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Antologia degli autori più rappresentativi della sociologia CONTENUTI • PERCORSO 1 Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociolo- gia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica • PERCORSO 2 Storia del pensiero socio- logico OBIETTIVI Acquisire familiarità con il linguaggio proprio della sociologia. Entrare nel vivo delle nozioni e dei concetti teorizzati dai principali autori della disciplina, attraverso la lettura di brani tratti dalle loro opere più importanti.

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Page 1: Antologia degli autori più rappresentativi della sociologia · Storia del pensiero socio-logico obiettivi • Acquisire familiarità con il linguaggio proprio della sociologia. •

Antologia degli autoripiù rappresentatividella sociologiaContenuti

• Percorso 1Il contesto storico culturale nel quale nasce la sociolo-gia: Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica

• Percorso 2Storia del pensiero socio-logico

obiettivi• Acquisire familiarità con il linguaggio proprio della sociologia.

• Entrare nel vivo delle nozioni e dei concetti teorizzati dai principali autori della disciplina, attraverso la lettura di brani tratti dalle loro opere più importanti.

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il contesto storico culturalenel quale nasce la sociologia:Rivoluzione industriale e scientifico-tecnologica

❱❱ 1. L’immaginazione sociologicaSu cosa si concentra l’interesse? Su di un grande potere statale, su di una tendenza letteraria particolare, una famiglia, una prigione, una fede? Ecco le questioni poste dai migliori sociologi. Sono i cardini intellettuali classici dello studio dell’uomo nella società, e sono le questioni che chiunque possegga immaginazione sociologica solleva. Questa facoltà consiste nel saper passare da una prospettiva ad un’altra: da una prospettiva politica ad una prospettiva psicologica, dall’esame di una singola famiglia a uno studio comparativo dei vari bilanci nazionali del mondo, dalla scuola di teologia alle istituzioni militari, dall’analisi dei problemi di un’industria petrolife-ra alla critica della poesia contemporanea. È la facoltà di abbracciare con la mente le trasformazioni più impersonali e remote e le reazioni più intime della persona umana e di fissarne il rapporto reciproco. A muoverla è sempre il bisogno di conoscere il senso sociale e storico dell’individuo nella società e nel periodo in cui ha vita e va-lore.Ecco, in breve, perché gli uomini sperano oggi di afferrare, mediante l’immaginazio-ne sociologica, ciò che avviene nel mondo e di comprendere ciò che si svolge in loro stessi in quanto punti di intersezione della biografia e della storia nella società. La consapevolezza che l’uomo contemporaneo ha di se stesso come elemento esterno, se non addirittura estraneo, si fonda in gran parte sull’assorbimento del concetto della relatività sociale e del potere di trasformazione della storia. L’immaginazione sociologica è la forma più feconda di tale consapevolezza.

(C. Wright Mills, L’immaginazione s ociologica, il Saggiatore, Milano 1995)

❱❱ 2. La fisica socialeUno scienziato, amici miei, è un individuo che sa prevedere; ap punto perché offre i mezzi per prevedere l’avvenire la scienza è utile e gli scienziati sono superiori a tutti gli altri uomini. La totalità dei fenomeni, di cui abbiamo conoscenza, è stata suddivisa in varie classi, conformemente a diversi sistemi, uno dei quali è il seguen-te: feno meni astronomici, fisici, chimici, fisiologici. Chiunque sceglie di de dicarsi allo studio delle scienze dà importanza a una di queste sud divisioni. Voi conoscete alcune fra le predizioni che gli astronomi fanno e sapete anche che essi annunciano le eclissi; tuttavia ne fanno una quantità di altre di cui vi disinteressate e sulle quali io non cercherò di intrattenervi; mi limiterò invece a dirvi due parole circa l’uso che di esse si fa: quanto siano utili lo sapete benissimo. La posizione rispettiva dei vari

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punti della terra è stata esattamente determinata grazie alle predizioni degli astrono-mi; e sempre grazie a esse abbiamo i mezzi per navigare nei mari più vasti. Alcune fra le predizioni dei chimici vi sono familiari. Un chimico vi dice che po trete ottene-re la calce mediante una pietra, ma non mediante un’altra; e vi dice che mediante una certa quantità di ceneri, ricavata da una pianta di una data specie, laverete la vostra biancheria al trettanto bene che con una quantità assai maggiore, ricavata da una pianta appartenente a una specie diversa; vi dice che mischiando una certa sostanza con un’altra otterrete un prodotto dotato di una certa apparenza, fornito di una certa proprietà.Il fisiologo, il quale si occupa dei fenomeni dei corpi organizzati, se, per esempio, siete ammalati, vi dice: Voi oggi provate i tali sin tomi, e domani proverete questi altri.Non crediate, però, che io voglia suggerirvi che gli scienziati pos sono prevedere tutto; niente affatto, essi non solo non possono, ma anzi, ne sono sicuro, riescono a prevedere con esattezza ben poche cose; però voi siete convinti quanto me che gli scienziati, ciascuno nel proprio campo, sono coloro che possono prevedere il maggior nu mero di cose; e di ciò non vi è dubbio, perché essi acquistano la reputazione di essere scienziati soltanto se le loro predizioni vengono verificate; oggi per lo meno le cose vanno in questo modo, ma nel passato era ben diverso. Perciò è necessario dare uno sguardo ai progressi compiuti dallo spirito umano; nonostante gli sforzi che vado compiendo per essere chiaro, non sono perfettamente sicuro di essere capito subito, alla prima lettura, ma, se vorrete riflettere un poco, finirete per riuscirvi.I primi fenomeni che l’uomo ha osservato con una certa continuità sono quelli astro-nomici; è ciò per l’ottimo motivo che sono anche più semplici. All’inizio dei suoi lavori nel campo dell’astronomia, l’uomo confondeva i fatti che osservava con quel-li che immaginava, e questo guazzabuglio alquanto rudimentale, faceva le migliori combinazioni possibili al fine di soddisfare tutte le richieste di predizioni circa l’av-venire; in seguito egli si andò sbarazzando dei fatti creati dalla sua immaginazione e, dopo molto lavoro, finì per adottar e un sistema sicuro di perfezionamento di questa scienza. Gli astronomi accettarono soltanto i fatti constatati dall’osservazione, scel-sero il metodo che meglio li collegava, e da allora cessarono di far compiere passi falsi alla scienza. Ogniqualvolta viene presentato un nuovo sistema, prima di acco-glierlo, essi verificano se collega i fatti meglio di quello che avevano adottato; se un fatto nuovo viene aff ermato, si assicurano, mediante l’osservazione, che realmente esista. L’epoca di cui parlo (la più memorabile nella storia del progresso dello spirito umano), è quella in cui gli astronomi cacciarono dalla loro società gli astrologi. Inol-tre debbo farvi notare che da allora gli astronomi sono divenuti individui buoni, modesti, hanno rinunciato fingere di conoscere ciò che invece ignorano, mentre anche voi, da parte vostra, avete cessato di rivolger loro la richiesta impertinente di legger-vi il destino negli astri.I fenomeni chimici sono più complicati di quelli astronomici, e perciò l’uomo se ne occupò molto tempo dopo. Studiando la chimica esso è caduto negli stessi errori in cui cadde studiando l’astronomia; alla fine però i chimici riuscirono a sbarazzarsi degli alchimisti.La fisiologia si trova tuttora nella situazione sfavorevole attraverso quale dovettero passare anche le scienze astronomiche e chimiche; fisiologi devono cacciare dalla loro società i filosofi, i moralisti e i metafisici, come già gli astronomi cacciarono gli astrologi, e i chimici gli alchimisti.

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Noi, amici miei, siamo dei corpi organizzati; ed è appunto consi derando come feno-meni fisiologici i nostri rapporti sociali che io ho ideato il progetto che vi presento, ed è attraverso considerazioni tratte dal sistema di cui mi servo per collegare i fatti fisiologici che vi dimostrerò che il progetto che vi presento è buono.Una lunga serie di osservazioni ha permesso di constatare come ogni uomo provi, a un grado più o meno elevato, il desiderio di dominare la totalità degli altri uomini. Ragionando, si vede chiara mente che ogni uomo che non sia isolato, si trova in una posizione attiva o passiva di predominio nei suoi rapporti con gli altri.Voi stimate, e cioè accordate volontariamente una porzione di predominio nei vostri confronti a quegli individui i quali, secondo voi, fanno cose utili; e avete il torto, condiviso con tutta l’umanità, di non aver tracciato una linea di demarcazione abba-stanza precisa fra le cose di un’utilità momentanea e quelle di una utilità duratura; tra quelle di interesse locale e quelle di interesse generale; tra quelle che procurano dei vantaggi a una parte dell’umanità, a scapito di tutti gli atri, e quelle che accrescono la felicità generale. Voi, infine, non vi rendete ancora ben conto che vi è un solo in-teresse comune a tutti gli uomini: quello del progresso delle scienze.Il sindaco del vostro villaggio vi procura certi vantaggi sui paesi vicini? ed ecco che voi ne siete entusiasti e lo circondate di stima. Gli abitanti delle città manifestano in modo analogo il desiderio di esercitare la loro superiorità sulle città vicine; le provin-ce rivaleggiano fra loro e tra le nazioni scoppiano lotte, determinate dall’interesse particolare, cui viene dato il nome di guerre. Negli sforzi che tutte queste frazioni dell’umanità compiono, quale parte tende diretta mente al bene generale? Una parte in verità assai esigua; e non è il caso di stupirsi, dal momento che l’umanità non ha ancora preso alcun provvedimento al fine di accordare collettivamente delle ri compense a coloro i quali riescono a compiere lavori di utilità ge nerale.

(Henri de Saint-Simon, Lettere di un abitante dì Ginevra in Opere,Utet, Torino 1975)

[Henri de Saint-Simon (1760-1825) filosofo francese, annoverato tra gli esponenti del socialismo utopisti-co, inizia a ipotizzare lo studio della società, senza tuttavia che possa essere considerato un precursore.]

❱❱ 3. Lo sviluppo della culturaOgni generazione, ogni uomo, non deve ricominciare da capo a imparare come si costruiscono gli utensili, i rifugi, come si caccia e come ci si difende dai pericoli dell’ambiente particolare in cui si vive. Si impara per imi tazione degli anziani e per un insegnamento impartito da questi ul timi in modo esplicito. Questo accade anche tra gli animali in modo rudimentale. In moltissime specie esiste una conoscenza istintiva, trasmessa dai geni, su come cacciare, fuggire, nutrirsi, e una conoscenza appresa per esperienza individuale. Vi è sempre inoltre una interazione tra conoscen-za innata e conoscenza acquisita. La conoscenza innata e conoscenza acquisita. La conoscenza innata (come cammi nare, scappare, distinguere pericoli) è sempre arric-chita da tentativi ed errori, dall’espe rienza, dalla memorizzazione di informazioni intorno all’habitat (facilitata dalla curiosità istintiva) e dall’esercizio, facilitato dal gioco (che è anch’esso mosso da spinte innate molto con tigue a quelle della curiosi-tà e dell’esplorazione). Ma si tratta di conoscenze abbastanza semplici, anche se non sempre così semplici se si pensa alla conoscenza dei percorsi migratori degli uccelli,

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e comunque con un nucleo abbastanza stabile e ripetitivo, privo di innovatività.Negli esseri umani queste conoscenze acquisite durante la vita dell’individuo sono, da un certo momento in poi (è il momento in cui esso si differen zia nettamente dalle altre specie), assai complesse e legate alla conoscenza razionale e alla memoria. Questa importanza delle tecniche acquisite, che utilizzano cioè molta informazione intorno all’ambiente particolare e memoria di questa informazione, viene attribuita da alcuni paleoantropologi al fatto che l’uomo, rispetto agli altri animali e anche ri-spetto agli altri primati, si trova ad avere un rap porto molto instabile con il suo am-biente particolare. Il fatto di non avere un ambiente fisso e uniforme comporta la necessità di accrescere le capacità di adattamento, cioè, ancor più che le semplici tecniche, le speciali tecniche per risolvere i problemi, o metatecniche.Questo significa che per l’uomo diventa decisiva, ancor più che la raccolta l’inter-preta zione delle informazioni, l’acquisizione di un abito scientifico, l’assorbimento pratico nell’esplorazione sistematica e metodica del mondo. La trasmis sione della conoscenza attraverso le generazioni viene decuplicata dall’invenzione della scrittu-ra e della simbolizzazione astratta, dalla produzione dei concetti e delle categorie. L’influenza della scrittura sulla qualità della vita umana è stata fino a oggi passata in sott’ordine, laddove meriterebbe un esame approfondito, che è stato avviato strana-mente solo di recente. Il passaggio a un mondo influenzato dalla scrittura costituisce la svolta più decisiva nella storia della società umana.Abbiamo detto che la tecnica si applica in due campi principali sin dagli albori della vita conosciuta dell’uomo. Il primo campo è quello del progressivo accrescimento, per invenzioni nuove o per perfezionamento delle invenzioni, dell’efficacia delle modalità di dominio sull’ambiente. L’ambiente non è per l’uomo, diversamente dagli altri animali, una ristretta nicchia ecologica, ma un ampio universo continuamente mutevole; l’uomo vive perennemente sulla frontiera […]Ora l’accrescimento del dominio sull’ambiente è facilitato an zitutto dalle forme di cooperazione sociale e di divisione dei com piti. Troviamo la cooperazione sociale anche nelle specie diverse dall’uomo, nel campo della caccia, della difesa dai preda-tori e nella protezione dei piccoli. Ma è nella specie umana che l’organizzazione sociale per dominare l’ambiente diventa e stremamente articolata e complessa, e fa compiere un salto al dominio sul l’ambiente.La storia della diversità umana nasce qui, nell’intensificazione dell’efficacia organiz-zativa e nella capacità di trasmettere, e quindi di accumulare, le conoscenze tecniche. La trasmissione da una gene razione all’altra delle tecniche di dominio è ciò che dif-ferenzia l’uomo. Non tanto il linguaggio che, in forma rudimentale, appartiene anche agli animali, ma la capacità, semmai, di fare del linguaggio stesso, come di ogni altra facoltà attinente al dominio, un utensile versatile al servizio dell’organizzazione. Ancora oggi il linguaggio ha due fun zioni completamente diverse: una funzione espressiva, di comunicazio ne delle emozioni e degli affetti, di costituzione della re-lazione e della socialità e di conservazione e una funzione informativa, di trasmissio-ne di dati, cognizioni intorno a delle tecniche. I due tipi di linguaggio possono con-taminarsi a vi cenda, interferire fa loro, ma la loro funzione resta radi calmente diver-sa: o il linguaggio serve alla tecnica e al dominio, o serve agli affetti e alle relazioniÈ il primo tipo di linguaggio che, trasformandosi in scrittura, produce quell’enorme potenziamento delle funzioni mentali al servizio della tecnica che è rappresentato dalla memoria utilitaria. Attraverso la trasmissione orale linguistica prima e attraver-so la scrittura poi, l’accumulo delle informazioni che viene reso possibile supera le

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capacità mentali dell’individuo storico, diventa la memoria del gruppo e poi della specie, diventa un deposito di dati (di un certo tipo di dati) che può essere accresciu-to quasi senza limiti, uno strumento inconcepibilmente potente di dominio. Si può dire da questo punto di vista che la tecnica è anzitutto memoria e tecnica della me-moria. Anche qui si deve tener conto che vi è l’altro tipo di memoria che non ha a che fare con le cose, con le modalità efficaci, con la tecnica, ma che riguarda le relazioni.La memoria delle persone («mi ricordo di te», «mi ricordo mia madre», «mi ricordo che mi hai aiutato») è un fatto affettivo e non intellettuale, contrapposto alla memoria delle cose. Essa è fatta di tante piccole e grandi emozioni, incontri gioiosi e ferite.La memoria delle cose, invece, è come una mappa; con la scrittura, la registrazione meccanica, i segni convenzionali essa può diventare sempre più ampia e dettagliata.La nostra conoscenza, che sta al servi zio del dominio e dell’efficacia, è come un gi-gantesco atlante, sempre più dettaglia to e continuamente ampliabile: atlante planeta-rio dell’universo, dell’in finitamente grande, o atlante-mappa dell’infinitesimo, del suba tomico. I telescopi e microscopi elettronici continuano ad estendere illimitata-mente questi atlanti.L’altro tipo di memoria, la memoria degli affetti, non può andare oltre la concreta esperienza storica di un individuo. La scrittura, la narrazione, possono parlarci delle emozioni, delle passioni di uomini appartenenti ad altre epoche, ma solo in quanto, in qualche modo, siamo poi in grado di sperimentare noi stes si questi affetti; e questo incontra dei limiti. L’espandibilità del la memoria affettiva è quasi niente se confron-tata all’espandibilità teoricamente illimitata della memoria delle cose, che è all’ori-gine del potere immenso sulle cose stesse, sull’ambiente, e sugli uomini stessi consi-derati come cose.La trasmissibilità delle informazioni sulle cose è dunque in sé la più importante del-le invenzioni umane; essa ha effetti esplosivi, dirompenti; essa permette agli uomini di non ricominciare ogni volta da capo (per ogni generazione) a scoprire l’ambiente e il modo di domi narlo, e una volta scoperto questo vantaggio premia e favorisce mo dalità di organizzazione sociale che consentono la conservazione del l’informazione memorizzabile.

(P. Maranini, Miseria dell’opulenza, Il Mulino, Bologna 1989)

[Paolo Maranini è un sociologo italiano che studia la condizione dell’uomo nella società della tecnica e il conseguente controllo sociale, l’impatto delle trasformazioni tecnologiche sulla cultura e le risorse naturali.]

❱❱ 4. La teoria dell’attorePer teoria dell’attore intendo una teoria capace di spiegare e di preve dere i modi in cui un individuo, partecipe d’uno o più sistemi sociali, ha agito o agirà in situazioni differenti, in presenza di differenti parametri iniziali della sua condizione, includen-do, tra questi ultimi, stati interni quali emozioni, bisogni, scopi, valori, schemi inter-pretativi, processi di ra gionamento. Una teoria del genere parrebbe dover essere un elemento co stitutivo d’ogni teoria sociologica, in specie di quella che molti conside-rano pur sempre la teoria che meglio caratterizza la nostra disciplina, ovvero la teoria dei sistemi sociali. Priva d’una teoria dell’attore, la teoria del siste ma sociale si tra-sforma implicitamente in una sorta di behaviorismo acri tico. Le situazioni, i dati socioanagrafici, le affiliazioni di classe di partito o di cultura si configurano come

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input in una scatola nera, il cui contenu to ignoto rappresenta appunto l’attore man-cante, e dalla quale fuoriescono a titolo di output scioperi e voti, migrazioni e com-portamenti devianti, pratiche religiose e ideologie.In tal modo, anziché modellizzato consapevolmente come titolare del l’iniziativa di agire, l’attore viene inferito a posteriori tramite l’analisi sta tistica dei risultati delle sue azioni e razionalizzazioni. In assenza d’un mo dello di soggetto agente cui riferir-si, l’analisi risulta orbata di incidenza cri tica in due direzioni: verso il modello, che in quanto assente non può ve nire modificato, rettificato, fatto evolvere ponendolo a fronte degli esiti delle predizioni e postdizioni in base ad esso formulate; e verso se stessa, poiché qualsiasi predicato, desunto dai suoi calcoli, appare plausibile quan do il soggetto sia, com’è, totalmente indeterminato. Non è questa l’ulti ma ragione della scarsa cumulabilità delle ricerche sociologiche, che si av verte nella sociologia italia-na forse più che in ogni altra sociologia nazio nale.Una teoria dell’attore possiede una precisa rilevanza anche sul piano epistemologico. Uno dei maggiori esiti dell’epistemologia del Novecento è consistito nel porre in luce le interrelazioni che sussistono tra osservatore e oggetto osservato. In base a tali esiti si conviene che non solo le osser vazioni dipendono dal sistema di coordinate dell’os-servatore, ma la descri zione dell’oggetto osservato, sia esso un atomo, l’universo o qualsiasi og getto intermedio, riveste un senso solamente se è collegata in modo espli-cito ad una descrizione dell’osservatore. Nell’analisi sociologica il proble ma si rad-doppia. A fronte dei sistemi socioculturali in cui è inserito, il sog getto agente si pone come un osservatore, il quale dovrebbe dunque venire descritto al solo scopo di poter comprendere i sistemi che osserva. Tale de scrizione non può avere altra forma che una teoria dell’attore, un elemento portante della quale sono le rappresentazioni nella mente dell’attore dei si stemi sociali di cui fa parte o ai quali si riferisce.D’altra parte, a fronte del soggetto agente è il sociologo che si pone co me osservato-re. Al fine di conferire un senso stabile alle proprie operazioni osservative, egli do-vrebbe descrivere compiutamente se stesso, ma per far lo necessita di una teoria della costituzione dell’oggetto che specificamente osserva; oppure può affermare, sebbene con qualche rischio, di essere un osservatore allo stesso titolo in cui lo è l’attore che osserva. In ambedue i casi la mancanza d’una teoria locale del soggetto, che in ragione della sua localizzazione socioculturale conviene specificare come at-tore, porta l’a nalisi sociologica a ignorare questa doppia mediazione cognitiva, e a rica dere quindi sui sistemi oggetto come datità autonomamente costituite – illusione tipica del realismo ingenuo, benché talora avvolta in panni idea listici. […] Una teoria dell’azione risulta in genere vincolata all’am bito delle spiegazioni a posteriori degli eventi osservati, poiché uno dei ca ratteri essenziali dell’azione umana consiste nel decidere caso per caso qual è il referente verso il quale si orienterà l’azione; ma per comprendere simi le processo di decisione è necessaria una teoria globale del sogget-to agente, ovvero dell’attore. Le smentite, le sorprese alle quali sembra perennemen-te esposta la spiegazione sociologica sono dovute in notevole misura al non uso d’una teoria dell’attore.

(Luciano Gallino, L’attore sociale, Einaudi, Torino 1987)

[Luciano Gallino (1927) è uno dei più autorevoli sociologi italiani. Accanto alla teoria dell’attore sociale, ricordiamo i suoi studi nel campo del lavoro e dell’economia, con particolare riferimento alle conseguenze dello sviluppo delle nuove tecnologie, sia nel campo della produzione che della comunicazione.]

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❱❱ 5. L’era di FrankensteinNel suo romanzo Il mondo nuovo Aldous Huxley aveva profetizzato la fabbricazione in serie di esseri umani. In contenitori di laboratorio, gli embrioni si sarebbero svi-luppati secondo la propria futura funzione nella scala sociale, dagli alfa destinati al comando fino agli epsilon prodotti per la servitù.Settanta anni dopo la biogenetica ci promette, come regalo del nascente millennio, una nuova razza umana. Cambiando il codice genetico delle generazioni future, la scienza produrrà esseri intelligenti, belli, sani, magari immortali, a seconda del prezzo che ogni famiglia potrà pagare. James Watson, premio Nobel, all’origine della struttura del DNA e capo del progetto genoma umano, ci predice l’avvento del dispotismo scientifico. Watson rifiuta qualsiasi limite alla manipolazione delle cellule riproduttrici umane: non ci deve essere «nessun limite né alla ricerca né al commercio». Ed aggiunge sen-za esitazioni «dobbiamo restare entro i limiti delle leggi e dei regolamenti esistenti».Gregory Pence, che tiene la cattedra di etica medica nell’università dell’Alabama, rivendica il diritto dei genitori a scegliersi quali figli avere, «nello stesso modo con cui gli allevatori realizzano incroci alla ricerca del cane più adatto per la famiglia». E l’economista Lester Thurow, del Massachusetts Institute of Technology, si chiede chi potrebbe rifiutarsi di programmare un figlio con elevato coefficente intellettuale. «Se non lo fa lei – avverte – lo faranno i suoi vicini, e suo figlio sarà il più stupido del quartiere».Se la fortuna ci accompagna, le maternità del futuro genereranno superbimbi uguali a questi geni. Il miglioramento della specie non richiederà più i forni a gas dove la Germania ha purificato la razza, né la chirurgia che gli Stati Uniti, la Svezia e altri paesi hanno applicato per evitare di riprodurre i prodotti umani di cattiva qualità. Il mondo fabbricherà persone geneticamente modificate, come già fabbrica alimenti geneticamente modificati.2001, odissea nello spazio: già siamo nel 2001 e già ci nutriamo di cibi chimici, come aveva annunciato oltre trent’anni fa il film di Stanley Kubrick. Oggi i giganti dell’in-dustria chimica ci danno da mangiare. Questione di sigle: dopo il Ddt e il Pcb, che finalmente sono stati proibiti – da anni si sapeva che causavano più cancro che feli-cità – è arrivato il turno dei Gm, gli alimenti geneticamente modificati. Da Stati Uniti, Argentina e Canada i Gm invadono il mondo intero, e siamo tutti porcellini d’India in questo esperimento gastronomico dei grandi laboratori.In realtà, non sappiamo nemmeno cosa mangiamo. Tranne poche eccezioni, le eti-chette dei contenitori non ci avvertono se contengono ingredienti che hanno subito la manipolazione di uno o vari geni. Monsanto, il più grande fornitore in questo campo, non dà nessuna indicazione a proposito. Anche quando si tratta di latte che proviene da mucche che sono state trattate con degli ormoni transgenici della crescita.Secondo Lancet, giornale internazionale di servizi sulla salute, e secondo altre pub-blicazioni scientifiche, questi ormoni favoriscono il cancro della prostata e del seno, ma la FDA (Food and Drug Administration) degli Stati Uniti ne autorizza la vendita senza nessuna menzione speciale sull’etichetta perché, in fin dei conti, questi ormoni accelerano la crescita, aumentano il rendimento e di conseguenza la redditività.Spazio alle priorità! E la prima è quella della salute sull’economia! In tutti i casi, quando Monsanto è obbligata a confessare quello che vende, come per esempio nel caso degli erbicidi, questo non cambia molto le cose. Qualche anno fa Monsanto ha dovuto pagare una multa per avere fatto 75 false dichiarazioni sulle etichette dei bi-doni dell’erbicida Round-Up. 3000 dollari americani per ogni falsa etichetta.

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Gli europei sono gli unici a difendersi, o almeno a cercare di difendersi. In Europa, l’importazione di prodotti di ingegneria genetica è proibita in certi casi e in altri sot-tomessa a controllo. Dal 1998 l’Unione europea esige delle etichette chiare per la soia geneticamente modificata ma è molto difficile mettere in pratica queste buone risolu-zioni. La traccia si perde nelle manipolazioni successive: secondo Greenpeace, la soia OMG è presente già nel 60% di tutti gli alimenti messi in vendita nel mondo intero.Nelle manifestazioni ecologiste, un pesce gigante tiene un cartello con scritto: «Non toccate i miei geni», al suo fianco un pomodoro gigante chiede la stessa cosa. Nel mondo intero la protesta cresce. L’atteggiamento europeo è il risultato della pressio-ne dell’opinione pubblica. Quando i contadini francesi distrussero dei campi di pian-te transgeniche a causa della nocività di questi prodotti per l’ecosistema, José Bové diventò un eroe nazionale e dichiarò: «Noi altri consumatori e contadini, nessuno ci ha mai consultato riguardo a questo. Mai!».Lo Stato francese, che l’aveva fatto arrestare, ritirò l’autorizzazione concessa per la coltivazione del mais inventato transgenico. Poco tempo dopo, l’impresa americana Kraft Foods dovette ritirare milioni di Tortillas di mais della marca Taco Bell in se-guito alle denunce dei consumatori che erano stati vittime di allergie.Durante questo tempo, Madeleine Allbright, ex ministro degli affari esteri degli USA, diceva e ripeteva in Europa che non c’era nessuna prova che gli alimenti genetica-mente modificati fossero nocivi alla salute o all’ambiente. Gli europei hanno anche altri motivi per non avere fiducia nelle piroette tecnocratiche sulla tavola da pranzo. Sono ancora scottati dalla loro recente esperienza con la mucca pazza. Mentre rumi-navano foraggio e erba medica, durante migliaia di anni, le mucche si erano compor-tate con buon senso esemplare e avevano accettato rassegnate il proprio destino. E fu così, finché il folle sistema che ci dirige decise di obbligarle al cannibalismo. Le mucche mangiarono mucche, ingrassarono di più, garantirono all’umanità più carne e più latte, furono festeggiate dai padroni e applaudite dal mercato – e, di passaggio, impazzirono. Il fatto diede origine a parecchie battute di spirito, finché cominciò a morire la gente. Un morto, dieci, venti, cento...Nel 1996 il Ministero inglese della Sanità informava la popolazione che il sangue e le gelatine animali erano degli alimenti senza pericolo per il bestiame e inoffensivi per gli esseri umani.

(Eduardo Galeano, «L’era di Frankenstein», il Manifesto, 10 gennaio 2001)

[Eduardo Galeano (1940): scrittore e giornalista uruguaiano, si occupa di problemi sociali e politici legati alla globalizzazione e al neocolonialismo.]

❱❱ 6. AvalutativitàSi può dire che il concetto di avalutatività stia alla base della sua posizione, che si con-trappone radicalmente alle altre tre con le quali Weber dissentiva. Dal punto di vista storicistico, lo studioso era talmen te radicato alla sua posizione culturale che la possi-bilità di trascenderla a favore di un nuovo livello di obbiettività era certamente proble-matica. Dal punto di vista marxista questo radicamento in un sistema sociocultu rale restava, ma era aggravato dall’impegno del movimento in favore del l’azione politica in nome dell’attuazione delle vedute dottrinali sull’ini quità del capitalismo e delle glorie future del socialismo. Il caso dell’uti litarismo è un po’ più complesso, ma non

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veniva tracciata nessuna linea netta fra i fondamenti dell’obbiettività nel giudizio em-pirico da un lato è la difesa di determinate linee politiche dall’altro, perché quest’ultimo problema era ridotto completamente al livello delle preferenze puramente individuali.In contrasto con ciascuna di queste tre posizioni, quella di Weber si trova ad un livel-lo di differenziazione molto più alto. Non è una pre tesa che lo scienziato sociale si astenga da qualsiasi impegno valutativo: ciò è messo perfettamente in chiaro dalla posizione presa in Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione). La tesi è piuttosto che nel suo ruolo di scienziato lo studioso deve dare il primato ad un parti-colare sottosistema di valori nel quale i risul tati cercati del processo di indagine sono da un lato la chiarezza, coeren za e generalità dei concetti, e dall’altro la correttezza e verificabilità em piriche. Ma lo scienziato non è mai l’uomo totale e la comunità scientifica non è mai la società totale. È inconcepibile che una persona o una socie tà si esauriscano in questi termini e che debbano esserci un uomo o una società «total-mente» economici. In ruoli individuali diversi e in altri sottosistemi della società prevalgono naturalmente altre componenti di valore. Io interpreto dunque l’avaluta-tività come libertà di perseguire i valori della scienza entro i limiti rilevanti, senza che su questi si sovrap pongano valori contraddittori o irrilevanti rispetto a quelli dell’in-dagine scientifica. Questo comporta allo stesso tempo la rinuncia di qualsiasi pre tesa da parte dello scienziato a difendere, nella sua qualità di scienziato, delle posizioni di valore che abbiano una base di significato sociale e culturale più ampia di quella della sua scienza. Così dal punto di vista di Weber una espressione come «socialismo scientifico» è inaccettabile quanto lo sarebbe quella di «scienza cristiana» se il termi-ne scienza vi fosse inteso nel senso empirico. Gli orientamenti di condotta dei movi-menti politici non sono mai semplici applicazioni di conoscenza scientifica, ma im-plicano sempre delle componenti di valore che sono analiticamente indipendenti dalle scienze naturali o sociali. L’avalutatività implica inol tre per la scienza la possi-bilità di non essere vincolata ai valori di una qualunque cultura storica particolare.

(Talcott Parsons, Teoria sociologica e società moderna,Etas Kompass, Milano 1971)

❱❱ 7. L’osservazione dei fatti socialiLa prima regola, quella fondamentale, è di «con siderare i fatti sociali come delle cose».Al momento nel quale diventa oggetto di scienza un nuovo ordine di fenomeni, que-sti si trovano già rappresentati nello spirito non soltanto mediante immagini sensibi-li, ma grazie a delle specie di concetti grossolanamente formati. Anteriormente ai primi rudi menti della fisica e della chimica, gli uomini avevano già – sui fenomeni fisico-chimici – delle nozioni che superavano la pura percezione; tali sono, per esem-pio, quelle che traviamo mescolate a tutte le religioni. Gli è che, effettivamente, la riflessione è anteriore alla scienza che non fa che servirsene con maggior metodo. L’uomo non può vivere in mezzo alle cose senza far sene delle idee in base alle quali regola il suo comportamento. Soltanto, poiché queste nozioni sono più vici ne a noi e più a nostra portata delle realtà alle quali corrispondono, tendiamo naturalmente a sostituirle a queste ultime ed a farne la materia stessa delle nostre speculazioni.Invece d’osservare le cose, di descriverle, di para gonarle, noi ci accontentiamo allo-ra di prendere co scienza delle nostre idee, di analizzarle, di combinarle. […] Non è

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dunque elaborandole, in qualsiasi maniera, che si arriverà a scoprire le leggi della realtà. Queste sono, al contrario, come un velo che si interpone tra le cose stesse e noi, e che ce le maschera tanto meglio quanta più lo crediamo trasparente.Non soltanto una tale scienza non può essere che mutilata, ma ancora manca di ma-teria che la possa ali mentare. Appena esiste, sparisce – per così dire – e si trasforma in arte. Infatti, queste nozioni sono sup poste contenere quanto v’è di essenziale nella realtà, dato che vengono confuse colla realtà stessa. […] Questo sconfinamento dell’arte sulla scienza, che impedisce a questa ultima di svilupparsi, è, d’altronde, facilitato dalle stesse circostanze che determinano il risveglio della riflessione scien-tifica. Perché, siccome questa non nasce che per soddisfare delle necessità vi tali, si trova naturalmente orientata verso la pratica. I bisogni che essa è chiamata a soddi-sfare sono sempre urgenti e, di conseguenza, la spingono a concludere; essi reclama-no non delle spiegazioni, ma dei rimedi.Questa maniera di procedere è così conforme all’in clinazione naturale del nostro spirito, che la si ritrova persino all’origine delle scienze fisiche. È lei che diffe renzia l’alchimia dalla chimica, come l’astrologia dal l’astronomia. È per suo mezzo che Bacone caratterizza il metodo che seguivano i dotti del suo tempo e che egli combat-te. Le nozioni delle quali abbiamo parlato sono quelle «notiones vulgares» o «prae-notiones» che egli segnala alla base di tutte le scienze, dove prendano il posto dei fatti. Sono questi «idola», una specie di fantasmi che ci sfigurano il vero aspetto delle cose e che noi prendiamo tuttavia per le cose stesse. [...]Se questo è avvenuto colle scienze naturali, a mag gior ragione lo stesso doveva av-venire per la sociologia. Gli uomini non hanno atteso l’avvento della scienza sociale per farsi delle idee sul diritto, sulla morale, sulla famiglia, sullo Stato, sulla società stessa; perché non potevano farne a meno per vivere. Ora, è soprattutto in sociologia che queste prenozioni – per riprendere l’espressione di Bacone – sono in condizioni di domi nare gli spiriti e di sostituirsi alle cose. Infatti, le cose sociali non si realizza-no che per il tramite degli uomini; sono un prodotto dell’attività umana. Non sem-brano quindi esser altro che la messa in opera di idee, innate o no, che noi partiamo dentro di noi; non altro che la loro applicazione alle differenti circostanze che accom-pagnano i rapporti degli uomini tra loro. L’organizza zione della famiglia, del contrat-to, della repressione, dello Stato, della Società appaiano perciò come un sem plice sviluppo delle idee che noi abbiamo della Società, dello Stato, della giustizia ecc. Di conseguenza, questi fatti ed altri loro analoghi sembrano non possedere una realtà che dentro e per le idee che ne sono il germe e che diventano, quindi, la materia pro-pria della sociologia.Quello che finisce di fare completamente credito a questa maniera di vedere è il fatto che il particolare della vita sociale sconfina in tutti i sensi oltre i limiti della coscien-za, e questa non ne ha una percezione sufficientemente netta per sentirne la realtà. Non aven do dentro di noi dei legami abbastanza solidi né abba stanza stretti, tutto questo ci fa, con sufficiente facilità, l’effetto di non avere una base e di galleggiare nel vuoto, materia semi-irreale e indefinitamente plastica. Ecco perché tanti uomini di pensiero non hanno veduto negli ordinamenti sociali che delle combinazioni arti-ficiali e più o meno arbitrarie, Ma se il particolare, se le forme concrete e circostan-ziate ci sfuggono, almeno noi ci rappresentiamo all’ingrosso e approssimativamente gli aspetti più generali dell’esistenza collettiva, e sono pre cisamente queste rappre-sentazioni schematiche e som marie che costituiscono le prenozioni delle quali noi ci serviamo per gli usi correnti della vita. Non possiamo quindi immaginare di mettere

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in dubbio la loro consistenza, poiché la percepiamo nello stesso tempo della nostra. Non soltanto esse sono in noi, ma, siccome sono un prodotto di esperienze ripetute, acquistano dalla ri petizione e dall’abitudine che ne risulta una specie d’ascendente e di autorità. Le sentiamo resisterci quan do cerchiamo di liberarcene. Ora, noi non possiamo evitare di guardare come reale quello elle si oppone a noi. Tutto contribu-isce quindi a farci vedere la vera realtà sociale.Effettivamente, fino ad oggi, la sociologia ha più o meno esclusivamente trattato non delle cose, ma dei concetti. Comte, è vero, ha proclamato che i fenomeni sociali sono dei fatti naturali, sottoposti alle leggi natu rali. Con questo ha implicitamente ricono-sciuto il loro carattere di cose. Perché non vi sono che delle cose nella natura. Ma quando, uscendo da queste generalità filosofiche, egli tenta d’applicare il principio e dedurre la scienza che vi era contenuta sono le idee che egli prende per oggetto di studio. Infatti, quello che forma soprattutto la materia principale della sua sociologia, è il progresso dell’umanità nel tempo. Parte dall’idea che si ha un’evoluzione continua del genere umano, consistente in una realizzazione sempre più completa della natura umana, ed il problema che egli tratta è la ricerca della legge di questa evoluzione.Ora, anche supponendo che questa evoluzione esi sta, la realtà sua non può essere stabilita che dopo la creazione della scienza. Non si può quindi farne l’oggetto stesso della ricerca se la si considera come una concezione dello spirito, non come una cosa. […] Viceversa i fenomeni sociali sono delle cose e devono essere trattati come delle cose.

(Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico,Newton Compton, Roma 1971)

❱❱ 8. Des esseintes a ParigiIl suo disprezzo per l’umanità aumentò; si accorse che il mondo, per la maggior par-te, è composto di sacripanti e di imbecilli. Non aveva più alcuna speranza di trovare in altri le sue stesse aspirazioni e ripugnanze, di incontrare un’intelligenza che, al pari della sua, si compiacesse in una studiosa decrepitezza, di unire uno spirito acuto e a tutto rilievo come il suo a quello di uno scrittore o di un letterato. […] Durante l’ul-timo mese del suo soggiorno a Parigi, quando, deluso di tutto, abbattuto dall’ipocon-dria, schiacciato dallo spleen, era giunto a una tale sensibilità nervosa che la vista di un oggetto o di un essere spiacevole si imprimeva profondamente sul suo cervello e occorrevano parecchi giorni per cancellarne anche leggermente l’impronta, il volto umano appena intravisto per via era stato uno dei suoi più lancinanti supplizi.In realtà soffriva alla vista di certe fisionomie, considerava quasi come un insulto le espressioni pater ne o burbere di alcuni volti, sentiva una gran voglia di prendere a schiaffi quel tale che bighellonava chiudendo le palpebre con aria saputa, quell’altro che si dondolava sorridendo alla sua immagine davanti alle vetrine, quell’altro anco-ra che sembrava mettere sossopra un mondo di pensieri mentre divorava, con le so-pracciglia contratte, tartine e fatti diversi di un giornale.Fiutava là sotto una così inveterata stupidaggine, una tale esecrazione per le sue pro-prie idee, un tal disprezzo per la letteratura, per l’arte, per tutto quello che lui adorava, bene impiantati in quegli stretti cervelli di bottegai, preoccupati solo di far birbanterie e di far soldi, accessibili solo a quella bassa distra zione degli spiriti mediocri che è la politica, che rientrava in casa pieno di rabbia e si chiudeva a chiave con i suoi libri.

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Infine odiava con tutte le sue forze le nuove generazioni, figliate di ignobili tangheri che hanno il bisogno di parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè, che vi urta-no senza domandarvi scusa sui marciapiedi, che vi gettano tra le gambe, senza il minimo cenno di scusa o di saluto, le ruote di una carrozzina da bambini.

(Joris-Karl Huysmans, A ritroso, Rizzoli, Milano 1997)

[Joris-Karl Huysmans (1848-1907). Scrittore francese, esponente del decadentismo.]

❱❱ 9. il lavoro nel MedioevoScomparso Carlo Magno, il centro culturale dell’Im pero non è più la corte. Scienza, arte, letteratura vengo no ormai dai conventi; nelle loro biblioteche, nei loro scriptoria e nelle loro officine si compie la parte più im portante della produzione intellettuale. Alla loro dili genza e alla loro ricchezza, l’arte dell’Occidente cristiano deve la sua prima fioritura. Moltiplicatisi i centri cultu rali per lo sviluppo dei conventi, le tenden-ze artistiche cominciano a differenziarsi nettamente. Non si deve cre dere che i mona-steri fossero del tutto isolati; servivano a collegarli, se pur non molto strettamente, la comune dipendenza da Roma, l’influsso generale del monachesi mo irlandese e an-glosassone e, più tardi, le congregazio ni di riforma degli ordini. Già il Bédier ha ac-cennato ai loro contatti col mondo laico e alla loro funzione nei pellegrinaggi, in cui fungono da punti d’incontro fra pel legrini, mercanti e giullari. Ma nonostante questi rap porti con l’esterno, i conventi restano unità sostanzial mente autonome, raccolte in se stesse, e più tenacemente fedeli alle loro tradizioni di quel che non fosse prima la corte, sensibile al variare delle mode, o di quel che sarà, più tardi, la società borghese.La regola benedettina prescriveva il lavoro manuale come quello intellettuale, e met-teva l’accento soprattut to sul primo. Come il feudo, così il convento cercava di svi-luppare per quanto possibile un’economia autarchica, producendo tutto il necessario. L’attività dei monaci si estendeva dal lavoro nei campi e negli orti all’artigia nato. Fin dal principio i lavori più pesanti furono sbrigati in gran parte dai contadini liberi e dai servi e, più tardi, anche dai frati laici; ma l’artigianato, specie nei primi tempi, era esercitato soprattutto dai monaci; e proprio attraverso l’organizzazione del lavoro artigiano il monachesimo ha esercitato il più profondo influsso sullo sviluppo dell’ar-te e della cultura medievale. Se la produ zione artistica procede in forma più ordinata, con una certa divisione del lavoro, con metodi più o meno razio nali, e se anche ele-menti della classe superiore attendono al suo esercizio, è tutto merito degli ordini monastici. È noto che nei conventi dell’alto Medioevo prevalevano gli aristocratici; certi conventi erano quasi esclusivamente riservati a loro. Così persone che altrimen-ti non avreb bero mai preso in mano un pennello sporco, uno scal pello o una cazzuo-la, entrarono direttamente in contatto con le arti figurative. Certo, il disprezzo per il lavoro manuale è ancora molto diffuso nel Medioevo, e l’idea del «signore» resta a lungo inscindibile da quella della vita oziosa; ma non c’è dubbio che ora, contraria-mente a quel che accadeva nell’antichità, accanto alla vita si gnorile, legata a un ozio illimitato, anche la vita labo riosa acquista un suo valore positivo, e questo nuovo atteggiamento verso il lavoro si ricollega, fra l’altro, alla popolarità della vita mona-stica. Ancora nel tardo Medio evo, nell’etica borghese del lavoro, quale si esprime, ad esempio, negli statuti delle corporazioni, riecheggia lo spirito della regola conven-tuale. Non si può dimenticare, d’altronde, che nei conventi il lavoro viene ancora

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con siderato, in parte, come penitenza e punizione; e an che san Tommaso parla di viles artifices (Comm. in Polit., 3. I. 4). Di una nobilitazione della vita ad opera del lavoro non è ancora possibile parlare.Dai monaci l’Occidente ha appreso a lavorare con me todo; l’industria del Medioevo è in gran parte opera lo ro. Gli artigiani, ancora abbastanza numerosi nelle città come eredi dell’antica industria romana, lavorarono – fino alla rinascita dell’economia urbana – in limiti molto modesti, e diedero uno scarso contributo allo sviluppo delle tecniche industriali. Certo, artigiani specializzati erano attivi anche presso le corti palatine e nei maggiori feudi; ma essi appartenevano alla casa del re o alla ser vitù, e il loro lavoro conservava un carattere di attività domestica, ispirata alla tradizione piuttosto che a finalità razionali. Solo nei conventi l’artigianato si svincola dall’am-bito domestico. È nei conventi che si apprende a far economia di tempo, a dividere e utilizzare razional mente la giornata, a misurare lo scorrere delle ore e ad annunciarle col tocco della campana. La divisione del lavoro diventa il principio fondamentale della produzio ne.

(Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1955)

[Arnold Hauser (1892-1978) storico dell’arte d’origine ungherese.]

❱❱ 10. il tao della fisicaPiù si studiano i testi religiosi e filosofici degli Indù, dei Buddhisti e dei Taoisti, più risulta evidente che in ognuno di essi il mondo è concepito in termini di movi mento, di flusso e di mutamento. Questa qualità dina mica della filosofia orientale sembra essere una delle sue caratteristiche più importanti. I mistici orientali vedono l’univer-so come una rete inestricabile, le cui intercon nessioni sono dinamiche e non statiche: Questa rete cosmica è viva: si muove, cresce e muta continuamente. Anche la fisica moderna è giunta a concepire l’universo come una siffatta rete di relazioni e, come il misticismo orientale, ha riconosciuto che questa rete è intrinseca mente dinamica. […]La fisica moderna, quindi, rappresenta la materia non come passiva e inerte, bensì in una danza e in uno stato di vibrazione continui, le cui figure ritmiche sono determi-nate dalle strutture molecolari, atomiche e nu cleari. Questo è anche il modo in cui i mistici orientali vedono il mondo materiale. Essi sottolineano tutti che l’universo deve essere afferrato nella sua dinamicità, mentre si muove, vibra e danza; che la natura non è in equilibrio statico ma dinamico. Per usare le parole di un testo taoista: «La quiete in quiete non è la vera quiete. Soltanto quando c’è quiete in movimento può apparire il ritmo spirituale che pervade cielo e terra».In fisica ci accorgiamo della natura dinamica dell’u niverso non soltanto quando scendiamo alle piccole dimensioni – al mondo degli atomi e dei nuclei – ma anche quando ci rivolgiamo alle dimensioni molto grandi, al mondo delle stelle e delle galassie. Mediante i nostri potenti telescopi osserviamo un universo in moto inces-sante: nubi di gas idrogeno in rotazione si contrag gono per formare stelle, riscaldan-dosi durante questo processo fino a diventare fuochi che ardono nel cielo. Quando hanno raggiunto quello stadio, esse continuano ancora a ruotare, ed alcune emettono nello spazio mate riali che si muovono a spirale verso l’esterno e si conden sano in pianeti, i quali ruotano a loro volta attorno alla stella. Infine, dopo milioni di anni, quando la stella ha consumato la maggior parte del suo combustibile, costi tuito da

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idrogeno, essa si espande e poi si contrae nuo vamente nella fase finale dei collasso gravitazionale. Durante questa fase di forte contrazione possono avve nire esplosioni gigantesche e la stella può persino tra sformarsi in un buco nero. Tutte queste attività – la formazione di stelle dalle nubi di gas interstellari, la loro contrazione e succes-siva espansione e il loro collasso finale – possono essere osservate effettivamente in un qualche punto del cielo.Queste stelle che ruotano, che si contraggono, che si espandono o che esplodono sono raggruppate in galassie di forme svariate – dischi piatti, sfere, spirali, ecc. – che a loro volta non sono in quiete ma ruotano. La nostra galassia, la Via Lattea, è un immenso disco di stelle e gas che gira nello spazio come un’enorme ruota, cosicché tutte le sue stelle – compreso il Sole e i suoi pianeti – si muovono intorno al centro della galassia. In effetti, l’universo è pieno di galassie disseminate nell’intero spazio che riusciamo ad osservare, e tutte sono in rota zione come la nostra.Quando studiamo l’universo nel suo insieme, con i suoi milioni di galassie; raggiun-giamo la massima scala di spazio e tempo; e ancora una volta, a quel livello cosmico, scopriamo che l’universo non è statico, bensì in espansione! Fu questa una delle più importanti scoperte dell’astronomia moderna. Un’analisi precisa della luce, prove-niente dalle galassie lontane ha rivelato che l’inte ro complesso delle galassie si espande e che lo fa seguen do uno schema preciso: la velocità di recessione di ogni galassia che osserviamo è proporzionale alla distanza della galassia stessa. Quanto più essa è distante, tanto più velocemente si allontana da noi; se si raddoppia la di-stanza, raddoppia anche la velocità di rècessione. Ciò è vero non solo per le distanze misurate a partire dalla nostra galassia, ma vale con qualsiasi punto di riferi mento. In qualunque galassia vi capitasse di trovarvi, osservereste le altre galassie allontanarsi velocemente da voi: le galassie più vicine si allontanerebbero alla velocità di alcune migliaia di chilometri al secondo, le più lontane a velocità superiori, e quelle lonta-nissime a velocità prossime a quella della luce. La luce delle galas sie che si trovano ancora più lontane non ci raggiungerà mai, in quanto esse si allontanano da noi più velocemen te della velocità della luce. La loro luce è, secondo le parole di Sìr Arthur Eddington, «come un corridore su una pista in espansione con il traguardo che si allontana più rapidamente di quanto egli riesca a correre».Per formarci un’idea più precisa del modo in cui l’universo. si espande, dobbiamo ricordare che lo sche ma teorico adatto per studiarne le caratteristiche su larga scala è là teoria generale della relatività di Ein stein. Secondo questa teoria, lo spazio non è «piatto», ma «curvo», e il modo preciso in cui esso è incurvato è legato alla distribu-zione di materia secondo le equazioni einsteiniane del campo. Queste equazioni possono esse re usate per determinare la struttura dell’universo nel suo insieme: esse sono il punto di partenza della cosmo logia moderna. […]. L’universo si espande [in questo] modo: qualunque sia la galassia nella quale un osservatore si trovi, tutte le altre galassie si allontaneranno da lui. Viene spontaneo porsi la seguente domanda a propo sito dell’universo in espansione: in quale modo ha avuto inizio tutto ciò? Dalla relazione tra la distanza di una galassia e la sua velocità di recessione – nota come legge di Hubble – si può calcolare il momento iniziale dell’e spansione, o, in altre parole, l’età dell’universo. Suppo nendo che non vi sia stata alcuna variazione nella veloci tà di espansione, il che non è affatto certo, si ottiene un’età dell’ordine di dieci miliardi di anni. Questa, quindi, è l’età dell’universo. Oggi, la maggior parte degli studiosi di cosmologia crede che l’universo sia venuto in essere in un drammatico evento all’incirca dieci miliardi di anni fa, quando l’intera sua massa scaturì dall’esplo-

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sione di una piccola sfera di fuoco pri mordiale. L’attuale espansione dell’universo è vista come la spinta residua di questa esplosione iniziale. Secondo tale modello del «big-bang» (grande esplo sione), l’istante in cui avvenne questa gigantesca esplo sione segnò l’inizio dell’universo e l’inizio dello spazio e del tempo. Se vogliamo sapere cosa c’era prima di quel momento, incontriamo nuovamente serie di difficoltà di pensiero e di linguaggio. Come dice Sir Bernard Lovell: «Qui raggiungiamo la gran-de barriera del pensiero, perché cominciamo a lottare con i concetti di spazio e tem-po prima che essi esistessero così come noi li conosciamo in base alla nostra espe-rienza quotidiana. Mi sento come se fossi improvvisamente entrato in un grande banco di nebbia nel quale il mondo familiare è scomparso».Per quanto riguarda il futuro dell’universo in espan sione, le equazioni di Einstein non forniscono una rispo sta univoca, ma sono compatibili con parecchie soluzio ni che corrispondono a differenti modelli dell’universo.Alcuni modelli prevedono che l’espansione continuerà per sempre; secondo altri, l’espansione sta rallentando e alla fine diventerà una contrazione. Questi modelli de-scrivono un universo oscillante, che si espande per mi liardi di anni, poi si contrae fino a quando la sua massa totale è concentrata in una piccola sfera di materia, quindi si espande nuovamente e così via, in un processo senza fine.Questa idea di un universo che periodicamente si espande e si contrae, nella quale compare una scala di tempo e spazio di proporzioni enormi, è comparsa non solo nella cosmologia moderna, ma era già presente nell’antica mitologia indiana. Gli Indù, che percepiva no l’universo come un cosmo organico e in movimento ritmico, furono in grado di elaborare cosmologie evolu tive che si avvicinano molto ai nostri modelli scientifici moderni. Una di queste cosmologie è basata sul mito indù di lila – il gioco divino – nella quale Brahman si trasforma nel mondo. Lila è un gioco ritmico che conti nua in cicli senza fine, durante i quali l’Uno diviene i molti e i molti ritornano nell’Uno. Nella Bhagavad Gita, il dio Krsna descrive il gioco ritmico di creazione con le seguenti parole: «Tutti gli esseri... alla fine di un kalpa [o ciclo cosmi co] tor-nano alla mia realtà; e al principio del ciclo successivo di nuovo io li emetto.«Avvalendomi di quella realtà che è la mia propria, sempre di nuovo emetto tutta questa molteplicità di esistenti, priva di ogni potere, dal momento che giace sotto il dispotismo della prakrti [o natura].«E tali atti non mi vincolano neppure, o possessore della ricchezza, poiché io sto a sedere come colui che non è impegnato, non essendo io condizionato da attacca mento in questi atti.«Avendo me come guida, la natura dà origine all’in sieme delle cose mobili e delle immobili; con questo mezzo [per questa via]... il mondo si volge e di nuovo si volge».I saggi indù non ebbero timore di identificare questo ritmico gioco divino con l’evo-luzione del cosmo nel suo insieme. Essi ritenevano che l’universo si espandesse e si contraesse periodicamente e diedero il nome di kalpa all’inimmaginabile intervallo di tempo che va dall’inizio alla fine di una creazione. La grandiosità di questo antico mito è in realtà impressionante: alla mente uma na sono occorsi più di duemila anni per arrivare di nuovo a un concetto simile.

(Fritjof Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano 1982)

[Fritjof Capra (1939). Fisico austriaco, studia le implicazioni filosofiche della scienza moderna mettendo in luce l’armonia tra la saggezza orientale e le concezioni più recenti della scienza occidentale, i temi ecolo-gici dello sviluppo sostenibile e della complessità.]

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❱❱ 11. La nascita del mercato mondialeA partire dal XVI secolo, si formò nell’area atlantica un grande cir cuito commercia-le, noto come «commercio triangolare», imper niato sulla tratta degli schiavi africani.Il circuito comprendeva tre di stinti tratti, collegati l’uno all’al tro: tessili e altri manu-fatti (in ge nere di bassa qualità) venivano in viati dall’Europa all’Africa per es sere scambiati con schiavi; gli schiavi venivano inviati dall’Afri ca alle Americhe, dove erano ven duti per acquistare prodotti agricoli e metalli; tali prodotti, frutto del lavoro degli schiavi nelle pian tagioni e nelle miniere, venivano inviati dalle Americhe in Europa per essere venduti sui mercati na zionali.Chi gestiva quest’ultimo tratto del commercio triangolare realiz zava i profitti mag-giori. Con lo sviluppo del circuito si formarono, però, compagnie mercantili che, a differenza dei singoli mercanti e delle compagnie minori, erano in grado di gestire tutti e tre i tratti del commercio triangolare.In Inghilterra, le cui sole impor tazioni di zucchero dalle Indie oc cidentali si quintu-plicarono tra il 1720 e la fine del secolo, la famiglia Cunliffes di Liverpool allestì nel 1753 quattro navi, che effettuava no due o tre viaggi all’anno lungo lo stesso circuito. Raggiunta l’A frica occidentale, le merci che era no a bordo venivano scambiate con schiavi. Quindi gli schiavi, in media 1210 per viaggio, erano tra sportati e venduti nelle Indie occi dentali e in Nord America. Infine, le navi rientravano a Liverpool ca-riche di zucchero e altri prodotti, acquistati col ricavato della vendi ta degli schiavi. Grazie al commer cio triangolare, il traffico registra to nel porto di Liverpool passò da circa 18mila tonnellate nel 1719 ad oltre 260mila nel 1792.Mercanti come i Cunliffes realiz zavano in tal modo profitti anche del 300%, che permettevano loro di accumulare colossali fortune. L’espressione «ricco come un West Indian» diventò di uso corrente per indicare chi si era arricchito con il commer-cio delle Indie occi dentali. I più facoltosi – come Samuel Fludyer, la cui fortuna venne valutata nel 1767 in circa 900mila sterline, e William Beckford, dive nuto nel 1770 sindaco di Londra non lesinavano mezzi per acqui stare un seggio in parlamen-to. A causa delle forti rivalità da parte degli aristocratici, solo pochi (ap pena dodici nel 1761) riuscirono ad arrivarvi, ma essi rappresenta vano il gruppo politico che con-centrava nelle proprie mani una crescente ricchezza, soprattutto sotto forma di dena-ro liquido.Il commercio triangolare creava così, in Inghilterra e in altri paesi europei, le condi-zioni di una profonda trasformazione economica, sociale e politica: la borghesia mercantile e bancaria (le cui radici affondavano nel Medioevo), avva lendosi della crescente forza eco nomica che andava acquisendo con lo sviluppo del capitalismo mercantile, dava la scalata al pote re politico, in cui predominava l’a ristocrazia.Sempre a partire dal XVI secolo, il collegamento dell’area commercia le atlantica con quella asiatica, tra mite l’Europa, determinava la for mazione di una rete mercantile che copriva tutti i continenti e, quindi, la nascita di un mercato mondiale.La novità di tale mercato consi steva non tanto nella sua estensio ne: il commercio intercontinentale era stato praticato, pur in misura minore, sin dall’antichità. Essa con sisteva soprattutto nel fatto che, al la sua base, c’era lo sfruttamento coloniale delle risorse umane e ma teriali, esercitato dalle potenze eu ropee in America, Africa e Asia, praticamente su scala planetaria.Ciò rendeva possibile in Europa un nuovo tipo di accumulazione, sia da parte della nobiltà che dete neva il potere politico, sia da parte della borghesia in fase di ascesa: la loro ricchezza, infatti, non pro veniva più solo dalla fonte tradi zionale – il lavoro

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dei contadini e degli artigiani – ma, in misura crescente, dallo sfruttamento delle colonie d’oltremare e dal controllo delle principali rotte commerciali.Furono l’oro e l’argento delle Ame riche a determinare in Europa la pri ma grande trasformazione economi ca: essi si convertirono in domanda di beni di consumo e strumentali (tessili, derrate alimentari, armi, na vi) che stimolarono la produzione in-dustriale.Lo sviluppo del commercio trian golare e la conseguente formazio ne di un mercato mondiale provocarono un radicale mutamento nella geografia economica euro pea: il baricentro si spostò dal Me diterraneo al Mare del Nord. Nel XV secolo, la regione mediterra nea era stata la più florida del mondo (con l’Italia centro-setten trionale come cardine) e nel XVI secolo aveva accresciuto la sua prosperità con le ricchezze afflu-ite in Spagna e Portogallo dalle Ame riche. Nel XVII secolo, invece, essa fu emargi-nata dallo sviluppo della regione del Mare del Nord, dovuto al prevalere della poten-za econo mica olandese e, successivamente, di quella inglese che le aveva strappato la supremazia.Allo stesso tempo, lo sviluppo del commercio triangolare e la for mazione del merca-to mondiale crearono in Europa le condizioni per un ulteriore cambiamento: la tra-sformazione capitalistica del sistema produttivo attraverso l’indu strializzazione, successivamente denominata «rivoluzione industriale», che iniziò in Inghilterra at-torno alla metà del XVIII secolo. Fu lo sfruttamento coloniale delle ri sorse umane e materiali dell’Ame rica, Africa e Asia, nel quadro del commercio triangolare e del na scente mercato mondiale, a creare la base economica (capitali, produ zioni, merca-ti) che, unitamente ad altri fattori (anzitutto le continue innovazioni tecnologiche sin dal Medioevo), determinò in Europa il passaggio dal capitalismo mercantile al capi-talismo indu striale e il conseguente sviluppo del processo di industrializzazione. Le nuove colture (mais, patate, pomodori), portate in Europa dall’America meridionale, e l’introdu zione di nuove tecniche nella colti vazione e nell’allevamento fecero au-mentare la produzione agricola, migliorando il regime alimentare e incrementando così la crescita de mografica. Nelle campagne ingle si venne a crearsi in tal modo, per effetto dell’accresciuta produttivi tà e dell’aumento della popolazio ne, un esubero di forza lavoro. Al lo stesso tempo, soprattutto dopo il 1760, molti villaggi furono pri vati delle terre comuni, a causa delle leggi sulle recinzioni appro vate dal parlamento. Crebbe di conseguenza la manodopera a buon mercato che cercava sbocco nelle miniere e nelle manifatture. Contemporaneamente, i lucrosi traffici del commercio triangolare e l’aumento di produttività nelle campagne generarono una forte accumu-lazione di capitale che venne investito in misura crescen te nella produzione minera-ria e manifatturiera.Puntando sul carbon fossile e sul ferro, l’Inghilterra imboccò la via della rivoluzione industriale.Ad avviare tale processo fu lo sviluppo, a livello industriale, del la manifattura coto-niera. Intro dotta nel XVII secolo in Inghilterra, dove già era diffusa quella la niera col sistema della produzione a domicilio, essa ebbe forte impul so quando, nel 1701 e nel 1720, vennero varate alcune leggi che proibivano l’importazione dall’In dia di un tessuto in cotone stampa to, detto calice.Nella fase iniziale, l’industria co toniera inglese si avvalse dei pro cedimenti manuali usati nella manifattura della lana e in quella del la seta, la quale, pur limitata dall’alto costo e dalla concorrenza continentale, si basava già su fab briche e macchine a ener-gia idrau lica derivate da quelle italiane. Per questo i cotonifici furono costruiti per lo

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più in vicinanza di corsi d’ac qua nelle zone rurali. L’industria cotoniera, la cui forza lavoro era costituita per la maggior parte da donne e bambini, si sviluppò rapi damente con il crescere della do manda di manufatti di cotone. Ciò stimolò le innovazioni tecnologi che, come la navetta volante inven tata nel 1733, il filatoio idraulico brevet-tato nel 1769 e quello a vapo re introdotto attorno al 1790. Si de terminò a questo punto il passag gio dallo stadio artigianale a quel lo industriale, che portò alla nasci ta di grandi fabbriche in città dove il carbon fossile era a buon merca to e la manodope-ra abbondante.Il cotone grezzo da lavorare fu importato in misura crescente (da 500 tonnellate annue agli inizi del Settecento a 2.500 nel 1770, a 25.000 alla fine del secolo) prima dall’In-dia, quindi, attraverso il commercio triangolare, principal mente dalle colonie britanni-che nei Caraibi e in Nord America, an che dopo che queste ultime si rese ro indipenden-ti. Fu lo stesso cir cuito a fornire all’industria coto niera inglese gli sbocchi di merca to soprattutto quando, saturata la domanda interna, essa entrò in cri si di stagnazione. I tessuti a scac chi di basso costo, fabbricati per la maggior parte con la materia pri ma prodotta nelle Americhe dagli schiavi africani, vennero espor tati per l’80% in Africa occidenta le, dove erano scambiati con schia vi, e per il 20% nelle Americhe, do ve ser-vivano a vestire la crescente popolazione di schiavi africani al lavoro nelle piantagioni.

(Manlio Dinucci, Il sistema globale, Zanichelli, Bologna 2004)

[Manlio Dinucci è il maggior studioso italiano di geopolitica: giornalista e autore di testi in cui affronta i problemi della globalizzazione e del sistema economico che si è creato a seguito di questi processo.]

❱❱ 12. La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadinoDal dualismo cartesiano all’idea di diritto naturale e più tardi all’ope ra di Kant, i secoli XVII e XVIII, malgrado la forza crescente del natu ralismo e dell’empirismo che preannunziano lo scientismo e il positivismo dell’Ottocento, restano fortemente segnati, sul piano intellet tuale, dalla secolarizzazione del pensiero cristiano, dalla trasformazio ne del soggetto divino in un soggetto umano, il quale è sempre meno assorbito nella contemplazione di un essere viepiù nascosto, e diviene un attore, un lavoratore e una coscienza morale.Questo periodo si conclude con un grande testo: la Dichiarazione dei diritti dell’uo-mo e del cittadino, votata dall’Assemblea nazionale il 26 agosto 1789. La sua influen-za ha superato quella delle dichiarazio ni americane e il suo senso è ben diverso da quello del Bill of Rights inglese del 1689. Questo testo è grande, non solo perché proclama al cuni principi in contraddizione con quelli della monarchia assoluta (prin-cipi che, in questo senso, sono rivoluzionari), ma anche perché segna la conclusione di due secoli di polemiche e dà all’idea dei diritti del l’uomo un’espressione univer-sale che contraddice l’idea rivoluziona ria. La dichiarazione francese dei diritti si situa alla congiunzione tra un periodo che fu dominato dal pensiero inglese e il periodo delle ri voluzioni che sarà dominato dal modello politico francese e dal pen siero te-desco. È l’ultimo testo che proclama sulla scena pubblica la du plice natura della modernità, fatta al contempo di razionalizzazione e di soggettivazione, prima che per un lungo secolo trionfino lo stori cismo e il suo monismo.Questo testo è stato identificato così strettamente con i principi della democrazia e con il rovesciamento dell’Ancien Régime, in Francia e in molti altri paesi, che gli si

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attribuisce, leggendolo con il rispetto che merita, un’unità che rende difficile la sua comprensione. Così come la volontà di Clemenceau, nel 1889, di difendere l’eredità della rivo luzione tutta intera, in blocco, rendeva difficile, o addirittura impos sibile, l’analisi dei dieci anni che, partendo dalla proclamazione della sovranità popolare, si conclusero con un colpo di stato militare. Si im pone, al contrario, l’intreccio di due temi contrapposti, quello dei di ritti individuali e quello della volontà generale, che si è soliti associare al nome di Locke il primo, di Rousseau il secondo, e con tanta for-za che il problema centrale diventa quello di sapere cosa li unisca, cosa conferisca unità e coerenza a questa dichiarazione. Abbiamo citato qui questo testo storico per-ché esso appartiene più al pensiero individuali stico che al pensiero olista, per ripren-dere la contrapposizione formu lata da Louis Dumont, giacché esso è segnato più dall’influenza degli inglesi e degli americani che da quella dei patrioti francesi – rappor to di forze e di influenza che presto sarà rovesciato e farà trionfare una rivolu-zione sempre più estranea e ostile all’individualismo dei di ritti dell’uomo. In tal senso questa dichiarazione segna la fine del pe riodo prerivoluzionario, mentre invece la dichiarazione del 1793 si situerà già pienamente entro la logica rivoluzionaria. La preminenza del tema dei diritti individuali è chiaramente dimostrata dal preambolo che pone i «diritti naturali inalienabili e sacri dell’uomo» a monte del sistema politi-co i cui «atti» in ogni istante potrebbero essere confron tati al fine di ogni istituzione politica, e dunque non possono essere valutati in riferimento all’integrazione della società, al bene comune o a ciò che oggi chiameremmo interesse nazionale. L’artico-lo II enu mera i principali diritti: libertà, proprietà, sicurezza e resistenza al l’oppressione. Il diritto di proprietà è precisato nell’articolo XVII, al quale si sono arrestati i lavori dell’assemblea. L’articolo IV appartiene alla stessa logica individualistica. Ma, di-nanzi all’uomo, si costruisce la figura del cittadino sin dal primo articolo, che afferma: «Le distin zioni sociali possono essere fondate solo sull’utilità comune», e soprat tutto negli articoli III e VI, che pongono in primo piano le idee di na zione e di volontà generale. Queste due concezioni sono reciprocamente contrapposte, come osserva Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto: «Se si confonde lo Stato con la società civile e se lo si destina alla sicurezza e alla protezione della proprietà e della sicurez-za personale, l’interesse degli individui in quanto tali è lo scopo supremo in vista del quale essi sono riuniti e ne risulta che essere membri di uno Stato è facoltativo. Ma il suo rapporto con l’individuo è ben altro se esso è lo spirito oggettivo; allora l’indi-viduo stesso non ha oggettività, verità e moralità se non in quanto ne è un membro. L’associazione in quanto tale è essa stessa il vero contenuto e il vero scopo, e la de-stinazione degli individui consiste nel condurre una vita collettiva» [citato da Marcel Gauchet nel Dictionnai re critique de la Révolution française].La contrapposizione tra queste concezioni non si basa sull’antitesi tra un olismo tradizionale e un individualismo moderno; essa mette a confronto i due aspetti della modernità. Da un lato, all’assolutismo della legge divina si sostituisce il principio dell’utilità sociale, l’uomo deve essere considerato un cittadino ed è tanto più virtuo-so quanto più sacrifica i propri interessi egoistici alla salvezza e alla vittoria della nazione; d’altro canto, gli individui e le categorie sociali difendono i propri interessi e i propri valori di fronte a un governo i cui appelli all’unità ostacolano le iniziative individuali e dunque la sua stessa rappresentatività.Questa contrapposizione non può essere superata con una migliore comprensione di cosa sia la nazione, che è non già lo Stato ma il po polo, e dunque la volontà genera-le, giacché questo riferimento appar tiene a una delle due concezioni che si tenta di

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combinare, e l’espe rienza storica vieta assolutamente di identificare al bene comune e ai diritti dell’uomo l’unanimismo delle folle. La risposta fornita dalla di chiarazione del 1789 è diversa e più elaborata: ciò che concilia l’inte resse individuale e il bene comune è la legge, formula quasi ovvia alla fine di un secolo in cui il pensiero socia-le si confonde con la filosofia del diritto oppure è dominato da essa. La legge è con-cepita come espres sione della volontà generale e come strumento dell’eguaglianza, ma ha anche il compito di difendere indirettamente le libertà individuali de finendo i «limiti» che rendono la libertà di ciascuno compatibile con il rispetto dei diritti altrui. Il che propone in poche parole una teoria della democrazia (parola che non compare nel testo). Questo regime non è forse quello che combina la pluralità degli interessi con l’unità della società, la libertà con la cittadinanza, grazie alla legge che non ha principi propri diversi da questa funzione di mediare e di combina re, in generale li-mitata e fragile, ma sempre indispensabile? Concezio ne della legge meno ambiziosa e soprattutto meno autoritaria di quel la dei giuristi che hanno edificato lo Stato di diritto, spesso entro la cornice della monarchia assoluta, e che hanno fatto della leg-ge lo stru mento della sottomissione dell’individuo a un bene comune ridefinito in termini di utilità collettiva. Qui, al contrario, la legge è subordinata ai diritti naturali dell’uomo; è incaricata dunque di combinare l’inte resse di ciascuno con l’interesse della società, il che fa uscire dall’uto pia alla Rousseau, giacché l’individuo può es-sere egoista o disonesto e la parola «società» può celare gli interessi particolari dei governi, della tecnocrazia o dei burocrati.La maggioranza degli articoli della dichiarazione, a partire dagli ar ticoli V e VI, precisano le condizioni di applicazione della legge, e in particolare il funzionamento della giustizia. Il che consente di ram mentare la priorità dei diritti dell’uomo, special-mente nell’articolo IX che introduce l’habeas corpus, e nell’articolo X con la sua strana for mulazione: «Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche re-ligiose», che dà alla laicità la sua forma più lontana dallo spirito an tireligioso dei razionalisti dell’Ottocento, quella del rispetto delle li bertà fondamentali, e dunque della diversità culturale e politica in cui si incarnano i diritti dell’uomo. La dichiara-zione si conclude non con l’articolo XVII, dedicato alla proprietà e già citato, ma in realtà con l’articolo XVI, dedicato a Montesquieu e la cui stessa formulazione – «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è determinata non ha costituzione» – de cide risolutamente a favore dei diritti individuali contro l’integrazio ne politica, a favore della libertà contro l’ordine.Le rivoluzioni che eliminano la monarchia assoluta dall’Inghilterra e dalle ex colonie inglesi divenute Stati Uniti d’America, e dalla Francia, dunque sono state definite dalla sovrapposizione del pensiero dei lumi e del dualismo cristiano e cartesiano. L’individualismo borghese, che sopravviverà a lungo in questo periodo, ha combina-to la coscien za del soggette personale con il trionfo della ragione strumentale, il pensiero morale con l’empirismo scientifico e con la creazione della scienza econo-mica, in particolare in Adam Smith.La storia dei due secoli successivi consisterà nella vicenda della se parazione di que-sti due principi, così strettamente associati nel pen siero di Locke: la difesa dei diritti dell’uomo e la razionalità strumen tale. Più questa costruirà un mondo di tecniche e di potenza, e più il richiamo ai diritti dell’uomo si dissocerà, anzitutto nel movimen-to operaio, poi in altri movimenti sociali, dalla fiducia nella ragione stru mentale. L’umanità, trascinata dal progresso, si domanderà se non stia perdendo l’anima, se non la stia vendendo al diavolo in cambio del dominio sulla natura. Non è ancora così

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durante il Settecento, tanto resta predominante la lotta contro le tradizioni e i privi-legi dell’An cien Régime, prima che gli sconvolgimenti introdotti dalla Rivoluzio ne francese, dall’Impero napoleonico e dalla rivoluzione industriale giun ta dalla Gran Bretagna suscitino la crisi romantica che porrà fine alla proclamata identità tra l’espe-rienza interiore e la ragione strumentale. Ecco perché la dichiarazione dei diritti è borghese e giusnaturalista al tempo stesso; il suo individualismo è contemporanea-mente affer mazione del capitalismo trionfante e resistenza della coscienza morale al potere del principe. Creazione suprema della filosofia politica mo derna, la dichiara-zione dei diritti reca già in sé le contraddizioni che stanno per lacerare la società in-dustriale.Il trionfo della libertà in Francia, come, qualche anno prima, negli Stati Uniti d’Ame-rica affrancati dalla dipendenza coloniale, pone termine a un periodo di tre secoli, che costituisce ciò che gli storici hanno chia mato «l’età moderna».

(Alain Touraine, Critica della modernità, Il Saggiatore, Milano 1992)

[Alain Touraine (1925). Sociologo francese si interessa ai problemi del lavoro e della produzione industria-le e dell’analisi politica dei movimenti sociali.]

❱❱ 13. il divenire della cittàÈ convinzione diffusa che la città stia subendo da qualche tempo un cambiamento radicale.Si assiste, infatti, al superamento di alcuni modelli urbani tradizionali nel vecchio continente e alla formazione di nuove città nel Terzo mondo, allo smantellamento di grandi aree industriali nei Paesi più avanzati e all’implementazione di imponenti e grandiose strutture produttive nei Paesi in via di sviluppo (PVS), alla conservazione e riqualificazione di intere zone del tessuto cittadino della nuova Europa e al decollo di avveniristici centri direzionali in alcune aree geografiche dell’Asia e del continen-te africano.La formazione di città mondiali come Tokyo, New York, Los Angeles, Londra, Pari-gi, e la progressiva emigrazione dalla campagna verso le grandi città milionarie del Sud del mondo come Città del Messico, il Cairo, Seul, Bombay, costituiscono due dei principali fenomeni che caratterizzano la civiltà urbana contemporanea.Il modello urbano tradizionale del nucleo chiuso ha sempre rigidamente contrapposto la città alla campagna, fissando nella memoria collettiva l’immagine della città mo-derna con alta densità demografica, l’abitato continuo, concentrazione di potere, ricchezza e divertimenti. Insomma un’isola cittadina che emerge dal piatto e unifor-me paesaggio rurale.Oggi si assiste, invece, a una inversione di tendenza per la quale l’isolamento urbano si è rotto e la nuova forma urbana occupa sempre più spazio, oltrepassa i suoi tradi-zionali confini e dilaga nella campagna, mescolando ormai aspetti rurali ad altri tipi-camente urbani e suburbani.In questi ultimi decenni, la contrapposizione città-campagna si è notevolmente atte-nuata grazie a nuove forme e pratiche insediative extraurbane sostenute da una fitta rete di comunicazione e dai sempre più veloci mezzi di trasporto pubblico e privato, e dalla rivoluzione informatica, tutti elementi che hanno reso possibile il definitivo decentramento di molte attività industriali e di servizi. Quindi, quello della città po-

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stindustriale è un territorio esploso, caratterizzato da nuovi insediamenti, ma soprat-tutto da autostrade telematiche che, creando una rete di istantanea adiacenza artifi-ciale, rompono l’isolamento urbano: la città, in senso fisico e in senso virtuale, occu-pa sempre più spazio. […]Con la mondializzazione delle economie e delle culture, il nostro mondo tende sem-pre di più ad assumere le caratteristiche di un unico grande «villaggio globale» dove soggetti fra loro diversi e lontani fino a qualche decennio fa sono portati adesso a confrontarsi e a conoscersi direttamente. Infatti, bisogna ancora una volta sottoline-are che il mondo sta attraversando due processi che sembrano fra loro contraddittori ma che, in realtà, lo sono solo apparentemente. Essi consistono, da una parte, nella globalizzazione delle economie – che tende a trasformare il nostro pianeta in una sorta di mercato unico – e, dall’altra, nel riemergere delle società locali, che, riaffer-mando il loro esserci ripropongono diverse identità, risorse e valori culturali di ap-partenenza […]Nei paesi in via di sviluppo l’esplosione urbana ha provocato una forte speculazione fondiaria, e il tessuto urbano risulta diviso in frammenti che, tra loro, presentano grandissimi contrasti. I poveri, che rappresentano una parte molto consistente della popolazione della città dei Paesi del Terzo mondo, non riescono a trovare alloggio e sono costretti a installarsi in vecchi edifici in rovina situati nei quartieri del centro, spesso sprovvisti dei servizi primari. Questi occupanti abusivi, che si insediano ille-galmente in luoghi squallidi ai margini della città, danno origine nei vari Paesi del Terzo mondo alle favelas, alle bidonvilles, agli squatters, ai barrios, ai cosiddetti unauthorized settlements. Raramente si tratta di invasioni spontanee: in genere sono pianificate da dirigenti o da associazioni di abitanti che prendono subito il controllo amministrativo del quartiere; sorgono così nelle periferie forme precarie di lottizza-zione a opera dei proprietari dei terreni, che tracciano strade e delimitano piccoli lotti privi di infrastrutture e servizi.Di conseguenza «rapidità di crescita e scarsità di risorse fanno sì che struttura e fun-zionamento della città del Terzo mondo siano completamente diversi da quella occi-dentale. Viceversa, Manila, Lagos o Caracas presentano molti tratti in comune, a tal punto che, se non riducibili a un unico modello, esse possono essere ricondotte a una medesima tipologia.Nella maggior parte dei Paesi del Terzo mondo, il processo di occupazione del suolo risulta illegale, ma negli ultimi anni questo fenomeno viene ampiamente tollerato dalle istituzioni. Infatti, di fronte al fenomeno della forte urbanizzazione e alla man-canza di politiche abitative popolari, i poteri pubblici sono passati spesso dalla re-pressione alla regolamentazione dell’occupazione del suolo, e si incaricano oramai di realizzare le principali infrastrutture e fornire alla comunità i servizi minimi. A questi quartieri illegali e molto poveri, si contrappongono in modo stridente quelli delle classi medie e ricche, che occupano spazi più ampi e gradevoli, caratterizzati da una bassa densità abitativa, risultato, anche, del crescente uso dei mezzi di traspor-to privati, che ha comportato l’allargamento smisurato delle zone residenziali nei siti di maggior pregio. Inoltre, in alcune delle zone più agiate, a ridosso del centro, si trovano selve di grattacieli lussuosi occupati da grandi società multinazionali. E, infine, per dare un quadro più completo della frammentarietà della città terzomondia-le, dobbiamo ricordare le cosiddette aree industriali, che, in maniera disordinata e disomogenea, si insediano nel territorio urbano con una moltitudine di aziende fami-liari e piccole fabbriche con poche probabilità di espansione.

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È ormai convinzione consolidata che, nel terzo millennio, la città industriale dalla struttura monocentrica si stia trasformando in un modello urbanistico polinucleare, composto da tanti grandi, medi e piccoli insediamenti abitativi, produttivi e funzio-nali, sparsi su un territorio sempre più vasto e di difficile demarcazione. La contrap-posizione città-campagna si è attenuata grazie a nuove forme insediative extraurbane sostenute dai sempre più veloci mezzi di trasporto pubblico e privato, dalla rivolu-zione informatica, dall’accessibilità e interdipendenza dei servizi, che hanno reso possibile il definitivo decentramento di molte attività industriali e di servizi. Un ter-ritorio esploso, quello della città nuova, che con le sue autostrade informatiche e i nuovi insediamenti produttivi segna una profonda ridefinizione del paesaggio con l’urbanizzazione della campagna.Il dilagare dell’urbanesimo nel paesaggio rurale prefigura oramai il divenire della città basato su modelli urbanistici che danno vita talvolta alle grandi megalopoli come quelle americane o giapponesi, o a modelli che seguono la composizione di estese conurbazioni urbane, o la formazione di un’articolata rete di aree metropolitane ca-ratterizzata da quella particolarità, tutta europea, di un sistema urbano diffuso. […]Le tradizionali formazioni delle città, messe in discussione dal sistema-mondo, fanno emergere in particolare nuove entità urbane che assomiglieranno sempre più a gran-di snodi stradali dove andranno a incrociarsi flussi di lavoratori, scambi commercia-li, conoscenze tecnologiche, operazioni finanziarie, riallocazione di capitali. Ci tro-viamo così di fronte a un’identità urbana sovranazionale e all’emergere di una nuova proiezione spaziale/virtuale ed economica della città che da un contesto localista si inserisce in un network mondiale.È il caso di New York, Londra e Tokyo, che svolgono la funzione di centri finanziari e dei servizi per l’intera economia internazionale. Queste grandi città mostrano alcu-ni tratti comuni, indipendenti dalla cultura in cui si sono originariamente sviluppate: presentano una peculiare stratificazione sociale (fatta soprattutto di ceti professiona-li emergenti e di lavoratori del terziario avanzato relativamente poveri), hanno stili di vita propri (che attraggono ampi strati sociali di tutto il pianeta), fanno un uso massiccio delle nuove tecnologie di comunicazione, di cui sono al tempo stesso ve-trina e luogo di sperimentazione. Sono città capitali, ma non di singoli Stati. Sono capitali di una rete invisibile che avvolge l’intero pianeta. E come enormi pilastri che reggono questa rete urbana transnazionale, Tokyo, New York, Londra possono esse-re considerate vere e proprie global cities che, con i loro edifici-mondo sedi delle grandi corporations internazionali, si sfidano a tutto campo in un’arena mondiale dominata ormai dalle comunicazioni virtuali.Ma la nuova gerarchia urbana che sta prendendo forma proprio in questi anni, è tutt’altro che assestata: è e rimarrà, per molti aspetti, una gerarchia mobile. Infatti, parallelamente allo sviluppo di questa ragnatela urbana mondiale, sostenuta dalle cosiddette global cities, troviamo altri sistemi urbani mobili come quello delle conur-bazioni europee che, partecipando attivamente alla ridefinizione del territorio, mira-no anch’esse a inserirsi in questa rete di città che controllano ormai l’economia globale.

(Nicolò Leotta, Photometropolis, Le vespe, Milano 2000)

[Nicolò Leotta (1954) ha fondato con Guido Martinetti il Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Si occupa dei problemi della comunicazione all’interno della metropoli con particolare riferimento all’arte urbana.]

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Storia del pensiero sociologico

❱❱ 1. Come sorge la sociologia?Come sorge la sociologia? A questo interrogativo si possono dare tre risposte. In primo luogo, si può sostenere che la sociologia esiste da sempre e che già la si ri-trova, per esempio, negli autori classici greci e latini, per non menzionare quelli orientali. In secondo luogo si può sostenere che la sociologia nasce con il padre ufficiale di essa, Auguste Comte, coniatore del termine e quindi formalmente “in-ventore” della disciplina. In terzo luogo, è possibile dimostrare che la sociologia nasce storicamente con l’avvento della società industriale moderna e con il concet-to di “società civile”. È vero infatti che si ritrovano negli autori classici riflessioni e analisi di fenomeni sociali e politici importanti, ma solo occasionalmente tali ri-flessioni si pre sentano collegate con dati empirici di prova e avvertono l’esigenza d’una verifica, o di una falsifica, in senso proprio. D’altro canto la concezione della sociologia che la vede legata all’insegnamento di Auguste Comte implica che una scienza possa sorgere all’improvviso compiuta e perfetta, quasi scaturisse ex capite Jovis, ad opera dei suoi autori, per così dire, ufficiali. La teoria che lega il sorgere della so ciologia all’avvento della società moderna è a nostro giudizio la più fonda-ta in quanto non si dà sociologia senza società, e senza società di un certo tipo. La sociologia è lo strumento di auto-ascolto ed eventualmente di auto-regolazione fondamentale per le società che hanno abbandonato le “grandi tradizioni”, già sta-tiche ed essenzial mente contadine, e che hanno deciso di imboccare la strada della modernizzazione, sostituendo, come supremo criterio di legittimità per le decisioni rilevanti, il calcolo regionale all’autorità dell’“eterno ieri”, cioè ai valori della tra-dizione.

Non a caso, quindi, nel Sette cento ha inizio lo studio sociologico della società e si possono rin venire i primi elementi per una definizione della sociologia come analisi empirica, concettualmente orientata, delle strutture istituzio nali e dei comportamen-ti collettivi socialmente rilevanti così come non a caso già nel Settecento la sociolo-gia si presenta divisa in tre correnti ben distinte e consapevoli:

a) un indirizzo psicologico, che tende a identificare i sentimenti e le passioni che influiscono sui rapporti sociali e rappresentano le forme generatrici delle forze sociali e delle loro modificazioni;

b) un indirizzo economicistico, che tende a porre in luce, assai prima di Marx, se pure meno sistematicamente, il peso degli interessi e il significato sociale della proprie-tà e della sua distribuzione; in base ad esso per la prima volta il fenomeno dell’ine-guaglianza umana non è considerato né come un dato naturale né come voluto da Dio, ma viene semplicemente collegato con altri fenomeni sociali;

c) un indirizzo ecologico e geo-ambientale, che mette in rilievo l’importanza del fattore geografico e climatico-ambientale, con ri guardo alla conformazione della società e sottolinea il rapporto uomo-risorse naturali.

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Se poi la sociologia del Settecento trova in Inghilterra il suo ter reno più fertile, ciò si deve al fatto che l’evoluzione della società inglese precede quella di qualsiasi altro paese europeo. […]

La concezione della sociologia come ricerca empirica, concettual mente orientata, aperta agli apporti inter-disciplinari, tesa ad integrare schema teorico e dato empirico, fortemente consapevole della di mensione storica e nel contempo legata al procedi-mento scientifi che si esprime nella triplice sequenza “problemi – ipotesi – veri fica”, rappresenta lo sbocco di un lungo e vario processo evolutivo le cui origini possono ragionevolmente collocarsi verso la metà del Settecento. Non v’è dubbio che un elemento probabilmente ineli minabile e di arbitrarietà si annida in qualsiasi tentativo di periodizzazione, specialmente quando si tratti di una disciplina relativa mente gio-vane, certamente più sciolta e spregiudicata ma anche meno sicuramente protetta da un’antica e collaudata tradizione accademica. Tenendo tuttavia presenti fondamenta-li caratteristiche sia di ordine analitico-metodologico che contenutistico-sostanziale, è dato distinguere, nello sviluppo della sociologia dalle origini ai nostri giorni, quat-tro grandi fasi:

a) fase sistematica (1750-1880);b) fase della ricerca sociale circoscritta e della specificità (1890-1929);c) fase neo-sistematica (1929-1955);d) fase della sociologia critica (1955-...).

(Franco Ferrarotti, Sociologia, Accademia, Milano 1977)

[Franco Ferrarotti (1926) si è interessato dei problemi del mondo del lavoro e della società industriale e postindustriale, dei temi del potere e della sua gestione, della tematica dei giovani, della marginalità urba-na e sociale, delle credenze religiose, delle migrazioni. Una particolare attenzione è stata dedicata nelle sue ricerche alla città di Roma. Il sociologo italiano ha sempre privilegiato un approccio interdisciplinare e in-sistito sull’importanza di uno stretto nesso tra impostazione teorica e ricerca sul campo.]

❱❱ 2. i classiciLa maggior parte delle idee dei sociologi classici non si prestano facilmente a una precisa verifica. Sono idee di carattere interpretativo, che ci orientano sui diversi modi di guardare alle realtà sociali; tentativi di esprimere la direzione storica generale, l’indirizzo fondamentale della società moderna, ossia, per dirla con Ruth Glass, «lo Stato e il fato» delle collettività contemporanee. Sono tentativi di spiegare ciò che sta accadendo nel mondo e di por mente a ciò che potrà accadere nel prossimo futuro.I sociologi classici non conoscono l’inibizione dei limiti di competenza che è propria delle discipline e delle specializzazioni accademiche: nel loro lavoro quelle che ven-gono ora chiamate scienze politiche, psicologia sociale, economia, antropologia e sociologia sono tutte ugualmente adoperate e integrate in modo da fornire una visio-ne panoramica della struttura sociale in tutti i suoi vari campi, dalla meccanica stori-ca in tutte le sue diramazioni, e dalle funzioni degli individui in una grande varietà di sfumature psicologiche.Ma l’importante è che, anche quando le loro conclusioni risultano erronee o inade-guate – come per esempio nell’idea di Spencer sullo svolgimento della società mili-tare in società industriale –, i sociologi classici riescono ugualmente col loro lavoro

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e col loro metodo di lavoro a dirci molte cose sulla natura della società e le loro idee assumono una diretta rilevanza ai fini del nostro lavoro attuale.Ma come può darsi, si domanderà, che questi uomini si sbagliavano tanto spesso, pur restando tuttavia così grandi? La risposta va trovata, credo, in un dato caratteristico del loro lavoro: le loro «grandi idee» consistono in quelli che potremmo chiamare dei «modelli», contrapposti alle teorie specifiche o alle ipotesi particolari. Questi modu-li di lavoro indicano: 1) i fattori a cui si deve prestare attenzione per comprendere un qualche particolare aspetto della società o anche una società nel suo insieme e la gamma delle relazioni possibili fra tali fattori. L’interazione di questi ultimi non è tuttavia considerata su un piano di vaga casualità: a torto o a ragione, questi fattori vengono organizzati secondo una stretta interconnessione, ognuno con una sua propria incidenza casuale: le connessioni e il peso di incidenza che si attribuiscono ai singo-li fattori costituiscono appunto le teorie specifiche.In altri termini, i sociologi classici costruiscono dei modelli di società e se ne servo-no per sviluppare un certo numero di teorie. Il fatto importante è che né la validità, né l’inesattezza di alcune di queste teo rie specifiche necessariamente conferma o infirma la utilità o la pertinenza dei modelli. Questi ultimi possono essere usati per la costruzione di molte teorie: possono essere usati per correggere gli errori di teorie alla cui elaborazione essi stessi sono serviti; e sono schemi facilmente ampliabili, in quanto possono essere modificati sì da riuscire più utili come strumenti analitici ed empiricamente più aderenti al corso dei fatti.Sono questi modelli ad essere grandi, non soltanto in quanto contributi alla storia della ricerca e della riflessione sociale, ma anche perché influiscono sul pensiero sociologico successivo: essi rappresentano, a mio avviso, il dato vivo della tradizione classica della sociologia e credo pure che ad essi si debba il fatto che con tanta per-sistenza e in circostanze assolutamente diverse si siano avuti tanti «rilanci» dei pen-satori qui presentati; questo è, in breve, il perché della «classicità» delle loro opere.

(C.Wright Mills, Immagini dell’uomo, Milano 1982)

❱❱ 3. una società è un organismoQuando diciamo che lo sviluppo è comune agli aggregati sociali e agli aggregati or-ganici, non escludiamo però interamente ogni co munanza con gli aggregati inorga-nici: alcuni di questi, per esempio i cristalli, crescono in modo visibile; e tutti, nell’ipotesi dell’evoluzione, sono ritenuti sorti, in un certo tempo, per via d’integra-zione. Tut tavia, in confronto alle cose che chiamiamo inanimate, i corpi viventi e le società presentano in modo così evidente l’aumento della massa, che esso si può considerare come caratteristico degli uni e delle altre. Molti organismi crescono du-rante tutta la vita; altri crescono durante una parte considerevole della loro vita. Lo sviluppo sociale suole continuare o fino al tempo, in cui le società si dividono, o fino al tempo, in cui sono schiacciate.E questo è il primo carattere, per il quale le società si connettono al mondo organico, e si distinguono sostanzialmente dal mondo inorganico.È pure un carattere dei corpi sociali, come pure dei corpi viventi, che, mentre cresco-no in dimensione, crescono anche in struttura. Un animale inferiore, o l’embrione d’un animale superiore, ha poche parti che si possano distinguere; ma mentre acqui-sta una massa maggiore, le sue parti si moltiplicano, e simultaneamente si differen-

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ziano. Lo stesso avviene di una società. Dapprima le diversità tra i suoi gruppi. d’unità sono poco notevoli quanto a numero e a grado, ma facendosi essa più popo-losa, le divisioni e le suddivisioni diveng ono più numerose e spiccate. Inoltre, nell’or-ganismo sociale, come in quello individuale, le differenziazioni cessano solo con quella perfezione del tipo, che segna la maturità e precede la decadenza.È vero che, anche in certi aggregati inorganici, come nell’intero sistema solare e in ciascuno dei suoi membri, le differenziazioni di struttura s’accompagnano alle inte-grazioni; ma sono relativamente così lente e semplici, che si può non tenerne conto. La moltiplicazione delle parti di natura diversa è così grande nei corpi politici e nei corpi viventi, che costituisce un altro carattere comune sostan ziale, che li distingue dai corpi inorganici.La comunanza sarà più completamente intesa, se si osserva che la progressiva diffe-renziazione delle strutture è accompagnata dalla progressiva differenziazione delle funzioni.Le divisioni moltiplicantisi, primarie, secondarie e terziarie, che si verificano in un ani-male in sviluppo, non assumono senza scopo la maggiore o minore diversità, che inter-corre fra loro. Insieme alle diversità nelle loro forme e nelle loro composizioni si hanno diversità delle azioni, che compiono; si sviluppano in organi dissimili, che hanno com-piti dissimili. Il sistema alimentare nell’assumere tutta la funzione di assorbire il nutri-mento mentre assume anche i suoi ca ratteri strutturali, diviene gradualmente distinto in parti nettamente diverse; ognuna di questa ha una funzione specifica, che fa parte della funzione generale. Un membro, destinato alla locomozione o prensione, acquista divi-sioni e suddivisioni che hanno compiti principali e secondari in quest’ufficio. Lo stesso si verifica per le classi in cui si divide una società. Una classe dominante che sorga, non solo diventa distinta dal resto, ma si assume un governo sul resto; e quando questa clas-se si distingue in più o meno dominanti, questi cominciano pure a compiere singole funzioni di governo. Così pure avviene delle classi le cui azioni sono soggette a governo. I vari gruppi, nei quali si dividono, hanno varie occupazioni; e ognuno di questi gruppi, in se stesso, acquista minori differenze di parti con minori differenze di compiti.E qui si vede chiaramente come le due classi di cose, che stiamo confrontando, si distinguano dalle cose di altra natura; perché quelle differenze di struttura, che si producono lentamente negli aggregati inorganici, non sono accompagnate da quelle che possiamo dire differenze di funzioni.Passando all’ultimo e più spiccato carattere del corpo politico e del corpo vivente, vedremo perché in essi le azioni dissimili di parti di verse sono da considerare come funzioni, mentre non altrettanto possiamo dire delle azioni dissimili di parti dissimi-li in un corpo inorganico.L’evoluzione determina negli uni e negli altri non solo semplici differenze, ma diffe-renze che stanno in rapporti definiti, differenze, di cui ognuna rende possibile le altre. Le parti di un aggregato inorganico sono in tale relazione, che l’una può subire un gran cambiamento senza modificare il resto in modo apprezzabile. Ma avviene altri-menti nelle parti di un aggregato organico, o di un aggregato sociale. In ambedue le trasformazioni delle parti si determi nano vicendevolmente, e le azioni mutue delle parti dipendono l’una dall’altra. In ambedue questa vicendevole dipendenza cresce col progredire dell’evoluzione. Il tipo infimo di animale è tutto stomaco, tutto super-ficie respiratoria, tutto arti. Lo sviluppo di un tipo fornito di appendici, con cui possa muoversi o impadronirsi del cibo, può avere luogo solo se queste appendici, perden-do la facoltà di assorbire direttamente il nutrimento dai corpi circostanti, sono forni-

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te di nu trizione dalle parti, che conservano questa facoltà di assorbimento. Una su-perficie respiratoria, cui son condotti i fluidi circolanti per essere aerati, può formar-si solo a condizione che la perdita simulta nea delle attitudini a fornirsi di materiali per la respirazione e per la crescita, sia compensata dallo sviluppo di una struttura, che porti questi materiali. Lo stesso si verifica in una società. Ciò che noi chiamiamo con perfetta proprietà la sua organizzazione, presuppone un fatto della stessa natura. Finché è rudimentale, tutti sono guer rieri, cacciatori, costruttori di capanne, fabbri-canti di utensili: ogni parte soddisfa da sé ai propri bisogni. Il progresso fino al pun-to di avere un esercito permanente può aver luogo solo quando sorgono ordinamenti tali per cui il resto possa fornire l’esercito di vettovaglie, di vestiti, di munizioni da guerra. Se qua la popolazione si occupa esclusivamente di agricoltura e là di miniere, se questi manifatturano i beni, mentre quelli li distribuiscono, ciò può avvenire a condizione che, in cambio d’un certo servizio reso da una parte alle altre, cia scuna di queste altre parti presti i propri servizi nelle debite pro porzioni.Tale divisione del lavoro, che fu dapprima osservata dagli econo misti come un feno-meno sociale, e quindi riconosciuta dai biologi come fenomeno dei corpi viventi e chiamata “divisione fisiologica del lavoro”, è quella che fa della società, come dell’ani-male, un corpo vivente. Non si può insistere abbastanza sulla verità che, rispetto a questo carattere fondamentale, l’organismo sociale e l’individuale sono del tutto si-mili. Quando si vede che in un mammifero, l’arre starsi dei polmoni produce l’imme-diato arresto del cuore; che, se lo stomaco non compie affatto il suo ufficio, tutte le altre cessano a poco a poco di agire; che la paralisi degli arti costringe tutto il corpo alla morte per mancanza di cibo e per non poter sfuggire ai pericoli; che persino la perdita di organi piccoli, come gli occhi, priva il ri manente di servizi assegnati alla sua conservazione, non possiamo non ammettere che la mutua dipendenza delle parti sia un carattere essenziale. E quando in una società vediamo che i lavoratori di ferro si fermano, se i minatori non forniscono i materiali; che i sarti non possono fare il loro mestiere, se mancano quelli che fabbricano filati e tessuti; che i produttori di manu-fatti non operano, se non operano i produttori e i distributori degli alimenti; che i poteri governativi, i pubblici ufficiali, i giudici, non possono mantener l’ordine, se le cose necessarie alla vita non sono loro fornite dai governati, siamo co stretti a dire che la mutua dipendenza delle parti è altrettanto rigo rosa. Per quanto i due generi di ag-gregati siano dissimili per altro aspetto, sono simili per questo carattere fondamentale.S’intende più chiaramente, come le azioni combinate delle parti reciprocamente di-pendenti costituiscano la vita del tutto e come ne risulti un parallelismo tra la vita nazionale e l’individuale, se si os serva che la vita di ogni organismo visibile è costi-tuita dalla vita di unità troppo piccole per esser viste a occhio nudo.

(Herbert Spencer, Principi di Sociologia, UTET, Torino 1968)

❱❱ 4. Rivoluzione industriale e classi socialiLa storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi.Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazio-ni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la co-mune rovina delle classi in lotta.

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Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articola-zione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo si-gnori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi.La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta.La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver sem-plificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.Dai servi della gleba del medioevo sorse il popolo minuto delle prime città; da questo popolo minuto si svilupparono i primi elementi della borghesia.La scoperta dell’America, la circumnavigazione dell’Africa crearono alla sorgente borghesia un nuovo terreno. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la coloniz-zazione dell’America, gli scambi con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in genere diedero al commercio, alla navigazione, all’industria uno slan-cio fino allora mai conosciuto, e con ciò impressero un rapido sviluppo all’elemento rivoluzionario entro la società feudale in disgregazione.L’esercizio dell’industria, feudale o corporativo, in uso fino allora non bastava più al fabbisogno che aumentava con i nuovi mercati. Al suo posto subentrò la manifattura. Il medio ceto industriale soppiantò i maestri artigiani; la divisione del lavoro fra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nella singola offi-cina stessa.Ma i mercati crescevano sempre, il fabbisogno saliva sempre. Neppure la manifattu-ra era più sufficiente. Allora il vapore e le macchine rivoluzionarono la produzione industriale. All’industria manifatturiera subentrò la grande industria moderna; al ceto medio industriale subentrarono i milionari dell’industria, i capi di interi eserciti in-dustriali, i borghesi moderni.La grande industria ha creato quel mercato mondiale, ch’era stato preparato dalla scoperta dell’America. Il mercato mondiale ha dato uno sviluppo immenso al com-mercio, alla navigazione, alle comunicazioni per via di terra. Questo sviluppo ha reagito a sua volta sull’espansione dell’industria, e nella stessa misura in cui si esten-devano industria, commercio, navigazione, ferrovie, si è sviluppata la borghesia, ha accresciuto i suoi capitali e ha respinto nel retroscena tutte le classi tramandate dal medioevo.[...]Ogni società si è basata finora, come abbiamo visto, sul contrasto fra classi di oppres-sori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assi-curate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell’assolu-tismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l’operaio moderno, invece di ele-varsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle con-dizioni della sua propria classe. L’operaio diventa un povero, e il pauperismo si svi-luppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza.

(Karl Marx, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1962)

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❱❱ 5. La borghesia classe rivoluzionariaLa borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha rag-giunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della ma-linconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche.La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. [...]Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cat-tedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popo-li e le crociate.La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato manteni-mento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produ-zione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movi-mento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concet-ti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni.Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmo-politica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’in-dustria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bi-sogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosuffi-cienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.

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Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazio-ni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idio-tismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di conta-dini da quelli di borghesi, l’Oriente dall’Occidente.La borghesia elimina sempre più la dispersione dei mezzi di produzione, della pro-prietà e della popolazione. Ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione, e ha concentrato in poche mani la proprietà. Ne è stata conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, legate quasi solo da vincoli federali, con interessi, leggi, governi e dazi differenti, vennero strette in una sola nazione, sotto un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, entro una sola barriera doganale.Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produt-tive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli anteceden-ti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venu-ta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l’organizzazione feudale dell’agri-coltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corri-sposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spez-zate e furono spezzate.Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e poli-tica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.

(Karl Marx, Il manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1962)

❱❱ 6. Che cosa è un fatto socialePrima di cercare quale è il metodo più confacente allo studio dei fatti sociali, è ne-cessario sapere quali sono i fatti che vengono così chiamati. Questa definizione è tanto più necessaria in quanto ci si serve di tale qualifica senza malta precisione. Essa s’impiega correntemente per designare presso a poco tutti i fe nomeni che si verifica-no nell’interno della società, per poco che essi presentino, grazie ad un determinato

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ca rattere generale, qualche interesse sociale. Ma, a questa stregua, non v’è, si può dire, avvenimento umano che non possa esser qualificato sociale. Ogni individuo beve, dorme, mangia, ragiona e la società ha tutto l’interesse che queste funzioni si esercitino regolarmente. Se per tanto questi fatti fossero sociali, la sociologia non avreb be un oggetto che le fosse proprio ed il suo dominio si confonderebbe con quel-lo della biologia e della psi cologia.Viceversa, in realtà, in ogni società esiste un grup po determinato di fenomeni che si distinguono, grazie a caratteri spiccatamente diversi, da quelli che studiano le altre scienze della natura.Quando assolvo il mio compito di fratello, di sposo o di cittadino; quando rispetto gli impegni che ho pre so, io compio dei doveri che sono ben definiti, al di fuori della mia persona e dei miei atti, secondo il dirit to e secondo i costumi. Anche quando tali doveri sono in armonia coi miei propri sentimenti e che ne sento interiormente la realtà, questa non cessa d’essere ob biettiva, poiché non sono io che li ho creati ma li ho ricevuti dall’educazione. Quante volte, d’altronde, ca pita che noi ignoriamo i particolari degli obblighi che ci incombono e che, per conoscerli, dobbiamo consul-tare il Codice ed i suoi interpreti autorizzati. Allo stesso modo, le credenze e le pra-tiche della sua vita religiosa, il fedele le ha trovate bell’e fatte quando è nato. Se esse esistevano prima di lui, ciò significa che esistono al di fuori di lui. Il sistema di segni dei quali mi servo per esprimere il mio pensiero, il sistema di monete che impiego per pagare i miei debiti, gli stru menti di credito che utilizzo nelle mie relazioni com-merciali, le pratiche seguite nella mia professione ecc. funzionano indipendentemen-te dagli usi che ne faccio. Si prendano l’uno dopo l’altro tutti i membri dei quali è composta la società; quanto precede potrà esser ripe tuto per ciascuno di essi. Ecco dunque delle maniere d’agire, di pensare e di sentire che presentano questa rimarche-vole proprietà: esse esistono al di fuori delle coscienze individuali.Non soltanto questi tipi di condotte o di pensiero sono esteriori all’individuo, ma sono datati d’una po tenza imperativa e coercitiva in virtù della quale s’impongono a lui, lo voglia o non lo voglia. Senza dubbio, quando io mi ci conformo di buon grado, questa coerci zione non si fa o si fa poco sentire, essendo inutile. Ma non è meno un carattere intrinseco di questi fatti e la prova ne è che essa si afferma appena io tento di resistere. Se provo a violare le regole del diritto, que ste reagiscono contro di me in maniera tale da impedire il mio atto, quando vi sia ancora tempo; oppure da annul-larlo e da ristabilirlo sotto la sua forma normale se è compiuto e riparabile, o da farmelo espiare se non può esser riparato in altra maniera. Si tratta di massi me pura-mente morali? La coscienza pubblica tende ad impedire qualsiasi atto che le offenda, mediante la sorveglianza che essa esercita sulla condotta dei citta dini e le pene spe-ciali delle quali dispone.In altri casi, la costrizione è meno violenta; non cessa però d’esistere. Se io non mi sottometto alle con venzioni del mondo; se, vestendomi, non tengo alcun conto degli usi correnti nel mio paese e nella mia classe sociale, le risate che provoco, l’ostracismo nel quale mi si tiene, producono, anche se in una maniera più atte nuata, gli stessi effetti d’una pena propriamente detta. In altri campi, la costrizione, pur non essendo che indi-retta, non è meno efficace. Io non sono obbligato a parlare francese coi miei compatrio-ti, né d’impiegare le monete legali: ma è impossibile che io possa fare diversamente. Se cercassi di sfuggire a questa necessità, il mio tentativo fallirebbe miseramente.Industriale, nulla mi vieta di lavorare con dei pro cedimenti e dei metodi dell’altro secolo: ma se lo faces si, mi rovinerei certamente. Ed anche se effettivamente potessi

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liberarmi da queste norme e violarle con succes so, ciò non avverrebbe mai senza che io fossi obbligato a lottare contro di esse. Quand’anche queste fossero fi nalmente vinte, mi farebbero sufficientemente sentire la loro potenza coattiva mediante la re-sistenza che op porrebbero. Non vi è innovatore, anche felice, le cui iniziative non vengano ad urtarsi contro opposizioni di questo genere.Ecco dunque un ordine di fatti che presentano dei caratteri molto specifici: consisto-no in modi di agire, di pensare e di sentire, esteriori all’individuo, e che dotati d’un potere di coercizione per virtù del quale gli si impongono. Ne consegue che non si possono confondere coi fenomeni organici, poiché consistano in rappresentazioni ed azioni; né coi fenomeni psi chici, che non hanno esistenza che nella coscienza indivi-duale e per azione di questa. Costituiscono dunque una specie nuova ed è a loro che deve essere data e riservata la qualifica di «sociali».Questa si adatta loro, perché è chiaro che, non avendo l’individuo per substrato, non possono averne un altro all’infuori della società, sia essa la società politica nella sua integralità, sia uno qualunque dei gruppi parziali che essa racchiude, confessioni religiose, scuole politiche o letterarie, corporazioni professionali ecc. D’altra parte, è a questi solo che essa conviene; perché la parola «sociale» non ha un senso defini-to che a condizione di designare unicamente dei fenomeni che non entrano in alcuna delle categorie di fatti già costituiti e deno minati. Sono dunque il campo specifico della sociologia.È vero che la parola «costrizione», colla quale noi li definiamo, rischia di allarmare gli zelanti partigiani d’un individualismo assoluto. Siccome essi professano che l’in-dividuo è perfettamente autonomo, sembra loro che lo si diminuisca tutte le volte che gli si fa sentire che egli non dipende soltanto da se stesso. Ma siccome oggi è incon-testabile che la maggior parte delle nostre idee e delle nostre tendenze non sono elaborate da noi, ma ci vengano dall’esterno, queste idee e tendenze non possono penetrare in noi che imponendosi: è tutto quello che significa la nostra definizione. D’altronde è risaputo che ogni costrizione sociale non esclude neces sariamente l’in-tervento della personalità individuale.Però, siccome gli esempi che abbiamo citato (regole giuridiche, morali; dogmi reli-giosi; sistemi finanziari ecc.) consistono tutti in credenze e pratiche costituite, si potrebbe ritenere, da quanto precede, che non si abbia fatto sociale che dove si ha un’organizzazione definita. Viceversa, vi sono altri fatti che, senza pre sentare queste forme cristallizzate, hanno e la stessa obbiettività e lo stesso ascendente sull’individuo. Si tratta di quelle che si chiamano «le correnti sociali». Così, in una assemblea, i grandi movimenti d’entusia smo, d’indignazione, di pietà che si producono, non han-no per punto d’origine alcuna coscienza particolare. Vengono a ciascuno di noi dall’esterno e sono suscetti bili di trascinarci nastro malgrado.Senza dubbio può capitare che, abbandonandomi a loro senza riserva, io non senta la pressione che eserci tano su di me. Ma questa si rivela dal momento in cui io cerco di lottare contro di loro. Che un individuo tenti d’opporsi ad una di queste manifestazio-ni collet tive, ed i sentimenti che egli nega si rivoltano contro di lui. Ora, se tale po-tenza di coercizione esteriore si afferma con questa chiarezza nei casi di resistenza, vuol dire che esiste, anche se inconscia, nei casi inversi. Noi siamo allora ingannati da una illusione che ci fa credere che abbiamo elaborato noi stessi quello che ci viene im posto dall’esterno. Però, anche se la compiacenza alla quale ci lasciamo andare maschera l’impulso subito, non lo sopprime affatto. Allo stesso modo che l’aria non cessa d’essere pesante anche se noi non ne sentia mo più il peso. E così, mentre abbia-

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mo spontaneamen te collaborato, da parte nostra, all’emozione comune, l’impressione che noi avremmo provata se fossimo stati soli sarebbe stata ben differente. Una volta, poi, che l’assemblea si è sciolta, che queste influenze sociali han no cessato d’agire sopra di noi e che ci ritroviamo soli con noi stessi, i sentimenti attraverso i quali siamo passati ci fanno l’effetto di qualche cosa d’estraneo, dove non ci riconosciamo più. Ci accorgiamo allora che li avevamo subiti molto di più che non li avessimo creati. Ca-pita persino che ci facciano orrore, tanto era no contrari alla nostra natura.

(Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico,Newton Compton, Roma 1971)

❱❱ 7. Le classi socialiOgni ordinamento giuridico (non soltanto quello «statale») agi sce direttamente, me-diante la sua configurazione sulla distribuzione della potenza caratteristica di una comunità – e ciò non soltanto per la potenza economica, ma anche per qualsiasi altra potenza. Per «potenza» intendiamo qui in generale la possibilità, che un uomo o una pluralità di uomini possiede, di imporre il proprio volere in un agire di comu nità anche contro la resistenza di altri soggetti partecipi di questo agire. Naturalmente la potenza «economicamente condizionata» non si iden tifica con la «potenza» in gene-rale. Il sorgere di un potere economico può essere piuttosto, al contrario, la conse-guenza di una potenza che sussiste per altri motivi. La potenza non viene da parte sua desiderata soltanto per scopi economici (di arricchimento); piuttosto la potenza, anche quella economica, può essere apprezzata «per se stessa», e molto sovente l’aspirazio-ne verso di essa è condizionata anche dall’«onore» sociale che ne consegue. Ma non ogni potenza conferisce onore sociale. Il tipico boss americano e il tipico speculato-re all’ingrosso vi rinunciano consapevolmente, e in generale è precisamente la poten-za «semplice mente» economica e soprattutto la «nuda» forza del denaro che non costituisce un fondamento riconosciuto di «onore» sociale. D’altra parte non soltan-to la potenza costituisce il fondamento dell’onore. Al contrario, l’onore sociale (pre-stigio) può costituire – e ha spesso co stituito – la base di una potenza anche di carat-tere economico. L’or dinamento giuridico può garantire l’onore al pari del potere. Ma esso non costituisce di regola la fonte primaria, ma anche qui costituisce un soprappiù che rafforza la possibilità del suo possessore, ma non lo può sempre garantire. Noi chiameremo «ordinamento sociale» il modo in cui l’«onore» sociale si distribuisce in una comunità tra gruppi tipici dei soggetti che ne partecipano. Naturalmente l’or-dinamento sociale sta con l’«ordinamento giuridico» in un rapporto simile a quello in cui sta l’ordinamento economico. L’ordinamento sociale non si identifica con questo, dato che l’ordinamento economico rappresenta unicamente il modo di distri-buzione e di impiego dei beni e delle prestazioni econo miche; però è in larga misura condizionato da esso, e a sua volta lo influenza.Le «classi», i «ceti» e i «partiti» costituiscono precisamente fenomeni di distribuzio-ne della potenza all’interno di una comunità.Le «classi» non costituiscono delle comunità nel senso qui stabi lito, ma rappresenta-no soltanto fondamenti possibili (e ricorrenti) di un agire di comunità. Noi parleremo di «classe» quando a una pluralità di uomini è comune una specifica componente causale delle loro possibilità di vita, nella misura in cui questa componente è rappresen-tata semplicemente da interessi economici di possesso e di guadagno – nelle condi-

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zioni del mercato dei beni o del lavoro («situazione di classe»). È un fatto economi-co tra i più elementari che il modo in cui la disposizione del possesso materiale è distribuita tra una pluralità di uomini che si incontrano e concorrono sul mercato a scopo di scambio crea di per sé specifiche possibilità di vita. Questa distribuzione, in base alla legge dell’utilità marginale della concorrenza, esclude i non possi denti da tutti i beni di maggior pregio, a favore dei possidenti, e di fatto monopolizza per essi il loro acquisto. Essa monopolizza – in circo stanze per il resto eguali – le possibilità di guadagni di scambio per tutti coloro che, provvisti di beni, non devono senz’altro dipendere dallo scambio, aumentando in generale la loro potenza nella lotta dei prez-zi con coloro che, sprovvisti di possesso, non possono offrire niente altro che le loro prestazioni di lavoro, in natura o sotto forma di pro dotti del loro lavoro, e che devo-no assolutamente smerciarli per vivere. Essa monopolizza inoltre la possibilità di trasferire un possesso dalla sfera dell’utilizzazione come «patrimonio» alla sfera dell’impiego come «capitale», vale a dire la funzione imprenditoriale e tutte le pos-sibilità di partecipazione diretta o indiretta al profitto capitalistico. […]Sono gli interessi economici univoci, e precisamente quelli legati all’esistenza del «mercato», che creano la «classe». Ciononostante il concetto di «interesse di classe» ha vari significati, e non è un concetto empirico univoco, appena con esso si intenda qualcosa d’altro rispetto all’effettivo orientamento degli interessi di una certa «media» degli individui sottoposti ad una situazione di classe, quale deriva con una certa pro-babilità dalla situazione stessa. A parità di situazione di classe e di altre circostanze, la direzione nella quale ad esempio il singolo lavoratore perseguirà con probabilità i suoi interessi può essere molto diversa, a seconda, ad esempio, che per una determi-nata prestazione egli venga qualificato – nella sua valutazione – ad un livello alto, medio o basso; e anche a seconda che dalla «situa zione di classe» sia sorto o meno un agire di comunità di una parte più o meno grande dei soggetti da essa interessati in comune, o addi rittura un’associazione tra essi (ad esempio un «sindacato»), dalla quale l’individuo si possa ripromettere determinati risultati. L’emergere di una asso-ciazione o anche di un agire di comunità da una situazione di classe non rappresenta affatto un fenomeno universale. Piuttosto, la sua in fluenza può esaurirsi in una rea-zione essenzialmente omogenea, e cioè (nella terminologia qui adottata) in un «agire di massa»; oppure non si produce nemmeno questa conseguenza. Spesso poi sorge soltanto un agire di comunità amorfo. Così, ad esempio, il «brontolio» dei lavo ratori, noto all’etica orientale antica, il quale esprimeva la disapprova zione morale dell’at-teggiamento del padrone – disapprovazione che, nel suo significato pratico, si può presumere equivalesse a un fenomeno che diventa di nuovo sempre più tipico del recente sviluppo industriale, cioè alla tendenza a «frenare» (cioè all’intenzionale li-mitazione della prestazione lavorativa) da parte dei lavoratori, in virtù di un consen-so tacito. Il grado in cui dall’«agire di massa» degli appartenenti alla clas se sorge un «agire di comunità» – e eventualmente anche delle asso ciazioni – è legato a condi-zioni generali di cultura, in modo particolare di natura intellettuale, e al grado dei contrasti che sono sorti, e special mente alla perspicuità della connessione tra le cau-se e gli effetti della «situazione di classe». […]«Situazioni di classe» esistettero in una forma così specificamente semplice e chiara nell’antichità e nel Me dioevo nei centri cittadini, specialmente quando venivano am-massati grandi patrimoni in virtù di un commercio, di fatto monopolizzato, di prodot-ti industriali della località in questione o di sostanze alimentari; altri esempi si posso-no trovare in certe circostanze nell’agricoltura delle epoche più diverse, con l’affer-

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marsi dello sfruttamento economico ac quisitivo. L’esempio storico più importante della seconda categoria è dato dalla situazione di classe del «proletariato» moderno.Ogni classe può quindi essere portatrice di qualche «agire di classe» – di cui sono possibili innumerevoli forme – ma non lo è necessariamente: in ogni caso essa non costituisce una comunità, e considerarla concettualmente equivalente a una comuni-tà è fonte di equi voci. È vero che di regola uomini posti in una stessa situazione di classe reagiscono a situazioni così concrete come quella economica con un agire di massa rivolto nella direzione più adeguata agli interessi della media, e questo è fatto in fondo semplice, ma importante per la com prensione degli avvenimenti storici.[…] Se le «classi» in sé non «sono» comunità, tuttavia le situazioni di classe sorgono soltanto sul terreno di una comunità. Soltanto che l’agire di comunità che dà loro vita non è in prevalenza un agire di comunità degli appartenenti alla medesima classe, ma è invece un agire tra appartenenti a classi differenti. Ad esempio, l’agire di comunità che determina immediatamente la situazione di classe dei lavoratori e degli impren-ditori è costituito dal mercato del lavoro, dal mercato dei beni e dall’impresa capita-listica. Ma l’esistenza di una impresa capitalistica presuppone a sua volta quella di un agire di comunità di forma molto particolare, diretto a tutelare il possesso dei beni in quanto tale, e spe cialmente la disponibilità in linea di principio libera dei mezzi di pro duzione da parte degli individui; essa presuppone cioè un «ordina mento giuridico», e di forma molto specifica. Ogni genere di situazione di classe, in quanto fondata soprattutto sulla potenza del possesso in quanto tale, si realizza nella forma più pura quando tutti gli altri motivi determinanti delle relazioni reciproche sono il più possi-bile assenti, in modo che la potenza del possesso sul mercato possa venir utilizzata nella forma più sovrana. […]. Oggi invece il punto cruciale è la determinazione dei salari. Il passaggio è costituito da quelle lotte per l’accesso al mercato e per la deter-minazione del prezzo dei pro dotti che ebbero luogo all’inizio dell’età moderna tra provveditori e artigiani domestici.Un fenomeno generale delle antitesi di classe con dizionate dalla situazione di merca-to, che deve quindi essere ricordato, è il fatto che esse si agitano nelle forme più aspre tra i soggetti che sono realmente interessati in modo diretto come avversari nella lot-ta dei prezzi. L’astio dei lavoratori non colpisce il redditiere o l’azionista a il banchie-re – anche se proprio nelle casse di questi affluisce un profitto in parte maggiore e in parte «più sprovvisto di lavoro» ri spetto a quello dell’industriale o del direttore dell’im-presa; esso colpisce invece quasi esclusivamente questi ultimi, quali avversari diretti nella lotta dei prezzi. Questo semplice fatto è spesso stato decisivo per l’im portanza della situazione di classe nella formazione dei partiti politici. Esso ha per esempio reso possibili le diverse varietà del socialismo patrimoniale e i tentativi di alleanza – alme-no un tempo frequenti – dei ceti minacciati con il proletariato, contro la «borghesia».

❱❱ 8. La burocraziaIl modo specifico di funzionamento della burocrazia moderna si esprime nel modo seguente.I. Esiste il principio delle competenze di autorità definite, disci plinate in modo gene-rale mediante regole, cioè mediante leggi e regola menti amministrativi. Ciò comporta:

1) una stabile suddivisione delle attività regolari richieste per gli scopi della forma-zione burocratica dominante – in forma di doveri di ufficio;

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2) i poteri di comando necessari per l’adempimento di questi compiti sano pure suddivisi in modo stabile e limitati mediante regole nei mezzi coercitivi (fisici o sacrali o di altro tipo) loro attribuiti;

3) all’adempimento regolare e continuativo dei campiti così sud divisi, e all’esercizio dei diritti corrispondenti, si provvede in modo sistematico con l’assunzione di persone fornite di una qualificazione regolata in via generale.

Questi tre momenti rappresentano, nel potere di diritto pubblico, la sussistenza di un «organo di autorità» burocratico e, nel potere eco nomico privato, quella di un’«im-presa» burocratica. In questo senso tale istituzione si è sviluppata completamente per la prima volta nelle comunità politiche e religiose dello stato moderno, e nell’econo-mia pri vata con le più avanzate formazioni capitalistiche. Anche in formazioni poli-tiche molto vaste quali quelle dell’antico Oriente, e così pure nei regni di conquista germanici o mongolici e in molte formazioni statali feudali, gli organi permanenti di autorità forniti di competenza stabile non sono la regola ma l’eccezione. In essi il detentore del potere affida i compiti più importanti a fiduciari personali, commensa-li o servitori di corte con incarichi e competenze non rigidamente delimitate, e crea-te volta a volta per il singolo caso.II. Esiste il principio della gerarchia degli uffici e della serie delle istanze, cioè di un sistema rigidamente regolato di sovra-ordinazione e sub-ordinazione degli organi di autorità con controllo dei superiori sugli inferiori – sistema che offre anche ai domi-nati una possibilità rigida mente regolata di appellarsi dall’istanza inferiore a quella superiore.Quando si abbia un completo sviluppo del tipo, questa gerarchia è orga nizzata in modo monocratico. Il principio della serie gerarchica delle istanze si trova tanto nelle for-mazioni statali ed ecclesiastiche quanto in tutte le altre formazioni burocratiche, come le grandi organizzazioni di partito e le grandi imprese private – qualora si vogliano chiamare «organi di autorità» anche le istanze private. Con un completo svi luppo del principio di «competenza», però, la subordinazione gerar chica non vuol dire, almeno negli uffici pubblici, che l’istanza «supe riore» sia abilitata a richiamare a sé gli affa-ri dell’istanza «inferiore». La regola è proprio l’opposto, e perciò nel caso del disbri-go di una partita da parte di un ufficio incaricato non può aversi alcuno sposta mento.III. La moderna condotta dell’ufficio si fonda su documenti (atti) che vengono con-servati in originale o in copia, e su un apparato di funzionari subalterni e scritturali di ogni tipo. Il complesso dei funzionari attivi in un organo di autorità, e l’apparato di mezzi e di atti ad esso corrispondente, costituisce un «ufficio» (nelle imprese pri-vate esso è spesso designato come «ufficio commerciale»). L’organizzazione moder-na degli organi di autorità separa completamente la sede dell’uf ficio dall’abitazione privata, e ciò in quanto distingue del tutto l’atti vità di ufficio come ambito isolato rispetto alla sfera della vita privata, e così pure distingue le finanze e i mezzi dell’uf-ficio dal possesso privato del funzionario. Questa situazione è il prodotto di un lungo sviluppo; oggi essa si trova sia nelle imprese economiche pubbliche che in quelle private, e in queste si estende anche all’imprenditore dirigente. Quanto più conse-guentemente è realizzato il tipo moderno della gestione degli affari – e gli inizi si trovano già nel Medioevo – tanto più sono separate la contabilità di ufficio e l’ammi-nistrazione domestica, la cor rispondenza di affari e la corrispondenza privata, il pa-trimonio di affari e il patrimonio privato. Si può affermare che la peculiarità dell’impren ditore moderno consiste nel fatto che egli si considera come «primo fun-zionario» della sua impresa, nello stesso modo in cui il dominatore di uno stato

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moderno specificamente burocratico si dice il «primo ser vitore» di esso. Che l’atti-vità di un ufficio statale e quello di un’azienda economica privata siano qualcosa di essenzialmente differente da un punto di vista interno, è un’idea propria dell’Europa continentale – a cui gli americani sono completamente estranei.IV. Ogni attività di ufficio, e almeno ogni attività specializzata – cosa specificamente moderna –, presuppone normalmente una mi nuziosa preparazione specializzata. Ciò vale sempre più per i moderni dirigenti e impiegati di un’impresa, economica priva-ta come per i fun zionari statali.V. L’attività di ufficio – quando questo sia completamente svi luppato – pretende tutta la capacità lavorativa del funzionario, pre scindendo dalla circostanza che il tempo del lavoro di ufficio sia stabilmente determinato. Ciò è di norma il prodotto di un lungo sviluppo negli uffici pubblici e privati: viceversa, una volta la norma era che gli impegni di ufficio fossero assolti come «professione secondaria»VI. La condotta dell’ufficio del funzionario segue regole generali che possono essere apprese, e che sono più o meno fisse ed esaurienti. La conoscenza di tali regole rap-presenta perciò una tecnica particolare – a seconda dei casi, si tratta della giurispru-denza o della teoria dell’amministrazione o della ragioneria – che i funzionari pos-seggono.Il vincolo alle regole della moderna condotta dell’ufficio è tanto radicato che la mo-derna teoria scientifica ammette per esempio che una competenza attribuita ad un’au-torità per la disciplina di determinate materie, mediante regolamento, non la legittima ad una disciplina me diante comandi stabiliti caso per caso, ma soltanto alla regolamenta zione astratta. Ciò costituisce la più netta contrapposizione al tipo di regolamentazione dominante che, per esempio nel patrimonialismo, ricevono tutte le relazioni non determinate dalla tradizione sacra, e che vengono dispensate mediante privilegi individuali e incarichi di favore.

(Max Weber, Economia e società, edizioni di Comunità, Milano 1961)

❱❱ 9. Livello sociale e livello individualeFra la massa e il singolo esiste una differenza di livello: la stessa che sorge (e può essere compresa) ogni volta che i modi e le qualità del «far massa» – quelli che assi-milano l’individuo a una collet tività – vengono distinti da altri, tipici della sfera pri-vata e tali da isolare una persona dal suo gruppo di ap partenenza. […] L’individuo può possedere le qualità più fini e evolute: ma ogni volta che ciò accade, diventa anche meno probabile la sua uguaglianza rispetto agli altri (os sia la formazione di unità), mentre le sue caratteristiche divengono sempre più incomparabili e, infine, si ridu cono quei margini di sensibilità primitive che lo accomunano agli altri, fino a dar vita ad una massa unitaria. Può allora accadere che il «popolo» sia erroneamente inteso come una «massa», senza che gli individui se ne sentano partecipi, anche per-ché, cosi facendo, di indi vidui non si parla affatto. L’individuo, se considerato come tale e come un tutto, possiede delle qualità supe riori rispetto a quelle che lo accomu-nano ad un collet tivo.Secondo le parole di Schiller: «Gli uomini, singo larmente presi, sono abbastanza arguti e intelligenti. Ma provate a metterli insieme e avrete di fronte una banda d’im-becilli». Heine, invece, dedica più attenzione al mo mento in cui, dall’incontro fra personalità diverse, emergono come tratti comuni gli elementi più infimi di ciascuna.

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Scrive infatti: «Raramente mi avete capito e raramente io ho capito voi. Solo se ci trovassimo nel le tame potremmo capirci al meglio».Questa differenza di livello fra il soggetto individuo e il soggetto massa si estende a tutta la vita sociale ed è tal mente ricca di implicazioni da spingermi ad elencare qual-che altro parere: soprattutto di quelle personalità che, trovandosi in una posizione particolare – ancorché diversa –, seppero accumulare una vasta esperienza in materia di relazioni pubbliche. Solone pare abbia detto che i suoi ateniesi erano tante volpi astute, ma una volta riuniti sul Pnyx si trasformavano in un gregge di pecore. Nelle sue memorie, descrivendo le sedute del parlamen to di Parigi all’epoca della fronda, il Cardinale di Retz osserva che molte corporazioni, pur contenendo anche degli esponenti autorevoli e istruiti, in sede di consulta zione comune solevano comportar-si come la plebe e obbedivano ai suoi stessi istinti e alle medesime passioni. Come Solone, anche Federico il Grande dichiara che i suoi generali, se presi ad uno ad uno, sono le persone più razionali del mondo: ma una volta riuniti in un con siglio di guer-ra si comportano come tante pecore. Identico è il parere dello storico inglese Freeman, che osser va come la Camera Bassa – a giudicare dal rango dei suoi esponenti – sia una corporazione aristocratica: ma durante le sedute non ha nulla di diverso da un’accoz zaglia di democratici. Il massimo studioso delle corpo razioni inglesi rileva come nelle loro assemblee di massa si prendano delle decisioni tanto assurde e dan-nose da indurre la maggior parte delle Unions a rinunciarvi e a preferire le assemblee di delegati.Vediamo dunque come, da una varietà di osservazioni, emerga un parere concorde. Esse, d’altronde, a prescin dere dal contenuto, hanno una rilevanza sociologica non solo per la loro generalità, ma anche perché sim boleggiano delle situazioni e dei fe-nomeni di grande importanza storica. Il mangiare e il bere (ossia le funzioni più an-tiche, ma anche le meno elevate sul piano intellettuale) possono essere il trait d’union (spesse volte il solo) fra persone e gruppi del tutto eterogenei. Nei circoli per soli uomini, anche se culturalmente elevati, ci si abbandona spesso al racconto di storiel-le oscene. Nei gruppi giovanili, la gioia più scatenata e l’unione più stretta fra mem-bro e membro si ottiene con dei giochi di società, il cui carattere è spesso dei più triviali e pri mitivi. La necessità di appartenenza ad una grande massa (e di restarvi il più a lungo possibile) torna così a detri mento del carattere. Essa infatti spoglia il singolo della sua cultura individuale e lo costringe a scendere tanto in basso da po-tersi associare con chiunque. […] Le azioni della massa puntano dritto allo scopo e cercano di raggiungerlo per la via più breve: questo fa sì che, a dominarle, sia sempre una sola idea, la più semplice possibile. Capita assai di rado che, nelle loro coscien-ze, i membri di una grande massa ab biano un vasto campionario di idee in comune con gli altri. Inoltre, data la complessità della realtà contem poranea, ogni idea sem-plice deve anche essere la più ra dicale ed esclusiva. Ciò spiega il successo dei parti-ti ra dicali nei periodi di grandi turbolenze di massa e la de bolezza dei partiti mode-rati, nel loro sforzo di risolvere le vertenze con gli strumenti del diritto. […] La massa non mente né simula mai, anche perché, data la sua struttura psichica, le man-ca il benché minimo senso del la responsabilità.[…] In generale, chiunque abbia voluto agire sulla massa lo ha sempre fatto con un appello ai sentimenti e solo di rado si è servito di argomenti teorici. Questo vale principalmente per una massa che si trovi concen trata in un sol luogo. In tal caso assistiamo ad un fe nomeno che potremmo indicare come suscettibilità col lettiva. Tipica della grande massa è assai spesso una passione, un’eccentricità, un’irritabilità

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che difficilmen te compare nei suoi membri singolarmente presi. Il fenomeno interes-sa anche gli animali che vivono aggregati: il battito d’ali più leggero, uno scatto anche minimo di qualcuno, possono scatenare nel branco una vera e propria forma di timor panico. L’effetto alle volte ab norme di sollecitazioni episodiche, l’alternarsi vertigi-noso di impulsi d’odio e d’amore, la suscettibilità quasi incomprensibile della massa, che la spinge a un’azione dirompente e annulla ogni distanza individuale tutto questo, insomma, deriva dall’effetto congiunto di mol teplici effusioni del sentimento che, propagandosi fra gli individui, si sommano in un’eccitazione collettiva che il singolo non basta a spiegare. È questo uno dei fenomeni più istruttivi nel campo della socio-logia pura: l’individuo è posseduto dalla massa – e dal suo «stato d’animo» turbino-so – come da un po tere esterno, che lo oppone a se stesso e al suo volere. Ciò, nono-stante il fatto che la massa consista solo di in dividui, delle loro forme di reciprocità, e sviluppi una dinamica che, date le dimensioni, appare come qualcosa di oggettivo, capace di nascondere a ciascuno il relativo apporto individuale. Di fatto, l’individuo ne è partecipe proprio perché trascinato nel suo stesso vortice. […] Innumerevoli esempi ci insegnano come sia proprio l’in telletto individuale a venir meno di fronte al crescere dell’emotività, quasi che il numero delle persone a con tatto fungesse da moltiplicatore per una potenza di sen timento che è l’individuo stesso a trasmettere. A teatro o nelle assemblee capita più volte di ridere per delle bat tute che, in privato, non si ascolterebbero nemmeno: le stesse di cui, con vergogna, ci informano i reso-conti parlamentari, quando riportano un’espressione come: ilarità! In simili momen-ti di eccitazione collettiva, a soc combere non sono solo le istanze critiche dell’intel-letto, ma anche quelle della moralità. Da ciò, infatti, traggo no spiegazione i cosiddet-ti crimini collettivi: quelli in cui ciascuno si proclama innocente con piena certezza soggettiva e buon diritto oggettivo, poiché, dilatandosi ol tremisura, le vibrazioni del sentimento assorbono anche la quota di energia psichica che provvede, di regola, a mantenere unita la personalità e a farne qualcosa di re sponsabile. Questo coinvolgi-mento nella massa, pur possedendo anche una dimensione etica – che si mani festa in un nobile fervore e nella più completa disponi bilità al sacrificio –, non può che appa-rirci abnorme e irrazionale: in sua presenza, l’individuo è spinto al di là delle norme valutative da cui, più o meno attivamente, aveva tratto impulso la sua coscienza.In base alle considerazioni fin qui svolte, la formazione di un livello sociale può es-sere espressa in questa for mula: quel che è comune a tutti, può solo appartenere a chi possiede di meno. […]È dunque illusorio credere che il livello di una comunità unitaria (o per lo meno tale da un punto di vista pratico) sia per davvero il livello «medio». Per calcolare questa «media» bisognerebbe sommare le posizioni di tutti gli individui e dividere il risul-tato per il loro numero. Ma ciò equivarrebbe ad elevare la posizione dei più umili, con un’operazione tanto irreale quanto improduttiva. La comunità, semmai, si trova tanto più vicina al loro livello, quanto più spesso accade che tutti i suoi membri siano accomunati da valori e attività uniformi. Per sua natura il comportamento collettivo tende a coincidere con quello delle persone più umili e, a meno di non confondermi a mia volta, penso sia esatto parlare di «mediocrità» quando si vuole intendere non il valore medio di una totalità di individui e prestazioni, ma in una qualità di gran lunga inferiore. […] Il livello sociale non si individua quasi mai con quello degli individui più umili: tende a coincidervi, ma resta il più delle volte al di sopra. C’è infatti una forma di resistenza che, in diversa misura e da parte degli individui più dotati, tende ad opporsi a questo abbassamento collettivo. La sua azione impedisce

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che l’agire della comunità precipiti verso i livelli più bassi. […] l’uomo può regredi-re facilmente, ma progredisce con molta fatica.

(Georg Simmel, Forme e giochi di società, Feltrinelli, Milano 1983)

❱❱ 10. Lo spirito liberoO sancta simplicitas! In quale strana semplificazione e fal sificazione vive l’uomo! Non si finisce mai di meravigliarsi quando si è assistito ad un tale prodigio! Come abbiamo reso chiaro e libero e facile e semplice tutto quanto ci circonda! Come ab-biamo saputo dare a noi stessi un lascia-passare per tutto ciò che è superficiale e al nostro pensiero una divina avidità di salti spavaldi e di paralogismi! – come abbiamo imparato fin dall’inizio a conservarci la nostra ignoranza, per godere di una libertà, una sicurezza, una imprudenza, una riso lutezza, una serenità di vita appena concepi-bili, per godere della vita! E, solo su questo fondo di ignoranza ormai saldo e grani-tico ha potuto erigersi finora la scienza; la volontà di sapere sulla base di una volon-tà molto più potente, della vo lontà di non-sapere, di incertezza, di non-verità! Non come suo contrario, ma – come suo perfezionamento! […] Correte a nascondervi! E usate la vostra maschera e l’astuzia perché vi si confonda con altri! O vi si tema un poco! E non dimenticate il giar dino, il giardino dalle inferriate d’oro! E abbiate uo-mini in torno a voi che siano come un giardino, – o come musica sulle acque, quando è sera, e già il giorno diventa ricordo: – sce gliete la buona solitudine, la libera, co-raggiosa, lieve solitu dine, che vi dà anche un diritto di restare ancora, in un certo senso, buoni! Come rende velenosi, astuti, cattivi questa lunga guerra, che non si lascia condurre con violenza e a viso aperto! Come rende personali una lunga paura! una lunga attenzione al nemico, a un nemico possibile! Questi respinti dalla società, eternamente perseguitati, istigati con perfidia, – compresi gli eremiti per forza, gli Spinoza e i Giordano Bruno – alla fine diventano sempre, e sia pure sotto la masche-ra più spirituale, e forse addirittura senza saperlo, dei raffinati ricercatori di vendetta e avvelenatori. […] Ogni persona eletta tende istintivamente al suo rifugio e alla sua intimità, dove poter essere libera dalla massa, dai molti, dai troppi, dove poter dimen-ticare la regola «uomo», in quanto sua eccezione: – escluso l’unico caso, che egli venga spinto da un istinto ancora più forte direttamente su questa regola, come uomo della conoscenza in senso sublime ed eccezionale. Chi nel rapporto con gli uomini non ha assunto, secondo le circostanze, tutti i colori della pena, verde e grigio di nausea, fastidio, pietà, tetraggine, abbandono, non è certo un uomo di gusto superio-re; ma se egli non si assume volontariamente tutti questi pesi e questo fastidio, se li elude sempre e rimane, come si è detto, silenzioso e superbo, rinchiuso nella sua torre, allora una cosa è certa: egli non è fatto, non è predestinato alla conoscenza. Perché, se lo fosse, dovrebbe dirsi un giorno «al diavolo il mio buon gusto! la regola è più inte ressante dell’eccezione, – di me, che sono l’eccezione!» – e scenderebbe in basso, soprattutto «dentro». Lo studio dell’uo mo medio, lungo, severo che vuole molte simulazioni, superamenti di sé, fiducia, cattive compagnie – ogni compagnia è cattiva, eccetto quella dei propri pari –: costituisce una parte necessaria della biogra-fia di ogni filosofo, forse la più sgrade vole, la più maleodorante, la più ricca di delu-sione. Ma se egli ha fortuna, come si addice a un beniamino della cono scenza, allora incontrerà chi gli abbrevierà e gli mitigherà il compito, – intendo i cosiddetti cinici, dunque quei tali che riconoscono semplicemente in sé la bestia, la volgarità, la «re-

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gola» e che oltre a ciò possiedono tuttavia abbastanza spiri tualità e sensibilità per sentire la necessità di parlare di sé e dei propri simili dinnanzi a testimoni: – talvolta si roto lano persino nei libri come nei loro stessi escrementi. Il Ci nismo è l’unica forma nella quale anime volgari rasentano l’onestà – e di fronte al cinismo più rozzo o più raffinato l’uomo superiore deve aprire bene le orecchie e congratularsi ogni volta con sé stesso, se proprio di fronte a lui il pagliac cio sfrontato o il satiro della scienza parlano a voce alta, Ci sono persino casi nei quali alla nausea si mescola l’incanto: lì, cioè, dove per un capriccio della natura, il genio è unito a un tale sfron-tato caprone e a una scimmia, come nel caso del l’Abbé Galiani, l’uomo più profondo, il più acuto e forse anche il più sporco del suo secolo – fu molto più profondo di Voltai re e di conseguenza anche molto più silenzioso. È accaduto già molto spesso che, come si è accennato, si abbia una testa di scienziato su un corpo di scimmia, un intelletto eccezional mente fine in un’anima volgare – un caso per nulla raro, in par-ticolare fra i medici e i fisiologi della morale. E ogni volta che si parla senza amarez-za, anzi tranquillamente del l’uomo come di un ventre con due bisogni e di una testa che ne ha uno solo; dovunque si veda, si cerchi e si voglia ve dere sempre solo fame, libidine sessuale e presunzione, come se esse fossero gli unici e veri moventi delle azioni umane; in breve, dove si parli «male» dell’uomo – e neppure con cattiveria –, lì l’amante della conoscenza, dovrà ascoltare con acuta attenzione e con zelo dovrà tendere l’orecchio sopratutto quando si parla senza indignazione. Poiché l’uomo in-dignato, e colui che sempre si strazia e si sbrana con i propri denti (o in sostituzione di sé strazia il mondo, o Dio, o la società), può sì secondo la morale, essere superio-re al satiro che ride; pago di sé, ma in ogni altro caso è il caso più comune, più insi-gnificante, meno istruttivo. E nessuno mente quanto l’in dignato. […]Ciò che è balsamo e nutrimento per la specie più elevata degli uomini, deve essere quasi veleno per una specie assai diversa e infe riore. Le virtù dell’uomo comune avrebbero forse in un filosofo il significato di vizio e di debolezza; sarebbe possibile che un uomo di tipo superiore, posto che degenerasse e an dasse in rovina, giungesse solo in questo modo a possedere le qualità in virtù delle quali fosse sentita la neces-sità di ve nerarlo come un santo, nel mondo abietto nel quale è spro fondato. Esistono libri che hanno per l’anima e per la salute un valore opposto a seconda che se ne serva un’anima vol gare, un’inferiore forza vitale, oppure la più elevata e pos sente; nel primo caso quei libri sono pericolosi, stritolano e dissolvono, nell’altro sono i richiami dell’araldo che invitano i più prodi a dar prova del loro valore. I libri per tutti sono sempre libri maleodoranti: vi si attacca l’odore della piccola gente. Dove il popolo mangia e beve, persino dove adora, lì di solito c’è fetore. Non bisogna en-trare in una chiesa, se si vuole respirare aria pura.

(Friedrich Nietzsche, Al di là dei, bene e del male, Newton Compton,Roma 1977)

❱❱ 11. La scienza della politicaL’emergere e lo sparire dei problemi nel nostro orizzonte intellettuale sono governa-ti da un principio di cui non siamo ancora pienamente consapevoli. La nascita e la scomparsa di interi sistemi gnoseologici possono conclusivamente essere riportati a certi fattori e divenire pertanto comprensibili. Ci sono già stati dei tentativi, nella storia dell’arte, volti a scoprire per quali ragioni e quando la scultura o altre espres-

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sioni figurative diventano le forme d’arte dominanti di un’età. Allo stesso modo, la sociologia del sapere dovrebbe cercare di spiegare le condizioni per cui nascono e s’affermano certi problemi e discipline. A lungo andare, il sociologo dovrebbe esse-re in grado di non attribuire realtà e la soluzione delle varie questioni alla sola pre-senza e abilità degli individui. I complessi rapporti sussistenti tra i diversi problemi, in un dato tempo e luogo, vanno in ogni caso, considerati nel quadro generale della società in cui si danno, anche se esso non può sempre fornirci un’idea esatta di tutti i particolari. È pur vero che il singolo ha talora l’impressione dell’assoluta autonomia delle sue convinzioni, della loro indipendenza dall’assetto sociale; non è davvero infrequente per uno che vive in un mondo provinciale e socialmente ristretto pensare alle proprie cose, come a fatti del tutto isolati e di cui lui solo è responsabile. La so-ciologia non può, tuttavia, accontentarsi di questa prospettiva limitata ed immediata. I fatti che all’apparenza sono sle gati e isolati debbano venire intesi in quel dinamico e sempre nuovo piano di esperienza che costituisce la loro vera concretezza. Solo in un tale contesto essi acquistano significato. Se la sociologia della cono scienza doves-se conseguire un qualche successo in questo tipo d’analisi, molte questioni che sino ad ora sono rimaste oscure potrebbero essere chiarite. Un tale progresso ci consenti-rebbe infatti di capire perché la sociologia e l’economia sono di data recente, perché esse hanno progredi to in certi paesi e in altri sono state invece impedite e ostacolate ogni mezzo. Diverrebbe ugualmente possibile rispondere ad un problema, cui mai è stata data risposta, e cioè al fatto che noi non abbiamo ancora assistito ad alcun svi-luppo della scienza politica. In un mondo pervaso da un ethos razionalistico come il nostro, ciò costituisce una notevole anomalia.Non esiste quasi sfera dell’esistenza di cui non s’abbia una qualche conoscenza scien-tifica e per cui non valgano efficaci metodi di insegna mento. Si deve allora pensare che proprio la parte dell’attività umana dal cui controllo dipende il nostro destino, sia ostica al punto che la scienza non riesca a violarne i segreti? Non si possano trascu-rare gli aspetti problematici della questione. Quel che resta da vedere è se essa riflet-ta semplicemente uno stato provvisorio che si può superare o se invece noi non ab-biamo già raggiunto, in questa sfera, il massimo e definitivo grado di conoscenza.Si può osservare, in favore della prima possibilità, che le scienze sociali sono ancora nello stato d’infanzia. Sarebbe allora legittimo con cludere dall’immaturità delle più fondamentali fra tali discipline anche l’arretratezza di questa scienza «applicata». Se così fosse, basterebbe soltanto attendere che questo ritardo venga meno, e certamen-te la suc cessiva ricerca sarebbe poi in grado di esercitare sulla società un con trollo paragonabile a quello che oggi operiamo sul mondo fisico.La tesi opposta si fonda invece nella vaga consapevolezza che la prassi politica co-stituisca qualcosa di qualitativamente diverso da ogni altro tipo di esperienza umana, e che di conseguenza la sua compren sione presenti ostacoli assai maggiori di quanto non avvenga per gli altri campi del sapere. Ne segue che tutti gli sforzi per sottomet-tere questi fenomeni all’analisi scientifica sono considerati condannati all’in successo a causa della loro particolare natura.Una corretta impostazione del problema sarebbe già un successo rimarchevole. Ren-derci conto della nostra ignoranza costituirebbe in vero un grande passo in avanti, in quanto ci spiegheremmo allora perché la conoscenza e la comunicazione non sono in questo caso possibili. Pertanto il nostro primo compito consiste in una rigorosa defi-nizione del problema. Esso si pone in questo modo: che cosa s’intende allorché do-mandiamo: è possibile una scienza della politica?

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Ci sono alcuni aspetti della politica che sano immediatamente com prensibili e comu-nicabili. Un esperto e navigato leader politico do vrebbe infatti conoscere la storia del proprio paese e quella delle nazioni vicine, le quali costituiscono il teatro delle sue iniziative; ne con segue che la conoscenza della storia e una rilevante informazione stati stica sono indispensabili per la sua attività. Inoltre, un capo politico dovrebbe sapere qualcosa anche delle istituzioni politiche di quei paesi a cui è interessato. È comunque indispensabile che la sua esperienza non sia solo giuridica, ma includa anche una conoscenza delle relazioni sociali che sano a base della struttura istituzio-nale e insieme ne assi curano il funzionamento. Del pari, egli non deve ignorare le idee poli tiche tradizionali del proprio paese, né può restare all’oscuro di quelle ap-partenenti ai suoi avversari. Ci sono ancora altri problemi, sebbene meno immediati, che sono venuti in discussione nel nostro tempo: intendiamo riferirci, ad esempio, alle tecniche con cui poter disporre delle folle, senza le quali è impossibile affermar-si in una democrazia di masse come l’attuale. La storia, la statistica e la teoria poli-tica, la socio logia, la storia delle idee e la psicologia sociale rappresentano, tra le molte altre discipline, campi del sapere particolarmente importanti per il leader po-litico. Se noi volessimo tracciare un vero e proprio curricu lum della sua educazione, gli studi in questione dovrebbero esservi senza dubbio inclusi. Le discipline già men-zionate non offrono, comunque, molto di più di una conoscenza pratica, utilizzabile appunto dal poli tico di professione. Ma esse, anche se prese nel loro complesso, non bastano a darci una scienza della politica e, al massimo, possono servire come sue discipline ausiliarie. Se per politica intendessimo la semplice gamma delle nozioni pratiche utili per la condotta del leader o dell’uomo di partito, nessun dubbio si po-trebbe levare sull’esistenza di una tale scienza e sulla sua insegnabilità. L’unico problema pedagogico consi sterebbe, in questo caso, nel trascegliere dal numero pressoché infinito dei fatti quelli più rilevanti ai fini dell’azione politica.È tuttavia evidente che la questione «Quali condizioni richiede una scienza della politica e come può essa venire insegnata?» non si riferisce all’insieme di notizie pratiche sopra menzionate. In che consiste allora il problema?Le discipline che abbiamo esaminato sono strutturalmente con nesse solo nella misu-ra in cui si occupano della società e dello Stato come se fossero i prodotti finali della storia passata. La prassi politica, invece, si interessa dell’assetto sociale e dello stato nel loro nascere e nel loro formarsi. Essa ha che fare con un processo nel quale ogni momento dà luogo a una situazione irripetibile e da cui si cerca di isolare qualcosa che abbia un valore permanente. Nasce allora la que stione: «C’è una scienza di que-sto divenire, una scienza dell’attività creatrice?».Il primo stadio nell’elaborazione del problema è così raggiunto. Qual è (nell’ambito della società) il significato di questo contrasto tra ciò che è stato e ciò che sta dive-nendo? […]Per razionale che la nostra vita attuale possa sembrare, tutti i progressi che in tal senso si sono compiuti fino qui sono solamente parziali, in quanto i più importanti settori della vita sociale sono tuttora ancorati all’irrazionale. La nostra vita economi-ca, sebbene assai sviluppata nel suo aspetto tecnico e prevedibile in taluni suoi rap-porti, non presenta, nel suo insieme, un ordine assoluto. Malgrado tutte le tendenze verso il monopolio e l’organizzazione, la libera competizione gioca ancora un ruolo decisivo. La nostra struttura sociale si definisce in termini di classe; ciò significa che non sono tanto i fatti oggettivi, quanto le forze irrazionali della lotta sociale a deci-dere il posto e la funzione dell’indivi duo nella società. Non altrimenti, il potere nella

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vita della singola na zione e del mondo si consegue con la lotta, che è di per sé irra-zionale e in cui il caso ha non poca importanza. Queste forze irrazionali costitui scono quella sfera della vita sociale che non è ancora organizzata e nella quale il compor-tamento, nel senso che s’è accennato, e la politica diven gono necessari. Le due prin-cipali sorgenti dell’irrazionalismo nella strut tura sociale (ovvero la lotta incontrolla-ta e il predominio della forza) sono alla base della società tuttora disorganizzata, per cui la politica si rende indispensabile. Attorno a questi due centri, si accumulano que-gli altri profondi elementi irrazionali che noi di solito chiamiamo emo zioni. Dal punto di vista sociologico, esiste senza dubbio una connessione tra la parte della società ove prevalgono la lotta e la forza e l’integra zione sociale delle reazioni emo-zionali.Il problema deve allora essere formulato così: Quale conoscenza possediamo o è possibile ottenere di questa parte della vita sociale e del tipo di comportamento che in essa si presenta? Esso ci si presenta nella forma più facile per essere chiarito. Una volta determinato dove comincia il regno della politica e dove il comportamento (nel senso che s’è detto) diviene effettivo, noi siamo in grado di indicare quali siano le difficoltà che si frappongano allo studio dei rapporti tra la teoria e la pratica.

(Karl Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna 1957)

❱❱ 12. Le istituzioni totaliLe organizzazioni sociali – o istituzioni nel senso comu ne del termine – sono luoghi, locali o insiemi di locali, e difici, costruzioni, dove si svolge con regolarità una certa attività. In sociologia non esiste un modo particolare di classificarle. Alcune istitu-zioni, come la stazione centrale, sono accessibili a chiunque si comporti in modo decente; altre, come l’Union Club di New York, o i laboratori di Los Alamos sembra-no più esclusive e rigorose circa il li vello dei loro partecipanti; altre ancora, come negozi o uf fici postali, sono costituite da alcuni membri fissi che vi svolgono un certo servizio, e da un continuo fluire di per sone che lo richiedono. Altre, come case e fabbriche, coin volgono un gruppo meno fluttuante di partecipanti. In al cune istitu-zioni si svolgono attività dalle quali viene sanci ta la condizione sociale di coloro che ne fanno parte, il che può essere più o meno gradito. Altre invece consentono il rag-grupparsi di persone allo scopo di svolgere un tipo di attività ricreative da loro scelte, sfruttando il tempo rima sto libero da attività impegnative. In questo saggio viene isolata e riconosciuta come naturale e ricca di possibilità di indagine, un’altra cate-goria di istituzioni, i cui membri sembrano avere tanti elementi in comune con quel-li delle altre che, per studiarne una, risulterebbe utile esaminarle tutte.Ogni istituzione si impadronisce di parte del tempo e degli interessi di coloro che da essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di mondo: il che significa che tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azio ne inglobante. Nella nostra società occidentale ci sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante – seppur discontinuo – più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è simbolizza to nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita ver so il mondo esterno, spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell’istituzione: porte chiuse, alte mura, filo spinato, rocce, corsi d’acqua, foreste o brughie re. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo «istituzioni to tali» ed è appunto il loro carattere generale che intendo qui analizzare.

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Le istituzioni totali nella nostra società possono essere raggruppate – grosso modo – in cinque categorie. Primo, le istituzioni nate a tutela di incapaci non pericolosi (isti tuti per ciechi, vecchi, orfani o indigenti). Secondo, luoghi istituiti a tutela di coloro che, incapaci di badare a se stes si, rappresentano un pericolo – anche se non intenziona le – per la comunità (sanatori per tubercolotici, ospedali psichiatrici e leb-brosari). Il terzo tipo di istituzioni totali serve a proteggere la società da ciò che si rivela come un pericolo intenzionale nei suoi confronti, nel qual caso il benessere delle persone segregate non risulta la finalità immediata dell’istituzione che li segre-ga (prigioni, peni tenziari, campi per prigionieri di guerra, campi di concen tramento). Quarto, le istituzioni create al solo scopo di svolgervi una certa attività, che trovano la loro giustifica zione sul piano strumentale (furerie militari, navi, collegi, campi di lavoro, piantagioni coloniali e grandi fattorie, queste ultime guardate naturalmente dalla parte di coloro che vivono nello spazio riservato ai servi). Infine vi sono le or-ganizzazioni definite come «staccate dal mondo» che pe rò hanno anche la funzione di servire come luoghi di prepa razione per religiosi (abbazie, monasteri, conventi ed altri tipi di chiostri). Una suddivisione delle istituzioni totali così formulata non è né chiara, né esauriente, né può ser vire di base per uno studio analitico dell’argomento. Essa risulta tuttavia capace di darci una definizione significati va della categoria, come punto di partenza concreto. […] Nessuno degli elementi che descriverò sembra tipi-camente peculiare delle istitu zioni totali, né può essere condiviso da tutte. Ciò che è ti pico nelle istituzioni totali è che ciascuna di esse rivela, ad un altissimo grado, mol-ti elementi in comune in questo ti po di caratteristiche. […] Uno degli assetti sociali fondamentali nella società mo derna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavo rare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità o senza alcu-no schema razionale di carattere glo bale. Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto ritenuta la rottura delle barriere che abi tualmente separano queste tre sfere di vita. Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luo-go e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme grup po di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giorna-liere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito che le porta dall’una all’altra, dato che il complesso di attività è imposto dall’alto da un siste ma di regole formali esplicite e da un corpo di addetti alla loro esecuzione. Per ultimo, le varie attività forzate sono organizzate secondo un unico piano razionale, apposita mente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.Queste caratteristiche possono essere riscontrate, isola tamente, anche in luoghi che non hanno niente a che fare con le istituzioni totali. Ad esempio, le nostre grandi organizza zioni commerciali, industriali e culturali vanno sempre più fornendo luoghi di ristoro e svaghi ricreativi per il tempo libero dei loro dipendenti. Tuttavia il fatto di poter gode re di una più vasta gamma di possibilità, conserva – sotto molti aspetti – un carattere volontario e ci si preoccupa, anzi, di non far estendere il potere usuale dell’autorità fi no a questo territorio. Analogamente le «casalinghe» o le famiglie che vivono nelle fattorie di campagna possono svolgere le loro attività vitali più impor-tanti all’interno di una medesima area recintata, senza tuttavia essere irreggi mentate collettivamente, dato che non svolgono loro attività giornaliere a stretto contatto di gruppi di persone nelle loro medesime condizioni.Il fatto cruciale delle istituzioni totali è dunque il do ver «manipolare» molti bisogni umani per mezzo dell’or ganizzazione burocratica di intere masse di persone – sia che

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si tratti di un fatto necessario o di mezzi efficaci cui l’organizzazione sociale ricorre in particolari circostanze. Ne conseguono alcune importanti implicazioni.Quando si agisce su gruppi di individui, accade che essi siano controllati da un per-sonale la cui principale attività non risulta la guida o il controllo periodico (come può es sere in molti rapporti fra datore di lavoro e lavoratore), quanto piuttosto un tipo di sorveglianza particolare, quale quella di chi controlla che ciascun membro faccia ciò che gli è stato chiesto di fare, in una situazione dove si tenderà a puntualizzare l’in-frazione dell’uno contrapponendola all’evidente zelo dell’altro che, per questo, verrà costante mente messo in evidenza. Che sia il gruppo di persone controllate a precede-re il costituirsi del piccolo staff con trollore o viceversa, non è questo il problema; ciò che con ta è che l’uno è fatto per l’altro.Nelle istituzioni totali c’è una distinzione fondamentale fra un grande gruppo di per-sone controllate, chiamate op portunamente «internati», e un piccolo staff che con-trolla. Gli internati vivono generalmente nell’istituzione con limitati contatti con il mondo da cui sono separati, men tre lo staff presta un servizio giornaliero di otto ore ed è socialmente integrato nel mondo esterno. Ogni gruppo tende a farsi un’immagi-ne dell’altro secondo stereotipi li mitati e ostili: lo staff spesso giudica gli internati malevo li, diffidenti e non degni di fiducia; mentre gli internati ri tengono spesso che il personale sì conceda dall’alto, che sia di mano lesta e spregevole. Lo staff tende a sentirsi superiore e a pensare di aver sempre ragione; mentre gli in ternati, almeno in parte, tendono a ritenersi inferiori, de boli, degni di biasimo e colpevoli. (Nelle situa-zioni in cui si richiede allo staff di vivere nell’istituzione, è presumibile che esso avverta di essere sottoposto ad una particolare privazione, oltre al fatto di essere soggetto ad una condizione di dipendenza che supera ogni aspettativa).

(Erving Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 1969)

❱❱ 13. Scientificizzazione della politica e opinione pubblicaLa scientificizzazione della politica oggi non denota ancora un dato di fatto, ma in-dica pur sempre una tendenza, a dimo strazione della quale si possono citare dei dati: sono soprattutto l’ampiezza della ricerca eseguita su ordinazione statale e l’am montare di consulenza scientifica nei servizi pubblici che segnano tale sviluppo. Veramente fin dall’inizio lo Stato moderno, for matosi in connessione con il traffico mercantile di economie na zionali e territoriali emergenti, a partire dai bisogni di un’ammi-nistrazione finanziaria centrale, dovette ricorrere alla competenza di funzionari con formazione giuridica. Questi però disponevano di un sapere tecnico, che nel suo genere non si distingue sostan zialmente dalla competenza, per esempio, dei militari. Come que sti dovevano organizzare gli eserciti permanenti, così i giuristi dovevano organizzare l’amministrazione permanente; il loro com pito consisteva più nell’eser-cizio di un’arte che nell’applica zione di una scienza. Soltanto a partire da una gene-razione circa, anzi, in grande stile solo a partire dalla seconda Guerra mon diale, bu-rocrati, militari e politici si orientano nell’esercizio delle loro funzioni pubbliche in base a rigorose raccomandazioni scien tifiche. Così viene raggiunto un nuovo livello di quella «razio nalizzazione», alla luce della quale Max Weber ha interpretato il formarsi del dominio burocratizzato degli Stati moderni. Non che gli scienziati ab-biano conquistato il potere nello Stato, però l’esercizio del dominio all’interno e l’affermazione della potenza contro nemici esterni non sono più razionalizzati sol-

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tanto con la mediazione di un’attività amministrativa organizzata sulla base della divisione del lavoro, regolata secondo competenze e vinco lata a norme stabilite. Piuttosto essi sono stati ancora una volta modificati nella loro struttura dalla norma-tività oggettiva di nuove tecnologie e strategie. […]L’opinione pubblica esterna alla scienza diventa già molto spesso, in presenza di una divisione del lavoro molto spinta, la via più breve per la comprensione interna tra gli specialisti estraniati gli uni agli altri. Ma di que sta costrizione a tradurre informazio-ni scientifiche, che deriva da bisogni della ricerca stessa, profitta anche la comunica-zione pre caria tra gli scienziati e il vasto pubblico dell’opinione politica.Un’ulteriore tendenza che agisce anch’essa contro la paralisi della comunicazione tra i due ambiti, risulta dalla necessità in ternazionale della coesistenza pacifica di sistemi sociali concor renti. Le regole di segretezza militari, che bloccano il libero af flusso di informazioni scientifiche al pubblico, si accordano sem pre meno infatti con le con-dizioni di un controllo degli arma menti che sta diventando sempre più urgente. […] Nella misura in cui le scienze vengono effettivamente utilizzate per la prassi politica, cresce oggettiva mente per gli scienziati la necessità di riflettere, ora andando an che oltre le raccomandazioni tecniche da essi prodotte, sulle con seguenze pratiche che ne derivano. Ciò si è verificato in grande stile per la prima volta nel caso degli scienzia-ti atomici occupati alla costruzione delle bombe atomiche e nucleari.In seguito si sono svolte discussioni, in cui scienziati autore voli hanno discusso le conseguenze politiche della loro prassi di ricerca; così per esempio sui danni provo-cati dal fall-out radioattivo per la salute presente della popolazione e per la sostanza genetica del genere umano. Ma gli esempi sono scarsi. Tuttavia, essi mostrano che scienziati responsabili, indipendentemente dalla loro competenza specifica, spezzano i limiti della loro opinione pubblica interna alla scienza e si rivolgono direttamente all’opi nione pubblica, quando vogliono o evitare conseguenze pratiche connesse alla scelta di certe tecnologie, oppure criticare determi nati investimenti per la ricerca sulla base dei loro effetti sociali. […] Da un lato non possiamo più contare su istitu-zioni garantite per una discussione pubblica nel vasto pubblico dei cittadini; dall’al-tro, un sistema di big science, basato sulla divisione del lavoro, e un apparato burocra-tico di dominio possono fin troppo bene accordarsi reciproca mente avendo escluso l’opinione pubblica politica. L’alternativa che ci interessa non consiste affatto nel preordinare da una parte un gruppo dirigente che sfrutta efficacemente un potenziale di sapere essenziale per la sopravvivenza al di sopra di una popola zione manipolata dai mezzi di comunicazione di massa, e dall’al tra un altro gruppo dirigente che, es-sendo isolato dall’afflusso di informazioni scientifiche, non può fare in modo che il sapere tecnico entri, se non scarsamente, nel processo di formazione della volontà politica. Si tratta piuttosto di vedere se un capitale di sapere carico di conseguenze debba venire incanalato soltanto nella disposizione di uomini manipolanti tecnica-mente, oppure anche recuperato nel linguaggio posseduto da uomini comuni canti. Una società scientificizzata potrebbe costituirsi come ca pace di sé solo nella misura in cui scienza e tecnica fossero me diate con la prassi sociale attraverso le teste degli uomini.

(Jurgen Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Laterza,Bari 1974)

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❱❱ 14. Sorvegliare e punireDamiens era stato condannato, era il 2 marzo 1757, a «fare confessione pubblica davanti alla porta principale della Chiesa di Parigi», dove doveva essere «condotto e posto dentro una carretta a due ruote, nudo, in camicia, tenendo una torcia di cera ardente del peso di due libbre»; poi «nella detta carretta, alla piazza di Grêve, e su un patibolo che ivi sarà innalzato, tanagliato alle mammelle, braccia, cosce e grasso delle gambe, la mano destra tenente in essa il coltello con cui ha commesso il detto parricidio bruciata con fuoco di zolfo e sui posti dove sarà tanagliato, sarà gettato piombo fuso, olio bollente, pece bollente, cera e zolfo fusi insieme e in seguito il suo corpo tirato e smembrato da quattro cavalli e le sue membra e il suo corpo consuma-ti dal fuoco, ridotti in cenere e le sue ceneri gettate al vento».«Alla fine venne squartato, – racconta la ‘Gazzetta di Amsterdam’. – Quest’ultima operazione fu molto lunga, perché i cavalli di cui ci si serviva non erano abituati a tirare; di modo che al posto di quattro, bisognò metterne sei; e ciò non bastando an-cora, si fu obbligati, per smembrare le cosce del disgraziato a tagliargli i nervi e a troncargli le giunture con la scure […]Tre quarti di secolo più tardi, ecco il regolamento redatto da Léon Faucher «per la Casa dei giovani detenuti a Parigi».«ART. 17. La giornata dei detenuti comincerà alle sei del mattino d’inverno, alle cinque d’estate. Il lavoro durerà nove ore al giorno in ogni stagione. Due ore al gior-no saranno consacrate all’insegnamento. Il lavoro e la giornata termineranno alle nove d’inverno, alle otto d’estate.ART. 18. Sveglia. Al primo rullo del tamburo, i detenuti devono alzarsi e vestirsi in si-lenzio, mentre il sorvegliante apre la porta delle celle. Al secondo rullo essi devono es-sere in piedi e fare il loro letto. Al terzo, essi si mettono in fila per andare alla cappella dove si fa la preghiera del mattino. Ci sono cinque minuti d’intervallo fra ciascun rullo.ART. 19. La preghiera è fatta dal cappellano e seguita da una lettura morale o reli-giosa. Questo esercizio non deve durare più di mezz’ora.ART. 20. Lavoro. Alle sei meno un quarto d’estate, alle sette meno un quarto d’inver-no, i detenuti scendono in cortile dove devono lavarsi le mani e la faccia e ricevere la prima distribuzione di pane. Immediatamente dopo si raggruppano secondo i labora-tori e si recano al lavoro, che deve cominciare alle sei d’estate e alle sette d’inverno.ART. 21. Pasto. Alle dieci i detenuti lasciano il lavoro e si recano in refettorio; si lavano le mani nei cortili e si raggruppano per squadra. Dopo la colazione, ricreazio-ne fino alle undici meno venti.ART. 22. Scuola. Alle undici meno venti, al rullo del tamburo, si formano le file, e si entra in scuola per squadre. L’insegnamento dura due ore, impiegate alternativamen-te nella lettura, nella scrittura, nel disegno lineare, nel calcolo.ART. 23. Alla una meno venti, i detenuti lasciano la scuola per squadre, e si recano nelle loro corti per la ricreazione. Alla una meno cinque, al rullo del tamburo, si riu-niscono secondo i laboratori.ART. 24. Alla una i detenuti devono essere di nuovo nei laboratori: il lavoro dura fino alle quattro.ART. 25. Alle quattro si lasciano i laboratori per recarsi nei cortili dove i detenuti si lavano le mani e si riuniscono per squadre per il refettorio.ART. 26. Il pranzo e la ricreazione che segue durano fino alle cinque: in questo mo-mento i detenuti rientrano nei laboratori.

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ART. 27. Alle sette d’estate e alle otto d’inverno, il lavoro finisce; si fa un’ultima distribuzione di pane nei laboratori. Una lettura di un quarto d’ora avente per ogget-to nozioni istruttive o qualche tratto commovente è fatta da un detenuto o da un sorvegliante e seguita dalla preghiera della sera.ART. 28. Alle sette e mezzo d’estate e alle otto e mezzo d’inverno, i detenuti devono essere riportati nelle loro celle, dopo il lavaggio delle mani e l’ispezione dei vestiti fatta nei cortili; al primo rullo del tamburo, svestirsi, al secondo mettersi a letto. Si chiudono le porte delle celle ed i sorveglianti fanno la ronda nei corridoi, per assicu-rarsi dell’ordine e del silenzio».Ecco dunque un supplizio e un impiego del tempo. Non sanzionano gli stessi crimini, non puniscono lo stesso genere di delinquenti. Ma ciascuno definisce bene un certo stile penale. Meno di un secolo li separa. È l’epoca in cui tutta l’economia del casti-go viene ridistribuita, in Europa e negli Stati Uniti. Epoca di grandi «scandali» per la giustizia tradizionale, epoca di innumerevoli progetti di riforme; nuova teoria della legge e del crimine, nuova giustificazione morale o politica del diritto di punire; abolizione delle antiche ordinanze, scomparsa del diritto consuetudinario; progetto o redazione di codici «moderni»: Russia, 1769; Prussia, 1780; Pennsylvania e Toscana, 1786; Austria, 1788; Francia, 1791, anno Quarto, 1808 e 1810. Una nuova era, per la giustizia penale.Fra tante modificazioni, ne coglierò una: la sparizione dei supplizi. Oggi siamo un po’ portati a trascurarla: forse ai suoi tempi aveva dato luogo a troppa retorica; forse era stata, troppo facilmente e con troppa enfasi, attribuita ad una «umanizzazione» che autorizzava a non esaminarla. E, in ogni modo, quale è la sua importanza se la paragoniamo alle grandi trasformazioni istituzionali, coi loro codici espliciti e gene-rali, le loro regole di procedura unificate; la giuria adottata quasi ovunque, la defini-zione del carattere essenzialmente correttivo della pena, e la tendenza, che non cessa di accentuarsi a partire dal secolo Diciannovesimo, ad adattare i castighi ai colpevo-li? Punizioni meno immediatamente fisiche, una certa discrezione nell’arte di far soffrire, un gioco di dolori più sottili, più felpati, spogliati del loro fasto visibile, merita tutto questo un’attenzione particolare, quando senza dubbio non è niente di più che l’effetto di rivolgimenti più profondi? Tuttavia un fatto esiste: in pochi de-cenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo, è scomparso. È scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale. […]L’eliminazione del supplizio è una tendenza che si radica nella grande trasformazione degli anni 1760-1840, ma non giunge a compimento: possiamo dire che la pratica del supplizio ha ossessionato a lungo il nostro sistema penale e vi è tuttora presente. La ghigliottina, questa macchina di morte rapida e precisa, aveva iniziato in Francia una nuova etica della morte legale. Ma la Rivoluzione l’aveva subito rivestita di un gran-dioso rituale scenografico. Per anni fece spettacolo. È stato necessario spostarla fino alla barriera di Saint-Jacques, sostituire la carretta scoperta con una vettura chiusa, far passare rapidamente il condannato dal furgone al palco, organizzare le esecuzioni ad ore impossibili, e, da ultimo, sistemare la ghigliottina entro la cinta delle prigioni e renderla inaccessibile al pubblico (dopo la esecuzione capitale di Weidmann, nel 1939), sbarrare le strade che danno accesso alla prigione dove è nascosto il patibolo e dove l’esecuzione si svolge in segreto (esecuzione di Buffet e di Bontemps alla Santé, nel 1972), processare i testimoni che raccontano la scena, perché l’esecuzione non sia più uno spettacolo e rimanga uno strano segreto tra la giustizia e il suo condannato. Basta

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evocare tutte queste precauzioni per comprendere come la morte penale resti ancora oggi, nella sua essenza, uno spettacolo che bisogna, giustamente, vietare.Quanto alla presa sul corpo, anch’essa, alla metà del secolo Diciannovesimo, non era stata del tutto eliminata. Senza dubbio la pena non è più centrata sul supplizio come tecnica per far soffrire, e ha preso come oggetto principale la perdita di un bene o di un diritto, ma un castigo come i lavori forzati o perfino come la prigione – pura pri-vazione della libertà – non ha mai funzionato senza un certo supplemento di punizio-ne che concerne proprio il corpo in se stesso: razionamento alimentare, privazione sessuale, percosse, celle di isolamento.Conseguenza non voluta, ma inevitabile, della carcerazione? In effetti la prigione, nei suoi dispositivi più espliciti, ha sempre comportato, in una certa misura, la sofferen-za fisica. La critica spesso rivolta, nella prima metà del secolo Diciannovesimo, al sistema carcerario (la prigione non è sufficientemente punitiva: i detenuti hanno meno freddo, meno fame, minori privazioni, nel complesso, di molti poveri e perfino di molti operai) indica un postulato che non è mai stato chiaramente abbandonato: è giusto che un condannato soffra fisicamente più degli altri uomini. La pena ha diffi-coltà a dissociarsi da un supplemento di dolore fisico. Cosa sarebbe, un castigo in-corporeo?Nei meccanismi moderni della giustizia penale, permane quindi un fondo «suppli-ziante», un sottofondo non ancora completamente dominato, ma avvolto, in maniera sempre più ampia, da una penalità dell’incorporeo. L’attenuarsi della severità penale nel corso degli ultimi secoli è fenomeno ben noto agli storici del diritto. Ma, a lungo, è stato considerato in maniera globale, come un fenomeno quantitativo; meno cru-deltà, meno sofferenza, maggior dolcezza, maggior rispetto, maggiore «umanità». In effetti queste modificazioni sono accompagnate da uno spostamento nell’oggetto stesso dell’operazione punitiva. Diminuzione d’intensità? Forse. Sicuramente, un cambiamento di obiettivo. […]

(Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976)

❱❱ 15. il disagio della postmodernitàNel 1929 comparve a Vienna Das Unbehagen in der Kultur, un saggio che inizial-mente doveva essere intitolato Das Unglúck in der Kultur. Il suo autore era Sigmund Freud. In italiano l’opera è nota come Il disagio della civiltà. La stimolante e provo-cante lettura freudiana delle pratiche della modernità entrò nella co scienza collettiva e finì per strutturare profondamente il modo di valutare le conseguenze (intenzionali e non) dell’avventura moderna. [...]Nello scambio, qualcosa si guadagna e qualcosa va irrimediabilmente perduto: questo era il messaggio di Freud. Come «cultura» o «civiltà», la modernità ha a che fare con la bellezza («questa cosa inutile che ci aspettiamo la civiltà stimi»), la pulizia («ogni genere di sporcizia ci sembra incompatibile con la civiltà») e l’ordine («ordine è una specie di coazione a ripetere che decide, grazie ad una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove e come una cosa debba essere fatta, in modo da evitare esitazione e indugio in tutti i casi simili tra loro»). La bellezza (cioè tutto ciò che produce il piacere sublime dell’armonia e la perfezione della forma), la pulizia e l’ordine sono acqui sizioni non trascurabili a cui certamente non si rinuncia senza dispiacere, dolo-re, o rimorso. Ma neppure si possono ottenere senza pagare un prezzo elevato. Gli

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esseri umani non hanno alcuna predisposizione «naturale» a ri cercare e preservare la bellezza, a fare le pulizie e ad osservare la routine dell’ordine. (Anche se in qualche oc casione sembrano mostrare un tale «impulso», si tratta sempre di una inclinazione inventata, acquisita e coltivata, il segno più evidente di un processo di incivilimento in atto.) Gli uomini devono essere costretti a rispettare e ad apprezzare l’armonia, la pulizia e l’ordine. La loro libertà di agire sulla base di impulsi deve essere limitata e sotto posta a restrizioni. I vincoli imposti sono dolorosi: offrono protezione alla sof-ferenza ma generano ulteriore tormento.«La civiltà è costruita su una restrizione delle pulsioni». In particolare, la civiltà (leggi modernità), «impone grandi sacrifici» alla sessualità e all’aggressività dell’uo-mo. «Il desiderio di libertà, perciò, si volge o contro forme e pretese particolari della civiltà, o contro la civiltà tutta». E non può essere altrimenti. La vita civile, così dice Freud, propone in una unica soluzione, piaceri e sofferenze, soddisfazione e disagio, obbedienza e ribellione. La civiltà – l’ordine impo sto sul disordine naturale dell’uma-nità – è un compromes so, un contratto continuamente messo in discussione e da ri-negoziare. Il principio di piacere è in questo caso ridotto in funzione del principio di realtà, mentre le norme definiscono chiaramente ciò che si deve intendere per «real-tà». «L’uomo civile ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Per quanto realistici e plausibili possano essere i nostri tentativi di agire miglio rando le imperfezioni delle condizioni attuali, «forse è bene abituarsi a pensare che ci sono alcune difficoltà intrinseche alla natura della civiltà in grado di resistere a qualsiasi tentativo di intervento».Freud parlava dell’ordine, orgoglio della modernità e punto di partenza di ogni altra sua realizzazione (sia che si manifestasse sotto la stessa dimensione dell’ordine o si ce lasse sotto le categorie della bellezza e della pulizia), in termini di «coazione», «regolazione», «soppressione» o «ri nuncia forzata». Il disagio, profondamente in-trecciato alla modernità, nasceva da un «eccesso di ordine» e dalla sua inseparabile compagna: la morte della libertà. Esposta alla triplice minaccia della caducità del corpo, dell’incontrol labilità della natura selvaggia, e dell’aggressività del prossi mo, la condizione di sicurezza richiedeva il sacrificio della libertà: prima di tutto, della libertà individuale di procurar si il piacere. Nella cornice di una civiltà ripiegata sulla sicurezza, maggiore libertà significava minore frustrazione. In una civiltà che sceglie di limitare la libertà in nome della sicurezza, l’incremento dell’ordine implica la crescita della frustrazione.Il nostro, però, è un tempo di deregulation. Il principio di realtà è chiamato a difen-dersi, oggi, di fronte ad un tribunale in cui il principio di piacere è il giudice che presiede la corte. «L’idea che ci siano difficoltà intrinseche alla natura della civiliz-zazione che resistono a qualsiasi tentati vo di intervento» sembra aver perduto la sua originaria inequivocabile evidenza. La coazione e la rinuncia forzata che un tempo erano irritanti necessità, combattono oggi la loro battaglia contro la libertà individua-le senza avere ga ranzie di successo.Settant’anni dopo la stesura de Il disagio della civiltà, la libertà individuale regna sovrana; è il valore in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata. Ciò non significa, però, che gli ideali di bellez za, pulizia e ordine, che avevano accompa-gnato gli uomini e le donne nel loro viaggio dentro la modernità, siano stati abban-donati o che abbiano perso il loro lustro originale. Al contrario, essi oggi devono essere perseguiti – e realizzati – attraverso sforzi, percorsi e volontà individuali.

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Nella sua attuale versione postmoderna, la modernità sembra avere trovato la pietra filosofale che Freud aveva congedato come fantasia ingenua e dannosa: essa si pro-pone di fondere il prezioso metallo di un «ordine puro» e di una «pulizia meticolosa» estraendo direttamente la materia prima dalla umana (troppo umana) ricerca di pia-ceri, sempre più nume rosi e sempre più appaganti – una ricerca che un tempo era del tutto screditata e condannata come autodistruttiva. La«mano invisibile», uscita in-denne, forse perfino rinvigorita, da due secoli di tentativi diretti a rinchiuderla nel guanto d’acciaio delle regole e del controllo razionali, ha rigua dagnato fiducia e successo. La libertà individuale, un tempo un peso e un problema (forse il problema) per tutti i costruttori dell’ordine, è diventata il vantaggio e la risorsa maggiore nel continuo processo di autocreazione dell’universo umano.Nello scambio, qualcosa si guadagna e qualcosa va irrimediabilmente perduto: la vecchia regola rimane vera oggi come un tempo. Solo che i guadagni e le perdite hanno invertito le loro posizioni: gli uomini e le donne postmoderni scambiano una parte delle loro possibilità di sicurezza per un po’ di felicità. II disagio della moder-nità nasceva da un tipo di sicurezza che assegnava alla libertà un ruolo troppo limi tato nella ricerca della felicità individuale. Il disagio della postmodernità nasce da un genere di libertà nella ricerca del piacere che assegna uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale.Ogni valore acquista rilevanza (come Georg Simmel osservava molto tempo fa) nel-la misura in cui, per poterlo ottenere, si devono abbandonare e sacrificare altri valori. D’altra parte, quanto meno un valore è disponibile e tanto più si fa intenso il suo bisogno. Il valore della libertà eserci ta il fascino maggiore quando deve essere sacri-ficata sull’al tare della sicurezza. Quando è la sicurezza a dover essere sacrificata nel tempio della libertà individuale, essa assorbe tutto lo splendore della sua precedente vittima. Se la noia e la monotonia pervadono le giornate di coloro che inseguo no la sicurezza, l’insonnia e gli incubi infestano le notti di chi persegue la libertà. In en-trambi i casi, la felicità va perduta. Ascoltiamo di nuovo Freud: «Noi siamo fatti in tal modo da essere in grado di ricavare un piacere intenso solo dal contrasto e molto poco dal normale stato delle cose». Perché? Perché «ciò che chiamiamo felicità [...] deriva dalla soddisfazione (di solito improvvisa) di bisogni che sono stati accurata-mente repressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico». In questo modo, una condizione di libertà senza sicurezza non assicura una quan tità di felicità maggiore rispetto ad una sicurezza senza libertà. Un mutamento nella confi-gurazione delle faccende umane non rappresenta sempre un passo avanti verso uno stato di felicità più intensa, anche se può sembrare tale nel momento in cui si compie. La rivalutazione di tutti i valori è un momento felice ed esaltante, ma i valori rivalu-tati non garantiscono necessariamente uno stato di beatitudine.Non ci sono guadagni senza perdite, ed è inutile sperare in una loro prodigiosa sepa-razione: anzi, i guadagni e le perdite specifici di ogni accordo di convivenza umana vanno accuratamente conteggiati in modo da poter cercare l’equilibrio ottimale tra i due; anche se (o, piuttosto, poi ché) la sobrietà e la saggezza faticosamente acquisite pre servano noi, uomini e donne postmoderni, dall’abbando narci al sogno ad occhi aperti di un resoconto in cui compaia solo il consuntivo dei nostri crediti.L’ultima parola spetta alla libertà. Ogni gioco prevede vincitori e perdenti. Nel gioco della libertà, però, la differenza tra le due categorie tende ad essere sfumata, se non del tutto cancellata. Chi ha perso si consola con la speranza di vincere la prossima volta, mentre la gioia del vincitore è offuscata dal presentimento della perdita. Per entrambi,

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la libertà significa che nulla è stabi lito in modo permanente e che la ruota della fortuna può ancora girare. I capricci della sorte rendono incerta la con dizione di entrambi. Ma l’incertezza è portatrice di messag gi differenti: ai perdenti dice che non tutto è ancora perdu to, mentre ai vincenti sussurra che ogni trionfo tende ad essere precario. Nel gioco della libertà, il perdente si ferma prima della disperazione e il vincitore si ferma prima di raggiungere l’assoluta certezza dei propri mezzi. Entrambi scommettono sulla libertà ed entrambi hanno motivo di lamentarsi. Nessuno accetterebbe chiaramen-te restrizioni alla libertà, ma nessuno è totalmente sordo al fascino della certezza, che in realtà si propone di curare i mali della libertà uccidendo il paziente.

(Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999)

❱❱ 16. La fotografiaSi potrebbe dire della fotografia ciò che Hegel (Lineamenti di filosofia del diritto) diceva della filosofia: «Nessun’altra arte, nessun’altra scienza è esposta a così supre-mo disprezzo che chiunque presume di possederla d’un tratto». A differenza di atti-vità culturali più esigenti, come il disegno, la pittura o la pratica di uno strumento musicale, a differenza perfino dalla frequenza ai musei o dall’ascolto ai concerti, la fotografia non presuppone né la cultura trasmessa dalla Scuola, né il tirocinio e il «mestiere» che conferiscono pregio ai consumi e alle pra tiche culturali comunemen-te ritenute più nobili, escluden done i non iniziati.Niente si oppone più direttamente all’immagine comune della creazione artistica come l’attività del fotografo ama tore; che spesso chiede all’apparecchio di compiere al suo posto il maggior numero possibile di operazioni, identifi cando il grado di perfezione della macchina che utilizza con il suo grado di automatismo. Tuttavia, sebbene la produ zione dell’immagine sia interamente devoluta all’automati smo dell’apparecchio, l’inquadratura rimane una scelta che impegna valori estetici ed etici: se, astrattamen-te, la natura e i progressi della tecnica fotografica tendono a rendere ogni cosa ogget-tivamente «fotografabile», ciò non toglie che di fatto, nell’infinità teorica delle foto-grafie tecnicamente pos sibili, ogni gruppo selezioni una gamma precisa e definita di soggetti, di generi e di composizioni. «L’artista – dice Nietzsche (La gaia scienza) – sceglie i suoi soggetti: è il suo modo di lodare». Poiché è una «scelta che loda», poiché rappresenta l’inten zione di fissare, cioè solennizzare ed eternizzare, la foto-grafia non può essere esposta ai rischi della fantasia individuale e pertanto, con la mediazione dell’ethos, interiorizzazione delle regolarità oggettive e comuni, il. grup-po subordina questa pratica alla regola collettiva, in modo tale che la minima foto-grafia esprime, oltre le intenzioni esplicite di chi l’ha fatta, il sistema degli schemi percettivi, di pensiero e di valutazione comune a tutto un gruppo.In altri termini, l’area di tutto ciò che si propone a una determinata classe sociale come realmente fotografabile (cioè, il contingente di fotografie «fattibili» o «da fare», in opposizione all’universo delle realtà oggettivamente foto grafabili, date le possibi-lità tecniche dell’apparecchio), ri sulta tracciata da modelli impliciti che si lasciano cogliere attraverso la pratica della fotografia e il suo prodotto, poi ché essi determina-no oggettivamente il senso che un gruppo conferisce all’atto del fotografare come promozione ontolo gica di un oggetto percepito in oggetto degno di essere fotografa-to, cioè fissato, conservato, comunicato, esibito e ammirato. Le norme che organiz-zano la cattura fotografica del mondo secondo l’opposizione tra il fotografabile e il

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non fotografabile, sono indissociabili dal sistema di valori impliciti propri di una classe, una professione o una scuola artistica, e di cui l’estetica fotografica costituisce sempre un aspetto malgrado la sua disperata protesta d’autonomia. Capire adeguata-mente una fotografia, abbia essa per autore un contadino corso, un piccolo borghese di Bologna o un professionista parigino, non significa soltanto cogliere i significati che proclama, cioè in una certa misura le intenzioni esplicite dell’autore, ma soprat-tutto decifrare il sovrappiù di significato che tradisce in quanto partecipe del simboli-smo di un’epoca, d’una classe o d’un gruppo artistico. Considerato che, a differenza delle attività artistiche pienamente consacrate, come la pittura o la musica, la pratica della fotografia è ritenuta accessibile a tutti, dal punto di vista tecnico come da quel-lo economico, e chi vi si dedica non si sente affatto legato a un sistema di norme esplicite e codificate che definiscano la pratica legittima nel suo og getto, le sue occa-sioni e la sua modalità, l’analisi del signi ficato soggettivo o oggettivo che i soggetti conferiscono alla. fotografia come pratica o come opera culturale, appare un mezzo privilegiato per cogliere nella loro espressione più autentica le estetiche (e le etiche) proprie ai differenti gruppi o classi e in particolare «l’estetica popolare» che vi si può eccezionalmente manifestare.In effetti, quando tutto farebbe credere che questa atti vità senza tradizioni e senza esigenze sia abbandonata all’anarchia dell’improvvisazione individuale, risulta inve-ce che niente è più regolato e convenzionale della pratica della fotografia e delle fo-tografie d’amatore: le occasioni di foto grafare, come pure gli oggetti, i luoghi e i personaggi foto grafati o la composizione stessa delle immagini, tutto sem bra obbedi-re a norme implicite che s’impongono senza ecce zione e che gli amatori accorti o gli esteti riconoscono come tali, ma solo per denunciarle come difetti di gusto o impe rizia tecnica. […] Riconosciuta la fotografia come oggetto di studio sociolo gico, bisogna-va innanzitutto stabilire in che modo ogni gruppo o classe regoli e organizzi la pratica individuale, conferendole funzioni conformi ai propri interessi; non si potevano tut-tavia assumere direttamente a oggetto gli indi vidui singoli e i rapporti che essi intrat-tengono con la foto grafia come pratica o come oggetto di consumo, senza rischiare di cadere nell’astrazione. Solo la decisione meto dologica di studiare in primo luogo i gruppi reali doveva poi far comprendere (o impedire di dimenticare) che il significa-to e la funzione conferiti alla fotografia sono diret tamente connessi alla struttura del gruppo, alla sua mag giore o minore differenziazione e soprattutto alla sua posi zione nella struttura sociale. Così, il rapporto che il contadino ha con la fotografia non è in ultima analisi altro che un aspetto del rapporto che egli intrattiene con la vita urbana, identificata con la vita moderna. […] Allo stesso modo che il contadino, respin gendo la pratica della fotografia esprime il suo rapporto con il sistema di vita urbano, rap-porto entro e attraverso il quale egli sperimenta la particolarità della sua condizione, così il significato che i piccolo-borghesi conferiscono alla pratica della fotografia traduce o tradisce la relazione delle classi medie con la cultura, cioè con le classi su-periori déten trici del privilegio delle pratiche culturali ritenute più no bili, e con le classi popolari da cui a tutti i costi cercano di distinguersi, manifestando nelle pratiche che sono loro accessibili la maggiore buona volontà culturale. Per questa ragione i membri dei fotoclub credono di nobilitarsi cultu ralmente tentando di nobilitare la fotografia, surrogato a loro misura e a loro portata delle arti nobili, e insieme di ritro-vare nella disciplina del gruppo quel corpo di regole tecniche ed estetiche di cui si sono privati respingendo come volgari quelle che reggono la pratica popolare. Il rap-porto esistente fra gli individui e la pratica della fotografia è per sua natura mediato,

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poiché comporta sempre il riferimento al rapporto che i membri delle altre classi in-trattengono con la fotografia, e da lì a tutta la struttura dei rapporti fra le classi.Cercare di superare le astrazioni di un oggettivismo falsa mente rigoroso al prezzo di uno sforzo per ristabilire i sistemi di relazioni adombrati dietro le totalità precostru-ite, significa tutt’altro che cedere alle seduzioni dell’intuizioni smo il quale, risveglian-do le abbaglianti evidenze della falsa familiarità, non fa che trasfigurare, nel caso particolare, le banalità quotidiane sulla temporalità, l’erotismo, la morte in presunte analisi essenziali. Dal momento che la fotografia si presta poco, almeno in apparenza, a uno studio specifi camente sociologico, essa fornisce la sospirata occasione di spe-rimentare che il sociologo, dedito a decifrare ciò che è sempre soltanto senso comune, può occuparsi dell’immagine senza diventare visionario. Che cosa rispondere, a quelli che si aspettano che la sociologia procuri loro delle «vi sioni», se non, con le parole di Max Weber, «che vadano al cinema»?

(Pierre Bourdieu, La fotografia. Guaraldi, Rimini 1972)

❱❱ 17. La società dello spettacoloE senza dubbio il nostro tempo... preferisce l’im magine alla cosa, la copia all’origi-nale, la rappre sentazione alla realtà, l’apparenza all’essere... Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. Anzi il sacro s’ingiganti sce ai suoi occhi via via che diminuisce la verità e l’illusione aumenta, cosicché il colmo dell’illusio ne è anche per esso il colmo del sacro.

(Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de L’Essenza del cristianesimo)

1. Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di pro-duzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappre sentazione.2. Le immagini che si sono staccate da ciascun aspetto della vita si fondono in un corso comune, in cui l’unità di questa vita non può più essere ristabilita. La realtà considerata parzialmente si afferma nella sua propria unità generale in quanto pseudo-mondo a parte, oggetto della sola contemplazione. La specializzazione delle im magini del mondo si ritrova, compiuta, nel mondo autonomizzato dell’immagine, in cui il menzognero ha mentito a se stesso. Lo spettacolo in generale, come in versione con-creta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente.3. Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come una par-te della società, e come stru mento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno dello sguardo e il cen tro della falsa coscienza; e l’unificazione che esso com pie non è altro che un linguaggio ufficiale della separa zione generalizzata.4. Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini.5. Lo spettacolo non può essere compreso come un abu so del mondo visivo, prodot-to delle tecniche di diffu sione massiva delle immagini. Esso è invece una Weltan-schauung divenuta effettiva, tradotta materialmen te. È una visione del mondo che si è oggettivata.

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6. Lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stes so tempo il risultato e il progetto del modo di produ zione esistente. Non è un supplemento del mondo rea le, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’ir realismo della società reale. In tutte le sue forme parti colari, informazione o propaganda, pubblicità o consumo diretto di distrazioni, lo spettacolo costitui sce il modello presente della vita socialmente dominan te. Esso è l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione, e il suo consumo conseguente.Forma e contenuto dello spettacolo sono entrambe l’i dentica giustificazione totale delle condizioni e dei fini del sistema esistente. Lo spettacolo è anche la presenza permanente di questa giustificazione, in quanto occu pazione della parte principale del tempo vissuto al di fuori della produzione moderna.7. La separazione fa essa stessa parte dell’unità del mon do, della prassi sociale glo-bale che si è scissa in realtà e in immagine. La pratica sociale, di fronte alla quale si pone lo spettacolo autonomo, è anche la totalità rea le che contiene lo spettacolo. Ma la scissione che è in questa totalità la mutila al punto da far apparire lo spettacolo come il suo scopo. Il linguaggio dello spettacolo è costituito da dei segni della produzione imperante, che sono nello stesso tempo la finalità ultima di questa produzione.8. Non si può opporre astrattamente lo spettacolo e l’at tività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettiva-mente prodotto. Nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spet tacolo, e riproduce in se stessa l’ordine spettacolare por-tandogli un’adesione positiva. La realtà oggettiva è pre sente da entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio nell’opposto: la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Que sta alienazione reciproca è l’essen-za e il sostegno della società esistente.9. Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momen to del falso.10. Il concetto di spettacolo unifica e spiega una grande diversità di fenomeni appa-renti. Le loro diversità e i loro contrasti sono le apparenze di questa apparenza orga-nizzata socialmente, che deve essere essa stessa ricono sciuta nella sua verità genera-le. Considerato secondo i suoi propri termini, lo spettacolo è l’affermazione dell’ap-parenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come mera apparenza. Ma la critica che rag giunge la verità dello spettacolo lo scopre come la ne gazione visibi-le della vita; come una negazione della vita che è divenuta visibile.11. Per descrivere lo spettacolo, la sua formazione, le sue funzioni, e le forze che tendono alla sua dissoluzione, bisogna distinguere artificialmente degli elementi inse-parabili. Analizzando lo spettacolo, si parla in una certa misura il linguaggio stesso dello spettacolare, in quan to si passa sul terreno metodologico di questa società che si esprime nello spettacolo. Ma lo spettacolo non è nient’altro che il senso della pra-tica totale di una for mazione economico-sociale, il suo impiego del tempo. È il mo-mento storico che ci contiene.12. Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più di questo, che «ciò che appare è buono, ciò che è buo no appare». L’attitudine che esso esige per principio è questa accettazione passiva, che ha di fatto già ottenu to con il suo modo di apparire senza repliche, con il suo monopolio dell’apparenza.13. Il carattere fondamentalmente tautologico dello spet tacolo deriva dal semplice fatto che i suoi mezzi sono al tempo stesso il suo scopo. Esso è il sole che non tra-monta mai sull’impero della passività moderna. Esso copre l’intera superficie del mondo e si bagna indefini tamente alla propria gloria.

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14. La società che riposa sull’industria moderna non è fortuitamente o superficial-mente spettacolare, è fonda mentalmente spettacolista. Nello spettacolo, immagine dell’economia imperante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso.15. In quanto indispensabile ornamentazione degli oggetti attualmente prodotti, in quanto esposizione generale del la razionalità del sistema, e in quanto settore economi-co avanzato che foggia direttamente una moltitudine cre scente di oggetti immagine, lo spettacolo è la principa le produzione della società attuale.

(Guy Debord, La società dello spettacoloin Commentari sulla società dello spettacolo, SugarCo, Milano 1990)

❱❱ 18. nonluoghi. introduzione a un’antropologia della surmodernità[Nota del Traduttore: Il termine surmodernité è stato tradotto sempre con «surmo-dernità» ricorrendo ad un uso raro, ma già esistente in italiano, in cui il sur francese non si traduce con l’equivalente italiano «sovra». Un esempio classico è costituito dai termini «surreali smo» e «surrenale».[…] La ragione per la quale in italiano il termine non-lieux risulta «nonluoghi», sen-za il trattino, è che nella lingua italia na, al contrario di quella francese, verso le pa-role composte si nutre una certa resistenza semantica e di assimilazione nel lin guaggio.]

Prima di prendere l’auto, Pierre Dupont [Come dire il signor Qualunque – N.d.T.] ritira del danaro al bancomat. L’apparecchio accetta la carta di credito autorizzando-lo a ritirare milleotto cento franchi. Pierre Dupont schiaccia il pulsante 1.800. L’ap-parecchio chiede di avere un istante di pazienza, poi emette la somma stabilita ricordan dogli di non dimenticare la carta di credito. «Grazie della vostra visita» con-clude, mentre Pierre Dupont sistema le banconote nel portafoglio.Il tragitto è facile: entrare a Parigi per l’autostrada A11 non pone problemi a quell’ora della domenica.Non deve fare file all’entrata, paga con la carte bleue al casello di Dourdan, circon-valla Parigi prendendo il raccordo anulare e raggiunge Roissy per l’A1.Parcheggia al secondo piano sotterraneo (zona J), lascia scivolare la ricevuta del parcheggio nel porta foglio, poi si affretta verso gli sportelli di imbarco dell’Air Fran-ce. Si libera con sollievo della valigia (venti chili giusti), mostra il biglietto alla hostess chiedendole di poter avere un posto fumatore dal lato corridoio. Sorridente e silen-ziosa, la donna fa un cenno con la testa dopo aver verificato sul suo computer, poi gli dà biglietto e carta di imbarco. «Imbarco satellite B ore 18» [Nell’aeroporto parigino Satellite è il nome che viene dato alle aree di attesa da cui ci si imbarca – N.d.T.] precisa.Si presenta in anticipo al controllo di polizia per fare qualche acquisto al duty-free. Compra una bottiglia di cognac (un souvenir della Francia per i suoi clienti asiatici) e una scatola di sigari (per uso personale). Ha cura di conservare la fattura assie me alla carte bleue.Scorre rapidamente con lo sguardo le vetrine lus suose – gioielli, abiti, profumi –, si ferma alla libre ria, sfogliando qualche rivista prima di scegliere un libro poco impe-gnativo – viaggio, avventura, spio naggio –, poi riprende la sua passeggiata senza im pazienza.

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Storia del pensiero sociologico

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L’uomo assapora la sensazione di libertà datagli sia dall’essersi sbarazzato del baga-glio sia, più inti mamente, dalla certezza di dover solo attendere il corso degli avve-nimenti una volta «messosi in rego la» grazie al fatto di aver intascato la carta di imbar co e di aver declinato la propria identità. «A noi due Roissy!»: non è in questi luoghi sovrappopolati, dove si incrociano ignorandosi migliaia di itinerari indi viduali, che sussiste oggi qualcosa del fascino incer to dei terreni incolti, delle sodaglie e degli scali, dei marciapiedi di stazione e delle sale d’attesa dove i passi si perdono, di tutti i luoghi dell’incontro for tuito dove si può provare fuggevolmente la possibi lità resi-dua dell’avventura, la sensazione che c’è solo da «veder cosa succede»?L’imbarco avviene senza problemi. I passeggeri con la carta di imbarco segnata Z sono invitati a presentarsi per ultimi, facendoli così assistere un po’ divertiti al leg-gero e inutile pigia pigia delle lettere X e Y all’uscita del satellite.Attendendo il decollo e la distribuzione dei gior nali, sfoglia la rivista della compagnia aerea e immagina il possibile itinerario del viaggio percorren dolo col dito: Héraklion, Larnaca, Beirut, Dharan, Dubai, Bombay, Bangkok – più di novemila chilo metri in un batter d’occhio e qualche nome che di tanto in tanto ha fatto parlare di sé la cro-naca. Dà uno sguardo alle tariffe di bordo esentasse (duty free price list), verifica che le carte di credito siano accettate anche sui voli a lunga percorrenza, legge con sod-disfazione i vantaggi della «business class», di cui beneficia grazie alla intelligente generosità della sua ditta. […] Si decolla. Sfoglia più rapidamente il resto della rivi-sta […]. Una pubblicità della carta Visa riesce a rassicurarlo («Accettata a Dubai e ovunque voi viaggiate... Viaggiate con fiducia con la vostra carta Visa»). Poi getta uno sguardo distratto su alcune recensioni di libri e, per interesse professionale, si attarda un istante su quella che riassume un’opera intitolata Euromarketing: «L’omo-geneizzazione dei bisogni e dei comportamenti di consumo fa parte delle ten denze forti che caratterizzano il nuovo ambito inter nazionale dell’impresa... A partire dall’esame dell’incidenza del fenomeno di globalizzazione sull’im presa europea, sulla validità e il contenuto di un eu romarketing e sull’evoluzione prevedibile del mar keting internazionale, vengono dibattute numero se questioni». Per finire, la re-censione evoca «le con dizioni propizie allo sviluppo di un mix il più stan dardizzato possibile» e «l’architettura di una comu nicazione europea».Un po’ sognante, Pierre Dupont ripone la sua rivista. La scritta Fasten seat belt [«Al-lacciare le cinture», in inglese nel testo – N.d.T.] si spegne. Si aggiusta la cuffia, sceglie il canale 5 e si lascia invadere dall’adagio del concerto n.1 in do maggiore di Joseph Haydn. Per qualche ora (il tempo di sorvolare il Mediterraneo, il Mare Ara-bico e il golfo del Bengala) sarà solo.

(Marc Augé, Nonluoghi: introduzione ad un’antropologia della surmodernità, Elèutera Editrice, Milano 1993)

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Glossario

Glossario

aAbasia: incapacità di camminare. Simbolicamente rappresenta l’impossibilità, dopo aver rimosso un

trauma psichico, di prenderne coscienza e di “andare avanti”.Abilità: competenza o capacità verificabile nello svolgere un’attività.Abitudine: acquisizione di un comportamento che, con il passar del tempo e con l’esperienza, diventa

istintivo e automatico.Abulia: mancanza di atti volontari. Il soggetto abulico è incapace sia di intraprendere un’azione sia di

continuarla.Accomodamento: capacità di modificare i propri schemi mentali, per acquisire nuove informazioni. Acculturazione: processo attraverso il quale un gruppo, interagendo con altre componenti della società,

acquisisce, riformulandoli e adattandoli, i tratti costitutivi delle culture di queste ultime. Acrofobia: angoscia a causa delle vertigini che si manifestano nei soggetti che hanno paura di cadere da

grandi altezze.Adattamento: capacità d’adeguamento alle esigenze del mondo esterno.Addestramento: acquisizione, attraverso un esercizio continuo, di abilità e di abitudini. Agenti socializzatori: istituzioni (famiglia, scuola, mass media e così via) attraverso le quali si realizza

la socializzazione di un individuo.Agorafobia: paura di stare in pubblico, di attraversare le strade o le piazze. È un disturbo di natura

nevrotica e produce un’ingiustificata fobia verso ogni luogo aperto e pubblico. Alienazione: estraniazione nei confronti della propria attività fisica e mentale; è un sentirsi estraneo

economicamente, culturalmente e socialmente nei confronti della realtà in cui si vive.Altruismo: attenzione disinteressata verso il benessere e la felicità degli altri.Ambiente: insieme di persone e di oggetti che interagiscono, influenzandosi reciprocamente. Esso può

essere geografico, culturale e sociale.Ambivalenza: atteggiamento che è rappresentato da stati emotivi contrapposti, ma diretti verso la stessa

persona od oggetto.Analogia: relazione di somiglianza tra due o più oggetti.Anecumene: territorio disabitato o solo temporaneamente abitato.Angoscia: paura dell’indeterminato o dell’ignoto.Anomia: mancanza di norme e di regole.Anonimia: fenomeno che si ha quando una persona vive in strada o in un raggruppamento aperto. Si vive

una situazione d’anonimia, perché il rapporto tra gli individui non è basato sulla conoscenza reciproca.Anoressia: forma di permanente inappetenza; è causata da un grave disturbo psichico che, se non curato,

può avere gravi conseguenze fino alla morte.Anosmia: incapacità di percepire gli odori.Ansia: paura del determinato. Consiste in una preoccupazione eccessiva per eventi della vita quotidiana.Antropologia: scienza che studia l’uomo e le culture.

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Apatia: incapacità di reagire emotivamente alla presenza di stimoli, anche interessanti.Aprassia: disturbo motorio che comporta l’incapacità di eseguire correttamente i movimenti del corpo.Areogramma: grafico statistico. Ascritto: è un attributo di status o di ruolo che un individuo possiede dalla nascita (sesso, etnia e così

via).Atteggiamento: insieme di convinzioni, credenze e sentimenti che possono predisporre un soggetto a

reagire favorevolmente o sfavorevolmente verso qualcuno o verso un evento.Attendibilità: coerenza di un test, come strumento di misura, in rapporto all’oggetto della ricerca.Attenzione: processo che consiste nel percepire e selezionare soltanto determinati stimoli, ignorandone

altri.Attitudine: capacità innata o acquisita ad apprendere e ad esercitare, con una certa abilità, un’attività.Attributo di ruolo: caratteristica esteriore o segno di riconoscimento di una posizione sociale.Autorità: particolare influenza di un soggetto sugli altri. Essa viene resa comprensibile con comandi,

ordini, intimazioni e leggi. Chi la subisce, però, la ritiene anche legittima. Diversamente si trasforma in autoritarismo.

BBisogno: stato di tensione che si mette in moto per la presenza di una deprivazione.Borghesia: classe sociale che, secondo la teoria marxista, detiene i mezzi di produzione ed è, perciò,

dominante.Bulimia: frequente necessità di mangiare; è causata dalla paura negli adolescenti di essere abbandonati

affettivamente dalla madre. Burocrazia: apparato amministrativo di uno Stato.

CCambiamento sociale: qualsiasi mutamento della struttura sociale.Campione: in senso statistico, è una serie di valori estratti da un universo o popolazione.Campo di variazione: indice statistico di dispersione.Canale: via lungo la quale viaggia un messaggio per far in modo che dall’emittente arrivi al ricevente. Capitalismo: sistema economico che si fonda contemporaneamente sul mercato autoregolato e sulla

proprietà privata dei mezzi di produzione. Capro espiatorio: forma d’aggressività spostata. Un soggetto frustrato attribuisce la causa della sua

frustrazione ad una vittima innocente e indifesa.Carenza: termine che indica uno stato d’insufficienza. Carisma: potere eccezionale che si attribuisce a un soggetto.Caso: minima unità d’osservazione.Casta: gruppo di famiglie socialmente stratificato e rigidamente definito.Categoria: in filosofia, il termine indica i predicati generali o le forme a priori della conoscenza.Categoria sociale: insieme di persone che, pur non avendo valori e norme in comune, sono, tuttavia,

legate da qualche caratteristica.Cellula nervosa: unità anatomica e funzionale del sistema nervoso.Cervello: parte del sistema nervoso che controlla sia l’attività psicologica sia fisiologica.Ceto sociale: gruppo di persone che hanno in comune interessi, attività e posizione sociale. Chiesa: organizzazione religiosa.Chiusura: in psicologia, tendenza percettiva a riempire vuoti o a chiudere parti separate.

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Cibernetica: studio dei meccanismi che regolano i sistemi di controllo nelle macchine e negli esseri umani.

Classe sociale: insieme di persone consapevoli della propria condizione economica e sociale e, quindi, storicamente determinate.

Codice: insieme di simboli e di regole in possesso sia dell’emittente sia del ricevente nella comunicazione.Codificazione: processo con il quale le informazioni vengono inserite nel sistema di memorizzazione.Coefficiente di correlazione: indice numerico utilizzato per esprimere il grado di correlazione tra due

valori.Collettività: insieme di individui che hanno, in base ai valori e alle norme comuni, sentimenti di solidarietà.

I membri della collettività, essendo numerosi, non riescono ad interagire e a comunicare in forma diretta.

Comportamentismo: teoria psicologica che studia il comportamento.Comportamento: attività manifesta, osservabile e misurabile nell’organismo vivente.Comportamento deviante: comportamento o modo di agire che devia dalle norme.Comunicazione: azione che l’emittente compie per trasmettere un messaggio al ricevente. Comunicazione di massa: sistema di comunicazione sociale.Comunicazione interpersonale: trasmissione di messaggi, con modalità verbali, non verbali e paraverbali,

tra due o più soggetti.Comunismo: sistema economico nel quale, eliminata la proprietà privata dei mezzi di produzione, la

ricchezza è distribuita equamente. Comunità o Gemeinschaft: forma di collettività nella quale i rapporti tra gli individui sono fondati sulla

solidarietà e sull’altruismo.Concettualizzazione: processo per raggruppare mentalmente cose, eventi e persone simili.Condizionamento: fattore che determina un apprendimento condizionato dalla realtà circostante.Conflitto: in psicologia, situazione in cui convivono due stimoli opposti; in sociologia è la simultanea

presenza di gruppi con culture diverse. Conflitto di classe: lotta tra la classe sociale che non possiede i mezzi di produzione o dominata e quella

che li possiede o dominante. Conflitto di ruolo: situazione di conflitto in un soggetto che svolge contemporaneamente più ruoli.Conformismo: adattamento alle regole imposte dal gruppo egemone.Connotativo: significato emotivo di una parola o di un simbolo.Considerazione sociale: misura della valutazione che qualcuno riceve per come occupa una certa posizione

sociale. Consumo: modo con il quale l’utenza risponde alla commercializzazione dei prodotti. Contesto: situazione nella quale avvengono trasmissione e ricezione di messaggi.Controcultura: valori e norme che si contrappongono a quelli della cultura dominante.Controllo sociale: controllo che determina l’osservanza dei valori e delle norme da parte di un gruppo.Conurbazione: processo d’agglomerazione urbana. Tale processo tende, partendo dai centri minori e

periferici di una città e progressivamente espandendosi, ad integrarsi pienamente con il centro urbano. Convention: riunione o incontro, promosso da un’azienda, per festeggiare una ricorrenza.Correlazione: indice statistico che stabilisce in che misura due eventi variano. Coscienza di classe: consapevolezza di appartenere, in base alla propria posizione sociale, ad una

determinata classe. Costumi o mores: norme sociali alle quali gli uomini attribuiscono un forte significato etico. Crescita zero: fenomeno demografico d’equilibrio, in una società, tra la natalità e la mortalità.Cultura: in senso antropologico, è un insieme di valori, di norme e di concezioni. Cultura della povertà: forma di cultura che si sviluppa, nelle società industrialmente avanzate, tra gli

emarginati.

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Curva di distribuzione: curva a campana, che descrive la distribuzione dei punteggi relativi ad un campione casuale.

DDefinizione: descrizione accurata di un concetto.Denotativo: significato primario di una parola o di un simbolo.Desocializzazione: perdita di valori, di norme e di concezioni dell’ambiente in cui si vive.Devianza: deviazione dai valori, dalle norme e dalle concezioni della cultura dominante.Deviazione standard dalla media: indice statistico di dispersione.Diade: legame interpersonale tra due soggetti.Disadattamento: stato di conflitto tra un soggetto e il suo ambiente.Discalculia: difficoltà nell’apprendimento dell’aritmetica. Discriminazione: processo che l’organismo, secondo Pavlov, mette in moto per rispondere in modo

diverso a stimoli identici.Disgrafia: difficoltà ad acquisire la capacità della scrittura.Dislessia: difficoltà ad acquisire la capacità della lettura.Disprassia: forma d’alterazione dell’organizzazione e della coordinazione motoria.Dissonanza cognitiva: situazione in cui un soggetto percepisce una discrepanza tra due opinioni o

atteggiamenti diversi.Disuguaglianza sociale: condizione di soggetti, gruppi o classi, che a causa delle loro caratteristiche,

hanno differenti possibilità di accedere alle ricompense sociali.

EEcumene: territorio stabilmente abitato.Effetto alone: tendenza ad attribuire a qualcuno, in modo improprio e non rispecchiando la realtà, una

valutazione falsata da altri aspetti relativi alla persona.Emancipazione: processo attraverso il quale alcuni gruppi, considerati immaturi ed ineguali, acquisiscono

prima l’eguaglianza giuridica e in seguito quella sociale nei confronti dell’intera società.Emarginazione: fenomeno che si manifesta quando un gruppo di soggetti non riesce ad integrarsi nella

società ed è costretto a vivere ai suoi margini.Empatia: compartecipazione al modo di essere altrui; è comprensione degli altri, mettendosi al loro posto

in certe situazioni.Epistemologia genetica: scienza che, fondata da Piaget, studia il modo di formarsi e di organizzarsi degli

elementi cognitivi.Estinzione: progressivo indebolirsi dei comportamenti appresi.Etnocentrismo: mettere al centro della realtà la propria cultura, per manifestare l’appartenenza etnica.Etologia: scienza che studia i comportamenti degli animali.Evoluzione: processo attraverso il quale le forme di vita semplici producono forme sempre più complesse.

FFamiglia: nucleo fondamentale di una società. Feedback: informazione di ritorno.Fissazione: incapacità, da parte di un soggetto, di cogliere, in un determinato problema, un punto di vista

nuovo.

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Fobia: disturbo ansiogeno; paura irrazionale per una situazione o per un oggetto.Frequenza: numero di volte che si presenta un evento o un fenomeno in un certo ambito ed in un

determinato tempo.Frustrazione: stato psicologico attraverso il quale a qualcuno viene impedito di raggiungere degli scopi

o di soddisfare dei desideri.

GGene: unità di trasmissione ereditaria.Generalizzazione: tendenza ad estendere le stesse risposte anche a stimoli che hanno qualche aspetto in

comune.Genetica: scienza che studia tutti i meccanismi di trasmissione ereditaria dei geni.Gregarismo: tendenza, presente soprattutto negli animali, a vivere insieme.Gruppo: insieme di persone che sono vicine fisicamente e psicologicamente.Gruppo d’appartenenza: gruppo sociale cui un individuo fa riferimento e appartiene, perché ne condivide

i valori, le norme e il modo di pensare.Gruppo di pari: gruppo di coetanei (spesso adolescenti), regolato e strutturato da norme che sono vincolanti

per tutti i membri.

IIdentificazione: processo attraverso il quale un bambino, secondo la psicoanalisi, acquisisce e interiorizza

le caratteristiche del genitore del proprio sesso. Ideologia: l’ideologia è un termine coniato nel 1796 da Destutt de Tracy e significa “scienza delle idee”.

Nell’accezione marxiana assume il significato di falsa coscienza, perché gli individui, essendo alienati, si rappresentano la realtà in maniera mistificata.

Immagazzinamento: conservazione dei ricordi codificati nel tempo.Inchiesta: tecnica per compiere indagini sulla realtà.Inconscio: insieme di processi psichici di cui non si ha esperienza diretta.Indice statistico: valore statistico che fornisce allo studioso, in modo immediato, un’idea di come vanno

le cose.Inferenza: procedimento razionale che consiste nel passare, per induzione, da conoscenze sicure a

conclusioni nuove su realtà che s’ignoravano.Informazione: processo con il quale si assumono e si trasmettono conoscenze.Input: informazione in entrata.Integrazione sociale: capacità da parte di un soggetto di adattarsi e di integrarsi ad un’altra cultura.Intelligenza: capacità di adattarsi in modo attivo a situazioni diverse.Interazione sociale: processo di comunicazione tra due o più persone fisicamente vicine, che s’influenzano

reciprocamente. Interazionismo simbolico: indirizzo di sociologia che si fonda sul presupposto che gli uomini si

comportano nella società in base ai significati che, attraverso il processo d’interazione, attribuiscono alle cose e agli altri.

Interesse: impulso che induce un soggetto ad agire per conseguire un risultato.Intervista: tecnica per eseguire indagini statistiche.Istinto: comportamento fisso e stereotipato.Istituzione: insieme di norme durevoli che sopravvivono agli individui; tali norme formano un sistema

di regole, che si tramandano da una generazione ad un’altra.Istogramma: grafico per rappresentare dati statistici.

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LLeader: soggetto capace di svolgere un ruolo decisivo sia nel controllare sia nel gestire il potere e le

informazioni che circolano in un gruppo.Leadership: posizione e relativo ruolo di un leader in un gruppo.Libido: energia con la quale si manifesta la pulsione sessuale.Lingua: insieme di regole grammaticali e lessicali con le quali gli uomini di una comunità comunicano.Linguaggio: insieme di simboli con i quali si comunicano dei messaggi. Il linguaggio si compone di

strutture (suoni, parole e regole di combinazioni) e di significati (segni convenzionali).Linguistica: scienza che studia il sistema dei suoni (fonologia), la formazione delle parole (morfologia)

e le regole per dare una struttura alle frasi (sintassi).Livello d’aspirazione: obiettivo che un individuo, convinto della riuscita, si prefigge.

MManipolazione: influenza che alcuni esercitano, in maniera subdola, su altri.Marcatura del territorio: tecnica che utilizzano gli animali per stabilire il possesso di un territorio;

vengono segnati i confini in modo tale che gli estranei, venendone a conoscenza, li rispettino. Marketing: tecnica che, attraverso l’analisi delle motivazioni e degli atteggiamenti dei consumatori,

studia il mercato e aiuta a predisporre l’organizzazione delle vendite. Massa: moltitudine di soggetti che si trova in condizione di passività nei confronti del potere.Maturazione: processo di crescita fisiologica dell’individuo, che si risolve nella graduale e regolare

modificazione del comportamento.Megalomania: tendenza a sopravalutare le proprie capacità.Metodo: procedimento attraverso il quale, elaborando giudizi e risolvendo problemi, si raggiungono gli

obiettivi prefissati.Misantropia: pulsione di un generico disprezzo o odio per il genere umano.Misoginia: pulsione di un generico disprezzo e di rifiuto nei confronti del sesso femminile. Per alcuni

studiosi tale pulsione è considerata un disturbo nevrotico.Misurazione: processo attraverso il quale si assegna un numero ad un evento o ad un fenomeno, secondo

regole matematiche.Mobilità sociale: possibilità degli uomini, che vivono in una società, di spostarsi in modo ascendente o

discendente da un ceto sociale ad un altro.Mobilitazione sociale: processo attraverso il quale si produce la mobilità sociale.Moda: indice statistico di posizione centrale.Modellamento: procedimento che fa, in maniera graduale, assumere un comportamento, che si conforma

a quello desiderato. Modernizzazione: processo di trasformazione socio-culturale di una società.Motivazione: forza interiore che fornisce al comportamento l’energia necessaria per indirizzarlo verso

uno scopo.Mutamento sociale: qualsiasi cambiamento della struttura sociale.

NNevrosi: disturbo psichico che determina comportamenti dannosi, giacché l’individuo che ne è affetto,

pur essendone consapevole, non riesce ad uscire da tale stato.Norma sociale: aspettativa dalla quale dipende l’agire o il non agire sociale degli individui.

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OOmeostasi: livello ottimale delle funzioni organiche, che si mantiene attraverso un meccanismo automatico

di regolazione.Ontogenesi: sviluppo di un organismo dall’embrione alla vita adulta.Operazione: in psicologia, azione mentale caratterizzata dalla reversibilità del pensiero.Opinione: forma di giudizio che comporta una predizione dei comportamenti degli individui e degli

eventi. Ordine politico: sistema, attraverso il quale alcuni soggetti esercitano, dopo averlo acquisito, il potere

politico sulla collettività.Organizzazione: complesso apparato, materiale ed immateriale, utile per raggiungere fini istituzionali.Orientamento: insieme di conoscenze, messe in atto, per indirizzare un soggetto verso scelte motivate.Osservazione: constatazione di eventi che si presentono in natura o nella realtà sociale.Output: informazione in uscita.

PPacificazione: superamento di uno stato di conflitto tra gli individui o d’aggressività di un gruppo verso

gli altri.Parametro: costanza di una funzione, utile per definire la forma di una curva.Paura: reazione emotiva alla realtà circostante.Permanenza dell’oggetto: consapevolezza da parte di un bambino di circa otto mesi che gli oggetti

continuano ad esistere anche quando scompaiono o quando, ad esempio, vengono nascosti.Personalità: insieme di caratteristiche e di modalità individuali; è sintesi di maturazione e d’apprendimento.Pigmalione: forma di pregiudizio; l’effetto Pigmalione è rappresentato dalle aspettative che ha qualcuno

nei confronti di un altro. Ad esempio, le aspettative dell’insegnante, positive o negative, nei confronti di un alunno. Quest’ultimo ha, infatti, un alto livello di aspirazioni e un buon rendimento scolastico, se è tale l’aspettativa dell’insegnante; un basso livello di aspirazioni e uno scarso rendimento, se, anche in questo caso, è tale l’aspettativa dell’insegnante.

Placebo: sostanza inerte, ma che, somministrata al posto di un farmaco attivo, produce, per autosuggestione, effetti sostitutivi e benefici per un paziente.

Pluralismo: situazione in cui il potere è distribuito, all’interno di una società, tra gruppi e interessi diversi.Posizione: posto che si occupa nella vita sociale.Potere: particolare condizione con la quale si realizza una pressione psicologica e sociale su una persona

o su un gruppo.Pragmatica: parte della linguistica che studia come debba essere usato il linguaggio nella vita sociale.Pregiudizio: predisposizione ben radicata, negativa o positiva, su persone, su oggetti e su gruppi sociali.Pressione sociale: tendenza a far cambiare comportamento e opinioni a persone o a gruppi.Prestigio sociale: valutazione sociale che viene accordata ad una posizione, indipendentemente dalla

persona che la occupa.Problem solving: espressione inglese che designa le fasi da percorrere per risolvere concretamente un

problema.Processo: svolgimento sequenziale di fenomeni in rapporto tra loro.Profezia che si autoadempie: comportamento involontario secondo le aspettative di qualcuno che valuta

o discrimina un altro.Psicoanalisi: studio dei meccanismi psicologici inconsci e profondi della personalità.Psicologia: scienza che studia la personalità come sintesi di maturazione e apprendimento.

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Psicosi: disturbo psicologico che denota perdita di contatto con la realtà.Psicoterapia: uso di tecniche psicologiche per curare le malattie mentali. Pulizia etnica: tentativo e, talvolta, anche realizzazione di sterminio di intere popolazioni o generazioni,

ritenute de facto nemiche e inferiori.Pulsione: spinta che un bisogno, sottostante alla coscienza, fornisce al comportamento per realizzare una

gratificazione.

QQuestionario: tecnica per realizzare una ricerca.Quoziente intellettivo: indicatore del livello d’intelligenza. Si calcola mettendo in rapporto l’età mentale

e quella cronologica e moltiplicando il quoziente per cento.

RRaggruppamento: tendenza, secondo la psicologia della Gestalt, ad organizzare gli stimoli in strutture

coerenti.Razionalizzazione: meccanismo di difesa dell’Io.Razzismo: insieme di pregiudizi negativi di un soggetto, appartenente ad una determinata razza, nei

confronti di un altro soggetto di una razza diversa. Reato: attività delittuosa.Recettore: dispositivo dell’organismo, sensibile agli stimoli periferici.Reificazione: capacità di oggettivare un concetto astratto.Retina: superficie interna dell’occhio sensibile alla luce e sulla quale cadono le immagini degli oggetti

percepiti.Riapprendimento: apprendere nuovamente le informazioni temporaneamente dimenticate.Richiamo: riprodurre integralmente un’informazione.Riconoscimento: capacità di individuare un’informazione già memorizzata in precedenza.Riflesso: risposta automatica e immediata di un soggetto alle stimolazioni esterne.Rimozione: meccanismo per respingere nell’inconscio i ricordi e gli impulsi che il Super-io non ritiene

accettabili.Rinforzo: evento che tende a far aumentare la probabilità che una risposta possa ripetersi.Ripetizione: un continuo ripetere alcune informazioni per immetterle nella memoria a lungo termine.Risposta: reazione ad una stimolazione fisica o psicologica, che si manifesta attraverso un comportamento.Rivoluzione: cambiamento rapido e radicale dei valori, delle norme e del modo di pensare degli uomini

che vivono in una società.Ruolo: aspettativa bilaterale (ciò che un soggetto rappresenta in una determinata posizione e nello stesso

tempo il comportamento richiesto deve essere verificabile e consequenziale).

SSanzione: positiva quando si è ricompensati per aver adeguatamente osservato le norme; negativa quando

viene applicata la legge per i trasgressori delle norme.Scala: insieme di valori statistici; serve per stabilire le posizioni e gli intervalli lungo una dimensione.Scarto semplice medio: indice statistico di dispersione.Schema: concetto che interpreta e organizza un’informazione.

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Schizofrenia: forma di psicosi, caratterizzata da disorganizzazione logica e da una percezione alterata della realtà.

Sé: personalità individuale, percepita soggettivamente.Secolarizzazione: processo sociale e culturale, attraverso il quale si sottrae, introducendo valori e norme

laici, un soggetto al controllo ideologico e religioso.Segregazione: impiego di luoghi separati da parte di gruppi sociali diversi ed emarginati.Selettività: risposta percettiva nei confronti soltanto di alcuni stimoli.Semantica: studio del significato che deriva dall’interpretazione dei morfemi, delle parole e delle frasi.Semiotica: studio della natura dei segni linguistici.Sensazione: processo per individuare e identificare gli stimoli.Set percettivo: predisposizione psicologica e mentale a percepire solo alcuni elementi e non altri.Significatività statistica: grado d’affidabilità che una misura statistica rappresenti la realtà.Simbolo: elemento rappresentativo di una cosa diversa da quella utilizzata.Simbolo di status: indicatore di posizione sociale.Simulazione: rappresentazione, messa in atto per facilitare uno studio, degli elementi fondamentali di

un fenomeno.Sintassi: insieme di regole che sono alla base sia della formazione sia della comprensione di un linguaggio.Socializzazione: assunzione da parte di un individuo dei valori, delle norme e delle convinzioni

dell’ambiente circostante.Società: insieme di organizzazioni, di istituzioni, di gruppi e di individui.Sociobiologia: studio dell’evoluzione del comportamento sociale degli uomini. Tale studio si basa sui

principi della selezione naturale.Sociogramma: grafico che rende evidente le interazioni e le dinamiche dei membri di un gruppo.Sociometria: rappresentazione grafica delle interazioni sociali e dei rapporti di rifiuto o d’attrazione tra

i membri di un gruppo.Sociologia: scienza che studia, spiega e descrive l’agire sociale degli individui.Solidarietà: sentimento che i membri di un gruppo o di una comunità hanno per un reciproco sostegno

e per un aiuto nei confronti di chi ha bisogno.Sondaggio d’opinione: inchiesta su un campione di popolazione per conoscere opinioni su determinati

argomenti.Statistica: scienza che rileva e rappresenta i fenomeni collettivi o di massa. Stato: apparato legislativo, amministrativo, giudiziario e militare di una società.Status: posizione che occupa un individuo nella società.Stereotipo: valutazione precostituita, semplicistica e generalizzata; riguarda un gruppo o una categoria

di persone.Stimolo: elemento esterno ad un individuo che determina una risposta.Stratificazione sociale: strutturata disuguaglianza tra i ceti sociali o tra le categorie di individui in ordine

gerarchico.Stress di ruolo: condizione in cui si trova chi, nei rapporti quotidiani, è costretto ad interpretare ruoli

diversi e conflittuali.Struttura: disposizione delle parti che formano un tutto. Subcultura: insieme di valori, norme e concezioni di un gruppo, che, all’interno di una società, si distingue

dalla cultura dominante.Svantaggio: difficoltà, relativa, in un gruppo o in una società, a soggetti appartenenti ai nuclei familiari

disagiati ed emarginati.

Page 70: Antologia degli autori più rappresentativi della sociologia · Storia del pensiero socio-logico obiettivi • Acquisire familiarità con il linguaggio proprio della sociologia. •

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Glossario

TTabù: ciò che, in alcune culture, è rigorosamente proibito e spesso anche sancito con punizioni severe.Tabulazione: trasferimento dei dati di una ricerca, dopo averli raccolti, su tabelle. Tasso di mortalità: numero annuo, nella misurazione statistica, di casi di morte in una determinata

popolazione. Tasso di natalità: numero annuo, nella misurazione statistica, di casi di nascite in una determinata

popolazione.Tecnica: strumento per raggiungere degli obiettivi. Temperamento: tendenza a provare stati emotivi; esso è anche l’intensità delle risposte che caratterizzano

un individuo.Tempo di reazione: metodo fondato da Donders; consiste nel tempo che passa tra uno stimolo e la relativa

risposta.Teoria: insieme di principi logici che analizzano ed organizzano la realtà.Territorialità: insieme di comportamenti che tendono a definire e a stabilire i confini di un territorio.Test: prova cui può essere sottoposto un soggetto allo scopo di misurarne l’intelligenza, studiarne la

personalità e valutarne le attitudini. Tipo ideale: astrazione che il sociologo compie nell’osservare casi reali. Tradizione: un tramandare valori, norme e concezioni, ritenuti positivi e diffusi all’interno di una

popolazione.Transfert: processo che mette in moto in un paziente l’esigenza di trasferire sul terapeuta le emozioni,

legate ad altre relazioni.

UUmore: disposizione emotiva per la quale un soggetto dà tonalità sgradevole o gradevole ai suoi stati

psicologici.Universo: in senso statistico, è la popolazione che è rappresentata da un campione. Usi o folksways: usanze comuni o convenzioni della vita quotidiana.

VValidità: misura che stabilisce il grado d’attendibilità di ciò che si vuole misurare.Variabile: elemento che viene, in un esperimento, preso in esame.Varianza: indice statistico di dispersione.