincolata dallasensibilità, rappresenta il fondamento della felicità.

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Libri VIII e IXL'ottavo e il nono libro sono dedicati all'amicizia, che Aristotele considera "una cosa nonsoltanto necessaria, ma anche bella", in quanto "nessuno sceglierebbe di vivere senza alici,anche se fosse provvisto in abbondanza di tutti gli altri beni": "L'amicizia è una virtù os'accompagna alla virtù; inoltre essa è cosa assolutamente necessaria per la vita. Infattinessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni (e infattisembra che proprio i ricchi e coloro che posseggono cariche e poteri abbiano soprattuttobisogno di amici; infatti quale utilità vi è in questa prosperità, se è tolta la possibilità dibeneficare, la quale sorge ed è lodata soprattutto verso gli amici? O come essa potrebbeesser salvaguardata e conservata senza amici? Infatti quanto più essa è grande, tanto più èmalsicura). E si ritiene che gli amici siano il solo rifugio nella povertà e nelle altredisgrazie; e ai giovani l'amicizia è d'aiuto per non errare, ai vecchi per assistenza e per laloro insufficienza ad agire a causa della loro debolezza, a quelli che sono nel pieno delleforze per le belle azioni". Tre sono le specie dell'amicizia a seconda che sia fondata sulpiacere reciproco, sull'utile o sulla virtù: "Tre dunque sono le specie di amicizie, come tresono le specie di qualità suscettibili d'amicizia: e a ciascuna di esse corrisponde unricambio di amicizia non nascosto. E coloro che si amano reciprocamente si voglionoreciprocamente del bene, riguardo a ciò per cui si amano. Quelli dunque che si amanoreciprocamente a causa dell'utile non si amano per se stessi, bensì in quanto deriva lororeciprocamente un qualche bene; similmente anche quelli che si amano a causa delpiacere. (...) L'amicizia perfetta è quella dei buoni e dei simili nella virtù. Costoro infatti sivogliono bene reciprocamente in quanto sono buoni, e sono buoni di per sé; e coloro chevogliono bene agli amici proprio per gli amici stessi sono gli autentici amici (infatti essisono tali di per se stessi e non accidentalmente); quindi la loro amicizia dura finché essisono buoni, e la virtù è qualcosa di stabile; e ciascuno è buono sia in senso assoluto sia perl'amico. Infatti i buoni sono sia buoni in senso assoluto, sia utili reciprocamente". Mentrequella fondata sul piacere e sull'utile si rivela accidentale e cessa quando il piacere o l'utilevengono meno, quella invece fondata sulla virtù è perfetta ed è la più stabile ferma. Ci sonopoi tante specie di amicizia quante sono le comunità organizzate della società civile; ma inultima istanza è nella comunità politica, che ha per fine l'utile comune, che devono essereindividuate le condizioni più generali dell'amicizia. E per ogni tipo di configurazioneistituzionale si hanno forme diverse di amicizia. Aristotele si sofferma qui ad indagare suidiversi gradi di amicizia e di giustizia che si realizzano nella varie costituzioni, rette edegeneri, concludendo che "a poca si ridicono le amicizie e il giusto nelle tirannidi, mentrenelle democrazie la loro importanza è grande, giacché molte sono le cose comuni a coloroche sono uguali". L'indagine si sposta poi all'interno delle comunità domestiche peranalizzare i vari rapporti tra i componenti del nucleo familiare, stabilendo dei nessi tra taliamicizie e quelle contratte nelle varie comunità politiche.

Libro XL'ultimo libro completa la determinazione della felicità e definisce in che cosa consista ilsommo bene. Se la felicità è fondata sull'agire secondo virtù e se si considera che le virtùdianoetiche sono superiori a quelle etiche e, in particolare, che la virtù più alta è quellateoretica, che culmina nella sapienza, cioè nella vita contemplativa. La contemplazione,infatti, è l'attività più elevata in quanto è attività dell'intelletto; è l'attività più continua eche dà più piacere, perché i piaceri della filosofia sono i più intensi e i più sicuri; è l'attivitàpiù autosufficiente perché il sapere basta a se stesso e nulla deve ricercare fuori di sé percoltivare al sua sapienza; è l'attività che si ama in se stessa, perché ha in sé, nellacontemplazione, il suo fine unico. Infine è l’attività svolta da Dio stesso, che è "pensiero dipensiero" e che pensa senza soluzione di continuità: nella misura in cui esercita il pensiero– che è la caratteristica che rende l’uomo veramente tale -, l’uomo partecipa della vitadivina; tuttavia, in quanto essere naturale, l’uomo non può esercitare senza interruzione

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l’attività contemplativa, giacché deve sopperire ai bisogni fisici che la natura gli impone (ilsoddisfacimento della fame, della sete, ecc).

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Libro I

1. [Il bene è lo scopo].

[1094a] Si ammette generalmente che ogni tecnica praticata metodicamente, e,ugualmente, ogni azione realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò aragione si è affermato che il bene è "ciò cui ogni cosa tende". Ma tra i fini c’è un’evidentedifferenza: alcuni infatti sono attività, altri sono opere che da esse derivano. [5] Quando cisono dei fini al di là delle azioni, le opere sono per natura di maggior valore delle attività. Epoiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche i fini: infatti, mentre dellamedicina il fine è la salute, dell’arte di costruire navi il fine è la nave, della strategia lavittoria, dell’economia la ricchezza. [10] Tutte le attività di questo tipo sono subordinate adun’unica, determinata capacità: come la fabbricazione delle briglie e di tutti gli altristrumenti che servono per i cavalli è subordinata all’equitazione, e quest’ultima e ogniazione militare sono subordinate alla strategia, così allo stesso modo, altre attività sonosubordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività architettoniche [15] sonoda anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di queste ultime infatti sono perseguiti invista di quei primi. E non c’è alcuna differenza se i fini delle azioni sono le attività in sé,oppure qualche altra cosa al di là di esse, come nel caso delle scienze suddette.

2. [Il bene per l’uomo è l’oggetto della politica].

Orbene, se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per se stesso, mentrevogliamo tutti gli altri in funzione di quello, e se noi non [20] scegliamo ogni cosa in vistadi un’altra (così infatti si procederebbe all’infinito, cosicché la nostra tensione resterebbepriva di contenuto e di utilità), è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il benesupremo. E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un grandepeso, e che noi, se, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado diraggiungere ciò che dobbiamo? Se è [25] così, bisogna cercare di determinare, almeno inabbozzo, che cosa mai esso sia e di quale delle scienze o delle capacità sia l’oggetto. Siammetterà che appartiene alla scienza più importante, cioè a quella che è architettonica inmassimo grado. Tale è, manifestamente, la politica. Infatti, è questa che stabilisce qualiscienze è necessario coltivare nelle città, [1094b] e quali ciascuna classe di cittadini deveapprendere, e fino a che punto; e vediamo che anche le più apprezzate capacità, come, peresempio, la strategia, l’economia, la retorica, sono subordinate ad essa. E poiché è essa chesi serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, [5] inoltre, per legge che cosa si deve fare, eda quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché saràquesto il bene per l’uomo. Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città,è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardarequello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, [10]ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città. La nostra ricerca miraappunto a questo, dal momento che è una ricerca "politica".

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3. [Limiti metodologici della scienza politica].

La trattazione sarà adeguata, se avrà tutta la chiarezza compatibile con la materia che ne èl’oggetto: non bisogna infatti ricercare la medesima precisione in tutte le opere di pensiero,così come non si deve ricercarla in tutte le opere manuali. Il moralmente bello e il giusto,[15] su cui verte la politica, presentano tante differenze e fluttuazioni, che è diffusal’opinione che essi esistano solo per convenzione, e non per natura. Una tale fluttuazionehanno anche i beni, per il fatto che per molta gente essi vengono ad essere causa di danno:infatti, è già capitato che alcuni siano stati rovinati dalla ricchezza, altri dal coraggio.Bisogna contentarsi, quando si parla di tali argomenti [20] con tali premesse, di mostrarela verità in maniera grossolana e approssimativa, e, quando si parla di cose solo per lo piùcostanti e si parte da premesse dello stesso genere, di trarne conclusioni dello stesso tipo.Allo stesso modo, quindi, è necessario che sia accolto ciascuno dei concetti qui espressi: èproprio dell’uomo colto, infatti, richiedere in ciascun campo tanta precisione [25] quantane permette la natura dell’oggetto, giacché è manifesto che sarebbe pressappoco la stessacosa accettare che un matematico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiederedimostrazioni da un oratore. Ciascuno giudica bene ciò che conosce, e solo di questo èbuon giudice. [1095a] Dunque, in ciascun campo giudica adeguatamente chi ha unapreparazione specifica, ma è buon giudice in generale chi ha una preparazione globale.Perciò il giovane non è uditore adatto di una trattazione politica, giacché egli non haesperienza delle azioni concretamente vissute, mentre è da queste che partono ed è suqueste che vertono i presenti ragionamenti. Inoltre, essendo incline alle passioni, egli [5]ascolterà invano, cioè senza trarne giovamento, poiché il fine qui non è la conoscenza mal’azione. Non fa alcuna differenza se egli è giovane per età o simile ad un giovane percarattere: la insufficienza non deriva dal tempo, ma dal vivere assecondando la passione edal lasciarsi trascinare da qualsiasi tipo di attrazione. Per uomini simili la conoscenzarisulta inutile, come per gli incontinenti; [10] per coloro invece che configuranorazionalmente i propri desideri e le proprie azioni, la conoscenza di queste cose potràessere ricca di vantaggi. Si consideri come introduzione ciò che abbiamo detto sull’uditore,sul come deve essere accolto ciò che diremo e su ciò che ci proponiamo di dire.

4. [Il fine della politica è la felicità].

Riprendendo il discorso, poiché ogni conoscenza ed ogni scelta [15] aspirano ad un bene,diciamo ora che cos’è, secondo noi, ciò cui tende la politica, cioè qual è il più alto di tutti ibeni raggiungibili mediante l’azione. Orbene, quanto al nome la maggioranza degli uominiè pressoché d’accordo: sia la massa sia le persone distinte lo chiamano "felicità", eritengono che "viver bene" e "riuscire" esprimano la stessa cosa [20] che "essere felici". Masu che cosa sia la felicità sono in disaccordo, e la massa non la definisce allo stesso mododei sapienti. Infatti, alcuni pensano che sia qualcosa di visibile e appariscente, comepiacere o ricchezza o onore, altri altra cosa; anzi spesso è il medesimo uomo che l’intendediversamente: quando è ammalato, infatti, l’intende come salute; come ricchezza quando sitrova povero. [25] Ma coloro che sono consapevoli della propria ignoranza ammiranoquelli che fanno discorsi elevati ed a loro superiori. Alcuni, poi, ritengono che oltre a questimolteplici beni ne esista un altro, il Bene in sé, che è pure la causa per cui tutti questi benisono tali. Orbene, esaminare tutte le opinioni sarebbe, certo, piuttosto inutile; saràsufficiente esaminare [30] quelle prevalenti o quelle che comunemente si ritiene chepresentino qualche particolare aporia. E non ci sfugga che c’è differenza tra i ragionamentiche partono dai principi e quelli che ad essi conducono. In effetti, anche Platone facevabene a porre questa questione e a cercar di capire se la strada parte dai principi o ad essi

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conduce, come nello [1095b] stadio se il percorso va dai giudici di gara fino alla meta,oppure viceversa. Bisogna infatti cominciare da ciò che è noto. Ma "noto" si dice in duesensi: ciò che è noto a noi e ciò che è noto in senso assoluto. Orbene, senza dubbio, noidobbiamo cominciare da ciò che è noto a noi. Perciò occorre che sia stato rettamenteeducato, mediante adeguate abitudini, colui [5] che intende ascoltare con profitto lezionisul moralmente bello e sul giusto, cioè, in breve, sull’oggetto della politica. Infatti, il puntodi partenza è il dato di fatto, e, se questo è messo in luce con sufficiente chiarezza, non cisarà alcun bisogno del perché: chi è moralmente educato possiede i principi o li puòafferrare facilmente. Ma chi non li possiede, né può afferrarli, ascolti le parole di Esiodo:[10]

"L’uomo assolutamente migliore è colui che tutto pensa da sé;buono è pure quello che presta fede a chi ben lo consiglia:ma chi non è in grado di pensare da sé, né ciò che sente da un altrosa accogliere nel suo spirito, è un buon a nulla".

5. [I tre principali tipi di vita].

Ma riprendiamo dal punto in cui abbiamo iniziato la digressione. Infatti, [15] si pensa, nona torto, che gli uomini ricavino dal loro modo di vivere la loro concezione del bene e dellafelicità. Gli uomini della massa, i più rozzi, l’identificano con il piacere e per questo amanola vita di godimento. Sono tre, infatti, i principali tipi di vita: quello or ora menzionato, lavita politica, e, terzo, la vita contemplativa. Orbene, gli uomini della massa [20] si rivelanoveri e propri schiavi, scegliendosi una vita da bestie, e pur capita che se ne parli per il fattoche molti individui altolocati hanno le stesse passioni di Sardanapalo. Le persone distinte epredisposte all’azione pongono il bene nell’onore: questo infatti, più o meno, è il fine dellavita politica. Ma questo è evidentemente qualcosa di troppo superficiale rispetto a ciò chestiamo cercando: si riconosce infatti [25] che esso stia più in chi onora che in chi è onorato,mentre il bene, lo presentiamo, è qualcosa di intimamente proprio e di inalienabile.Inoltre, sembra che gli uomini aspirino all’onore per poter credere di essere essi stessibuoni: di fatto, cercano di essere onorati da uomini di senno, e da uomini da cui sonoconosciuti, e in grazia della virtù: è dunque evidente che, almeno per loro, [30] la virtù èsuperiore; e si farebbe presto a pensare che è piuttosto la virtù il fine della vita politica. Maanch’essa è troppo imperfetta: si ammette, infatti, che sia possibile che chi possiede la virtùsi trovi in stato di sonno o di inattività per tutta la vita, e che per giunta patisca [1096a] ipiù grandi mali e le più grandi disgrazie: ma nessuno chiamerebbe felice uno che vivesse inquesto modo, se non per difendere, ad ogni costo la propria tesi. E su questo argomentobasta: se ne è parlato abbastanza nelle trattazioni correnti. [5] Il terzo tipo di vita è quellocontemplativo, sul quale svolgeremo la nostra indagine in seguito. La vita dedicata allaricerca del guadagno, poi, è di un genere contro natura, ed è chiaro che non è la ricchezza ilbene da noi cercato: essa, infatti, ha valore solo in quanto "utile", cioè in funzione di altro.

Perciò sarà meglio considerare come beni quelli menzionati prima, giacché sono amati perse stessi. Ma è manifesto che non sono fini ultimi neppure quelli: per la verità, molteargomentazioni [10] sono già state diffuse contro di loro. Lasciamo perdere, dunque, questifini.

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6. [Critica della concezione platonica del bene].

Forse è meglio fare oggetto d’indagine il bene universale e discutere a fondo qualesignificato abbia, anche se tale ricerca è sgradevole per il fatto che sono amici nostri gliuomini che hanno introdotto la dottrina delle Idee. Ma si può certamente ritenere piùopportuno, anzi doveroso, almeno per la salvaguardia della [15] verità, lasciar perdere isentimenti personali, soprattutto quando si è filosofi: infatti, pur essendoci cari entrambi, èsacro dovere onorare di più la verità. (1) Coloro che hanno introdotto questa dottrina nonponevano Idee nelle cose in cui ponevano il rapporto di successione, ragion per cui noncostruirono un’Idea neppure dei numeri. Ma il termine "bene" si usa sia [20] nel sensodella sostanza, sia in quello della qualità, sia in quello della relazione, e ciò che è per sé,cioè la sostanza, è per natura anteriore a ciò che è relativo (infatti questo è ritenutoaccessorio e accidentale rispetto all’essere per sé); cosicché non ci potrà essere alcuna"Idea" comune a queste categorie. (2) Inoltre, poiché "bene" ha tanti significati quanti neha "essere" (infatti, si predica nella categoria della sostanza, come, per esempio, Dio [25] eintelletto; in quella della qualità: le virtù; in quella della quantità: la misura; in quella dellarelazione: l’utile; in quella del tempo: il momento opportuno; in quella del luogo:l’ambiente adatto; e così via), è chiaro che non può essere un che di comune, universale eduno: non sarebbe, infatti, predicabile in tutte le categorie, ma solo in una. (3) Inoltre,poiché di ciò che è [30] conforme ad una sola Idea una sola è anche la scienza, anche ditutti i beni vi dovrebbe essere una scienza sola; ora, invece, anche delle cose che sonosussumibili sotto una sola categoria vi sono molte scienze: per esempio, scienza delmomento opportuno in guerra è la strategia, nella malattia è la medicina, e scienza dellagiusta misura in fatto di alimentazione è la medicina, in fatto di esercizi fisici è laginnastica. (4) Si potrebbe porre la questione di che cosa [35] mai essi vogliano dire con"cosa in sé", dal momento che in "uomo in sé" [1096b] e in "uomo" uno e identico è ilsignificato, quello di uomo. Infatti, in quanto entrambe le espressioni indicano l’uomo, nonc’è alcuna differenza tra di loro: se è così, non ci sarà differenza neppure nel caso del bene.(5) Ma neppure per il fatto di essere eterno il "Bene in sé" sarà certo più bene, se è vero cheneppure il bianco che dura a lungo è più bianco di quello che dura [5] un sol giorno. Inmodo più persuasivo sembrano esprimersi sul bene i Pitagorici, che pongono nella lista deibeni l’uno: per conseguenza, si ritiene che siano loro quelli che segue anche Speusippo. Maa questi argomenti si dedicherà un’altra trattazione. (6) Un’obiezione, poi, alle cose dettesorge dal fatto che i ragionamenti espressi dai Platonici non riguardano ogni bene, [10]bensì i beni di una sola specie, quelli che sono perseguiti e amati per se stessi, mentrequelli che li producono o in qualche modo li custodiscono ovvero li preservano dai contrari,sono chiamati beni a causa di questi, e in un senso secondario. È dunque chiaro che si puòparlare di beni in due sensi diversi: da una parte i beni per se stessi, dall’altra quelli chesono beni sul fondamento dei precedenti. Dopo aver distinto, [15] dunque, dai benistrumentali i beni per sé, cerchiamo di scoprire se questi ultimi vengono chiamati beniperché sono conformi ad una sola Idea. Con quali determinazioni bisognerà porre i beniper sé? Forse sono tali tutte quelle cose che sono perseguite anche da sole, come l’aversenno e il vedere, e certi piaceri e certi onori? Questi infatti anche se li perseguiamo in vistadi qualcos’altro, tuttavia si potrebbero porre tra i beni per sé. Oppure non [20] vi possiamoporre nient’altro se non l’Idea? In tal caso la Forma sarà vuota. Ma se invece anche questecose appartengono ai beni in sé, la definizione di bene dovrà rivelarsi identica in tutte loro,come la definizione di bianco nella neve e nella biacca. Eppure dell’onore, della saggezza edel piacere le definizioni sono diverse e differenti proprio in quanto sono beni. [25]Dunque il bene non sarà qualcosa di comune in conformità con una sola Idea. Ma allora inche senso si predica? Infatti non sembra appartenere alle cose che, per caso, almeno, sonoomonime. Ma forse i beni hanno lo stesso nome in quanto derivano da una sola realtà operché tendono ad un unico bene, o piuttosto per analogia? Come infatti la vista è bene nelcorpo, così l’intelletto è bene nell’anima, e un’altra cosa è bene in un’altra realtà. [30] Ma

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forse è meglio lasciar da parte questo problema per ora, giacché il suo esame rigoroso è piùappropriato ad un’altra parte della filosofia. Lo stesso vale anche per l’Idea del bene: sepure infatti il bene predicato in comune fosse una realtà unica o qualcosa che esisteseparatamente di per sé, è chiaro che l’uomo non potrebbe né realizzarlo nell’azione néacquisirlo: ma ora [35] si sta cercando proprio questo tipo di bene. Forse si potrebbeopinare che sia meglio conoscere [1097a] il Bene in sé proprio in funzione dei beni chepossono essere acquisiti e realizzati nell’azione: infatti, tenendo questo come modello,conosceremo meglio anche i beni per noi, e se li conosceremo, li conseguiremo. Questoargomento ha certo una qualche plausibilità, ma sembra essere in dissonanza con ilcomportamento delle scienze: [5] infatti, pur tendendo tutte ad un qualche bene e purcercando ciò che ad esse manca, tralasciano la conoscenza del Bene in sé. Eppure non èragionevole che tutti coloro che esercitano un’arte ignorino e non ricerchino un similesussidio. D’altra parte è difficile vedere anche quale giovamento possa un tessitore o uncarpentiere trarre per la propria arte dalla conoscenza di questo Bene in sé, [10] o comepotrà diventare migliore medico o generale migliore chi avrà contemplato l’Idea in sestessa. È manifesto, infatti, che il medico non ha di mira la salute in sé, bensì quelladell’uomo, anzi, meglio, la salute di un uomo determinato, giacché è l’individuo che eglicura. E su questo argomento basti quanto si è detto fin qui.

7. [La felicità sta nell’esercizio della funzione specifica dell’uomo: la raziona-lità].

[15] Ma torniamo di nuovo al bene che stavamo cercando: che cos’è? È manifesto, infatti,che esso è diverso in un’azione e in un’arte diversa: è diverso nella medicina e nellastrategia, come pure nelle altre arti. Che cosa è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciòin vista di cui si fa tutto il resto? E ciò in medicina è la salute, in strategia [20] la vittoria, inarchitettura la casa, una cosa in un’arte, un’altra in un’altra arte, ma in ogni azione e inogni scelta è il fine: è in vista di questo che tutti fanno il resto. Cosicché, se c’è una cosa cheè il fine di tutte le azioni che si compiono, questa sarà il bene realizzabile praticamente; sevi sono più fini, saranno essi il bene.

Pur procedendo per altra via il ragionamento è giunto allo stesso punto: [25] ma dobbiamocercare di chiarirlo ancora meglio. Poiché i fini sono manifestamente molti, e poiché noi nescegliamo alcuni in vista di altri (per esempio, la ricchezza, i flauti e in genere glistrumenti), è chiaro che non sono tutti perfetti: ma il Bene supremo è, manifestamente, unche di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è perfetta, questa deveessere il bene che stiamo cercando, [30] ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta diesse. Diciamo, poi, "più perfetto" ciò che è perseguito per se stesso in confronto con ciò cheè perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quellecose che sono scelte sia per se stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assolutociò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di tale natura è, come comunemente siammette, la felicità, [1097b] perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista dialtro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se stessi(sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient’altro), ma liscegliamo anche in vista della felicità, [5] perché è per loro mezzo che pensiamo di diventarfelici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista dialtro.

È manifesto che anche partendo dal punto di vista dell’autosufficienza si giunge allo stessorisultato: si ritiene infatti che il Bene perfetto sia autosufficiente. Ma intendiamol’autosufficienza non in relazione ad un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduceuna vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori, [10] ai figli, alla moglie e, in generale,

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agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive incomunità. A queste persone poi deve essere posto un limite. Se si estende questaconsiderazione agli antenati e ai discendenti e agli amici degli amici, si procede all’infinito.Ma questo va considerato in seguito. Per ora definiamo l’autosufficienza come ciò che,anche preso singolarmente, [15] rende la vita degna di essere scelta, senza che le manchialcunché. Di tale natura noi pensiamo che sia la felicità. Inoltre pensiamo che la felicità siail più degno di scelta tra tutti i beni, senza aggiunte (se fosse così, è chiaro che sarebbe piùdegna di scelta solo insieme con un altro bene, anche il più piccolo); infatti, quello che lefosse aggiunto sarebbe un sovrappiù di bene, e di due beni quello più grande è sempre piùdegno di scelta. [20] Per conseguenza la felicità è, manifestamente, qualcosa di perfetto eautosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute.

Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cuic’è completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo piùchiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione [25] dell’uomo.Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un’arte, e in generaleper tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, siritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebberitenere che sia anche per l’uomo, se pur c’è una sua funzione propria. Forse, dunque, cisono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, [30] mentre non ce n’èalcuna propria dell’uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c’è,manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere diciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista unadeterminata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questafunzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si stacercando ciò che è proprio dell’uomo. [1098a] Bisogna dunque escludere la vita che siriduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente,comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa comeun certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale inquanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra [5] lo è in quanto possiede la ragione, cioèpensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perchéè essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell’animadell’uomo l’attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo chenell’ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo divalore, come del citaredo e [10] del citaredo di valore, questo vale, dunque, in sensoassoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l’eccellenza dovuta allavirtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene.Se è così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appuntoquesta attività dell’anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propriadell’uomo di valore attuarle bene [15] e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiutaperfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria); se è così, il bene dell’uomo consistein un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo lamigliore e la più perfetta.

Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né unsol giorno: così [20] un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice. Il bene,dunque, resti delineato in questo modo: è certo infatti che bisogna prima buttar giù unabbozzo e poi, in seguito, svilupparlo. Si può ritenere che chiunque è in grado di portareavanti e di delineare nei particolari gli elementi che si trovano bene impostati nell’abbozzo,e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto; di qui sono derivati anche[25] i progressi delle arti: chiunque infatti può aggiungere ciò che manca. Bisognaricordarsi anche di quello che si è già detto, cioè di non cercare la precisione allo stessomodo in tutte le cose, ma di cercarla in ciascun caso particolare secondo la materia che ne è

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il soggetto e per quel tanto che è proprio di quella determinata ricerca. Infatti, il falegnamee il geometra [30] ricercano entrambi l’angolo retto, ma in maniera diversa: il primo loricerca per quel tanto che è utile alla sua opera, il secondo ne ricerca l’essenza o ladifferenza specifica, poiché è un uomo che contempla la verità. Alla stessa maniera bisognaprocedere anche negli altri casi, affinché gli elementi accessori non soverchino l’operaprincipale. E non bisogna ricercare [1098b] la causa in tutte le cose in modo uguale, ma inalcune è sufficiente che venga messo adeguatamente in luce il fatto, come, per esempio,anche nel caso dei principi: il dato di fatto è un che di originario, cioè è un principio. Alcunidei principi si giunge a vederli per induzione, altri per sensazione, altri mediante unaspecie di abitudine, altri ancora diversamente. [5] Bisogna, dunque, sforzarsi di tenerdietro a ciascun tipo di principio in conformità con la sua natura, e impegnarsi a definirloadeguatamente. I principi, infatti, hanno un gran peso sugli sviluppi successivi: si ammettecomunemente che il principio costituisce più che la metà del tutto, cioè che per suo mezzodiventano chiare molte delle cose che si vanno cercando.

8. [La felicità implica, oltre alla virtù, anche beni esteriori].

Dobbiamo dunque indagare sul principio non solo sulla base di una conclusione logica [10]dedotta da premesse, bensì partendo anche da ciò che su di esso comunemente si dice:tutti i fatti sono in armonia con la verità, e la verità mostra presto la sua discordanza colfalso. Poiché i beni sono stati divisi in tre gruppi, e poiché gli uni sono stati chiamati beniesteriori, gli altri beni dell’anima e beni del corpo, noi affermiamo che quelli dell’animasono beni nel senso più proprio [15] e nel grado più elevato, poniamo tra i beni dell’animale sue specifiche azioni e attività. Perciò la nostra affermazione sarà giusta, almeno se sisegue questa opinione, che è antica ed ha ricevuto il consenso dei filosofi. Ed è correttoanche dire che il fine è costituito da certe azioni e attività, poiché così esso viene a trovarsitra i beni dell’anima [20] e non tra quelli esteriori. S’accorda poi con la nostra definizionel’opinione che l’uomo felice è quello che vive bene ed ha successo: infatti la felicità è statadefinita, pressappoco, come una specie di vita buona e di successo. È manifesto che glielementi della felicità di cui si va in cerca si ritrovano tutti in quanto abbiamo detto. Infatti,alcuni ritengono che la felicità consista nella virtù, altri nella saggezza, altri in un certo tipodi sapienza; [25] per altri, poi, essa è o tutte queste cose insieme o una di queste in unionecol piacere, o comunque non senza piacere; altri, infine, vi aggiungono anche ladisponibilità di beni esteriori. Di alcune di queste opinioni ci sono sostenitori numerosi eantichi, di altre pochi ma famosi: è ragionevole pensare che né gli uni né gli altri sianocompletamente in errore, ma che essi colgano nel segno almeno in un punto, o anche nellamaggior parte dei punti. [30] La nostra definizione dunque è in accordo con coloro cheidentificano la felicità con la virtù o con una virtù particolare, poiché l’attività secondovirtù è propria di una determinata virtù. Certo non è piccola la differenza se si pensa che ilsommo bene consista in un possesso oppure in un uso, cioè in una disposizione oppure inuna attività. Può essere, infatti, che la disposizione ci sia, [1099a] ma non compia alcunbene, come in chi dorme o in qualche altro modo è inattivo; ma per l’attività ciò non èpossibile, giacché essa necessariamente agirà ed avrà successo. Come nelle Olimpiadi nonsono i più belli e i più forti ad essere incoronati, [5] ma quelli che partecipano alle gare(infatti i vincitori sono tra questi), così nella vita è giusto che conseguano ciò che è bello ebuono coloro che agiscono. La loro vita poi è per se stessa piacevole. Infatti il godere èproprio dell’anima, e per ciascuno è piacevole ciò di cui si dice che è amante: per esempio,un cavallo per l’amante dei cavalli, uno spettacolo [10] per l’amante degli spettacoli; allostesso modo le cose giuste per l’amante della giustizia, e, in genere, le azioni conformi allavirtù per l’amante della virtù. Insomma, per la massa degli uomini le cose piacevoli sono in

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conflitto perché non sono tali per natura, mentre per gli amanti del bello sono piacevoli lecose che per natura sono piacevoli: tali sono le azioni secondo virtù, cosicché esse sonopiacevoli sia per questi uomini sia [15] per se stesse. La vita di costoro, dunque, non habisogno del piacere come di qualcosa di accessorio, ma ha il piacere in se stessa. Oltre aquanto s’è detto, infatti, non è buono chi non compie con piacere le azioni buone: infattinessuno direbbe giusto chi non compie con piacere azioni giuste, né liberale [20] chi noncompie con piacere azioni liberali: lo stesso vale per le altre azioni buone. E se è così, leazioni secondo virtù saranno piacevoli per se stesse. Ma saranno di certo anche buone ebelle, e in massimo grado piacevoli buone e belle, se è vero che giudica bene di loro l’uomodi valore: ed egli giudica come abbiamo detto. Dunque, la felicità è insieme la cosa piùbuona, la più bella e la più piacevole, [25] qualità queste, che non devono essere separatecome fa l’iscrizione di Delo:

"La cosa più bella è la più grande giustizia;

la cosa più buona è la salute;

ma la cosa per natura più piacevole è raggiungere ciò che si desidera".

Infatti, tutte queste qualità appartengono alle migliori attività: e queste, [30] o una sola traloro, la migliore, noi diciamo essere la felicità. È manifesto tuttavia che essa ha bisogno, inpiù, dei beni esteriori, come abbiamo detto: è impossibile, infatti, o non è facile, compierele azioni belle se si è privi di risorse materiali. Infatti, molte azioni si compiono [1099b] permezzo degli amici, della ricchezza, del potere politico, come per mezzo di strumenti. Ecoloro che sono privi di alcuni di questi beni si trovano guastata la felicità: per esempio, semancano di nobiltà, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto felice chi èaffatto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali, o chi è solo e senza figli; [5] e certo lo è menoancora chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha vistimorire. Come dunque abbiamo detto, la felicità sembra aver bisogno anche di una simileprosperità esteriore; ragion per cui alcuni identificano la felicità con la fortuna, mentrealtri l’identificano con la virtù.

9. [Come si acquista la felicità?].

Di qui nasce anche la questione se la felicità si acquista mediante studio o perconsuetudine, o [10] con qualche altro tipo di esercizio, ovvero derivi da un dono divino oaddirittura dal caso. Se dunque c’è qualche altra cosa che sia dono degli dèi agli uomini, èragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande deibeni umani. Ma questo potrà essere argomento più appropriato di un’altra ricerca; d’altraparte è manifesto che, se [15] anche non è un dono inviato dagli dèi ma nasce dalla virtù eda un certo tipo di apprendimento o di esercizio, la felicità appartiene alle realtà più divine,giacché il premio ed il fine della virtù è, manifestamente, un bene altissimo, cioè una realtàdivina e beata. E si può dire che sia accessibile a molti: infatti, con un po’ di studio e diapplicazione, può appartenere a tutti coloro che non siano costituzionalmente inabili allavirtù. [20] Se è meglio essere felici in questo modo piuttosto che per caso, è ragionevoleammettere che (se è vero, come è vero, che le realtà secondo natura ricevono dalla naturastessa la maggior bellezza possibile) è così anche per le opere dell’arte e di ogni altra causa,e tanto più quanto migliore è la causa. Abbandonare al caso la cosa più grande e più bellasarebbe troppo sconveniente. [25] Ciò che andiamo cercando risulta chiaro anche dallanostra definizione di felicità: si è detto infatti che essa è un certo tipo di attività dell’anima

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conforme a virtù. Di tutti gli altri beni alcuni le appartengono di necessità, altri invecehanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti. E questo sarebbe inaccordo anche con quello che abbiamo detto all’inizio: abbiamo infatti posto come [30]sommo bene il fine della scienza politica, ed essa pone la sua massima cura nel formare inun certo modo i cittadini, cioè nel renderli buoni e impegnati a compere azioni belle. Ènaturale, dunque, che non diciamo felice né un bue né un cavallo né alcun altro animale:nessuno di loro, infatti, è [1100a] in grado di aver parte in una attività simile. E per questaragione neppure un bambino è felice, giacché non può ancora compiere nessuna di questeazioni a causa dell’età; e i bambini che chiamiamo felici sono tali nella speranza. La felicità,infatti, come abbiamo detto, richiede virtù perfetta [5] e vita compiuta, giacché nel corsodella vita si verificano molti cambiamenti e casi d’ogni genere, e può succedere che chigode della massima prosperità precipiti in grandi disgrazie nella vecchiaia, come siracconta di Priamo nei poemi troiani: ma chi è stato vittima di simili sventure ed è mortomiserevolmente, nessuno può chiamarlo felice.

10. [La virtù autentica, e quindi la felicità, dura fino alla morte].

[10] Dunque non potrà essere chiamato felice neppure un altro uomo, finché vive, e sidovrà attendere di vederne la fine, come vuole Solone? E se anche si deve accettare questaposizione, forse che un uomo sarà felice solo quando sarà morto? O non è questaaffermazione affatto assurda, soprattutto per noi che diciamo che la felicità è un’attività? Ese, d’altra parte, non diciamo che è [15] felice chi è morto, e se non è questo che Solonevuol dire, ma che si può con sicurezza ritenere felice un uomo solo quando egli è ormaifuori dai mali e dalle disgrazie, anche questa posizione presenta un motivo di discussione.È infatti opinione corrente che anche per il morto ci siano male e bene, come per il vivo chenon [20] ne abbia coscienza: per esempio, onore e disonore e successi e disgrazie dei figlied in genere dei discendenti. Ma anche questo porta con sé una difficoltà: a chi è vissutofelicemente fino alla vecchiaia ed è altrettanto felicemente morto possono ancora capitaremolti cambiamenti relativi ai discendenti, alcuni dei quali possono [25] essere buoni edavere in sorte la vita che così si meritano, ad altri invece può succedere il contrario. Èchiaro che i discendenti, nel susseguirsi delle generazioni, possono anche essere quantomai diversi rispetto ai progenitori. Certo sarebbe assurdo che cambiasse insieme con loroanche il morto e divenisse ora felice, ed ora di nuovo miserevole; ma assurdo sarebbeanche [30] che la sorte dei discendenti non toccasse mai, neppure per un istante, iprogenitori. Ma dobbiamo ritornare al problema precedente: infatti, sulla base della suarisoluzione si potrà mettere in luce anche quello che stiamo cercando ora. Se dunque sideve aspettare di vederne la fine e se solo allora si può dichiarare beato un uomo (nonperché lo sia in quel momento, ma perché lo era prima), come può non essere assurdo se,quando è felice, [35] non gli si può attribuire con verità ciò che gli compete, per il fatto chenon [1100b] si vuol chiamare beati coloro che sono ancora in vita a causa di possibilicambiamenti di situazione, cioè per il fatto che si pensa la felicità come qualcosa di stabilee per niente facile a mutare, mentre le vicende della vita spesso girano come una ruotaintorno agli uomini? È chiaro infatti che, se noi seguiamo [5] le vicende della sorte,dovremo chiamare la stessa persona ora felice ed ora infelice, più volte, facendo dell’uomofelice una specie di camaleonte e basato su fondamenta marce. O non è forse unprocedimento per niente corretto quello di tener dietro alle vicende della sorte? Infatti,non è in esse che stanno il bene e il male, ma la vita umana ha bisogno di questi apporti,come abbiamo detto, solo in via accessoria, [10] mentre essenziali per la felicità sono leattività conformi a virtù, e decisive per l’infelicità sono le attività contrarie alla virtù.Testimonia, poi, a favore della nostra definizione anche la difficoltà ora affrontata. Infatti,

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a nessuna delle funzioni umane appartiene la stabilità tanto quanto alle attività conformi avirtù si ritiene infatti che esse siano più persistenti persino delle scienze; [15] e di questestesse quelle più pregevoli sono più stabili, per il fatto che le persone felici continuano avivere in esse di preferenza e con la massima costanza. Questa, infatti, sembra essere lacausa del fatto che della virtù non c’è oblio. La qualità cercata apparterrà dunque all’uomofelice, e questi sarà tale per tutta la vita, giacché sempre, o la maggior parte delle volte, eglifarà o contemplerà [20] ciò che è conforme a virtù, sopporterà le vicende della sorte nelmodo migliore, ed in ogni caso con la massima dignità, almeno chi è veramente buono,tetragono e senza fallo. Poiché molte cose avvengono per caso e differiscono per grandezzae piccolezza, i piccoli avvenimenti, sia quelli felici sia quelli disgraziati, è chiaro che nonhanno [25] gran peso per la vita, mentre quelli grandi e numerosi, se sono favorevoli,renderanno la vita più felice (giacché per loro natura ne costituiscono un ornamento, ed ilfruirne è cosa bella e di valore); se invece sono avversi angustiano e distruggono labeatitudine, giacché portano con sé sofferenze ed ostacolano molte attività. [30] Tuttaviaanche in questi riluce la nobiltà, quando si sopportino di buon animo molte e grandidisgrazie, non già per insensibilità, ma perché si è generosi e magnanimi. D’altra parte, sesono le attività che determinano la vita, come abbiamo detto, nessun uomo felice hal’eventualità di diventare miserevole, [35] giacché egli non compirà mai azioni odiose e vili.[1101a] Noi pensiamo, infatti, che l’uomo veramente buono e saggio sopportadignitosamente tutte le vicende della sorte e tra le azioni che gli si prospettano compiesempre quelle più belle, come anche il buon generale usa l’esercito di cui dispone nel modopiù efficace in guerra, e il buon calzolaio col cuoio che gli viene dato [5] produce lacalzatura più bella e allo stesso modo si comportano tutti gli altri artigiani. Ma se è così,l’uomo felice non potrà mai diventare miserevole, ma certo non potrà neppure esserepienamente felice se precipiterà in disgrazie simili a quelle di Priamo. E non sarà certocapriccioso e volubile: infatti, non si lascerà smuovere dalla felicità facilmente, [10] né dadisavventure qualsiasi, ma da disgrazie grandi e numerose, tali per cui non può recuperarela felicità in breve tempo, ma, se mai, al compimento di un lungo periodo di tempo,durante il quale abbia ottenuto grandi successi. Che cosa dunque impedisce di definirefelice chi è attivo secondo perfetta virtù [15] ed è sufficientemente provvisto di beniesteriori, e ciò non occasionalmente e temporaneamente, ma per tutta una vita? O nonbisogna forse aggiungere anche "chi vivrà e morirà in modo corrispondente", dal momentoche il futuro ci è nascosto, e che noi affermiamo che la felicità è un fine, e un fine sotto ogniaspetto assolutamente compiuto? Se è così, definiremo beati [20] quelli tra i viventi chesono e continueranno ad essere in possesso dei requisiti indicati; beati, s’intende, comepossono esserlo gli uomini. A questo punto si consideri conclusa la nostra trattazione diquesti argomenti.

11. [Il defunto non è toccato, sostanzialmente, né dal bene né dal male dei di-scendenti].

Che poi le sorti dei discendenti e di tutti gli amici non importino per nulla è,manifestamente, affermazione troppo estranea all’amicizia e contraria alle opinionicorrenti. Ma poiché gli eventi sono molti e presentano differenze di ogni tipo, [25] e poichéalcuni ci toccano più da vicino, altri meno, sarebbe manifestamente troppo lungo, anziinterminabile, analizzarli singolarmente, mentre può ben essere sufficiente quanto è statodetto in generale e schematicamente. Se, dunque, come delle sventure che ci colpisconodirettamente alcune hanno qualche peso e influenza sulla nostra vita, [30] mentre altresembrano più leggere, così, allo stesso modo, avviene per quelle che colpiscono tutti gliamici; e se la differenza tra una sventura che capiti a persone vive e una sventura che

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riguardi defunti è molto più grande di quella che c’è nelle tragedie tra le azioni delittuose eterribili che ne costituiscono l’antefatto e quelle che vengono compiute sulla scena,bisognerà allora tener conto anche di questa differenza, e, certo ancor più, [35] delproblema se i morti partecipino di qualche bene o di qualche male, oppure no. [1101b] Daquanto abbiamo detto, infatti, sembra derivare che, se qualcosa giunge a riguardare ancorai morti, bene o male che sia, si tratta di qualche debole o piccola cosa, sia in senso assoluto,sia relativamente a loro; e se no, è comunque di grandezza e natura tali da non poterrendere felici coloro che non lo sono, [5] né da poter strappare la felicità a coloro che sonofelici. È dunque manifesto che hanno sì qualche importanza per i morti le fortune degliamici, come pure le loro disgrazie, ma che queste sono di natura e di importanza tali danon poter rendere felici coloro che non lo sono, né da produrre alcun altro cambiamentodel genere.

12. [La felicità è degna d’onore, come realtà assoluta e divina].

[10] Definito questo, volgiamoci ad esaminare, a proposito della felicità, se essa appartengaalle cose che sono degne di lode o piuttosto a quelle che meritano onore, poiché è evidenteche non rientra certo tra le semplici potenzialità. Ogni cosa degna di lode, manifestamente,viene lodata per il fatto di avere una certa qualità o per essere in un determinato rapportocon qualcosa. Infatti noi lodiamo l’uomo giusto, il coraggioso e, in generale, [15] l’uomobuono e la virtù per le azioni e le opere, mentre lodiamo l’uomo forte, il corridore, e cosìvia, per il fatto che per natura possiedono una certa qualità e perché sono in undeterminato rapporto con qualcosa che è buono e di valore. Questo risulta chiaro anchedalle lodi rivolte agli dèi: esse infatti si rivelano ridicole perché si determinano in rapportoa noi uomini, [20] e questo succede per il fatto che le lodi si basano su un rapporto conqualcos’altro, come abbiamo detto. Se la lode si riferisce a ciò che è relativo, è chiaro chedei beni assoluti non vi può essere lode, ma qualcosa di più grande e di migliore, comeanche risulta con evidenza: infatti, ciò che facciamo è di proclamare beati e felici gli dèi ed ipiù simili agli dèi tra gli uomini. [25] Lo stesso vale per i beni: nessuno infatti loda lafelicità come la giustizia, ma la proclama beata, in quanto è qualcosa di più divino e di piùnobile. Anche Eudosso, sembra, ha ben condotto la difesa del primo premio per il piacere:egli infatti pensava che il fatto che esso non viene lodato, pur essendo uno dei beni,significa che è superiore a ciò che è [30] degno semplicemente di lode, e che tali sono Dio eil bene, giacché è a loro che vengono rapportate anche tutte le altre cose. La lode, infatti,spetta alla virtù, giacché è da essa che riceviamo la capacità di compiere le azionimoralmente belle; gli encomi invece sono appropriati alle opere, sia del corpo siadell’anima, ugualmente. Ma distinguere con rigore questi generi è certo più tipico [35] dicoloro che si occupano di encomi; per noi è chiaro da quanto si è detto [1102a] che lafelicità rientra tra le cose degne di onore e perfette. Sembra che sia così anche per il fattoche essa è un principio: è in vista di essa, infatti, che tutti noi facciamo tutto il resto, e ilprincipio e la causa dei beni noi riteniamo che sia una cosa degna d’onore e divina.

13. [L’anima umana e la distinzione tra virtù etiche e virtù dianoetiche].

[5] Poiché la felicità è una attività dell’anima secondo perfetta virtù, dobbiamo prendere inesame la virtù, giacché così, forse, potremo venire in chiaro anche di quanto riguarda lafelicità. Si ritiene anche, poi, che l’uomo politico autentico debba aver dedicato ad essa

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moltissime delle sue fatiche: egli infatti vuole rendere i cittadini buoni [10] e ossequientialle leggi. Come esempio di uomini politici autentici abbiamo i legislatori di Creta e diSparta, e quanti altri ce ne possono essere stati del medesimo tipo. Se poi tale indagine èpropria della scienza politica, è chiaro che la ricerca si potrà svolgere conformemente allanostra intenzione iniziale.

La virtù su cui si deve indagare, è chiaro, è la virtù umana, giacché [15] è il bene umano e lafelicità umana che stiamo cercando. Intendiamo poi per virtù umana non quella del corpo,bensì quella dell’anima: anche la felicità la definiamo attività dell’anima. Se le cose stannocosì, è chiaro che l’uomo politico deve conoscere in qualche modo ciò che riguarda l’anima,come anche chi intende curare gli occhi [20] deve conoscere anche tutto il corpo, e tantopiù in quanto la politica è più degna di onore e più nobile della medicina: i più valenti deimedici si danno molto da fare per conoscere il corpo. Anche l’uomo politico dunque devecercar di conoscere l’anima, e cercare di conoscerla per le ragioni dette, e nella misurasufficiente per quello che stiamo cercando, [25] giacché indagare con maggior precisione èforse fatica sproporzionata a quanto ci siamo proposti. Si fanno alcune affermazionisull’anima anche negli scritti essoterici in misura sufficiente, e possiamo servirci di quelli:per esempio, vi si dice che una parte di essa è irrazionale, e l’altra è fornita di ragione. Seesse poi siano distinte come le parti del corpo e come tutto [30] ciò che è divisibile in parti,o se invece le parti sono due solo idealmente, mentre per natura sono inseparabili, comenella circonferenza la parte convessa e la parte concava, non fa differenza per la presenteargomentazione.

Di quella irrazionale, poi, una parte sembra essere comune anche ai vegetali (intendoquella che è causa della nutrizione e dell’accrescimento), giacché tale facoltà dell’anima[1102b] si può ammettere in tutti gli esseri che si nutrono, sia negli embrioni, sia, tal quale,negli esseri completamente sviluppati: è infatti più probabile che sia la stessa piuttosto cheun’altra. Dunque la virtù di questa facoltà è, manifestamente, una virtù comune, e nonpropria dell’uomo: si ritiene infatti che questa parte, cioè questa facoltà, sia attivasoprattutto durante il sonno, [5] e il buono ed il cattivo si differenziano molto poco nelsonno (ragion per cui dicono che per metà della vita gli uomini felici non differiscono innulla dagli infelici; che questo accada è naturale: il sonno è inattività dell’anima, per quellaparte secondo cui essa può dirsi di valore o miserabile), a meno che, debolmente, pur legiungano alcuni movimenti, [10] e che sia per questo che i sogni degli uomini per benesono migliori di quelli degli uomini qualsiasi. Ma di queste cose basta; e si può tralasciarela facoltà nutritiva, poiché per sua natura non ha alcuna partecipazione alla virtù umana.Sembra poi che ci sia anche un’altra facoltà naturale dell’anima, irrazionale, ma tuttavia inqualche modo partecipe di ragione. Infatti, noi lodiamo, sia dell’uomo continente sia diquello incontinente, [15] la ragione, cioè la parte razionale dell’anima, giacché è essa che liesorta alle azioni più nobili. È manifesto poi in essi anche un altro elemento, che, pernatura, è estraneo alla ragione, e combatte e contrasta la ragione. Proprio come le membraparalizzate: quando uno si propone di muoverle a destra, si volgono, [20] al contrario, asinistra; così avviene anche per l’anima: le inclinazioni degli incontinenti, infatti, sivolgono in direzioni contrarie. Ma mentre nei corpi vediamo l’elemento deviante,nell’anima non lo vediamo. Nondimeno, certo, dobbiamo pensare che nell’anima ci siaqualcosa di estraneo alla ragione, che ad essa si oppone e resiste. [25] In che senso siaestraneo alla ragione non ha importanza. Anche questo elemento, poi, partecipa,manifestamente, della ragione, come abbiamo detto: nell’uomo continente ubbidisce dicerto alla ragione, e forse è ancor più docile nell’uomo temperante ed in quello coraggioso,giacché in essi tutto è in armonia con la ragione. Dunque, è manifesto che anche l’elementoirrazionale è duplice. La parte vegetativa non partecipa per niente [30] della ragione,mentre la facoltà del desiderio e, in generale, degli appetiti, ne partecipa in qualche modo,in quanto le dà ascolto e le ubbidisce. E questo nel senso in cui anche diciamo "accettare la

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ragione" del padre e degli amici, e non nel senso in cui diciamo "comprendere la ragione"delle dimostrazioni matematiche. E che l’elemento irrazionale in qualche modo si lascideterminare dalla ragione, lo mostrano gli ammonimenti, i rimproveri e tutti i tipi diesortazione. [1103a] Ma se è necessario dire che anche questo elemento partecipa dellaragione, allora anche la parte che possiede la ragione sarà duplice: l’una la possederà insenso proprio e in se stessa, l’altra nel senso che le dà ascolto come ad un padre.

Anche la virtù, poi, si divide conformemente a questa divisione dell’anima. Infatti alcune lechiamiamo [5] virtù dianoetiche altre virtù etiche: dianoetiche sapienza, giudizio esaggezza, etiche invece liberalità e temperanza. Infatti, quando parliamo del carattere di unuomo non diciamo che egli è sapiente o giudizioso, ma che è mite o temperante; peròlodiamo anche il saggio per la sua disposizione: e le disposizioni che meritano lode [10] ledenominiamo virtù.

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Libro II

1. [La virtù ha per presupposto l’abitudine].

Du due tipi è, pertanto, la virtù: dianoetica [15] ed etica: quella dianoetica trae in buonaparte la propria origine e la sua crescita dall’insegnamento, cosicché necessita di esperien-za e di tempo; la virtù etica, invece, deriva dall’abitudine, dalla quale ha preso anche il no-me con una piccola modificazione rispetto alla parola "abitudine". Da ciò risulta anchechiaro che nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura: infatti, nulla [20] di ciò che èper natura può assumere abitudini ad essa contrarie: per esempio, la pietra che per naturasi porta verso il basso non può abituarsi a portarsi verso l’alto, neppure se si volesse abi-tuarla gettandola in alto infinite volte; né il fuoco può abituarsi a scendere in basso, né al-cun’altra delle cose che per natura si comportano in un certo modo potrà essere abituata acomportarsi in modo diverso. Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che levirtù nascono in noi, ma ciò avviene [25] perché per natura siamo atti ad accoglierle, e ciperfezioniamo, poi, mediante l’abitudine. Inoltre, di quanto sopravviene in noi per natura,dapprima portiamo in noi la potenza, e poi lo traduciamo in atto (come è chiaro nel casodei sensi: giacché non è per il fatto di avere spesso visto e sentito che noi acquistiamo que-sti sensi, [30] ma viceversa noi li usiamo perché li possediamo, e non è che li possediamoper il fatto che li usiamo). Invece acquistiamo le virtù con un’attività precedente, come av-viene anche per le altre arti. Infatti, le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi leapprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di ce-tra suonando la cetra. Ebbene, così anche [1103b] compiendo azioni giuste diventiamo giu-sti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi. Ne è conferma ciò che acca-de nelle città: i legislatori, infatti, rendono buoni i cittadini creando in loro determinateabitudini, e questo è il disegno di ogni [5] legislatore, e coloro che non lo effettuano ade-guatamente sono dei falliti; in questo differisce una costituzione buona da una cattiva. Inol-tre, ogni virtù si genera a causa e per mezzo delle stesse azioni per le quali anche si distrug-ge, proprio come ogni arte: infatti, è dal suonare la cetra che derivano sia i buoni sia i catti-vi suonatori di cetra. Considerazione analoga vale anche [10] per i costruttori e per tutti glialtri artefici: costruendo bene diventeranno buoni costruttori, costruendo male diventeran-no cattivi costruttori. Se non fosse così, infatti, non ci sarebbe affatto bisogno del maestro,ma tutti sarebbero per nascita buoni o cattivi artefici. Questo vale appunto anche per le vir-tù: infatti, a seconda di come ci comportiamo nelle relazioni d’affari [15] che abbiamo congli altri uomini, diveniamo gli uni giusti gli altri ingiusti; a seconda di come ci comportia-mo nei pericoli, cioè se prendiamo l’abitudine di aver paura oppure di aver coraggio, diven-tiamo gli uni coraggiosi, gli altri vili. Lo stesso avviene per i desideri e le ire: alcuni diventa-no temperanti e miti, altri intemperanti e iracondi, [20] per il fatto che nelle medesime si-tuazioni gli uni si comportano in un modo, gli altri in un altro. E dunque, in una parola, ledisposizioni morali derivano dalle azioni loro simili. Perciò bisogna dare alle azioni unaqualità determinata, poiché le disposizioni morali ne derivano, di conseguenza, in modocorrispondente alle loro differenze. Non è piccola, dunque, la differenza tra l’essere abituatisubito, fin da piccoli, in un modo piuttosto che in un altro; [25] al contrario, c’è una diffe-renza grandissima, anzi è tutto.

2. [Bisogna agire in modo da evitare sia l’eccesso sia il difetto].

Poiché, dunque, la presente trattazione non mira alla contemplazione come le altre (infatti,

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noi ricerchiamo non per sapere che cosa è la virtù, bensì per diventare buoni, giacché altri-menti la nostra ricerca non avrebbe alcuna utilità), è necessario esaminare ciò che riguarda[30] le azioni, per sapere come dobbiamo compierle: esse, infatti, determinano anche la na-tura delle disposizioni morali, come abbiamo detto. Orbene, agire secondo la retta ragioneè un principio comune e sia dato per ammesso: se ne parlerà in seguito, e si dirà sia checos’è la retta ragione, sia in che modo si rapporta alle altre virtù. In via preliminare mettia-moci d’accordo sul punto seguente: [1104a] ogni discorso sulle azioni da compiere deve es-sere fatto in maniera approssimativa e non con precisione rigorosa, secondo quanto dicem-mo fin dall’inizio, che cioè si deve esigere che i discorsi si conformino alla materia di cuitrattano. Nel campo delle azioni e di ciò che è utile non c’è nulla di stabile, come pure [5]nel campo della salute. E se è tale la trattazione generale, precisione ancor minore ha latrattazione dei diversi tipi di casi particolari; infatti, essi non cadono sotto alcuna arte nésotto alcuna prescrizione tradizionale, ma bisogna sempre che sia proprio chi agisce cheesamini ciò che è opportuno nella determinata circostanza, come avviene nel caso della me-dicina e [10] dell’arte della navigazione.

Ma, benché la presente trattazione abbia tale carattere, pure dobbiamo sforzarci di dare ilnostro contributo. Per prima cosa, dunque, bisogna considerare che tali cose per loro natu-ra vengono distrutte dal difetto e dall’eccesso, come vediamo (giacché per cogliere ciò chenon è manifesto bisogna valersi della testimonianza di ciò che è manifesto) nel caso dellaforza e della salute: [15] infatti, sia troppi sia troppo pochi esercizi distruggono la forza, esimilmente bevande e cibi in quantità eccessiva o insufficiente distruggono la salute, men-tre la giusta proporzione la produce, l’accresce e la preserva. Così, dunque, avviene ancheper la temperanza, il coraggio e le altre virtù. [20] Infatti, colui che tutto fugge e teme e nul-la sopporta diventa vile, mentre colui che non ha paura proprio di nulla ma va incontro adogni pericolo diventa temerario; similmente anche chi si gode ogni piacere e non se neastiene da alcuno diventa intemperante, chi, invece, fugge ogni piacere, come i rustici, di-venta un insensibile. [25] Dunque, la temperanza ed il coraggio sono distrutti dall’eccesso edal difetto, ma preservati dalla medietà. Ma non solo la nascita e l’accrescimento e la di-struzione delle virtù hanno le stesse fonti e le stesse cause, bensì anche la loro attività con-sisterà nelle medesime azioni, poiché è così anche [30] per tutto ciò che è più manifesto,come, per esempio, per la forza: essa, infatti, nasce dall’assunzione di un abbondante nutri-mento e dal fatto di sottoporsi a molte fatiche, e questo lo può fare soprattutto l’uomo for-te. Così è anche per le virtù: è con l’astenerci dai piaceri che diventiamo temperanti, ed è[35] quando siamo divenuti tali che siamo massimamente in grado di astenercene. E simil-mente [1104b] anche per il coraggio: è con l’abitudine a sprezzare i pericoli e ad affrontarliche diventiamo coraggiosi, ed è quando siamo divenuti coraggiosi che siamo massimamen-te in grado di affrontare i pericoli.

3. [Relazione del piacere e del dolore con la virtù].

D’altra parte, bisogna porre come segno distintivo delle disposizioni morali il piacere ed ildolore che si aggiungono [5] alle azioni: infatti, colui che si astiene dai piaceri del corpo egode proprio di questa stessa astinenza è temperante, colui che, invece, lo fa contro voglia èintemperante, e chi affronta i pericoli e ne gode o almeno non ne soffre è coraggioso, chi lofa soffrendo è vile. La virtù etica, infatti, ha a che fare con piaceri e dolori, giacché (1) è acausa [10] del piacere che compiamo le azioni malvagie, ed è a causa del dolore che ci aste-niamo da quelle belle. Perciò bisogna essere guidati in un certo modo subito, fin da piccoli,come dice Platone, a godere e a soffrire di ciò che è conveniente: la retta educazione è, in-fatti, questa. (2) Inoltre, se le virtù hanno a che fare con azioni e passioni, e se ad ogni pas-

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sione come ad ogni azione segue [15] piacere e dolore, anche per questo la virtù avrà a chefare con piaceri e dolori. (3) Lo rivelano anche le punizioni, in quanto si realizzano con que-sti mezzi: infatti le punizioni sono come una specie di cura, e la cura, per sua natura, si at-tua per mezzo dei contrari. (4) Inoltre, come anche recentemente dicevamo, ogni disposi-zione dell’anima attua la sua natura in riferimento e in relazione a ciò da cui può essere na-turalmente [20] resa peggiore o migliore: è a causa dei piaceri e dei dolori che gli uominidiventano malvagi, per il fatto che perseguono e fuggono o quei piaceri e dolori che non de-vono perseguire e fuggire, o quando non devono o nel modo in cui non devono, o secondociascuna delle altre distinzioni operate dalla definizione. Perciò ci sono alcuni che defini-scono le virtù come stati di impassibilità [25] e di riposo: definizione non buona, perchéparlano in senso assoluto, senza aggiungere "come si deve" e "come non si deve" e "quandosi deve", e così via. Resta stabilito, dunque, che la virtù è tale capacità di compiere le azionimigliori in relazione a piaceri e dolori, il vizio il contrario. Ma che la virtù abbia a che farecon piaceri e dolori può venirci chiarito anche dai seguenti argomenti. (5) [30] Tre sono in-fatti i motivi per la scelta e tre i motivi per la repulsione: il bello, l’utile, il piacevole e i lorocontrari, il brutto, il dannoso, il doloroso. Rispetto a tutto questo l’uomo buono tende adagire rettamente, mentre il malvagio tende ad errare, e soprattutto in relazione al piacere:esso, infatti, è comune [35] agli animali, e si accompagna a tutto ciò che dipende dalla scel-ta: [1105a] anche il bello e l’utile, infatti, si rivelano piacevoli. (6) Inoltre, la tendenza alpiacere è cresciuta con tutti noi fin dall’infanzia: perciò è difficile toglierci di dosso questapassione, incrostata com’è con la nostra vita. (7) Anzi, chi più chi meno, misuriamo anchele nostre azioni [5] con il metro del piacere e del dolore. Per questo, dunque, è necessarioche tutta la nostra trattazione si riferisca a questi oggetti: infatti, non è di poca importanzaper le azioni godere o soffrire bene o male. (8) Inoltre, poi, è più difficile combattere il pia-cere che l’impulsività, come dice Eraclito, ed è in relazione a ciò che è più difficile che na-scono, sempre, arte e virtù: [10] e, infatti, in questo caso il bene è migliore. Cosicché è an-che per questa ragione che tutta la trattazione, sia dal punto di vista della virtù sia dal pun-to di vista della politica, riguarda piaceri e dolori, giacché chi ne usa bene sarà buono, e chine usa male cattivo. Teniamo per detto, dunque, che la virtù ha a che fare con piaceri e do-lori, che le azioni da cui nasce sono anche quelle che [15] la fanno crescere, e che, se com-piute diversamente, la fanno perire, e che le azioni da cui è nata sono le stesse in cui anchesi attua.

4. [Condizioni dell’azione morale].

Si potrebbe porre la questione in che senso noi diciamo che, necessariamente, è compiendoazioni giuste che si diventa giusti, e temperanti compiendo azioni temperate: se, infatti, sicompiono azioni giuste e temperate, [20] si è già giusti e temperanti, allo stesso modo chese si compiono azioni secondo le regole della grammatica e della musica, si è grammatici emusici. Ma non si dovrà rispondere che le cose non stanno così neanche nel campo delle ar-ti? Infatti, è possibile fare qualcosa secondo le regole della grammatica sia per caso sia persuggerimento d’altri. Dunque "grammatico" uno sarà solo quando abbia fatto qualcosa se-condo le regole della grammatica e lo abbia fatto [25] da grammatico, cioè in virtù dellascienza grammaticale che possederà in se stesso. Inoltre, non c’è neppure somiglianza tra ilcaso delle arti e quello delle virtù. I prodotti delle arti hanno il loro valore in se stessi: ba-sta, dunque, che essi abbiano determinate caratteristiche. Invece le azioni che traggono ori-gine dalle virtù non basta che abbiano un determinato carattere [30] per essere compiutecon giustizia o con temperanza, ma occorre anche che chi le compie le compia possedendouna certa disposizione: innanzi tutto deve conoscerle, poi deve sceglierle, e sceglierle per sestesse; infine, in terzo luogo, deve compierle con una disposizione d’animo ferma ed immu-

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tabile. Queste condizioni [1105b] non entrano nel conto per il possesso delle altre arti, tran-ne il sapere stesso: mentre per il possesso delle virtù il sapere vale poco o nulla, le altrecondizioni non poco ma tutto possono, se è vero che è dal compiere spesso azioni giuste etemperate che [5] deriva il possesso delle virtù corrispondenti. Così, dunque, le opere si di-cono giuste e temperate quando sono tali quali le compirebbe l’uomo giusto e il temperan-te: ma giusto e temperante è non chi semplicemente le compie, bensì chi le compie anchenel modo in cui le compiono gli uomini giusti e temperanti. È dunque esatto dire che [10] ilgiusto diviene tale col compiere azioni giuste e il temperante col compiere azioni tempera-te: e senza compiere queste azioni nessuno avrà neppure la prospettiva di diventare buono.Ma i più non fanno queste cose, e rifugiandosi invece nella teoria credono di filosofare eche così diverranno uomini di valore; così facendo assomigliano a quei [15] malati cheascoltano, sì, attentamente i medici, ma non fanno nulla di quanto viene loro prescritto.Così, dunque, quelli non guariranno il loro corpo se si cureranno in questo modo, né questila loro anima se faranno filosofia in questo modo.

5. [Le virtù sono disposizioni dell’anima].

Dopo di ciò bisogna esaminare che cos’è la virtù. Poiché, dunque, [20] gli atteggiamenti in-terni all’anima sono tre, passioni capacità disposizioni, la virtù deve essere uno di questi.Chiamo passioni il desiderio, l’ira, la paura, la temerarietà, l’invidia, la gioia, l’amicizia,l’odio, la brama, la gelosia, la pietà, e in generale tutto ciò cui segue piacere o dolore. Chia-mo, invece, capacità ciò per cui si dice che noi possiamo provare delle passioni, per esem-pio, ciò per cui [25] abbiamo la possibilità di adirarci o di addolorarci o di sentir pietà. Di-sposizioni, infine, quelle per cui ci comportiamo bene o male in rapporto alle passioni: peresempio, in rapporto all’ira, se ci adiriamo violentemente o debolmente ci comportiamomale, se invece teniamo una via di mezzo ci comportiamo bene. E similmente anche in rap-porto alle altre passioni. Passioni, dunque, non sono né le virtù né i vizi, perché non è perle passioni che siamo chiamati [30] uomini di valore o miserabili, bensì per le virtù ed i vi-zi, e perché non è per le passioni che siamo lodati e biasimati (infatti non si loda né chi pro-va paura né chi si adira, né si biasima chi semplicemente si adira, [1106a] ma chi si adira inun certo modo), mentre siamo lodati o biasimati per le virtù ed i vizi. Inoltre, ci adiriamo oproviamo paura senza una scelta, mentre le virtù sono un certo tipo di scelta o non sonosenza una scelta. Oltre a questo si dice che siamo mossi secondo le passioni, [5] ma che se-condo le virtù ed i vizi non siamo mossi, ma posti in una certa disposizione. Perciò essi nonsono neppure delle capacità. Infatti non siamo chiamati buoni o cattivi, né siamo lodati obiasimati per il semplice fatto di poter provare delle passioni; inoltre, abbiamo per naturala capacità di esserlo, [10] ma non diventiamo buoni o cattivi per natura: abbiamo parlatodi questo prima. Se dunque le virtù non sono né passioni né capacità, rimane che siano del-le disposizioni. Ciò che è la virtù dal punto di vista del genere, è stato detto.

6. [Le virtù sono disposizioni a scegliere il giusto mezzo].

Ma non dobbiamo soltanto dire che la virtù è una disposizione, bensì anche [15] che speciedi disposizione è. Bisogna dire, dunque, che ogni virtù ha come effetto, su ciò di cui è virtù,di metterlo in buono stato e di permettergli di compiere bene la sua funzione specifica: peresempio, la virtù dell’occhio rende valenti l’occhio e la sua funzione specifica: noi, infatti,vediamo bene per la virtù dell’occhio. Similmente la virtù del cavallo rende il cavallo [20]

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di valore e buono per la corsa, per portare il suo cavaliere e per resistere ai nemici. Se dun-que questo vale per tutti i casi, anche la virtù dell’uomo deve essere quella disposizione percui l’uomo diventa buono e per cui compie bene la sua funzione. Come questo sarà possibi-le, già l’abbiamo detto; [25] ma sarà chiaro, inoltre, se considereremo quale è la natura spe-cifica della virtù stessa. In ogni cosa, dunque, che sia continua, cioè divisibile, è possibileprendere il più, il meno e l’uguale, e questo sia secondo la cosa stessa sia in rapporto a noi:l’uguale è qualcosa di mezzo tra eccesso e difetto. Chiamo, poi, [30] mezzo della cosa ciòche è equidistante da ciascuno degli estremi, e ciò è uno e identico per tutti; e mezzo rispet-to a noi ciò che non è né in eccesso né in difetto: ma questo non è uno né identico per tutti.Per esempio, se dieci è tanto e due è poco, come mezzo secondo la cosa si prende sei, giac-ché esso supera ed è superato in uguale misura. [35] E questo è un mezzo secondo la pro-porzione aritmetica. Invece, il mezzo in rapporto a noi non deve essere preso in questo mo-do: [1106b] infatti, se per un individuo dieci mine di cibo sono molto e due sono poco, nonper questo il maestro di ginnastica prescriverà sei mine: infatti, può darsi che anche questaquantità, per chi deve ingerirla, sia troppo grande oppure troppo piccola: infatti per Milonesarebbe poco, per un principiante di ginnastica sarebbe molto. Similmente nel caso dellacorsa e [5] della lotta. Così, dunque, ogni esperto evita l’eccesso e il difetto, ma cerca il mez-zo e lo preferisce, e non il mezzo in rapporto alla cosa ma il mezzo in rapporto a noi. Se,dunque, è così che ogni scienza compie bene la sua funzione, tenendo di mira il mezzo e ri-conducendo ad esso le sue opere (donde l’abitudine [10] di dire delle cose ben riuscite chenon c’è nulla da togliere e nulla da aggiungere, in quanto l’eccesso e il difetto distruggonola perfezione, mentre la medietà la preserva), se i buoni artigiani, come noi affermiamo, la-vorano tenendo di mira il mezzo, e se la virtù è più esatta e [15] migliore di ogni arte, comeanche la natura, essa dovrà tendere costantemente al mezzo. Intendo la virtù etica: essa, in-fatti, ha a che fare con passioni ed azioni, ed in queste ci sono un eccesso, un difetto e ilmezzo. Per esempio, temere, ardire, desiderare, adirarsi, aver pietà, e in generale provarpiacere [20] e dolore è possibile in maggiore o minore misura, e in entrambi i casi non be-ne. Al contrario, provare queste passioni quando è il momento, per motivi convenienti, ver-so le persone giuste, per il fine e nel modo che si deve, questo è il mezzo e perciò l’ottimo, ilche è proprio della virtù. Similmente anche per quanto riguarda le azioni ci sono un ecces-so, un difetto ed il mezzo. Ora, la virtù ha a che fare con passioni [25] e azioni, nelle qualil’eccesso è un errore e il difetto è biasimato, mentre il mezzo è lodato e costituisce la rettitu-dine: ed entrambe queste cose sono proprie della virtù. Dunque, la virtù è una specie dimedietà, in quanto appunto tende costantemente al mezzo. Inoltre, errare è possibile inmolti modi (il male infatti, come [30] congetturavano i Pitagorici, appartiene all’infinito, ilbene invece al limitato), mentre operare rettamente è possibile in un sol modo (perciò an-che l’uno è facile e l’altro difficile: è facile fallire il bersaglio, e difficile coglierlo). E per que-ste ragioni, dunque, l’eccesso e il difetto sono propri del vizio, mentre la medietà è propriadella virtù: [35]

"si è buoni in un sol modo, cattivi in molte e svariate maniere".

La virtù, dunque, è una disposizione concernente la scelta, consistente in una medietà[1107a] in rapporto a noi, determinata in base ad un criterio, e precisamente al criterio inbase al quale la determinerebbe l’uomo saggio. Medietà tra due vizi, tra quello per eccessoe quello per difetto; e inoltre è medietà per il fatto che alcuni vizi restano al di sotto e altristanno al di sopra di ciò che si deve, sia nelle passioni [5] sia nelle azioni, mentre la virtùtrova e sceglie il mezzo. Perciò, secondo la sostanza e secondo la definizione che ne espri-me l’essenza, la virtù è una medietà, mentre dal punto di vista dell’ottimo e del bene è unculmine. Ma non ogni azione né ogni passione ammette la medietà: alcune, infatti, implica-no già nel nome [10] la malvagità, come la malevolenza, l’impudenza, l’invidia, e, tra leazioni, l’adulterio, il furto, l’omicidio. Tutte queste cose e quelle del medesimo genere deri-vano il loro nome dal fatto che esse stesse sono malvagie, e non i loro eccessi né i loro difet-

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ti. Dunque, non è mai possibile, riguardo ad esse, agire rettamente, [15] ma si è sempre inerrore: e il bene o il male, riguardo a tali cose, non stanno nel commettere adulterio con ladonna con cui si deve o nel tempo e nel modo opportuni, ma il semplice fatto di commette-re una qualsiasi di queste azioni significa errare. Similmente, dunque, sarebbe assurdo rite-nere che anche in relazione al commettere ingiustizia e all’essere vile e intemperante ci sia-no medietà ed eccesso e difetto, [20] giacché così verrà ad esserci una medietà di eccesso edi difetto, ed eccesso di eccesso e difetto di difetto. Ma come della temperanza e del corag-gio non v’è eccesso né difetto per il fatto che il mezzo è in certo qual modo un culmine, cosìneppure di quelle azioni c’è medietà né eccesso e difetto, ma in qualunque modo [25] sianocompiute si è in errore: infatti, in generale, non c’è medietà dell’eccesso e del difetto, né ec-cesso e difetto della medietà.

7. [Tavola delle virtù particolari].

Tuttavia, non dobbiamo solo fare queste affermazioni generali, ma dobbiamo anche appli-carle ai casi particolari. Tra le affermazioni riguardanti [30] le azioni, quelle generali sonodi più larga applicazione, quelle particolari più ricche di verità, giacché le azioni riguardanocasi particolari, e occorre che la teoria si accordi con essi. Ricaviamoli, dunque, dalla nostratavola. Orbene, per quanto riguarda paura e temerarietà, la medietà è il coraggio: [1107b]di coloro che eccedono, chi lo fa per mancanza di paura non ha nome (molte virtù e moltivizi sono senza nome), chi eccede nell’ardire è temerario, chi eccede nel timore e difettanell’ardire è vile. Riguardo, invece, a piaceri e dolori (non [5] tutti, ed in misura minore peri dolori) medietà è la temperanza, eccesso l’intemperanza. Coloro che sono in difetto quan-to ai piaceri non sono molti: perciò tali persone non hanno neppure ricevuto un nome; machiamiamoli insensibili. Riguardo poi al dare ed al prendere denaro medietà è la liberalità,eccesso [10] e difetto sono la prodigalità e l’avarizia. In questi due vizi l’eccesso e il difettosi realizzano in maniera contraria: infatti il prodigo eccede nel dare e difetta nel prendere,l’avaro eccede nel prendere e difetta nel dare. Per il momento, dunque, ci esprimiamo inmaniera schematica e sommaria, [15] e di questo ci accontentiamo: in seguito tutto ciò saràdefinito con maggior precisione. In relazione al denaro vi sono anche altre disposizioni:medietà è la magnificenza (l’uomo magnifico si distingue dall’uomo liberale, giacché il pri-mo ha a che fare con grandi somme, il secondo con piccole); eccesso è mancanza di gusto evolgarità, difetto [20] meschinità: questi vizi differiscono da quelli relativi alla liberalità,ma in che modo differiscano sarà detto in seguito. Per quanto riguarda l’onore e la privazio-ne d’onore la medietà è la magnanimità, eccesso è quella che si chiama una specie di va-nità, difetto la pusillanimità. E come dicevamo che rispetto alla magnificenza la liberalità[25] differisce perché riguarda piccole somme, così anche di fronte alla magnanimità, cheriguarda grandi onori, c’è una certa disposizione che invece riguarda piccoli onori: infatti, èpossibile desiderare onore come si deve, o di più e di meno di quanto si deve, e chi eccedenei desideri di onore è detto ambizioso, chi difetta è detto privo d’ambizione, chi sta [30]nel mezzo non ha nome. Senza nome sono pure le corrispondenti disposizioni, tranne quel-la dell’ambizioso, che è l’ambizione. Ragion per cui gli estremi si contendono la zona dimezzo: e ci capita di chiamare chi sta in mezzo ora ambizioso, ora privo di ambizione, e cicapita [1108a] di lodare ora l’ambizioso, ora chi è privo di ambizione. Per quale ragione lofacciamo, si dirà in seguito. Per ora parliamo di ciò che ci rimane, seguendo il metodo cheabbiamo indicato. Anche per quanto riguarda l’ira c’è eccesso e difetto e [5] medietà; e ben-ché queste disposizioni siano pressoché senza nome, dal momento che chiamiamo bonariochi sta in mezzo, chiameremo bonarietà la medietà. Degli estremi, chi eccede sarà irascibi-le, e il vizio irascibilità, chi difetta flemmatico, e il difetto flemma. Ci sono, poi, anche altretre medietà, che hanno [10] una certa somiglianza fra di loro, pur essendo differenti le une

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dalle altre: tutte, infatti, riguardano le relazioni sociali che si istituiscono attraverso le con-versazioni e attraverso le azioni, ma differiscono perché l’una riguarda il vero che vi è in es-se, mentre le altre due si riferiscono al piacevole, l’una al piacevole nello scherzo, l’altra intutte le circostanze della vita. Bisogna dunque parlare anche di queste, per [15] meglio ren-derci conto che in tutti i casi la medietà è lodevole, mentre gli estremi non sono né lodevoliné retti, ma sono, al contrario, biasimevoli. Orbene, anche la maggior parte di questi sonosenza nome, e dobbiamo cercare, come anche negli altri casi, di dar loro noi stessi un no-me, per chiarezza e per farci meglio seguire. Per quanto, dunque, riguarda il vero, [20] chista in mezzo chiamiamolo verace e la medietà veracità, l’esagerazione nel senso del piùchiamiamola millanteria e chi la pratica millantatore, l’esagerazione nel senso del menochiamiamola ironia e chi la pratica ironico. Riguardo al piacevole nello scherzo chi sta nelmezzo si chiama spiritoso e la sua disposizione spirito, l’eccesso si chiama buffoneria [25] echi la pratica buffone, chi è in difetto si dice rozzo e la sua disposizione rozzezza. Per l’altrotipo di piacevole, quello che si trova in genere nella vita, colui che è piacevole come si con-viene è un uomo socievole e la medietà è socievolezza; chi eccede, se lo fa senza secondi fi-ni, compiacente, ma se lo fa per interesse proprio, adulatore; chi difetta [30] ed è in tutte leoccasioni sgradevole, si chiama litigioso e scorbutico. Ci sono, poi, medietà anche nelle pas-sioni, cioè relative alle passioni: infatti il pudore non è una virtù, ma è fatto oggetto di lodeanche chi è pudico. E, infatti, anche in queste c’è chi si dice che sta in mezzo e chi eccede,come il timido, che si vergogna di tutto, e chi difetta, [35] ovvero chi non si vergogna pro-prio di niente, si chiama sfacciato, e chi sta nel mezzo pudico. La giusta indignazione è[1108b] medietà tra l’invidia e la malevolenza: queste si riferiscono al dolore e al piacereche nascono in noi per tutto ciò che capita al prossimo; infatti, chi si indigna si addoloraper coloro che hanno successo senza merito, l’invidioso invece va al di là e [5] si addoloraper tutti i successi, il malevolo, infine, è tanto lontano dall’addolorarsi che anzi gioisce delmale altrui. Ma di questo avremo occasione di trattare anche altrove. Quanto alla giustizia,poiché non ha un senso solo, in seguito la distingueremo nelle sue due specie e diremo perciascuna in che modo sono delle medietà. Similmente faremo anche per quanto riguarda[10] le virtù intellettuali.

8. [Le opposizioni tra i vizi e le virtù].

Le disposizioni sono dunque tre: due vizi, l’uno per eccesso e l’altro per difetto, ed una solavirtù, la medietà e tutte in certo qual modo si oppongono a tutte le altre. Infatti, le disposi-zioni estreme sono contrarie sia a quella di mezzo sia l’una all’altra, e quella [15] di mezzo ècontraria alle estreme: come, infatti, l’uguale rispetto al minore è maggiore, e rispetto almaggiore è minore, così le disposizioni di mezzo sono degli eccessi rispetto alle disposizio-ni in difetto e sono dei difetti rispetto a quelle in eccesso, sia nelle passioni sia nelle azioni.Infatti, l’uomo coraggioso in confronto al vile appare temerario, [20] mentre appare vile inconfronto al temerario; similmente anche l’uomo temperante appare intemperante in con-fronto all’insensibile, e insensibile in confronto all’intemperante, e l’uomo liberale appareprodigo in confronto all’avaro, e avaro in confronto al prodigo. Perciò accade che gli estre-mi spingono il mezzo ciascuno verso l’altro, e il vile chiama [25] temerario il coraggioso,mentre il temerario lo chiama vile, ed analogamente negli altri casi. Essendo queste dispo-sizioni contrapposte le une alle altre in questo modo, la contrarietà più grande si trova reci-procamente tra gli estremi piuttosto che tra loro e il mezzo: infatti, questi sono più distantifra loro che dal mezzo, come il grande dal piccolo e il piccolo [30] dal grande sono più di-stanti fra loro di quanto non lo siano entrambi dall’uguale. Inoltre, in alcuni estremi si mo-stra una certa somiglianza nei confronti del mezzo, come nella temerarietà nei confrontidel coraggio e nella prodigalità nei confronti della liberalità. Negli estremi fra di loro c’è in-

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vece la massima dissomiglianza. Le cose che sono alla distanza massima l’una dall’altra sidefiniscono contrarie, cosicché [35] quelle che sono più distanti sono anche più contrarie.Nei confronti del mezzo [1109a] è più contrario in certi casi il difetto, in certi altri l’eccesso:per esempio, ciò che si oppone di più al coraggio non è la temerarietà, che è un eccesso,bensì la viltà, che è un difetto; ciò che si oppone di più alla temperanza non è l’insensibilità,che è una mancanza, bensì l’intemperanza, [5] che è un eccesso. Questo avviene per duemotivi. L’uno dipende dalla cosa stessa: infatti, per il fatto che uno degli estremi è più vici-no e più simile al mezzo, noi non opponiamo questo estremo al mezzo, ma piuttosto al suocontrario. Per esempio, poiché si riconosce che al coraggio è più simile e più vicina la teme-rarietà, e più dissimile [10] la viltà, è piuttosto quest’ultima che gli contrapponiamo: infat-ti, le cose che sono più distanti dal mezzo si riconosce che sono anche più contrarie. Que-sto, dunque, è un primo motivo, che dipende dalla cosa stessa. L’altro, invece, dipende danoi stessi: le cose verso cui siamo in qualche modo più inclini per natura si rivelano piùcontrarie al mezzo. Per esempio, noi siamo più [15] inclini ai piaceri, e per questo siamopiù portati all’intemperanza che al decoro. Dunque, chiamiamo contrari piuttosto quei viziverso i quali maggiore è la nostra tendenza: e per questo l’intemperanza, che è un eccesso,è più contraria alla temperanza.

9. [Suggerimenti pratici].

[20] Che, dunque, la virtù etica è una medietà, e in che senso lo è, e che è una medietà tradue vizi, l’uno per eccesso l’altro per difetto, e che è tale perché tende costantemente almezzo sia nelle passioni sia nelle azioni, è stato detto a sufficienza. Perciò, anche, è un com-pito impegnativo essere uomo di valore. Cogliere in ogni cosa [25] il mezzo è un compitoimpegnativo: per esempio, determinare il centro di un cerchio non è da tutti, ma solo di chisa. Così, invece, è da tutti ed è facile adirarsi, e donare denaro e far spese: ma farlo con chisi deve, nella misura giusta, al momento opportuno, con lo scopo e nel modo convenienti,non è più da tutti né facile. Ed è per questo che il farlo bene è cosa rara, degna di lode e[30] bella. Perciò bisogna che chi tende al mezzo prenda innanzi tutto le distanze da ciòche gli è più contrario, come consiglia anche Calipso:

"fuori da questo fumo, fuori dal vortice tieni la nave".

Infatti, dei due estremi uno è più colpevole, l’altro meno. Poiché, dunque, cogliere il mezzoè cosa estremamente difficile, dobbiamo affidarci, [35] come si dice, alla seconda naviga-zione e scegliere il minore dei mali: [1109b] ed il miglior modo di farlo sarà questo che noiindichiamo. Dobbiamo, poi, indagare su ciò a cui noi stessi siamo portati: alcuni di noi, in-fatti, sono per natura inclini a certe cose, altri ad altre: e questo sarà riconoscibile [5] dalpiacere e dal dolore che nascono in noi. E dobbiamo spingerci nella direzione contraria: in-fatti è allontanandoci molto dall’errore che giungeremo al giusto mezzo, come fanno coloroche raddrizzano i legni storti. Infine, e soprattutto, bisogna in ogni cosa stare in guardia difronte al piacevole ed al piacere, poiché non siamo imparziali quando lo giudichiamo. Ciòdunque che provarono gli anziani del popolo nei confronti di Elena, [10] dobbiamo provar-lo anche noi nei confronti del piacere, e in tutte le circostanze ripeterci le loro parole: se in-fatti lo congediamo così, saremo meno soggetti ad errare. Facendo così, per dirla in breve,avremo le maggiori possibilità di raggiungere il giusto mezzo. Certo questo è difficile, so-prattutto nei singoli casi. [15] Infatti, non è facile determinare come e con chi e in quali casie per quanto tempo si debba essere in collera, giacché anche noi talora lodiamo coloro cherestano al di sotto del mezzo e li chiamiamo bonari, talora invece lodiamo quelli che sfoga-no la rabbia e li chiamiamo virili. Ma colui che devia poco dal bene, né quando [20] eccede

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né quando difetta è biasimato; ma lo è chi devia maggiormente, giacché quest’ultimo nonpassa inosservato.

Ma fino a che punto e in che misura è biasimevole non è facile determinarlo col ragiona-mento: niente di diverso, infatti, avviene nel campo degli oggetti sensibili: tali oggetti rien-trano nell’ambito dei fatti particolari ed il giudizio su di essi spetta alla sensazione. Tuttoquesto, dunque, rende evidente che la disposizione mediana è in tutte le circostanze degnadi lode, ma che talora [25] dobbiamo inclinare verso l’eccesso, talora verso il difetto, giac-ché è in questa maniera che raggiungeremo il giusto mezzo e il bene con la più grande faci-lità.

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Libro III

1. [Gli atti umani sono volontari o involontari?].

[30] Giacché, dunque, la virtù ha a che vedere sia con passioni sia con azioni, e giacché perle passioni e le azioni volontarie ci sono la lode e il biasimo, mentre per le involontarie c’è ilperdono, e talora anche la pietà, definire il volontario e l’involontario è indubbiamente ne-cessario per coloro che studiano la virtù, e utile anche ai legislatori per stabilire [35] le ri-compense onorifiche e le punizioni.

Si ammette, dunque, comunemente, che sono involontari gli atti [1110a] compiuti per forzao per ignoranza. Forzato è l’atto il cui principio è esterno, tale cioè che chi agisce, ovverosubisce, non vi concorre per nulla: per esempio, se si è trascinati da qualche parte da unvento o da uomini che ci tengono in loro potere. Le azioni che si compiono per paura di ma-li più grandi oppure per [5] qualcosa di bello (per esempio, nel caso in cui un tiranno ci or-dinasse di compiere qualche brutta azione tenendo in suo potere i nostri genitori e i nostrifigli, sì che se noi la compiamo essi si salveranno, se no, morranno) è discutibile se sianoinvolontarie o volontarie. Qualcosa di simile accade anche quando si gettano fuori bordo ipropri averi durante le tempeste, giacché in generale nessuno butta via [10] volontariamen-te, ma chiunque abbia senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri. Simili azioni, dun-que, sono miste, ma assomigliano di più a quelle volontarie, giacché sono fatte oggetto discelta nel momento determinato in cui sono compiute e il fine dell’azione dipende dalle cir-costanze. Per conseguenza, anche il volontario e l’involontario devono essere determinatiin riferimento al momento in cui si agisce. [15] In questo caso si agisce volontariamente,giacché il principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell’uo-mo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio, dipende da lui farle o non farle. Taliazioni, dunque, sono volontarie, anche se in assoluto forse sono involontarie, giacché nes-suno sceglierebbe alcuna delle azioni di tal genere per se stessa. Per [20] azioni simili talo-ra si è anche lodati, quando si sopporta qualcosa di brutto o di doloroso in cambio di cosegrandi e belle; in caso contrario si è biasimati, giacché sopportare le cose più vergognoseper niente di bello o di proporzionato è da uomo miserabile. In alcuni casi, poi, non si dàlode, ma perdono: quando uno compie [25] un’azione che non deve, ma per evitare maliche oltrepassano l’umana natura e che nessuno potrebbe sopportare. Ma ad alcuni atti,senza dubbio, non è possibile lasciarsi costringere, ma piuttosto bisogna morire pur tra ter-ribili sofferenze: infatti, i motivi che hanno costretto l’Alcmeone di Euripide ad uccidere lapropria madre sono manifestamente risibili. È difficile, talvolta, discernere [30] che cosaed a quale costo si deve scegliere e che cosa e per qual vantaggio si deve sopportare, ma an-cor più difficile perseverare nelle decisioni prese: come, infatti, per lo più, ciò che ci aspettaè doloroso, ciò cui si è costretti è vergognoso, ragion per cui si meriterà lode o biasimo a se-conda che ci si sia lasciati costringere oppure no. [1110b] Quali azioni, dunque, si devonochiamare forzate? Non dovremo dire che in senso assoluto lo sono quando la causa risiedein circostanze esterne e quando chi agisce non vi concorre per niente? Le azioni che per sestesse sono involontarie, ma che in un determinato momento ed in cambio di determinativantaggi sono fatte oggetto di scelta, ed il cui principio è interno a chi agisce, [5] per sestesse sono, sì, involontarie, ma, in quel determinato momento e per quei determinati van-taggi, sono volontarie. E assomigliano di più a quelle volontarie, poiché le azioni fanno par-te delle cose particolari, e queste sono volontarie. D’altra parte, quali cose bisogna scegliereed in cambio di quali altre non è facile stabilire, giacché nei casi particolari ci sono moltedifferenze. Se si dicesse che le cose piacevoli e le cose belle [10] sono costrittive (in quantocostringono dall’esterno), tutte le azioni sarebbero, da quel punto di vista, forzate, giacchéè in vista del piacevole e del bello che tutti gli uomini fanno tutto quello che fanno. E quelli

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che agiscono per forza e contro voglia agiscono con sofferenza, mentre quelli che agisconoper il piacevole ed il bello lo fanno con piacere. D’altra parte, è ridicolo accusare le circo-stanze esterne e non se stessi se si è facile preda di cose di tale natura, e anzi considerarecausa [15] delle belle azioni se stessi, delle brutte, invece, l’attrattiva dei piaceri. Dunque,sembra che l’atto forzato sia quello il cui principio è esterno, senza alcun concorso di coluiche viene forzato.

Ciò che si compie per ignoranza è tutto non volontario, ma è involontario quando provocadispiacere e rincrescimento. Infatti, l’uomo che ha fatto [20] una cosa qualsiasi per igno-ranza, senza provare alcun disagio per la sua azione, non ha agito volontariamente, inquanto, almeno, non sapeva quello che faceva, ma neppure involontariamente, in quanto,almeno, non prova dispiacere. Dunque, di coloro che agiscono per ignoranza, quello chenon prova rincrescimento può essere chiamato, poiché è diverso, agente non volontario; in-fatti, poiché il secondo differisce dal primo, è meglio che abbia un suo nome proprio. D’al-tra parte [25] sembra che vi sia differenza anche tra agire per ignoranza e agire ignorando:infatti, chi è ubriaco o adirato non si ritiene che agisca per ignoranza ma per ubriachezza oper ira, tuttavia senza sapere ciò che fa, ma ignorandolo. Dunque, ogni uomo malvagioignora quel che deve fare e ciò da cui si deve astenere, ed è per questo errore che si diventaingiusti e, in generale, [30] viziosi. Ma il termine "involontario" non vuole essere usato nelcaso in cui uno ignora ciò che gli conviene: infatti, l’ignoranza nella scelta non è causadell’involontarietà dell’atto, ma della sua perversità, e neppure l’ignoranza dell’universale(per questa, anzi, si è biasimati); ma causa dell’involontarietà dell’atto è l’ignoranza dellecircostanze particolari [1111a] nelle quali e in relazione alle quali si compie l’azione: in que-sti casi, infatti, si trovano pietà e perdono, perché è ignorando qualcuno di questi particola-ri che si agisce involontariamente. Dunque, non sarà certo male definire la natura ed il nu-mero di questi particolari: chi è che agisce, che cosa fa, qual è l’oggetto o l’ambito dell’azio-ne, e talora anche [5] con quale mezzo (per esempio, con quale strumento) agisce, in vistadi qual risultato (per esempio, per salvare qualcuno), e in che modo (per esempio, pacata-mente oppure violentemente). Tutte queste cose, dunque, nessuno, se non è pazzo, potreb-be ignorarle; ed è chiaro che non si può ignorare l’agente: infatti, come si può ignorare, senon altro, se stessi? Uno potrebbe ignorare ciò che sta facendo: per esempio, quando dico-no che qualcosa è loro scappato di bocca parlando, oppure che non sapevano che erano deisegreti, [10] come disse Eschilo dei misteri, oppure che, volendo solo fare una dimostrazio-ne, hanno lasciato andare lo strumento, come diceva quello che aveva lasciato scattare lacatapulta. Potrebbe anche capitare che uno scambi il proprio figlio per un nemico, comeMerope, e che prenda per smussata una lancia appuntita, oppure per pietra pomice la pie-tra dura; e che facendo bere qualcuno per salvarlo lo faccia morire; e che volendo afferrarela mano dell’avversario, [15] come coloro che lottano con le sole mani, lo ferisca. Per conse-guenza, poiché l’ignoranza può riguardare tutte queste circostanze di fatto in cui si attual’azione, si ritiene comunemente che chi ne ignora qualcuna agisca involontariamente, e so-prattutto se ne ignora le più importanti; e si ritiene che le più importanti circostanze di fat-to in cui si attua l’azione siano il ciò che si fa ed il risultato in vista di cui lo si fa. Tale è,dunque, l’ignoranza per cui un atto si chiama involontario; [20] ma bisogna, inoltre, chel’atto sia spiacevole ed increscioso. Poiché è involontario ciò che si fa per forza e per igno-ranza, si dovrà ritenere che il volontario è quello il cui principio sta in colui stesso che agi-sce, conoscendo le circostanze particolari in cui si attua l’azione. Infatti, senza dubbio, nonè giusto dire che [25] sono involontari gli atti compiuti per impulsività o per desiderio. Intal caso, infatti, ne deriverebbe innanzi tutto che nessuno degli altri animali agirebbe spon-taneamente, né lo potrebbero i fanciulli; in secondo luogo, non facciamo volontariamentenessuna delle azioni che hanno come causa impulsività e desiderio, oppure quelle belle lefacciamo volontariamente e quelle brutte involontariamente? O non è ridicolo, dal momen-to che una sola è la causa di tutte? Ma è certo assurdo [30] dire involontarie quelle azioniche dobbiamo appetire: e noi abbiamo il dovere di adirarci per certe cose e di desiderare

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certe altre, per esempio salute e istruzione. D’altra parte, si riconosce anche che gli atti in-volontari sono penosi, mentre quelli compiuti per assecondare un desiderio sono piacevoli.Inoltre, che differenza c’è, quanto alla involontarietà, tra gli errori commessi per calcolo equelli commessi per impulsività? Si devono, infatti, evitare sia gli uni sia gli altri; [1111b]d’altra parte si riconosce che le passioni irrazionali non sono meno umane, sicché sono pro-prie dell’uomo anche le azioni che derivano da impulsività e da desiderio. È, dunque, assur-do porle come involontarie.

2. [La scelta].

Definiti e il volontario e l’involontario, [5] si va avanti con la trattazione della scelta, giac-ché si ritiene che essa sia molto intimamente connessa con la virtù e che permetta di giudi-care il carattere meglio che non le azioni. La scelta, dunque, è manifestamente qualcosa divolontario, ma non si identifica con esso, perché il volontario ha un’estensione maggiore:infatti, anche i bambini e gli altri animali hanno in comune con gli uomini la possibilità diagire volontariamente, ma non quella di scegliere, e degli atti repentini [10] diciamo che so-no volontari, ma non che derivano da una scelta. Coloro che sostengono che la scelta è desi-derio o impulsività o volontà o una specie di opinione, non sembra che parlino corretta-mente. Infatti, la scelta non è comune anche agli esseri irrazionali, mentre desiderio ed im-pulsività sì. E l’incontinente agisce perché appetisce, ma non perché sceglie; l’uomo conti-nente, al contrario, agisce [15] per una scelta e non per desiderio. Inoltre, un desiderio puòessere contrario ad una scelta, ma non ad un altro desiderio. E il desiderio ha per oggetto ilpiacevole ed il doloroso, mentre la scelta non ha per oggetto né il doloroso né il piacevole.Ancor meno è impulsività: infatti, le azioni compiute per impulsività, è ammesso comune-mente, non derivano proprio per niente da una scelta. Ma, certo, non è neppure volontà,[20] benché le sia manifestamente affine. Infatti non ci può essere scelta dell’impossibile, ese uno dicesse che lo fa oggetto della propria scelta farebbe la figura dell’insensato. Invecec’è volontà anche dell’impossibile, per esempio dell’immortalità. Inoltre, la volontà riguar-da anche quelle cose che non possono essere fatte dallo stesso che le vuole, per esempioche un certo attore o un certo atleta riescano vincitori; [25] invece nessuno sceglie similicose, ma solo quelle che si pensa di poter fare personalmente. Inoltre, la volontà ha comeoggetto piuttosto il fine, la scelta, invece, i mezzi: per esempio, noi vogliamo star bene disalute e scegliamo i mezzi per star bene; vogliamo essere felici e diciamo appunto che lo vo-gliamo, ma è stonato dire che lo scegliamo. In generale, infatti, [30] sembra che la scelta ri-guardi solo le cose che dipendono da noi. Dunque, non può essere neppure un’opinione,poiché si ammette che l’opinione riguardi ogni specie di oggetto, quelli eterni ed impossibi-li non meno di quelli che dipendono da noi: ed essa si distingue secondo il falso ed il vero,non secondo il bene ed il male, mentre la scelta si distingue piuttosto secondo questi ulti-mi. Dunque, [1112a] nessuno, certo, può dire che si identifica con l’opinione in generale.Ma neppure con un certo tipo di opinione: infatti, è con lo scegliere il bene o il male che de-terminiamo la nostra qualità morale, e non con l’averne una certa opinione. E noi sceglia-mo di conseguire o di evitare qualcosa di bene o di male, mentre un’opinione l’abbiamo suche cos’è una cosa o a chi giova o in che modo: [5] non abbiamo certo l’opinione di conse-guirla o di evitarla. E poi la scelta è lodata, per il fatto di avere l’oggetto che si deve piutto-sto che per il fatto di essere retta, mentre l’opinione è lodata per l’essere conforme al vero.Inoltre, scegliamo le cose che noi sappiamo molto bene che sono buone, mentre abbiamoopinione su quelle che non conosciamo perfettamente. Comunemente, poi, si ritiene chenon sono gli stessi a compiere le scelte migliori, ma che [10] alcuni hanno opinioni piutto-sto buone, ma poi, per vizio, scelgono quello che non si deve. Che, poi, un’opinione precedao segua la scelta non ha alcuna importanza. Non è questo, infatti, che stiamo esaminando,

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ma se la scelta si identifichi con un determinato tipo di opinione. Che cosa è, dunque, o chetipo di cosa è la scelta, dal momento che non è nessuna delle cose precedentemente dette?È manifestamente un che di volontario, ma non ogni volontario è possibile oggetto di scel-ta. [15] Ma non sarà forse quel volontario che è preceduto da una deliberazione? Infatti, lascelta è accompagnata da ragione, cioè da pensiero. Ed anche il nome sembra suggerire cheè ciò che viene scelto prima di altre cose.

3. [La deliberazione].

Ma si delibera di tutto, cioè ogni cosa è un possibile oggetto di deliberazione, oppure di al-cune cose non è possibile deliberazione? Senza dubbio bisogna dire che è oggetto di delibe-razione [20] non ciò su cui delibererebbe uno stupido o un pazzo, ma ciò su cui delibere-rebbe un uomo che ha senno. Nessuno, certo, delibera sulle cose eterne, per esempio sulcosmo o sull’incommensurabilità della diagonale col lato del quadrato. Ma neppure suquelle che sono, sì, in movimento, ma sempre secondo le stesse modalità, sia per necessità,sia [25] per natura, o per qualche altra causa (per esempio sul rivolgimento e sul sorgeredegli astri). Né su ciò che avviene ora in una maniera ora in un’altra, come siccità e piogge.Né su ciò che accade per caso, come il rinvenimento di un tesoro. Ma neppure su tutte lecose umane, come, per esempio, nessuno Spartano delibera sulla migliore forma di gover-no per gli Sciti. [30] Infatti, nessuna di queste cose può dipendere da noi. Invece deliberia-mo sulle cose che dipendono da noi, cioè su quelle che possono essere compiute da noi: equeste sono tutto quello che resta. Infatti, si ammette che cause siano natura necessità e ca-so, e inoltre l’intelletto e tutto ciò che è causato dall’uomo. E i singoli uomini deliberano suciò che può essere fatto da loro stessi. E per quanto riguarda [1112b] le scienze esatte e persé sufficienti, non è possibile deliberazione: per esempio, per quanto riguarda le letteredell’alfabeto (giacché non abbiamo dubbi su come vadano scritte). Ma su tutto quanto di-pende da noi, ma non sempre allo stesso modo, su questo noi deliberiamo: per esempio, suquestioni di medicina e di affari, [5] e tanto più sull’arte del pilota che non sulla ginnastica,quanto meno quella è precisa, ed inoltre in maniera simile su tutte le altre cose, e più sullearti che non sulle scienze, giacché sulle prime siamo più incerti. La deliberazione ha luogoa proposito di quelle cose che per lo più si verificano in un certo modo, ma che non è chiarocome andranno a finire, cioè quelle in cui c’è indeterminatezza. [10] Per le cose importantiprendiamo dei consiglieri, perché non ci fidiamo di noi stessi, ritenendo di non essereall’altezza di conoscerle adeguatamente. Deliberiamo non sui fini, ma sui mezzi per rag-giungerli. Infatti, un medico non delibera se debba guarire, né un oratore se debba persua-dere, né un politico se debba stabilire un buon governo, né alcun altro delibera [15] sul fi-ne. Ma, una volta posto il fine, esaminano in che modo e con quali mezzi questo potrà esse-re raggiunto: e quando il fine può manifestamente essere raggiunto con più mezzi, esami-nano con quale sarà raggiunto nella maniera più facile e più bella; se invece il fine può esse-re raggiunto con un mezzo solo, esaminano in che modo potrà essere raggiunto con questomezzo, e con quale altro mezzo si raggiungerà a sua volta il mezzo, finché non giungano al-la causa prima, che, nell’ordine della scoperta, è l’ultima. [20] Colui che delibera sembrache compia una ricerca ed una analisi nel modo suddetto, come per costruire una figurageometrica (ma è manifesto che non ogni ricerca è una deliberazione, per esempio quellematematiche, mentre ogni deliberazione è una ricerca), è ciò che è ultimo nell’analisi è pri-mo nella costruzione. E se ci si imbatte in qualcosa di impossibile, [25] ci si rinuncia: peresempio, se occorre denaro ed è impossibile procurarselo. Se, invece, la cosa si rivela possi-bile, ci si accinge ad agire. Possibili sono le cose che dipendono da noi, giacché quelle chedipendono dai nostri amici in certo qual modo dipendono da noi: il loro principio infatti èin noi. Oggetto della ricerca sono a volte gli strumenti a volte il loro uso: [30] similmenteanche in tutti gli altri casi, talora si ricerca lo strumento, talora il modo di usarlo, talora il

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mezzo per ottenere tale strumento. Sembra, dunque, come si è detto, che l’uomo sia princi-pio delle proprie azioni: la deliberazione riguarda ciò che può essere fatto da colui stessoche delibera, e le azioni hanno come fine qualcosa di diverso da loro stesse. Dunque, l’og-getto della deliberazione non può essere il fine bensì i mezzi. Né, certamente, possono es-serlo i singoli dati di fatto [1113a], per esempio se questo è pane o se è stato cotto come sideve, poiché i singoli dati di fatto sono oggetto della sensazione. Se, poi, si dovesse sempredeliberare, si andrebbe all’infinito. L’oggetto della deliberazione e quello della scelta sonola medesima cosa, tranne per il fatto che l’oggetto della scelta è già stato determinato: infat-ti, è ciò che è stato precedentemente giudicato dalla deliberazione ciò che viene scelto. [5]Infatti, ciascuno smette di cercare come agirà quando ha ricondotto il principio dell’azionea se stesso, e, precisamente, a quella parte di sé che è dominante, giacché è questa che sce-glie. E questo risulta chiaro anche dalle antiche costituzioni, quelle che rappresentò Ome-ro: i re, infatti, facevano annunciare al popolo quello che essi avevano scelto. Poiché, dun-que, [10] l’oggetto della scelta è una cosa che dipende da noi, desiderata in base ad una de-liberazione, anche la scelta sarà un desiderio deliberato di cose che dipendono da noi: in-fatti, quando, in base ad una deliberazione, arriviamo ad un giudizio, proviamo un deside-rio conforme alla deliberazione. Si consideri conclusa la trattazione schematica della scelta,della natura dei suoi oggetti e del fatto che riguarda i mezzi relativi ai fini.

4. [La volontà].

[15] Abbiamo già detto che la volontà ha per oggetto il fine, ma alcuni pensano che esso siail bene, altri ciò che appare bene. Ma a coloro che affermano che l’oggetto della volontà è ilbene succede di dover affermare che non è oggetto di volontà ciò che vuole colui che nonsceglie rettamente (se infatti fosse oggetto di volontà sarebbe anche un bene; ma nel casoipotizzato era un male). D’altra parte, [20] a coloro che affermano che oggetto di volontà èciò che appare bene succede di dover affermare che non c’è un oggetto di volontà per natu-ra, ma che lo è ciò che sembra bene a ciascuno: ad uno sembra una cosa, ad un altro un’al-tra, e, se fosse così, oggetto della volontà sarebbero le cose contrarie. Ma se queste conse-guenze non piacciono, non bisogna allora dire che in senso assoluto e secondo verità ogget-to di volontà è il bene, ma per ciascuno in particolare è ciò che appare tale? [25] Per l’uomodi valore ciò che è veramente bene, per il miserabile, invece, una cosa qualsiasi, come an-che nel caso dei corpi: per quelli che sono in buone condizioni sono salutari le cose che so-no veramente tali, per quelli malaticci altre cose; e similmente per l’amaro, il dolce, il cal-do, il pesante e così via. Infatti, l’uomo di valore [30] giudica rettamente di ogni cosa, ed inognuna a lui appare il vero. Per ciascuna disposizione, infatti, ci sono cose belle e piacevoliad essa proprie, e forse l’uomo di valore si distingue soprattutto per il fatto che vede il veroin ogni cosa, in quanto ne è regola e misura. Nella maggior parte degli uomini, invece, l’in-ganno sembra avere origine dal piacere: esso appare un bene, ma non lo è. [1113b] Essiscelgono, pertanto, il piacere come se fosse un bene, e fuggono il dolore come se fosse unmale.

5. [Le virtù e i vizi sono volontari, e perciò implicano responsabilità].

Poiché, dunque, oggetto di volontà è il fine, e oggetti di deliberazione e di scelta sono i mez-zi, le azioni concernenti i mezzi [5] saranno compiute in base ad una scelta, cioè sarannovolontarie. Ma le attività delle virtù hanno per oggetto i mezzi. Dunque, la virtù dipende da

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noi, e così pure il vizio. Infatti, nei casi in cui dipende da noi l’agire, dipende da noi anche ilnon agire, e in quelli in cui dipende da noi il non agire, dipende da noi anche l’agire. Cosic-ché, se l’agire, quando l’azione è bella, dipende da noi, anche il non agire dipenderà da noi,[10] quando l’azione è brutta; e se il non agire, quando l’azione è bella, dipende da noi, an-che l’agire, quando l’azione è brutta, dipende da noi. Se dipende da noi compiere le azionibelle e quelle brutte, e analogamente anche il non compierle, e se è questo, come dicevamo,l’essere buoni o cattivi, allora dipende da noi l’essere virtuosi o viziosi. Il dire che "nessunoè volontariamente [15] malvagio, né involontariamente felice" sembra essere in parte falsoe in parte vero: infatti nessuno è felice involontariamente, ma la malvagità è volontaria. Di-versamente, bisogna rimettere in discussione quanto abbiamo ora detto, e bisogna negareche l’uomo sia principio e padre delle proprie azioni come lo è dei figli. Ma se è manifestoche è così e se non possiamo [20] ricondurre le nostre azioni ad altri principi se non a quel-li che sono in noi, le azioni i cui principi sono in noi dipendono da noi e sono volontarie. Diciò sembrano rendere testimonianza sia i singoli uomini nella condotta privata, sia gli stes-si legislatori; questi, infatti, puniscono e infliggono pene a coloro che compiono azioni mal-vagie: a quelli, però, che non le compiono per costrizione o per un’ignoranza di cui non so-no essi stessi causa, [25] mentre conferiscono onori a coloro che compiono azioni belle, conl’intenzione di incitare questi e di tenere a freno quelli. Ma le azioni che non dipendono danoi e che non sono volontarie, nessuno incita a compierle, così come non ha alcun effettol’essere persuasi a non provare caldo o dolore o fame o altra affezione simile, giacché nonsoffriamo di meno [30] quelle affezioni. E, infatti, puniscono per l’ignoranza stessa quandoritengono che uno sia causa della propria ignoranza; per esempio, per gli ubriachi le penesono doppie, giacché il principio dell’azione è in colui stesso che la compie: infatti è padro-ne di non ubriacarsi, ma l’ubriachezza, poi, è causa della sua ignoranza. E puniscono coloroche ignorano qualcuna delle prescrizioni legali, prescrizioni che bisogna conoscere e chenon sono difficili, [1114a] e similmente anche negli altri casi, in cui ritengono che l’ignoran-za sia causata da trascuratezza, in quanto dipende dagli interessati il non essere ignoranti:essi sono, infatti, padroni di prendersi la cura di uscire dall’ignoranza. E certo qualcuno ètale da non prendersene cura. Ma dell’essere divenuti tali gli uomini stessi sono causa, [5]in quanto vivono con trascuratezza, e dell’essere ingiusti e intemperanti sono causa, nelprimo caso, coloro che agiscono malvagiamente, nel secondo coloro che passano la vita de-diti al bere e a cose simili: infatti, sono le attività relative ai singoli ambiti di comportamen-to che li rendono appunto ingiusti e intemperanti. Questo risulta chiaro da coloro che sipreoccupano di riuscire in una competizione o in un’azione qualsiasi: passano, infatti, tuttoil loro tempo ad esercitarsi. L’ignorare, dunque, [10] che le disposizioni del carattere si ge-nerano dal fatto di esercitarsi nei singoli campi è proprio di chi è affatto insensato. Inoltre,è assurdo dire che chi commette ingiustizia non vuole essere ingiusto o che chi si comportacon intemperanza non vuole essere intemperante. E se uno compie delle azioni in conse-guenza delle quali sarà ingiusto, e lo sa, sarà ingiusto volontariamente; né certamente ba-sterà volerlo, per cessare di essere ingiusto e per essere giusto. Infatti, neppure [15] il mala-to può diventar sano solo volendolo. E se questo è il caso, è volontariamente che si trova instato di malattia, in quanto vive da incontinente e non dà retta ai medici. All’inizio, sì, gliera possibile non ammalarsi, ma, una volta lasciatosi andare, non più, come uno che hascagliato una pietra non può più riprenderla: tuttavia, dipende da lui lo scagliarla, giacchéil principio dell’azione è in lui. Così anche all’ingiusto [20] ed all’intemperante all’inizio erapossibile non diventare tali, ragion per cui lo sono volontariamente: una volta divenuti tali,non è loro più possibile non esserlo. Non solo i vizi dell’anima sono volontari, ma per alcu-ni anche quelli del corpo, ed a loro li rinfacciamo. Infatti, nessuno biasima quelli che sonobrutti per natura, ma quelli che lo sono per mancanza di ginnastica [25] e per trascuratez-za. E similmente anche nel caso di debolezza e di mutilazione: nessuno, infatti, rimprovere-rebbe uno che è cieco per natura o per malattia o per ferita, ma piuttosto ne avrebbe com-passione; ognuno, invece, biasimerebbe chi fosse cieco per abuso di vino o per qualche al-tra intemperanza. Dunque, dei vizi del corpo quelli che dipendono da noi vengono biasima-

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ti, ma quelli che non dipendono da noi, no. Se è [30] così, anche negli altri casi i vizi che ri-cevono biasimo dipenderanno da noi. Se, poi, si dicesse che tutti tendono a ciò che a loroappare bene, senza però essere padroni di quell’apparire, ma il fine appare a ciascuno,[1114b] caso per caso, tale quale ciascuno anche è, risponderemmo che, se dunque ciascunoper sé è in qualche modo causa della sua disposizione, sarà in qualche modo causa anche diquell’apparire. E se no, nessuno è per sé causa del suo cattivo comportamento, ma compiequeste cattive azioni per ignoranza del fine, [5] credendo che da esse gli deriverà il massi-mo bene, e la tensione verso il fine non è frutto di una scelta personale, ma esige che unosia nato, per così dire, con una capacità visiva che gli permetterà di giudicare rettamente edi scegliere ciò che è veramente bene; ed è ben dotato chi ha ricevuto buona dalla naturaquesta capacità visiva: essa, infatti, è la cosa più grande e più bella, e cosa che non è possi-bile [10] prendere o imparare da altri, ma che uno possederà tale e quale l’ha ricevuta dallanascita, e l’essere questa dalla nascita buona e bella costituirà la perfetta e vera "buona na-tura". Se, dunque, questo è vero, perché mai la virtù dovrà essere volontaria più che non ilvizio? Ad entrambi infatti, sia al buono sia al cattivo, il fine appare allo stesso modo [15] esi trova posto per entrambi per natura o come che sia, ed essi, poi, tutto il resto compionoriferendosi a quello in un modo o nell’altro. Dunque, sia nel caso che il fine non si riveli pernatura a ciascuno nella sua determinatezza, ma che qualcosa dipenda anche dall’uomostesso, sia nel caso che il fine sia fornito dalla natura, per il fatto che l’uomo di valore com-pie tutti gli altri atti volontariamente, la virtù è volontaria, ed anche il vizio [20] non saràmeno volontario: in modo simile, infatti, anche al vizioso compete il determinarsi per sestesso nelle azioni anche se non nel fine. Se dunque, come si dice, le virtù sono volontarie(ed infatti noi stessi siamo in qualche modo concausa delle nostre disposizioni, e per il fat-to di avere certe qualità poniamo un certo fine corrispondente), anche i vizi saranno volon-tari: la situazione, [25] infatti, è la stessa.

Dunque, delle virtù in generale abbiamo detto in abbozzo quale è il loro genere, cioè che so-no delle medietà e delle disposizioni, che per se stesse ci fanno compiere le azioni da cui es-se appunto derivano, che dipendono da noi e sono volontarie, e che ci fanno agire così co-me ordina la retta ragione. [30] Ma le azioni e le disposizioni non sono volontarie allo stes-so modo: infatti, siamo padroni delle azioni dal principio alla fine, in quanto ne conoscia-mo le singole circostanze; delle disposizioni, invece, siamo padroni solo dell’inizio, [1115a]in quanto non ci è noto il loro graduale accrescimento, come nel caso delle malattie. Mapoiché dipende da noi farne questo o quest’altro uso, per questa ragione sono volontarie.

Riprendendo il discorso su ciascuna virtù, diciamo quale è la loro natura, [5] quali oggettiriguardano e in qual modo: ed insieme sarà chiaro anche quante sono. E innanzi tutto trat-tiamo del coraggio.

6. [II coraggio].

Che, dunque, il coraggio sia una medietà tra paura e temerarietà, è già risultato chiaro. Edè evidente che noi abbiamo paura delle cose temibili e che queste sono, per dirla semplice-mente, dei mali: perciò si definisce la paura come aspettativa di un male. [10] Orbene, noitemiamo tutti i mali, come, per esempio, disonore, povertà, malattia, mancanza di amici,morte, ma non si ritiene che l’uomo coraggioso sia tale in rapporto a tutti i mali. Ci sono al-cuni mali, infatti, che bisogna temere, e che è bello temere, e brutto il non temere, come ildisonore, giacché chi lo teme è un uomo per bene e riservato, chi non lo teme, invece, è im-pudente. [15] L’impudente è da alcuni chiamato coraggioso, ma per metafora, perché haqualcosa di simile al coraggioso: anche il coraggioso, infatti, è uno che non ha paura. La po-

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vertà, certo, non bisogna temerla, né la malattia, né, in genere, tutto quanto non deriva dalvizio, né è causato da chi agisce. Ma neppure chi non ha paura di fronte a queste cose è co-raggioso. Tuttavia, noi chiamiamo così anche questo per somiglianza: [20] alcuni, infatti,pur essendo vili nei pericoli della guerra, sono tuttavia liberali e affrontano coraggiosamen-te la perdita della loro ricchezza. Certamente neppure chi tema un oltraggio ai propri figliod alla moglie, o chi tema l’invidia o qualche cosa di questo genere, è un vile; né è coraggio-so, se ha ardire mentre sta per essere fustigato. Dunque, in relazione a quali oggetti, traquelli temibili, si determina [25] l’uomo coraggioso? Non è, forse, di fronte a quelli piùgrandi? Nessuno, infatti, più di lui, è in grado di sopportare ciò che ispira timore. Ma la co-sa che suscita la paura più grande è la morte: essa è, infatti, un termine, e si ritiene che perchi è morto non vi sia più nulla di bene né di male. Ma neppure in ogni circostanza in cui sipresenti la morte, come, per esempio, in mare o nelle malattie, l’uomo si determina comecoraggioso. In quali circostanze allora? Non sarà [30] nelle circostanze più belle? Tali sonole circostanze della morte in guerra, cioè nel pericolo più grande e più bello. E corrispon-denti ad esse sono anche gli onori per ciò concessi nelle città ed alla corte dei monarchi. Inconclusione, si chiamerà propriamente coraggioso colui che sta senza paura di fronte aduna morte bella, e di fronte a tutte le circostanze che costituiscono rischio immediato checonduce ad una tale morte: di questo tipo sono [35] soprattutto le situazioni di guerra. Tut-tavia, l’uomo coraggioso resta senza paura anche in mare [1115b] e nelle malattie, ma nonallo stesso modo degli uomini di mare: gli uomini coraggiosi, infatti, non sperano nella sal-vezza e disprezzano una simile morte, mentre gli uomini di mare sono pieni di speranza,sulla base della loro esperienza. Nello stesso tempo, poi, si mostrano coraggiosi anche nellecircostanze in cui c’è bisogno di vigore, [5] oppure in cui è bello morire: ma, in tali tipi dimorte, non c’è né una cosa né l’altra.

7. [Bellezza morale del coraggio].

Ciò che suscita paura non è la stessa cosa per tutti gli uomini; ma noi diciamo che c’è qual-cosa che suscita paura anche al di sopra delle forze umane. Questo, dunque, fa paura achiunque: a chiunque, almeno, abbia senno. Ma le cose a misura d’uomo differiscono pergrandezza, cioè per il fatto di essere [10] più grandi o più piccole; allo stesso modo anche lecose che ispirano ardire. L’uomo coraggioso è impavido quanto può esserlo un uomo. Te-merà, dunque, anche le cose a misura d’uomo, ma vi farà fronte come si deve e come vuolela ragione, in vista del bello, perché questo è il fine della virtù. È possibile temere queste co-se di più e di meno, ed inoltre temere le cose non temibili come se lo fossero. [15] L’erroresi produce o perché si teme ciò che non si deve, o perché si teme nel modo in cui non si de-ve, o perché non è il momento, o per qualche motivo simile: lo stesso vale anche per le coseche ispirano ardire. Orbene, colui che affronta, pur temendole, le cose che si deve, e checorrispondentemente ha ardire come e quando si deve, è coraggioso: infatti, [20] il corag-gioso patisce e agisce secondo il valore delle circostanze e come prescrive la ragione. Il finedi ogni attività è quello che è conforme alla disposizione da cui essa procede: dunque, an-che per il coraggioso. Il coraggio, poi, è una cosa bella: tale, quindi, sarà anche il suo fine,giacché ogni cosa si definisce in base al suo fine. Dunque, è in vista del bello morale che ilcoraggioso affronta le situazioni temibili e compie le azioni che derivano dal coraggio. Dicoloro che peccano per eccesso, colui che pecca per mancanza di paura [25] non ha nome(abbiamo detto in precedenza che molte qualità non hanno nome) ma sarebbe un uomofolle o un insensibile se non temesse nulla, né terremoto né flutti, come dicono dei Celti:colui invece che eccede nell’ardire di fronte a cose temibili è temerario. Si ritiene comune-mente che il temerario sia anche un millantatore, [30] cioè uno che simula coraggio: comeil coraggioso è realmente di fronte alle cose temibili, così il temerario vuole apparire: in ciò

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che può, quindi, lo imita. Perciò i più di loro sono una mescolanza di viltà e temerarietà,giacché in queste situazioni si mostrano coraggiosi, ma non sanno affrontare quelle real-mente temibili. Chi eccede nel temere è vile, perché teme ciò che non si deve [35] e comenon si deve, e tutte le caratteristiche di questo genere gli competono di conseguenza.[1116a] Difetta anche nell’ardire, ma ciò che è più evidente è che eccede nel temere nelle si-tuazioni dolorose. Certo il vile è una specie di uomo senza speranza, giacché ha paura ditutto. Il coraggioso, invece, è tutto il contrario: l’avere ardire, infatti, è proprio dell’uomoricco di speranza. Il vile, dunque, [5] il temerario e il coraggioso hanno rapporto coi mede-simi oggetti, ma vi si rapportano in modo differente: i primi, infatti, peccano per eccesso eper difetto, quest’ultimo invece si tiene nel mezzo e si comporta come si deve. I temerari,inoltre, sono precipitosi, e, mentre prima che i pericoli si presentino, li vogliono, quando ipericoli sono attuali si tirano indietro: i coraggiosi, invece, sono risoluti nei fatti e calmi pri-ma. [10] Dunque, come abbiamo detto, il coraggio è una medietà che ha per oggetto coseche suscitano ardire e cose che suscitano paura, nelle circostanze che abbiamo indicato, ele sceglie e le affronta perché è bello il farlo, o perché è brutto il non farlo. Il morire per fug-gire la povertà o l’amore o una sofferenza qualsiasi non è da uomo coraggioso, ma piuttostoda vile: infatti, è una debolezza quella di fuggire i travagli, e chi in tal caso affronta la morte[15] non lo fa perché è bello, ma per fuggire un male.

8. [Cinque disposizioni impropriamente denominate coraggio].

II coraggio, dunque, ha queste caratteristiche; ma si chiamano coraggio anche altre dispo-sizioni, distinte in cinque specie.

(1) Innanzi tutto il coraggio civile, giacché è quello che assomiglia di più al coraggio vero eproprio. Infatti, si ritiene comunemente che i cittadini affrontino i pericoli a causa delle pe-ne e dei biasimi stabiliti dalle leggi, ed a causa degli onori: [20] per questo si ritiene che ipiù coraggiosi siano quelli presso i quali i vili sono infamati ed i coraggiosi onorati. Uominidi questo tipo rappresenta anche Omero, per esempio un Diomede e un Ettore:

"Polidamante per primo mi coprirà d’infamia"

e

[25] "Dirà Ettore un giorno, parlando fra i Teucri:

"Da me travolto il Titide..."".

Questa specie di coraggio è quella che assomiglia di più a quella descritta precedentemen-te, perché nasce da virtù: nasce, infatti, da pudore e da desiderio di bello (cioè d’onore), edal desiderio di evitare il biasimo, che è brutto. Si potrebbero porre nella medesima specie[30] anche coloro che sono forzati dai loro capi al medesimo comportamento; ma sono diqualità inferiore perché lo fanno non per pudore ma per paura, e per fuggire non ciò che èbrutto ma ciò che è doloroso: li forzano infatti i loro signori, come Ettore

"Ma chi scoprirò che vuole lungi dalla battaglia

starsene [...], questi

[35] non potrà più sfuggire i cani... ".

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E i capi che assegnano loro i posti, e che li battono se indietreggiano, [1116b] fanno la stes-sa cosa, e così pure coloro che li schierano davanti ai fossati o cose simili, giacché tutti co-storo li forzano. Invece bisogna essere coraggiosi non per forza, ma perché è bello.

(2) Anche l’esperienza di simili categorie di pericoli si pensa comunemente che sia corag-gio: di qui anche Socrate giunse a pensare [5] che il coraggio è una scienza. E coraggiosi al-cuni si mostrano in certe cose, altri in altre: nei pericoli della guerra i soldati di professio-ne, giacché si ritiene che in guerra vi siano molti falsi allarmi, che soprattutto i soldati diprofessione sanno cogliere a colpo d’occhio. Appaiono, quindi, coraggiosi, perché gli altrinon conoscono la natura dei fatti. Inoltre, in base all’esperienza sono capaci, più di ogni al-tro, di infliggere colpi senza riceverne, [10] perché sono abili nell’uso delle armi e ne pos-siedono di tali, quali sono probabilmente le più adatte sia per infliggere colpi sia per non ri-ceverne; combattono, quindi, come uomini armati contro uomini inermi e come atleti alle-nati contro dilettanti: in effetti, nelle competizioni atletiche non sono i più coraggiosi ad es-sere i migliori combattenti, ma [15] quelli che hanno la forza più grande e che si trovanonelle migliori condizioni fisiche. I soldati di professione diventano vili, invece, quando ilpericolo avanza e quando sono inferiori per numero e per armamento: sono i primi, infatti,a fuggire, mentre le truppe formate da cittadini muoiono sul posto, come accadde anchepresso il tempio di Hermes. Per questi uomini, infatti, è brutto fuggire, [20] e la morte èpreferibile ad un simile mezzo di salvezza; quelli, invece, anche all’inizio dell’azione affron-tano il pericolo solo perché credono di essere più forti; ma quando si rendono conto dellarealtà fuggono, perché temono la morte più dell’onta. L’uomo coraggioso, invece, non è dital fatta.

(3) Anche l’impulsività viene ricondotta al coraggio: si ritiene, infatti, che siano coraggiosianche quelli che agiscono per impulsività, [25] come le bestie quando si gettano contro co-loro che le hanno ferite, per il fatto che anche gli uomini coraggiosi sono impulsivi. L’im-pulsività è lo slancio più impetuoso contro i pericoli; di qui anche Omero: "egli infuse forzaalla loro impulsività", e "destò ardore e impulsività", e "un aspro ardore salì alle narici", e"il sangue gli ribollì". Tutte queste espressioni sembrano infatti significare [30] il risvegliodell’impulsività e l’impeto. Orbene, i coraggiosi agiscono per amore del bello, e l’impulsi-vità coopera con loro; le bestie invece, agiscono per il dolore, per il fatto di essere state col-pite o spaventate, dal momento che, quando sono nella foresta, non aggrediscono. Non è,dunque, coraggio il loro, [35] quando si slanciano verso il pericolo, spinte dalla sofferenzao dall’impulsività, senza prevedere nessuno dei rischi, poiché in questo modo, allora, sareb-bero coraggiosi anche gli asini quando hanno fame: anche se vengono percossi [1117a] nonsi allontanano dal pascolo. Anche gli adulteri, sotto la spinta del desiderio, compiono molteazioni audaci. Il più naturale, poi, sembra essere il coraggio che nasce dall’impulsività; [5]e, se all’impulsività si aggiunge una scelta e la consapevolezza del fine, sembra essere il co-raggio propriamente detto. Anche gli uomini, dunque, quando sono adirati, soffrono, equando si vendicano provano piacere; ma coloro che combattono per questi motivi sono,sì, battaglieri, ma non propriamente coraggiosi, giacché non combattono per il bello né co-me prescrive la ragione, bensì sotto la spinta della passione; tuttavia, hanno qualcosa che èmolto vicino al vero coraggio.

(4) Certo, neppure gli uomini fiduciosi [10] sono coraggiosi; infatti, per il fatto di aver vintospesso e molti nemici, hanno ardire nei pericoli: hanno una certa somiglianza con i corag-giosi, perché entrambi sono ardimentosi, ma, mentre i coraggiosi sono ardimentosi per leragioni sopra esposte, questi lo sono per il fatto che credono di essere i più forti e di nonpoter subire alcun danno. (Nello stesso modo si comportano anche gli ubriachi, [15] perchédiventano fiduciosi. Quando, invece, le cose non vanno in questo modo, essi fuggono.) Alcontrario, proprio dell’uomo coraggioso è, come abbiamo detto, affrontare ciò che è o appa-

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re temibile all’uomo, perché è bello farlo ed è brutto il non farlo. Perciò si ritiene che siaproprio di un uomo anche più coraggioso restare senza paura e senza turbamento nei peri-coli improvvisi più che non in quelli previsti, [20] giacché ciò che dipende di meno dallapreparazione deriva di più dalla disposizione. Infatti, i pericoli prevedibili uno può anchefarli oggetto di una scelta in base ad un calcolo e ad un ragionamento, ma quelli improvvisisi affrontano secondo la propria disposizione.

(5) Appaiono coraggiosi anche coloro che non riconoscono il pericolo, e non sono lontanidagli uomini fiduciosi, pur essendo inferiori in quanto non hanno la stima di sé che invecequelli possiedono. Perciò resistono [25] per un certo tempo: ma quelli che si sono inganna-ti, quando vengono a sapere o sospettano che le cose stanno diversamente, fuggono. Cosache capitò agli Argivi quando si imbatterono nei Laconi scambiati per Sicioni. Si è detto,dunque, quale è la natura dei coraggiosi, e di quelli che comunemente passano per corag-giosi.

9. [Il coraggio: osservazioni conclusive].

Se il coraggio è in rapporto con temerarietà e paura, il rapporto [30] non è lo stesso nei duecasi, ma riguarda soprattutto le cose che fanno paura. Infatti, è coraggioso chi in queste si-tuazioni rimane imperturbabile, e di fronte ad esse si comporta come si deve, più di quantonon faccia chi si trova in situazioni che ispirano ardire. È, dunque, per il fatto di affrontarele situazioni dolorose, come si è detto, che tali uomini vengono chiamati coraggiosi. Perciòil coraggio comporta anche dolore ed è giusto che venga lodato: infatti, è più difficile [35]affrontare le situazioni dolorose che astenersi dai piaceri. [1117b] Tuttavia si riconosceràche il fine che il coraggio permette di raggiungere è piacevole, ma che è oscurato dalle cir-costanze, come avviene anche nelle gare ginniche. Per i pugilatori il fine per cui combatto-no è piacevole (ciò per cui combattono è la corona e gli onori), ma il ricevere colpi è doloro-so, dal momento che sono [5] di carne, e penoso è tutto l’allenamento. E poiché le cose do-lorose sono molte, mentre il fine è piccola cosa, esso sembra non avere niente di piacevole.Se, dunque, la situazione è tale anche nel caso del coraggio, la morte e le ferite saranno do-lorose per l’uomo coraggioso, che le subirà contro voglia, ma le affronterà perché è bello af-frontarle, ovvero perché è brutto non farlo. E [10] quanto più completa sarà la virtù chepossiede e quanto più sarà felice, tanto più soffrirà di fronte alla morte: è per un uomo si-mile, soprattutto, che la vita è degna di essere vissuta, ed è lui che sarà privato dalla mortedei beni più grandi, e lo sa; e ciò è doloroso. Ma non è affatto meno coraggioso, anzi, forselo è anche di più, perché [15] sceglie, in cambio di quei beni, ciò che in guerra è bello. Dun-que, non a tutte le virtù appartiene la proprietà di essere esercitate piacevolmente, se nonnella misura in cui con esse si raggiunge il fine. Se si tratta poi di soldati, niente, certo, im-pedisce che, di fatto, i migliori non siano i soldati di questo tipo, bensì quelli meno corag-giosi, ma che non hanno alcun altro bene: questi ultimi infatti sono pronti di fronte ai peri-coli, e [20] barattano la loro vita in cambio di piccoli guadagni. Orbene, per quanto riguar-da il coraggio basti quanto si è fin qui detto: non è difficile, in base a quanto abbiamo detto,comprendere che cos’è, almeno sommariamente.

10. [La temperanza e l’intemperanza].

Dopo aver parlato del coraggio parliamo della temperanza, perché si ritiene che queste due

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siano le virtù delle parti irrazionali dell’anima. Che, [25] dunque, la temperanza è una me-dietà relativa ai piaceri, l’abbiamo già detto; essa, infatti, riguarda i dolori in misura mino-re ed in maniera diversa; nel medesimo campo si manifesta anche l’intemperanza. Qualipiaceri, dunque, esse riguardino, lo determineremo ora. Distinguiamo, dunque, i piaceridell’anima da quelli del corpo. Esempio dei primi, l’amore degli onori e l’amore del sapere:in ciascuno di questi casi, infatti, [30] si gode di ciò che si ama, senza che il corpo provi nul-la, ma è piuttosto la mente che prova piacere. Ma gli uomini che ricercano tali piaceri nonsono chiamati né temperanti né intemperanti. Similmente non sono chiamati così neppurequelli che ricercano i piaceri che non sono del corpo: infatti quelli che amano ascoltare oraccontare favole e [35] che passano le loro giornate a parlare di quel che capita, non lichiamiamo intemperanti, ma chiacchieroni; neppure chiamiamo intemperanti coloro chesoffrono per questioni di denaro o di amicizia. [1118a] La temperanza dovrebbe, dunque, ri-guardare i piaceri del corpo, e neppure tutti questi: coloro, infatti, che godono di ciò chepercepiamo mediante la vista (per esempio, dei colori e dei disegni, cioè della pittura), nonvengono chiamati né temperanti né intemperanti. [5] Eppure si riconoscerà che anche diqueste cose si può godere come si deve, ma anche in eccesso e in difetto. Lo stesso avvieneanche nel campo dell’udito: quelli che esagerano nel godere della musica o del teatro nessu-no li chiama intemperanti, né si chiamano temperanti quelli che godono come si deve. Nési danno questi nomi a chi ama i piaceri dell’odorato, se non [10] per accidente: non chia-miamo intemperanti coloro che godono degli odori delle mele o delle rose o dei profumi,ma piuttosto coloro che si dilettano degli odori degli unguenti o dei cibi raffinati. Gli intem-peranti, infatti, godono di questi odori, perché fanno loro ricordare gli oggetti desiderati. Sipuò osservare che anche gli altri uomini, quando hanno fame, godono [15] degli odori deicibi; ma godere proprio degli odori è tipico dell’intemperante, giacché per lui questi sonoper se stessi oggetti di desiderio. Ma neppure gli altri animali possono, se non per acciden-te, ricavare un piacere da queste sensazioni. Infatti, ai cani non è l’odore delle lepri che pia-ce, bensì il mangiarle, e l’odorato gliene produce la sensazione. [20] Né al leone piace ilmuggito del bue, ma gli piace divorarlo: sembra che goda, invece, del muggito, perché è at-traverso il muggito che ha percepito che il bue è vicino. Similmente non gode perché vede"un cervo o una capra selvatica", ma perché l’avrà come pasto. La temperanza e l’intempe-ranza riguardano, dunque, i piaceri di natura tale che anche gli altri [25] animali ne parte-cipano, ragion per cui si rivelano piaceri servili e bestiali. E questi sono il tatto e il gusto.

Ma anche del gusto, manifestamente, essi fanno poco o nessun uso, giacché compito delgusto è quello di discernere i sapori, cosa che fanno gli assaggiatori di vini e quelli che con-discono cibi raffinati: ma non è assaggiare e condire che a loro piace, [30] almeno non agliintemperanti, bensì ricavarne il godimento che deriva loro dal tatto, sia nei cibi sia nelle be-vande, sia nei rapporti cosiddetti afrodisiaci. Perciò un tale, che era un ghiottone, pregavache la sua gola divenisse più lunga di quella di una gru, mostrando che il godimento gli de-rivava dal tatto. [1118b] Dunque, è il più comune dei sensi quello con cui è connessa l’in-temperanza: ed essa sarà giustamente ritenuta il più biasimevole dei vizi, perché ci riguar-da non in quanto siamo uomini, ma in quanto animali. Godere dunque di simili sensazionied amarle al di sopra di tutto è bestiale. [5] E infatti ne restano esclusi, tra i piaceri derivatidal tatto, quelli più degni di uomini liberi, come, per esempio, quelli che nei ginnasi vengo-no prodotti dal massaggio e dal conseguente riscaldamento, perché il piacere tattile dell’in-temperante non riguarda l’intero corpo, ma solo alcune parti di esso.

11. [Temperanza, intemperanza e insensibilità].

Si ritiene comunemente che alcuni dei desideri siano comuni a tutti, e che altri, invece, sia-

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no propri dell’individuo e avventizi. Per esempio, il desiderio del nutrimento è naturale:[10] chiunque ne abbia bisogno, infatti, desidera nutrimento solido o liquido, e talora en-trambi, e chi è giovane e nel pieno delle forze, come dice Omero, desidera i piaceri del letto.Però, desiderare questo o quel piacere determinato non è più cosa di tutti, né ciascuno desi-dera sempre le stesse cose. Perciò è qualcosa di soggettivo. Tuttavia la preferenza indivi-duale ha almeno qualcosa anche di naturale: infatti, per alcuni sono piacevoli certe cose,per altri altre, ed alcune cose sono per tutti più piacevoli [15] di altre cose qualsiasi. Nei de-sideri naturali, dunque, sono pochi gli uomini che errano e in una sola direzione, in quelladell’eccesso: infatti, mangiare o bere tutto quello che capita fino ad essere troppo pieni si-gnifica superare in quantità la soddisfazione richiesta dalla natura, giacché il desiderio na-turale è il mezzo per riempire il vuoto del bisogno. Perciò costoro sono chiamati golosi,[20] perché riempiono il ventre più del conveniente: e tali diventano quelli che hanno untemperamento troppo da schiavi. Invece, riguardo ai piaceri particolari all’individuo molti,e spesso, errano. Gli amatori di questa o quella cosa determinata sono così chiamati per ilfatto che godono delle cose di cui non devono godere, o perché ne provano piacere più diquanto generalmente si faccia, o perché non lo fanno come si deve. Gli intemperanti, inve-ce, eccedono in tutti questi modi insieme: [25] godono, infatti, di alcune cose delle qualinon si deve (perché sono odiose), e se godono di alcune di quelle di cui si deve godere, lofanno più di quanto si deve e di quanto non faccia la maggior parte della gente. È dunqueevidente che l’eccesso nei piaceri è intemperanza e cosa biasimevole. Quanto ai dolori, d’al-tra parte, non è come nel caso del coraggio che si è chiamati temperanti [30] per il fatto disopportarli o intemperanti per il fatto di non sopportarli, ma l’intemperante è chiamato co-sì perché si addolora più del dovuto per il fatto di non riuscire ad ottenere i piaceri deside-rati (così è il piacere che all’intemperante causa dolore), mentre il temperante viene chia-mato così per il fatto che non soffre per l’assenza di ciò che è piacevole e per il doverseneastenere. [1119a] L’intemperante, dunque, desidera le cose piacevoli, tutte, o quelle che losono in massimo grado, ed è trascinato dal desiderio a scegliere queste in cambio di tutte lealtre: perciò soffre sia quando non le ottiene, sia quando le desidera (il desiderio, infatti, èaccompagnato dal dolore, benché [5] sembri assurdo provar dolore a causa del piacere). Diuomini che peccano per difetto in ciò che riguarda i piaceri o che godono meno di quantonon sia conveniente, non ce ne sono molti: non è umana una simile insensibilità. Anchetutti gli altri animali, infatti, distinguono i cibi, e di alcuni godono e di altri no. Se per unuomo non ci fosse nulla di piacevole né alcuna differenza tra una cosa e l’altra, quell’uomo[10] sarebbe molto lontano dall’essere veramente uomo: un tipo simile non ha neppure ri-cevuto un nome, per il fatto che non capita quasi mai. L’uomo temperante, invece, in que-ste cose si tiene nel mezzo. Infatti, non gode delle cose di cui soprattutto gode l’intempe-rante, ma piuttosto le detesta, né in genere di quelle di cui non si deve; non gode eccessiva-mente di alcunché di simile, e quando queste cose non ci sono non prova dolore o deside-rio, oppure lo fa con misura; non gode [15] più di quanto si deve, né quando non si deve,né, in generale, fa niente di simile. Tutto ciò che è piacevole e favorevole alla salute ed albenessere fisico, egli lo desidera con misura e come si deve; e così le altre cose piacevoli,purché non siano d’ostacolo alle prime, o contrarie al bello, o superiori ai suoi mezzi econo-mici. Chi si comporta così, infatti, ama simili piaceri più di [20] quanto meritino. L’uomotemperante, invece, non è di questo tipo, ma si comporta come prescrive la retta ragione.

12. [Diverso grado di volontarietà dell’intemperanza e della viltà].

L’intemperanza è simile ad un atto volontario più che non la viltà. L’una, infatti, è causatadal piacere, l’altra dal dolore, sentimenti dei quali l’uno è da preferire, l’altro da evitare; ementre il dolore sconvolge e corrompe la natura di chi lo prova, il piacere non fa niente di

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simile. [25] Per conseguenza, l’intemperanza è più volontaria, e perciò più riprovevole. In-fatti è più facile abituarvisi, giacché molte sono le situazioni di questo genere nella vita, echi vi si abitua non corre rischi, ma nel caso delle cose che suscitano paura è tutto il contra-rio. Si riterrà che la viltà non sia volontaria allo stesso modo nei singoli casi particolari: es-sa, infatti, di per sé non fa soffrire, ma i casi particolari, a causa del dolore, sconvolgono,tanto [30] da far gettare le armi e da far compiere tutte le altre azioni vergognose: perciò siritiene che siano atti forzati. Per l’intemperante invece, gli atti particolari sono volontari(poiché egli li desidera e li brama), ma il suo vizio in generale è meno volontario, perchénessuno desidera essere intemperante. Il nome di "intemperanza" l’attribuiamo, per meta-fora, anche agli errori infantili, poiché hanno una certa somiglianza con quelli degli adulti.[1119b] Quale delle due cose prenda il nome dall’altra non ha alcuna importanza per il pro-blema presente, ma è chiaro che la seconda l’ha preso dalla prima. E non sembra una catti-va metafora. Infatti, deve essere disciplinato l’essere che desidera cose brutte e che ha gran-di capacità di sviluppo; [5] e di tal natura sono soprattutto il desiderio e il fanciullo: infatti,anche i fanciulli vivono assecondando il desiderio, e soprattutto in essi vi è il desiderio diciò che è piacevole. Se, dunque, il fanciullo non sarà docile e sottomesso all’autorità, il suodesiderio avanzerà di molto, giacché nell’essere irragionevole il desiderio del piacere è insa-ziabile e riceve stimoli da tutte le parti, e l’esercizio del desiderio ne accresce la forza natu-rale, [10] e se i desideri sono grandi ed intensi giungono a cacciar via la capacità di ragiona-re. Perciò essi devono essere misurati e pochi, e non devono essere affatto in contraddizio-ne con la ragione, ed è questo che chiamiamo essere "docile" e "disciplinato". Come biso-gna che il fanciullo viva conformandosi ai precetti del suo pedagogo, così anche la facoltàdel desiderio deve conformarsi alla ragione. [15] Perciò bisogna che la facoltà del desideriodell’uomo temperante sia in armonia con la ragione: infatti, lo scopo di entrambe è il bello,e l’uomo temperante desidera ciò che si deve e come e quando si deve. Così ordina anche laragione. Questa, dunque, è la nostra dottrina della temperanza.

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Libro IV

1. [La liberalità].

Adesso trattiamo della liberalità. Generalmente si crede che essa sia la medietà concernen-te i beni materiali. Infatti, si loda l’uomo liberale non nelle azioni di guerra, né in quelle percui viene lodato l’uomo temperante, né, inoltre, nelle decisioni giudiziali, [25] bensì in rife-rimento al dare e al ricevere beni materiali, e soprattutto in riferimento al dare. Denomi-niamo, poi, beni materiali tutte le cose il cui valore si misura in denaro. La prodigalità el’avarizia sono eccessi e difetti che riguardano i beni materiali. E mentre attribuiamo il ter-mine avarizia sempre a coloro che si preoccupano dei beni materiali più di quanto bisogna,[30] talora applichiamo il termine prodigalità comprendendo insieme più significati: chia-miamo, infatti, prodighi gli incontinenti e coloro che scialacquano per soddisfare la loro in-temperanza. Perciò si ritiene comunemente che siano affatto miserabili, giacché hannomolti vizi insieme. Dunque, la loro denominazione non è appropriata: infatti "prodigo"vuol significare chi ha un vizio solo e determinato, quello di mandare in rovina il patrimo-nio. [1120a] Infatti, prodigo è chi si rovina da se stesso, e la distruzione del patrimonio si ri-tiene che sia una specie di rovina di se stessi, dal momento che è esso che rende possibilevivere. Per conseguenza, è in questo senso che prendiamo il termine "prodigalità". Delle co-se, poi, che hanno un uso, si può usare sia bene sia male. Ora, [5] la ricchezza appartienealle cose di cui si fa uso, e di ciascuna cosa fa l’uso migliore colui che ne ha la virtù relativa:dunque, anche della ricchezza farà il migliore uso possibile chi ha la virtù relativa ai benimateriali; e costui è l’uomo liberale. Ma l’uso dei beni materiali si ritiene che consista nellospendere e nel donare, mentre il prenderli e il custodirli sono piuttosto un possesso. [10]Perciò è più proprio dell’uomo liberale il donare a chi si deve che non il prendere di dove sideve, ovvero il non prendere di dove non si deve. È infatti caratteristico della virtù più fareil bene che non il riceverlo, e compiere belle azioni più che non compierne di cattive. E nonè difficile vedere che il donare implica fare il bene e compiere belle azioni, il prendere im-plica [15] ricevere il bene e non comportarsi male. Inoltre la riconoscenza va a chi dona,non a chi prende, ed ancor più la lode. Ed è più facile non prendere che donare: si è menodisposti a cedere del proprio che a non prendere dall’altrui.

E liberali sono chiamati quelli che donano; quelli che non prendono ciò che non devono[20] non sono lodati dal punto di vista della liberalità, bensì dal punto di vista della giusti-zia, e quelli che prendono ciò che devono non sono lodati affatto. Gli uomini liberali, poi,sono amati quasi di più di tutti quelli che sono amati per la virtù, perché sono benefici, el’essere benefici consiste nel donare. Le azioni virtuose sono belle ed hanno come fine ilbello. E l’uomo liberale, dunque, donerà in vista del bello [25] ed in maniera corretta: do-nerà, cioè, a chi si deve e nella quantità e nel momento in cui si deve, ed osserverà tutte lealtre condizioni che il donare rettamente implica; e lo farà con piacere, o almeno senza pe-na: infatti, ciò che è conforme a virtù è piacevole o senza pena, anzi non è affatto penoso.Colui che dona, invece, a chi non si deve, o dona non in vista del bello ma per qualche altromotivo, non potrà essere chiamato liberale, ma in qualche altro modo. Né [30] si potràchiamare liberale chi dona con pena: egli, infatti, anteporrà i suoi beni alla bella azione, equesto non è da uomo liberale. Né prenderà di dove non si deve: un simile prendere non è,infatti, proprio di un uomo che non stima i beni materiali. Né sarà liberale chi sollecita be-ni per sé, giacché non è proprio di chi fa il bene il farsi beneficiare senza scrupoli. Inveceprenderà di dove si deve, per esempio dalla sua proprietà privata, [1120b] non perché è bel-lo, ma perché è necessario al fine di avere di che donare. Né trascurerà i suoi beni persona-li, se non altro perché vuole con essi provvedere agli altri. Né donerà a chi capita, per averedi che donare a chi si deve, nel tempo e nel luogo in cui è bello donare. È affatto [5] caratte-

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ristico dell’uomo liberale persino eccedere nel donare, in modo da lasciare a se stesso laparte minore dei suoi beni: infatti, è proprio del liberale non guardare a se stesso. La libera-lità, poi, si determina a seconda del patrimonio: infatti, il carattere liberale del dono nonsta nella quantità di ciò che è donato, ma nella disposizione d’animo di colui che dona, equesta spinge a donare in proporzione al patrimonio. Per conseguenza, nulla impedisce[10] che sia più liberale chi dona di meno, se per donare attinge da un patrimonio più pic-colo. Si ritiene comunemente che siano più liberali coloro che non si sono procurati da sé ilpatrimonio, ma lo hanno ereditato: infatti, non hanno esperienza dell’indigenza ed inoltretutti gli uomini amano di più ciò che è opera loro, come i genitori ed i poeti. D’altra parte,non è facile arricchirsi [15] per un uomo liberale, poiché non è portato a prendere né a con-servare, ma a dar via, e non apprezza i beni materiali per se stessi, ma come mezzi per po-ter donare. Perciò si rimprovera la fortuna, perché coloro che ne sono più degni meno ar-ricchiscono. Ma questo succede non senza ragione: non è possibile che possieda dei benichi non si preoccupa di averne, come succede [20] anche in tutte le altre cose. Se non altro,il liberale non donerà a chi non si deve né quando non si deve, e così via; infatti non agireb-be più conformemente alla liberalità, e se spendesse per queste cose le sue sostanze, non neavrebbe per spenderle per ciò che si deve. Come, infatti, si è detto, è liberale chi spende inproporzione al proprio patrimonio e per ciò che si deve: chi, invece, eccede, [25] è prodigo.Perciò non chiamiamo prodighi i tiranni: infatti, non sembra che sia facile che col donare econ lo spendere possano superare la grandezza della loro proprietà. Poiché, dunque, la libe-ralità è la medietà relativa al donare e al prendere beni materiali, l’uomo liberale donerà espenderà per ciò che si deve e quanto si deve, allo stesso modo nelle piccole [30] che nellegrandi cose, e questo farà con piacere; e prenderà di dove si deve e quanto si deve. Poiché,infatti, la sua virtù è la medietà relativa al donare e al prendere, il liberale farà entrambe lecose come si deve: al donare in modo conveniente consegue anche un prendere convenien-temente, mentre un prendere diversamente è il suo contrario. Ordunque, le proprietà chesi implicano sono presenti insieme nello stesso uomo, mentre è chiaro che per quelle con-trarie non è così. [1121a] D’altra parte, se gli accadrà di spendere più del dovuto o più di ciòche è bello, ne soffrirà, ma moderatamente e come si deve: è tipico della virtù, infatti, pro-var piacere e dolore per ciò che si deve e come si deve. Infine, l’uomo liberale è molto acco-modante per quanto riguarda i beni materiali: [5] infatti, è capace di subire ingiustizia, senon altro perché non stima i beni materiali, e perché soffre di più se non dà qualcosa di do-vuto di quanto non si addolori se dà qualcosa di non dovuto, anche se così dispiace a Simo-nide. Il prodigo, invece, erra anche in queste cose: non prova, infatti, né piacere né doloredi ciò per cui si deve, né nel modo in cui si deve: ma sarà più chiaro per chi ci seguirà.

[10] Abbiamo dunque detto che la prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti, ed in duecose, nel donare e nel prendere, giacché comprendiamo anche lo spendere nel donare. Or-bene, la prodigalità eccede nel donare e nel non prendere, mentre difetta nel prendere;l’avarizia, invece, difetta nel donare, [15] ma eccede nel prendere, eccetto che nelle piccolecose. I due aspetti della prodigalità stanno raramente insieme: non è facile, infatti, per chinon prende da nessuna parte, donare a tutti, giacché le risorse vengono presto a mancare acoloro che donano, se sono dei privati, che sono i soli che comunemente si ritiene sianoprodighi. Tuttavia, chi possedesse entrambi gli aspetti della prodigalità sarebbe ritenutonon poco migliore [20] dell’avaro. Egli, infatti, può essere guarito dall’età e dalla povertà, epuò giungere alla medietà. Ha infatti i tratti dell’uomo liberale, giacché dona e non prende,ma nessuna delle due cose fa come si deve, cioè non le fa bene. Se, dunque, prendesse que-sta abitudine o comunque cambiasse comportamento, sarebbe un uomo liberale: allora do-nerà a chi si deve [25] e non prenderà di dove non si deve. Proprio per questo si ritiene chenon sia cattivo di carattere: non è, infatti, da uomo perverso ed ignobile eccedere nel dona-re e nel non prendere, bensì da stupido. Chi è prodigo in questo modo si ritiene che siamolto migliore dell’avaro per le ragioni dette, e perché quello benefica molta gente, questo,invece, nessuno, [30] neppure se stesso. Ma la maggior parte dei prodighi, come si è detto,

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giungono al punto di prendere di dove non si deve e, da questo punto di vista, sono degliavari. Diventano molto disponibili a prendere per il fatto di voler spendere, ma di non po-terlo fare facilmente, perché le sostanze vengono loro meno rapidamente. Sono quindi co-stretti a procacciarsele altrove. [1121b] Nello stesso tempo, è anche perché non si preoccu-pano per niente di ciò che è bello che prendono con noncuranza e da ogni parte: desidera-no infatti donare, ma non ha alcuna importanza per loro il modo con cui attingono e la fon-te da cui attingono. Perciò neppure le loro donazioni sono liberali: infatti, non sono moral-mente belle, né hanno come scopo il bello, [5] né sono fatte come si deve ma, talvolta, ren-dono ricchi uomini che dovrebbero rimanere poveri, e, mentre non darebbero nulla a uo-mini di carattere misurato, agli adulatori, invece, o a chi procura loro qualche altro piacere,donano molto. Proprio per questo la maggior parte di loro sono anche intemperanti, giac-ché spendono facilmente e sono scialacquatori per soddisfare le loro intemperanze, e, poi-ché non vivono per [10] ciò che è moralmente bello, sono proclivi ai piaceri. Il prodigo,quindi, quando rimane senza guida, si rivolge all’avarizia ed alla intemperanza, mentrequando gli capita di trovare chi si prende cura di lui può giungere al giusto mezzo e al com-portamento dovuto. L’avarizia, invece, è incorreggibile (si ritiene, infatti, che la vecchiaiaed ogni specie di impotenza rendano avari), ed è più connaturale agli uomini [15] che nonla prodigalità: la gente, infatti, ama di più possedere beni materiali che non donarli. L’ava-rizia, inoltre, ha una grande estensione e presenta molti aspetti: si ritiene, infatti, che moltisiano i modi di essere avari. Poiché consiste di due elementi, difetto nel dare ed eccesso nelprendere, non in tutti si realizza integralmente, ma talora si scinde, [20] e alcuni eccedononel prendere, mentre altri difettano nel dare. Infatti, quelli che rientrano in queste denomi-nazioni, per esempio, tirchi spilorci taccagni, tutti difettano nel dare, ma non aspirano aibeni altrui né vogliono prenderseli; gli uni per una certa onestà e per un certo ritegno difronte alle brutte azioni [25] (si pensa infatti che alcuni, o almeno loro dicono così, custodi-scano gelosamente i loro beni per non trovarsi mai costretti a compiere qualche bruttaazione; e a questi appartiene pure chi risparmia anche un grano di comino ed ogni tipo delgenere: e prende il nome dall’eccesso che consiste nel non donare nulla); gli altri, invece, siastengono dai beni altrui per paura, pensando che non è facile che uno si impadronisca deibeni degli altri [30] senza che gli altri si impadroniscano dei suoi: a loro, quindi, non piacené prendere né donare. Altri, al contrario, eccedono nel prendere, in quanto prendono tut-to e da ogni parte, come, per esempio, coloro che esercitano mestieri sordidi: i ruffiani etutti i loro simili, e gli usurai che prestano piccole somme a grande interesse. [1122a] Tutticostoro, infatti, prendono di dove non si deve e nella quantità che non si deve. Elementocomune a costoro è poi, manifestamente, la sordida cupidigia di guadagno: tutti, infatti, af-frontano il disonore in vista di un guadagno, anche se piccolo. Coloro, infatti, che traggonogrossi guadagni di dove non si deve, e non fanno ciò che si deve, non [5] li chiamiamo avari(per esempio, i tiranni che saccheggiano e spogliano i templi), ma, piuttosto, malvagi, em-pi, ingiusti. Tuttavia, il giocatore d’azzardo, il ladro e il pirata appartengono alla classe de-gli avari: sono, infatti, sordidamente cupidi di guadagno. È, infatti, in vista del guadagnoche gli uni e gli altri si danno da fare ed affrontano il disonore, e, [10] mentre questi ultimiaffrontano i più grossi rischi in vista del bottino, i primi traggono guadagni dagli amici, aiquali invece si dovrebbe donare. Gli uni e gli altri, dunque, in quanto vogliono trarre profit-ti di dove non si deve, sono sordidamente avidi di guadagno; e, per conseguenza, tutti que-sti modi di prendere sono propri dell’avarizia. A ragione, dunque, si dice che l’avarizia è ilcontrario della liberalità: infatti, è un male più grande [15] della prodigalità, e si pecca dipiù per avarizia che non per prodigalità, come noi l’abbiamo descritta. Orbene, tanto bastisull’argomento della liberalità e dei vizi a lei opposti.

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2. [La magnificenza].

Si ammetterà che a questo deve seguire la trattazione della magnificenza. Si ritiene, infatti,che anch’essa sia una virtù in rapporto ai beni materiali, [20] ma non si estende come la li-beralità a tutti i tipi di azione che hanno per oggetto beni materiali, bensì solo alle spese: inqueste, però, supera la liberalità per grandezza. Infatti, come il nome stesso suggerisce, èuna maniera conveniente di spendere in grande. Ma la grandezza è relativa: infatti, la spe-sa non è la stessa per chi è incaricato di armare una trireme [25] e per chi deve guidare unasacra legazione. La convenienza, dunque, è relativa a chi spende ed alle circostanze e all’og-getto della spesa. Chi, invece, spende in cose piccole o medie secondo che esse meritanonon si chiama magnifico (come l’uomo del detto "spesso ho donato al vagabondo"), bensìsolo colui che spende in grandi cose. Infatti, mentre l’uomo magnifico è liberale, l’uomo li-berale non è necessariamente magnifico. [30] Il difetto di tale disposizione d’animo si chia-ma meschinità, l’eccesso volgarità, mancanza di gusto e simili, disposizioni, queste ultime,che non eccedono in grandezza in relazione a ciò che si deve, bensì che fanno sfoggio in co-se per cui non si deve o in maniera in cui non si deve: di esse parleremo in seguito. Il ma-gnifico è simile ad un conoscitore, perché [35] è in grado di vedere la convenienza e faregrandi spese con gusto. [1122b] Come, infatti, dicemmo all’inizio, la disposizione viene defi-nita dalle sue attività e dai suoi oggetti. Ora, le spese dell’uomo magnifico sono grandi econvenienti. Tali, dunque, saranno anche le sue opere: così, infatti, la spesa sarà grande econveniente all’opera da compiere. Come l’opera [5] deve essere degna della spesa, così an-che la spesa deve essere degna dell’opera, o perfino superarla. Il magnifico farà spese di talgenere in vista di ciò che è moralmente bello, perché questo è comune a tutte le virtù. Inol-tre, le farà con piacere e con profusione di mezzi, giacché la minuziosità nei conti è qualco-sa di meschino. E si porrà il problema di come ottenere il risultato più bello e più conve-niente, piuttosto che di quanto costerà [10] e di come spendere il meno possibile. L’uomomagnifico è, dunque, necessariamente anche liberale. Infatti, anche l’uomo liberale spen-derà ciò che si deve e come si deve; ma, in queste spese legittime, è la grandezza che è tipi-ca dell’uomo magnifico, in quanto la magnificenza è appunto la grandezza della liberalitàrelativa a queste spese, e con una spesa uguale renderà l’opera più magnifica. Infatti, [15] ilvalore di ciò che si possiede e quello di un’opera non sono lo stesso. Il possesso più prezio-so, infatti, è quello che ha il massimo valore commerciale, come, per esempio, l’oro, mentrel’opera più preziosa è quella che è grande e bella (la contemplazione di una simile opera, in-fatti, suscita ammirazione, ed è appunto ciò che è magnifico che suscita ammirazione): ora,il valore dell’opera, la sua magnificenza, sta nella sua grandezza. La magnificenza, poi, hacome oggetto le spese che noi chiamiamo spese onorevoli (per esempio, quelle che si fanno[20] per gli dèi, offerte votive, costruzione di templi, sacrifici, e similmente per ogni aspet-to del culto religioso), e tutte quelle che si ha l’ambizione di fare per l’interesse comune(per esempio, secondo me, quando si pensa di dover allestire con splendore un coro o unatrireme, oppure anche di offrire un banchetto pubblico). Ora, in tutti questi casi, come si èdetto, la valutazione della spesa è rapportata a chi la fa ed è relativa alla persona che la fa[25] ed ai mezzi che questa ha: infatti, le spese devono essere degne dei suoi mezzi, e con-venire non solo all’opera ma anche a chi la compie. Perciò un povero non potrà essere ma-gnifico, perché non ha di che fare grandi spese in modo conveniente: e chi ci prova è scioc-co, perché ciò va al di là delle sue possibilità finanziarie e del suo dovere, mentre conformea virtù è solo ciò che viene compiuto rettamente. [30] Ora, tali spese convengono a coloroche possiedono adeguati mezzi, sia che li abbiano acquisiti personalmente, sia che li abbia-no ricevuti in eredità dagli avi, sia che derivino loro da altre relazioni, e poi ai nobili, allepersone illustri e così via, perché tutte queste condizioni comportano grandezza e prestigio.Soprattutto di questa natura è dunque l’uomo magnifico, ed è in spese di questo genere checonsiste la magnificenza, come [35] s’è detto: spese molto grandi e molto onorevoli. Nellespese private, invece, la magnificenza si deve manifestare in quelle che [1123a] si fanno unavolta sola, come, per esempio, un matrimonio o una situazione del genere, e in quelle che

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interessano tutta la città o le persone di rango, e quando si accolgono e si congedano ospitistranieri, cioè quando si offrono e si contraccambiano doni. Infatti, non è per se stesso chespende l’uomo magnifico, bensì [5] per l’interesse comune, e i suoi doni hanno qualcosa disimile alle offerte votive. E caratteristico dell’uomo magnifico anche arredare la sua casa inmodo conveniente alla propria ricchezza (anche una bella casa è un ornamento), e spende-re soprattutto per opere durevoli (che sono le più belle), e, in ogni caso, spendere quantoconviene. Infatti, non sono le stesse cose che convengono [10] agli dèi ed agli uomini, perun tempio e per una tomba. E poiché ogni tipo di spesa può essere grande nel suo genere, ela più magnifica in generale è la grande spesa per una grande cosa, ma in circostanze deter-minate la grande spesa per oggetti determinati, c’è anche differenza tra la grandezzadell’opera e quella della spesa. Infatti, la più bella palla o il più bel secchiello [15] hanno ilcarattere della magnificenza come dono per un bambino, benché il loro prezzo sia piccolo emisero. Per questa ragione, caratteristico dell’uomo magnifico è che, qualunque sia il gene-re delle cose che fa, le fa con magnificenza (ché una simile azione non può essere facilmen-te superata) ed in modo adeguato al valore della spesa. Tale è, dunque, l’uomo magnifico.Chi, invece, eccede ed è volgare, [20] eccede in quanto spende più del dovuto, come s’è det-to. Infatti, nelle piccole occasioni di spesa spende molto e fa uno sfarzo stonato, come, peresempio, quando fa di una colazione fra amici un banchetto di nozze, e quando deve allesti-re il coro per una commedia lo introduce nella pàrodo ornato di porpora, come fanno i Me-garesi. E tutto questo farà non [25] in vista di ciò che è bello, ma per ostentare la sua ric-chezza e perché crede con ciò di suscitare ammirazione, e dove si dovrebbe spendere moltospende poco, e spende molto dove si dovrebbe spendere poco. L’uomo meschino, invece,pecca in tutto per difetto, e, dopo aver speso le somme più grandi, per una piccola cosa ro-vinerà la bellezza del risultato, sia esitando in ciò che fa, [30] sia cercando il modo di spen-dere il meno possibile, sia rimpiangendo queste spese, sia credendo di fare sempre di piùdi quello che si deve. Queste disposizioni sono, quindi, dei vizi; tuttavia non portano con sédisonore, per il fatto che non sono dannose per il prossimo né troppo indecorose.

3. [La magnanimità].

Che la magnanimità abbia per oggetto grandi cose [35] sembra che si ricavi dal suo stessonome, ma cerchiamo innanzi tutto di determinare di che natura sono queste grandi cose.[1123b] Non c’è alcuna differenza, se si esamina la disposizione in sé oppure l’uomo che vi-ve conformemente ad essa. Si ritiene, dunque, che magnanimo sia colui che si stima degnodi grandi cose e lo è veramente: infatti, chi si stima diversamente dal suo reale valore èsciocco, e nessuno di coloro che vivono secondo virtù è sciocco o scervellato. Il magnani-mo, dunque, è quello che abbiamo detto. [5] Infatti, chi è degno di piccole cose e di piccolecose si stima degno è modesto, e non magnanimo: la magnanimità, infatti, implica gran-dezza, come anche la bellezza implica un corpo di grandi proporzioni, mentre gli uominipiccoli possono essere aggraziati e proporzionati, ma non belli. Colui che si stima degno digrandi cose, ma in realtà non lo è, è vanitoso (ma colui che si stima degno di cose più gran-di di quanto non sia realmente degno non è sempre un vanitoso). Chi, invece, si ritiene in-feriore [10] a quanto merita è pusillanime, se, per quanto egli sia degno di cose grandi omedie o anche piccole, egli si stima degno di cose ancor più piccole. E si riconoscerà chepusillanime nel più alto grado è colui che è degno di grandi cose: che farebbe, se non fossedegno di tanto? Il magnanimo, dunque, da una parte è un estremo per la grandezza di ciòdi cui è degno, dall’altra è un medio, perché si stima come si deve: si stima, infatti, in con-formità col suo autentico merito. [15] Gli altri, invece, eccedono o difettano. Se, dunque, ilmagnanimo è colui che si stima degno di cose grandi, e lo è veramente, e se l’uomo più ma-gnanimo è quello che si stima degno delle cose più grandi, e lo è, il suo oggetto per eccellen-

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za sarà una cosa sola. D’altra parte, "essere degno di" si dice in relazione ai beni esterni: ilpiù grande di essi ammetteremo che è quello che offriamo in omaggio agli dèi, ed a cui so-prattutto aspirano gli uomini di elevata dignità, e che è la ricompensa per le azioni più bel-le. [20] Ora, cosa di tale natura è l’onore, giacché questo è certamente il più grande dei be-ni esteriori. Dunque, è riguardo all’onore e al disonore che il magnanimo si comporta comesi deve. Ma anche senza bisogno di ragionarci su è manifesto che i magnanimi hanno comeoggetto l’onore, perché è dell’onore soprattutto che i grandi uomini si ritengono degni, masecondo il loro merito reale. Il pusillanime, invece, difetta nello stimarsi, sia in rapporto ase stesso [25] sia in confronto con ciò di cui si ritiene degno il magnanimo. D’altra parte, ilvanitoso eccede in rapporto a se stesso, ma certo non in confronto con il magnanimo. Ilmagnanimo, se è vero che è degno delle cose più grandi, dovrà essere l’uomo più perfetto:infatti, degno di cosa più grande è chi è più perfetto, e degno delle cose più grandi di tutte èil più perfetto di tutti. In conclusione, chi è veramente magnanimo deve essere buono. E[30] si dovrà pensare che appartiene al magnanimo ciò che è grande in ciascuna virtù. Inogni caso non si armonizza affatto col carattere del magnanimo fuggire a gambe levate, nécommettere ingiustizia: a quale scopo commetterà cattive azioni uno che non fa gran contodi nulla? Se lo si esamina nei particolari, si potrà vedere che è affatto ridicolo il magnanimoche non sia buono. E non sarebbe neppure degno di onore [35] se fosse cattivo: l’onore, in-fatti, è ricompensa della virtù ed è tributato ai virtuosi. [1124a] Sembra, dunque, che la ma-gnanimità sia come un ornamento delle virtù, giacché le rende più grandi, e non può nasce-re senza di quelle. Per questa ragione è difficile essere veramente un uomo magnanimo: in-fatti, non è possibile esserlo senza una virtù perfetta. La magnanimità, [5] dunque, ha co-me oggetto per eccellenza onore e disonore: e degli onori grandi e tributati dagli uomini divalore egli gioirà con misura, nella convinzione di ricevere ciò che gli spetta in proprio, oanche meno (giacché non può esserci un onore degno di una virtù perfetta), ma tuttavia loaccetterà, se non altro perché gli uomini non hanno niente di meglio da offrirgli. [10] Madell’onore tributato da gente qualsiasi e per piccole cose non si curerà assolutamente, per-ché non è di questi onori che è degno. E parimenti anche nel caso del disonore, perché nes-sun disonore può giustamente riguardarlo. Dunque, come s’è detto, il magnanimo ha comeoggetto per eccellenza gli onori; ma, tuttavia, anche riguardo alla ricchezza, al potere, allabuona e cattiva fortuna [15] si comporterà con misura, comunque avvenga, e non sarà trop-po lieto se avrà buona fortuna né troppo afflitto se l’avrà cattiva. E non proverà questi sen-timenti neppure riguardo all’onore, che pure è il valore più grande. Il potere e la ricchezza,infatti, sono desiderabili a causa dell’onore; per lo meno, coloro che posseggono quelle cosevogliono essere, in virtù di esse, onorati: per colui per il quale anche l’onore è piccola cosa,saranno piccole cose anche tutte le altre. [20] Ed è per questo che si ritiene che i magnani-mi siano uomini che guardano tutto dall’alto. D’altra parte, si ritiene che anche le occasionifavorevoli contribuiscano alla magnanimità. I nobili, infatti, e coloro che detengono il pote-re o la ricchezza, vengono stimati degni di onore perché occupano una posizione superiore,e tutto ciò che è superiore nel bene viene onorato di più. Perciò simili occasioni favorevolirendono gli uomini più magnanimi, perché c’è gente che li onora. [25] Ma per la verità solol’uomo buono è tale da essere onorato; se poi uno possiede entrambe le cose, fortuna e vir-tù, la gente lo stima ancor più degno di onore. D’altra parte, coloro che possiedono i benidovuti alla fortuna senza la virtù non hanno il diritto di stimarsi degni di grandi cose, né ècorretto chiamarli magnanimi: questo non è possibile senza una virtù perfetta. Coloro, poi,[30] che possiedono tali beni diventano sprezzanti e arroganti. Senza la virtù, infatti, non èfacile reggere adeguatamente i doni della fortuna: ma non potendo reggerli e credendo diessere superiori agli altri, li disprezzano, mentre essi stessi, [1124b] poi, fanno tutto quelloche passa loro per la testa. Infatti essi imitano il magnanimo pur non essendogli simili, e lofanno in quello che possono: da una parte, dunque, non agiscono secondo virtù e dall’altradisprezzano [5] gli altri. Ma mentre il magnanimo, in effetti, disprezza a buon diritto poi-ché egli giudica secondo verità, la massa lo fa a caso. L’uomo magnanimo non ama i piccolirischi né i rischi in genere, perché li stima poco, ma ama i grandi rischi, e, quando è in peri-

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colo, non risparmia neppure la propria vita, perché pensa che non sempre la vita merita diessere vissuta. Ed è capace di beneficare, [10] ma si vergogna di essere beneficato, giacchéla prima cosa è propria di chi è superiore, la seconda di chi è inferiore. Inoltre, è portato arendere più di quanto riceve: in questo modo, infatti, chi ha preso l’iniziativa di beneficarlocontrarrà un debito con lui e si troverà ad essere beneficato. Si ritiene poi anche che i ma-gnanimi si ricordino di chi hanno beneficato, ma non di coloro da cui hanno ricevuto bene-fici (infatti, chi riceve un beneficio è inferiore a chi lo fa, e invece l’uomo magnanimo vuoleessere superiore), e [15] dei benefici fatti sente parlare con piacere, di quelli ricevuti, inve-ce, con dispiacere. Questa è la ragione per cui Teti non ricorda a Zeus i benefici che gli hareso, come gli Spartani non li ricordano agli Ateniesi, bensì ricordano i benefici che hannoricevuto. Caratteristico, poi, del magnanimo è anche il non chiedere nulla a nessuno, o difarlo con ripugnanza, ma di rendersi utile con prontezza, e di fare il grande con gli uominialtolocati e fortunati, [20] e il modesto, invece, con quelli di medio livello. Essere superioreai primi è difficile e glorioso, essere superiore ai secondi, invece, è facile, e menare vantosui primi non è cosa priva di nobiltà, ma farlo a spese degli umili è volgare, come usare laforza contro i deboli. Inoltre, è proprio del magnanimo non mettersi al posto d’onore, nédove primeggiano altri, anzi essere schivo e temporeggiare, a meno che non sia in gioco[25] un grande onore o una grande opera, e compiere poche imprese, ma importanti e glo-riose. Ed è necessario anche che egli mostri apertamente i suoi odi e le sue amicizie (infatti,è tipico di chi ha paura il nascondere i propri sentimenti, cioè preoccuparsi più di ciò chepensa la gente che della verità), e che parli ed agisca apertamente: deve essere uno che par-la liberamente perché non fa conto dell’opinione altrui, [30] e perché dice la verità, a menoche non usi l’ironia con la massa. Inoltre, non può prendere la propria norma di vita da unaltro, [1125a] a meno che non si tratti di un amico, ché sarebbe un comportamento servile.Questa è la ragione per cui tutti gli adulatori sono servili e i tapini sono adulatori. Non è fa-cile all’ammirazione, perché per lui niente è grande. Né è incline al rancore: non è del ma-gnanimo tenere a mente, specialmente i torti subiti, bensì [5] piuttosto sorvolare. E non èpettegolo: non parlerà né di se stesso né di altri, giacché non gli importa di essere lodato néche gli altri siano biasimati (né d’altra parte è proclive a lodare); perciò non parla mai maledi nessuno, neppure dei nemici, se non per insolenza deliberata. Per quanto riguarda le co-se necessarie o di poco conto, è quello che si lamenta [10] e che chiede di meno, giacchécomportarsi così sarebbe da uomo che si preoccupa troppo di queste cose. Ed è disposto apossedere cose belle ed infruttuose, piuttosto che cose fruttuose ed utili: infatti, ciò è piùconsono ad un uomo autosufficiente. Infine, si ritiene comunemente che l’incedere tipicodel magnanimo sia lento, la sua voce grave, e l’eloquio pacato; non è frettoloso, infatti, [15]chi si preoccupa solo di poche cose, né concitato chi non stima importante nessuna cosa: alcontrario, alzare la voce e affrettare l’andatura derivano dalla concitazione e dalla fretta.

Tale è, dunque, il magnanimo, mentre chi difetta è pusillanime e chi eccede è vanitoso. Or-bene, comunemente si ritiene che neppure costoro siano malvagi (infatti, non fanno delmale), ma solo uomini che errano. Infatti, il pusillanime, [20] pur essendone degno, privase stesso appunto dei beni di cui è degno, e sembra avere in sé qualcosa di malvagio per ilfatto di non ritenersi degno dei beni e di non conoscere se stesso: se si conoscesse aspire-rebbe alle cose di cui è degno, perché, se non altro, sono dei beni. Tuttavia, uomini di que-sto tipo non sono ritenuti sciocchi, ma, piuttosto, timidi. Tale opinione di sé, poi, sembrache li renda anche peggiori: [25] ciascuna categoria di uomini, infatti, tende ai beni corri-spondenti al proprio valore, mentre i pusillanimi si astengono anche dalle azioni e dalle oc-cupazioni belle, nella convinzione di non esserne degni, ed allo stesso modo si comportanodi fronte ai beni esterni. I vanitosi, invece, sono sciocchi e non conoscono se stessi, e ciò èevidente. Infatti, pur non essendone degni, si impegnano in imprese onorevoli, ma poi ven-gono smentiti dai fatti. [30] Essi si adornano nell’abito, nell’aspetto esteriore e così via, evogliono che le loro fortune siano anche note a tutti, e ne parlano come se avessero l’inten-zione di farsi tributare onori in considerazione di esse. Alla magnanimità si contrappone di

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più la pusillanimità che non la vanità: quella, infatti, è più comune e peggiore. La magnani-mità, dunque, [35] riguarda l’onore, un onore grande, come s’è detto.

4. [Il giusto amore per gli onori].

[1125b] Ma sembra che anche riguardo all’onore ci sia una virtù, come abbiamo detto nellaprima trattazione, che ha, si ammetterà, uno strettissimo rapporto con la magnanimità, co-me anche la liberalità ce l’ha con la magnificenza. Quest’altra virtù e la liberalità, infatti,non hanno a che fare con ciò che è grande, [5] ma ci pongono nella dovuta disposizioneverso le cose misurate e piccole. Come nel prendere e nel donare beni materiali esiste unamedietà e un eccesso e un difetto, così anche nel desiderio di onore c’è un più e un meno diciò che si deve, e c’è una fonte da cui si deve e un modo in cui si deve. Infatti, biasimiamol’ambizioso perché aspira all’onore più di quanto si deve e da fonte da cui non si deve, [10]ma anche il non ambizioso in quanto preferisce non essere onorato neppure per le belleazioni. Ci sono delle volte in cui lodiamo l’ambizioso perché virile ed amante del bello, e ilnon ambizioso perché misurato e moderato, come abbiamo detto anche nella prima tratta-zione. Ma è chiaro che, poiché "essere amante di questo o di quello" si dice in molti sensi,noi non [15] sempre riferiamo alla stessa cosa l’espressione "amante degli onori" (ambizio-so), ma quando lo lodiamo lo riferiamo all’amare l’onore più che non faccia la massa, quan-do lo biasimiamo lo riferiamo all’amare l’onore più di quanto si deve. Ma poiché questa me-dietà non ha nome, i due estremi sembra che se ne disputino il posto come se fosse vacan-te. Ma nelle cose in cui c’è eccesso e difetto c’è anche il mezzo: ora, si desidera l’onore sia dipiù sia di meno di quanto [20] si deve; dunque, è possibile desiderarlo anche come si deve:e quindi viene lodata questa disposizione, che è una medietà senza nome relativa all’onore.Confrontata con l’ambizione, appare mancanza di ambizione; ma, confrontata con la man-canza di ambizione, appare ambizione; confrontata con entrambe, sembra essere in certoqual modo sia l’una sia l’altra. E sembra che questo avvenga anche nel caso delle altre vir-tù. Ma qui la contrapposizione [25] appare tra gli estremi per il fatto che il mezzo non haun proprio nome.

5. [La bonarietà].

La bonarietà è la medietà riguardo ai sentimenti d’ira; ma, poiché il mezzo è senza nome equasi senza nome sono anche gli estremi, noi attribuiamo al mezzo il nome di "bonarietà",benché essa inclini verso il difetto, che non ha nome. Ma l’eccesso si potrebbe chiamare ira-scibilità. [30] Infatti, qui la passione è l’ira, e le cause che la producono sono molte e diver-se. Orbene, colui che si adira per ciò che si deve e con chi si deve, ed inoltre come e quandoe per quanto tempo si deve, viene lodato: costui, dunque, sarà un uomo bonario, se è veroche la bonarietà viene lodata. Il bonario, infatti, vuole essere imperturbabile, cioè non la-sciarsi trascinare dalla passione, [35] bensì adirarsi nel modo, per i motivi e per il tempoche la ragione prescrive. [1126a] Ora, comunemente si ritiene che egli pecchi piuttosto perdifetto: l’uomo bonario infatti non è vendicativo, ma piuttosto portato al perdono. Il difet-to, invece, che sia una specie di indifferenza all’ira o quello che vi pare, viene biasimato. In-fatti, quelli che non si adirano per i motivi per cui [5] si deve passano per sciocchi, e anchequelli che non si adirano nel modo in cui si deve, né quando né con chi si deve. Si ritiene al-lora che un tale uomo non sia sensibile né provi dolore, e, poiché non si adira, che non siacapace di difendersi. D’altra parte, sopportare di essere trascinato nel fango e sorvolare se

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vi sono trascinati gli amici, è atteggiamento da schiavi. L’eccesso, poi, si verifica in tutti imodi (ci si può adirare, infatti, con chi non si deve, [10] per motivi per cui non si deve, dipiù, più rapidamente e per più tempo di quanto si deve); tuttavia, se non altro, non tuttiquesti eccessi si presentano nella medesima persona. Non sarebbe, infatti, possibile, giac-ché il male distrugge anche se stesso, e quando è totale diventa insopportabile. Orbene, gliirascibili si adirano rapidamente e con chi non si deve e per motivi per cui non si deve, epiù di quanto [15] si deve, ma la loro ira rapidamente anche cessa: e questo è il lato più bel-lo del loro carattere. Questo, poi, accade loro perché non trattengono l’ira, ma per la loro vi-vacità reagiscono in modo che sia chiaro, e poi la loro ira cessa. I collerici, poi, sono eccessi-vamente vivaci e si adirano contro tutto ed in ogni occasione: di qui il loro nome. I rancoro-si [20] sono difficili da riconciliare e restano adirati per molto tempo, giacché trattengonol’impulso. Ma la quiete in loro ritorna quando abbiano reso la pariglia: la vendetta, infatti,fa cessare l’ira, producendo in loro un piacere al posto del dolore precedente. Se questo, in-vece, non avviene, sentono il peso del loro risentimento, perché, non essendo esso manife-sto, nessuno cerca di persuaderli a calmarsi, e d’altra parte digerire [25] l’ira in se stessi ri-chiede tempo. Tali uomini sono molto molesti a se stessi e agli amici più stretti. Chiamia-mo poi "difficili" quelli che si inquietano per motivi per cui non si deve, di più e per piùtempo di quanto si deve, e non cambiano sentimento senza aver vendicato o punito l’offesaricevuta. Alla bonarietà, poi, contrapponiamo soprattutto l’eccesso, [30] perché è più fre-quente: il desiderio di vendetta è più umano, e gli uomini difficili sono quelli che si adatta-no peggio alla vita sociale. Ciò che abbiamo detto in precedenza risulta chiaro anche da ciòche diciamo ora. Non è facile, in effetti, determinare come, con chi, per quali motivi e perquanto tempo ci si debba adirare e fino a che punto si fa bene o si sbaglia. [35] Chi, infatti,devia di poco, sia nel senso del più sia nel senso del meno, non viene biasimato; talora, in-fatti, coloro che difettano li lodiamo [1126b] e li diciamo bonari, e diciamo virili quelli chesi adirano, intendendo che essi sono capaci di comandare. Per conseguenza, quanto e comeuno debba trasgredire per dover essere biasimato non è facile stabilire col ragionamento:son cose che rientrano nell’ambito dei fatti particolari, ed il giudizio su di esse spetta allasensazione. Ma almeno questo [5] è chiaro, che lodevole è la disposizione di mezzo, secon-do la quale ci adiriamo con chi si deve, per i motivi per cui si deve, come si deve e così via,mentre gli eccessi e i difetti sono biasimevoli, e poco se sono piccoli, di più se sono piùgrandi, e molto se sono molto grandi. È chiaro, quindi, che bisogna attenersi alla disposi-zione di mezzo. [10] Si consideri concluso il discorso sulle disposizioni relative all’ira.

6. [L’affabilità].

Nelle compagnie, nel vivere insieme, nei rapporti reciproci attraverso le parole e le azioni,alcuni sono ritenuti compiacenti, cioè quelli che per far piacere lodano tutto e non contrad-dicono in nulla, ma pensano loro dovere non procurare alcuna molestia a quelli che incon-trano; altri che, al contrario dai precedenti, [15] contraddicono in tutto e non si rendonoconto per niente di procurare molestia, sono chiamati scorbutici e litigiosi. Che, dunque, lesuddette disposizioni sono da biasimare è chiaro; ed è chiaro che è da lodare quella di mez-zo, in conformità con la quale si accetterà ciò che si deve e come si deve, e ci si inquieteràallo stesso modo. Ad essa non è stato dato un nome, [20] ma ciò a cui somiglia di più èl’amicizia. Infatti, colui che si conforma a questa disposizione mediana è quel tipo di uomoche noi vogliamo intendere quando diciamo "buon amico", se si aggiunge l’affetto. Essa,poi, differisce dall’amicizia, perché è priva di sentimento e di affetto per coloro con cui è inrelazione: infatti, non è per l’amore o per l’odio che si accetta come si deve ciascun tipo dicomportamento, ma per il fatto di avere questa disposizione. [25] Ci si comporterà allostesso modo, infatti, con sconosciuti e con conoscenti, con familiari e con estranei, salvo a

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comportarsi in ciascun tipo di relazione come a questa si conviene: non è conveniente, in-fatti, avere la stessa cura o la stessa preoccupazione per familiari e per forestieri. In genera-le, dunque, si è detto che quest’uomo si comporterà in compagnia come si deve, ma sarà ri-ferendosi al bello e all’utile che egli mirerà [30] a non dare molestia o a rendersi gradevoleagli altri. Sembra, infatti, che tale virtù riguardi i piaceri e i dolori che si producono nellecompagnie: prova repulsione per tutte quelle compagnie in cui per lui non è bello o è dan-noso rendersi gradevole, e preferisce riuscire molesto. Se, invece, a chi la compie l’azioneporta vergogna, e vergogna non piccola, oppure danno, mentre il contrastarla porta [35] so-lo un piccolo dolore, non vi acconsentirà, ma vi si opporrà. Avrà, poi, rapporti differenticon persone di rango elevato e con gente qualsiasi, [1127a] con le persone più note e conquelle meno note, e così via, a seconda delle altre distinzioni, attribuendo a ciascuna cate-goria di persone ciò che si conviene. Ritiene preferibile in sé rendersi gradevole e stare at-tento a non risultare molesto, tenendo come guida le conseguenze, quando queste sono piùimportanti del piacere e del dolore, [5] cioè il bello e l’utile. Inoltre, in vista di un grandepiacere futuro saprà arrecare anche piccole molestie. Tale è, dunque, l’uomo che qui occu-pa la posizione di mezzo, la quale però non ha nome. Di coloro che si rendono gradevoliagli altri, quello che mira ad essere piacevole senz’altro scopo è un uomo compiacente, maquello che lo fa per procurarsi qualche vantaggio, sia in denaro sia in beni acquistabili coldenaro, [10] è un adulatore. Chi, invece, è sgradevole in tutti i casi si è detto che è scorbuti-co e litigioso. Gli estremi, infine, sembrano a prima vista contrapposti tra di loro, per il fat-to che il mezzo non ha un proprio nome.

7. [La sincerità].

Pressappoco nel medesimo campo sta anche la medietà tra millanteria e ironia: ma anchequesta è anonima. Non è poi tanto male esaminare anche [15] tali disposizioni: anzi, cono-sceremo meglio ciò che riguarda il carattere, conducendo un esame particolareggiato, e sa-remo più persuasi che le virtù sono delle medietà, vedendo con uno sguardo d’insieme cheè così in tutti i casi. Di coloro che nella vita di relazione impostano i loro rapporti in funzio-ne del piacere e del dolore si è già parlato. Parliamo ora di coloro che sono veraci o menti-tori [20] allo stesso modo sia nelle parole sia nelle azioni, sia in ciò che pretendono di esse-re. Come si ritiene comunemente, dunque, il millantatore è uno che fa mostra di titoli dimerito che non possiede o di più grandi di quelli che possiede; l’ironico, al contrario, nega ititoli di merito che ha o li attenua: infine, chi sta nel mezzo, schietto com’è, è sincero sianella vita sia nelle parole, [25] riconoscendo i titoli di merito che possiede, senza aumentar-li né diminuirli. Ma in ciascuna di queste disposizioni è possibile agire sia per qualche sco-po sia per nessuno scopo. Quale ciascun uomo è, tali sono le cose che dice e fa, cioè tale è ilmodo in cui vive, a meno che non agisca in vista di un qualche fine particolare. Per se stes-sa, poi, la falsità è cattiva e biasimevole, mentre la verità è per se stessa bella e [30] lodevo-le. Così anche l’uomo sincero, poiché sta nel mezzo, è lodevole, mentre gli uomini falsi, inentrambi i sensi suddetti, sono biasimevoli, ma è più biasimevole il millantatore. Parliamoora dell’uno e dell’altro, e per primo dell’uomo sincero. Non parliamo, infatti, di chi è since-ro nei rapporti d’affari, né nelle situazioni pertinenti all’ingiustizia o alla giustizia (questoinfatti riguarderà un’altra virtù), [1127b] ma di chi è sincero nelle cose in cui, non avendovilui alcun interesse, è sincero sia nelle parole sia nella vita, solo perché per intrinseca dispo-sizione è fatto così. Si riconoscerà, poi, che un uomo simile è virtuoso. Infatti, colui cheama la verità ed è sincero in ciò che non ha importanza, sarà ancor più sincero [5] in ciòche ha importanza: si guarderà infatti come da qualcosa di brutto dalla menzogna, che eglieviterebbe d’altra parte anche per se stessa: ed un uomo simile è lodevole. Egli, poi, inclinapiuttosto verso l’attenuazione che non verso l’esagerazione della verità: questo, infatti, è

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più conveniente, per il fatto che gli eccessi sono spiacevoli. Colui, poi, che pretende di averemeriti più grandi di quelli che gli competono, [10] senza avere alcun fine in vista, è similead un uomo dappoco (altrimenti non godrebbe del falso), ed è manifestamente più fatuoche cattivo: se invece ha in vista un fine particolare, chi lo fa in vista della gloria o dell’ono-re non è troppo biasimevole (è il caso del millantatore), ma chi lo fa per denaro o per ciòche procura denaro, è più vergognoso (d’altra parte il millantatore è tale non sulla base diuna potenzialità, ma sulla base di una scelta: [15] egli, infatti, è millantatore come conse-guenza di una sua disposizione, cioè perché è fatto così). Così anche il mentitore: uno è taleperché gli piace la menzogna in sé, l’altro perché desidera fama o guadagno. Coloro che sivantano per desiderio di gloria fingono di avere meriti tali da suscitare lodi o felicitazioni,quelli invece che lo fanno per desiderio di guadagno fingono di avere meriti da cui il prossi-mo può trarre vantaggio e [20] di cui è possibile tenere nascosta la mancanza; per esempio,l’essere indovino, sapiente, medico. Per questa ragione i più simulano tali cose e se ne van-tano, perché in loro ci sono le caratteristiche suddette. Gli ironici, invece, poiché diconomeno della realtà, sono manifestamente più raffinati nei loro costumi: si ritiene, infatti,che non parlino in vista di un guadagno, bensì per evitare l’ostentazione. [25] E, soprattut-to, costoro negano di possedere titoli di merito, come faceva, per esempio, anche Socrate.Coloro, poi, che negano di possedere anche meriti piccoli ed evidenti sono chiamati impo-stori e sono più spregevoli. E talora si tratta manifestamente di millanteria, come, peresempio, nel caso dell’abbigliamento degli Spartani, giacché sia l’eccesso sia l’esagerato di-fetto sono segni di millanteria. Coloro, invece, [30] che usano l’ironia con misura e che dis-simulano meriti che non sono troppo comuni ed evidenti, sono manifestamente dei raffina-ti. Infine, è il millantatore che manifestamente si contrappone all’uomo sincero, perché èpeggiore dell’ironico.

8. [Il garbo].

Nella vita, poi, c’è anche il riposo, ed in questo c’è posto per la distrazione accompagnatada divertimento: si ritiene comunemente che anche qui ci sia [1128a] un modo convenientedi stare in compagnia, e cose da dire, ma anche cose da ascoltare, come si deve. È evidenteche anche in questo campo ci sono eccesso e difetto rispetto ad un giusto mezzo. Coloro,dunque, che esagerano nel far ridere sono ritenuti [5] buffoni e volgari, perché si affaticanoa far ridere ad ogni costo, e cercano più di far ridere che di dire cose decorose e di non of-fendere colui che viene preso in giro. D’altra parte, quelli che non dicono essi stessi nullache faccia ridere ma si irritano con coloro che lo fanno, sono stimati rozzi e duri. Infine,quelli [10] che scherzano con gusto sono chiamati spiritosi, in quanto sono versatili, giac-ché le facezie, si pensa, sono dei movimenti del carattere, e, come si giudicano i corpi dailoro movimenti, così si giudicano anche i caratteri. E siccome il piacere di ridere è diffuso,e la maggior parte della gente si diverte a scherzare e a motteggiare più che non si debba,anche i buffoni [15] vengono chiamati spiritosi, perché sono divertenti: ma che questi diffe-riscono, e non poco, dagli spiritosi veri, è chiaro da quanto abbiamo detto. Alla disposizio-ne di mezzo appartiene anche il garbo: è proprio dell’uomo garbato dire e ascoltare solo lecose che si intonano al carattere di un uomo virtuoso e libero. Ci sono, infatti, cose che untale uomo può convenientemente dire [20] o ascoltare a mo’ di scherzo, e lo scherzodell’uomo libero differisce da quello dell’uomo servile, come pure lo scherzo dell’uomo be-ne educato differisce da quello dell’uomo privo di educazione. Questa differenza si può ve-dere anche dal confronto delle commedie antiche con le moderne: per gli autori antichi eradivertente la battuta oscena, per i moderni piuttosto il sottinteso: e non è piccola la diffe-renza tra questi due atteggiamenti [25] dal punto di vista del decoro. Dobbiamo, dunque,definire il buon motteggiatore col fatto che dice cose non sconvenienti ad un uomo libero, o

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col fatto che non affligge, anzi rallegra chi l’ascolta? O anche tale caratteristica rimane in-determinata? Infatti, per uno è odiosa o piacevole una cosa, per un altro un’altra. Ma le co-se che dice accetterà anche di ascoltarle, giacché si ritiene che ciò che tollera di ascoltareegli possa anche farlo. Ma non per questo scherzerà sempre, [30] perché il motteggio è unaspecie di oltraggio, ed alcune forme di oltraggio sono proibite dai legislatori; forse si sareb-be dovuto proibire anche il motteggiare. Per conseguenza, l’uomo raffinato e libero avràquesta disposizione, perché egli è legge a se stesso. Tale è dunque l’uomo del giusto mezzo,uomo di garbo o uomo di spirito che dir si voglia. Il buffone, invece, è schiavo del suo desi-derio di far ridere, e non risparmia né se stesso [35] né gli altri pur di suscitare il riso,[1128b] e dice cose, nessuna delle quali l’uomo raffinato direbbe; anzi, alcune di esse non leascolterebbe neppure. Il rustico, poi, è inadatto a tali compagnie: non vi contribuisce inniente ed è sgradevole a tutti. Il riposo, poi, ed il divertimento si ritiene che siano necessarinella vita. [5] Nella vita corrente, dunque, tre sono le medietà di cui abbiamo parlato, e tut-te riguardano i rapporti reciproci fatti di parole e di azioni. Ma differiscono perché una ri-guarda la verità, le altre due il piacere. Di quelle che riguardano il piacere, infine, una simanifesta nei divertimenti, l’altra nelle compagnie che si costituiscono nelle altre occasionidella vita.

9. [Il pudore].

[10] Per quanto riguarda il pudore, non conviene parlarne come di una virtù, giacché asso-miglia ad una passione più che ad una disposizione morale. Viene definito, comunque, co-me una specie di paura del disonore, e produce effetti molto simili a quelli della paura difronte ai pericoli: infatti, coloro che si vergognano arrossiscono, mentre quelli che temonola morte impallidiscono. Dunque, [15] entrambi hanno manifestamente carattere fisico, inqualche modo; il che, si pensa, è tipico più della passione che non della disposizione mora-le. Questa passione, d’altra parte, non si addice ad ogni età, ma solo alla giovinezza. Noipensiamo infatti che i giovani debbano essere pudichi per il fatto che, vivendo di passione,commettono molti errori, ma che ne sarebbero trattenuti dal pudore. E noi lodiamo i giova-ni pudichi, mentre [20] nessuno loderebbe un uomo maturo per il fatto che è sensibile allavergogna: noi pensiamo, infatti, che un uomo maturo non dovrebbe fare nulla di cui si deb-ba vergognare. Infatti, la vergogna non è tipica dell’uomo virtuoso, se è vero che essa nasceper effetto delle cattive azioni (tali azioni non si devono commettere; se poi alcune azionisono brutte veramente ed altre lo sono solo secondo l’opinione della gente, non fa alcunadifferenza: non si devono commettere né le une né le altre, [25] in modo da non dover pro-var vergogna). Invece è proprio dell’uomo dappoco avere una natura tale da commetterequalche azione vergognosa. Ed avere una disposizione di carattere per cui si prova vergo-gna se si è commessa un’azione vergognosa, e pensare che per questo si è un uomo virtuo-so, è assurdo: il pudore, infatti, si riferisce ad atti volontari, e l’uomo virtuoso non commet-terà mai cattive azioni volontariamente. Solo per un’ipotesi [30] il pudore potrebbe esserevirtuoso: nel caso in cui uno si vergogni delle proprie azioni; ma questo non può verificarsinel campo delle virtù. Infine, se l’impudenza, cioè il non vergognarsi di commettere azionibrutte, è una cosa miserabile, non per questo sarà virtuoso il vergognarsi di commettereazioni simili. Anche la continenza non è una virtù, bensì una specie di mescolanza di virtù edi vizio: [35] ma di lei si darà spiegazione in seguito. La giustizia sarà ora il tema della no-stra trattazione.

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Libro V

1. [La giustizia in generale].

[1129a] Circa la giustizia e l’ingiustizia dobbiamo considerare quali azioni esse riguardino,che genere di medietà è [5] la giustizia, e quali sono gli estremi tra cui il giusto è medio. Lanostra indagine deve seguire lo stesso metodo delle parti precedenti. Noi, pertanto, vedia-mo che tutti intendono con "giustizia" la medesima disposizione, quella per cui gli uominisono portati a compiere le azioni giuste, per cui agiscono giustamente e vogliono le cosegiuste; nel medesimo modo stanno le cose [10] per quanto riguarda l’ingiustizia, disposizio-ne per la quale gli uomini agiscono ingiustamente e vogliono le cose ingiuste. Diamo anchenoi per concessa questa prima definizione sommaria. In effetti, le cose non stanno allo stes-so modo nel caso delle scienze e delle potenze e nel caso delle disposizioni. Si ritiene infattiche una potenza ed una scienza siano la medesima per gli oggetti contrari, mentre la dispo-sizione che è contraria ad un’altra non produce i risultati contrari, [15] come, per esempio,partendo dalla salute non si compiono azioni ad essa contrarie, ma solo quelle salutari: di-ciamo, infatti, camminare "in modo sano" quando uno cammina come camminerebbe unuomo sano. Posto questo, spesso la disposizione contraria si riconosce dalla sua contraria,ma spesso le disposizioni si riconoscono da ciò cui esse ineriscono. Se infatti è manifesta labuona costituzione fisica, anche [20] la cattiva costituzione diventa manifesta, e dalle con-dizioni di buona costituzione fisica si inferisce la buona costituzione stessa, e da questaquelle. Se, infatti, la buona costituzione fisica consiste nella compattezza della carne, è ne-cessario anche che la cattiva costituzione consista nella flaccidità della carne e che la condi-zione della buona costituzione sia quella che può produrre la compattezza nella carne. Nesegue che, per lo più, se i termini che indicano una disposizione [25] e ciò cui essa ineriscesono usati con più significati, anche i loro contrari si usano con più significati; per esem-pio: se il termine "giusto" ha più significati, anche il termine "ingiusto" avrà più significati.Sembra che i termini "giustizia" e "ingiustizia" abbiano più significati, ma che per l’affinitàdi questi significati la loro equivocità rimanga nascosta e non succeda come nel caso dei si-gnificati lontani tra loro che sono più visibili: per esempio (qui infatti la differenza è grandesecondo l’aspetto esteriore) si chiama [30] kleiv" [chiave], in modo equivoco, sia la clavico-la degli animali, sia lo strumento con cui si chiudono le porte. Cerchiamo, dunque, di affer-rare quanti significati ha il termine "uomo ingiusto". Si ritiene comunemente che ingiustosia chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza,sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza. Dunque, la nozione di"giusto" sarà quella di "ciò che è conforme alla legge" e "ciò che rispetta l’uguaglianza",[1129b] quella di "ingiusto" sarà di "ciò che è contro la legge" e di "ciò che non rispettal’uguaglianza". Poiché l’ingiusto cerca di avere più degli altri, ciò avverrà in relazione con ibeni: non con tutti, ma con quelli soggetti a buona e a cattiva fortuna, i quali sono sempredei beni in sé e per sé, ma non sempre per un determinato individuo. Eppure sono questi ibeni che gli uomini chiedono nelle loro preghiere e perseguono con le loro azioni: [5] manon si deve fare così, bensì gli uomini dovrebbero pregare che i beni in sé e per sé siano be-ni anche per loro, e poi scegliere quelli che sono beni per loro. Tuttavia l’uomo ingiusto nonsceglie sempre il più, ma anche il meno, nel caso delle cose che sono di per sé cattive. Mapoiché si ritiene che anche il male minore sia in qualche modo un bene, e che è del beneche si vuole avere di più degli altri, è per questo che l’ingiusto viene ritenuto [10] uno checerca di avere di più degli altri. È, poi, uno che non rispetta l’uguaglianza: questo termineabbraccia i due casi insieme ed è comune ad entrambi. Poiché, come abbiamo detto, chinon rispetta la legge è ingiusto ed è giusto chi, invece, la rispetta, è chiaro che tutto ciò cheè conforme alla legge è in qualche modo giusto: infatti, ciò che è definito dalla legislazioneè cosa conforme alla legge, e ciascuna delle cose così definite noi diciamo che è giusta. Ora,

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le leggi, in tutto ciò che prescrivono, [15] mirano o alla comune utilità di tutti i cittadini o aquella dei migliori o di quelli che dominano per virtù, o in qualche altro modo del genere.Sicché, in uno dei sensi in cui usiamo il termine, chiamiamo giusto ciò che produce e custo-disce per la comunità politica la felicità e le sue componenti. Ma la legge comanda [20] dicompiere anche le opere dell’uomo coraggioso, per esempio, di non abbandonare il proprioposto di combattimento, di non fuggire e di non gettare le armi, e quelle dell’uomo tempe-rante, per esempio, di non commettere adulterio né violenza carnale, e quelle dell’uomo bo-nario, per esempio, di non percuotere e di non fare maldicenza; e così via analogamente an-che per le altre virtù e per gli altri vizi, imponendo certe cose e proibendone altre, e ciò ret-tamente [25] se la legge è stabilita rettamente, ma meno bene se la legge è stata fatta infretta. Questa forma di giustizia, dunque, è virtù perfetta, ma non in sé e per sé, bensì in re-lazione ad altro. Ed è per questo che spesso si pensa che la giustizia sia la più importantedelle virtù, e che né la stella della sera né la stella del mattino siano altrettanto degne diammirazione. E col proverbio diciamo: "Nella giustizia [30] è compresa ogni virtù". Ed èvirtù perfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua completezza. Inoltre, è per-fetta perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso sestesso: molti, infatti, sanno esercitare la virtù nelle loro cose personali, ma non sono capacidi esercitarla nei rapporti con gli altri. [1130a] E per questo si pensa che abbia ragione ildetto di Biante "il potere rivelerà l’uomo": chi esercita il potere, infatti, è già per ciò stessoin rapporto e in comunità con gli altri. Per questa stessa ragione la giustizia, sola tra le vir-tù, è considerata anche "bene degli altri", perché è diretta agli altri. Essa, infatti, [5] fa ciòche è vantaggioso per un altro, sia per uno che detiene il potere sia per uno che è membrodella comunità. Ciò posto, il peggiore degli uomini è colui che esercita la propria malvagitàsia verso se stesso sia verso gli amici, mentre il migliore non è quello che esercita la virtùverso se stesso, ma quello che la esercita nei riguardi degli altri: questa, infatti, è un’impre-sa difficile. La virtù così determinata non è quindi una parte della virtù, ma la virtù nellasua completezza, [10] e l’ingiustizia che le si contrappone non è una parte del vizio, ma il vi-zio nella sua completezza. In che cosa, poi, differiscano la virtù e la giustizia così determi-nate è chiaro da quello che si è detto: esse sono, sì, identiche, ma la loro essenza non è lastessa, bensì, in quanto è in relazione ad altro è giustizia, in quanto è una determinata di-sposizione in senso assoluto è virtù.

2. [La giustizia in senso stretto].

Ma quello che cerchiamo, in ogni caso, è la giustizia che è parte della virtù, giacché esiste[15] una giustizia di questo genere, come appunto andiamo dicendo. E, allo stesso modo,anche nel caso dell’ingiustizia cerchiamo quella che è una parte del vizio. Indizio della suaesistenza: chi agisce secondo le altre forme di vizio, certo, commette ingiustizia, ma non ciguadagna nulla, come, per esempio, chi getta per viltà lo scudo o chi è maldicente per catti-vo carattere o chi, per avarizia, rifiuta un soccorso in denaro. Quando, invece, [20] cerca diavere più degli altri, spesso non agisce per alcuna di tali forme di vizio singolarmente pre-sa, ma nemmeno per tutte insieme, bensì per malvagità, almeno per una certa malvagità(lo biasimiamo, infatti), cioè per ingiustizia. Dunque, esiste anche un’altra forma di ingiu-stizia che è parte di quella totale, e una forma di ingiusto che è parte di quello totale, cioèdell’ingiusto che consiste nell’opposizione alla legge. Inoltre: se uno commette adulterio invista di un guadagno e [25] ricavandone un profitto, un altro invece commette adulteriospinto dal desiderio, pagando e subendo una punizione, quest’ultimo lo si riterrà intempe-rante piuttosto che avido; il primo, invece, lo si riterrà ingiusto, e non intemperante. È evi-dente, dunque, che in questo caso l’ingiustizia è causata dall’amor di guadagno. Inoltre, nelcaso di tutti gli altri atti ingiusti è sempre possibile una riconduzione a qualche forma di vi-

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zio; per esempio, l’adulterio [30] si riconduce alla intemperanza, l’abbandono del commili-tone si riconduce alla viltà, la violenza fisica all’ira. Ma se uno ha ricavato un illecito guada-gno, non è riconducibile a nessun’altra forma di vizio se non all’ingiustizia. Sicché è eviden-te che oltre a quella totale esiste un’altra forma di ingiustizia, che è parte della prima e halo stesso nome, perché la sua definizione rientra nel medesimo genere: [1130b] entrambe,infatti, consistono nel fatto di riferirsi, potenzialmente, agli altri. Ma l’una riguarda l’onoreo la ricchezza o la sicurezza personale (o qualunque sia il termine con cui possiamo abbrac-ciare tutte queste cose insieme), ed è motivata dal piacere che deriva dal guadagno; l’altra,invece, riguarda tutte quante le cose che sono oggetto dell’azione [5] dell’uomo di valore.Che, dunque, i tipi di giustizia sono più d’uno e che ne esiste una specie distinta oltre allagiustizia intesa come totalità della virtù, è chiaro: ma bisogna cercare di afferrare quale es-sa sia e quale natura abbia. Abbiamo, dunque, distinto il significato di "ingiusto" in "con-trario alla legge" e "non rispettoso dell’uguaglianza", e di "giusto" in "conforme alla legge" e"rispettoso dell’uguaglianza". Dunque, [10] l’ingiustizia di cui parlavamo prima rientra nelcampo di ciò che è contrario alla legge. Ma poiché "non rispettoso dell’uguaglianza" e "con-trario alla legge" non sono la stessa cosa, ma si distinguono come la parte rispetto all’intero(infatti, tutto ciò che non è rispettoso dell’uguaglianza è contrario alla legge, ma ciò che ècontrario alla legge non è tutto non rispettoso dell’uguaglianza), anche l’ingiusto e l’ingiu-stizia in senso parziale non sono gli stessi che l’ingiusto e l’ingiustizia in senso totale, masono diversi da quelli, perché i primi sono delle parti, i secondi, invece, delle totalità: [15]questo tipo di ingiustizia è, infatti, una parte della ingiustizia intesa come totalità, e lo stes-so dicasi della giustizia. Cosicché dobbiamo parlare anche della giustizia e dell’ingiustiziaparticolari, e così pure del giusto e dell’ingiusto particolari. Orbene, lasciamo da parte lagiustizia intesa come la totalità della virtù, e la corrispondente ingiustizia: la prima è l’eser-cizio della virtù nella sua totalità [20] nei riguardi degli altri, la seconda è l’esercizio del vi-zio. Ed è chiaro come vanno distinti il giusto e l’ingiusto corrispondenti ad esse. Infatti, lamaggior parte, si può dire, degli atti conformi alla legge sono gli atti che vengono prescrittisulla base della virtù totale: la legge, infatti, ordina di vivere in conformità con ciascun tipodi virtù e proibisce di vivere secondo ciascun tipo di vizio. [25] Ma sono le disposizioni dilegge che vengono stabilite per l’educazione al bene comune quelle che producono la virtùtotale. Per quanto riguarda l’educazione individuale, poi, per la quale un uomo è buono ingenerale, se essa sia di competenza della politica o di un’altra scienza, dovremo determi-narlo in seguito: infatti, non è certo la stessa cosa in ogni caso essere uomo buono e buoncittadino. [30] Della giustizia in senso parziale e del giusto che le corrisponde, ci sono duespecie: una è quella che si attua nella distribuzione di onori, di denaro o di quant’altro sipuò ripartire tra i membri della cittadinanza (giacché in queste cose uno può avere una par-te sia disuguale sia uguale a quella di un altro), l’altra è quella che apporta correzioni neirapporti privati. [1131a] Di quest’ultima, poi, ci sono due parti: infatti, alcuni rapporti sonovolontari, altri involontari. Rapporti volontari sono, per esempio: vendita, acquisto, presti-to, cauzione, nolo, deposito, locazione (si dicono volontari [5] perché il principio di questirapporti è volontario). Dei rapporti involontari, poi, alcuni si istituiscono di nascosto, co-me, per esempio, furto, adulterio, avvelenamento, lenocinio, corruzione di schiavi, omici-dio doloso, falsa testimonianza; altri si istituiscono con la violenza, come, per esempio,maltrattamenti, sequestro, omicidio, rapina, mutilazione, diffamazione, oltraggio.

3. [La giustizia distributiva].

[10] Poiché l’uomo ingiusto, e così ciò che è ingiusto, non rispetta l’uguaglianza, è chiaroche c’è anche qualcosa di mezzo tra gli estremi disuguali. E questo è l’uguale, giacché inogni tipo di azione in cui ci sono il più ed il meno c’è anche l’uguale. Se, dunque, l’ingiusto

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è il disuguale, il giusto è l’uguale; cosa che tutti riconoscono anche senza bisogno di un ra-gionamento. Ma poiché l’uguale è medio, il giusto dovrà essere un certo tipo di medio. [15]Ma l’uguale presuppone almeno due termini. Pertanto, necessariamente, il giusto è insie-me medio e uguale, e relativo, cioè è giusto per certe persone; e, in quanto è medio, è me-dio tra certi estremi (e questi sono il più e il meno); in quanto, invece, è uguale, è ugua-glianza di due cose; in quanto è giusto, lo è per certe persone. Il giusto, quindi, implica ne-cessariamente almeno quattro termini: infatti, le persone per le quali il giusto è tale [20]sono due, e due sono le cose in cui si realizza. E l’uguaglianza dovrà essere la stessa, tra lepersone come tra le cose: infatti, il rapporto tra le cose deve essere lo stesso che quello trale persone. Se queste, infatti, non sono uguali, non avranno cose uguali; ma le lotte e le re-criminazioni è allora che sorgono: o quando persone uguali hanno o ricevono cose nonuguali, o quando persone non uguali hanno o ricevono cose uguali. Questo risulta [25]chiaro anche dal principio della distribuzione secondo il merito. Tutti, infatti, concordanoche il giusto nelle distribuzioni deve essere conforme ad un certo merito, ma poi non tuttiintendono il merito allo stesso modo, ma i democratici lo intendono come condizione libe-ra, gli oligarchici come ricchezza o come nobiltà di nascita, gli aristocratici come virtù. Inconclusione, il giusto è un che di proporzionale. [30] Infatti, la proporzionalità è una pro-prietà non solo del numero astratto, ma anche del numero in generale: la proporzione èun’uguaglianza di rapporti, e implica almeno quattro termini. Che la proporzione discretaimplichi almeno quattro termini è chiaro. Ma anche la proporzione continua ne ha quattro:essa, infatti, impiega un termine come se fossero due, cioè lo prende due volte. [1131b]Esempio: A sta a B, come B sta a C. Dunque B è stato menzionato due volte, cosicché, se sipone B due volte, i termini in proporzione saranno quattro. E anche il giusto implica alme-no quattro termini, e il rapporto è lo stesso, [5] giacché sia le persone sia le cose sono mes-se in rapporto allo stesso modo. Dunque, il termine A starà al termine B, come C a D, equindi, scambiando i medi, A starà a C, come B a D. Anche le somme degli antecedenti coni conseguenti sono nello stesso rapporto: la distribuzione risulta giusta se i termini chemette insieme a due a due sono posti in questo modo. È dunque l’accoppiamento del termi-ne A col termine C e quello di B con D [10] che costituisce il giusto nella distribuzione, e ilgiustocosi inteso è un medio, mentre l’ingiusto è ciò che viola la proporzione: infatti, ciòche sta in proporzione è un medio, e il giusto è in proporzione. I matematici chiamano geo-metrico questo tipo di proporzione, giacché nella proporzione geometrica succede che lesomme degli antecedenti con i conseguenti stanno fra loro come ogni antecedente sta alsuo conseguente. [15] Ma questa proporzione non è una proporzione continua, giacché unapersona ed una cosa non possono costituire un termine singolo. Il giusto così inteso, dun-que, è la proporzionalità, mentre l’ingiusto è ciò che viola la proporzionalità. Quindi,nell’ingiustizia un termine è troppo grande e l’altro è troppo piccolo, come succede anchenei fatti: chi commette ingiustizia, in effetti, ha di più, chi la subisce [20] ha di meno, se sitratta di un bene. Il contrario se si tratta di un male, giacché il male minore paragonato almale maggiore è tenuto in conto di bene: infatti, il male minore è preferibile al maggiore,ma ciò che è preferibile è un bene, e ciò che è più preferibile è un bene più grande. Questa,dunque, è una delle due specie del giusto.

4. [La giustizia correttiva].

[25] Resta la seconda specie di giustizia, quella correttiva, che si attua nei rapporti privati,sia in quelli volontari sia in quelli involontari. Questo tipo di giusto ha un carattere specifi-co diverso da quello precedente. Infatti, il giusto che riguarda la distribuzione dei beni co-muni è sempre conforme alla proporzione suddetta. Quando, infatti, ha luogo la distribu-zione di beni comuni, [30] questa avverrà secondo il medesimo rapporto in cui si trovano,

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l’uno nei riguardi dell’altro, i diversi contributi originariamente apportati: e l’ingiusto op-posto al giusto inteso in questo senso è ciò che viola la proporzione. Ciò, invece, che è giu-sto nei rapporti privati è una specie di uguale, e l’ingiusto una specie di disuguale, [1132a]ma non secondo quella proporzione, bensì secondo la proporzione aritmetica. Non c’è nes-suna differenza, infatti, se è un uomo buono che toglie qualcosa ad uno cattivo, o se è unocattivo che toglie qualcosa ad uno buono, né se a commettere adulterio è un uomo buono ouno cattivo: la legge guarda solo alla differenza relativa al danno, [5] e li tratta entrambi dauguali, chiedendosi soltanto se uno ha commesso o subito ingiustizia, e se ha procurato osubito il danno. Per conseguenza, poiché l’ingiusto così inteso è una disuguaglianza, il giu-dice cerca di ristabilire l’uguaglianza. Infatti, quando uno infligge e l’altro riceve percosse,o anche quando uno uccide e l’altro resta ucciso, l’azione subita e l’azione compiuta restanodivise in parti disuguali: ma il giudice [10] cerca di ristabilire l’uguaglianza con la perditainflitta come pena, cioè col togliere qualcosa al guadagno ingiusto. In casi simili, infatti, siusa, tanto per parlare, anche se il vocabolo per certe situazioni non è appropriato, il termi-ne "guadagno": per esempio, "guadagno" per chi ha inflitto percosse, e "perdita" per chi leha ricevute. Ma almeno quando il danno subito può essere misurato, si può parlare di per-dita da una parte e di guadagno dall’altra. Cosicché l’uguale sta in mezzo tra il meno e ilpiù, [15] mentre il guadagno e la perdita sono l’uno il più e l’altra il meno in sensi opposti:il guadagno è più di bene e meno di male, la perdita è il contrario; il medio tra essi, l’abbia-mo già detto, è l’uguale, ed è ciò che noi chiamiamo giusto. Per conseguenza, il giusto cor-rettivo sarà il medio tra perdita e guadagno. Ecco perché, quando si litiga, [20] ci si rifugiadal giudice: andare dal giudice significa andare davanti alla giustizia, giacché il giudice in-tende essere come la giustizia vivente. E si cerca il giudice come termine medio (anzi alcunichiamano i giudici "mediatori"), nella convinzione che se si raggiunge il termine medio, siraggiungerà il giusto. In conclusione, ciò che è giusto è un che di intermedio, se è vero chelo è anche il giudice. [25] E il giudice ristabilisce l’uguaglianza, cioè, come se si trattasse diuna linea divisa in parti disuguali, egli sottrae ciò di cui la parte maggiore sorpassa la metàe l’aggiunge alla parte minore. Ma quando l’intero è diviso in due metà, allora si dice cheuno ha la sua parte quando prende ciò che è uguale. L’uguale, poi, è medio tra il più e [30]il meno secondo la proporzione aritmetica. Per questo anche si usa il nome di divkaion[giusto], perché è una divisione divca [in due parti uguali], come se uno dicesse divcaion[diviso in due]; così il dikasthv" [giudice] è dicasthv" [colui che divide in due parti uguali].Infatti se, date due grandezze uguali, si toglie una parte alla prima e la si aggiunge alla se-conda, la seconda viene a superare la prima del doppio di questa parte; se, invece, si toglieuna parte alla prima senza aggiungerla alla seconda, [1132b] la seconda supera la prima so-lo di questa parte. In conclusione, la seconda grandezza supererà il mezzo di una sola par-te, e il mezzo supererà di una sola parte la grandezza da cui tale parte sarà stata tolta. Conquesto procedimento, quindi, possiamo riconoscere che cosa si deve togliere a chi ha di piùe che cosa si deve aggiungere a chi ha di meno: infatti, [5] bisogna aggiungere a chi ha laparte minore quel tanto di cui la metà la supera, e togliere a chi ha la parte maggiore queltanto di cui questa supera la metà. Siano i segmenti AA´, BB´ e CC´ uguali fra di loro; dalsegmento AA´ si tolga AE e si aggiunga a CC´ il segmento CD, in modo che l’intero DCC´superi EA´ di CD e CZ: per conseguenza, supera BB´ di CD. [E questo vale anche per le al-tre arti; [10] esse, infatti, resterebbero distrutte, se ciò che produce la parte attiva in quan-tità e in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e con la medesima qualità dallaparte passiva.] Questi nomi, perdita e guadagno, sono derivati dallo scambio volontario. In-fatti, avere di più di ciò che si possiede in proprio si dice guadagnare, ed avere di meno diquanto si aveva in principio si dice perdere: [15] per esempio, nel comperare e nel venderee in tutti gli altri scambi per i quali la legge concede libertà. Quando, poi, con lo scambio, cisi trova ad avere né di più né di meno, bensì ciò che già si aveva per conto proprio, si diceche si ha il proprio e che non si è né perso né guadagnato. Cosicché il giusto è una via dimezzo tra una specie di guadagno e una specie di perdita nei rapporti non volontari, e con-siste nell’avere, [20] dopo, un bene uguale a quello che si aveva prima.

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5. [La giustizia come reciprocità. La moneta].

Ma alcuni ritengono che anche la reciprocità sia giustizia in senso generale, come dicevanoi Pitagorici; essi, infatti, definivano il giusto in generale come il ricevere da un altro quelloche gli si è fatto subire. Ma la nozione di reciprocità non si adatta né alla giustizia distribu-tiva né a quella correttiva, [25] benché si voglia che questo significhi anche la giustizia diRadamante:

"se uno subisse ciò che ha fatto, giudizio retto sarebbe".

In molti casi, infatti, giustizia e reciprocità sono in disaccordo. Esempio: se è uno che hauna carica pubblica che picchia, non deve essere picchiato a sua volta, e se è un privato chepicchia un magistrato, [30] non solo deve essere picchiato, ma ulteriormente punito. Inol-tre, c’è molta differenza tra l’atto volontario e l’atto involontario. Nelle comunità, poi, in cuiavvengono degli scambi è questo tipo di giustizia che tiene uniti, la reciprocità secondo unaproporzione, e non secondo stretta uguaglianza. Infatti, è col contraccambiare proporzio-nalmente che la città sta insieme. Gli uomini, infatti, cercano di rendere o male per male(se no, [1133a] pensano che la loro sia schiavitù), o bene per bene (se no, non c’è scambio,e, invece, è per lo scambio che stanno insieme). Ed è per questo che costruiscono un tem-pio alle Grazie in luogo dove sia sempre sotto gli occhi, per stimolare alla restituzione, giac-ché questo è proprio della gratitudine: si deve rendere il contraccambio [5] a chi è statogentile con noi, cioè prendere noi stessi l’iniziativa di essere a nostra volta gentili. Ciò cherende la restituzione conforme alla proporzione è la congiunzione in diagonale. Sia A un ar-chitetto, B un calzolaio, C una casa, D una scarpa. Posto questo, bisogna che l’architetto ri-ceva dal calzolaio il prodotto del suo lavoro e [10] che dia a lui in cambio il prodotto delproprio. Quando, dunque, prima si sia determinata l’uguaglianza proporzionale e poi sirealizzi la reciprocità, si verificherà ciò che abbiamo detto. Se no, lo scambio non è pari enon si costituisce: niente, infatti, impedisce che il prodotto dell’uno valga di più di quellodell’altro: bisogna, dunque, che il loro valore venga parificato. E questo vale anche per le al-tre arti: esse infatti resterebbero distrutte [15] se ciò che produce la parte attiva in quantitàed in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e con la medesima qualità dallaparte passiva. Infatti, non è tra due medici che nasce una comunità di scambio, ma tra unmedico e un contadino, ed in generale tra individui differenti, non uguali: ma questi devo-no venire parificati.

È per questo che le cose di cui v’è scambio devono essere in qualche modo commensurabi-li. [20] A questo scopo è stata introdotta la moneta, che, in certo qual modo, funge da ter-mine medio: essa, infatti, misura tutto, per conseguenza anche l’eccesso e il difetto di valo-re, quindi anche quante scarpe equivalgono ad una casa o ad una determinata quantità diviveri. Bisogna, dunque, che il rapporto che c’è tra un architetto e un calzolaio ci sia anchetra un determinato numero di scarpe e una casa o un alimento. Infatti, se questo non avvie-ne, non ci sarà scambio né comunità. [25] E questo non si attuerà, se i beni da scambiarenon sono in qualche modo uguali. Bisogna, dunque, che tutti i prodotti trovino la loro mi-sura in una sola cosa, come abbiamo detto prima. E questo in realtà è il bisogno, che unifi-ca tutto: se gli uomini, infatti, non avessero bisogno di nulla, o non avessero gli stessi biso-gni, lo scambio non ci sarebbe o non sarebbe lo stesso. E come mezzo di scambio per soddi-sfare il bisogno è nata, per convenzione, la moneta. [30] E per questo essa ha il nome dinovmisma [moneta], perché non esiste per natura ma per novmo" [legge], e perché dipen-de da noi cambiarne il valore o renderla senza valore. Ci sarà, dunque, reciprocità, quando

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si sarà proceduto alla parificazione, cosicché il rapporto tra un contadino e un calzolaiosarà uguale al rapporto tra il prodotto del calzolaio e quello del contadino. [1133b] Ma nonbisogna mettere i termini in forma di proporzione quando lo scambio è avvenuto (se no,uno dei due estremi avrà entrambi i vantaggi), ma quando ciascuno ha ancora i propri pro-dotti. Così essi sono uguali ed in comunità di scambio, perché nel loro caso questa ugua-glianza può verificarsi. Sia A un contadino, C dei viveri, [5] B un calzolaio, ed il suo prodot-to uguagliato a C sia D: ma, se non fosse possibile realizzare la reciprocità in questo modo,non ci sarebbe neppure una comunità di scambio. Che sia, poi, il bisogno che unifica comese fosse qualcosa di unico ed unitario, lo mette in evidenza il fatto che se gli uomini nonhanno bisogno l’uno dell’altro, le due parti, o una sola delle due, non ricorrono allo scam-bio, come nel caso in cui uno ha bisogno di ciò che lui stesso possiede, per esempio di vino,mentre gli offrono la possibilità di esportare frumento. [10] Qui, dunque, bisogna che siastabilita un’uguaglianza. Per lo scambio futuro, se al presente non si ha bisogno di nulla, lamoneta è per noi una specie di garanzia che esso sarà possibile, se ce ne sarà bisogno, giac-ché deve essere possibile a chi porta moneta ricevere ciò di cui ha bisogno. Anche la mone-ta subisce il medesimo inconveniente, quello di non avere sempre il medesimo potere di ac-quisto; tuttavia, tende piuttosto a rimanere stabile. È per questo che tutte le merci devono[15] essere valutate in moneta: così, infatti, sarà sempre possibile uno scambio, e, se saràpossibile lo scambio, sarà possibile anche la comunità. Dunque, la moneta, come misura,parifica le merci, perché le rende fra loro commensurabili: infatti, non ci sarebbe comunitàsenza scambio, né scambio senza parità, né parità senza commensurabilità. In verità, sa-rebbe impossibile rendere commensurabili cose tanto differenti, [20] ma ciò è possibile inmisura sufficiente in rapporto al bisogno. Per conseguenza, ci deve essere una unità, maquesta c’è per convenzione: perciò si chiama nomisma [moneta], perché è questa che rendetutte le cose commensurabili: tutto, infatti, si misura in moneta. Sia A una casa, B dieci mi-ne, C un letto. A è la metà di B, se la casa vale cinque mine, cioè è uguale a cinque mine; illetto C, poi, [25] vale un decimo di B: è chiaro allora quanti letti sono uguali ad una casa:cinque. Ma che così lo scambio fosse possibile anche prima che ci fosse la moneta, è chiaro:non c’è, infatti, alcuna differenza tra dare per una casa cinque letti o il valore di cinque lettiin moneta.

Che cosa è l’ingiusto e che cosa il giusto s’è detto. [30] Dalle distinzioni fatte risulta chiaroche l’agire giustamente è la via di mezzo tra commettere e subire ingiustizia: commettereingiustizia significa avere di più, subirla significa avere di meno. La giustizia è una specie dimedietà, ma non allo stesso modo delle altre virtù, bensì perché essa aspira al giusto mez-zo, [1134a] mentre l’ingiustizia mira agli estremi. La giustizia è la disposizione secondo laquale l’uomo giusto è definito come uomo portato a compiere, in base ad una scelta, ciò cheè giusto, e a distribuire sia tra se stesso e un altro, sia tra due altri, non in modo da attribui-re a se stesso la parte maggiore e al prossimo la parte minore del bene desiderato [5] (o vi-ceversa nel caso di qualcosa di dannoso), ma da attribuire a ciascuno una parte proporzio-nalmente uguale, e da procedere allo stesso modo anche quando si tratta di farlo tra altrepersone. L’ingiustizia, invece, è la disposizione secondo la quale l’ingiusto è definito comeil contrario del giusto. E l’ingiusto è eccesso e difetto di ciò che è vantaggioso o dannoso inviolazione della proporzione. Per questo l’ingiustizia è eccesso e difetto, perché essa produ-ce eccesso e difetto: [10] quando uno è coinvolto nella distribuzione, essa produrrà per luiun eccesso di ciò che in generale è vantaggioso e difetto di ciò che è dannoso; quando la di-stribuzione è tra due altri il totale è lo stesso, ma la violazione della proporzione può avve-nire a favore dell’uno o a favore dell’altro. Nell’atto ingiusto avere la parte minore è subireingiustizia, avere la parte maggiore è commettere ingiustizia. Si consideri in questo modoconcluso il discorso su giustizia e ingiustizia, su quale sia [15] la natura di ciascuna delledue, e, parimenti, sul giusto e l’ingiusto in generale.

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6. [La giustizia nella società e nella famiglia].

Ma dal momento che è possibile commettere ingiustizia senza essere ingiusti, quale naturahanno gli atti ingiusti che uno deve commettere per essere ingiusto secondo ciascun tipo diingiustizia? Per esempio, per essere ladro, adultero, lestofante? Non bisognerà rispondereche da questo punto di vista non c’è alcuna differenza? E, in effetti, [20] un uomo potrebbestare insieme con una donna sapendo con chi sta, ma l’origine del suo atto potrebbe nonessere una scelta, ma una passione. Commette, dunque, sì ingiustizia, ma non è un ingiu-sto: per esempio, non è un ladro pur avendo rubato, non è adultero pur avendo commessoadulterio, e lo stesso negli altri casi. In che rapporto stia il reciproco con il giusto è statodetto prima. Ma non bisogna dimenticare [25] che ciò che andiamo cercando è sia il giustoin generale sia il giusto politico. Quest’ultimo si attua tra coloro che vivono in comunità perraggiungere l’autosufficienza, tra uomini liberi ed uguali, proporzionalmente o aritmetica-mente, sicché coloro che non sono né liberi né uguali non hanno nei loro rapporti reciprocila giustizia politica, ma una specie di giustizia, chiamata [30] così per analogia. Infatti, lagiustizia esiste solo per coloro i cui rapporti sono regolati da una legge; ma la legge c’è peruomini tra i quali può esserci ingiustizia, perché la giustizia legale è discernimento del giu-sto e dell’ingiusto. Negli uomini tra cui può esserci ingiustizia c’è anche l’agire ingiusta-mente (ma non in tutti coloro che agiscono ingiustamente c’è ingiustizia), e questo consistenell’attribuire a sé la parte maggiore dei beni in generale e la parte minore dei mali in gene-rale. [35] Per questo non permettiamo che abbia autorità un uomo, ma la legge, perché unuomo la eserciterebbe solo per il proprio interesse e diverrebbe un tiranno. [1134b] Ma chiesercita l’autorità è custode della giustizia, e se è custode della giustizia, lo è anchedell’uguaglianza. E poiché si riconosce che egli non ha niente di più di ciò che gli spetta, seè vero che è un uomo giusto (infatti, non prende per sé una parte troppo grande del bene ingenerale, a meno che non sia proporzionale al suo merito; perciò [5] si dà da fare per gli al-tri: e per questo si dice che la giustizia è un bene degli altri, come s’è detto anche prima),per questa ragione, dunque, bisogna dargli un compenso, e questo compenso consiste inun onore o in un privilegio. Coloro ai quali simili compensi non bastano, diventano tiranni.La giustizia del padrone e quella del padre non sono identiche a queste forme di giustizia,ma simili: non è possibile, infatti, [10] ingiustizia nei confronti di ciò che è nostro in sensoassoluto, e lo schiavo e il figlio, finché non abbia raggiunto una certa età e non sia diventatoindipendente, sono come parte di noi, e nessuno sceglie deliberatamente di danneggiare sestesso: perciò non è possibile ingiustizia verso se stessi; per conseguenza, neppure ingiusti-zia né giustizia in senso politico. Il giusto in senso politico, l’abbiamo visto, è conformità aduna legge, e si realizza tra uomini che per natura sono soggetti ad una legge; e costoro so-no, come s’è detto, [15] quelli che partecipano in misura uguale al governare e all’essere go-vernati. Perciò il giusto si realizza più verso la moglie che verso il figlio e gli schiavi: quellatra marito e moglie è la vera e propria giustizia domestica, ma anche questa è diversa dallagiustizia in senso politico.

7. [La giustizia naturale e la giustizia positiva].

Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è natu-rale il giusto che ha dovunque la stessa validità, [20] e non dipende dal fatto che venga onon venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferenteche sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che siastato stabilito. Per esempio, che il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sa-

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crificare una capra e non due pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per icasi particolari, per esempio, il sacrificio in onore di Brasida, e le norme derivate da decretipopolari. Alcuni ritengono che tutte [25] le norme appartengano a questo secondo tipo digiustizia, perché ciò che è per natura è immutabile ed ha dovunque la stessa validità (peresempio, il fuoco brucia qui da noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giu-stizia sono mutevoli. Ma questo non è vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso:anzi, almeno tra gli dèi, certamente, non è affatto vero, mentre tra noi uomini c’è una spe-cie di giusto per natura, benché sia tutto mutevole; [30] pur tuttavia, c’è un tipo di giustoche si fonda sulla natura ed uno che non si fonda sulla natura. Ora, tra le norme che posso-no essere anche diverse, è chiaro quale sia per natura e quale non sia per natura ma per leg-ge, cioè per convenzione, se è vero che sia la natura sia la legge sono mutevoli. La medesi-ma distinzione è adatta anche negli altri casi: per natura, infatti, la mano destra è più forte,eppure è possibile per chiunque [35] diventare ambidestro. Le norme di giustizia stabiliteper convenzione e per fini utili [1135a] sono simili alle misure: infatti, le misure per il vinoe per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si compra all’ingrosso sono più grandi,dove si rivende sono più piccole. Parimenti, anche le norme di giustizia che non derivanodalla natura ma dall’uomo non sono le stesse dappertutto, perché non sono le stesse le co-stituzioni, [5] ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura. Ciascun tipo di normagiuridica, cioè di legge, è come l’universale nei riguardi del particolare; le azioni compiute,infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è un universale. C’è differen-za, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa è ingiusta [10] o pernatura o per una prescrizione di legge. Questa stessa cosa, quando è stata tradotta in azio-ne, è un atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensìuna cosa ingiusta. Lo stesso vale anche per l’atto di giustizia: in senso generale si chiamapiuttosto "azione giusta", mentre "atto di giustizia" si chiama l’atto che corregge un atto diingiustizia. Ma su ciascun tipo di legge, sulla natura e sul numero delle loro forme [15] esulla natura dei loro oggetti si dovrà indagare in seguito.

8. [Ingiustizia e responsabilità].

Essendo le cose giuste e ingiuste quelle che noi abbiamo descritto, si commette ingiustiziae si agisce giustamente quando si compiono quelle azioni volontariamente; ma quando siagisce involontariamente, non si compie né un atto di ingiustizia né un atto di giustizia, senon per accidente, nel senso che si compiono azioni cui accade di essere giuste o ingiuste.Ma che un atto sia definito ingiusto e [20] giusto dipende dal fatto che sia volontario o in-volontario: quando, infatti, è volontario, viene biasimato, e nello stesso tempo, ma allorasolamente, è anche un atto di ingiustizia. Cosicché sarà qualcosa di ingiusto ma non ancoraun atto di ingiustizia, se non si aggiunge la volontarietà. E intendo per volontario, come s’èdetto anche prima, quell’atto, tra gli atti che dipendono da lui, che uno compie consapevol-mente, [25] cioè non ignorando chi ne è l’oggetto, né il mezzo, né il fine (per esempio, chi èche sta picchiando, con che cosa e per quale scopo), e ciascuno di questi aspetti dell’azionenon è né accidentale né forzato (per esempio, se qualcuno prende la mano di un altro e pic-chia un terzo, il secondo non agisce volontariamente, perché l’atto non dipende da lui). Puòcapitare che l’uomo picchiato sia suo padre, e che egli sappia, sì, che è un uomo ed uno diquelli che gli stanno intorno, [30] ma ignori che è suo padre. Una distinzione simile si puòfare anche nel caso del fine e nel caso dell’intero svolgimento dell’azione. In conclusione,ciò che si ignora, o ciò che non si ignora ma non dipende da noi, o ciò che si compie per for-za è involontario. Infatti, noi compiamo e subiamo consapevolmente molte azioni anchenaturali, [1135b] nessuna delle quali è né volontaria né involontaria, come, per esempio, in-vecchiare o morire. E, parimente, nel caso delle cose ingiuste e di quelle giuste è possibile

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anche che si trovi il giusto e l’ingiusto per accidente. Infatti, uno potrebbe restituire un de-posito contro voglia [5] e per paura, ma di lui non si deve dire che ha fatto cose giuste néche ha agito giustamente, se non per accidente. Lo stesso vale per chi, costretto e contro vo-glia, non restituisce il deposito: bisogna dire che commette ingiustizia e fa cose ingiuste peraccidente. Degli atti volontari, poi, alcuni li compiamo in conseguenza di una scelta, altri,invece, senza una scelta: [10] in base ad una scelta quegli atti che abbiamo deliberato inprecedenza, e senza scelta quelli che non abbiamo deliberato in precedenza. Sono dunquetre i tipi di danno che possono verificarsi nelle comunità. Quelli che sono accompagnati daignoranza sono degli errori, come quando si agisce senza che la persona che subisce l’azio-ne o ciò che si fa o il mezzo o il fine siano quelli che si supponeva: infatti, o non si credevadi colpire o non con questo strumento o non questa persona o non con questo scopo, [15]ma le cose sono andate in modo diverso dallo scopo che si pensava di raggiungere (peresempio, si è colpito non per ferire ma solo per pungere, e non quest’uomo o con questostrumento). Quando, dunque, il danno si produce contro ogni ragionevole aspettazione, sitratta di una disgrazia; quando, invece, non si produce contro ogni ragionevole aspettazio-ne, ma senza cattiveria, si tratta di un errore (si erra infatti quando l’origine della colpa è incolui stesso che agisce; si tratta di una disgrazia quando l’origine della colpa è fuori di lui).Quando, poi, [20] uno agisce consapevolmente ma senza precedente deliberazione, si hal’atto ingiusto, come, per esempio, tutto quanto si fa per impulsività e per altre passioni, al-meno per quelle che accade agli uomini di provare per necessità o per natura. Coloro cheprocurano questi danni e commettono questi errori, commettono, sì, ingiustizia, e i loro so-no atti ingiusti, ma tuttavia non sono ancora, per questo, ingiusti né malvagi: il danno, in-fatti non è stato causato da malvagità. [25] Quando, invece, esso deriva da una scelta è in-giusto e malvagio. Perciò è a buon diritto che si giudicano fatti senza premeditazione gli at-ti derivanti dall’impulsività: il principio del danno non è chi agisce per impulsività, ma co-lui che ne ha suscitato l’ira. Inoltre, non si discute se il fatto è accaduto oppure no, ma dellasua giustizia: l’ira infatti nasce di fronte a ciò che appare come ingiustizia. Infatti, qui non èin discussione la realtà del fatto come nel caso dei contratti, [30] dove uno dei due con-traenti è necessariamente in mala fede, a meno che non si faccia quello che si fa per dimen-ticanza: ma, pur essendo d’accordo sulla questione di fatto, si discute per sapere da cheparte sta la giustizia (mentre chi ha premeditato non può ignorarlo), sicché l’uno pensa chegli venga fatta ingiustizia, mentre l’altro pensa di no. [1136a] Quando si infligge un dannoin base ad una scelta deliberata, si commette ingiustizia, e colui che commette ingiustiziacompiendo questo tipo di atti ingiusti è propriamente ingiusto, quando questi atti violanola proporzione o l’uguaglianza. Parimenti un uomo è giusto, quando compie un atto di giu-stizia sulla base di una scelta deliberata: ma compie un atto di giustizia soltanto se agiscevolontariamente. [5] Le azioni involontarie, poi, in parte sono perdonabili, in parte no. So-no perdonabili gli errori compiuti non solo in stato di ignoranza, ma proprio a causa di que-sta ignoranza; non sono perdonabili, invece, gli errori commessi non a causa dell’ignoran-za, ma in uno stato di ignoranza causato da una passione né naturale né umana.

9. [È possibile subire ingiustizia volontariamente?].

[10] Ci si potrà porre la questione se le nostre distinzioni riguardo al subire e al commette-re ingiustizia siano sufficienti, e innanzi tutto se sia come ha detto, stranamente, Euripide:

"Ho ucciso mia madre: è breve il racconto."

"Hai ucciso volontariamente lei che lo voleva o hai ucciso

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[involontariamente lei che non voleva?".

[15] In effetti, è possibile subire volontariamente ingiustizia, oppure no, ma c’è semprequalcosa di involontario, proprio come il commettere ingiustizia è sempre volontario? Inol-tre, il subire ingiustizia è sempre volontario, o sempre involontario, come anche il commet-tere ingiustizia è sempre volontario, oppure a volte è volontario e a volte involontario? Lostesso si dica anche per quanto concerne il ricevere giustizia, giacché il compiere atti di giu-stizia è sempre volontario. Cosicché è ragionevole [20] che ci sia un’analoga contrapposi-zione tra le due cose, cioè che il subire ingiustizia ed il ricevere giustizia siano o entrambivolontari o entrambi involontari. Sarebbe strano pensare che questo valga anche nel casodel ricevere giustizia, se ciò è sempre volontario: infatti alcuni ricevono giustizia contro laloro volontà. Poi si potrebbe porre anche la questione se chiunque subisce qualcosa di in-giusto riceve ingiustizia, oppure se quello che vale per l’agire [25] vale anche per il subire:per accidente, infatti, è possibile in entrambi i casi partecipare di cose giuste. Parimenti,poi, è chiaro che ciò vale anche nel caso delle cose ingiuste: infatti, fare cose ingiuste non èlo stesso che commettere ingiustizia, e subire cose ingiuste non è lo stesso che subire ingiu-stizia. Lo stesso si dica per quel che concerne il compiere atti di giustizia ed il ricevere giu-stizia, [30] giacché è impossibile subire ingiustizia senza che qualcuno compia ingiustizia,o ricevere giustizia senza che qualcuno compia un atto di giustizia. Se commettere ingiusti-zia in generale significa danneggiare volontariamente qualcuno, e se "volontariamente" si-gnifica sapere chi si danneggia, con quale strumento ed in che modo, e se l’incontinentedanneggia se stesso volontariamente, allora è volontariamente che subirà ingiustizia e chepotrà commettere ingiustizia verso se stesso. Anche questa è una cosa da mettere in que-stione, cioè se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi. [1136b] Inoltre, per incon-tinenza uno potrebbe essere volontariamente danneggiato da un altro che volontariamentelo danneggia, cosicché sarà possibile subire ingiustizia volontariamente. O si deve ricono-scere che la definizione non è corretta, e che invece a "danneggiare sapendo chi si danneg-gia, con quale strumento ed in che modo" bisogna aggiungere "contro la volontà del dan-neggiato"? [5] Posto questo, uno può volontariamente essere danneggiato e subire cose in-giuste, ma nessuno può subire ingiustizia volontariamente: nessuno, infatti, lo vuole, nep-pure l’incontinente, ma costui agisce contro la propria volontà. Nessuno, infatti, vuole ciòche non crede che sia buono, e l’incontinente fa ciò che lui stesso pensa che non si debbafare. Chi dona ciò che gli appartiene, come dice Omero [10] che abbia fatto Glauco donan-do a Diomede "armi d’oro in cambio d’armi di bronzo, il valore di cento buoi in cambio dinove", non subisce ingiustizia: infatti, dipende da lui donare, ma non dipende da lui subireingiustizia, bensì bisogna che ci sia chi l’ingiustizia la commetta. È chiaro quindi che non sisubisce ingiustizia volontariamente.

[15] Delle questioni che ci siamo proposti ne restano ancora due da discutere: se commetteingiustizia chi attribuisce ad un altro più di quanto merita oppure chi riceve più di quantomerita, e se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi. Se, infatti, è possibile quelloche si è detto prima ed è colui che attribuisce più del dovuto che commette ingiustizia enon chi lo riceve, nel caso in cui uno attribuisca ad un altro più che a se stesso, consapevol-mente e volontariamente, questi [20] commette ingiustizia verso se stesso: e ciò la gentepensa che facciano gli uomini misurati, giacché l’uomo virtuoso è incline ad attribuirsi dimeno di quello che gli spetta. O dobbiamo dire che neppure questa è una cosa semplice?Infatti, se capita l’occasione, un uomo virtuoso può prendersi la parte più grande di un al-tro tipo di bene, per esempio di gloria o di ciò che è bello in senso assoluto. Il problema sirisolve se si segue la definizione data del commettere ingiustizia; l’uomo virtuoso, infatti,non subisce ingiustizia, almeno non per questa ragione, [25] ma tutt’al più subisce soltantoun danno. Ma è chiaro che anche chi compie l’attribuzione può commettere ingiustizia, manon la commette chi riceve il di più: infatti, non è colui al quale capita la cosa ingiusta checommette ingiustizia, ma colui che la fa volontariamente: cioè la persona da cui ha princi-

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pio l’azione, principio che si trova, in questo caso, in chi attribuisce il di più, non in chi loriceve. Inoltre, poiché "fare" si dice in molti sensi [30] e poiché è possibile dire che gli og-getti inanimati (per esempio, la mano e lo schiavo cui è stato ordinato) uccidono, chi ricevedi più di quanto gli spetti non commette ingiustizia, ma tutt’al più fa cose ingiuste. Inoltre,se uno giudica in stato di ignoranza, non commette ingiustizia nei confronti della giustizialegale, e il suo giudizio non è ingiusto da questo punto di vista, ma in un certo senso lo è: ilgiusto legale, infatti, è altro dal giusto originario. Se invece giudica ingiustamente [1137a]pur avendo cognizione di causa, anch’egli prende di più di quanto gli spetti o di gratitudineo di vendetta. Così, dunque, anche chi per questo ha giudicato ingiustamente viene ad ave-re di più, come uno che si prendesse una parte del frutto dell’ingiustizia: ed infatti, aggiudi-cando un campo a quelle condizioni, non riceve un campo ma del denaro. [5] Gli uominipensano che sia in loro potere commettere ingiustizia e che perciò anche il giusto sia facile.Ma non è così: avere rapporti con la moglie del vicino, picchiare il prossimo, corromperecol denaro è facile ed è in loro potere, ma fare questo per una certa disposizione di caratte-re non è facile né in loro potere. Parimenti, [10] pensano anche che per conoscere ciò che ègiusto e ciò che è ingiusto non occorra essere un sapiente, perché non è difficile arrivare acomprendere ciò che dicono le leggi (ma il giusto non è questo, se non per accidente). Masapere come si devono fare e come si devono distribuire le cose perché risultino giuste,questa, certo, è impresa più grande che non sapere ciò che fa bene alla salute, benché an-che in quel caso sia, sì, facile conoscere il miele, il vino, [15] l’elleboro, la cauterizzazione,l’incisione; ma sapere come, a chi e quando bisogna distribuirli per produrre la salute, èun’impresa tanto grande quanto essere medico. Per questa stessa ragione pensano checommettere ingiustizia sia nelle possibilità dell’uomo giusto non meno che compiere giusti-zia, perché il giusto non ha minor capacità ma anzi maggiore di compiere ciascuno di que-sti tipi di azione: e infatti [20] può andare insieme con una donna sposata e può picchiare;anche il coraggioso può gettar via lo scudo, volgere la schiena e fuggire da una parte odall’altra. Comportarsi vilmente ed ingiustamente non significa compiere atti di viltà e diingiustizia, se non per accidente, bensì compiere questi atti con una disposizione, come an-che curare e guarire non significa amputare o non [25] amputare, usare o non usare farma-ci, ma farlo in un certo modo. Le azioni giuste sono possibili tra coloro che partecipano deibeni in generale, e che ne possono avere in eccesso o in difetto: per alcuni non è possibileeccesso di beni, come è certamente il caso degli dèi, mentre ad altri nessuna parte di benesarebbe utile, perché sono irrimediabilmente viziosi, ma tutto [30] fa loro danno; per altri,infine, sono utili fino ad un certo punto: per questo il giusto è qualcosa di umano.

10. [L’equità].

Dobbiamo ora parlare dell’equità e dell’equo, e determinare in che rapporto stanno l’equitàcon la giustizia e l’equo con il giusto. Se, infatti, si esaminano attentamente, risulta manife-sto che non sono senz’altro la stessa cosa e che tuttavia non differiscono di genere. A voltenoi [35] lodiamo ciò che è equo e l’uomo equo, di modo che anche quando lodiamo le altrequalità noi [1137b] usiamo metaforicamente il termine di "equo" al posto di "buono", indi-cando con "più equo", ciò che è più buono. A volte invece, ragionando coerentemente, ciappare strano che l’equo, che è qualcosa di ulteriore rispetto al giusto, sia tuttavia degno dilode: infatti, se sono diversi, o il giusto non è buono o l’equo non è [5] giusto; o se entrambisono buoni, essi sono la stessa cosa. Dunque, queste pressappoco sono le considerazioni dacui nasce l’aporia che concerne la nozione di equo, e in un certo senso sono tutte corrette eper nulla in contraddizione tra loro. In effetti, l’equo, pur essendo superiore ad un certo ti-po di giusto, è esso stesso giusto, ed è superiore al giusto pur non costituendo un altro ge-nere. [10] Per conseguenza, giusto ed equo sono la stessa cosa, e, pur essendo entrambi

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buoni, è l’equo che ha più valore. Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì giusto,ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale. Il motivo è che lalegge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattarecorrettamente in universale. Nelle circostanze, dunque, in cui [15] è inevitabile parlare inuniversale, ma non è possibile farlo correttamente, la legge prende in considerazione ciòche si verifica nella maggioranza dei casi, pur non ignorando l’errore dell’approssimazione.E non di meno è corretta: l’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma nella natura del-la cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica. Quando,[20] dunque, la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientranella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa enon ha colto nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, e considerareprescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nellalegge se avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciò l’equo è giusto, anzi miglioredi un certo tipo di giusto, [25] non del giusto in senso assoluto, bensì del giusto che è ap-prossimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’equo: un correttivodella legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità. Questo, infatti, è il motivoper cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sono dei casi in cui è impossibile stabili-re una legge, tanto che è necessario un decreto. Infatti, di una cosa indeterminata anche[30] la norma è indeterminata, come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo:il regolo si adatta alla configurazione della pietra e non rimane rigido, come il decreto siadatta ai fatti. Che cosa è dunque l’equo, e che è giusto e migliore di un certo tipo di giusto,è chiaro. Da ciò risulta manifesto anche chi è l’uomo equo: [35] è equo infatti chi è incline ascegliere e a fare effettivamente cose di questo genere, e [1138a] chi non è pignolo nell’ap-plicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha ilconforto della legge. Questa disposizione è l’equità, che è una forma speciale di giustizia enon una disposizione di genere diverso.

11. [È possibile commettere ingiustizia verso se stessi?].

Se è possibile o no commettere ingiustizia verso se stessi risulta chiaro [5] da quanto si èdetto. Una parte delle azioni giuste sono quelle stabilite dalla legge in relazione a ciascun ti-po di virtù: per esempio, la legge non comanda di uccidersi, e ciò che non comanda proibi-sce. Inoltre: se uno, contro la legge, danneggia un altro volontariamente e non per ricam-biare un danno ricevuto, commette ingiustizia, e agisce volontariamente chi sa chi danneg-gia e con che mezzo. Colui che, spinto dall’ira, [10] si taglia volontariamente la gola, lo facontro la retta ragione, e questo la legge non lo permette: per conseguenza commette ingiu-stizia. Ma verso chi? Non bisogna riconoscere che è verso la città, e non verso se stesso? In-fatti, subisce volontariamente, e nessuno subisce volontariamente ingiustizia. È per questoche la città punisce, e una specie di pubblica infamia colpisce chi si uccide, in quanto com-mette ingiustizia contro la città. Inoltre, chi commette ingiustizia nel senso in cui può dirsisoltanto ingiusto [15] e non del tutto perverso, non è possibile che commetta ingiustiziaverso se stesso (questo è un caso diverso dal precedente: in un certo senso, infatti, l’ingiu-sto è cattivo come il vile, non perché abbia in sé la perversità totale; per conseguenza, non èneppure vero che commetta ingiustizia per totale perversità). Infatti, se fosse così, dovreb-be essere possibile nello stesso tempo sottrarre e aggiungere la stessa cosa alla medesimapersona: e questo è impossibile, ma è [20] necessario che il giusto e l’ingiusto abbiano at-tuazione tra più persone. Inoltre, l’azione ingiusta è un atto volontario, frutto di una sceltae anteriore ad ogni provocazione: infatti, chi ha per primo subito e perciò rende il contrac-cambio, non si ritiene che commetta ingiustizia; ma chi commette ingiustizia verso se stes-so, subisce e fa le stesse cose nello stesso tempo. Per di più, sarebbe possibile subire ingiu-stizia volontariamente. Oltre a ciò, nessuno commette ingiustizia senza compiere specifici

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atti di ingiustizia; [25] ma nessuno commette adulterio con la propria moglie, né fa irruzio-ne furtiva nella propria casa, né ruba ciò che gli appartiene. In generale la questione se èpossibile commettere ingiustizia verso se stessi si risolve ancora con la definizione data aproposito del subire ingiustizia volontariamente. È chiaro anche che entrambe le cose, siail subire sia il commettere ingiustizia, sono cattive: l’una consiste nell’avere di meno, l’altra[30] nell’avere di più del giusto mezzo, il quale è come la salute in medicina e la buona for-ma in ginnastica. Tuttavia la cosa peggiore è il commettere ingiustizia: il commettere ingiu-stizia, infatti, si accompagna al vizio ed è biasimevole, e ad un vizio integrale in senso asso-luto o quasi (giacché non ogni atto volontario di ingiustizia è accompagnato da vizio), men-tre il subire ingiustizia non implica né vizio né [35] ingiustizia. Per se stesso, dunque, subi-re ingiustizia è un male minore, [1138b] ma niente impedisce che sia un male maggiore peraccidente. Ma l’accidentalità non ha importanza per l’arte: essa, per esempio, dice che lapleurite è un male maggiore di una storta; eppure, per accidente, potrebbe in certi casi es-sere quest’ultima un male maggiore, se accadesse che uno, procuratosi una storta nel cade-re, [5] fosse per questo catturato dai nemici e ucciso. Per metafora poi, e per analogia, c’ègiustizia, non tra sé e sé, ma tra certe parti della stessa persona, e non ogni forma di giusti-zia, bensì quella che c’è tra padrone e schiavo, o tra marito e moglie. Infatti, in queste di-scussioni si è fatta distinzione tra la parte razionale dell’anima e quella irrazionale: [10] se,dunque, si guarda a queste due parti dell’anima si può anche ritenere possibile l’ingiustiziaverso se stessi, perché in esse è possibile subire qualcosa che sia contrario ai propri deside-ri: in esse, dunque, si realizza un tipo di giustizia paragonabile a quella che si realizza trachi governa e chi è governato. Si ritenga così terminato il discorso circa la giustizia e le altrevirtù etiche.

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Libro VI

1. [La retta ragione. Le due parti dell’anima razionale].

Dal momento che abbiamo già precedentemente asserito che è il giusto mezzo che occorrescegliere, e non l’eccesso né il difetto, e [20] giacché il giusto mezzo è come la retta ragionedice, è di questo che dobbiamo trattare. Infatti, in tutte le disposizioni di carattere di cuiabbiamo parlato, come pure negli altri casi, c’è una specie di bersaglio, mirando al qualechi possiede la ragione tende e rilascia la corda del suo arco, e c’è una determinata misurache definisce le medietà, che noi diciamo intermedie tra l’eccesso e il difetto, [25] perchésono conformi alla retta ragione. Questa affermazione è, sì, vera, ma non chiarificatrice,perché anche in tutti gli altri oggetti delle preoccupazioni umane, di cui v’è scienza, è verodire questo, che, cioè, non dobbiamo darci pena né essere trascurati né più né meno del do-vuto, ma attenerci al giusto mezzo, cioè a come prescrive la retta ragione. Ma se uno posse-desse solo questa verità [30] non saprebbe per niente di più; per esempio, quali rimedi de-ve applicare al corpo, se gli si dicesse che deve usare quelli che comanda l’arte medica, enel modo in cui li usa chi quest’arte possiede. Perciò, anche delle disposizioni dell’anima bi-sogna non solo che ciò che si è detto sia veramente così, ma anche che sia definito che cos’èla retta ragione e quale è la misura che la definisce [35].

Orbene, quando abbiamo distinto le virtù dell’anima, abbiamo detto che alcune sono virtùdel carattere, [1139a] e altre sono virtù del pensiero. Delle virtù etiche abbiamo già trattato;delle altre, dopo un discorso preliminare sull’anima, diciamo quanto segue. Precedente-mente abbiamo detto che ci sono due parti dell’anima, quella razionale e quella irrazionale:[5] ora dobbiamo suddividere alla stessa maniera quella razionale. E diamo per ammessoche le parti razionali siano due: una è quella con cui contempliamo gli enti i cui principinon possono essere diversamente, e una con cui consideriamo le realtà contingenti. Infatti,nei confronti delle cose che sono diverse per genere è diversa anche quella delle partidell’anima [10] che per natura è rivolta all’una o all’altra di esse, se è vero che è per unacerta somiglianza e parentela con esse che la conoscenza le appartiene. Chiamiamole, ri-spettivamente, la parte "scientifica" e la parte "calcolatrice": infatti deliberare e calcolaresono la stessa cosa, ma nessuno delibera sulle cose che non possono essere diversamente.Per conseguenza, la parte calcolatrice [15] non è che una parte dell’elemento razionaledell’anima. Bisogna, dunque, capire qual è la migliore disposizione di ciascuna di questeparti: essa, infatti, è la virtù di ciascuna, e la virtù di una cosa è ciò che è proprio di questacosa in rapporto alla sua funzione.

2. [Desiderio, intelletto, scelta].

Ma nell’anima ci sono tre elementi che determinano insieme l’azione e la verità: sensazio-ne, intelletto e desiderio. Ma di questi tre la sensazione non è principio di alcuna azionemorale: risulta chiaro dal fatto [20] che le bestie hanno, sì, la sensazione, ma non parteci-pano della capacità di agire moralmente. Quello, poi, che sul piano del pensiero sono l’af-fermazione e la negazione, sul piano del desiderio sono il perseguimento e la fuga. Così,poiché la virtù etica è una disposizione alla scelta, e la scelta è un desiderio assunto dalladeliberazione, bisogna per questo che il ragionamento sia vero e che il desiderio sia retto,[25] se la scelta deve essere moralmente buona, e che ciò che il ragionamento afferma e ciòche il desiderio persegue siano la stessa cosa. Questi, dunque, sono il pensiero pratico e la

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verità pratica. Del pensiero teoretico, poi, che non è né pratico né produttivo, la buona e lacattiva disposizione sono il vero e il falso (questa è infatti la funzione di ogni attività pen-sante): la funzione della parte pratica [30] e pensante insieme è la verità in accordo con ilretto desiderio. Orbene, principio dell’azione è la scelta (che è ciò da cui procede il movi-mento, ma non il fine a cui il movimento tende), e principi della scelta sono il desiderio e ilcalcolo dei mezzi per raggiungere il fine. Dunque, la scelta non può sussistere né senza in-telletto e pensiero né senza disposizione morale, giacché un agire moralmente buono [35] ocattivo non può sussistere senza pensiero e senza carattere. Il pensiero di per sé non mettein moto nulla, bensì ciò che muove è il pensiero che determina i mezzi per raggiungere unoscopo, cioè il pensiero pratico. [1139b] Questo, infatti, presiede anche all’attività produttri-ce: chiunque, infatti, produca qualcosa, la produce per un fine, e la produzione non è fine ase stessa (ma è relativa ad un oggetto, cioè è produzione di qualcosa), mentre, al contrario,l’azione morale è fine in se stessa, giacché l’agire moralmente buono è un fine, ed il deside-rio è desiderio di questo fine. Perciò la scelta è intelletto che desidera [5] o desiderio che ra-giona, e tale principio è l’uomo. Ma non può mai essere oggetto di scelta il passato (peresempio, nessuno può scegliere di avere saccheggiato Troia), giacché non si delibera sulpassato, ma sul futuro e sul contingente, mentre il passato non può non essere stato. Perciòha ragione Agatone: [10]

"Ché di questa sola possibilità anche Dio rimane privo: rendere non fatto ciò che è stato fat-to".

Dunque, la funzione di entrambe le parti intellettive dell’anima è la verità. E, dunque, le di-sposizioni in virtù delle quali ciascuna di esse meglio attinge la verità sono rispettivamentele loro virtù.

3. [La scienza].

Orbene, ricominciamo dall’inizio e parliamo di nuovo di queste disposizioni. [15] Ammet-tiamo, dunque, che le disposizioni per cui l’anima coglie il vero con un’affermazione o conuna negazione siano cinque di numero: e queste sono l’arte, la scienza, la saggezza, la sa-pienza, l’intelletto; il giudizio e l’opinione no, perché ad essi è possibile ingannarsi. Che co-sa è, dunque, la scienza, se dobbiamo parlare con rigore e non tener dietro a similitudini,risulta chiaro da quanto segue. [20] Tutti ammettiamo che ciò di cui abbiamo scienza nonpuò essere diversamente da quello che è: ciò, invece, che può essere anche diverso, quandoè fuori dal campo della nostra osservazione, non si sa più se esiste o no. In conclusione,l’oggetto della scienza esiste di necessità. Quindi è eterno: gli enti, infatti, che esistono dinecessità assoluta sono tutti eterni, e gli enti eterni sono ingenerati e incorruttibili. [25]Inoltre, si ritiene che ogni scienza sia insegnabile e che ciò che è oggetto di scienza può es-sere appreso. Ogni insegnamento, poi, procede da conoscenze precedenti, come diciamoanche negli Analitici: procede, infatti, o mediante l’induzione o mediante il sillogismo. Ora,l’induzione è principio di conoscenza anche dell’universale, mentre il sillogismo procededagli universali. Ci sono, [30] dunque, dei principi da cui il sillogismo procede, ma dei qua-li non è possibile sillogismo: dunque, si ottengono per induzione. In conclusione, la scienzaè una disposizione alla dimostrazione, insieme con tutti gli altri caratteri che abbiamo defi-nito negli Analitici, giacché quando si è giunti ad una determinata convinzione e quando iprincipi ci sono noti, si ha scienza. Infatti, se i principi non sono più noti della conclusione,[35] si avrà scienza solo per accidente. Si consideri conclusa in questo modo la definizionedi scienza.

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4. [L’arte].

[1140a] Ciò che può essere diverso da come è, può essere sia oggetto di produzione, sia og-getto di azione: altro è la produzione e altro l’azione (per quanto riguarda questi argomentici affidiamo anche agli scritti essoterici). Così anche la disposizione ragionata all’azione èaltro dalla disposizione ragionata alla produzione. [5] Perciò nessuna delle due è inclusanell’altra, giacché l’azione non è produzione, e la produzione non è azione. Poiché l’archi-tettura è un’arte ed è per essenza una disposizione ragionata alla produzione, e poiché nonc’è nessun’arte che non sia una disposizione ragionata alla produzione, e non c’è nessunadisposizione ragionata alla produzione che non sia un’arte, arte sarà [10] lo stesso che "di-sposizione ragionata secondo verità alla produzione". Ogni arte, poi, riguarda il far venireall’essere e il progettare, cioè il considerare in che modo può venire all’essere qualche og-getto di quelli che possono essere e non essere, e di quelli il cui principio è in chi produce enon in ciò che è prodotto. L’arte, infatti, non ha per oggetti le cose che sono o vengonoall’essere per necessità, [15] né le cose che sono o vengono all’essere per natura, giacchéqueste hanno in sé il loro principio. Poiché produzione ed azione sono cose diverse, è ne-cessario che l’arte riguardi la produzione e non l’azione. Ed in certo qual modo hanno glistessi oggetti il caso e l’arte, come dice anche Agatone: "L’arte ama il caso e il caso ama[20] l’arte". Dunque, l’arte, come s’è detto, è una specie di disposizione, ragionata secondoverità, alla produzione; la mancanza d’arte, al contrario, è una disposizione, accompagnatada ragionamento falso, alla produzione, sempre relativa alle cose che possono essere diver-samente da come sono.

5. [La saggezza].

Per quanto riguarda la saggezza, ne coglieremo l’essenza se considereremo [25] qual è lanatura di coloro che chiamiamo saggi. Ebbene, comunemente si ritiene che sia proprio delsaggio essere capace di ben deliberare su ciò che è buono e vantaggioso per lui, non da unpunto di vista parziale, come, per esempio, per la salute, o per la forza, ma su ciò che è buo-no e utile per una vita felice in senso globale. Una prova ne è che noi chiamiamo saggi colo-ro che lo sono in un campo particolare, quando calcolano [30] esattamente i mezzi per otte-nere un fine buono in cose che non sono oggetto di un’arte. Ne consegue che anche in gene-rale è saggio chi è capace di deliberare. Ma nessuno delibera sulle cose che non possono es-sere diversamente, né sulle cose che non gli è possibile fare lui stesso. Cosicché, se è veroche scienza implica dimostrazione, ma che, d’altra parte, non v’è dimostrazione delle cose icui principi possono essere diversamente [35] (tutte queste infatti possono essere anche di-versamente), e poiché non [1140b] è possibile deliberare su ciò che è necessariamente, lasaggezza non sarà né scienza né tecnica. Non sarà scienza perché l’oggetto dell’azione puòessere diversamente, e non sarà arte perché il genere dell’azione e quello della produzionesono diversi. In conclusione, resta che la saggezza sia [5] una disposizione vera, ragionata,disposizione all’azione avente per oggetto ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. Infat-ti, il fine della produzione è altro dalla produzione stessa, mentre il fine dell’azione no:l’agire moralmente bene è un fine in se stesso. Per questo noi pensiamo che Pericle e gli uo-mini come lui sono saggi, perché sono capaci di vedere ciò che è bene per loro e ciò che èbene per gli uomini in generale; [10] e tale capacità hanno, secondo noi, gli uomini che san-no amministrare una famiglia o uno Stato. Per questo motivo attribuiamo alla temperanzaquesto nome, perché salva la saggezza. Salva, cioè, il giudizio saggio. In effetti, non è che il

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piacere e il dolore corrompano e distorcano ogni tipo di giudizio (per esempio, questo: iltriangolo [15] ha o non ha la somma degli angoli interni uguale a due angoli retti), bensìsoltanto i giudizi che riguardano l’azione. Infatti, i fini delle azioni sono le azioni stesse: achi è corrotto dal piacere o dal dolore non è più manifesto il principio, né che è in vista diquesto o per causa sua che deve scegliere e fare tutto ciò che sceglie e fa: il vizio, infatti, di-strugge il principio dell’azione morale. [20] Per conseguenza, la saggezza è necessariamen-te una disposizione ragionata, vera, disposizione all’azione nel campo dei beni umani. Inol-tre, dell’arte c’è una virtù, ma non c’è una virtù della saggezza: cioè, nel campo dell’arte èpreferibile chi sbaglia volontariamente, mentre nel caso della saggezza, come in quello del-le altre virtù, sbagliare volontariamente è peggio. Dunque, è chiaro che la saggezza è unavirtù [25] e non un’arte. Poiché, poi, le parti razionali dell’anima sono due, la saggezza saràla virtù di una delle due, di quella opinativa: sia l’opinione sia la saggezza, infatti, si riferi-scono alle cose che possono essere diversamente. Inoltre la saggezza non è soltanto una di-sposizione ragionata: prova ne è che di una simile disposizione vi può essere oblio, dellasaggezza, [30] invece, no.

6. [L’intelletto].

Poiché la scienza è un giudizio che ha per oggetto gli universali e le cose che sono necessa-riamente, e poiché ci sono dei principi delle cose dimostrabili e di ogni scienza (giacché lascienza implica ragionamento), il principio di ciò che è oggetto di scienza non è a sua voltaoggetto di scienza né di arte né [35] di saggezza: infatti, ciò che è oggetto di scienza è dimo-strabile, mentre l’arte e la saggezza [1141a] riguardano ciò che può essere diversamente.Quindi, neppure la sapienza ha come oggetto i principi: è proprio del sapiente, infatti, ave-re dimostrazione di un certo tipo di cose. Per conseguenza, se le disposizioni per cui coglia-mo la verità e non cadiamo mai in errore, sia sugli oggetti che non possono sia su quelli chepossono essere diversamente, sono scienza, saggezza, sapienza e intelletto, [5] e se i princi-pi non possono essere oggetto di tre di queste (con "tre" intendo saggezza, scienza e sapien-za), resta che essi siano oggetto dell’intelletto.

7. [La sapienza. Differenza tra sapienza e saggezza].

Noi attribuiamo la sapienza nelle arti a coloro che raggiungono la più alta maestria [10]nelle loro arti: per esempio, diciamo che Fidia è uno scultore sapiente e Policleto un sapien-te statuario, indicando qui con "sapienza" nient’altro che l’eccellenza in un’arte. Ma noipensiamo che ci siano degli uomini sapienti in senso onnicomprensivo e non sapienti soloin un campo particolare o in una cosa determinata, come dice Omero nel Margite: [15]

"costui gli dèi non lo fecero né zappatore né aratore né sapiente in qualche altra cosa".

Così è chiaro che la sapienza è la più perfetta delle scienze. Per conseguenza, bisogna che ilsapiente non solo conosca ciò che deriva dai principi, ma anche che colga il vero per quan-to riguarda i principi stessi. Così si può dire che la sapienza sia insieme intelletto e scienza,in quanto è scienza, con fondamento, [20] delle realtà più sublimi. È assurdo infatti, pensa-re che la politica e la saggezza siano la forma più alta di conoscenza, se è vero che l’uomonon è la realtà di maggior valore nell’universo. Se, dunque, ciò che è salutare è diverso pergli uomini e per i pesci, mentre ciò che è bianco e diritto è sempre la stessa cosa, tutti devo-

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no riconoscere che anche ciò che è sapiente è la stessa cosa, mentre ciò che è saggio [25] èdiverso. Infatti, si dice che è cosa saggia il saper considerare adeguatamente i nostri inte-ressi particolari, ed è ad un uomo saggio che noi li affidiamo. È per questo che si dice checerti animali sono saggi, quelli cioè che mostrano di avere una certa capacità di previdenzaper ciò che interessa la loro vita. È chiaro, inoltre, che non si può dire che la sapienza e lapolitica si identificano: se, infatti, [30] si chiamerà sapienza la scienza di ciò che è utile anoi stessi, ci saranno molte sapienze, giacché non è unica la scienza di ciò che è bene pertutti gli animali, ma è diversa per ciascuna specie, come anche non c’è un’unica scienza me-dica per tutti gli esseri viventi. Se, poi, si dice che l’uomo è superiore a tutti gli altri animali,non cambia niente, giacché ci sono altre realtà di natura ben [1141b] più divina dell’uomo,come risulta chiarissimo, se non altro, dai corpi di cui è costituito l’universo. Dunque, daquanto abbiamo detto risulta chiaro che la sapienza è, insieme, scienza e intelletto dellerealtà più sublimi per natura. Perciò Anassagora e Talete, e gli uomini come loro, vengonochiamati sapienti [5] ma non saggi, quando si vede che ignorano ciò che è vantaggioso perloro, e si dice che essi conoscono realtà straordinarie, meravigliose, difficili e divine, mainutili, perché non sono i beni umani che essi cercano.

La saggezza, invece, riguarda i beni umani e le cose su cui è possibile deliberare: infatti,[10] noi diciamo che soprattutto questa è la funzione del saggio, il deliberare bene, e nessu-no delibera sulle cose che non possono essere diversamente, né su quelle che non abbianoun qualche fine che sia un bene realizzabile nell’azione. L’uomo che sa deliberare bene insenso assoluto è quello che, seguendo il ragionamento, sa indirizzarsi a quello dei beni rea-lizzabili nell’azione che è il migliore per l’uomo. La saggezza non ha come oggetto [15] sologli universali, ma bisogna che essa conosca anche i particolari, giacché essa concerne l’azio-ne, e l’azione riguarda le situazioni particolari. È per questa ragione che alcuni uomini, purnon conoscendo gli universali, sono, nell’azione, più abili di altri che li conoscono, e questovale anche negli altri campi: sono coloro che hanno esperienza. Se, infatti, uno sa che lecarni leggere sono facili da digerire e salutari, ma non sa quali sono le carni leggere, nonprodurrà la salute; [20] la produrrà piuttosto colui che sa che le carni degli uccelli sono leg-gere e salutari. La saggezza, poi, riguarda l’azione: cosicché deve possedere entrambi i tipidi conoscenza, o di preferenza quella dei particolari. Ma ci sarà anche qui una scienza ar-chitettonica.

8. [Politica e saggezza come conoscenza del particolare].

La politica e la saggezza sono la stessa disposizione, benché la loro essenza non sia la stes-sa. La saggezza che ha per oggetto [25] una città, in quanto architettonica, è saggezza legi-slativa; ma in quanto riguarda gli atti particolari, ha il nome comune di saggezza politica.Quest’ultima riguarda l’azione e la deliberazione: il decreto, infatti, è oggetto dell’azione inquanto è l’ultimo termine della deliberazione. È per questo che solo coloro che deliberanosui casi particolari si dice che fanno politica: questi infatti sono i soli ad agire come fannogli artigiani. Ma comunemente si ritiene [30] anche che la saggezza sia soprattutto quellache riguarda in modo esclusivo l’individuo stesso; e questa ha il nome comune di saggezza;il nome, poi, delle altre forme è "amministrazione familiare" o "legislazione" o "politica", equest’ultima si divide in "deliberativa" e "giudiziaria". E una forma di conoscenza sarà, sì,quella di sapere ciò che è utile a se stessi, ma è molto diversa. [1142a] E si ritiene che siasaggio colui che conosce il suo interesse e se ne occupa a fondo, mentre gli uomini politicisi occupano di un sacco di cose. Perciò Euripide dice:

"Come potrei essere saggio io che avrei potuto,

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[pur rimanendo inattivo,

semplice numero tra i tanti nell’esercito,

partecipare di un ugual diritto? [...] [5]

Giacché coloro che aspirano troppo in alto e fanno il di più…".

Costoro, infatti, cercano ciò che è bene per loro, e credono che sia questo che devono fare.Da questa opinione, dunque, è derivata la credenza che i saggi siano questi. Eppure il benedell’individuo non può certo sussistere senza amministrazione familiare [10] e senza costi-tuzione politica. Inoltre, in che modo bisogna amministrare i propri interessi non è una co-sa evidente, e va fatta oggetto di indagine.

Prova, poi, di ciò che abbiamo detto è anche il fatto che i giovani sono geometri o matema-tici o sapienti in materie del genere, ma non si pensa che un giovane sia saggio. Il motivo èche la saggezza riguarda anche i particolari, i quali diventano [15] noti in base all’esperien-za, mentre il giovane non è esperto: infatti, è la lunghezza del tempo che produce l’espe-rienza. Perché ci si potrebbe chiedere anche questo: per quale ragione un ragazzo può esse-re un matematico, ma non un sapiente o un fisico? Non si deve forse rispondere che gli og-getti della matematica derivano dall’astrazione, mentre i principi della sapienza e della fisi-ca si ricavano dall’esperienza, e che, mentre su questi ultimi i giovani non hanno convinzio-ni [20] ma si contentano di parole, degli oggetti matematici, invece, non ignorano l’essen-za? Inoltre, nel deliberare, l’errore può riguardare sia l’universale sia il particolare: ci sipuò sbagliare, infatti, o nel dire che tutte le acque pesanti sono malsane, o nel dire che que-sta determinata acqua è pesante. Che la saggezza non sia scienza è manifesto: essa riguardal’ultimo termine della deliberazione, come abbiamo detto, [25] giacché tale è l’oggettodell’azione. Dunque, essa si contrappone all’intelletto: l’intelletto, infatti, ha per oggetto ledefinizioni, di cui non c’è dimostrazione, mentre la saggezza ha per oggetto l’ultimo parti-colare, di cui non c’è scienza ma sensazione, ma non sensazione dei sensibili propri, bensìquella mediante cui, in matematica, noi percepiamo che l’ultimo determinato particolare èun triangolo: anche là, infatti, ci si dovrà fermare. Ma quest’ultima è più [30] sensazioneche saggezza, e la forma dell’altra è diversa.

9. [L’attitudine a deliberare bene].

Tra cercare e deliberare c’è differenza, giacché il deliberare è una specie del cercare. Biso-gna, dunque, cercar di comprendere che cos’è l’attitudine a deliberare bene, se è un tipo discienza o di opinione o di sagacia o qualche altro genere di cosa. [1142b] Scienza non è cer-tamente: infatti, non si cerca ciò che si sa, mentre l’attitudine a deliberare bene è una spe-cie della deliberazione, e colui che delibera cerca e calcola. Ma, certo, non è neppure saga-cia: infatti, la sagacia non implica ragionamento ed è qualcosa di rapido, e si dice che biso-gna mettere in pratica rapidamente ciò che si è deliberato, [5] ma che bisogna deliberarelentamente. Inoltre, anche la prontezza di spirito è diversa dall’attitudine a deliberare be-ne: la prontezza di spirito è una specie di sagacia. Infine, l’attitudine a deliberare bene nonè alcun tipo di opinione. Ma poiché chi delibera male erra, mentre chi delibera bene delibe-ra correttamente, è chiaro che l’attitudine a deliberare bene è una specie di rettitudine, manon una rettitudine della scienza né dell’opinione. [10] Della scienza, infatti, non c’è retti-tudine (perché non c’è neppure errore), e, d’altra parte, la rettitudine dell’opinione è la ve-

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rità; e, nello stesso tempo, tutto ciò che è oggetto di opinione è già stato determinato. Purtuttavia, l’attitudine a deliberare bene non è scompagnata dal ragionamento. Dunque, restada dire che essa è rettitudine del pensiero: quest’ultimo, infatti, non è ancora un’asserzio-ne. E l’opinione non è ricerca, ma è già asserzione, mentre chi delibera, [15] sia che deliberibene sia che deliberi male, cerca qualcosa e calcola. Ma l’attitudine a deliberare bene è unaspecie di rettitudine della deliberazione: perciò bisogna indagare prima di tutto sulla natu-ra e sull’oggetto della deliberazione. E poiché il termine "rettitudine" ha molti significati, èchiaro che qui non si tratta di ogni tipo di rettitudine: infatti, l’incontinente, cioè il vizioso,otterrà col suo calcolo ciò che si propone come suo dovere, cosicché si troverà [20] ad averdeliberato correttamente, anche se poi si è procurato un gran male. Ma si ritiene che il deli-berare bene sia una cosa buona: infatti, è questo tipo di rettitudine della deliberazione checostituisce l’attitudine a deliberare bene, cioè è quella rettitudine che mira a raggiungereun bene. Anche questo bene, poi, è possibile coglierlo mediante un sillogismo falso, e co-gliere ciò che si deve fare, ma non il mezzo conveniente: è possibile che il termine mediosia falso; cosicché non è [25] ancora attitudine a deliberare bene questa disposizione a rag-giungere ciò che si deve, ma non con il mezzo con cui si dovrebbe. Inoltre, è possibile rag-giungere lo scopo, talora deliberando per molto tempo, talora rapidamente. Ma neppurequella è ancora attitudine a deliberare bene, che è invece una rettitudine conforme all’utile,cioè conforme al mezzo, al modo e al tempo dovuti. Inoltre, è possibile deliberare bene siain senso assoluto, sia in relazione ad un fine determinato. Dunque, [30] l’attitudine a deli-berare bene, in senso assoluto, è quella che conduce correttamente al fine preso in sensoassoluto, mentre l’attitudine a deliberare bene in senso stretto è quella che conduce ad undeterminato fine. Se, quindi, è caratteristica dei saggi il ben deliberare, l’attitudine a delibe-rare bene sarà la rettitudine conforme a ciò che è utile per raggiungere il fine, di cui la sag-gezza è la vera apprensione.

10. [Il giudizio e la perspicacia].

Il giudizio, poi, e la perspicacia, per cui parliamo di uomini [1143a] giudiziosi e perspicaci,non sono la stessa cosa che la scienza o l’opinione in generale (giacché in questo caso tuttisarebbero giudiziosi), né sono una determinata scienza particolare, come, per esempio, lamedicina, scienza della salute, o la geometria, scienza delle grandezze. Il giudizio, infatti,non ha per oggetto gli enti eterni [5] ed immobili, né una qualsiasi delle realtà divenienti,bensì realtà che possono suscitare problemi e richiedere una deliberazione. Perciò il giudi-zio ha gli stessi oggetti della saggezza, ma giudizio e saggezza non sono la stessa cosa. Lasaggezza, infatti, è imperativa, perché il suo fine è quello di determinare ciò che si deve oche non si deve fare; il giudizio, invece, [10] è soltanto critico. Infatti, giudizio e perspicaciasono la stessa cosa, come uomo giudizioso e uomo perspicace. Il giudizio, poi, non consistené nel possedere né nell’acquistare la saggezza; ma come "apprendere" si dice "comprende-re", quando si fa uso della scienza, così si dice "comprendere" quando si fa uso dell’opinio-ne nel giudicare sulle cose che sono oggetto [15] della saggezza, quando ne parla un altro, enel giudicare adeguatamente (giacché "bene" e "adeguatamente" qui significano la stessacosa). Ed il nome di "giudizio", in base al quale parliamo di uomini giudiziosi, è derivato daquello del "giudizio" di cui ci si avvale nell’apprendere: spesso, infatti, intendiamo per"comprendere" l’apprendere.

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11. [La comprensione e l’indulgenza. Loro rapporto con l’intelletto].

E quella che chiamiamo "comprensione", per cui diciamo che certi uomini sono "indulgen-ti", [20] cioè che hanno comprensione, è un corretto giudizio su ciò che è equo. Prova: so-prattutto dell’uomo equo diciamo che è disposto all’indulgenza, e che è equo l’avere indul-genza in certi casi. L’indulgenza è una comprensione che giudica correttamente di ciò che èequo: e giudica correttamente quando giudica equo ciò che lo è veramente. [25] Ora, tuttele disposizioni di cui abbiamo parlato convergono, logicamente, verso la stessa cosa: noi,infatti, quando attribuiamo agli stessi uomini comprensione, giudizio, saggezza e intelletto,diciamo che essi hanno ormai comprensione e intelletto, e che sono saggi e giudiziosi. Tut-te queste facoltà, infatti, riguardano gli oggetti ultimi, cioè i particolari: appunto [30]nell’essere capace di giudicare su ciò che è oggetto del saggio consiste l’essere giudizioso ebenevolo, ovvero indulgente, giacché l’equità è comune a tutti gli uomini buoni nel lorocomportamento verso gli altri. Ora, gli oggetti di tutte le azioni sono cose particolari e ulti-me, giacché il saggio deve conoscere i particolari ultimi, e il giudizio e la comprensione ri-guardano [35] gli oggetti delle azioni, e questi sono appunto dei termini ultimi. Anche l’in-telletto riguarda gli oggetti ultimi in entrambi i sensi: è infatti l’intelletto che ha come og-getto [1143b] sia i termini primi sia gli ultimi, e non il ragionamento, ed è l’intelletto che,da una parte, coglie i termini immutabili e primi nell’ordine delle dimostrazioni, e, dall’al-tra, nelle questioni pratiche, coglie il termine ultimo e contingente, cioè la premessa mino-re. Infatti, i principi da cui si ricava il fine sono questi: è dai particolari, infatti, che si rica-vano [5] gli universali. Di questi fatti particolari bisogna avere apprensione immediata, equesta apprensione immediata è l’intelletto. Per questo si ritiene che queste qualità sianonaturali, e che, mentre nessuno è sapiente per natura, è per natura che si ha comprensione,giudizio, intelletto. Prova ne è che noi pensiamo che esse seguano le varie età, e che una de-terminata età ha intelletto e comprensione, in quanto, noi crediamo, ne è causa la natura.[Perciò [10] l’intelletto è sia principio sia fine: infatti, le dimostrazioni partono da fatti par-ticolari e riguardano fatti particolari.]. Cosicché bisogna tener conto delle affermazioni nondimostrate, cioè delle opinioni degli uomini d’esperienza e dei più anziani, ovvero dei sag-gi, non meno che delle loro dimostrazioni, giacché essi, per il fatto di avere un occhio for-mato dall’esperienza, vedono correttamente. Si è dunque detto che cosa sono [15] la sag-gezza e la sapienza, quali oggetti abbia ciascuna di esse, e che ciascuna appartiene ad unadiversa parte dell’anima.

12. [Saggezza e sapienza. Loro utilità].

A proposito, poi, di saggezza e sapienza ci si potrebbe domandare a che cosa servono. (1)Infatti, mentre la sapienza non considera nulla di ciò che può rendere felice [20] l’uomo(giacché non riguarda nessun divenire), la saggezza ha proprio questo come oggetto: maper che cosa si ha bisogno di lei? La saggezza ha per oggetto le cose giuste, belle e buoneper l’uomo, ma queste sono le cose che è proprio dell’uomo buono fare, e non è per il fattodi conoscere che noi siamo più atti a farle, se è vero che [25] le virtù sono delle disposizio-ni, così come non siamo più atti a metterle in pratica se conosciamo le cose sane e forti,quelle che vengono così chiamate non perché producono la salute o la forza, ma perché de-rivano da una disposizione: in realtà non siamo affatto più atti all’azione per il fatto di pos-sedere la scienza medica o l’arte ginnica. Ma se si deve dire che lo scopo della saggezza nonè quello di possedere queste conoscenze teoriche, ma quello di far diventare virtuosi, a co-loro che sono già virtuosi la saggezza non serve a nulla. [30] (2) Inoltre, non serve neppurea coloro che non l’hanno ancora: non ha, infatti, alcuna importanza se possediamo noi stes-si la saggezza o se diamo retta ad altri che la possiedono, ma ci basterà fare come nel caso

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della salute: anche se vogliamo acquistare la salute, non ci mettiamo tuttavia a studiare me-dicina. (3) Oltre a ciò, si ammetterà che sarebbe strano se la saggezza, pur essendo inferio-re alla sapienza, fosse più di lei dominante: [35] infatti, l’arte che produce una cosa qualsia-si comanda e impera su ciascun prodotto. Ciò posto, su questi argomenti bisogna discute-re: ora, infatti, ne abbiamo solo mostrato le aporie. [1144a] (1) Quindi, in primo luogo, di-ciamo che esse sono necessariamente virtù per se stesse, poiché ciascuna è virtù di ciascu-na delle due parti dell’anima, anche se non producono niente, né l’una né l’altra. (2) In se-condo luogo, esse producono in realtà qualcosa; ma non come la medicina produce la salu-te, bensì come la salute <produce se stessa>, così [5] la sapienza produce felicità: pur es-sendo, infatti, una parte della virtù nella sua globalità, per il fatto di essere posseduta e diessere in atto, essa fa l’uomo felice. (3) Inoltre, la funzione propria dell’uomo si compie pie-namente in conformità con la saggezza e con la virtù etica: infatti, la virtù fa retto lo scopo,e la saggezza fa retti i mezzi per raggiungerlo. Della quarta parte dell’anima, poi, quella nu-tritiva, non c’è alcuna [10] virtù di questo tipo, giacché non dipende da lei agire o non agi-re.

(4) Per quanto, poi, riguarda il fatto che la saggezza non ci rende più atti a compiere le azio-ni belle e giuste, dobbiamo ricominciare da un po’ più in alto, prendendo come punto dipartenza il seguente. Come, infatti, diciamo che alcuni, pur compiendo delle azioni giuste,non sono ancora giusti, come, per esempio, coloro [15] che fanno ciò che è prescritto dalleleggi o involontariamente o per ignoranza o per qualche altra ragione, ma non per se stesso(eppure, almeno fanno ciò che si deve, cioè ciò che bisogna che l’uomo di valore faccia), co-sì, come sembra, c’è una certa disposizione per fare ciascun tipo di azioni in modo da esse-re buoni, intendo dire, cioè, per compierle in base ad una scelta ed avendo come scopo ciòstesso [20] che si fa.Dunque, è la virtù che fa retta la scelta, mentre tutto quanto contribuisce per natura a farcioperare una retta scelta non dipende dalla virtù ma da potenzialità diverse. Ma a chi ha giàacquisito queste cognizioni bisogna parlare in maniera più chiara. C’è, dunque, una poten-zialità che viene chiamata "abilità": questa è tale per cui si è in grado [25] di compiere leazioni che mirano allo scopo che ci si è proposti, e di raggiungerlo. Quindi, se lo scopo èbuono, essa è da lodare, se è cattivo, invece, si tratta di furberia: è per questo che chiamia-mo abili tanto i saggi quanto i furbi. La saggezza non è questa potenzialità, ma non esistesenza questa potenzialità. Questa disposizione, poi, [30] non si realizza in questo "occhiodell’anima" senza la virtù, come s’è detto e come è evidente. Infatti, i sillogismi pratici han-no questo principio: "poiché tale è il fine, cioè il bene supremo...", quale che sia (concedia-mo, tanto per ragionare, che sia uno qualsiasi): ma questo principio non è manifesto senon a chi è buono, giacché [35] la perversità stravolge e fa cadere in errore sui principi pra-tici. Così è manifesto che non è possibile essere saggio senza essere buono.

13. [Riflessioni conclusive sulle virtù dianoetiche].

[1144b] Per conseguenza, bisogna esaminare di nuovo anche la virtù. Infatti anche la virtù,come la saggezza, ha un rapporto molto stretto con l’abilità: non lo stesso, ma simile; ana-logo rapporto c’è tra la virtù naturale e la virtù vera e propria. Tutti ritengono che ciascuntipo di carattere ci appartenga [5] in qualche modo per natura: infatti, giusti, inclini allatemperanza, coraggiosi e così via, noi lo siamo subito fin dalla nascita. Ma noi, tuttavia, cer-chiamo qualcosa d’altro: il bene in senso proprio, e il possesso di tali qualità in un altro mo-do. Infatti, le disposizioni naturali appartengono sia ai bambini sia alle bestie, ma senza in-telletto esse sono manifestamente dannose. [10] In ogni caso, sembra che sia facile osserva-re che, come ad un corpo vigoroso ma privo della vista succede, quando si muove, di cadere

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rovinosamente, per il fatto che non ha la vista, così succede anche qui. Ma quando uno ac-quista l’intelletto si comporta ben diversamente: solo allora la sua disposizione, pur essen-do ancora simile a quella naturale, sarà propriamente virtù. Per conseguenza, come nel ca-so della parte opinativa dell’anima ci sono due [15] specie di disposizioni, l’abilità e la sag-gezza, così anche nel caso della parte morale ce ne sono due: da una parte la virtù naturalee dall’altra la virtù vera e propria; e di queste due, la virtù vera e propria non nasce senza lasaggezza. Perciò alcuni dicono che tutte le virtù sono forme di saggezza, e perciò Socrate inun senso conduceva correttamente la ricerca, in un altro sbagliava: pensando che [20] tuttele virtù sono forme di saggezza, sbagliava, ma dicendo che esse non sorgono senza la sag-gezza, diceva bene. Ecco la prova: anche oggi, infatti, tutti, quando definiscono la virtù, di-cono che è una determinata disposizione che riguarda certi oggetti, e aggiungono che è con-forme alla ragione e la retta ragione è quella conforme alla saggezza. Sembra, dunque, chetutti, in qualche modo, presagiscano [25] che è virtù quella disposizione che è conforme al-la saggezza. Ma bisogna andare un po’ più in là. Non è solo la disposizione conforme allaretta ragione, ma quella che è congiunta con la retta ragione che è virtù: e la retta ragionein questo campo è la saggezza. Socrate pensava che le virtù fossero ragionamenti (infatti di-ceva che sono [30] tutte delle scienze); noi, invece, riteniamo che esse siano congiunte conla ragione. È chiaro, dunque, da quanto si è detto che non è possibile essere buono in sensoproprio senza saggezza, né essere saggio senza la virtù etica. Ma in questo modo resterà an-che confutato l’argomento dialettico con cui si vorrebbe provare che le virtù esistono sepa-ratamente l’una dall’altra: infatti, la medesima persona non è ugualmente ben disposta pernatura [35] verso tutte le virtù, ma sarà tale che una l’ha già acquisita, l’altra non ancora;questo, infatti, può capitare per quanto riguarda le virtù naturali, [1145a] ma per quanto ri-guarda le virtù per cui uno è chiamato buono in senso assoluto, non è possibile: quando, in-fatti, gli appartiene una sola virtù, la saggezza, gli apparterranno insieme tutte le virtù. Èchiaro, inoltre, che, anche se essa non fosse guida all’azione, si avrebbe bisogno della sag-gezza per il fatto che è la virtù della parte dell’anima qui interessata; ed è chiaro che la scel-ta corretta non sarà possibile senza [5] la saggezza né senza la virtù: l’una, infatti, determi-na il fine, l’altra ci fa compiere le azioni atte a raggiungerlo. È certo, poi, che la saggezzanon è padrona della sapienza e della parte migliore dell’anima, come neppure la medicina èpadrona della salute: infatti, non si serve di lei, ma cerca di vedere come essa si possa pro-durre: la saggezza, dunque, comanda in vista della sapienza, ma non comanda alla sapien-za. [10] Inoltre, è come se si dicesse che la politica comanda agli dèi, poiché regna su tuttol’ordinamento della città.

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Libro VII

1. [Vizio, incontinenza, bestialità].

[15] A seguito di ciò, dobbiamo assumere un altro punto di partenza e dire che, per quelche concerne i comportamenti, tre sono le specie di comportamento da evitare: vizio, in-continenza, bestialità. I contrari di due di esse sono evidenti, e li chiamiamo uno virtù el’altro continenza. In contrapposizione alla bestialità il termine più adatto da usare sarebbequello di "virtù sovrumana", [20] una specie di virtù eroica e divina: così Omero rappresen-ta Priamo mentre dice che Ettore è stato eccezionalmente virtuoso:

"...e non pareva

figlio d’un uomo mortale, ma figlio d’un dio".

Cosicché, se, come dicono, un eccezionale grado di virtù trasforma gli uomini in dèi, è chia-ro che una disposizione di tale natura sarà quella [25] che si contrappone alla bestialità. In-fatti, come il vizio e la virtù non sono di una bestia, così non sono neppure di un dio, ma,da una parte, lo stato di un dio è più venerabile della virtù, e, dall’altra, quello della bestia èdi un genere diverso da quello del vizio. E poiché è raro anche l’essere un uomo divino, co-me gli Spartani sono soliti dire quando hanno una eccezionale ammirazione per qualcuno(essi dicono: "uomo divino!"), così anche [30] il tipo bestiale è raro tra gli uomini. Si trovasoprattutto tra i barbari, ma certi caratteri bestiali sono prodotti anche da malattie e difettidi crescita: e questo nome infamante diamo agli uomini che eccedono nel vizio. Ma di sif-fatta disposizione dovremo fare menzione più avanti, mentre del vizio [35] si è già parlatoprima. Ora dobbiamo parlare dell’incontinenza e della mollezza, cioè della sensualità, e del-la continenza e della fortezza: infatti, [1145b] nel caso di quelle disposizioni non bisognaconsiderare ciascun gruppo di esse come identico alla virtù o alla perversità, né come costi-tuenti un genere diverso. Bisogna, invece, come negli altri casi, tener fermo quello che simanifesta e porre innanzi tutto i problemi, e così mostrare il più esaurientemente possibiletutte [5] le opinioni correnti su queste passioni, o, se no, almeno le più diffuse e le più im-portanti: infatti, se si risolvono le difficoltà e si accettano le opinioni comuni, si otterrà unasufficiente dimostrazione.

Comunemente si ritiene che la continenza e la fortezza appartengano al campo delle cosevirtuose e lodevoli, l’incontinenza e la mollezza, invece, [10] a quello delle cose cattive ebiasimevoli, e che il continente si identifichi con colui che persevera nella conclusione delsuo ragionamento, e l’incontinente con chi non vi si attiene. Mentre l’incontinente compie,a causa della passione, azioni che pur sa che sono malvagie, l’uomo continente, che sa che isuoi desideri sono malvagi, non li segue, in forza del ragionamento. Tutti dicono che l’uo-mo temperante è continente e [15] forte, ma alcuni dicono che l’uomo continente e forte ètemperante in tutto, altri no; e gli uni affermano che l’intemperante è incontinente e l’in-continente è intemperante, senza differenze, e gli altri, invece, che sono diversi. Quantoall’uomo saggio, talora dicono che non può essere incontinente, talora affermano che alcu-ni, che pur sono saggi e abili, sono incontinenti. Inoltre si parla di uomini incontinenti [20]in fatto di impulsività, di onore, di guadagno. Questo è, dunque, quello che si dice.

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2. [Analisi e discussione delle opinioni correnti].

(1) Ci si potrebbe porre ora la questione: come può compiere atti di incontinenza uno chegiudichi rettamente? Ora, alcuni dicono che ciò non è possibile quando si possiede la scien-za: sarebbe strano (così pensava Socrate) che, quando in un uomo ci fosse la scienza, ci fos-se poi qualche altra cosa che la padroneggia e la trascina qua e là come una schiava. [25]Socrate si opponeva totalmente a questa concezione, nella persuasione che non esiste in-continenza: secondo lui, infatti, nessuno agisce in contrasto con ciò che è il meglio in basead un giudizio consapevole, ma solo per ignoranza. Questa teoria contraddice i dati d’espe-rienza in modo lampante, e si deve indagare, nell’ipotesi che questo stato passionale derividall’ignoranza, quale sia il tipo dell’ignoranza che sopravviene. [30] In effetti, colui checompie atti di incontinenza non pensa di dover agire in quel modo prima di trovarsi in que-sto stato passionale. Ma ci sono alcuni che in parte accettano e in parte no questa teoria:sono d’accordo sul fatto che niente è più forte della scienza ma non sul fatto che nessunoagisca in modo contrastante con l’opinione migliore, e per questo affermano che l’inconti-nente [35] non possiede scienza quando si lascia dominare dai piaceri, ma solo opinione.Ma se si tratta di opinione e non di scienza, se non è una convinzione [1146a] forte che sioppone ai piaceri, ma una debole, come succede a coloro che sono incerti, c’è indulgenzaper il non riuscire a rimanere saldi in quelle opinioni di fronte all’attacco dei desideri inten-si: non c’è indulgenza, invece, per la perversità, né per alcun altro atteggiamento biasime-vole. Allora è forse la saggezza che si oppone ai piaceri? [5] Questa, infatti, è molto forte.Ma è assurdo: lo stesso uomo, infatti, sarà insieme saggio e incontinente, ma nessuno diràche è proprio del saggio commettere volontariamente le azioni più basse. Ed oltre a ciò ab-biamo mostrato prima che il saggio sa agire bene in pratica (è un uomo impegnato nei fattiparticolari) e che possiede tutte le altre virtù.

(2) Inoltre, se [10] l'uomo continente è tale in presenza di desideri violenti e bassi, l’uomotemperante non sarà continente, né l’uomo continente sarà temperante: infatti, è propriodell’uomo temperante l’avere desideri non eccessivi né bassi. Ma, certo, l’uomo continentedeve averli: se, infatti, i desideri sono buoni, cattiva è la disposizione che impedisce di se-guirli, cosicché la continenza non sarà sempre [15] virtuosa: se i desideri sono deboli e nonbassi, non c’è niente di glorioso <nel dominarli>, e se sono bassi e deboli, non c’è niente digrande.

(3) Inoltre, se la continenza rende capaci di rimanere saldi in qualche opinione, sarà cattivanel caso, per esempio, in cui ci faccia rimaner saldi in una opinione falsa. E se l’incontinen-za rende facili ad abbandonare qualsiasi opinione, ci sarà una specie virtuosa di inconti-nenza, come nel caso del Neottolemo di Sofocle nel Filottete: egli è da lodare, infatti, per-ché non persiste, [20] poiché gli dispiace mentire, in ciò di cui Ulisse l’ha persuaso.

(4) Inoltre, il ragionamento sofistico contiene una aporia: infatti, per il voler confutare condei paradossi, per essere considerati abili, quando ci riescono, il ragionamento che ne risul-ta diventa un’aporia: [25] il pensiero rimane legato, infatti, quando da una parte non vuolerestar fermo perché non gli piace la conclusione, e dall’altra non può procedere perché nonha strumenti per sciogliere le difficoltà dell’argomento. Dunque, succede che c’è un argo-mento in base al quale la stoltezza congiunta con l’incontinenza è virtù: infatti, l’uomo, acausa dell’incontinenza, compie le azioni contrarie a quelle che giudica di dover compiere,ma d’altra parte giudica che le buone [30] siano cattive e che non si debbano compiere, co-sicché compirà le buone e non le cattive.

(5) Inoltre, chi agisce con convinzione e persegue e sceglie ciò che è piacevole, potrebbe es-sere ritenuto migliore di chi agisce così non per calcolo, ma per incontinenza: infatti, il pri-mo risulterebbe più facile da guarire, perché si lascia indurre a cambiare persuasione. Inve-

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ce, all’incontinente, si può applicare il proverbio [35] che dice: "Quando è l’acqua che soffo-ca, che cosa bisogna berci su?". Se egli, infatti, [1146b] era persuaso di dover fare quelloche fa, dovrebbe smettere di farlo, una volta che abbia mutato la sua persuasione; ora, inve-ce, pur essendo persuaso di dover fare una cosa, non di meno ne fa un’altra.

(6) Inoltre, se incontinenza e continenza riguardano ogni tipo di oggetto, chi è incontinentein senso, assoluto? Nessuno, infatti, possiede tutte le forme di incontinenza, ma diciamoche alcuni sono incontinenti [5] in senso assoluto. Tali, dunque, sono, pressappoco, le apo-rie che sorgono in questo campo, ma di queste alcune sono da scartare, altre da conservare,giacché risolvere un’aporia significa trovare la verità.

3. [Soluzione delle aporie riguardanti l’incontinenza].

Innanzi tutto dobbiamo vedere se gli incontinenti agiscono consapevolmente o no, e, nelprimo caso, in che senso "consapevolmente"; poi di qual natura sono gli oggetti [10] chedobbiamo attribuire all’incontinente e al continente, cioè se ogni tipo di piacere e di doloreoppure certe specie determinate; e se l’uomo continente è identico a quello forte o diverso,e così di seguito per tutte le altre questioni che sono imparentate con la presente indagine.

(1) Punto di partenza della nostra ricerca è la questione [15] se il continente e l’incontinen-te si differenziano per i loro oggetti o per la loro disposizione, cioè, voglio dire, se l’inconti-nente è incontinente solo in relazione a questi o quegli oggetti, oppure no, ma per il mododi comportarsi, o neanche per questo, bensì per tutte e due le cose insieme. In seguito ve-dremo se incontinenza e continenza riguardano ogni tipo di oggetto, oppure no. Infatti, chiè incontinente in senso assoluto non lo è in relazione ad ogni tipo di oggetto, [20] ma in re-lazione a quelli che sono oggetto dell’uomo intemperante, né per il fatto puro e semplice diessere in relazione a questi oggetti (giacché in tal caso l’incontinenza sarebbe identicaall’intemperanza), bensì per il fatto di essere in relazione con essi in un certo modo. L’uno,infatti, sceglie di lasciarsi trascinare, ritenendo di dover sempre perseguire il piacere pre-sente; l’altro, invece, non pensa di doversi lasciar trascinare, ma persegue ugualmente ilpiacere presente. Per quanto riguarda il fatto che è opinione vera e non scienza [25] quellacontraddetta da chi commette atti di incontinenza, non fa alcuna differenza per il nostroragionamento; infatti, alcuni di quelli che possiedono semplici opinioni non si sentono af-fatto incerti, ma credono di possedere conoscenze esatte. Se è, dunque, per la debolezzadelle loro convinzioni che coloro che hanno semplici opinioni agiscono contro il loro giudi-zio più di quelli che possiedono scienza, non ci sarà alcuna differenza tra scienza e opinio-ne: alcuni uomini, infatti, [30] di ciò di cui hanno opinione hanno una convinzione non in-feriore a quella che altri hanno di ciò di cui hanno scienza: ce lo mostra Eraclito. Ma poichéusiamo il termine "sapere" in due sensi (infatti, si dice che sa sia chi possiede la scienza manon se ne serve, sia chi se ne serve), ci sarà differenza se fa ciò che non deve uno che pos-siede scienza e non la mette in atto o uno che la mette in atto: [35] questo secondo caso vie-ne ritenuto strano, ma non il primo.

(2) Inoltre, poiché ci sono due tipi [1147a] di premesse, niente impedisce che chi pur le pos-siede entrambe agisca in contrasto con la scienza, se utilizza la premessa universale manon quella particolare: infatti, oggetti dell’azione sono i particolari. Ma anche dell’universa-le ci sono due tipi differenti: uno si predica dell’agente e [5] l’altro dell’oggetto. Per esem-pio: "i cibi secchi giovano ad ogni uomo" e "io sono un uomo", oppure "tale cibo è secco":ma se "questa cosa qui è un tale cibo", l’incontinente o non ne ha scienza o non la mette inatto; dunque, secondo questi tipi di premesse ci sarà una differenza tanto grande che, così

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si pensa, conoscere in un modo non è affatto strano, ma conoscere nell’altro è straordina-rio.

[10] (3) Inoltre, avere la scienza in un modo diverso da quelli ora menzionati è cosa chepuò accadere agli uomini: infatti, nell’avere e non usare la scienza vediamo che la disposi-zione può essere differente, così da avere la scienza in certo qual modo e non averla, comenel caso di chi dorme, del folle e dell’ubriaco. Ma è proprio in questa condizione che si tro-vano coloro che [15] sono immersi nelle passioni: infatti, scoppi di impulsività e desiderisessuali e alcune altre passioni simili, in maniera molto evidente, modificano anche il cor-po, e ad alcuni uomini producono anche accessi di follia. È chiaro, dunque, che bisogna di-re che gli incontinenti si trovano nella medesima disposizione di questi uomini. Il fatto chegli incontinenti facciano discorsi fondati sulla scienza non prova niente, giacché anche co-loro che sono immersi in [20] queste passioni enunciano dimostrazioni e recitano versi diEmpedocle, e quelli che hanno appena incominciato ad apprendere una scienza ne intrec-ciano le frasi, ma ancora non "sanno": bisogna, infatti, compenetrarsi negli argomenti, equesto richiede tempo: per conseguenza, bisogna supporre che gli incontinenti parlino co-me gli attori di teatro.

(4) Inoltre, si potrà studiare l’incontinenza anche analizzandone [25] la struttura che la ge-nera. Infatti, la premessa universale è un’opinione, mentre l’altra premessa riguarda i fattiparticolari, i quali stanno immediatamente sotto il dominio della sensazione: quando daqueste due premesse scaturisce una sola affermazione, l’anima deve necessariamente affer-mare la conclusione, e nel caso di premesse pratiche, deve passare immediatamenteall’azione. Per esempio: se "bisogna gustare ogni cosa dolce" e "questa cosa qui è dolce" (co-me singolo oggetto particolare), allora, necessariamente, chi può, [30] cioè chi non ne è im-pedito, deve anche, simultaneamente, compiere l’atto di gustare. Quando, dunque, sianopresenti in noi, da una parte, l’opinione universale che vieta di gustare e, dall’altra, l’opinio-ne che "ogni cosa dolce è piacevole", e che "questa cosa qui è dolce" (ed è questa l’opinioneche produce l’atto), e ci sia in noi anche il desiderio, l’opinione universale dice di fuggirequesto oggetto, ma il desiderio ci conduce ad esso, [35] giacché il desiderio può mettere inmoto ciascuna delle parti del corpo. Per conseguenza, ne deriva [1147b] che si commettonoatti di incontinenza sotto l’influsso in certo qual modo di una ragione, cioè di un’opinione,non contraria per sé, ma per accidente (infatti, contrario è il desiderio, non l’opinione) allaretta ragione. Ne consegue anche che è per questo che le bestie non possono essere inconti-nenti, perché esse non hanno un giudizio di carattere universale, [5] ma soltanto la rappre-sentazione e la memoria dei particolari. Com’è che si dissipa l’ignoranza e l’incontinente ri-torna ad essere uno che possiede scienza? La spiegazione è la stessa che per il casodell’ubriaco e del dormiente e non è peculiare di questa passione, e dobbiamo ascoltarla da-gli studiosi della natura. Poiché l’ultima premessa è un’opinione [10] che riguarda un og-getto sensibile e che determina le azioni, un uomo o non ce l’ha quando è sotto l’influssodella passione, o ce l’ha in modo tale che, come abbiamo detto, non è un possedere la scien-za ma soltanto un recitare, come l’ubriaco recita i versi di Empedocle. E poiché il termineultimo non è un universale né viene considerato come un oggetto di scienza parificabile adun universale, sembra appunto che ne consegua quello che [15] Socrate cercava di stabilire:infatti, non è in presenza di quella che viene ritenuta essere la scienza in senso proprio chesorge la passione dell’incontinenza, né è questa scienza che è trascinata qua e là dalla pas-sione, ma è in presenza della conoscenza sensibile. Posto questo, si consideri concluso il di-scorso sulla questione se è con o senza conoscenza, e con che tipo di conoscenza, che si èincontinenti.

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4. [L’incontinenza: il suo ambito e le sue forme].

[20] Proseguendo, dobbiamo dire se c’è chi è incontinente in senso assoluto o tutti lo sonoin un campo particolare, e nel primo caso di che natura sono gli oggetti dell’incontinenza.Che gli uomini continenti e forti, e gli incontinenti e molli, lo siano riguardo a piaceri e do-lori, è manifesto. Ora, delle cose che producono piacere alcune sono necessarie, altre sonomeritevoli di scelta [25] per se stesse, pur essendo suscettibili di eccesso. Necessarie sonoquelle connesse col corpo (e come tali intendo quelle che riguardano il nutrimento e l’atti-vità sessuale, cioè quelle funzioni corporee che abbiamo detto essere oggetto dell’intempe-ranza e della temperanza). Le altre, invece, non sono necessarie, ma meritevoli per se stes-se di scelta (e intendo, [30] per esempio, vittoria, onore, ricchezza e le cose buone e piace-voli di questo tipo). Posto questo, coloro che rispetto a questi oggetti eccedono, in contra-sto con la retta ragione che è in loro, non li chiamiamo semplicemente incontinenti, ma in-continenti con l’aggiunta di "in fatto di denaro, di guadagno, di onore, di impulsività"; enon li chiamiamo incontinenti in senso assoluto, perché da questi sono diversi e [35] sonochiamati così per analogia, come si chiama Ánthropos colui che ha vinto ai giochi di Olim-pia: nel suo caso, come [1148a] dicevamo, la definizione generale differisce di poco da quel-la individuale a lui propria, ma è tuttavia diversa. Prova: l’incontinenza del primo tipo, siain senso assoluto sia in qualche senso particolare, è biasimata non solo come errore, ma an-che come una specie di vizio; ma non è biasimato così nessuno degli incontinenti del secon-do tipo. Di quelli che sono incontinenti [5] in relazione ai godimenti corporali (in relazioneai quali chiamiamo tali il temperante e l’intemperante), colui che, senza avere operato unascelta, ricerca l’eccesso delle cose piacevoli, e fugge quello delle cose spiacevoli (fame, sete,caldo, freddo, e tutto ciò che riguarda il tatto e il gusto), ma che anzi lo fa in contrasto conla sua scelta ed il suo pensiero, è detto incontinente, senza l’aggiunta [10] di "in relazione aqueste determinate cose", come incontinente "in relazione all’ira", ma solo puramente esemplicemente incontinente. Prova: si parla di uomini molli in relazione a questi piaceri,ma non per alcuno degli altri. Ed è per questo che mettiamo insieme nella stessa categorial’incontinente e l’intemperante, ed il continente e il temperante (ma non lo facciamo pernessuno di quegli altri), [15] per il fatto che sono in qualche modo in relazione con gli stessipiaceri e gli stessi dolori: essi, però, sono in relazione, sì, agli stessi oggetti, ma non nellastessa maniera, bensì gli uni compiono una scelta e gli altri no. Perciò diremo intemperan-te piuttosto colui che, non avendo desideri o avendone di deboli, persegue i piaceri eccessi-vi e fugge i dolori moderati, che non colui che fa questo [20] per l’intensità del suo deside-rio. Infatti, che cosa farebbe quel primo se gli sopravvenisse un desiderio giovanile o unasofferenza intensa dovuta alla mancanza del necessario? Dei desideri e dei piaceri, alcunisono cose nel loro genere belle e virtuose (giacché alcune delle cose piacevoli sono per na-tura meritevoli di scelta, mentre altre sono loro contrarie [25] ed altre intermedie) secondola nostra precedente suddivisione, come, per esempio, denaro, guadagno, vittoria, onore.Nei confronti di tutte queste cose, di quelle dello stesso genere e di quelle intermedie, nonsi è biasimati per il fatto di esserne attratti, di desiderarle e di amarle, ma per il modo concui lo si fa, cioè per il fatto di eccedere (perciò <non sono biasimati> tutti quelli che, controla ragione, o si lasciano dominare o perseguono qualcuna delle cose che sono belle [30] ebuone per natura, come, per esempio, coloro che si preoccupano più di quanto si debba perl’onore, o per i figli e per i genitori: infatti, anche queste cose sono buone, e vengono lodaticoloro che se ne preoccupano; ma tuttavia è possibile eccedere anche in questo, se uno, co-me Niobe, si mette in contrasto persino con gli dèi, o come Satiro, [1148b] soprannominatoFilopatore per l’amore verso suo padre: si riteneva, infatti, che si comportasse da pazzo).Infatti, non c’è alcuna perversità a questo riguardo, per il motivo che abbiamo detto, cioèperché ciascuna di queste cose è degna per se stessa di scelta, ma sono cattivi e devono es-sere evitati i loro eccessi. Parimenti, in questo caso, [5] non c’è neppure incontinenza: l’in-continenza, infatti, non solo è da evitare, ma è anche degna di biasimo. Ma per una somi-glianza dello stato d’animo corrispondente si parla di incontinenza con l’aggiunta di una

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determinazione, caso per caso: per esempio, si chiama cattivo medico e cattivo attore chinon sarebbe chiamato cattivo puramente e semplicemente. Orbene, come avviene in que-sto esempio, poiché [10] ciascuna di queste situazioni non è vizio, ma solo gli assomigliaper analogia, così è evidente che anche nell’altro caso bisogna giudicare che l’incontinenzae la continenza sono solo quelle che hanno i medesimi oggetti della temperanza e dell’in-temperanza, e che, invece, è per similitudine che usiamo il termine in relazione all’impulsi-vità. Perciò diciamo "incontinente" aggiungendo "anche in fatto di impulsività", come in-continente "in fatto di onore e di guadagno".

5. [Incontinenza, bestialità e morbosità].

[15] Ora, poiché alcune cose sono piacevoli per natura, e di queste alcune lo sono in sensoassoluto, altre a seconda dei tipi sia degli animali sia degli uomini, mentre altre cose non losono, ma lo diventano o per difetti di crescita o per abitudini acquisite, altre ancora per de-pravazione della natura, è possibile vedere anche di ciascun tipo di queste le disposizionicorrispondenti. Intendo per disposizioni bestiali, [20] per esempio, quella della donna che,dicono, sventrava le donne incinte e ne divorava i feti, o quelle di cui provano piacere, dico-no, certi selvaggi delle coste del Ponto, alcuni dei quali mangiano carni crude, altri carniumane, altri ancora si scambiano reciprocamente i figli per farne lauto pasto, o quello chesi racconta di Falaride. Questi sono comportamenti bestiali; [25] ma certi sono provocatida malattia (anche da follia per alcuni, come quel tale che offrì sua madre in sacrificio e ladivorò, o quello schiavo che si mangiò il fegato del suo compagno), altri sono stati morbosiderivati da un’abitudine, come, per esempio, lo strapparsi i capelli e il mangiare le unghie,e anche carbone e terra; ed inoltre, fare all’amore tra maschi: ad alcuni questo succede pernatura, [30] ad altri in forza di un’abitudine, come a quelli che sono stati violentati da bam-bini. Nessuno, dunque, può dire incontinenti tutti coloro la cui depravazione è causata dal-la natura, come non si possono chiamare incontinenti le donne, dal momento che nella co-pulazione non sono attive ma passive. Altrettanto si deve dire di coloro che hanno disposi-zioni morbose a causa di un’abitudine. Quindi, il possesso di ciascuno di questi tipi di di-sposizione [1149a] è al di fuori dei confini del vizio, come lo è la bestialità; per l’uomo chele possiede, dominarle o esserne dominato non costituisce la continenza o l’incontinenzapure e semplici, ma solo per analogia, come chi è in questa situazione per i suoi scoppi diimpulsività non si deve chiamare semplicemente incontinente, ma incontinente in questapassione. Infatti, ogni volta che [5] arrivano all’eccesso, la stoltezza, la viltà, l’intemperan-za, il cattivo carattere sono o bestiali o morbosi. L’uomo, infatti, che per natura è di indoletale da avere paura di tutto, anche dello strepito di un topo, è vile di una viltà bestiale, men-tre chi ha paura di una donnola è determinato da una malattia. E degli stolti, alcuni sonoprivi di ragione per natura [10] e, poiché vivono soltanto col senso, sono bestiali, come cer-te razze di barbari lontani; altri invece, che sono privi di ragione a causa di malattia comel’epilessia o la follia, sono morbosi. Ora, di queste disposizioni morbose uno può posseder-ne qualcuna soltanto qualche volta, senza esserne dominato: intendo, per esempio, il casoin cui Falaride si fosse contentato quando desiderava divorare un fanciullo o quando desi-derava [15] procurarsi un piacere sessuale contro natura. Ma è possibile anche essere com-pletamente dominati da queste passioni, e non soltanto possederle. Orbene, come anchenel caso della perversità, quella a livello umano è chiamata perversità semplicemente, men-tre quella con una determinazione aggiuntiva si chiama perversità bestiale o morbosa, enon semplicemente perversità, nello stesso modo è chiaro che anche l’incontinenza è orabestiale ora morbosa, [20] mentre è puramente e semplicemente incontinenza solo quellacorrispondente all’intemperanza umana. È dunque chiaro che incontinenza e continenzahanno per oggetti solo quelli dell’intemperanza e della temperanza, e che riguardo agli altri

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oggetti c’è un’altra specie di incontinenza, chiamata così per metafora e non in senso asso-luto.

6. [Incontinenza dell’impulsività e incontinenza dei desideri].

Ora vedremo che l’incontinenza [25] dell’impulsività è meno vergognosa di quella dei desi-deri. (1) Sembra, infatti, che l’impulsività dia ascolto in qualcosa alla ragione, ma la frain-tenda, come i servi frettolosi che escono di corsa prima di aver sentito tutto quello che vie-ne loro detto, e poi sbagliano l’esecuzione dell’ordine, e come i cani che, prima di aver vistose si tratta di un amico, si mettono ad abbaiare appena si batte ad una porta. Così [30] l’im-pulsività, per il calore e la vivacità della sua natura, sente, sì, ma non ascolta l’ordine e siprecipita alla vendetta. Infatti, la riflessione o l’immaginazione si limitano a mostrare chec’è stata insolenza o disprezzo, l’impulsività, invece, come se giungesse con un ragionamen-to alla conclusione che bisogna combattere contro un simile trattamento, si eccita, per con-seguenza, subito: il desiderio, poi, se [35] solo la riflessione o la sensazione dicono che que-sta cosa è dolce, si precipita a trarne godimento. [1149b] Cosicché l’impulsività segue inqualche modo la ragione, mentre il desiderio no. Dunque, l’incontinenza dei desideri è piùvergognosa: l’incontinente nell’impulsività, infatti, soggiace in qualche modo alla ragione,mentre l’altro soggiace al desiderio e non alla ragione. (2) Inoltre, si perdona di più il fattodi seguire i desideri naturali, [5] poiché anche quando si tratta di desideri si perdona di piùa quelli comuni a tutti gli uomini, e nella misura in cui sono comuni. Ora, l’impulsività e ilcattivo carattere sono più naturali che non i desideri di ciò che è eccessivo e non necessa-rio. Come quel tale che, accusato di picchiare il proprio padre, si difese dicendo: "Ma anchelui picchiava il suo", [10] e, additando il figlioletto, disse: "Anche lui picchierà me, quandosarà un uomo: è un’abitudine di famiglia, per noi!". E quell’altro che, mentre era trascinatofuori dal figlio, gli ordinò di fermarsi alla porta, perché lui stesso aveva trascinato suo pa-dre solo fin là. (3) Inoltre, sono più ingiusti quelli che sono più subdoli. Orbene, l’impulsivonon è subdolo, e neppure l’impulsività, [15] ma è limpido; il desiderio, invece, è quello chesi dice di Afrodite "tessitrice d’inganni, nata a Cipro", e, come dice Omero a proposito delsuo cinto trapunto:

"la seduzione che ruba il senno anche ai saggi ".

Per conseguenza, se è vero che quella incontinenza è più ingiusta di questa relativa all’im-pulsività, e anche più vergognosa, anzi essa è incontinenza in senso assoluto e [20] vizio, inqualche modo. (4) Inoltre, nessuno commette oltraggio soffrendo; ora, chiunque agisce inpreda all’ira agisce soffrendo, mentre colui che oltraggia lo fa con piacere. Se, dunque, lecose più ingiuste sono quelle contro cui si ha perfettamente diritto di adirarsi, anche l’in-continenza causata dal desiderio sarà più ingiusta di quella causata dall’impulsività, giac-ché nell’impulsività non c’è intenzione oltraggiosa. Che, dunque, l’incontinenza relativa aldesiderio è più vergognosa di quella relativa all’impulsività, [25] e che la continenza e l’in-continenza si riferiscono ai desideri ed ai piaceri del corpo, è chiaro.

Ma tra questi stessi piaceri si devono cogliere delle differenze. Come infatti si è detto all’ini-zio, alcuni sono umani e naturali, sia per genere sia per intensità, altri bestiali, altri, infine,sono dovuti a difetti di crescita e stati morbosi. [30] Ora, solo con i primi di questi hannorelazione la temperanza e l’intemperanza: perciò non diciamo temperanti né intemperantianche le bestie, se non per metafora, cioè nel caso in cui qualche specie di animali, compa-rata nel suo insieme alle altre, si distingue per lascivia, istinto distruttivo e voracità: le be-stie, infatti, non hanno né possibilità di scelta [35] né capacità di ragionamento, ma sono

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fuori dai confini della loro natura, come, [1150a] tra gli uomini, i dementi. La bestialità èun male minore del vizio, ma più temibile; infatti, nel caso delle bestie non è che ci sia statacorruzione della parte migliore, come nell’uomo, ma è che esse non ce l’hanno. Dunque, èlo stesso che mettere a confronto un essere privo di anima con uno che ne è fornito, e chie-dersi quale è più cattivo: infatti, [5] la malvagità di un essere che non ha in sé il principiodell’azione è, sempre, più inoffensiva, e, d’altra parte, principio è l’intelletto. Quindi, è pro-prio come confrontare l’ingiustizia con un uomo ingiusto. Ciascuno dei due, infatti, è peg-giore dell’altro, a suo modo, giacché un uomo cattivo farà infinitamente più male che unabestia.

7. [Intemperanza, incontinenza, mollezza].

Per quanto, poi, riguarda i piaceri e i dolori, [10] i desideri e le repulsioni derivati dal tattoe dal gusto, che abbiamo precedentemente definiti come oggetti dell’intemperanza e dellatemperanza, è possibile, da una parte, trovarsi nella situazione di essere sconfitti anche daquelli che i più dominano, e, dall’altra, riuscire a dominare anche quelli a cui i più soggiac-ciono: di questi due tipi di uomini, se si tratta di piaceri, il primo è incontinente e il secon-do continente; se si tratta di dolori, il primo è molle e il secondo è forte. [15] Nel mezzo stala disposizione della maggior parte degli uomini, anche se essi inclinano di più verso quellepeggiori. Poiché alcuni dei piaceri sono necessari e altri no, e poiché i primi sono necessarifino ad un certo punto, mentre non lo sono i loro eccessi, né i loro difetti (e lo stesso valeanche dei desideri e dei dolori), chi persegue gli eccessi nelle cose piacevoli o le cose neces-sarie in misura eccessiva, [20] e lo fa per sua scelta, e le persegue per se stesse e pernient’altro che possa derivarne, è intemperante: necessariamente, infatti, questo tipo di uo-mo non è capace di pentimento, cosicché è incorreggibile, poiché chi è incapace di penti-mento è incorreggibile. Chi è in difetto nella ricerca del piacere è il contrario del preceden-te, mentre chi sta nel mezzo è temperante. Lo stesso si dica anche di chi fugge i dolori cor-porei non perché ne è sconfitto, ma per una scelta. [25] Di coloro, invece, che non agisconoin base ad una scelta, alcuni si lasciano trascinare dal piacere, altri dall’inclinazione ad evi-tare la sofferenza che deriva dal desiderio: perciò sono diversi gli uni dagli altri. Ognuno,però, riterrà che, se uno compie un’azione vergognosa senza alcun desiderio oppure con undesiderio debole, è peggiore di chi compia la stessa azione spinto da un desiderio violento,e che, se uno colpisce senza essere in preda all’ira, è peggiore di chi colpisca [30] in predaall’ira: che cosa farebbe, infatti, se fosse in balia della passione? È per questo che l’uomo in-temperante è peggiore dell’incontinente. Delle disposizioni descritte, dunque, una è piutto-sto una specie di mollezza; l’altro tipo di uomo, invece, è l’intemperante. Ora, all’inconti-nente si contrappone l’uomo continente, all’uomo molle il forte: l’esser forte, infatti, sta nelsaper resistere, mentre la continenza consiste [35] nel dominare, e "resistere" e "dominare"sono cose diverse, come anche "non lasciarsi sconfiggere" e "vincere": per questo la conti-nenza è preferibile [1150b] alla semplice forza d’animo. Chi manca di resistenza in quellesituazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini resiste e ha la forza di resistere,è un uomo molle e sensuale (in effetti, la sensualità è una specie di mollezza): come chi tra-scina il mantello per non far la fatica e darsi la pena di sollevarlo, e come chi, quando fa [5]l’ammalato, non capisce di essere davvero un disgraziato, se si fa simile ad un disgraziato.Lo stesso vale anche nel caso della continenza e dell’incontinenza. Infatti, se uno rimanesconfitto da piaceri o dolori violenti ed eccessivi, non c’è da meravigliarsi, ma ciò è perdo-nabile se uno cerca di resistere, come il Filottete di Teodette morso dalla vipera, [10] o ilCercione nell’Alope di Carcino, e come quelli che, mentre si sforzano di trattenere il riso,scoppiano a ridere d’un tratto, come capitò a Senofanto; ma è da meravigliarsi se uno, in si-tuazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini è capace di resistere, si lascia vin-

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cere e non riesce ad opporre resistenza, e ciò non per cause di natura ereditaria o per ma-lattia: per esempio, tra i re degli Sciti [15] la mollezza è ereditaria, e come la femmina è pernatura differente dal maschio. Comunemente si ritiene che anche il tipo giocherellone siaun intemperante: in realtà è un uomo molle. Infatti, il gioco è un rilassamento, se è veroche è uno stato di riposo. Il giocherellone appartiene alla classe di coloro che eccedono nelconcedersi riposo. Dell’incontinenza, poi, ci sono due forme: la precipitazione e la debolez-za. [20] Gli uni, dopo aver preso una deliberazione non perseverano in ciò che hanno deli-berato, a causa della passione; gli altri si lasciano trascinare dalla passione per il fatto dinon aver preso una deliberazione. Alcuni, infatti (come quelli che, avendo sofferto il solleti-co in precedenza, non lo soffrono più, se hanno presentito e previsto e se hanno risvegliatose stessi e la propria capacità di ragionare), non si lasciano vincere dalla passione, né [25]nel caso che sia piacevole né nel caso che sia dolorosa. Soprattutto gli uomini vivaci ed ecci-tabili sono incontinenti per precipitazione: e gli uni per la fretta, gli altri per la violenza del-la passione non stanno ad aspettare la conclusione del ragionamento, per il fatto che sonoinclini a seguire l’immaginazione.

8. [L’intemperanza è peggiore dell’incontinenza].

L’intemperante, come s’è detto, non è capace di pentimento, [30] giacché persiste nella suascelta; ogni tipo di incontinente, invece, è capace di pentimento. Perciò le cose non stannocome le abbiamo formulate nel problema, ma l’intemperante è incorreggibile, mentre l’in-continente è correggibile. Infatti, la perversità è simile a malattie come l’idropisia e la tisi,mentre l’incontinenza assomiglia ad attacchi di epilessia, giacché la prima è un male conti-nuo, la seconda è intermittente. [35] E incontinenza e vizio appartengono a generi comple-tamente differenti: infatti, il vizio rimane nascosto al soggetto, l’incontinenza, invece, no.[1151a] Degli incontinenti stessi, poi, quelli che sono come fuori di sé sono migliori di quelliche la ragione ce l’hanno, ma non rimangono nei limiti di essa: questi ultimi, infatti, si la-sciano sconfiggere da una passione più debole, e non senza aver prima preso una delibera-zione, come, invece, fanno gli altri. Infatti, l’incontinente è simile a quelli che si ubriacanorapidamente e con poco [5] vino, anzi con una quantità minore che la maggior parte degliuomini. Orbene, che l’incontinenza non è un vizio è manifesto (ma forse per qualche aspet-to lo è): l’incontinenza, infatti, è al di là della scelta, mentre il vizio deriva dalla scelta; ma,tuttavia, una somiglianza c’è dal punto di vista delle azioni, come diceva Demodoco ai Mile-si: "I Milesi non sono stupidi, ma si comportano come [10] stupidi"; anche gli incontinentinon sono ingiusti, ma commettono ingiustizie. Ora, l’incontinente persegue i piaceri corpo-rali eccessivi e contrari alla retta ragione, perché lui è fatto così e non perché sia convintoche sia bene, mentre l’intemperante ha la convinzione che sia bene proprio perché lui è fat-to in modo tale da perseguire quei piaceri: perciò, il primo può facilmente essere persuasoa cambiare, il secondo no. [15] Infatti, la virtù salva il principio, il vizio, invece, lo distrug-ge, e nelle azioni il principio è il fine, come le ipotesi in matematica. Orbene, né lì né qui èil ragionamento che ci insegna i principi, ma qui è la virtù, sia naturale sia acquisita conl’abitudine, che ci insegna ad avere opinioni corrette sul principio. Dunque, [20] chi è fattocosì è temperante, e l’intemperante è il suo contrario. Ma c’è chi, a causa della passione,esce fuori di sé, in contrasto con la retta ragione, uomo che la passione domina in modo danon permettergli di agire secondo la retta ragione, ma non fino al punto da renderlo capacedi lasciarsi persuadere di dover perseguire tali piaceri senza ritegno. Questo è l’incontinen-te, migliore dell’intemperante, [25] e non puramente e semplicemente malvagio: qui, infat-ti, si salva la cosa migliore, il principio. Ma contrario a questo c’è un altro tipo di uomo,quello che resta in sé e non esce fuori di sé, per lo meno non a causa della passione. Da que-ste considerazioni, dunque, risulta manifesto che l’ultima è una disposizione virtuosa, l’al-

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tra è cattiva.

9. [Continenza, perseveranza, ostinazione].

È continente, dunque, colui che persiste in una ragione qualsiasi ed in una qualsiasi [30]scelta oppure colui che persiste nella retta scelta? E, viceversa, è incontinente colui che nonpersiste in una scelta qualsiasi e in una ragione qualsiasi, oppure colui che non persiste nel-la ragione non falsa e nella retta scelta? Questo è il problema come l’abbiamo posto prima.Non dobbiamo forse dire che [35] l’uno persiste, l’altro non persiste in una scelta qualsiasiper accidente, di per sé, invece, nella ragione vera e nella scelta retta? Se, infatti, uno[1151b] sceglie o persegue questa cosa in vista di quest’altra, per sé persegue e scegliequest’ultima, per accidente, invece, la prima. Ma con "per sé" intendiamo dire "in senso as-soluto". Per conseguenza, è un’opinione qualsiasi quella in cui l’uno persiste e da cui l’altrosi distacca, ma in senso assoluto è l’opinione vera. Ci sono, poi, di quelli che [5] sono perse-veranti nella loro opinione, e li chiamiamo ostinati, i quali sono difficili da persuadere, cioènon è facile persuaderli a cambiare. Essi hanno qualcosa di simile all’uomo incontinente,come il prodigo al liberale e il temerario al coraggioso, ma sono diversi per molti aspetti.L’uno, infatti, il continente, non cambia opinione solo per una passione o per un desiderio,[10] ché anzi, all’occasione, l’uomo continente si lascerà facilmente persuadere; gli altri, in-vece, gli ostinati, non si lasciano guidare dalla ragione, perché, se non altro, accolgono in sédesideri, e molti di loro si lasciano trascinare dai piaceri. Ed ostinati sono i testardi, gliignoranti e i rustici; i testardi lo sono a causa del piacere e del dolore: essi, infatti, sonocontenti della loro vittoria quando non [15] si sono lasciati indurre a mutare opinione, esoffrono quando le loro decisioni restano come decreti senza autorità. Per conseguenza, as-somigliano di più all’incontinente che al continente. Ci sono alcuni, poi, che non persistononelle loro opinioni, ma non per incontinenza, come, per esempio, Neottolemo nel Filottetedi Sofocle. Certo, fu a causa di un piacere che egli non persistette, ma di un piacere bello;infatti, [20] dire la verità per lui era una cosa bella, ma fu persuaso a mentire da Ulisse. In-fatti, non è che chiunque faccia qualcosa per piacere sia intemperante o perverso o inconti-nente, ma chi lo fa per un piacere vergognoso. C’è, poi, anche chi è tale da godere dei piace-ri corporali meno di quanto si deve, e che perciò non persiste nella ragione: [25] è tra que-sto e l’incontinente che sta in mezzo l’uomo continente; infatti, l’incontinente non persistenella ragione per eccesso, quest’ultimo, invece, per difetto; l’uomo continente, al contrario,persiste e non cambia per nessuno dei due motivi. Se è vero che la continenza è virtuosa,bisogna che entrambe le disposizioni contrarie siano cattive, come pure risulta manifesto:[30] ma poiché una di esse si manifesta in pochi uomini e poche volte, come si ritiene co-munemente che la temperanza è contraria soltanto all’intemperanza, così si deve ritenereanche che la continenza è contraria soltanto all’incontinenza. Poiché molte espressioni siusano per analogia, ne è derivato, per conseguenza, che si parla per analogia anche dellacontinenza dell’uomo temperante: infatti, il continente [35] è uomo che non fa nulla controla ragione a causa dei piaceri del corpo, [1152a] come pure il temperante, ma uno possiedecattivi desideri, l’altro, invece, no, e l’uno è tale da non godere in contrasto con la ragione,mentre l’altro è tale da godere, ma non da lasciarsi trascinare. E, pur essendo diversi, l’in-continente e l’intemperante sono d’altra parte simili: [5] entrambi perseguono i piaceri delcorpo, ma l’uno pensa di doverlo fare, l’altro, invece, non lo pensa.

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10. [Conclusioni su continenza e incontinenza].

La stessa persona non può essere insieme saggia e incontinente, giacché si è dimostratoche il saggio è insieme uomo di valore anche nel comportamento. Inoltre, uno è saggio nonsolo per il fatto di possedere un sapere teorico, ma anche per l’essere capace di metterlo inpratica: ma l’incontinente non è capace di metterlo in pratica. [10] Nulla, invece, impedisceche l’uomo abile sia incontinente, ed è per questo che talora alcuni sono ritenuti saggi maincontinenti, perché l’abilità differisce dalla saggezza nel modo esposto nei nostri primi ra-gionamenti, nel senso che sono vicini secondo la definizione, ma differiscono per via dellascelta. L’incontinente, quindi, non è come quello che conosce e contempla, [15] ma comecolui che dorme o è ubriaco. E agisce volontariamente (infatti, sa in qualche modo che cosasta facendo ed in vista di che cosa lo fa), ma non è cattivo: la scelta, infatti, è buona; perconseguenza, è cattivo a metà. E non è ingiusto, giacché non è subdolo. Infatti, dei due tipidi incontinenti, l’uno non persiste in ciò che ha deliberato, mentre l’altro, il tipo eccitabile,non delibera affatto. E così [20] l’uomo incontinente assomiglia ad una città che decretatutto ciò che si deve ed ha buone leggi, ma non le applica per niente, come diceva, scher-zando, Anassandride:

"Lo voleva la città, cui non importa nulla delle leggi".

L’uomo cattivo, invece, assomiglia ad una città che applica le leggi, ma ne applica di catti-ve. [25] L’incontinenza e la continenza riguardano ciò che costituisce un eccesso rispetto al-la disposizione di carattere della massa: il continente, infatti, persevera di più, l’incontinen-te di meno di quanto sia nella possibilità della maggioranza degli uomini. Dei due tipi di in-continenza, quello da cui sono affetti gli uomini eccitabili è più facilmente correggibile chenon quello di coloro che, sì, deliberano, ma non perseverano, e gli incontinenti per abitudi-ne sono più facilmente correggibili di quelli che lo sono per natura. Infatti, è più facile [30]cambiare un’abitudine che non la natura: è proprio per questo che anche l’abitudine è diffi-cile da cambiare, perché assomiglia alla natura, come dice anche Eveno:

"Affermo che l’abitudine è un lungo esercizio, o amico, e che, dunque,questo finisce con l’essere per gli uomini come una natura".

S’è detto, dunque, che cosa siano continenza e incontinenza, forza di carattere [35] e mol-lezza, ed in che rapporto stiano fra di loro queste disposizioni.

11. [Il piacere: teorie correnti].

[1152b] Studiare piacere e dolore è di competenza del filosofo politico: è lui, infatti, l’archi-tetto che determina il fine, guardando al quale noi chiamiamo ciascuna cosa buona o catti-va in senso assoluto. Inoltre, l’indagine su questi oggetti è necessaria, [5] giacché abbiamoposto che la virtù ed il vizio morale hanno per oggetto dolore e piacere, e la stragrandemaggioranza degli uomini afferma che la felicità implica il piacere: per questo hanno datoall’uomo "beato" una denominazione che deriva da "bearsi". (1) Alcuni, dunque, ritengonoche nessun piacere sia un bene, né per sé né per accidente, giacché, dicono, bene [10] e pia-cere non sono la stessa cosa. (2) Altri ritengono, sì, che alcuni piaceri sono buoni, ma cheper la maggior parte sono cattivi. (3) Infine, una terza categoria di persone ritiene che, an-che ammesso che tutti i piaceri siano un bene, non è possibile che il sommo bene sia unpiacere. (1) Dunque, il piacere, nel complesso, non è un bene, a) perché ogni piacere è undivenire, percepito dal soggetto, che conduce ad uno stato naturale, e, d’altra parte, nessun

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divenire appartiene allo stesso genere del suo fine: per esempio, il processo di costruzionedi una casa non appartiene allo stesso genere [15] della casa. b) Inoltre, l’uomo temperantefugge i piaceri. c) Inoltre, il saggio persegue ciò che non provoca dolore, non ciò che è pia-cevole. d) Inoltre, i piaceri sono un ostacolo alla riflessione morale, e tanto più quanto piùintenso è il godimento, come nel piacere sessuale: nessuno infatti potrebbe pensare alcun-ché mentre lo prova. e) Inoltre, non c’è alcuna arte del piacere: eppure ogni bene è opera diun’arte. f) Inoltre, bambini [20] e bestie perseguono i piaceri. (2) Dall’affermazione chenon tutti i piaceri sono buoni il motivo addotto è a) che ce ne sono di vergognosi e biasime-voli, e b) che ce ne sono di dannosi, giacché alcune delle cose piacevoli producono malattie.(3) Infine, il motivo per cui il piacere non è il sommo bene è che non è un fine ma un dive-nire. Questo è, pressappoco, quello che si dice.

12. [Confutazione della teoria secondo cui il piacere non è un bene].

[25] Che poi da queste considerazioni non risulti che il piacere non è un bene né il sommobene, è chiaro da quanto segue.

A) Innanzi tutto, poiché il termine "bene" ha due sensi (l’uno assoluto, l’altro relativo), an-che le nature e le disposizioni avranno per conseguenza due sensi, e così anche i movimentie le generazioni: e di quelli che sono ritenuti cattivi alcuni lo sono, sì, in generale, ma perqualche individuo [30] no, anzi per costui sono desiderabili; alcuni, poi, non sono desidera-bili neppure per una persona determinata, se non qualche volta e per poco tempo, ma nonsempre; altri, poi, non sono neppure piaceri, ma ne hanno solo l’apparenza: sono quelli ac-compagnati da dolore e che hanno come scopo, per esempio nel caso degli ammalati, laguarigione.

B) Inoltre, poiché una specie del bene è attività, mentre l’altra è disposizione, i processi checi riportano nella disposizione naturale sono piacevoli solo per accidente; [35] ma l’attivitàche si realizza nei desideri è quella della disposizione naturale residua, poiché ci sono pia-ceri anche senza dolore e desiderio (come, per esempio, [1153a] quelli della contemplazio-ne), quando la natura non manca di nulla. Ne è prova il fatto che gli uomini non godonodel medesimo oggetto quando la loro natura si va ricostituendo e quando è ricostituita, ma,quando la natura è ricostituita, essi godono degli oggetti piacevoli in senso assoluto; quan-do, invece, si sta ricostituendo, godono anche dei loro contrari; [5] infatti, in questo caso,godono anche di sostanze aspre ed amare, nessuna delle quali è piacevole per natura o insenso assoluto. Per conseguenza, non lo sono neppure i piaceri, giacché la stessa differenzache c’è tra gli oggetti piacevoli, c’è pure tra i piaceri che ne derivano.

C) Inoltre, non è necessario che ci sia qualcosa di diverso, migliore del piacere, come alcunidicono che il fine sia rispetto al processo generativo: i piaceri, infatti, non sono dei processiné sono tutti accompagnati da un processo, [10] ma sono attività, cioè un fine: noi li provia-mo non perché diventiamo qualcosa ma perché esercitiamo qualche facoltà; e non di tuttele attività il fine è qualcosa di diverso da loro stesse, ma solo di quelle che conducono allaperfezione della natura. Perciò non va neanche bene dire che il piacere è un divenire perce-pito dal soggetto, ma bisogna piuttosto dire che esso è attività della disposizione secondonatura, [15] e al posto di "percepito" bisogna dire "non impedito". Alcuni ritengono che ilpiacere sia un divenire, perché per loro è un bene in senso proprio; infatti, pensano che l’at-tività sia un divenire, mentre essa è un’altra cosa.

Dire che ci sono piaceri cattivi perché alcune cose piacevoli sono causa di malattia, è lo

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stesso che dire che alcune cose che sono utili alla salute sono cattive dal punto di vista eco-nomico. Dunque, entrambe le cose sono cattive in questo senso, ma non lo sono per questosolo, [20] poiché anche il contemplare qualche volta danneggia la salute.

Il piacere che deriva da ciascuna facoltà non ostacola né l’esercizio della saggezza né alcunadisposizione, ma sono i piaceri estranei che sono d’ostacolo, perché quelli che derivano dal-la contemplazione e dall’apprendimento faranno sì che noi contempliamo e apprendiamosempre di più.

Che nessun piacere sia opera di un’arte è una cosa che accade logicamente: [25] l’arte, in-fatti, non ha per oggetto alcun’altra attività, ma solo la potenza: eppure l’arte del profumie-re e quella del cuoco si ritiene che abbiano per oggetto il piacere.

Il fatto che l’uomo temperante fugga i piaceri ed il saggio persegua la vita priva di dolore, eche i bambini e le bestie perseguano il piacere, tutte queste difficoltà sono risolte dal mede-simo ragionamento. Poiché, infatti, si è detto in che senso [30] i piaceri sono buoni in sen-so assoluto ed in che senso non sono tutti buoni: le bestie ed i bambini perseguono quelliche non sono buoni in senso assoluto, e il saggio persegue la mancanza di dolore derivantedall’assenza di questi, dei piaceri accompagnati da desiderio e da dolore, cioè quelli del cor-po (ché questi sono di quel tipo) ed i loro eccessi, secondo cui l’intemperante è intemperan-te. È per questo che l’uomo temperante fugge questi piaceri, [35] giacché ci sono dei piacerianche dell’uomo temperante.

13. [Piacere, bene, felicità].

[1153b] Ma anche che il dolore è un male e che deve essere fuggito è ammesso concorde-mente: infatti, da una parte c’è il dolore che è un male in senso assoluto, e dall’altra il dolo-re che è male per il fatto che in qualche modo è per noi un ostacolo. Ma il contrario di unacosa che si deve fuggire proprio in quanto è qualcosa da fuggire, cioè un male, è un bene.Dunque è necessario che il piacere sia un bene. [5] Speusippo, infatti, cercava di risolvere ilproblema dicendo che il più è contrario sia al meno sia all’uguale, ma la sua soluzione nonregge: non si potrà dire che il piacere è per essenza un male. Niente impedisce che il som-mo bene sia un piacere determinato, anche ammettendo che alcuni piaceri siano cattivi, co-me pure una scienza determinata, anche nell’ipotesi che alcune scienze siano cattive.

A) Certo, poi, se è vero che di ciascuna [10] disposizione ci sono attività il cui esercizio nonha ostacoli, è anche necessario che la felicità sia l’attività di tutte quante le disposizioni o diuna sola di esse, purché sia senza ostacoli, e che questa attività sia la più degna di esserescelta: ma questo è un piacere. Per conseguenza, il sommo bene potrebbe essere un deter-minato piacere, anche ammettendo che la maggior parte dei piaceri sia cattiva, magari insenso assoluto. E per questo tutti pensano che la vita felice sia una vita piacevole, [15] econtessono il piacere con la felicità, a buon diritto. Infatti, nessuna attività è perfetta quan-do è ostacolata, e, d’altra parte, la felicità appartiene al genere delle cose perfette. È perquesto che l’uomo felice ha bisogno anche dei beni del corpo, dei beni esteriori e di quellidella fortuna, per non essere ostacolato dalla loro mancanza. Coloro, poi, che affermanoche anche l’uomo messo al supplizio della ruota o [20] precipitato in grandi disgrazie è feli-ce, purché sia buono, dicono, volontariamente o non, una cosa priva di senso. Per il fatto,poi, che si ha bisogno anche della fortuna, alcuni ritengono che la buona fortuna sia la stes-sa cosa che la felicità, mentre non lo è, perché anch’essa, quando è eccessiva, è d’ostacolo, eforse allora non è più giusto chiamarla buona fortuna: infatti, [25] la sua definizione è rela-

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tiva alla felicità.

B) Il fatto, poi, che tutti, bestie e uomini, perseguano il piacere è segno che esso è in qual-che modo il sommo bene:

"La fama non si spegne mai del tutto,

quando molta gente <la diffonde intorno>…".

Ma poiché non è la stessa natura né la stessa disposizione che è [30] o si ritiene che sia lamigliore, non è neppure lo stesso il piacere che tutti perseguono; eppure tutti perseguonoun piacere. Forse anche non perseguono il piacere che credono o quello che direbbero diperseguire, ma pur sempre un piacere. Tutti gli esseri, infatti, hanno in sé qualcosa di divi-no. Ma i piaceri corporali si sono appropriati di tutta l’eredità del nome, per il fatto che ilpiù delle volte è ad essi che ci accostiamo e [35] che tutti ne partecipano: poiché, dunque,sono i soli ad essere noti, si pensa che siano i soli ad esistere.

[1154a] C) È poi chiaro anche che, se il piacere non è un bene né un’attività, l’uomo felicenon potrà vivere piacevolmente: infatti, a che scopo avrebbe bisogno del piacere, se essonon è un bene, ma è anzi possibile vivere anche soffrendo? Allora, il dolore non è né un ma-le né un bene, [5] se neppure il piacere lo è: ma, allora, perché fuggire il dolore? In conclu-sione, neppure la vita dell’uomo virtuoso sarà più piacevole, se non lo sono anche le sue at-tività.

14. [Considerazioni conclusive sul piacere].

Per quanto riguarda, poi, in conclusione, i piaceri del corpo, coloro che dicono che almenoalcuni piaceri sono molto desiderabili, per esempio quelli moralmente belli, [10] ma non ipiaceri del corpo, cioè quelli che sono oggetto dell’intemperante, devono cercar di vedereperché, allora, i dolori contrari sono cattivi: infatti, il contrario di un male è un bene. Nonbisognerà forse dire che sono buoni i piaceri necessari, nel senso che anche il non male èbene? O forse va detto che sono buoni fino ad un certo punto? Infatti, delle disposizioni edei conseguenti movimenti di cui non è possibile un eccesso che superi il meglio, non è pos-sibile neppure un eccesso del piacere; di quelli, [15] invece, di cui è possibile un eccesso, èpossibile anche l’eccesso del piacere. Ma dei beni corporali è possibile un eccesso, e l’uomovizioso è tale perché persegue l’eccesso, non perché persegue i piaceri necessari: tutti, infat-ti, godono in qualche modo dei cibi, dei vini, degli atti sessuali, ma non tutti come si deve.Il contrario succede nel caso del dolore: infatti, il vizioso non ne fugge solo l’eccesso, mafugge il dolore in generale, [20] giacché non c’è un dolore contrario all’eccesso di piacere senon per colui che questo eccesso persegue.

Ora, poiché bisogna dire non solo la verità ma anche la causa dell’errore (giacché questocontribuisce a rafforzare la convinzione: quando, infatti, viene reso evidente e plausibile ilmotivo per cui qualcosa appare come vero, pur non essendo [25] vero, ciò fa aumentare laconvinzione della verità), bisogna, per conseguenza, dire perché i piaceri del corpo appaio-no più desiderabili. Innanzi tutto, dunque, perché il piacere del corpo caccia il dolore: e acausa degli eccessi del dolore, pensando che ne sia rimedio, gli uomini perseguono il piace-re eccessivo, cioè, in generale, il piacere del corpo. [30] Questi rimedi, d’altra parte, sonomolto efficaci, ed è per questo che sono ricercati, perché si manifestano in contrasto con illoro contrario. Per conseguenza, il piacere non è ritenuto buono per queste due ragioni, co-

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me s’è detto: da una parte, alcuni piaceri sono azioni di una cattiva natura (sia per nascita,come quelle di una bestia, sia per abitudine, come quelle degli uomini viziosi), altri sono,invece, dei rimedi di una natura difettosa, ed è meglio essere sani che essere sulla via di di-ventarlo: [1154b] ma questi ultimi sono caratteristici di coloro il cui stato perfetto è in cor-so di ricostituzione; dunque, sono buoni solo accidentalmente. Inoltre, i piaceri del corposono perseguiti, per il fatto di essere intensi, da parte di coloro che non sono capaci di go-dere di altri piaceri: ci sono addirittura di quelli che si provocano da sé la sete. Quandoquesti piaceri non sono nocivi, non c’è da biasimarli; [5] ma quando sono dannosi, è male.Questi uomini, infatti, non hanno altre cose di cui godere, e lo stato neutro per molti è do-loroso, a causa della loro natura. Infatti, la natura animale è sempre sotto sforzo, come te-stimoniano anche i naturalisti, quando dicono che vedere e udire implicano pena: ma or-mai siamo abituati, come dicono loro. Parimenti, poi, durante la [10] giovinezza, per il fattoche si sta crescendo, ci si comporta come uomini pieni di vino, e la giovinezza è piacevole;d’altra parte, gli uomini di natura eccitabile hanno sempre bisogno di cura. Il loro corpo,infatti, a causa della loro composizione biologica, vive continuamente come in una morsadolorosa, ed essi si trovano perennemente in uno stato di violento desiderio: ora, il piacerecaccia il dolore, sia il piacere specificamente contrario, sia un piacere qualsiasi, purché siamolto intenso: e per [15] queste ragioni essi diventano intemperanti e perversi.

Ma i piaceri non accompagnati da dolore non comportano eccesso: e questi piaceri deriva-no dalle cose piacevoli per natura e non per accidente. Intendo, poi, con "piacevoli per acci-dente" le cose che piacciono in quanto curano: perché, infatti, accade di essere curati grazieal fatto che ciò che in noi rimane sano compie una determinata attività, ed è per questo cheil rimedio è ritenuto piacevole. [20] Chiamo invece "piacevoli per natura" le cose che pro-ducono l’azione di una natura sana. Nessuna cosa, poi, rimane per noi sempre piacevole,per il fatto che la nostra natura non è semplice, ma c’è in noi anche un altro elemento (peril quale siamo corruttibili), cosicché se uno dei due elementi fa qualcosa, questo è, per l’al-tra natura, contro natura, ma quando i due elementi si uguagliano, ciò che essi fanno non èné doloroso né piacevole: poiché, [25] se la natura di un essere fosse semplice, sarebbesempre la stessa azione ad essere la più piacevole per lui. È per questo che Dio gode sem-pre di un piacere unico e semplice Infatti, non c’è solo un’attività del movimento, ma c’èanche un’attività dell’immobilità, e il piacere sta più nella quiete che nel movimento. Ma "ilcambiamento, in tutte le cose, è dolce", come dice il poeta, a causa di una cattiva indole: in-fatti, come [30] l’uomo cattivo è un uomo che cambia facilmente, così è cattiva anche la na-tura che ha bisogno di cambiamento: non è, infatti, né semplice né buona. Dunque, abbia-mo detto della continenza e della incontinenza del piacere e del dolore, e qual è la natura diciascuno di essi e in che senso si tratta in un caso di cose buone e nell’altro di cattive. Dob-biamo anche trattare dell’amicizia.

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Libro VIII

1. [Necessità dell’amicizia. Dottrine sull’amicizia].

[1155a] Dopo queste cose, dovrà far seguito una trattazione dell’amicizia, poiché essa è unavirtù o è accompagnata da virtù, ed è, inoltre, radicalmente necessaria alla [5] vita. Infatti,senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni; anzi siritiene comunemente che siano proprio i ricchi e i detentori di cariche e di poteri ad avereil più grande bisogno di amici: infatti, quale utilità avrebbe una simile prosperità, se fossetolta quella possibilità di beneficare che si esercita soprattutto, e con molta lode, nei riguar-di degli amici? Ovvero, come potrebbe essere salvaguardata [10] e conservata senza amici?Quanto più è grande, infatti, tanto più è esposta al rischio. E nella povertà e nelle altre di-sgrazie gli uomini pensano che l’unico rifugio siano gli amici. Essa poi aiuta i giovani a noncommettere errori, i vecchi a trovare assistenza e ciò che alla loro capacità d’azione viene amancare a causa della debolezza, ed infine, coloro che sono nel fiore dell’età [15] a compie-re le azioni moralmente belle: "Due che marciano insieme...", infatti, hanno una capacitàmaggiore sia di pensare sia di agire. E sembra che tale atteggiamento sia insito per naturanel genitore verso la prole e nella prole verso il genitore, non solo negli uomini, ma anchenegli uccelli e nella maggior parte degli animali, negli individui appartenenti alla stessaspecie fra di loro, [20] e soprattutto negli uomini, ragion per cui noi lodiamo coloro cheamano gli altri esseri umani. E si può osservare anche nei viaggi come ogni uomo senta affi-nità ed amicizia per l’uomo. Sembra, poi, che sia l’amicizia a tenere insieme le città, ed i le-gislatori si preoccupano più di lei che della giustizia: infatti, la concordia sembra esserequalcosa di simile [25] all’amicizia; ed è questa che essi hanno soprattutto di mira, ed è ladiscordia, in quanto è una specie di inimicizia, che essi cercano soprattutto di scacciare.Quando si è amici, non c’è alcun bisogno di giustizia, mentre, quando si è giusti, c’è ancorabisogno di amicizia ed il più alto livello della giustizia si ritiene che consista in un atteggia-mento di amicizia. E non solo è una cosa necessaria, ma è anche una cosa bella: infatti,[30] noi lodiamo coloro che amano gli amici, anzi si ritiene che l’avere molti amici sia qual-cosa di bello; ed inoltre, si pensa che sono gli stessi uomini che sono buoni ed amici.

Non pochi, poi, sono gli argomenti di discussione in materia di amicizia. Alcuni, infatti, ladefiniscono come una specie di somiglianza e affermano che gli uomini simili sono amici,dal che deriva il detto che "il simile va col simile" e "la cornacchia [35] va con la cornac-chia", e simili; altri, al contrario, [1155b] affermano che tutti gli uomini che si assomiglianosono come dei vasai rispetto a vasai. E su questi stessi argomenti conducono una ricercapiù profonda, e fondata piuttosto su considerazioni naturalistiche, Euripide quando dice"la terra inaridita ama la pioggia, e il venerando cielo, pregno di pioggia, ama cadere sullaterra", ed Eraclito [5] quando dice che "l’opposto è utile", "dai suoni differenti nasce la piùbella armonia" e "tutte le cose si generano dalla discordia". In senso contrario a costoro, al-tri, e specialmente Empedocle, dicono: "è il simile che tende al simile". Orbene, questi pro-blemi di carattere naturalistico lasciamoli a parte (giacché non sono appropriati alla pre-sente ricerca). Occupiamoci, invece, dei problemi riguardanti l’uomo [10] e che concernonoi caratteri e le passioni: ad esempio, se l’amicizia nasce in tutti gli uomini, ovvero non èpossibile che gli uomini malvagi siano amici, e se c’è una sola specie di amicizia o più. In-fatti, coloro che pensano che ce ne sia una sola, perché ammette il più ed il meno, dannocredito ad un indizio insufficiente, giacché ammettono [15] il più ed il meno anche cose chesono differenti per specie. Ma di queste cose si è trattato precedentemente.

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2. [I tre motivi dell’amicizia: bene, piacere, utilità].

A questo proposito ci sarà chiarezza una volta conosciuto ciò che è degno di essere amato.Si ritiene, infatti, che non ogni cosa è amata, ma solo ciò che è degno di essere amato, e chequesto è buono o piacevole o utile: si ammetterà che utile [20] è ciò da cui deriva un bene oun piacere, cosicché degni di essere amati saranno il bene ed il piacere intesi come fini. Or-bene, gli uomini amano il bene in sé o ciò che è bene per loro? Talora, infatti, si tratta di co-se discordanti. Lo stesso vale anche per il piacevole. Si riconosce che [25] ciascuno ama ciòche è bene per lui, e che in senso assoluto è il bene che è degno di essere amato, ma in sen-so relativo a ciascun uomo lo è ciò che è bene per lui: ma ciascuno ama non ciò che è beneper lui, ma ciò che gli appare tale. Ma non ha importanza: infatti, degno di essere amatosarà ciò che tale appare. Essendo, dunque, questi tre i motivi per cui si ama, per l’affezionealle cose inanimate non si usa il termine "amicizia": esse, infatti, non possono ricambiarcil’affezione, né noi possiamo volere un bene per loro (giacché sarebbe certamente ridicolovolere il bene per il vino; [30] ma se pur così è, ciò che si vuole è che esso si conservi, peraverlo per noi); si dice, invece, che bisogna volere il bene per l’amico per lui stesso. Maquelli che così vogliono il bene degli altri si chiamano benevoli, anche se non vengono daquegli altri ricambiati: la benevolenza, infatti, è amicizia solo quando è reciproca. O non bi-sogna aggiungere anche "quando non rimane nascosta"? Molti, infatti, [35] sono benevoliverso uomini che non hanno visto mai, ma che giudicano virtuosi, [1156a] o utili: questomedesimo sentimento potrebbe provare per loro uno di quelli. Costoro, dunque, sono ma-nifestamente benevoli gli uni verso gli altri: ma come si potrebbe chiamarli amici, se tengo-no nascosto l’uno all’altro il proprio sentimento? Bisogna dunque, per essere amici, esserebenevoli gli uni verso gli altri e non nascondere di volere il bene l’uno dell’altro, [5] per unodei motivi che abbiamo detto.

3. [Le tre specie dell’amicizia].

Ma questi motivi differiscono tra loro per specie: quindi, anche le affezioni e le amicizie.Per conseguenza, le specie dell’amicizia sono tre, di numero uguale agli oggetti degni di es-sere amati: per ciascuna classe di essi, infatti, c’è una reciproca palese affezione, e quelliche si amano reciprocamente vogliono l’uno il bene dell’altro, [10] bene specificato dal mo-tivo per cui si amano. Orbene, quelli che si amano reciprocamente a causa dell’utilità, nonsi amano per se stessi, ma in quanto ne deriva loro, reciprocamente, un qualche bene. Pari-menti nel caso in cui si amino a causa del piacere: infatti, essi non amano gli uomini spiri-tosi per il fatto che posseggono quella determinata qualità, ma perché a loro risultano pia-cevoli. Dunque, coloro che amano a causa dell’utile, [15] amano a causa di ciò che è beneper loro, e quelli che amano per il piacere lo fanno per ciò che è piacevole per loro, e non inquanto l’amato è quello che è, ma in quanto è utile o piacevole. Per conseguenza, questeamicizie sono accidentali: infatti, non è in quanto è quello che è che l’amato è amato, ma inquanto procura un bene o un piacere. Per conseguenza, le amicizie di tale natura si dissol-vono facilmente, [20] perché gli amici non rimangono uguali a se stessi: se, infatti, uno nonè più utile o piacevole, l’altro cessa di amarlo. E l’utile non è costante, ma è diverso di voltain volta. Quindi, svanito il motivo per cui erano amici, si dissolve anche l’amicizia, dal mo-mento che l’amicizia sussiste in relazione a quei fini. Si riconosce che [25] l’amicizia di que-sto tipo sorge soprattutto tra i vecchi (giacché gli uomini di tale età non perseguono più ilpiacevole ma l’utile), e negli uomini maturi e nei giovani sorge solo tra quelli che perseguo-no l’utile. Ma non è che costoro vivano molto in compagnia gli uni degli altri. Talora, infat-ti, non riescono piacevoli gli uni agli altri: perciò non sentono neppure il bisogno di talecompagnia, a meno che questi amici non siano utili. Infatti, in tanto [30] risultano piacevo-

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li gli uni agli altri, in quanto hanno la speranza di un bene. Tra queste amicizie viene postaanche quella verso gli ospiti. Invece, si ritiene che l’amicizia dei giovani sia causata dal pia-cere: questi, infatti, vivono sotto l’influsso della passione, e perseguono soprattutto ciò cheè per loro un piacere immediato. Ma col procedere dell’età anche le cose che fanno piacerediventano diverse. È per questo che i giovani rapidamente diventano [35] amici e rapida-mente cessano di esserlo: infatti, l’amicizia muta insieme col mutare di ciò che fa piacere,[1156b] e il mutamento di un tale tipo di piacere è rapido. Inoltre, i giovani sono inclini allapassione amorosa, giacché gran parte del sentimento amoroso segue la passione e derivadal piacere: perciò essi s’innamorano e cessano d’amare rapidamente, mutando sentimen-to più volte nello stesso giorno. Essi, però, [5] vogliono passare insieme i loro giorni e la vi-ta intera: è in questo modo, infatti, che si procurano ciò che si ripromettono dall’amicizia.

L’amicizia perfetta, invece, è l’amicizia degli uomini buoni e simili per virtù: costoro, infat-ti, vogliono il bene l’uno dell’altro, in modo simile, in quanto sono buoni, ed essi sono buo-ni per se stessi. Coloro che vogliono il bene [10] degli amici per loro stessi sono i più grandiamici; infatti, provano questo sentimento per quello che gli amici sono per se stessi, e nonaccidentalmente. Orbene, l’amicizia di costoro perdura finché essi sono buoni, e, d’altraparte, la virtù è qualcosa di permanente. E ciascuno è buono sia in senso assoluto sia in re-lazione al suo amico, giacché i buoni sono sia buoni in senso assoluto sia utili gli uni agli al-tri. E come sono buoni, sono anche [15] piacevoli, giacché i buoni sono piacevoli sia in sen-so assoluto sia gli uni in relazione agli altri: infatti, per ciascuno sono fonte di piacere leazioni conformi alla sua natura e quelle dello stesso tipo, e le azioni dei buoni sono appun-to identiche o simili. E una tale amicizia, naturalmente, è permanente, giacché congiungein sé tutte le qualità che gli amici devono possedere. Infatti, ogni amicizia è causata da unbene [20] o da un piacere, o in senso assoluto o in relazione a colui che ama, e si fonda suuna certa somiglianza. Ma in questa amicizia si trovano tutte le cose suddette in virtù di ciòche gli amici sono per se stessi: in questa, infatti, gli amici sono simili, e c’è pure il resto (ilbuono e il piacevole in senso assoluto), e sono soprattutto questi gli oggetti degni di essereamati; per conseguenza, in questi uomini anche l’amore e l’amicizia sono del massimo livel-lo e della migliore qualità. Ma è [25] naturale che simili amicizie siano rare, giacché pochisono gli uomini di tale natura. Inoltre, richiede tempo e consuetudine di vita comune: se-condo il proverbio, infatti, non è possibile conoscersi reciprocamente finché non si è consu-mata insieme la quantità di sale di cui parla appunto il proverbio. Per conseguenza, non èpossibile accogliersi come amici, né essere amici, prima che ciascuno si sia manifestatoall’altro degno di essere amato e prima che ciascuno abbia ottenuto la confidenza dell’altro.E coloro che [30] si scambiano rapidamente l’un l’altro i segni dell’amicizia, vogliono, sì,essere amici, ma non lo sono, se non sono anche degni di essere amati e se non lo sanno:infatti, la volontà di amicizia sorge rapidamente, ma non l’amicizia.

4. [Confronto fra le tre specie di amicizia. Loro durata].

Questa amicizia, dunque, è perfetta sia per la durata sia per il resto, e sorge dal fatto checiascuno riceve [35] dall’altro cose identiche da tutti i punti di vista o simili; il che è ciò chedeve accadere tra amici. [1157a] L’amicizia, poi, che deriva dal piacere ha somiglianza conquesto, giacché anche i buoni risultano piacevoli gli uni agli altri. Lo stesso vale anche perl’amicizia che nasce dall’utilità, giacché i buoni sono anche utili gli uni agli altri. Ma anchein questi due ultimi casi le amicizie hanno la massima durata quando gli uni ricevono daglialtri la stessa cosa, per esempio [5] il piacere, e non soltanto la stessa cosa, ma anche deri-vata da una stessa causa, come, per esempio, accade tra gli uomini spiritosi, e non come ac-cade tra amante ed amato. Infatti, questi non godono delle stesse cose, ma l’uno prova pia-

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cere a guardare l’amato, l’altro ad essere corteggiato dall’amante. Ma quando il fioredell’età appassisce, talora viene meno anche l’amicizia (giacché per l’uno non è più piacevo-le [10] la vista dell’amato, e per l’altro vien meno il corteggiamento dell’amante). Ma molti,d’altra parte, persistono nell’amicizia, se in base alla consuetudine finiscono con l’amare irispettivi caratteri, essendo divenuti simili fra di loro. Coloro, poi, che nei loro rapportiamorosi non si scambiano piacere, ma utilità, sono meno amici e meno costanti. Infine,l’amicizia di quelli che sono amici a causa dell’utilità [15] si dissolve insieme con l’interesseche la suscita, giacché essi non sono amici l’uno dell’altro, ma del profitto. A causa del pia-cere e dell’utilità, quindi, è possibile che siano amici sia uomini cattivi tra di loro, sia uomi-ni virtuosi con uomini cattivi, sia chi non è né l’uno né l’altro con qualunque tipo d’uomo,ma è chiaro che solo i buoni possono essere amici per quello che sono in se stessi: i viziosi,infatti, non ricevono alcuna gioia gli uni dagli altri, [20] a meno che non ne derivi un qual-che vantaggio. E soltanto l’amicizia tra gli uomini buoni non può essere incrinata dalla ca-lunnia, giacché non è facile prestar fede ad alcuno a proposito di un uomo che si è da sestessi per lungo tempo messo alla prova; è in questi uomini che si trova la fiducia, la dispo-sizione a non farsi mai reciprocamente ingiustizia, e tutto quello che è considerato un valo-re nell’amicizia autentica. Nelle altre amicizie, invece, [25] non c’è nulla che impedisce chetali cose avvengano. Poiché, infatti, gli uomini chiamano amici sia quelli che lo sono perl’utile, come fanno le città (giacché si sa che le alleanze militari le città le fanno in vista delvantaggio che ne deriva), sia coloro che si amano tra di loro per il piacere, come i bambini,forse anche noi dobbiamo parlare di amicizia in simili casi. [30] Ma dobbiamo anche direche ci sono molte specie di amicizia, e prima di tutto e in senso proprio quella dei buoni inquanto buoni, e poi, per somiglianza, tutte le altre, giacché in tanto si è amici, in quanto c’èun qualcosa di buono e di simile; anche il piacevole, infatti, è un bene per chi ama il piace-re. Ma queste due specie di amicizia non sono affatto convergenti, e non sono gli stessi uo-mini quelli che sono amici per l’utilità [35] e quelli che lo sono per il piacere, perché noncapita spesso che si trovino accoppiate le qualità accidentali. [1157b] Ma una volta divisal’amicizia in queste specie, diremo che gli uomini malvagi sono amici per il piacere o perl’utilità, essendo in questo simili, mentre i buoni sono amici per se stessi, cioè in quantobuoni. Questi ultimi, dunque, saranno amici in senso assoluto; quelli, invece, per accidentee [5] per il fatto che assomigliano ai buoni.

5. [L’amicizia come disposizione e come attività. L’intimità].

Come per quanto riguarda le virtù alcuni sono chiamati buoni in base ad una disposizionedel loro carattere, altri in base ad una effettiva attività, così avviene anche nel caso dell’ami-cizia: infatti, alcuni vivono insieme procurandosi gioia a vicenda e facendo il bene l’unodell’altro, altri, invece, in quanto dormono o sono separati dalla distanza, non esercitano inatto l’amicizia, [10] ma hanno la disposizione a farlo: la distanza, infatti, non fa cessarel’amicizia in senso assoluto, ma soltanto il suo effettivo esercizio. Ma se l’assenza dura neltempo, essa, si ammette, fa dimenticare anche l’amicizia. Di qui il detto: "Molte amicizie,dunque, ha fatto cessare l’impossibilità di parlarsi". I vecchi, poi, e gli uomini di carattereacido, manifestamente, non sono inclini all’amicizia: infatti, c’è poco [15] di piacevole in lo-ro, e nessuno può passare la sua giornata in compagnia di chi è affligente e di chi non è pia-cevole, perché è manifesto che la natura soprattutto rifugge da ciò che è penoso, e tende,invece, a ciò che è piacevole. Quelli, poi, che sono disposti ad accettarsi reciprocamente,ma non vivono insieme, sono simili più a uomini benevoli che ad amici. Niente, infatti, ècosì tipico degli amici come il vivere insieme [20] (l’aiuto, infatti, lo desiderano quelli chene hanno bisogno, ma trascorrere insieme il tempo lo desiderano anche gli uomini felici,giacché ad essi non si addice affatto rimanere solitari). Ma non è possibile passare la vita

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insieme, gli uni in compagnia degli altri, se non si è piacevoli e se non si gode delle medesi-me cose: è in questo, si ritiene, che consiste il cameratismo.

[25] L’amicizia, dunque, è soprattutto quella dei buoni, come s’è detto più volte. Si ritienecomunemente, infatti, che degno di essere amato e scelto è il bene o il piacere, in generale,ma per ciascuno ciò che è buono e piacevole per lui: e l’uomo buono è amato e sceltodall’uomo buono per entrambi questi motivi. L’affezione assomiglia ad una passione, l’ami-cizia ad una disposizione, giacché l’affezione è rivolta anche [30] agli esseri inanimati, maricambiare l’amore implica una scelta, e la scelta dipende da una disposizione del carattere.E gli uomini vogliono il bene delle persone amate proprio per amor loro, non seguendo unapassione ma per intima disposizione. Ed amando l’amico amano ciò che è bene per lorostessi, giacché l’uomo buono, divenuto amico, diventa un bene per colui di cui è diventatoamico. Ciascuno dei due, [35] dunque, ama ciò che è bene per lui, e ricambia l’altro inugual misura, col volere il suo bene e col procurargli piacere: si dice, infatti, "amicizia èuguaglianza", e questa c’è soprattutto nell’amicizia tra uomini buoni.

6. [L’amicizia perfetta e le altre forme di amicizia].

[1158a] Negli uomini di carattere acido ed in quelli che sono vecchi per temperamentol’amicizia nasce tanto meno quanto più sono scorbutici e quanto meno hanno il gusto dellerelazioni sociali: si ritiene, infatti, che siano queste le cose che più di tutte dimostrano eproducono amicizia. È per questo [5] che i giovani diventano presto amici, ed i vecchi, inve-ce, no: non si diventa amici, infatti, di coloro dai quali non si riceve alcuna gioia. Lo stessovale per gli uomini di carattere acido. Tutt’al più, simili uomini sono benevoli gli uni versogli altri, giacché vogliono il bene reciproco e si aiutano nei bisogni; ma non sono affattoamici, in quanto non passano insieme le loro giornate e non trovano la loro gioia gli uni ne-gli altri: [10] e questi sono ritenuti i segni più tipici dell’amicizia. Non è, poi, possibile esse-re amici di molti di un’amicizia perfetta, come non è possibile amare molte persone nellostesso tempo (giacché l’amore è simile ad un eccesso, e un sentimento di questo genere sirivolge, per sua natura, ad un sola persona); non è facile, d’altra parte, che molte personesiano fortemente gradite al medesimo uomo nel medesimo tempo, e certo non è facile chesiano buone. Bisogna, poi, anche [15] fare l’esperienza di una consuetudine di vita in comu-ne, il che è difficilissimo. D’altra parte, è possibile piacere a molti per via dell’utile e del pia-cevole, giacché molti sono gli uomini di tale natura, e questi servigi si rendono in poco tem-po. Di queste due specie d’amicizia, quella che assomiglia di più alla vera amicizia è quellache ha per motivo il piacere, quando ciascuno riceve dall’altro le stesse cose ed entrambigodono l’uno dell’altro o delle [20] medesime cose: di tale natura sono le amicizie dei gio-vani, giacché maggiore è in queste l’elemento della liberalità. L’amicizia che ha per motivol’utile è da mercanti. E, poi, gli uomini felici non hanno per niente bisogno di amici utili,bensì di amici piacevoli: essi, infatti, vogliono vivere in compagnia di qualcuno, ma soppor-tano ciò che è penoso per poco tempo, mentre nessuno vi resisterebbe in continuazione,neppure se si trattasse [25] del bene in sé, qualora esso risultasse penoso per lui: è per que-sto che ricercano amici piacevoli. Bisogna, poi, certo, che tali uomini siano anche buoni, ebuoni per loro, per giunta, perché così essi avranno tutte le caratteristiche che devono ave-re gli amici. Gli uomini altolocati hanno, manifestamente, amici di specie diverse: alcuni,infatti, sono loro utili ed altri piacevoli, ma non capita spesso che siano gli stessi uomini adavere entrambe le qualità. [30] Infatti, essi non cercano amici piacevoli e insieme virtuosi,né utili a compiere belle azioni, ma alcuni li cercano spiritosi, quando mirano al piacere, al-tri, invece, abili ad eseguire gli ordini; e queste qualità non capita spesso che si incontrinoinsieme nella medesima persona. Ma abbiamo detto che piacevole ed utile nello stesso tem-

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po è l’uomo di valore; ma un tale uomo non diventa amico di chi gli è superiore, a menoche non [35] gli sia superiore anche in virtù: se no, essendo superato, non realizza un’ugua-glianza proporzionale. Ma uomini di tal fatta non sogliono trovarsi spesso. [1158b] Le ami-cizie suddette si fondano sull’uguaglianza: infatti, da entrambe le parti derivano gli stessivantaggi che gli uni vogliono per gli altri, oppure essi si scambiano un tipo di vantaggio conun altro, per esempio, piacere in cambio di utilità; ma che queste due ultime amicizie sonoamicizie in misura minore e che durano di meno l’abbiamo già detto. [5] A seconda, poi,che assomiglino o non assomiglino alla stessa cosa, si pensa che esse siano e che non sianoamicizie: si manifestano come amicizie in quanto assomigliano all’amicizia fondata sullavirtù (l’una comporta il piacere e l’altra l’utilità, cose queste che competono anche all’amici-zia fondata sulla virtù); ma per il fatto che quella non può essere incrinata dalla calunniaed è permanente, mentre queste [10] mutano rapidamente e ne differiscono in molti rispet-ti, si manifestano come non amicizie, poiché non sono somiglianti a quella fondata sullavirtù.

7. [Amicizia tra superiore e inferiore, e viceversa].

Esiste, poi, un’altra specie di amicizia, quella che implica una superiorità: per esempio,quella del padre verso il figlio ed in genere dell’uomo più anziano verso il più giovane, delmarito verso la moglie e di chiunque eserciti un’autorità verso chi vi è soggetto. Ed anchequeste amicizie differiscono l’una dall’altra: [15] infatti, non è la stessa l’amicizia dei geni-tori verso i figli e quella di coloro che esercitano il potere politico verso coloro che vi sonosoggetti, né quella del padre verso il figlio e quella del figlio verso il padre, né quella delmarito verso la moglie e della moglie verso il marito. Diversa, infatti, è la virtù di ciascunadi queste persone, diversa la funzione, diversi i motivi per cui amano: diversi, quindi, an-che gli affetti e le amicizie. [20] Per conseguenza, non è la stessa cosa quella che uno ricevedall’altro, né quella che deve essere ricercata: ma quando i figli rendono ai genitori ciò chesi deve a chi ha generato, e quando i genitori rendono ai figli ciò che si deve a chi è stato ge-nerato, l’amicizia tra persone di questo tipo sarà permanente e virtuosa. Ma in tutte le ami-cizie che implicano una superiorità ci deve essere anche un affetto proporzionale: peresempio, [25] il più virtuoso deve essere amato più di quanto ami, come pure chi è più uti-le, e parimenti in ciascuno degli altri casi. Quando, infatti, l’affezione è proporzionata almerito, allora si produce, incerto qual modo, un’uguaglianza, il che, per conseguenza, èconsiderato proprio dell’amicizia. Ma è manifesto che il termine "uguale" [30] non ha lostesso senso nelle azioni giuste e nell’amicizia: infatti, nel caso delle azioni giuste "uguale"significa innanzi tutto "ciò che è proporzionato al merito", e in secondo luogo "ciò che èuguale quantitativamente", mentre nel caso dell’amicizia significa innanzi tutto "ciò che èuguale quantitativamente", e in secondo luogo "ciò che è proporzionato al merito". Il che èevidente quando c’è una grande distanza dal punto di vista della virtù o del vizio o della ric-chezza o di qualche altra cosa: infatti, in tal caso, non solo non sono più amici, [35] ma nonpretendono neanche di esserlo. E questo è evidentissimo nel caso degli dèi: essi, infatti, inogni specie di bene, hanno una superiorità assoluta. Ma è chiaro [1159a] anche nel caso deire: coloro che sono molto inferiori non pretendono neppure di essere degli amici per loro,né quelli che non hanno alcun merito pretendono di essere amici per gli uomini più virtuo-si o più saggi. In situazioni di questo genere non è possibile determinare con precisione fi-no a che punto gli amici restano amici: infatti, anche tolti molti motivi dell’amicizia, [5]questa permane ancora: ma se una delle parti è separata da una grande distanza, come av-viene nel caso di Dio, l’amicizia non è più possibile. Di qui nasce anche la questione se vera-mente gli amici vogliono i più grandi beni per gli amici, come, per esempio, che siano dèi:in tal caso, infatti, non saranno più degli amici per loro, né per conseguenza dei beni (giac-ché gli amici sono dei beni). Se, dunque, abbiamo avuto ragione di dire che l’amico vuole il

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bene per l’amico, [10] proprio per lui, quell’amico dovrebbe continuare ad essere quelloche è, comunque sia: finché, dunque, quello rimane un uomo, l’amico vorrà per lui i benipiù grandi. Ma, forse, non tutti i beni, giacché ciascuno vuole il bene soprattutto per sé.

8. [Uguaglianza e disuguaglianza nell’amicizia].

La maggior parte degli uomini, lo si ammette, preferisce, per desiderio di onore, essereamata piuttosto che amare: per questo i più amano gli adulatori, perché [15] l’adulatore èun amico in posizione inferiore, o simula di essere tale e di amare di più di quanto sia ama-to. Ora, essere amato è considerato qualcosa di molto vicino all’essere onorato, ed è a que-sto che aspira la maggior parte degli uomini. Ma non sembra che scelgano l’onore per sestesso, bensì per accidente. Infatti, i più godono nell’essere onorati da persone altolocate,[20] per via della speranza (perché pensano che, qualora avessero bisogno di qualcosa, l’ot-terrebbero da quelle persone: essi, dunque, godono dell’onore come di un segno che riceve-ranno dei favori); quelli, d’altra parte, che desiderano ricevere onore da parte di uomini vir-tuosi e che li conoscono, aspirano a rafforzare l’opinione che hanno di se stessi: essi, quin-di, godono dell’onore ricevuto in quanto si convincono di essere buoni sulla base del giudi-zio di coloro che lo affermano. [25] Ma godono di essere amati per il fatto in sé: perciò si ri-conoscerà che l’essere amati vale di più che essere onorati, e che l’amicizia è desiderabileper se stessa.

D’altra parte, si ritiene che l’amicizia stia più nel l’amare che nell’essere amati. Prova ne so-no le madri, che godono di amare: alcune, infatti, danno i propri figli a balia, e li amano,ben sapendo che sono figli loro, [30] ma non cercano di farsi ricambiare l’amore, se nonsiano possibili entrambe le cose, ma sembra che sia sufficiente per loro vederli star bene,ed esse li amano anche se quelli, non conoscendo la propria madre, non le rendono nulla diciò che ad una madre si conviene rendere. Poiché, poi, l’amicizia consiste soprattuttonell’amare, e poiché quelli che amano gli amici vengono lodati, [35] la virtù degli amicisembra essere l’amare, cosicché quelli in cui ciò avviene secondo il merito, [1159b] sonoamici costanti e costante è la loro amicizia. È soprattutto così che anche i disuguali potran-no essere amici, perché in tal modo saranno resi uguali.

Ora, l’uguaglianza e la somiglianza costituiscono l’amicizia, e soprattutto la somiglianza tracoloro che sono simili dal punto di vista della virtù. Infatti, essendo costanti per se stessi,[5] lo rimangono anche nei rapporti reciproci, e non richiedono né rendono bassi servigi,ma anzi, per così dire, cercano di impedirli: è proprio degli uomini buoni, infatti, non com-mettere essi stessi degli errori e non permettere agli amici di commetterne. I malvagi, inve-ce, non hanno stabilità, perché non rimangono simili nemmeno a se stessi: sono amici perpoco tempo, [10] fin quando godono della malvagità gli uni degli altri. Gli amici utili, inve-ce, e quelli piacevoli, permangono più a lungo nell’amicizia, fin quando, cioè, si procuranoreciprocamente piaceri e vantaggi. Soprattutto tra contrari, poi, si ritiene che sorga l’amici-zia fondata sull’utilità: per esempio, il povero diventa amico del ricco, l’ignorante amico delsapiente: infatti, quando uno si trova ad avere bisogno di qualche cosa, mirando a questane dà in cambio [15] un’altra. Ma a questa categoria si potrebbero ricondurre anche l’aman-te e l’amato, e il bello e il brutto. Per questo, anche gli amanti sono talora manifestamenteridicoli, quando pretendono di essere amati come amano: se essi sono amabili allo stessomodo, certamente la pretesa è giustificata, ma se non hanno affatto una simile qualità, è ri-dicolo.

D’altra parte, forse, il contrario non tende al suo contrario [20] per se stesso, bensì acciden-

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talmente, mentre il suo desiderio si riferisce in realtà a ciò che è intermedio: questo, infatti,è il bene; per esempio, per il secco è bene non diventare umido, ma il giungere allo stadiointermedio, e così per il caldo, e ugualmente per gli altri contrari. Orbene, queste questionilasciamole da parte, perché sono troppo estranee alla presente ricerca.

9. [Amicizia, giustizia e comunità politica].

[25] Sembra, poi, come s’è detto all’inizio, che l’amicizia e la giustizia abbiano i medesimioggetti e risiedano nelle medesime persone. Infatti, si ritiene comunemente che in ogni co-munità ci sia una forma di giustizia, ma anche amicizia; certo è che si attribuisce il nome diamici ai compagni di navigazione e ai compagni d’arme, e parimenti anche a quelli che sitrovano in tutti gli altri tipi di comunità. [30] Quanto si estende il rapporto comunitario, al-trettanto si estende l’amicizia, giacché tanto si estende anche la giustizia. E il proverbio "lecose degli amici sono comuni" ha ragione, perché l’amicizia consiste in una comunanza.Tra fratelli e tra amici tutto è comune, tra gli altri uomini, invece, soltanto cose determina-te, e per alcuni di più e per altri di meno, giacché anche le amicizie sono amicizie in misuramaggiore [35] o minore. Ma anche i rapporti di giustizia sono differenti; infatti, non sono[1160a] gli stessi quelli dei genitori verso i figli, e quelli dei fratelli fra di loro, né i rapportitra compagni né quelli tra cittadini, e così, allo stesso modo, anche nel caso degli altri tipidi amicizia. Per conseguenza, anche gli atti di ingiustizia nei riguardi di ciascuno di questigruppi sono diversi, e diventano più gravi per il fatto di riguardare, per di più, degli amici.[5] Per esempio, è più grave spogliare dei suoi beni un compagno che non un concittadino,e non prestare aiuto ad un fratello che non ad uno straniero, e più grave percuotere il padreche non chiunque altro. Per natura, poi, la giustizia cresce insieme con l’amicizia, perchéesse si trovano nelle medesime persone ed hanno uguale estensione.

Tutte le comunità, poi, sono simili a parti della comunità politica: [10] infatti, gli uominiviaggiano insieme in vista di qualche vantaggio, cioè per procurarsi qualcosa che serve allaloro vita; anche la comunità politica si ritiene che si sia costituita fin da principio e perduriin vista dell’utilità: è a questa, infatti, che mirano anche i legislatori, e dicono che è giustociò che è di utilità generale. Le altre comunità [15] hanno di mira l’interesse particolare:per esempio, i naviganti mirano all’utile che traggono dalla navigazione diretta ad un acqui-sto di ricchezza o qualcosa di simile, i camerati mirano all’utile che traggono dalla guerra,desiderando ricchezza e vittoria, oppure una città, e lo stesso fanno i membri di una stessatribù o di uno stesso demo [Alcune comunità si ritiene che sorgano per un piacere, comequelle degli appartenenti ad un tiaso [20] o ad una associazione conviviale: queste, infatti,hanno come scopo quello di offrire un sacrificio e quello di stare insieme. Tutte queste co-munità sembrano essere subordinate alla comunità politica, giacché la comunità politicanon mira soltanto al vantaggio presente, ma a ciò che è utile alla vita intera.], quando fan-no sacrifici e riunioni ad essi relative, rendendo i dovuti onori agli dèi, [25] e procurando ase stessi piacevoli periodi di riposo. Infatti, i sacrifici e le riunioni di origine antica hannoluogo, manifestamente, dopo la raccolta dei frutti, come offerta di primizia, giacché è so-prattutto in quei periodi dell’anno che gli uomini hanno tempo per lo svago. Dunque, tuttele comunità sono manifestamente parti di quella politica, e le specie particolari di amiciziacorrisponderanno [30] alle specie particolari di comunità.

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10. [Analogia tra costituzioni politiche e strutture familiari].

Ci sono tre specie di costituzione, ma anche altrettante deviazioni, intese come degenera-zioni delle prime. Le costituzioni sono il regno e l’aristocrazia da una parte, e, dall’altra, interzo luogo, quella che si basa sul censo, che è manifestamente appropriato chiamare "co-stituzione timocratica", [35] mentre i più sono soliti denominarla semplicemente "costitu-zione". Di queste, la migliore è il regno, la peggiore è la timocrazia. Deviazione del regno è[1160b] la tirannide: tutt’e due, infatti, sono monarchie, ma c’è tra loro una grandissimadifferenza, perché il tiranno mira al proprio interesse, il re a quello dei sudditi. Non è, in-fatti, un vero re colui che non è autosufficiente e che non è superiore per ogni tipo di bene:[5] ma chi è tale non ha bisogno di nulla; avrà, dunque, di mira non il suo interesse perso-nale, ma quello dei sudditi; chi, infatti, non ha tali qualità, sarà re solo di nome. La tiranni-de, invece, è il contrario di questa costituzione, giacché il tiranno persegue ciò che è beneper lui. E per quanto la riguarda è anche più evidente che è la costituzione peggiore perchéil peggiore è il contrario del migliore. [10] D’altra parte, dal regno si trapassa nella tiranni-de, giacché la tirannide è la perversione della monarchia, ed il cattivo re diviene un tiranno.Dalla aristocrazia, poi, si passa nell’oligarchia per il fatto che sono viziosi i governanti, iquali distribuiscono ciò che appartiene alla città senza tener conto del merito, e attribuisco-no tutti o la maggior parte dei beni a se stessi, e le cariche pubbliche [15] sempre alle stessepersone, tenendo nel massimo conto il fatto che siano ricche: per conseguenza, sono pochie perversi quelli che comandano, al posto dei più degni. Dalla timocrazia si passa alla de-mocrazia, giacché queste due costituzioni hanno gli stessi confini: la timocrazia, infatti,vuol essere governo della maggioranza, e uguali sono tutti quelli che hanno un determinatocenso. Delle costituzioni corrotte, poi, la meno cattiva è [20] la democrazia, giacché la for-ma di questa costituzione è deviante di poco. Orbene, è per lo più in questo modo che le co-stituzioni si trasformano: queste, infatti, sono le trasformazioni più piccole e più facili.

Somiglianze con le costituzioni, che, anzi, fungono quasi da modelli, si potranno trovareanche nelle comunità familiari. Infatti, la comunità che c’è tra padre e figli [25] ha la strut-tura di un regno, giacché il padre ha cura dei figli. È per questo che anche Omero chiamaZeus "padre": il regno vuol essere un’autorità paterna. Tra i Persiani, invece, l’autorità delpadre è tirannica: trattano i figli come schiavi. Tirannica, poi, è anche l’autorità del padro-ne nei riguardi degli schiavi: [30] in essa, infatti, si fa solo l’interesse del padrone. Ma men-tre quest’ultima autorità è manifestamente corretta, quella dei Persiani, invece, è errata,giacché differenti devono essere i modi di governare uomini <socialmente> differenti. Lacomunità di marito e moglie è manifestamente di tipo aristocratico: il marito, infatti, eser-cita l’autorità conformemente al suo merito, e nell’ambito in cui è il marito che deve co-mandare; quanto invece si addice alla moglie, [35] lo lascia a lei. Il marito, invece, che co-manda su tutto trasforma la comunità matrimoniale in oligarchia, perché fa questo al di làdel suo merito, cioè [1161a] non per quanto è superiore alla moglie. Talvolta, poi, comanda-no le mogli, quando sono delle ereditiere: quindi, la loro autorità non deriva dal valore per-sonale, ma si fonda sulla ricchezza e sul potere, proprio come nelle oligarchie. La comunitàdei fratelli assomiglia a quella timocratica: essi, infatti, sono uguali, tranne che nella misu-ra in cui [5] differiscono per età; perciò, se la differenza d’età è grande, non sorge più l’ami-cizia fraterna. La democrazia, infine, si trova soprattutto nelle case dove non c’è un padro-ne (giacché qui sono tutti su un piano di uguaglianza) e in quelle in cui chi comanda è de-bole e ciascuno può fare quello che vuole.

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11. [Costituzioni politiche, strutture familiari, e corrispondenti forme di ami-cizia].

[10] È manifesto che in ciascun tipo di costituzione c’è amicizia nella misura in cui c’è an-che giustizia. L’amicizia tra un re ed i suoi sudditi sta nel fatto che il re fa loro più beneficidi quanti non ne riceva: egli, infatti, fa del bene ai sudditi, se, essendo buono, si prende cu-ra di loro, per farli star bene, come un pastore si prende cura delle sue pecore; perciò ancheOmero chiamò [15] Agamennone "pastore di popoli". Di tal natura è anche l’amicizia di unpadre: differisce, però, per la grandezza dei benefici, giacché egli dona ai figli l’esistenza,che è ritenuta il più grande dei beni, e nutrimento ed educazione. E questi benefici si attri-buiscono anche ai progenitori. Inoltre, è per natura che il padre ha autorità sui figli, i pro-genitori sui discendenti, il re sui sudditi. [20] Ma queste amicizie si fondano su una supe-riorità, ed è perciò che i genitori vengono anche onorati. Per conseguenza, anche la giusti-zia, in esse, non è la stessa cosa, ma varia col merito: così, infatti, varia anche l’amicizia.L’amicizia tra marito e moglie è la stessa che c’è anche nel regime aristocratico, giacché ècorrispondente al valore personale, e al migliore ne va di più, e a ciascuno quanto ne con-viene: [25] ma è così anche per la giustizia. L’amicizia tra fratelli, poi, assomiglia a quellatra compagni d’arme, perché sono uguali e vicini d’età, e quelli che hanno queste qualitàhanno per lo più passioni e caratteri simili. Ma assomiglia a questa anche l’amicizia corri-spondente alla costituzione timocratica, giacché in essa i cittadini vogliono essere uguali evirtuosi: per conseguenza, il potere è esercitato a turno, e su una base d’uguaglianza; così,quindi, [30] si caratterizza anche l’amicizia corrispondente. E nelle deviazioni, come la giu-stizia si riduce a poco, così anche l’amicizia, e la più piccola si trova nella costituzione peg-giore: nella tirannide, infatti, non c’è affatto amicizia o ce n’è poca. Quando non c’è nulla dicomune tra chi governa e chi è governato, non c’è neppure amicizia tra loro, giacché nonc’è giustizia: per esempio, tra artigiano e strumento, [35] tra anima e corpo, tra padrone eschiavo: [1161b] infatti, tutte queste cose ricevono delle cure da parte di chi le usa, ma ver-so esseri inanimati non è possibile né amicizia né giustizia. Ma neppure verso un cavallo oun bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo. Non c’è niente di comune, infatti, in quan-to lo schiavo è uno strumento animato, e lo strumento è uno schiavo inanimato. [5] Quin-di, non è possibile amicizia verso di lui in quanto è schiavo, ma è possibile in quanto è uo-mo: si ritiene, infatti, che ogni uomo può avere un rapporto di giustizia con chiunque abbiala possibilità di avere in comune con lui una legge o un patto; e, per conseguenza, si potràavere anche un rapporto d’amicizia con uno schiavo nella misura in cui questi è un uomo.Quindi, è in piccola misura che anche nelle tirannidi sono possibili le amicizie e la giustizia,mentre nelle democrazie [10] sono possibili in misura maggiore, perché tra coloro che sonouguali sono molte le cose in comune.

12. [I rapporti di amicizia tra parenti].

Ogni amicizia, dunque, si realizza in una comunità, come s’è detto. Ma si potrebbero esclu-dere l’amicizia tra parenti e quella tra compagni d’arme. Ma le amicizie tra concittadini, tramembri di una stessa tribù, tra compagni di navigazione e simili, sono le più somiglianti adamicizie fondate su una comunanza di interessi, [15] giacché è manifesto che nascono dauna specie d’accordo. Tra queste si potrebbe classificare anche l’amicizia tra ospiti.

E l’amicizia tra parenti ha, manifestamente, più forme, ma è tutta connessa con quella pa-terna: i genitori, infatti, amano i figli perché li considerano come una parte di se stessi, e ifigli amano i genitori perché sono un qualcosa che da essi deriva. [20] I genitori, però, san-no che i figli sono stati generati da loro più che i figli non sappiano che è da quelli che sono

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stati generati, e il generante sente di più il legame di appartenenza col generato di quanto ilgenerato lo senta col generante: infatti, ciò che deriva da qualcuno appartiene a colui da cuideriva (per esempio, un dente, un capello, qualunque cosa, appartengono a chi l’ha); ma ilgenerante non appartiene affatto al generato, o gli appartiene in misura minore. E c’è diffe-renza anche per la durata temporale: [25] i genitori, infatti, amano i figli appena nati, men-tre questi amano i genitori solo quando è passato del tempo, e quando hanno acquistatogiudizio o sensibilità. Da queste considerazioni risulta chiaro anche per quali ragioni le ma-dri amano di più. I genitori, dunque, amano i figli come se stessi (giacché i figli nati da lorosono come degli altri se stessi, altri per il fatto di essere separati), e i figli amano i genitoriperché hanno avuto origine da loro, [30] e i fratelli si amano l’un l’altro perché hanno avu-to origine dagli stessi genitori, giacché l’identità del loro rapporto con quelli stabilisceun’identità tra di loro; perciò si dice "di uno stesso sangue", "di una stessa radice", e simili.Pertanto, essi sono in certo qual modo una stessa cosa, benché in individui distinti. Molto,poi, contribuiscono all’amicizia sia il fatto di essere allevati insieme, sia la vicinanza d’età,giacché il coetaneo ama il coetaneo, [35] e quelli che vivono insieme diventano camerati;perciò, anche l’amicizia tra fratelli è simile a quella tra camerati. [1162a] I cugini, infine, egli altri parenti si trovano uniti da vincoli che derivano da fratelli, e ciò per il fatto che deri-vano dai medesimi progenitori. E sono più o meno intimi a seconda che siano vicini o lon-tani rispetto al capostipite.

L’amicizia dei figli verso i genitori [5] e degli uomini verso gli dèi è come un’amicizia versoun essere buono e superiore: essi, infatti, hanno loro dato i benefici più grandi, giacché so-no gli autori della loro esistenza, del loro allevamento, e, mentre crescono, della loro educa-zione. L’amicizia tra padri e figli, poi, è più piacevole e più vantaggiosa che quella tra estra-nei, nella misura in cui tra i primi c’è maggiore comunanza di vita. [10] Nell’amicizia frater-na, poi, ci sono gli stessi elementi che nell’amicizia tra camerati, soprattutto quando questisono virtuosi, e quando in generale si assomigliano, in quanto sono più intimi e si trovanoad amarsi reciprocamente fin dalla nascita, ed in quanto sono più simili le abitudini di vitadi quelli che derivano dai medesimi genitori, e che sono stati allevati insieme ed educati al-lo stesso modo; e la prova del tempo è in questo caso la più decisiva [15] e la più sicura. Tragli altri parenti, infine, i rapporti di amicizia sono proporzionati al grado di parentela.

L’amicizia tra marito e moglie, si riconosce, è naturale: l’uomo, infatti, è per sua natura piùincline a vivere in coppia che ad associarsi politicamente, in quanto la famiglia è qualcosadi anteriore e di più necessario dello Stato, e l’istinto della procreazione è più comune tragli animali. [20] Ma mentre per gli altri animali la comunità giunge solo fino alla procrea-zione, gli uomini si mettono a vivere insieme non solo per generare dei figli, ma anche perprovvedere alle necessità della vita. Fin dall’inizio, infatti, si dividono le funzioni: quelle delmarito sono diverse da quelle della moglie, quindi si aiutano l’un l’altro, ponendo in comu-ne le specifiche qualità personali. Per questi motivi si ritiene che [25] in questa amicizia cisiano sia l’utilità sia il piacere. Ed essa può fondarsi sulla virtù, quando gli sposi sono per-sone per bene: c’è infatti una virtù propria di ciascuno di loro, ed essi ne proveranno gioia.Infine, i figli sono ritenuti un legame: è per questo che i coniugi senza figli si separano piùrapidamente; i figli, infatti, sono un bene comune ad entrambi, e ciò che è comune tieneuniti. Cercare come si deve comportare il marito [30] verso la moglie ed in generale l’amicoverso l’amico, non significa nient’altro, manifestamente, che cercare qual è il comporta-mento giusto; è manifesto, infatti, che il comportamento giusto per l’amico verso un altroamico, verso un estraneo, un compagno d’arme o un compagno di scuola non è lo stesso.

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13. [L’amicizia fondata sull’utilità].

Ci sono, dunque, tre specie d’amicizia, come s’è detto in principio, [35] e di ciascuna di esseci sono amici in rapporto d’uguaglianza o in rapporto di superiorità (infatti, divengono ami-ci sia uomini ugualmente buoni, sia [1162b] uno migliore con uno peggiore, e allo stessomodo uomini piacevoli ed utili, sia uguagliandosi con lo scambio di vantaggi anche quandosono diversi).

Gli amici uguali devono amare in modo uguale ed uguagliarsi anche nel resto; quelli disu-guali devono rendere ogni cosa in proporzione alla superiorità dell’altro. [5]

Accuse e rimproveri nascono solamente, o soprattutto, nell’amicizia fondata sull’utilità, edè ovvio. Infatti, quelli che sono amici sul fondamento della virtù desiderano fare del benel’uno all’altro (giacché questo è proprio della virtù e dell’amicizia), ma, pur gareggiando inquesto, non ci sono tra loro né accuse né contese, perché [10] nessuno si adira con chi loama e gli fa del bene, ma, se è di fine sentimento, lo ricambia facendogli a sua volta del be-ne. E chi fa più bene, ottenendo ciò cui aspira, non può lamentarsi dell’amico, giacché cia-scuno desidera il bene. E neppure tra amici a causa del piacere ci sono contese: infatti, ot-tengono entrambi insieme quello che desiderano, se il loro godimento sta nel vivere insie-me: sarebbe manifestamente ridicolo [15] chi rimproverasse all’altro di non essere piacevo-le, dal momento che ha la possibilità di non passare le sue giornate con quello.

Invece l’amicizia fondata sull’utilità può dar luogo ad accuse, perché qui gli amici sono inreciproca relazione in vista di un vantaggio e chiedono sempre di più, e credono sempre diricevere meno del dovuto, e rinfacciano all’altro di non ottenere da lui tanto quanto chiedo-no, pur essendone meritevoli. [20] E, d’altra parte, coloro che fanno i benefici non possonosoddisfare tutte le richieste di quelli che i benefici li ricevono. E sembra che, come la giusti-zia è di due specie, quella non scritta e quella secondo la legge positiva, anche dell’amiciziafondata sull’utile ci siano due specie, una morale e una legale. Orbene, le accuse nasconosoprattutto quando le amicizie non sono strette col medesimo tipo di rapporto secondo cui,poi, [25] sono messe in esecuzione. L’amicizia legale si fonda su patti espliciti ed è di duespecie: quella strettamente commerciale si realizza come scambio immediato da mano amano, l’altra, più liberale, concede del tempo, dopo aver stabilito la proporzione tra il prez-zo e la merce. In quest’ultimo tipo di rapporto il debito è chiaro e non equivoco, anzi c’èqualcosa di amichevole nella proroga del pagamento: è per questo che presso certi popolinon c’è la possibilità di adire in giudizio per queste cose, [30] ma si pensa che coloro chestringono patti sulla fiducia debbano rassegnarsi al rischio.

L’amicizia morale, invece, non si fonda su un patto esplicito, ma, sia che si faccia un dono,sia che si renda un qualsiasi altro servigio a qualcuno, glielo si fa in quanto amico: tuttavia,si pensa di meritare di ricevere altrettanto o di più, come se non si fosse fatto un dono maun prestito; e chi avrà stretto amicizia in modo diverso da come questa sarà messa in esecu-zione solleverà delle accuse. Questo succede [35] per il fatto che tutti, o i più, vogliono ilbello, ma scelgono invece l’utile; e, d’altra parte, bello è fare il bene [1163a] senza avere dimira un contraccambio, mentre è utile ricevere dei benefici. Chi può, dunque, deve contrac-cambiare il valore di ciò che ha ricevuto (non dobbiamo, infatti, farci uno amico contro lasua volontà; quindi, bisogna comportarsi come se ci si fosse sbagliati all’inizio e si fosse ri-cevuto del bene da chi non si sarebbe dovuto riceverlo, perché non era nostro amico né [5]uno che lo facesse per il solo gusto di donare; bisognerà, quindi, ripagare colui che ci ha be-neficati, come se ci fosse stato un patto esplicito). E l’accordo dovrebbe consistere nell’im-pegno di contraccambiare se si può: d’altra parte, neppure il benefattore lo esigerebbe, sel’altro non può. Cosicché, se è possibile, bisogna contraccambiare. Fin dal principio, però,bisogna badar bene alla persona da cui si riceve un beneficio ed a quali condizioni, per sot-

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tostarvi o rifiutarle.

C’è poi la questione [10] se si deve misurare il beneficio con il vantaggio di chi lo riceve eproporzionare ad esso il contraccambio, oppure se si deve commisurarlo alla benevolenzadi chi lo fa. I beneficati, in effetti, dicono di aver ricevuto dai benefattori cose che erano perquesti ultimi di poco valore e che sarebbe stato possibile ricevere da altri, minimizzandole;d’altra parte, [15] i benefattori affermano, al contrario, di aver donato i loro beni più gran-di, e che non sarebbe stato possibile ricevere da altri che da loro, sia nel momento del peri-colo sia in simili situazioni di bisogno. Dunque, se l’amicizia ha per fondamento l’utile, nonsi dovrà dire che la misura è il vantaggio di chi riceve? Questi è, infatti, colui che ha biso-gno, e il benefattore lo soccorre con l’intenzione di riceverne un vantaggio uguale. Quindi,l’aiuto è stato tanto grande quanto il vantaggio di chi l’ha ricevuto, [20] e, per conseguenza,si dovrà restituire al benefattore tanto quanto se ne è ricevuto, o anche di più: è più bello.Al contrario, nelle amicizie fondate sulla virtù non c’è luogo per accuse, ma ciò che fungeda misura è la scelta del benefattore, perché l’elemento principale della virtù e del caratteresta nella scelta.

14. [L’amicizia fra disuguali].

Ci sono, poi, differenze anche nelle amicizie basate sulla superiorità: [25] ciascuno dei due,infatti, pretende di ottenere di più, ma quando questo succede, l’amicizia si scioglie. Chi èpiù buono, infatti, pensa che gli si addica avere di più (giacché al buono si attribuisce dipiù); ma allo stesso modo pensa anche chi è più utile, giacché si dice che chi è inutile nondovrebbe avere una parte uguale; ne deriverà, infatti, un servizio gratuito e non un’amici-zia, [30] se i vantaggi tratti dall’amicizia non saranno rispondenti al valore dei benefici fat-ti. Si pensa, infatti, che, come in una società finanziaria ricevono di più quelli che hannocontribuito di più, così debba avvenire anche nell’amicizia. Ma chi è in condizioni di biso-gno e di inferiorità pensa il contrario, giacché è proprio dell’amico buono soccorrere nel bi-sogno: che vantaggio c’è, dicono infatti, [35] ad essere amico di un uomo di valore o di unpotente, se non ci si può aspettare di ricavarne qualcosa? [1163b] Sembra, dunque, che cia-scuno dei due abbia una giusta pretesa, e che ciascuno debba ricavare dall’amicizia qualco-sa più dell’altro, ma non della stessa cosa, bensì quello superiore più onore e quello biso-gnoso più guadagno: infatti, premio della virtù e della beneficenza è l’onore, mentre soccor-so all’indigenza è il guadagno. [5] Che le cose stiano così anche nelle costituzioni politiche èmanifesto: infatti, non si onora colui che non procura alcun bene alla comunità, giacché achi benefica la comunità si dà ciò che è comune, e l’onore è appunto bene comune. Infatti,non è possibile contemporaneamente arricchirsi a spese della comunità e riceverne onori.Nessuno, infatti, sopporta di avere di meno in tutti i casi: [10] per conseguenza, a chi perdein ricchezza si attribuisce onore, e a chi ama ricevere si attribuisce ricchezza, giacché l’attri-buzione secondo il merito ristabilisce l’uguaglianza e salva l’amicizia, come s’è detto. È,dunque, in questo modo che devono regolare i loro rapporti gli amici disuguali, e bisognache chi ha ricevuto vantaggi in denaro o in virtù renda, in cambio, onore, restituendo quel-lo che può. [15] Infatti, ciò che l’amicizia richiede è il contraccambio possibile, non quelloche sarebbe adeguato al merito, giacché ciò non sarebbe neppure possibile in tutti i casi,come nel caso degli onori da tributarsi agli dèi ed ai genitori: nessuno, infatti, potrebbe mairendere loro il contraccambio adeguato, ma chi li venera secondo le sue possibilità è ritenu-to uomo virtuoso. Per questo si riterrà che ad un figlio non è lecito ripudiare il padre, men-tre al padre è lecito ripudiare il figlio: [20] questi, infatti, essendo in debito, deve contrac-cambiare, ma, qualunque cosa un figlio faccia, non può fare nulla che uguagli il valore diciò che ha ricevuto, cosicché rimane sempre debitore. Ai creditori, invece, e quindi al pa-

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dre, è lecito rimettere un debito. Nello stesso tempo, però, si ritiene che nessuno ripudia unfiglio se questi non è di una perversità eccessiva, giacché, anche a prescindere dall’amicizianaturale, è umano non rifiutare l’assistenza a un figlio. [25] Sarà, invece, il figlio, se è mal-vagio, che potrà evitare o non preoccuparsi molto di aiutare il padre: infatti, i più voglionoricevere del bene, ma evitano di farlo, perché non lo considerano vantaggioso. Quanto det-to sull’argomento sia sufficiente.

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Libro IX

1. [II valore di scambio delle amicizie e nei contratti].

E’ la proporzione che pareggia le parti e salva l’amicizia in tutte le amicizie di tipo eteroge-neo, come s’è detto; ad esempio, nell’amicizia politica il calzolaio riceve, in cambio dellescarpe, una remunerazione [35] adeguata al valore, e così pure il tessitore e tutti gli altri ar-tigiani. [1164a] Ma, in quel caso, si è apprestata come misura comune la moneta, e, perconseguenza, tutto viene ad essa rapportato e con essa misurato. Invece, nell’amicizia amo-rosa talora l’amante si lamenta che, pur amando moltissimo, non è riamato, perché, [5] inqualche caso, non ha nulla di amabile; ma spesso è l’amato a lamentarsi, perché l’amanteprima gli ha promesso di tutto, ora non mantiene nulla. Ma tali cose succedono quandol’uno ama l’amato per il piacere, l’altro ama l’amante per l’utile, ma nessuno dei due ottieneciò che desidera. Se l’amicizia si fonda su questi motivi, la sua dissoluzione avviene [10]quando non si producono gli effetti in vista dei quali i due prima si amavano: non era, in-fatti, l’amico per se stesso che essi amavano, ma le soddisfazioni che ne derivavano, e que-ste non sono permanenti; è per questo che non sono permanenti neanche le amicizie. Inve-ce, l’amicizia fondata sui caratteri, poiché sussiste per se stessa, è permanente, come s’èdetto. Sorgono, poi, contrasti quando essi ottengono cose diverse e non quelle che deside-ravano: è come non ottenere niente, infatti, quando [15] non si ottiene ciò a cui si aspira,come è il caso di quel tale che promise ad un citaredo che la sua ricompensa sarebbe statatanto maggiore quanto meglio avesse cantato: al mattino, quando il citaredo reclamò ilmantenimento delle promesse, l’altro gli rispose di aver già dato piacere in cambio di piace-re. Orbene, se fosse stato il piacere ciò che ciascuno dei due voleva, sarebbe stato sufficien-te: ma se uno vuole un godimento, l’altro un guadagno, e l’uno l’ottiene [20] e l’altro no, lecondizioni del loro reciproco accordo non saranno in tal modo soddisfatte, giacché ciò a cuisi è interessati è ciò di cui ci si trova ad aver bisogno, ed è per ottenerlo che si dà ciò che siha. Ma a chi spetta stabilire il valore, a chi dà o a chi riceve? In effetti, chi dà sembra che sirimetta a chi riceve. Il che, si dice, faceva anche Protagora: [25] quando insegnava qualco-sa, invitava il discepolo a fare una stima di quanto riteneva che valesse ciò che aveva impa-rato, e tanto prendeva. Ma in simili circostanze alcuni approvano il detto "mercede all’uo-mo".

Ma quelli che prima prendono il denaro, e poi non fanno nulla di ciò che hanno promesso,perché le loro promesse sono esagerate, è naturale [30] che incorrano in accuse, perchénon portano a termine ciò che hanno concordato. Ma questo, forse, i Sofisti sono costretti afarlo, perché, se no, nessuno darebbe del denaro per quello che essi sanno. Costoro, dun-que, se non fanno ciò di cui hanno ricevuto la mercede, incorrono in accuse. Ma nei casi incui non c’è un accordo sulla remunerazione del servizio reso, coloro [35] che danno agliamici per loro stessi, come s’è detto, sono irreprensibili (di tal natura è, infatti, l’amiciziasecondo virtù), [1164b] e la ricompensa deve essere stabilita in conformità con la scelta(giacché è questa che è propria dell’amico e della virtù). E così sembra che ci si debba com-portare anche nei rapporti con chi ci mette a parte della filosofia, giacché il suo valore nonsi misura in denaro, né vi può essere un onore che ne uguagli il valore, ma [5] forse è suffi-ciente rendere ciò che si può, come si fa nei riguardi degli dèi e dei genitori. Ma se il dononon ha questa natura, bensì ha uno scopo interessato, è certo che è assolutamente necessa-rio che il contraccambio sia ritenuto da ambo le parti adeguato al valore del servizio reso; ese questo non avviene, non solo sarà ritenuto necessario che il valore lo stabilisca chi ha ri-cevuto per primo, [10] ma sarà anche giusto: se l’altro riceverà in compenso tanto quanto èstato l’utile o il piacere ottenuto da costui, avrà da lui ricevuto il giusto contraccambio. In-fatti, anche nelle merci in vendita è manifesto che avviene così, anzi in certi luoghi vi sono

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delle leggi che proibiscono processi relativi a contratti volontari, giacché si pensa che concolui al quale si è fatto credito ci si debba riconciliare [15] nei termini con cui si era conclu-so il contratto. Si pensa, infatti, che sia più giusto che il valore lo stabilisca colui di cui ci siè fidati, che non colui che ha avuto fiducia. La maggior parte delle cose, infatti, non sonovalutate allo stesso prezzo da chi le possiede e da chi vuole ottenerle: a ciascuno appaionodi grande valore le cose proprie e le cose che egli dà; ma, tuttavia, il contraccambio avvieneal prezzo stabilito [20] da chi acquista. Ma certo bisogna valutare la cosa non al prezzo cheappare adeguato quando la si ha, bensì al prezzo a cui la si valuta prima di possederla.

2. [II dovere nei vari tipi di amicizia].

Anche quanto segue comporta un’aporia: per esempio, è al proprio padre che bisogna attri-buire tutto ed ubbidire in tutto, oppure, quando si è malati, è al medico che bisogna dar fi-ducia, e, quando c’è da eleggere un generale, è l’uomo abile in guerra che si deve eleggere?[25] Allo stesso modo, è all’amico, o piuttosto all’uomo di valore che si devono rendere ser-vigi? Bisogna dimostrare riconoscenza al benefattore, o, piuttosto, fare un dono al camera-ta, quando non siano possibili insieme entrambe le cose? Non è forse vero che non è faciledefinire con precisione tutte le questioni di questo tipo? Esse, infatti, presentano molte esvariate differenze per grandezza, piccolezza, bellezza e [30] necessità. Ma che non dobbia-mo concedere tutto alla medesima persona, è chiaro; e così pure che per lo più bisogna con-traccambiare i benefici piuttosto che fare dei piaceri ai camerati, come pure restituire unprestito a un creditore piuttosto che fare un dono ad un camerata. Ma, certamente, neppu-re questo sempre. Per esempio: uno, che è stato liberato dietro riscatto dai rapitori, [35] de-ve a sua volta riscattare colui che l’ha liberato, chiunque egli sia, ovvero [1165a] deve resti-tuirgli il prezzo del riscatto, se quello lo richiede anche senza essere stato rapito, oppure de-ve riscattare il proprio padre? Si riconoscerà, infatti, che si deve riscattare il proprio padrepiuttosto che se stessi, perfino. Come, dunque, s’è detto, in generale il debito va pagato, mase il donare si presenta superiore per nobiltà o per necessità, è verso questo che bisognapropendere. [5] Talvolta, infatti, non è neppure equo ricambiare chi ha beneficato per pri-mo: ciò avviene quando, da una parte, c’è uno che benefica chi egli sa che è uomo di valore,dall’altra, c’è uno il cui contraccambio andrebbe a chi egli ritiene che sia malvagio. Talvol-ta, poi, non si è tenuti a fare un prestito neppure per ricambiare chi ce ne ha fatto uno perprimo: costui, infatti, ha fatto il prestito ad una persona onesta, nella convinzione di essererimborsato, mentre l’altro non ha speranza di essere rimborsato [10] da un disonesto. Se,dunque, quello è veramente disonesto, la sua pretesa di un prestito non è equa; se, invece,non è disonesto ma è creduto tale, allora si riconoscerà che non si fa nulla di strano a rifiu-tare il prestito. Orbene, come s’è detto spesso, le teorie sulle passioni e sulle azioni hannola medesima determinatezza degli oggetti su cui vertono. Che, dunque, non si deve restitui-re a tutti le stesse cose, [15] che non si deve concedere tutto neppure al proprio padre, co-me neanche a Zeus si offrono tutti i sacrifici, è chiaro: ma, poiché diversi sono i servigi do-vuti ai genitori, ai fratelli, ai camerati, ai benefattori, bisogna attribuire a ciascuno quelliche gli sono appropriati e confacenti. E così si fa, manifestamente: alle nozze si invitano iparenti, perché questi hanno in comune la stirpe [20] e, per conseguenza, tutte le azioniche la riguardano; anche ai funerali si pensa che siano soprattutto i parenti che devono in-tervenire, per la medesima ragione. Si riconoscerà che i figli devono soprattutto provvederealla sussistenza dei genitori, poiché sono loro debitori, e perché è più bello in queste coseprovvedere agli autori della propria esistenza che a se stessi. Ai genitori, poi, bisogna tribu-tare onore come agli dèi, [25] ma non ogni tipo di onore: al padre, infatti, non si deve lostesso onore che alla madre, né quello dovuto ad un sapiente o a un generale, bensì quelloappropriato ad un padre, o, rispettivamente, ad una madre. E ad ogni anziano si deve ren-

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dere l’onore dovuto all’età, con l’alzarsi, il cedere il posto, e simili; ai camerati, invece, ed aifratelli si deve concedere totale libertà di espressione e [30] comunanza di tutti i beni. Aiparenti, ai membri della stessa tribù, ai concittadini e a tutti gli altri bisogna sforzarsi di at-tribuire sempre ciò che è loro appropriato, e discernere ciò che si conviene a ciascuna cate-goria di persone a seconda del grado di parentela, della virtù o dell’utilità. Orbene, il giudi-zio è facile quando si tratta di persone della medesima categoria, ma è più laborioso quan-do si tratta di persone di categorie diverse. Ma non [35] per questo si deve rinunciarvi; bi-sogna, invece osservare le distinzioni quanto si può.

3. [Rottura dell’amicizia].

C’è, poi, anche un’aporia che riguarda lo sciogliersi o no dell’amicizia [1165b] verso personeche non restano le stesse. Non è forse vero che non è affatto strano che le amicizie fondatesull’utilità e sul piacere si sciolgano, quando non si hanno più questi vantaggi? È di queivantaggi, infatti, che si era amici: venuti meno quelli, è naturale che non si ami più. Uno,poi, potrebbe lamentarsi, [5] se uno, amando per l’utilità o per il piacere, facesse finta diamare per il carattere. Come infatti abbiamo detto all’inizio, la maggior parte dei contrastitra gli amici nascono quando non sono amici nel modo in cui credono di esserlo. Orbene,quando uno si inganna e suppone di essere amato per il carattere, mentre l’altro non fa nul-la di simile, [10] deve incolpare se stesso; quando, invece, resta ingannato dalla simulazio-ne dell’altro, è giusto che accusi l’ingannatore, ancor più che se fosse un falsificatore di mo-neta, nella misura in cui l’oggetto della sua frode è più prezioso. Ma quando si accoglie nel-la propria amicizia uno che si ritiene buono, ma poi quello risulta malvagio e ce se ne accor-ge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse vero che non è possibile, dal momento che nonogni cosa è amabile, [15] ma solo ciò che è buono? E, poi, l’uomo malvagio non è degno diessere amato, e non si deve amarlo. Infatti, non bisogna essere amanti del vizio, né render-si simili al cattivo: si è poi detto che il simile è amico del simile. Bisogna, dunque, scioglierel’amicizia subito? Non è forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cuiperversità sia incorreggibile, mentre quelli che hanno la possibilità di raddrizzarsi si deveaiutarli ad emendare il carattere, [20] più che non a ricostruire il patrimonio, tanto piùquanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Tuttavia, si ammetterà che chi sciogliel’amicizia in questo caso non fa nulla di strano; infatti, non è di un uomo di tal fatta che eraamico; quindi, non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa. Ese, d’altra parte, rimane come è mentre l’altro diventa più virtuoso e cambia molto dal pun-to di vista della virtù, deve ancora trattare il primo come amico? Non bisogna forse ricono-scere che è impossibile? [25] Quando la distanza tra i due diventa grande, questo risultaparticolarmente evidente, come nel caso delle amicizie strette nell’infanzia: se, infatti, unorimane fanciullo nel ragionamento mentre l’altro è già un uomo maturo, come potrebberoessere amici, dal momento che ad essi non piacciono più le stesse cose e non provano più lestesse gioie e gli stessi dolori? Infatti, non hanno più l’uno per l’altro questi sentimenti,[30] e senza di essi, come dicevamo, non possono essere amici, giacché non è loro più pos-sibile vivere insieme. Ma di questo si è già parlato. Orbene, in tal caso, ci si deve comporta-re con l’altro non diversamente da come ci si comporterebbe se non fosse mai stato amico?Non si deve forse mantenere il ricordo della passata intimità, e, come pensiamo che si deb-ba far piacere più agli amici che agli estranei, così [35] non si deve forse concedere qualcheriguardo a coloro che amici sono stati, in ragione proprio della passata amicizia, quando larottura non è risultata da un eccesso di perversità?

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4. [I sentimenti dell’uomo verso se stesso e verso gli amici].

[1166a] I sentimenti di amicizia verso il prossimo, ed in base ai quali si definiscono le ami-cizie, sembrano derivare dai sentimenti che l’uomo ha verso se stesso. Infatti, definisconoamico chi vuole e fa il bene o ciò che gli appare tale per l’amico in se stesso, o chi vuole chel’amico esista e [5] viva per amore dell’amico stesso: è questo il sentimento che provano lemadri per i figli, e gli amici che hanno avuto dei dissapori. Altri definiscono amico chi pas-sa la sua vita con un altro ed ha i suoi stessi gusti, o chi prova dolori e gioie insieme con ilsuo amico: e questo succede soprattutto nel caso delle madri. Ed è con uno di questi ele-menti che [10] definiscono anche l’amicizia. Ciascuno di questi sentimenti l’uomo virtuosolo prova verso se stesso (e anche gli altri in quanto suppongono di essere virtuosi: ma, co-me s’è detto, misura di ciascun tipo d’uomo sembrano essere la virtù e l’uomo di valore).L’uomo virtuoso, infatti, concorda con se stesso, e desidera sempre le stesse cose con tuttal’anima. E, quindi, vuole [15] per se stesso ciò che è bene e tale gli appare, e lo fa (giacché èproprio dell’uomo buono praticare il bene in continuità) e a vantaggio di se stesso (a bene-ficio dell’elemento intellettivo che è in lui, elemento che si ritiene che costituisca ciascunodi noi): e vuole vivere e conservarsi, e che viva e si conservi soprattutto la parte con cui[20] pensa. Infatti, per l’uomo di valore è un bene esistere, e ciascuno vuole per sé il bene,ma nessuno sceglie di avere tutto a condizione di diventare un altro (giacché anche ora Diopossiede il bene), ma rimanendo ciò che è: e si ammetterà che ciascuno è, o è soprattutto,la sua parte pensante. L’uomo virtuoso, inoltre, vuole passare la vita con se stesso, giacchéciò gli fa piacere: infatti, [25] il ricordo delle azioni che ha compiuto gli è gradito, e le sueaspettative per il futuro sono buone, e le buone aspettative sono piacevoli. E la sua menteabbonda di oggetti da meditare. Inoltre, egli prova dolori e gioie soprattutto con se stesso:ogni volta, infatti, è la stessa cosa che gli procura dolore e piacere, e non una volta l’una,una volta l’altra, perché, per così dire, non si pente mai. Quindi, è perché il virtuoso prova[30] verso se stesso ciascuno di questi sentimenti, e perché li prova verso l’amico come ver-so se stesso (l’amico, infatti, è un altro se stesso), che si pensa che l’amicizia sia un senti-mento di questi, cioè che gli amici siano quelli che provano questi sentimenti. Si lasci per-dere per il momento se è o non è possibile amicizia verso se stessi; in base a quello che ab-biamo detto, si ammetterà, d’altra parte, [35] che l’amicizia sussiste in quanto ci sono dueo più termini, [1166b] e che il livello più alto dell’amicizia è simile all’amicizia verso se stes-si.

Quello che abbiamo detto, poi, capita manifestamente anche alla massa degli uomini, an-che se sono viziosi. Si può, quindi, dire che essi partecipano di questi sentimenti nella mi-sura in cui compiacciono a se stessi e si ritengono virtuosi? [5] È certo che nessuno che siacompletamente malvagio ed empio ne partecipa, neppure apparentemente. Quasi quasi,neppure negli uomini malvagi in generale si trovano tali sentimenti. Essi, infatti, sono di-scordi con se stessi, e desiderano cose diverse da quelle che in realtà vogliono, come gli in-continenti: scelgono, infatti, al posto delle cose che essi ritengono buone per loro, quellepiacevoli, che in realtà [10] sono dannose; altri, a loro volta, per viltà e pigrizia si astengo-no dal compiere le azioni che pur pensano essere le migliori per loro. Quelli, poi, che hannocompiuto molti terribili crimini e che sono odiati per la loro perversità, fuggono la vita e siuccidono. I malvagi cercano persone con cui passare il loro tempo, ma fuggono se stessi,[15] giacché si ricordano delle loro molte cattive azioni, anzi prevedono che ne commette-ranno altre di simili, se rimangono soli con se stessi, ma se ne dimenticano se sono in com-pagnia d’altri. Non avendo nulla di amabile, non provano alcun sentimento amorevole ver-so se stessi. Uomini simili, poi, non provano gioie e dolori in unità con se stessi, perché nel-la loro anima c’è la guerra civile, [20] e una parte, per la sua perversità, soffre quando siastiene da certe azioni, mentre l’altra ne gode, e una parte tira in un senso, l’altra in un al-tro, come per farli a pezzi. E se non proprio nello stesso tempo, perché non è possibile sof-frire e godere nello stesso tempo, ma almeno poco tempo dopo soffre perché ha goduto, e

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vorrebbe che non gli fossero risultate piacevoli le cose di cui ha goduto: [25] i malvagi, in-fatti, sono pieni di pentimento. L’uomo malvagio, quindi, manifestamente, non ha disposi-zioni amichevoli neppure verso se stesso, per il fatto che non ha nulla di amabile. Se, quin-di, questo stato d’animo è troppo miserando, bisogna fuggire con tutte le proprie forze lamalvagità e sforzarsi di essere virtuosi; così, infatti, si potrà essere amichevolmente dispo-sti verso se stessi e diventare amici di altri.

5. [La benevolenza].

[30] La benevolenza assomiglia ad un sentimento di amicizia, ma non è amicizia: la bene-volenza, infatti, può nascere anche verso chi non si conosce, e può rimanere nascosta, mal’amicizia no. Questo si è detto anche prima. Ma non è neppure una affezione. Infatti, nonha né tensione né desiderio, mentre l’affezione implica queste cose; e l’affezione si accom-pagna con l’intimità, [35] mentre la benevolenza nasce anche all’improvviso, come, peresempio, succede, anche nei riguardi degli atleti in gara: [1167a] si diventa, infatti, benevolinei loro riguardi e si fanno propri i loro desideri, ma non si condivide con loro alcuna azio-ne; come abbiamo detto, si diventa benevoli all’improvviso e si ama superficialmente.Quindi, la benevolenza sembra essere il principio dell’amicizia, come il principio dell’amo-re è il piacere derivante dalla vista: [5] nessuno ama, infatti, se prima non ha provato piace-re per l’aspetto dell’altro, ma chi gode dell’aspetto di un altro non è detto che necessaria-mente ami; ciò avviene, invece, quando ne sente la mancanza, se è lontano, e ne desidera lapresenza. Così pure, dunque, non è possibile essere amici se non si è cominciato a provaredella benevolenza, mentre provare benevolenza non significa ancora amare, giacché si vuo-le soltanto il bene di coloro verso cui si è benevoli, ma non si agirebbe insieme con loro,[10] né ci si darebbe da fare per loro. Perciò, metaforicamente, si potrà dire che essa è unaamicizia improduttiva, ma se dura nel tempo e giunge all’intimità diventa amicizia, ma nonquella fondata sull’utilità né quella fondata sul piacere, giacché neppure la benevolenza sifonda su di essi. Infatti, colui che ha ricevuto un beneficio [15] offre la sua benevolenza incambio di ciò che ha ricevuto, e fa ciò che è giusto; ma chi vuole la buona riuscita di un al-tro, nella speranza di ricavarne gran vantaggio, non sembra che abbia della benevolenzaper quella persona, ma piuttosto per se stesso, come pure non è suo amico, se gli è devotoper qualche motivo interessato. Insomma, la benevolenza sorge per la virtù e per un certovalore, quando una persona appaia ad un’altra [20] nobile o coraggiosa o qualcosa di simi-le, come abbiamo detto anche a proposito degli atleti in gara.

6. [La concordia].

Anche la concordia è, manifestamente, un sentimento di amicizia. È per questo che la con-cordia non è identità di opinioni: questa, infatti, può esserci anche tra uomini che non siconoscono fra di loro. Né si dice che sono concordi uomini che la pensano alla stessa ma-niera su un argomento qualsiasi, [25] per esempio sui fenomeni celesti (giacché non è unfatto di amicizia l’essere concordi su queste cose), ma si dice che nelle città vi è concordiaquando i cittadini la pensano alla stessa maniera a proposito dei loro interessi, e scelgono emettono in pratica le stesse cose, quelle che hanno comunitariamente giudicate opportune.Sono concordi, quindi, sulle cose da farsi, almeno su quelle importanti e che possono sod-disfare [30] le due parti o tutte le parti interessate. Per esempio, le città si dicono concordiquando tutti i cittadini ritengono opportuno che le cariche siano elettive, o che ci si allei

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con gli Spartani, o che Pittaco eserciti il potere per tutto il tempo che anch’egli lo voglia.Ma quando, di due rivali, ciascuno vuol essere lui ad esercitare il potere, come i due nelleFenicie, allora c’è la guerra civile: infatti, essere concordi non significa che l’uno e l’altro in-tendano la stessa cosa, qualunque essa sia; [35] si è bensì concordi quando l’uno e l’altrointendono che sia la stessa persona ad avere la stessa cosa, per esempio, quando sia il po-polo [1167b] sia la classe dirigente vogliono che siano i migliori a detenere il potere: in que-sto modo, infatti, tutti ottengono quello cui aspirano. Quindi, la concordia è manifestamen-te un’amicizia politica, come pure si dice comunemente, giacché riguarda gli interessi e ciòche serve a vivere. Tale concordia si trova [5] nella classe dirigente: i suoi appartenenti, in-fatti, sono concordi sia ciascuno con se stesso, sia gli uni con gli altri, poiché, per così dire,si tengono sul medesimo terreno (le volontà di tali uomini sono stabili e non rifluisconocontinuamente come l’Euripo), vogliono le cose giuste e vantaggiose, e a queste tendonoanche come comunità. Gli uomini cattivi non sono in grado di essere concordi, [10] comeanche di essere amici, se non per poco, perché tendono a prendersi di più degli altri, quan-do si tratta di vantaggi, ma a tenersi indietro quando si tratta di fatiche e di servizi pubbli-ci. Poiché ciascuno vuole per sé questi vantaggi, spia il prossimo e lo ostacola: e quando icittadini non se ne curano, il bene comune va in rovina. Succede, quindi, che tra di loro na-sce la guerra civile, [15] perché cercano di costringere gli uni gli altri a fare ciò che è giusto,mentre essi stessi non vogliono farlo.

7. [Benefattori e beneficati].

Si ritiene che i benefattori amino i beneficati più di quanto coloro che hanno ricevuto delbene amino coloro che l’hanno fatto, e, poiché, ciò accade contro ragione, se ne cerca il mo-tivo. Orbene, per la maggior parte degli uomini è manifesto [20] che il motivo è che gli unisono debitori e gli altri creditori: come, dunque, nel caso dei prestiti i debitori vorrebberoche non esistessero i creditori, mentre coloro che hanno concesso il prestito si preoccupanoanche della sopravvivenza dei debitori, così anche i benefattori vogliono che esistano i lorobeneficati per riceverne la riconoscenza, [25] mentre a questi non importa affatto pagare ilproprio debito. Orbene, Epicarmo, probabilmente, affermerebbe che essi dicono così "per-ché guardano le cose dal lato cattivo", ma ciò sembra umano, giacché i più hanno poca me-moria e aspirano a ricevere benefici piuttosto che a farne. Ma si ammetterà che la causa diciò si trova piuttosto a livello generale di natura, e che non è la stessa cosa che [30] nel casodel prestito. Nel caso loro, infatti, non c’è nessuna affezione, ma solo il desiderio che il de-bitore si conservi per recuperare il prestito. Invece, coloro che fanno del bene amano, anziamano profondamente i loro beneficati, anche se questi non sono loro di alcuna utilità népotranno esserlo in futuro. E questo succede anche nel caso degli artisti: ognuno, infatti,ama profondamente la propria opera, [35] più di quanto sarebbe amato dall’opera stessa sequesta diventasse un essere animato. [1168a] E questo succede soprattutto nel caso deipoeti: essi amano fin troppo profondamente le proprie composizioni, volendo loro bene co-me a dei figli. È quindi ad un caso simile che assomiglia quello dei benefattori: l’essere cheha ricevuto benefici da loro è una loro opera: per conseguenza, l’amano di più [5] di quantol’opera non ami chi l’ha fatta. La causa di ciò sta nel fatto che l’esistere è per tutti meritevo-le di scelta e di amore, e noi esistiamo in virtù di un’attività (in virtù, cioè, del vivere edell’agire), e chi ha fatto l’opera in certo qual modo esiste in virtù della sua attività: ama,quindi, la sua opera, perché ama la propria esistenza. E questo è naturale: infatti, ciò che èin potenza, l’opera lo rivela in atto. E, nello stesso tempo, [10] per il benefattore ciò che de-riva dalla sua azione è bello, cosicché egli gode di colui in cui questa si compie, mentre perchi riceve non c’è nulla di bello in chi gli ha fatto il beneficio, ma, se mai, qualcosa di utile:e questo è meno piacevole ed amabile. E, poi, ciò che piace del presente è l’attività, del futu-

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ro la speranza, del passato il ricordo: ma ciò che piace di più [15] e di più si ama, è l’attività.Ora, per chi ha fatto del bene, l’opera rimane (giacché il bello dura molto tempo), ma perchi l’ha ricevuto, l’utilità passa. E il ricordo delle cose belle è piacevole, mentre quello dellecose utili non lo è affatto, o lo è meno; quanto all’attesa, sembra che avvenga il contrario. El’amare assomiglia ad un fare, l’essere amati [20] ad un subire: per conseguenza, a chi è su-periore nell’azione si accompagnano naturalmente l’amore ed i sentimenti di amicizia.Inoltre, tutti gli uomini amano di più ciò che hanno ottenuto con fatica: per esempio, colo-ro che hanno personalmente conquistato la ricchezza l’amano di più di quelli che l’hannoereditata; ma si riconosce che ricevere del bene non costa fatica, mentre farlo comportauno sforzo. Per queste ragioni, [25] anche, sono le madri che amano di più i figli: la genera-zione, infatti, è per loro più faticosa e dolorosa, ed esse sanno meglio che i figli sono loro. Siammetterà che questo sentimento è proprio anche dei benefattori.

8. [L’amore per se stessi].

C’è, poi, un’altra questione: si deve amare soprattutto se stessi o un’altra persona? Infatti,coloro che amano soprattutto se stessi sono biasimati [30] e sono chiamati, in senso dispre-giativo, egoisti, e si ritiene comunemente che l’uomo malvagio faccia tutto nell’interesse dise stesso, e tanto più quanto più è perverso (e perciò lo accusano, per esempio, di non farnulla da sé). L’uomo virtuoso, invece, agisce per la bellezza morale, e tanto più per la bellez-za quanto più è virtuoso, e a favore dell’amico, [35] mentre trascura il proprio interesse.Ma con queste teorie contrastano i fatti, [1168b] e non senza ragione. Dicono, infatti, chebisogna amare più di tutto chi è più di tutti amico, ed è amico più di tutti chi, quando vuoleil bene di qualcuno, lo vuole proprio per lui, anche se nessuno lo verrà a sapere: ma questisentimenti si incontrano soprattutto nel rapporto dell’uomo con se stesso, e, quindi, anchetutte le altre caratteristiche [5] in base alle quali si definisce l’amico. S’è già detto, infatti,che tutti i sentimenti d’amicizia hanno origine dall’uomo e poi si estendono agli altri. Maanche i proverbi sono tutti della stessa opinione: per esempio, "un’anima sola", "le cose de-gli amici sono comuni", "amicizia è uguaglianza", "il ginocchio è più vicino della gamba".Tutto questo, infatti, si applica soprattutto al rapporto con se stessi, giacché [10] si è amicisoprattutto di se stessi: per conseguenza, si deve anche amare soprattutto se stessi. Sorge,quindi, naturalmente il problema di decidere quale delle due correnti bisogna seguire, dalmomento che entrambe hanno qualcosa di plausibile.

Orbene, si devono certamente distinguere tali teorie le une dalle altre e determinare fino ache punto ed in che senso le une e le altre colgono la verità. Se, dunque, riusciamo ad affer-rare in che senso gli uni e gli altri intendono il termine "egoista", forse ciò diventerebbechiaro. [15] Orbene, quelli che usano il termine in senso ingiurioso chiamano egoisti coloroche attribuiscono a se stessi la parte maggiore in fatto di ricchezza, di onori e di piaceri cor-porali: queste sono, infatti, le cose che i più desiderano e per le quali si danno da fare, con-siderandole beni supremi, ragion per cui ci sono anche delle contese. Quindi, quelli che sene prendono una parte più grande indulgono [20] ai desideri ed in genere alle passioni,cioè all’elemento irrazionale dell’anima. Tale è la maggior parte degli uomini; ed è per que-sto che l’appellativo di "egoista" deriva dalla massa, che è cattiva: è quindi giusto che quelliche sono egoisti in questo modo vengano biasimati. Che poi sia la massa che è solita chia-mare egoisti quelli che attribuiscono le cose suddette a se stessi, è chiaro; [25] se, infatti,uno si sforza sempre di compiere azioni giuste, lui più di ogni altro, oppure azioni tempe-ranti o qualunque altro tipo di azione conforme alle virtù, ed in genere riserva sempre a séciò che è bello, nessuno lo chiamerà egoista né lo biasimerà.

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Ma si riconoscerà che un tale uomo è "egoista" più dell’altro: in ogni caso, attribuisce sem-pre a sé le cose più belle [30] e i beni più autentici, e compiace alla parte più autorevole dise stesso, e le ubbidisce in tutto: ma come anche una città, ed ogni altro organismo, si pen-sa che sia soprattutto la sua parte più autorevole, così anche l’uomo; e, quindi, è "egoista"soprattutto chi ama questa sua parte e le compiace. Ed il continente e l’incontinente pren-dono il nome [35] dal fatto che l’intelletto sia dominante oppure no, perché si intende checiascuno è il suo intelletto: [1169a] e si ritiene che siamo stati proprio noi a fare, cioè cheabbiamo fatto volontariamente, soprattutto le azioni accompagnate da ragione. Che dun-que ciascuno è, o è soprattutto, questa parte, è chiaro, ed è chiaro che l’uomo virtuoso amasoprattutto questa parte di sé. Perciò sarà lui l’autentico "egoista", ma di una specie diversada quella di colui che viene biasimato, ed è tanto differente [5] da quello quanto il vivere se-condo ragione lo è dal vivere secondo passione, e quanto desiderare ciò che è bello differi-sce dal desiderare ciò che si ritiene utile. Orbene, quelli che si danno particolarmente da fa-re per le azioni belle, tutti li approvano e li lodano: e se tutti gareggiassero per ciò che è mo-ralmente bello e si sforzassero di compiere le azioni più belle, dal punto di vista della comu-nità, [10] tutto sarebbe come dovrebbe essere, e, dal punto di vista privato, ciascuno avreb-be i beni più grandi, se è vero, come è vero, che la virtù è un bene.

Cosicché l’uomo buono deve essere "egoista" (e, infatti, se compirà buone azioni, trarràvantaggio lui stesso e gioverà agli altri); ma non deve esserlo il malvagio, giacché danneg-gerà se stesso ed il prossimo, perché segue passioni cattive. [15] Nell’uomo malvagio c’èdunque disaccordo tra ciò che deve fare e ciò che fa; l’uomo virtuoso, invece, fa quello chedeve fare: ogni intelletto, infatti, sceglie ciò che per lui è la cosa migliore, e l’uomo virtuosoubbidisce al suo intelletto. Ed è vero dell’uomo virtuoso che egli compie molte azioni in fa-vore dei suoi amici e della patria, anche se dovesse [20] morire per loro: egli, infatti, la-scerà ricchezza, onori ed in genere i beni che sono oggetto di contesa, riservando a se stes-so ciò che è bello. Preferirà, infatti, godere intensamente per poco tempo piuttosto che de-bolmente per molto, e vivere in bellezza un solo anno piuttosto che molti anni in qualchemodo, e compiere una sola grande e bella azione piuttosto che molte [25] piccole azioni.Certo, è questo risultato che ottengono coloro che sacrificano la propria vita: ciò che scelgo-no per sé è, quindi, qualcosa di grande e di bello. E darebbero la loro ricchezza purché gliamici ne acquistassero una più grande, giacché l’amico ottiene ricchezza, e lui ciò che è bel-lo: per conseguenza, il bene più grande lo attribuisce a sé. E per quanto riguarda onori e ca-riche [30] è la stessa cosa: li lascerà, infatti, tutti all’amico; questo è bello per lui e degno dilode. Per conseguenza, è giusto che sia giudicato uomo di valore, dal momento che preferi-sce ciò che è bello ad ogni altra cosa. Ed è possibile che egli lasci all’amico anche le azioni, epuò essere più bello per lui offrire all’amico l’occasione di agire, piuttosto che agire lui stes-so. Quindi, in tutte le cose [35] degne di lode l’uomo di valore, manifestamente, attribuiscea se stesso la parte maggiore di ciò che è bello. [1169b] In questo modo, dunque, si deve es-sere "egoisti", come s’è detto: ma non bisogna esserlo come lo è la massa.

9. [Anche l’uomo felice ha bisogno di amici].

Si discute, poi, anche se l’uomo felice abbia bisogno di amici, oppure no. Si dice, infatti, chegli uomini felici [5] ed autosufficienti non hanno per niente bisogno di amici, perché essipossiedono il bene: essendo, quindi, autosufficienti, non hanno bisogno di nessuno, men-tre l’amico, essendo un altro se stesso, fornisce ciò che un uomo non può ottenere da sé. Diqui il detto: "quando la fortuna è favorevole, che bisogno c’è di amici". D’altra parte, sem-bra assurdo attribuire all’uomo felice tutti i beni e non attribuirgli gli amici, il che [10] è ge-neralmente ritenuto il più grande dei beni esteriori. Ma se è proprio dell’amico fare piutto-

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sto che ricevere il bene, e se è proprio dell’uomo buono e della virtù il beneficare, ed è piùbello fare del bene ad amici che ad estranei, l’uomo di valore avrà bisogno di persone chericevono i suoi benefici. È per questo che ci si chiede anche se è nella buona o nella cattivasorte che si ha più bisogno di amici, [15] perché si pensa che chi si trova in cattive acque habisogno di chi gli faccia del bene, e che coloro che sono nella prosperità hanno bisogno dipersone cui fare del bene. Ma è certo assurdo fare dell’uomo felice un solitario: nessuno, in-fatti, sceglierebbe di possedere tutti i beni a costo di goderne da solo: l’uomo, infatti, è unessere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri. Questa caratteristica, quin-di, appartiene anche all’uomo felice: egli, infatti, [20] possiede le cose che sono buone pernatura, ed è chiaro che è meglio passare le proprie giornate insieme con amici e con perso-ne virtuose, piuttosto che con estranei e con i primi che capitano. L’uomo felice, dunque,ha bisogno di amici.

Che cosa, dunque, intendono dire i sostenitori della prima opinione ed in che modo colgo-no la verità? Non intendono forse dire che la massa considera amici quelli che sono utili?Orbene, l’uomo beato non avrà affatto bisogno di amici utili, [25] dal momento che i beni liha già; per conseguenza, non avrà bisogno degli amici neppure per ricavarne piacere, oppu-re poco (essendo, infatti, la sua vita già piacevole, non ha affatto bisogno di un piacere ag-giunto dall’esterno); ma poiché non ha bisogno di simili amici, si pensa che non abbia biso-gno di amici affatto. Il che certamente non è vero. All’inizio, infatti, si è detto che la felicitàconsiste in un’attività, ma è chiaro che l’attività [30] è un divenire e non è come un posses-so stabile. Ma se l’essere felici consiste nel vivere e nell’esercitare una certa attività, e l’atti-vità dell’uomo buono ha valore ed è piacevole per se stessa, come s’è detto all’inizio, se an-che ciò che ci è proprio ci fa piacere, e se noi possiamo contemplare coloro che ci stanno vi-cini meglio che noi stessi, e le loro azioni meglio [35] che non le nostre, se le azioni degliuomini di valore che ci sono amici [1170a] sono piacevoli per gli uomini buoni (giacché pos-seggono insieme entrambe le qualità che sono piacevoli per natura), allora l’uomo feliceavrà bisogno di tali amici, se è vero che desidera più di tutto contemplare azioni virtuose eche gli sono proprie, e se e vero che tali sono le azioni dell’uomo buono che gli è amico.

Si pensa, inoltre, che l’uomo felice debba vivere piacevolmente. [5] Orbene, per l’uomo soli-tario la vita è difficile, perché non è facile esercitare un’attività in continuazione da soli, maè più facile farlo in compagnia di altri ed in rapporto ad altri. L’attività sarà, dunque, piùcontinua, essendo di per sé piacevole, come deve essere per l’uomo felice. L’uomo di valore,infatti, in quanto è uomo di valore, gode delle azioni conformi a virtù, mentre soffre per leazioni derivanti dal vizio, [10] come il musico gode delle belle melodie, ma prova pena perquelle cattive. E dalla vita in compagnia con gli uomini buoni può derivare pure un certoesercizio della virtù, come dice anche Teognide. Se si guarda più a fondo nella natura, sem-bra proprio che l’amico di valore sia per natura desiderabile per un uomo di valore. [15] S’èdetto, infatti, che ciò che è buono per natura risulta per se stesso buono e piacevole all’uo-mo di valore. La vita, poi, viene definita, nel caso degli animali, con la capacità della sensa-zione, nel caso degli uomini con quella della sensazione o del pensiero: ma la potenza si de-finisce in riferimento all’atto, e l’essenziale sta nell’atto: per conseguenza, il vivere sembraconsistere essenzialmente nel sentire o nel pensare. Ma il vivere è [20] una cosa buona epiacevole per sé, perché è un che di determinato, e ciò che è determinato ha la stessa natu-ra del bene: ma ciò che è buono per natura lo è anche per l’uomo virtuoso, e perciò sembrapiacevole a tutti. Ma non si deve prendere in considerazione una vita perversa e corrotta,né una vita immersa nel dolore, giacché tale vita è indeterminata, come lo sono i suoi attri-buti. [25] Nella trattazione successiva si farà maggior chiarezza sulla natura del dolore. Sel’atto stesso del vivere è buono e piacevole (sembra che sia così anche dal fatto che tutti lodesiderano, e soprattutto gli uomini virtuosi e beati; per questi, infatti, la vita è somma-mente desiderabile, e la loro vita è la più beata); se chi vede ha coscienza di vedere e chiode ha coscienza di udire, [30] e chi cammina di camminare, e se allo stesso modo negli al-

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tri casi c’è qualcosa che ha coscienza che noi siamo attivi, cosicché noi abbiamo coscienzadi sentire, se sentiamo, e di pensare, se pensiamo, ed aver coscienza di sentire o di pensaresignifica aver coscienza di esistere (giacché l’esistere, come abbiamo detto, significa sentireo pensare); [1170b] se l’aver coscienza di vivere è piacevole per se stesso (la vita, infatti, èun bene per natura, ed avere coscienza del bene presente in noi è piacevole); se la vita è de-siderabile, e lo è soprattutto per gli uomini buoni, perché per loro esistere è cosa buona epiacevole (giacché prendere coscienza [5] di ciò che è buono per sé dà loro godimento); sel’uomo di valore è disposto nei riguardi degli amici come verso se stesso (giacché l’amico èun altro se stesso): se è vero tutto questo, come la propria esistenza è per ciascuno deside-rabile, così, o pressappoco, lo è anche quella dell’amico.

Dicevamo che l’esistere è desiderabile per il fatto che si ha coscienza di essere buoni, e tale[10] coscienza è piacevole per se stessa. Dunque, bisogna prendere coscienza, oltre che del-la nostra esistenza, anche di quella dell’amico, e questo può verificarsi se si vive insieme,cioè se si ha comunione di discorsi e di pensiero: in questo, infatti, si ammetterà che consi-ste il vivere insieme, nel caso degli uomini, e non, come nel caso delle bestie, nel prendereil cibo nello stesso luogo. Se, quindi, per l’uomo beato l’esistenza [15] è desiderabile per sestessa, in quanto è cosa buona e piacevole per natura, e se lo è in modo pressoché ugualeanche quella dell’amico, anche l’amico sarà desiderabile. E ciò che per lui è desiderabile, bi-sogna che lo abbia, se no, da questo punto di vista, egli risulterà manchevole. Per essere fe-lici, dunque, ci sarà bisogno di amici di valore.

10. [Il numero degli amici].

[20] In conclusione, dobbiamo farci il più gran numero possibile di amici, ovvero, come nelcaso dell’ospitalità, si ritiene che sia stato giudiziosamente detto "non un uomo dai moltiospiti, né un uomo senza ospiti", e si adatterà anche al caso dell’amicizia il consiglio di nonessere senza amici né averne in numero eccessivo? Si riconoscerà certo che questo detto siadatta molto bene a coloro che sono amici in vista di un’utilità, [25] giacché contraccambia-re servigi a molti è assai faticoso, e per farlo non basta la vita intera. Quindi, amici in nu-mero superiore a quanti bastano alla nostra vita sono superflui e sono d’ostacolo al viverbene: non c’è, dunque, alcun bisogno di loro. Anche di quelli che sono amici in vista delpiacere ne bastano pochi, come il condimento nel cibo. Ma quanto agli amici di valore, bi-sogna averne [30] nel più gran numero possibile, o c’è una misura determinata anche perla quantità degli amici come per quella degli abitanti di una città? Infatti, non si potrà fareuna città con dieci uomini, e con centomila non è più una città: ma certo la loro quantitànon è data da un singolo numero determinato, bensì da un numero qualsiasi entro certi li-miti. Anche il numero degli amici, [1171a] per conseguenza, è compreso entro certi limiti, ecertamente saranno al massimo tanti con quanti è possibile vivere insieme (giacché questa,abbiamo detto, si ritiene la cosa più tipica dell’amicizia); ma è evidente che non è possibilevivere insieme con molti e dividersi tra di loro. Inoltre, anche quelli devono essere amici gliuni degli altri, se hanno intenzione [5] di trascorrere le loro giornate tutti insieme in com-pagnia: ed è laborioso realizzare ciò tra molte persone. Ma è difficile anche gioire e soffrireinsieme con molte persone con familiarità, giacché è naturale che capiti nello stesso tempodi condividere la gioia dell’uno ed il cordoglio dell’altro. Dunque, è certo bene non cercaredi avere un gran numero di amici, ma soltanto quanti [10] bastano per vivere insieme: siammetterà, infatti, che non è possibile essere molto amici di numerose persone. È per que-sto che non è possibile amare più persone alla volta: l’amore, infatti, vuol essere una speciedi amicizia portata all’eccesso, ma questo avviene nei riguardi di una sola persona: dunque,anche l’amicizia profonda può essere rivolta solo a poche persone. Sembra che le cose stia-

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no così anche nei fatti, giacché non si diventa amici in molti, quando si tratta di un’amiciziatra camerati, [15] e le amicizie cantate dai poeti sono amicizie tra due persone. Ma coloroche hanno molti amici e trattano tutti con familiarità si ritiene che non siano amici di nes-suno (a meno che non si tratti di amicizia tra concittadini), e ad essi si dà il nome di com-piacenti. Se si tratta, dunque, di rapporti tra concittadini è possibile essere amici di moltepersone, senza essere compiacenti, ma veramente virtuosi: ma un’amicizia che si fondi sul-la virtù e sulle qualità della persona non è possibile che si rivolga [20] a molti, e bisognacontentarsi di trovarne anche pochi di amici simili.

11. [Gli amici sono desiderabili in tutte le circostanze].

C’è più bisogno di amici nella buona o nella cattiva sorte? Si ricercano amici, infatti, in en-trambe le situazioni: coloro che si trovano nelle avversità hanno bisogno di aiuto, e gli uo-mini fortunati hanno bisogno di persone con cui vivere ed alle quali fare del bene, dal mo-mento che essi vogliono fare del bene. Dunque, l’amicizia è più necessaria [25] nelle avver-sità, ed è perciò che si ha bisogno, allora, di amici utili, ma è più bella nella buona sorte, edè perciò che allora si cercano amici virtuosi, giacché è preferibile beneficare uomini virtuosie vivere in loro compagnia. Infatti, anche la presenza stessa degli amici è piacevole sia nellabuona sia nella cattiva sorte. Infatti, quando si soffre, si resta sollevati [30] se gli amici sof-frono con noi. Perciò, si potrebbe porre la questione se ciò accade perché, per così dire, gliamici prendono su di sé una parte del nostro fardello, oppure non per questo, ma perché laloro presenza, che è piacevole, ed il pensiero che soffrono con noi rendono minore il nostrodolore. Se, dunque, si resta sollevati per queste ragioni o per qualche altro motivo, lascia-mo stare: in ogni caso è manifesto che accade quello che abbiamo detto. Ma sembra che[35] la loro presenza procuri un piacere misto. Da una parte, infatti, la vista stessa [1171b]degli amici è piacevole, specialmente per chi si trova nell’avversità, e ne deriva un aiutocontro il dolore (l’amico, infatti, è una consolazione sia col farsi vedere sia col parlarci, se èun uomo garbato: egli conosce il nostro carattere e sa ciò che ci fa piacere e ciò che ci addo-lora). D’altra parte, vedere che soffre [5] per le nostre disgrazie è penoso: ogni uomo, infat-ti, evita di essere causa di dolore agli amici. È per questo che chi ha natura virile si guardabene dal far partecipare gli amici al proprio dolore, e, a meno che non superi ogni limite disventura, non sopporta di provocar loro una sofferenza, anzi, in generale, non tollera chealtri lo compatisca, per il fatto che egli stesso non [10] è portato a compatire: sono le don-nette, e gli uomini ad esse simili, che hanno piacere se altre persone si lamentano con loro,e le amano come amiche e come compagne nel dolore. Ma è chiaro che in tutte le cose biso-gna imitare l’uomo migliore. La presenza degli amici nella buona sorte, invece, ci fa tra-scorrere piacevolmente il tempo, e ci dà il piacevole pensiero che essi godono dei nostri be-ni. [15] Perciò si può ritenere che noi dobbiamo sollecitamente invitare gli amici a parteci-pare alla nostra buona sorte (ché è bello comportarsi da benefattori), ma esitare a chiamar-li nella cattiva: bisogna, infatti, farli partecipare il meno possibile ai nostri mali. Di qui ildetto: "Basto io ad essere infelice!". Invece, bisogna fare appello a loro, soprattutto quandopossono renderci un grande servigio senza grande molestia per loro. [20] Viceversa, con-viene senza dubbio che noi andiamo a soccorrere gli amici sfortunati senza farci chiamare,e sollecitamente (giacché è proprio di un amico far il bene, e soprattutto a coloro che si tro-vano nel bisogno, anche se non pretendono nulla: per entrambi, infatti, è più bello e piùpiacevole). Quando sono nella prosperità, invece, bisogna andare da loro sollecitamente sesi ha intenzione di collaborare alla loro attività (anche per questo, infatti, c’è bisogno diamici), ma senza fretta se si intende riceverne dei benefici: [25] non è bello, infatti, mo-strarsi impazienti di ricevere dei servigi. Ma, senza dubbio, nel rifiutare, dobbiamo evitaredi farci giudicare villani: talora succede. In conclusione, la presenza degli amici è manife-

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stamente desiderabile in tutte le circostanze.

12. [L’amicizia è comunione di vita].

Non bisogna, dunque, dire che, come per gli innamorati la vista dell’amato è la cosa cheamano di più, [30] e come essi preferiscono il senso della vista a tutti gli altri, perché è perquesto senso soprattutto che l’amore sussiste e sorge, così anche per gli amici la cosa piùdesiderabile è il vivere insieme? L’amicizia, infatti, è una comunione, ed il sentimento chesi ha per se stessi, si ha anche per l’amico: la coscienza della propria esistenza è desiderabi-le, e lo è, per conseguenza anche quella [35] dell’amico; ma questa coscienza è in atto nelvivere insieme, [1172a] cosicché è naturale che a questo si tenda. E per ciascun tipo di uo-mini, qualunque sia per loro il senso dell’esistenza, ovvero ciò per cui per loro la vita è desi-derabile, è in questo che essi vogliono trascorrere il tempo in compagnia degli amici. E perquesto che alcuni bevono insieme, altri giocano insieme ai dadi, altri fanno ginnastica ecacciano insieme [5] o fanno filosofia insieme, e che trascorrono insieme le giornate, cia-scuno dedito a ciò che ama più di tutto nella vita: volendo, infatti, vivere insieme con gliamici, fanno e mettono in comune le cose in cui, secondo loro, consiste la vita. Quindi,l’amicizia dei cattivi risulta perversa (infatti, essendo instabili, mettono in comune cose cat-tive, e [10] diventano perversi rendendosi sempre più simili gli uni agli altri); l’amicizia, in-vece, degli uomini virtuosi è virtuosa, e cresce col loro frequentarsi. Si ritiene, poi, che di-ventino anche migliori col mettere in atto l’amicizia, cioè correggendosi a vicenda: essi, in-fatti, si modellano l’uno sull’altro, imitando le qualità che loro piacciono; di qui il detto:"Da uomini nobili, nobili azioni". Sull’amicizia, dunque, [15] basti quanto s’è fin qui detto.Il piacere sarà oggetto della trattazione seguente.

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Libro X

1. [Il piacere: teorie e fatti].

Deve a ciò far seguito la trattazione del piacere. [20] Si pensa comunemente che il piaceresia strettissimamente connaturato al genere umano, ragion per cui si educano i giovani go-vernandoli col piacere e col dolore; si ritiene, inoltre, che anche per la virtù del carattere siadella massima importanza godere di ciò che si deve, e odiare ciò che si deve. Infatti, piaceree dolore si estendono per tutta la durata della vita, ed hanno gran peso e grande influenzasulla virtù e sulla vita felice: [25] si scelgono, infatti, le cose piacevoli, e si fuggono quelledolorose. Si ammetterà che non si può proprio sorvolare su argomenti di tale importanza,che sono oggetto, oltre tutto, anche di molte controversie. Infatti, alcuni affermano che ilpiacere è il bene, altri, al contrario, che esso è affatto cattivo, e di questi ultimi alcuni, cer-to, perché sono persuasi che sia proprio così, altri perché pensano [30] che sia meglio perla nostra vita morale mostrare il piacere come una cosa cattiva, anche se non lo è: la massainclina ad esso ed è schiava dei piaceri, e perciò bisogna condurla nella direzione opposta;così potrà arrivare proprio nel giusto mezzo. Ma, probabilmente, questa non è una buonatesi. Infatti, per quanto riguarda le passioni [35] e le azioni, le teorie sono meno persuasivedei fatti; le teorie, quindi, quando sono in disaccordo con i fatti constatati, vengono consi-derate con disprezzo e [1172b] coinvolgono nel discredito anche la verità. Se, infatti, coluiche biasima il piacere viene una volta visto mentre tende anche lui ad un piacere, si pensache egli inclini ad esso, perché, secondo lui, ogni piacere è degno di essere perseguito: faredistinzioni, infatti, non è cosa per la massa! Sembra, dunque, che, quando le teorie sono ve-ritiere, [5] sono utilissime non solo per il sapere, ma anche per la vita: infatti, poiché si ar-monizzano con i fatti, vengono accolte con convinzione, ed è per questo che riescono a sti-molare coloro che hanno giudizio a vivere in conformità con esse. Ciò posto, basta con taliconsiderazioni: esaminiamo ora le opinioni espresse sul piacere.

2. [La teoria di Eudosso e la critica di Speusippo].

Orbene, Eudosso pensava che il piacere è il bene per queste ragioni: [10] (1) vediamo chetutti i viventi, sia quelli razionali sia quelli irrazionali, tendono ad esso; ma in tutti i casi ciòche è desiderato è il bene, e ciò che è desiderato più di tutto è il massimo bene; quindi, ilfatto che tutti i viventi siano portati al medesimo oggetto indica che per tutti questo è ilsommo bene (ciascun essere vivente, infatti, trova ciò che è bene per lui, come trova il suonutrimento), ma ciò, che è bene per tutti, cioè ciò verso cui tutti tendono, [15] è il bene pereccellenza. Le sue teorie, poi, ottenevano credito più per la virtù del suo carattere che perse stesse: veniva considerato, infatti, eccezionalmente temperante, e, quindi, si pensavache egli facesse queste affermazioni non perché amico lui stesso del piacere, ma perché lecose stanno in verità proprio così. (2) Inoltre, pensava che ciò risulti non meno evidente inbase all’argomento del contrario: infatti, diceva, il dolore di per sé è per tutti un oggetto dafuggire; [20] dunque, il suo contrario è parimente per tutti qualcosa di desiderabile. (3) Emassimamente desiderabile è ciò che noi non desideriamo per qualcos’altro, né in vista diqualcos’altro. Tale oggetto è, per unanime consenso, il piacere: infatti, nessuno chiede ache scopo si gode, considerando che il piacere è desiderabile per se stesso. (4) Infine, qua-lunque sia il bene cui si aggiunge, per esempio, [25] all’agire con giustizia e con temperan-za, il piacere lo rende più desiderabile; ma il bene resta accresciuto solo da se stesso.Quest’ultimo argomento, quindi, almeno così com’è, sembra mettere in chiaro che il piace-

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re è uno dei beni, e per niente maggiore di un altro: infatti, ogni bene è più degno di sceltase è accompagnato da un altro bene che non se resta solo.

Orbene, è con un ragionamento di questo tipo che Platone dimostra che il piacere non è ilbene. Infatti, egli dice, [30] la vita di piacere è più desiderabile unita alla saggezza che nonseparata da essa, e se la vita mista è migliore, il piacere non è il bene, giacché nessuna cosaaggiunta al bene può renderlo più desiderabile. Ma è chiaro che il bene non sarà alcun’altracosa che diventi più desiderabile se si accompagna a qualcosa che è bene di per sé. Che co-sa dunque è questa natura, di cui anche [35] noi partecipiamo? È una cosa di questo genereche stiamo cercando.

(1) E coloro i quali obiettano non essere vero che è bene ciò a cui tutte le cose tendono, nondicono nulla di sensato. [1173a] Infatti, ciò che è ammesso da tutti noi affermiamo che è ve-ro: e colui che rifiuta questa convinzione non troverà cose molto più convincenti da dire.Se, infatti, gli esseri privi di ragione fossero i soli a desiderare i piaceri, l’obiezione avrebbesenso, ma se li desiderano anche gli esseri dotati di ragione, come può aver senso l’obiezio-ne? E poi, forse, anche negli esseri inferiori c’è un qualche istinto naturale e buono, [5] piùforte di quanto essi siano per se stessi, che li fa tendere al bene proprio della loro specie.

(2) E non sembra che affrontino correttamente neppure l’argomento del contrario. Non èvero, dicono, che se il dolore è male, il piacere è bene: infatti anche un male può contrap-porsi ad un male, ed entrambi possono contrapporsi a ciò che non è né male né bene. In ciònon hanno torto, ma non colgono la verità, almeno non a proposito di ciò di cui stiamo par-lando. [10] Se, infatti, piacere e dolore fossero entrambi dei mali, dovrebbero essere en-trambi da fuggire; se, invece, non fossero né bene né male, nessuno dei due dovrebbe esse-re fuggito, oppure dovrebbero esserlo entrambi allo stesso modo. Ora, è evidente che gliuomini fuggono il dolore come un male, e che desiderano il piacere come un bene: dunque,piacere e dolore si contrappongono come bene e male.

3. [La teoria di Speusippo e sua confutazione].

(3) Certo, non è neppure vero che se il piacere non è una qualità, non è, per questo, neppu-re un bene: infatti, neppure [15] le attività della virtù sono delle qualità e nemmeno la feli-cità.

(4) Ma, dicono, il bene è determinato, mentre il piacere è indeterminato, perché ammette ilpiù ed il meno. Orbene, se fondano questo giudizio sul fatto che si può provare più o menopiacere, lo stesso varrà anche per la giustizia e le altre virtù, a proposito delle quali diconoesplicitamente che i virtuosi sono tali di più o di meno, [20] e agiscono più o meno in con-formità con le virtù: infatti, ci sono uomini più giusti e più coraggiosi, ed è possibile com-portarsi da giusti ed essere saggi in misura maggiore o minore. Se poi fondano il loro giudi-zio sulla natura stessa dei piaceri, non ce ne indicano però la causa, se è vero che ci sonodue tipi di piaceri, quelli puri e quelli misti. E che cosa impedisce che, come nel caso dellasalute, che, pur essendo determinata, ammette il più [25] ed il meno, così sia anche nel ca-so del piacere? Infatti, non c’è sempre la stessa proporzione in tutti gli individui, e neppurenel medesimo individuo essa resta sempre una e identica, ma, pur allentandosi, permanefino ad un certo punto, cioè differisce secondo il più ed il meno. Tale, dunque, può essereanche il caso del piacere.

(5) Inoltre, essi, posto che il bene è perfetto, e i movimenti e le generazioni sono [30] im-

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perfetti, tentano di dimostrare che il piacere è movimento e generazione. Ma non sembrache abbiano ragione, né che il piacere sia movimento. Si ritiene comunemente, infatti, cheogni movimento abbia una propria velocità o lentezza caratteristica, e se non l’ha per sestesso, come nel caso del cielo, l’ha in rapporto ad altro: ma al piacere non compete nél’una né l’altra cosa. Infatti, si può giungere a provar piacere, come [1173b] si può giungeread essere adirati, rapidamente, ma non si può provar piacere rapidamente, neppure in rap-porto ad altro, mentre rapidamente si può camminare, crescere e così via. Dunque, mentreè possibile passare rapidamente o lentamente ad una situazione di piacere, [5] non è invecepossibile essere in atto in una situazione di piacere, cioè provar piacere, rapidamente. Epoi, come potrebbe essere una generazione? Si ritiene comunemente, infatti, non che dauna cosa qualsiasi si generi una cosa qualsiasi, ma che ciò da cui una cosa si genera sia lastessa in cui si dissolve: e di ciò la cui generazione è il piacere, corruzione è il dolore. Dico-no, inoltre, che il dolore è una mancanza di ciò che è conforme a natura, mentre il piacere èla restaurazione della sua pienezza. Ma questo è vero solo delle passioni del corpo. Se,quindi, il piacere è restaurazione della pienezza dello stato conforme a natura, [10] ciò incui si restaura la pienezza sarà quello che anche proverà piacere: sarà dunque il corpo. Masi ritiene che non sia così. Dunque, non è che il piacere sia la restaurazione di una pienezza,ma quando avviene la restaurazione della pienezza uno proverà piacere, come proverà do-lore quando in lui si produce la mancanza. Questa opinione, poi, si pensa che sia derivatadai dolori e dai piaceri relativi alla nutrizione: infatti, quando si è giunti in uno stato di pri-vazione [15] e si è già provato dolore, poi si gode del riempimento. Ma questo non succedeper tutti i piaceri: i piaceri dell’apprendimento, infatti, i piaceri sensibili derivanti dall’ol-fatto, molte sensazioni uditive e visive, ricordi e speranze, sono privi di dolore. Di che cosa,dunque, saranno la generazione? In essi, infatti, [20] non è venuto a mancare nulla, per cuisi possa dire che sono la restaurazione di una pienezza.

(6) In risposta, poi, a coloro che mettono avanti i piaceri più riprovevoli si dirà che questecose non sono piacevoli: infatti, se esse sono piacevoli per coloro che hanno cattive disposi-zioni, non ne segue che si debba pensare che esse siano piacevoli anche per altri che nonsiano questi viziosi, come non pensiamo che ciò che è salutare o dolce o amaro per gli am-malati lo sia anche per i sani, [25] né che ciò che appare bianco a chi ha gli occhi malati losia realmente. Oppure si dirà anche così: tutti i piaceri sono desiderabili, ma non certoquando derivano da atteggiamenti riprovevoli, come è desiderabile anche l’essere ricchi,ma non a costo di un tradimento, e l’esser sani, ma non a costo di mangiare qualsiasi cosa.O ancora: i piaceri sono di specie differenti: quelli che derivano dalle cose belle, infatti, so-no diversi da quelli che derivano dalle cose brutte, e non è possibile che si giunga a godere[30] il piacere del giusto se non si è giusti, né quello del musico se non si è musici, e lo stes-so in tutti gli altri casi. Anche il fatto che l’amico è diverso dall’adulatore sembra mettere inluce che il piacere non è bene o che ci sono specie differenti di piacere: infatti, come comu-nemente si ritiene, il primo stringe rapporti con noi mirando al bene, il secondo, invece,mirando al piacere, ed a questo viene rivolto biasimo, mentre quello tutti lo [1174a] lodano,perché sono convinti che è in relazione con noi per scopi differenti. Nessuno, poi, sceglie-rebbe di vivere per tutta la vita con l’intelligenza di un bambino, anche se gode di ciò di cuisoprattutto godono i bambini, né di procurarsi piacere compiendo qualche turpissima azio-ne, anche se non ne dovesse conseguire per lui alcun dolore. E di molte cose noi ci darem-mo cura [5] anche se non ci apportassero alcun piacere: per esempio, di vedere, ricordare,sapere, possedere la virtù. Se, poi, a queste cose conseguono necessariamente dei piaceri,non ha importanza; le sceglieremmo, infatti, anche se non ne derivasse piacere. Orbene,che il piacere non è il bene e che non ogni piacere è degno di essere scelto, sembra che siachiaro; ed anche [10] che ci sono piaceri degni di scelta per se stessi, che differiscono daglialtri per specie o per origine. Per questo si consideri conclusa l’esposizione delle teorie cor-renti sul piacere e sul dolore.

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4. [La natura del piacere].

Che cosa sia il piacere e che natura abbia, ci apparirà con la maggiore chiarezza se ricomin-ceremo da principio. Si ritiene, infatti, che l’atto del vedere [15] sia perfetto in qualunquemomento della sua durata, giacché non manca di nulla, che gli si aggiunga in seguito, perrenderlo perfetto nella sua forma specifica: e tale sembra essere anche il piacere. Esso, in-fatti, è un intero, ed in nessun momento si troverà un piacere che se viene prolungato perpiù tempo resterà perfezionato nella sua forma specifica. Ed è per questo che il piacere nonè neppure un movimento. Infatti, ogni movimento si svolge nel tempo [20] ed ha un fine(come, per esempio, la costruzione di una casa), ed è perfetto quando ha compiuto ciò a cuitende. Per conseguenza, è perfetto se è considerato o nella sua intera durata o nel suo mo-mento finale. Al contrario, nelle loro parti ed in quanto si svolgono nel tempo, tutti i movi-menti sono imperfetti, e sono diversi quanto alla forma specifica, sia dall’intero movimentosia l’uno dall’altro. In effetti, la sistemazione delle pietre è diversa dalla scanalatura dellacolonna, e queste due operazioni sono diverse dalla costruzione del tempio: e [25] la co-struzione del tempio è opera perfetta (giacché non ha bisogno di nient’altro per realizzare ilprogetto), mentre la costruzione della base e quella del triglifo sono imperfette, giacchél’una e l’altra sono costruzioni di una sola parte. Esse, dunque, differiscono per specie, enon è possibile cogliere in un momento qualsiasi della costruzione un movimento perfettoquanto alla forma specifica, ma, se mai, nella intera durata. Lo stesso vale anche nel casodel camminare e degli altri movimenti. Se, [30] infatti, la traslazione è un movimento daun luogo ad un altro, anche di essa vi sono differenze di specie: volare, camminare, saltare,e così via. Ma non c’è solo questo, bensì anche nel camminare stesso ci sono differenze dispecie: infatti, muoversi da un luogo all’altro nell’intero stadio non è la stessa cosa chemuoversi in una sua parte, né è lo stesso muoversi in una parte o in un’altra, né attraversa-re questa linea o quella: [1174b] infatti, non si tratta solo di attraversare una linea, ma an-che di attraversare una linea tracciata in un certo luogo, e questa linea è tracciata in un luo-go diverso da quella.

Orbene, in altri scritti si è trattato con rigore e precisione del movimento, ma sembra cheesso non sia perfetto in un qualsiasi momento, bensì la maggior parte dei movimenti sonoimperfetti e differiscono [5] per la specie, se è vero che il punto di partenza ed il punto diarrivo sono ciò che ne determina la specie. Invece, la forma specifica del piacere è perfettain qualsiasi momento. È chiaro, dunque, che piacere e movimento sono diversi l’unodall’altro, e che il piacere è un che di intero e di perfetto. Si arriverà però ad ammetterequesto anche partendo dal fatto che non è possibile muoversi se non nel tempo, mentre èpossibile provar piacere in assenza di tempo: l’atto di provar piacere, infatti, è un qualcosache sta tutto nell’istante presente. Da ciò risulta poi chiaro anche [10] che non hanno ragio-ne quelli che dicono che il piacere è un movimento o una generazione. Questo, infatti, nonsi può dire di tutte le cose, ma solo di quelle suddivisibili in parti, che cioè non costituisco-no un tutto inscindibile: non c’è, infatti, generazione di un atto di vedere, né di un punto,né di una monade, né di essi vi è movimento e generazione: per conseguenza, neppure delpiacere; esso, infatti, è un tutto indivisibile.

Poiché ogni senso è in atto quando è in relazione con l’oggetto sensibile, [15] e lo è in modoperfetto quando è nella corretta disposizione in relazione al più bello degli oggetti che cado-no sotto quel senso (tale si ritiene, infatti, che sia l’atto perfetto: non fa alcuna differenzadire che è in atto il senso oppure il soggetto in cui il senso si trova); di conseguenza, per cia-scun senso, l’attività migliore è quella del soggetto che si trova nella disposizione migliorein relazione al più elevato degli oggetti che cadono sotto quel senso. E questa attività sarà

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[20] la più perfetta e la più piacevole. Infatti, per ogni senso c’è un piacere, come pure an-che per il pensiero e per la contemplazione, ma il più piacevole è il più perfetto, ed il piùperfetto è quello di chi è ben disposto in relazione all’oggetto di maggior valore che cadesotto quell’attività: il piacere, poi, perfeziona l’attività. Ma il piacere non perfeziona l’atti-vità nello stesso modo in cui lo fanno l’oggetto sensibile [25] ed il senso quando sono pie-namente validi, proprio come la salute ed il medico non sono nello stesso modo causedell’essere sani. Che il piacere si generi in corrispondenza di ciascun senso, è chiaro (infattinoi parliamo di immagini piacevoli e di suoni piacevoli); ma è chiaro anche che il piacere èmassimo quando la sensazione è molto intensa e si attua in relazione ad un oggetto moltoelevato: [30] quando l’oggetto ed il soggetto della sensazione sono siffatti, ci sarà sempreun piacere se saranno presenti insieme sia ciò che lo produce sia chi lo prova. D’altra parteil piacere perfeziona l’attività non come fa, con la sua immanenza, la disposizione che la ge-nera, bensì come un completamento che vi si aggiunge, come, per esempio, la bellezza chesi aggiunge a coloro che sono nel fiore dell’età. Finché, dunque, l’oggetto pensabile o sensi-bile sono quali devono essere, e benché tali sono anche il soggetto che giudica o [1175a]quello che contempla, nell’attività del pensare e del sentire ci sarà il piacere: infatti, se re-stano uguali in sé e nel medesimo rapporto reciproco l’elemento passivo e quello attivo, siproduce naturalmente il medesimo risultato.

Come avviene che nessuno prova piacere in continuazione? Non è perché ci si stanca? Tut-to ciò che è umano, infatti, [5] non può restare in atto in continuazione. Dunque, neppureil piacere si produce in continuazione, dal momento che fa seguito all’attività. Alcune cose,poi, producono godimento quando sono nuove, ma in seguito non è più così, per la medesi-ma ragione: all’inizio, infatti, il pensiero resta eccitato e si trova in uno stato di intensa atti-vità in relazione a questi oggetti, come fanno, nel caso della vista, coloro che fissano losguardo su qualcosa, ma in seguito l’attività non è più la stessa, bensì [10] si rilassa; perciòanche il piacere si indebolisce. Si potrebbe pensare che tutti gli uomini aspirano al piacere,perché tutti tendono a vivere. La vita è una specie di attività, e ciascuno esercita la sua atti-vità in relazione agli oggetti e con le facoltà che egli ama di più: per esempio, il musico conl’udito in relazione alle melodie, l’amante del sapere con il pensiero in relazione [15] aglioggetti della speculazione, e così anche ciascuno degli altri uomini. Ma il piacere perfezionale attività, e quindi anche quell’attività che tutti intensamente desiderano: la vita. È natura-le, dunque, che tutti tendano anche al piacere: esso, infatti, dà a ciascuno la perfezione delsuo vivere, che è ciò che si desidera. Se, poi, è per il piacere che desideriamo la vita, o è perla vita che desideriamo il piacere, lasciamolo per il momento da parte. Infatti, la vita e ilpiacere [20] si presentano strettamente congiunti e non ammettono separazione: senza at-tività, infatti, non si produce piacere, e il piacere perfeziona ogni attività.

5. [Le specie del piacere e il loro valore].

Questa è la ragione per cui si ritiene che i piaceri differiscano anche quanto alla specie. Ineffetti, noi pensiamo che le cose diverse per specie vengono perfezionate da cose pure di-verse per specie (così infatti è, manifestamente, sia per le realtà naturali sia per i prodottidell’arte, come, per esempio, animali, alberi, una pittura, una statua, [25] una casa, unutensile): e che, allo stesso modo, anche le attività che differiscono per la specie sono perfe-zionate da cose differenti per specie. Ma le attività del pensiero differiscono dalle attivitàdei sensi, e differiscono per specie fra di loro: e, per conseguenza, sono specificamente dif-ferenti anche i piaceri che le perfezionano.

Ciò può risultare manifesto anche dal fatto che ciascuno dei piaceri è connaturale [30]

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all’attività che perfeziona. Infatti, l’attività è incrementata dal piacere che le è proprio, giac-ché in ogni campo chi agisce con piacere giudica meglio ed è più preciso: così, per esempio,diventano veri geometri coloro che provano piacere nell’esercizio della geometria, e sonoloro che meglio ne penetrano ciascun aspetto, e, parimenti, coloro che amano la musica,l’architettura e le altre arti, [35] progrediscono ciascuno nella propria specialità perché viprovano piacere: i piaceri incrementano le attività; ma ciò che incrementa una cosa le èconnaturale: [1175b] e le cose che sono connaturali a cose specificamente diverse sono essestesse diverse per specie.

Ma ciò può risultare ancor più manifesto dal fatto che i piaceri che derivano da attività di-verse sono d’ostacolo alle attività. Per esempio, quelli che amano il flauto sono incapaci diconcentrarsi nei ragionamenti, se sentono qualcuno suonare il flauto, perché provano mag-gior piacere [5] nell’arte del flauto che nella loro presente attività; il piacere derivante dalsuono del flauto distrugge dunque l’attività relativa al ragionamento. Questo stesso fattosuccede anche negli altri casi, quando si esercita la propria attività in relazione a due ogget-ti contemporaneamente, giacché l’attività più piacevole scaccia l’altra, e ciò tanto più quan-to maggiore è la differenza dal punto di vista del piacere, cosicché non è più possibile eser-citare neppure [10] l’altra attività. È per questo che, quando proviamo intenso piacere inuna qualsiasi cosa, non facciamo più nient’altro; e facciamo altro, quando cose diverse cipiacciono poco, come, per esempio, quelli che nei teatri si mettono a mangiare dolciumi lofanno soprattutto quando gli attori non sono bravi. Ora, poiché il piacere loro connaturalerende più precise le attività e le fa più durevoli e [15] più efficaci, mentre i piaceri ad esseestranei le guastano, è chiaro che c’è una gran distanza fra le due specie di piaceri. I piaceriestranei hanno sulle attività quasi lo stesso effetto che i dolori ad esse connaturali: infatti, idolori ad esse connaturali distruggono le attività, come, per esempio, succede se a uno nonfa piacere, anzi è penoso scrivere o far di conto: uno non scrive, l’altro non fa di conto, per-ché questa [20] attività gli è penosa. Dunque, i piaceri e i dolori ad essa connaturali hannosull’attività l’effetto opposto: e connaturali sono i piaceri e i dolori che si accompagnanoall’attività per la sua stessa natura. I piaceri estranei, invece, si chiamano così perché han-no un effetto molto simile a quello del dolore: hanno, infatti, un effetto distruttivo, anchese non nello stesso modo.

Ma poiché le attività differiscono per la loro convenienza [25] o sconvenienza morale, e poi-ché le une sono da scegliere e le altre da evitare, altre né l’una né l’altra cosa, lo stesso è an-che dei piaceri, giacché per ciascuna attività c’è un piacere che le è connaturale. Dunque, ilpiacere connaturale all’attività virtuosa è conveniente, il piacere connaturale all’attività cat-tiva è perverso: infatti, anche i desideri delle cose belle sono degni di lode, quelli delle cosebrutte sono meritevoli di biasimo. [30] Ma i piaceri che risiedono nelle attività stesse sonoad esse più strettamente connaturali che non i desideri: infatti, i desideri sono distinti dalleattività, sia nel tempo sia per la natura, mentre i piaceri sono strettamente connessi con leattività, e ne sono inseparabili, al punto che si discute se l’attività e il piacere siano la stessacosa. Non sembra, infatti, che il piacere sia pensiero né sensazione (sarebbe strano!), [35]ma, per il fatto che non ne può essere separato, ad alcuni appare identico ad essi. Dunque,come sono diverse le attività, così sono diversi i piaceri. [1176a]

La vista differisce dal tatto per purezza, e l’udito e l’odorato differiscono dal gusto: allo stes-so modo, per conseguenza, differiscono anche i relativi piaceri, e da questi si differenziano ipiaceri del pensiero, e nell’ambito di ciascun gruppo ci sono piaceri diversi fra di loro.

Si ritiene comunemente che ci sia un piacere connaturale a ciascun essere vivente, e cosìpure una funzione, giacché il piacere connaturale è quello che deriva dall’esercizio di que-sta funzione. [5] E se si considerano uno per uno, ciò risulterà manifesto: infatti, altro è ilpiacere proprio del cavallo, altro è quello del cane e quello dell’uomo. Come dice Eraclito:

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"Gli asini preferirebbero la paglia all’oro"; infatti, il cibo è per gli asini più piacevoledell’oro. Dunque, i piaceri degli esseri che sono specificamente diversi differiscono specifi-camente, mentre sarebbe naturale che quelli della stessa specie non fossero differenti. [10]Invece differiscono non di poco, almeno per quanto riguarda gli uomini: infatti, le stessecose dilettano alcuni e affliggono altri, e per alcuni sono penose e odiose, per altri piacevolied amabili. Questo succede anche nel caso delle cose dolci: le stesse cose, infatti, non sem-brano ugualmente dolci a chi ha la febbre e a chi è sano, né la stessa cosa sembra essere cal-da a chi è malato e a chi [15] sta bene. Lo stesso succede anche in altri casi. Ma si ritieneche in tutti questi casi sia reale ciò che appare all’uomo in buone condizioni. Se questo ègiusto, come in genere si pensa, e se di ciascuna cosa sono misura la virtù e l’uomo buonoin quanto tale, anche i piaceri saranno quelli che a quest’uomo appaiono tali, e piacevoli sa-ranno le cose che a lui procurano piacere. [20] Che poi gli oggetti che sono sgradevoliall’uomo buono appaiano piacevoli a qualcuno, non desta meraviglia, perché sono molte lecorruzioni e le degenerazioni cui gli uomini sono soggetti: non ci sono cose piacevoli in sé,ma cose piacevoli per uomini determinati e con determinate disposizioni.

È chiaro che i piaceri concordemente giudicati brutti si deve dire che non sono dei piaceritranne che per gli uomini corrotti: ma tra quelli comunemente ritenuti convenienti, qualespecie di piacere o [25] quale piacere in particolare dobbiamo dire che è proprio dell’uo-mo? Non risulta forse chiaro dalle attività proprie dell’uomo? È a queste, infatti, che fannoseguito i piaceri. Che dunque le attività dell’uomo perfetto e beato siano una sola o più, so-no i piaceri che perfezionano queste attività che potranno essere chiamati in senso propriopiaceri dell’uomo; tutti gli altri, invece, potranno essere chiamati piaceri umani in un sensosecondario e molto meno appropriato, come le attività cui corrispondono.

6. [La felicità è un’attività fine a se stessa e conforme a virtù].

[30] Dopo aver parlato delle virtù, delle forme dell’amicizia e dei piaceri, resta da delineareuno schizzo della felicità, dal momento che la poniamo come fine delle azioni umane. Se ri-prendiamo, quindi, quanto abbiamo già detto, la trattazione risulterà più concisa. Abbiamodunque detto che la felicità non è una disposizione, giacché apparterrebbe anche a chi dor-misse per tutta la vita, [35] vivendo una vita solo vegetativa, e a chi si trovasse nelle piùgrandi disgrazie. Per conseguenza, se queste implicazioni [1176b] non soddisfano, e se, in-vece, bisogna porre la felicità in una qualche attività, come s’è detto precedentemente, e sealcune delle attività sono necessarie e da scegliersi per altro, mentre altre devono esserescelte per se stesse, è chiaro che bisogna porre la felicità tra le attività che meritano di esse-re scelte per se stesse e [5] non per altro: infatti, la felicità non ha bisogno di nient’altro,cioè basta a se stessa. Meritano, poi, di essere scelte per se stesse quelle attività che non ri-chiedono nulla oltre il proprio esercizio. Tali si ritiene comunemente che siano le azioniconformi a virtù: compiere azioni belle e virtuose, infatti, è una delle cose che meritano diessere scelte per se stesse. Lo sono anche i divertimenti piacevoli, giacché gli uomini non[10] li scelgono in vista di altre cose: da essi, infatti, ricevono danno più che vantaggio, per-ché sono da essi indotti a trascurare il loro corpo ed il loro patrimonio. E la maggior partedegli uomini che sono stimati felici si rifugiano in tali passatempi, ragion per cui alle cortidei tiranni sono apprezzati coloro che in tali passatempi sono spiritosi: essi, infatti, [15] sirendono piacevoli proprio in ciò cui sono rivolte le tendenze dei tiranni, che hanno bisognodi tali uomini. Si ritiene, pertanto, che siano queste le cose che rendono felici, per il fattoche è in esse che passano il tempo libero i potenti, mentre è certo che gli uomini di questotipo non sono affatto una prova: infatti, non è nell’esercizio del potere assoluto che si rea-lizzano la virtù e l’intelletto, dalle quali procedono le attività che hanno valore morale. Se

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poi i tiranni, essendo incapaci di gustare [20] un piacere puro e degno di un uomo libero, sirifugiano nei piaceri del corpo, non si deve per questo pensare che questi piaceri siano piùdegni di essere scelti: infatti, anche i bambini pensano che siano ottime le cose apprezzateda quelli. È ragionevole, quindi, che, come diverse sono per i bambini e per gli uomini lecose che appaiono apprezzabili, così queste siano diverse anche per gli uomini cattivi e perquelli per bene. Come dunque [25] abbiamo spesso detto, sono apprezzabili e piacevoli lecose che sono tali per l’uomo di valore: per ciascuno l’attività più degna di essere scelta èquella conforme alla disposizione che gli è propria, e, per conseguenza, per l’uomo di valo-re è quella conforme alla virtù. La felicità, dunque, non sta nel divertimento: e, in effetti,sarebbe strano che il fine dell’uomo fosse un divertimento, e che ci si affaticasse e si soffris-se per tutta la vita [30] al solo scopo di divertirsi. Tutto noi scegliamo, per così dire, in vistadi altro, tranne che la felicità: questa, infatti, è fine in sé. Darsi da fare ed affaticarsi per ildivertimento è manifestamente stupido e troppo infantile. Divertirsi, invece, per potersiapplicare seriamente, come dice Anacarsi, sembra essere un atteggiamento corretto: in ef-fetti, il divertimento è simile al riposo, giacché gli uomini, [35] non potendo affaticarsi incontinuazione, hanno bisogno di riposo. [1177a] Il riposo non è, quindi, un fine, giacché haluogo in funzione dell’attività. Si ritiene, poi, che la vita felice sia conforme a virtù: e questavita implica seria applicazione, e non consiste nel divertimento. Noi diciamo che le cose se-rie sono migliori di quelle fatte per ridere e per divertimento, e che, in ogni caso, l’attività[5] della parte migliore dell’anima e dell’uomo più buono è quella di maggior valore; e l’at-tività del migliore è perciò stesso superiore e più idonea a procurare la felicità. Infine, deipiaceri del corpo può godere un uomo qualsiasi, persino uno schiavo, non meno del miglio-re degli uomini: ma della felicità nessuno farebbe partecipe uno schiavo, a meno che non lofacesse partecipare anche di una vita da uomo libero. In effetti, la felicità non consiste inquesti passatempi, [10] ma nelle attività conformi a virtù, come s’è detto anche prima.

7. [La felicità consiste soprattutto nell’attività contemplativa].

Ma se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù piùalta: e questa sarà la virtù della nostra parte migliore. Che sia l’intelletto o qualche altra co-sa ciò che si ritiene che per natura governi e guidi [15] e abbia nozione delle cose belle e di-vine, che sia un che di divino o sia la cosa più divina che è in noi, l’attività di questa partesecondo la virtù che le è propria sarà la felicità perfetta. S’è già detto, poi, che questa atti-vità è attività contemplativa. Ma si ammetterà che questa affermazione è in accordo sia conle nostre precedenti affermazioni sia con la verità. [20] Questa attività, infatti, è la più alta(giacché l’intelletto è la più alta di tutte le realtà che sono in noi, e gli oggetti dell’intellettosono i più elevati); inoltre, è la più continua delle nostre attività: infatti, possiamo contem-plare in maniera più continua di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Noi pensia-mo che il piacere sia strettamente congiunto con la felicità, ma la più piacevole delle atti-vità conformi a virtù è, siamo tutti d’accordo, quella conforme alla sapienza; [25] in ognicaso, si ammette che la filosofia ha in sé piaceri meravigliosi per la loro purezza e stabilità,ed è naturale che la vita di coloro che sanno trascorra in modo più piacevole che non la vitadi coloro che ricercano. Quello che si chiama "autosufficienza" si realizzerà al massimonell’attività contemplativa. Delle cose indispensabili alla vita hanno bisogno sia il sapiente,sia il giusto, sia tutti gli altri uomini; [30] ma una volta che sia sufficientemente provvistodi tali beni, il giusto ha ancora bisogno di persone verso cui e con cui esercitare la giustizia,e lo stesso vale per l’uomo temperante, per il coraggioso e per ciascuno degli altri uominivirtuosi, mentre il sapiente anche quando è solo con se stesso può contemplare, e tanto piùquanto più è sapiente; forse vi riuscirà meglio se avrà dei collaboratori, ma tuttavia egli èassolutamente autosufficiente. [1177b] E questa sola attività si riconoscerà che è amata per

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se stessa, giacché da essa non deriva nulla oltre il contemplare, mentre dalle attività prati-che traiamo un vantaggio, più o meno grande, al di là dell’azione stessa. Si ritiene che la fe-licità consista nel tempo libero: [5] infatti, noi ci impegniamo per essere poi liberi, e faccia-mo la guerra per poter vivere in pace. Dunque, l’attività delle virtù pratiche si esercitanell’ambito della politica ed in quello della guerra, ma le azioni relative a questi ambiti so-no ritenute affatto impegnative, ed in modo totale le attività militari (giacché nessuno sce-glie di fare la guerra per la guerra, [10] e nessuno prepara la guerra per la guerra: sarebbegiudicato un vero e proprio maniaco assassino, se degli amici facesse dei nemici per provo-care battaglie e uccisioni!). Anche l’attività del politico è affatto impegnativa, e, oltre alla at-tività civica in quanto tale, mira a ricavare poteri ed onori o almeno a procurare la felicitàper sé e per i suoi concittadini, felicità [15] che è differente dalla attività politica, e che,chiaramente, anche ricerchiamo in quanto ne è differente. Se, dunque, tra le azioni confor-mi alle virtù, quelle relative alla politica ed alla guerra eccellono per bellezza e grandezza, ese queste azioni sono affatto impegnative, mirano a qualche fine e non sono degne di esse-re scelte per se stesse; se, d’altra parte, si riconosce che l’attività dell’intelletto si distingueper dignità [20] in quanto è un’attività teoretica, se non mira ad alcun altro fine al di là dise stessa, se ha il piacere che le è proprio (e questo concorre ad intensificare l’attività), se,infine, il fatto di essere autosufficiente, di essere come un ozio, di non produrre stanchezza,per quanto è possibile ad un uomo e quant’altro viene attribuito all’uomo beato, si manife-stano in connessione con questa attività: allora, per conseguenza, questa sarà la perfetta fe-licità dell’uomo, [25] quando coprirà l’intera durata di una vita: giacché non c’è nulla di in-completo tra gli elementi della felicità. Ma una vita di questo tipo sarà troppo elevata perl’uomo: infatti, non vivrà cosi in quanto è uomo, bensì in quanto c’è in lui qualcosa di divi-no: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto lasua attività eccelle sull’attività conforme all’altro tipo di virtù. [30] Se, dunque, l’intellettoin confronto con l’uomo è una realtà divina, anche l’attività secondo l’intelletto sarà divinain confronto con la vita umana. Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uo-mo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contra-rio, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere se-condo la parte più nobile che è in noi. Infatti, sebbene [1178a] per la sua massa sia piccola,per potenza e per valore è molto superiore a tutte le altre. Si ammetterà, poi, che ogni uo-mo si identifica con questa parte, se è vero che è la sua parte principale e migliore. Sarebbeallora assurdo che egli non scegliesse la vita che gli è propria ma quella che è propria diqualcun altro. Ciò che abbiamo detto prima [5] verrà a proposito anche ora: ciò, infatti, cheper natura è proprio di ciascun essere, è per lui per natura la cosa più buona e più piacevo-le; e per l’uomo, quindi, questa cosa sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che l’uomo èsoprattutto intelletto. Questa vita, dunque, sarà anche la più felice.

8. [Assoluta superiorità della vita contemplativa].

Al secondo posto viene la vita conforme all’altro tipo di virtù: infatti, le attività [10] ad essoconformi sono esclusivamente umane. In effetti, atti giusti e coraggiosi, e atti virtuosi in ge-nerale, noi li facciamo gli uni nei confronti degli altri nei contratti, nei servizi, nelle azionidi ogni genere come nelle passioni, rispettando ciò che compete a ciascuno: e queste sonotutte, manifestamente, azioni esclusivamente umane. Si ritiene, poi, [15] che la virtù del ca-rattere per alcuni aspetti derivi dal corpo, e per molti aspetti sia in stretta connessione conle passioni. Ma anche la saggezza è collegata alla virtù del carattere, e quest’ultima alla sag-gezza, se è vero che i principi della saggezza discendono dalle virtù etiche, e che la rettitudi-ne delle virtù etiche discende dalla saggezza. Ma essendo queste virtù legate anche [20] allepassioni, saranno relative al composto; ma le virtù del composto sono virtù esclusivamente

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umane, e, per conseguenza, lo sono anche la vita ad essa conforme e la felicità che ne deri-va. La virtù dell’intelletto, invece, è separata: su di essa basti quanto s’è detto, ché esami-narla con precisione sarebbe un compito più grande di quello che ci siamo proposti.

Si ammetterà, poi, che essa ha anche poco bisogno di essere provvista di beni esteriori o neha meno bisogno [25] della virtù etica. Infatti, si ammetta pure che entrambe abbiano biso-gno, e in misura uguale, di ciò che è loro necessario, anche se l’uomo politico si preoccupadi più del corpo e di quanto ha natura corporea, giacché ci sarà poca differenza; ma perquanto riguarda le attività la differenza sarà grande. L’uomo liberale, infatti, avrà bisognodi denaro per compiere atti di liberalità, e [30] l’uomo giusto, quindi, ne avrà bisogno percontraccambiare (le intenzioni, infatti, non si vedono, ma anche coloro che giusti non sonofanno mostra di voler agire con giustizia); l’uomo coraggioso, d’altro canto, ha bisogno diforza, se vuole mandare ad effetto una qualunque azione conforme alla sua specifica virtù,e l’uomo temperante ha bisogno di avere disponibilità di beni. Se no, come potrà rivelarsiappunto virtuoso questo o quell’altro virtuoso? Si discute se il costitutivo più importante[35] della virtù sia la scelta o le azioni, pensando che essa risiede in entrambe le cose.[1178b] È chiaro, quindi, che la sua perfezione implicherà entrambe le cose; per le azionioccorrono molte cose, e tante di più quanto più le azioni sono grandi e belle. L’uomo con-templativo, al contrario, non ha bisogno di nulla di tutto ciò, almeno per la sua specifica at-tività, ma anzi queste cose sono, per così dire, degli ostacoli, [5] almeno per la contempla-zione. Ma, in quanto è uomo e vive insieme con molti altri uomini, egli sceglie di agire inconformità con la virtù: dunque, avrà bisogno di tali mezzi per vivere da uomo.

Che la felicità perfetta, poi, sia un’attività contemplativa, risulta manifesto anche dalle con-siderazioni seguenti. Noi ammettiamo che gli dèi siano beati e felici al massimo grado: [10]ma che tipo di azioni bisogna attribuire loro? Le azioni giuste? Ma non sarà manifestamen-te ridicolo pensare che facciano contratti, restituiscano depositi, e così via? Allora le azionicoraggiose, immaginando che affrontino pericoli e corrano rischi perché è bello? O forse leazioni liberali? Ma a chi doneranno? Sarà ben assurdo [15] che possiedano moneta o qual-cosa di simile. E le azioni temperanti che cosa saranno per loro? Non sarà grossolano lodar-li perché non possiedono cattivi desideri? Se passiamo in rivista tutto questo, ci risulteràmanifesto che l’intero ambito delle azioni è piccolo ed indegno di dèi. Tuttavia, tutti am-mettono almeno che essi vivono e quindi sono attivi, ché non si può certo pensare che dor-mano come [20] Endimione. Ma se si toglie, all’essere che vive, l’agire, e ancor più il pro-durre, che cosa gli rimane se non la contemplazione? Cosicché l’attività di Dio, che eccelleper beatitudine, sarà contemplativa: e, per conseguenza, l’attività umana che le è più affinesarà quella che produce la più grande felicità.

Una prova, poi, è anche il fatto che tutti gli altri animali non partecipano della felicità, [25]perché sono completamente privi di tale tipo di attività. Per gli dèi, infatti, tutta la vita èbeata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui loro compete una qualche somiglianzacon quel tipo di attività: invece, nessuno degli altri animali è felice, perché non partecipa inalcun modo alla contemplazione. Per conseguenza, quanto si estende la contemplazione,tanto si estende anche la felicità, e a coloro cui [30] appartiene in misura maggiore il con-templare appartiene in misura maggiore anche l’essere felici, non per accidente, ma pro-prio in virtù della contemplazione, perché essa ha valore per se stessa. Per conseguenza, lafelicità sarà una forma di contemplazione.

Ma il contemplativo avrà bisogno anche della prosperità esteriore, dal momento che è unuomo: la natura umana, infatti, non è di per sé sufficiente per esercitare la contemplazione,ma occorre anche che il corpo [35] sia in buona salute e che riceva cibo ed ogni altra cura.[1179a] Certo non dobbiamo pensare che, se non è possibile essere beati senza i beni este-riori, si avrà bisogno per giungere alla felicità di molte e grandi cose: non è nell’eccesso, in-

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fatti, che consistono l’autosufficienza e l’azione, ma è possibile compiere belle azioni anchesenza comandare in terra e in mare, [5] giacché anche con mezzi misurati si può agire se-condo virtù (e si può vederlo molto chiaramente: si ammette, infatti, che i semplici privaticompiano azioni virtuose non meno dei potenti, anzi anche di più). È sufficiente averequanto basta alla virtù, poiché sarà felice la vita di chi agisce conformemente alla virtù. An-che Solone [10] definì certamente bene gli uomini felici, dicendo che sono stati in giustamisura forniti di beni esteriori, che hanno continuato a compiere le azioni più belle (le piùbelle secondo il suo modo di pensare) e a vivere saggiamente: infatti, anche coloro che so-no forniti di beni misurati possono compiere ciò che si deve. Sembra, poi, che anche Anas-sagora concepisse l’uomo felice non ricco né potente, dicendo che [15] non ci si deve mera-vigliare se un tale uomo appare strano alla massa: questa, infatti, giudica dai beni esterni,perché solo questi percepisce. Le opinioni dei sapienti, dunque, sembrano concordare conle nostre argomentazioni.

Insomma, anche considerazioni di questo tipo hanno una certa credibilità, ma la verità nel-le questioni di comportamento si giudica dai fatti e dalla vita vissuta: in questi, [20] infatti,sta l’essenziale. È quindi necessario esaminare le cose precedentemente dette mettendole aconfronto con i fatti e con la vita, e se sono in armonia con i fatti dobbiamo accettarle, se,invece, ne sono discordanti dobbiamo considerarle semplici teorie. L’uomo che è intellet-tualmente attivo e che coltiva il suo intelletto sembra che si trovi nella migliore delle dispo-sizioni e che sia il più caro agli dèi. Se, infatti, [25] gli dèi si prendono una qualche cura del-le cose umane, come comunemente si ritiene, sarà ragionevole pensare anche che essi sicompiacciono dell’elemento umano più elevato e ad essi più affine (e questo sarà l’intellet-to), e che ricompensano gli uomini che amano e curano l’intelletto più d’ogni cosa, conside-rando che questi si curano di cose a loro care e agiscono in modo retto e bello. Che tuttoquesto [30] si ritrovi soprattutto nel sapiente, è chiaro. Questi, dunque, è il più caro aglidèi. Ed è naturale che lo stesso uomo sia anche il più felice: cosicché anche da questa argo-mentazione risulterà che il sapiente è sommamente felice.

9. [Etica e politica].

Se, dunque, di queste cose e della virtù, e poi dell’amicizia e del piacere abbiamo trattato asufficienza, nelle loro linee generali, [35] dobbiamo pensare che il nostro programma abbiaraggiunto il suo fine? O non si deve piuttosto riconoscere, come si dice, che [1179b] nellequestioni di comportamento il fine non è quello di contemplare, cioè di conoscere i singolivalori, ma piuttosto quello di metterli in pratica? Quindi, anche per quanto riguarda la vir-tù non è sufficiente il sapere, ma dobbiamo sforzarci di possederla e metterla in pratica, ocercare qualche altro modo, se c’è, per diventare uomini buoni.

Se, dunque, questi ragionamenti fossero sufficienti [5] per renderci virtuosi, riceverebberoa buon diritto molte e grandi ricompense, come dice Teognide, e bisognerebbe farsene unaprovvista; ora, invece, è manifesto che essi hanno la forza di stimolare ed incoraggiare i gio-vani di spirito libero, di rendere un carattere, nobile per natura e veramente amante delbello, pronto a lasciarsi possedere dalla virtù, [10] ma che non sono capaci di stimolare lamassa alla perfezione morale. La massa, infatti, per natura, non ubbidisce al sentimentodel pudore, bensì alla paura, e non si astiene dalle azioni basse a causa della loro turpitudi-ne, ma per timore della punizione; in effetti, poiché vive immersa nella passione, perseguei piaceri che le sono propri e gli oggetti che glieli procureranno, e fugge i dolori opposti,[15] ma di ciò che è bello e veramente piacevole non ha alcun’idea, perché non li ha mai gu-stati. Uomini simili, quindi, quale ragionamento potrà trasformarli? Non è infatti possibile,

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o non è facile, far mutare col ragionamento ciò che da molto tempo si è impresso nel carat-tere: anzi, dobbiamo senza dubbio esser contenti se, possedendo tutto ciò che secondo noiserve per diventar virtuosi, riusciamo a partecipare [20] della virtù.

Alcuni pensano che si diventi buoni per natura, altri per abitudine, altri per insegnamento.Orbene, ciò che deriva dalla natura è chiaro che non dipende da noi, ma per certe divinecause si trova in coloro che sono veramente fortunati; il ragionamento, poi, e l’insegnamen-to non hanno, temo, sempre efficacia su tutti, ma occorre preparare prima, [25] con le abi-tudini, l’anima di chi li ascolta a provar piacere ed odio come è bello che si faccia, così comesi deve preparare la terra che dovrà nutrire il seme. Infatti, chi vive secondo passione nonascolterà un ragionamento che lo distolga da essa, ed in ogni caso non comprenderà.Com’è possibile che chi si trova in questa disposizione si lasci persuadere a cambiare? Ingenerale, la passione non sembra che ceda al ragionamento, bensì alla forza. Bisogna, dun-que, [30] che ci sia già in precedenza, in qualche modo, il carattere che è proprio della vir-tù, cioè un carattere che ama il bello e mal sopporta il brutto.

Ma è difficile avere fin dalla giovinezza una retta guida alla virtù, se non si viene allevatisotto buone leggi, giacché il vivere con temperanza e con fortezza non piace alla massa, esoprattutto non piace ai giovani. Perciò bisogna che l’allevamento [35] e le occupazioni deigiovani siano regolati da leggi, giacché non saranno penosi se saranno divenuti abituali.[1180a] Certo non è sufficiente che i giovani abbiano magari un allevamento ed una educa-zione corretti, ma, poiché anche quando sono diventati uomini bisogna che li mettano inpratica e che vi si siano abituati, anche per questo campo abbiamo bisogno di leggi, e quin-di in generale per tutta la vita: la massa, infatti, [5] ubbidisce di più alla necessità che al ra-gionamento, e più alle punizioni che al bello.È per questo che alcuni pensano che i legislatori debbano, da una parte, esortare e stimola-re alla virtù per amore del bello, nella speranza che diano retta coloro che sono stati in pre-cedenza convenientemente guidati con le abitudini, e, dall’altra, stabilire castighi e peneper coloro che non si lasciano persuadere e che hanno indole troppo cattiva, [10] che anzidebbano bandire del tutto gli incorreggibili: essi pensano, infatti, che l’uomo per bene, chevive orientato al bello, ubbidisce al ragionamento, l’uomo malvagio, che desidera solo ilpiacere, è punito con il dolore come una bestia da soma. Perciò dicono anche che le penedevono essere di natura tale da costituire la massima contrapposizione ai piaceri agognati.Se, dunque, come s’è detto, l’uomo [15] avviato a diventare buono deve essere allevato edabituato bene, e deve poi vivere in occupazioni virtuose e non compiere cattive azioni né in-volontariamente né volontariamente, questo si verificherà per coloro che vivono secondouna certa intelligenza e un retto ordinamento: orbene, l’autorità paterna non ha né la forzané la capacità coercitiva, [20] né quindi, in genere, ce l’ha l’autorità di un uomo solo, chenon sia re o qualcosa del genere: la legge, invece, ha potenza coercitiva, essendo una regolafondata su una certa saggezza e sull’intelletto. E noi odiamo gli uomini che si impongono ainostri impulsi, anche se lo fanno a buon diritto, mentre la legge non è odiosa se ordina ciòche è moralmente conveniente. Si sa che solo [25] nella città di Sparta ed in poche altre illegislatore si prende cura dell’allevamento e delle occupazioni dei cittadini; nella maggiorparte delle città, invece, si trascurano cose simili, e ciascuno vive come vuole, esercitandola sua autorità su figli e moglie alla maniera dei Ciclopi. La cosa migliore, dunque, è che visia una corretta educazione pubblica; [30] ma se queste cose vengono trascurate dal puntodi vista pubblico, si riconoscerà che è a ciascun individuo che conviene aiutare i propri figlied i propri amici a raggiungere la virtù, e che ciascuno può farlo, o, almeno, scegliere di far-lo. In base a quello che abbiamo detto, poi, si ammetterà che possa far questo meglio seavrà acquisito capacità legislatrice. È chiaro, infatti, che l’educazione pubblica [35] si attuamediante leggi, ed è buona quella che si ottiene con buone leggi: [1180b] leggi scritte o nonscritte, lo si ammette comunemente, non ha importanza, né importa che con esse si educhiun solo individuo o tanti, come non importa nella musica, nella ginnastica e nelle altre oc-

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cupazioni. Come, infatti, nelle città hanno vigore le leggi e i costumi, così anche [5] nelle fa-miglie hanno vigore le ragioni del padre e le abitudini, anzi, ancora di più, a causa della pa-rentela e dei benefici che ne derivano: i bambini, infatti, le prevengono addirittura, perchéamano i padri e perché sono per natura disposti ad ubbidire. Inoltre, l’educazione direttaall’individuo è superiore a quella di un’intera comunità, come nel caso della medicina: ingenerale, infatti, a chi ha la febbre giovano il riposo e la dieta, [10] ma forse a qualcuno inparticolare no; ed un pugile non impone a tutti i suoi allievi lo stesso stile di combattimen-to. Si ammetterà, quindi, che il singolo caso è trattato con maggior accuratezza se l’educa-zione è privata: infatti, ciascuno vi trova in misura maggiore ciò che gli giova.

Ma potrà curare nel modo migliore il singolo caso il medico, il maestro di ginnastica, echiunque altro conosca l’universale, [15] cioè ciò che giova a tutti o ad un certo tipo di per-sone (giacché si dice che le scienze sono dell’universale, e lo sono, in effetti). Tuttavia, cer-to, niente impedisce che si prenda adeguatamente cura di un individuo determinato anchechi non possiede conoscenza scientifica, purché abbia osservato accuratamente, mediantel’esperienza, che cosa succede caso per caso, così come si pensa che certi uomini siano i mi-gliori medici di se stessi, pur non essendo in grado di portare alcun aiuto ad altri. [20] Non-dimeno, certo, si riconoscerà che, almeno chi vuole diventare competente dal punto di vistatecnico o teoretico, deve percorrere la strada dell’universale, cioè deve conoscere l’univer-sale quanto è possibile: abbiamo detto, infatti, che è questo l’oggetto delle scienze. E cosìanche chi vuole con la propria attività educativa rendere migliori gli uomini, sia molti siapochi, deve sforzarsi [25] di diventare competente come legislatore, se è vero che è median-te leggi che possiamo diventare buoni. Infatti, produrre buone disposizioni in chiunque glisi trovi davanti non è cosa del primo che capita, ma se mai lo è di qualcuno, questi è coluiche possiede la scienza, come nel caso della medicina e di tutte le altre arti che implichinoapplicazione e saggezza.Non si dovrà, dunque, dopo questo, esaminare su quale base ed in che modo si può acquisi-re la competenza del legislatore? Non forse, [30] come nel caso delle altre arti, basandosisugli uomini politici? Infatti, abbiamo già ammesso che la legislazione è una parte della po-litica. O non è forse manifesto che non è lo stesso il caso della politica e quello di tutte le al-tre scienze e capacità? Nelle altre, infatti, è manifesto che sono gli stessi quelli che sannotrasmettere le proprie capacità e che sanno metterle in pratica, come, per esempio, medicie pittori: [35] al contrario, i sofisti proclamano, sì, di insegnare la politica, [1181a] ma nes-suno di loro la mette in pratica. La mettono in pratica, invece, i politici, i quali, si ammet-terà, lo fanno con una certa capacità derivata dall’esperienza, più che con pensiero riflesso:si vede bene, infatti, che non scrivono né parlano di tali argomenti (eppure sarebbe certopiù bello che far discorsi in tribunale [5] e all’assemblea), e che, d’altra parte, non hannosaputo fare dei propri figli, o di alcun altro loro amico, degli uomini politici. Ma sarebbe na-turale che lo facessero se lo potessero: non potrebbero, infatti, lasciare in eredità alle lorocittà, né potrebbero desiderare per se stessi, e quindi per quelli che sono loro più cari, nien-te di meglio che una tale capacità. Certo, [10] l’esperienza sembra fornire un non piccoloaiuto; giacché, senza di essa, non si potrebbe diventare uomini politici mediante la consue-tudine con la politica: perciò sembra che coloro che aspirano ad acquisire la scienza politi-ca abbiano bisogno di esperienza. Ma quei sofisti che pur lo proclamano sono manifesta-mente molto lontani, troppo!, dall’insegnare l’arte politica. In generale, infatti, essi nonsanno neppure che cosa essa sia o quali siano i suoi oggetti; giacché, allora, [15] non affer-merebbero che è identica alla retorica, né che le è inferiore, e non penserebbero che sia fa-cile compiere opera di legislatore col fare una collezione delle leggi che godono di buona fa-ma. Dicono, infatti, che basta scegliere le migliori, come se la scelta non fosse opera di giu-dizio e il giudicare rettamente non fosse una cosa molto impegnativa, come nel campo del-la musica. Sono gli uomini esperti, infatti, che in ciascun campo [20] giudicano rettamentele opere, che sanno cioè giudicare con quali mezzi od in che modo esse possono essere por-tate a perfezione, e quali sono gli elementi che si armonizzano fra di loro; i non esperti, in-

Aristotele: Etica Nicomachea

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vece, si devono contentare di rendersi conto se l’opera è stata fatta bene o male, come nelcaso della pittura. Ma le leggi non sono che opere della politica, per così dire: [1181b] come,dunque, si potrà acquisire competenza di legislatore, o saper giudicare quali sono le miglio-ri, sulla base di una semplice raccolta di leggi? È anche manifesto che non si diventa nep-pure medici leggendo i trattati di medicina. Eppure gli autori si sforzano, per lo meno, diindicare non solo le terapie in generale, ma anche come si possono guarire, cioè come si de-vono curare, [5] i singoli casi, distinguendo le varie disposizioni fisiche: e queste indicazio-ni si ritiene che siano, sì, utili agli esperti, ma affatto inutili a chi non possiede la scienzamedica. Orbene, è certo che le raccolte di leggi e di costituzioni sono utilissime a coloro chesono in grado di meditarle e di giudicare che cosa è bene e che cosa è male, e quali elementisi armonizzano fra di loro; ma a coloro [10] che affrontano tali argomenti senza la disposi-zione adatta non può accadere di giudicare bene, se non, magari, per caso; tutt’al più diven-terebbero più aperti alla comprensione di queste cose. Poiché, dunque, chi ci ha precedutoha lasciato inesplorato il campo della legislazione, sarà certo molto meglio che ne affrontia-mo noi stessi l’indagine, e, per conseguenza, affrontiamo in blocco l’indagine sulla struttu-ra della Città, [15] per portare a compimento, secondo le nostre capacità, la filosofiadell’uomo. Orbene, per prima cosa, se qualche buona indicazione parziale è stata data dainostri predecessori, cercheremo di esaminarla, poi cercheremo di vedere, sulla base dellecostituzioni che abbiamo raccolte, quali sono le cose che conservano e quali sono quelleche distruggono le Città e ciascun tipo di costituzione, e quali sono le ragioni per cui [20]alcune Città sono ben strutturate e altre sono strutturate male. Una volta esaminate teori-camente queste cose, potremo forse meglio abbracciare con un solo sguardo anche qualesia la migliore costituzione, in che modo ciascuna costituzione debba venire ordinata, e diquali leggi e di quali costumi debba fare uso. Che la trattazione abbia inizio.