anno xxviii febbraio 2013 rivista di storia arte cultura...le nella maturazione di quello che doveva...

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‘Taxe Percue’ ‘Tassa Riscossa’ - Padova C.M.P. In caso di mancato recapito, rinviare all’Ufficio Postale di Padova C.M.P., detentore del conto. per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa. Abbonamento annuo: Italia 30,00 - Estero 60,00 Poste Italiane s.p;a. - Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1 - DCB Padova ISSN 1120-9755 ANNO XXVIII FEBBRAIO 2013 rivista di storia arte cultura

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ISSN 1120-9755

ANNO XXVIII FEBBRAIO 2013

rivista di storia arte cultura

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3 Editoriale

4 Introduzione (brevissima) a Pietro Bembo

Manlio Pastore Stocchi

8 La Padova di Bembo

Giuseppe Gullino

12 Bembo, il mito della corte e l’Amore

Daria Perocco

17 Il soggiorno di Pietro Bembo a Villa Bozza

Franco De Checchi

23 Pietro Bembo e l’aristotelismo padovano

Giulio F. Pagallo

29 La famiglia “padovana” del Bembo

Giorgio Ronconi

35 Il Palazzo del Bembo in via Altinate

Roberta Lamon

41 Alcune note sulla Padova artistica al tempo di Pietro Bembo

Vincenzo Mancini

46 Come il Bembo divenne il signore della lingua italiana

Gino Belloni

50 Note sulla collezione d’arte ‘In casa di Messer Pietro Bembo’ a Padova

Rosella Lauber

55 La raccolta Bembo e il collezionismo antiquario padovano

Giulio Bodon

60 Il cenotafio del Bembo al Santo

Giovanna Baldissin Molli

65 Viatico per la mostra su Pietro Bembo a Padova

Vittoria Romani

72 Rubriche

77 Consegna del Sigillo della città di Padova - 2012

78 Indice dell’annata 2012

Rivista bimestrale • Anno XXVIII • Fascicolo 161 • Febbraio 2013

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Presidente: Vincenzo de’ StefaniVice Presidente: Giorgio RonconiConsiglieri: Salvatore La Rosa, Oddone Longo, Mirco Zago

Direzione: Giorgio Ronconi, Oddone Longo

Redazione: Gianni Callegaro, Maria Rosa Davi, Paolo Maggiolo, Paolo Pavan,Elisabetta Saccomani, Luisa Scimemi di San Bonifacio, Mirco Zago

Consulenza culturaleAntonia Arslan, Andrea Calore, Francesco e Matteo Danesin, Pierluigi Fantelli,Francesca Fantini D’Onofrio, Sergia Jessi Ferro, Elio Franzin, Donato Gallo,Claudio Grandis, Giuseppe Iori, Roberta Lamon, Salvatore La Rosa, Giuliano Lenci,Vincenzo Mancini, Luigi Mariani, Maristella Mazzocca, Luciano Morbiato,Gilberto Muraro, Antonella Pietrogrande, Giuliano Pisani, Gianni Sandon,Francesca Maria Tedeschi, Paolo Tieto, Rosa Ugento, Roberto Valandro,Francesca Veronese, Gian Guido Visentin, Pier Giovanni Zanetti

Enti e Associazioni economiche promotriciAmici dell’Università, Amici di Padova e il suo territorio,Camera di Commercio, Cassa di Risparmio del Veneto,Banca Antonveneta, Comune di Padova,Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo,Regione del Veneto, Unindustria Padova

Associazioni culturali sostenitriciAmici del Museo, Amici della Musica, Amissi del PiovegoAssociazione “Lo Squero”, Associazione Italiana di Cultura Classica,Casa di Cristallo, Comitato Difesa Colli Euganei, Comunità per le Libere Attività Culturali,Ente Petrarca, Fidapa, Gabinetto di Lettura,Gruppo del Giardino Storico dell’Università di Padova,Gruppo “La Specola”, Gruppo letterario “Formica Nera”,Italia Nostra, Istituto di Cultura Italo-Tedesco, Progetto Formazione Continua,Società “Dante Alighieri”, Storici Padovani, The Andromeda Society, UCAI,Università Popolare, U.P.E.L.

Progettazione graficaClaudio Rebeschini

Realizzazione graficaGianni Callegaro

Sede Associazione e Redazione RivistaVia Arco Valaresso, 32 - 35141 PadovaTel. 049 [email protected]

Amministrazione e stampaTipografia Veneta s.n.c. - Via E. Dalla Costa, 6 - 35129 PadovaTel. 049 87 00 757 - Fax 049 87 01 628e-mail: [email protected] - [email protected]

Registrazione n. 942 dell’11-4-1986 - Iscrizione al R.O.C. n. 10089 del 12-2-2003Direttore responsabile: Giorgio Ronconie-mail: [email protected]

Abbonamento anno 2012: Italia e 30,00 - Estero e 60,00 - Un fascicolo separato: e 6,00 c/c p. 1965001 «Tipografia Veneta s.n.c.» - PadovaSped. in a.p. - 45% - art. 2 comma 20/B legge 662/96 - Filiale di Padova.

In copertina: Tiziano, Ritratto del cardinale Pietro Bembo (Washington National Gallery of Art).

Rivista di storia, arte e culturadell’Associazione “Padova e il suo territorio”

Gli articoli firmati non impegnano la rivista e rispecchiano soltanto il pensiero dell’au-tore. Tutti i diritti di proprietà letteraria ed artistica sono riservati e sono estesi a qual-siasi sistema di riproduzione. Per loro conto, gli autori si assumono la totale respon-sabilità legale dei testi e delle immagini proposti per la stampa; eventuali riproduzioni anche parziali da altre pubblicazioni devono portare l’esatta indicazione della fonte. I manoscritti, le foto ed i disegni, anche se non pubblicati, non saranno restituiti.

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Sono trascorsi un paio d’anni da quando l’Atlante della letteratura italiana di Einaudi propose un nuovo modo, e del tutto originale, di leggere la storia della cultura letteraria del nostro Paese, a partire dal suo primo costituirsi. Una cultu-ra policentrica, nella quale il Veneto, e nel Veneto Padova, si proponevano come centro egemone, nel dualismo fra capitale politica ed economica e capitale culturale, a partire da Giotto e ad arrivare fino a Donatello, e per la presenza dell’università. Oggi le numerose iniziative di celebrazione di Pietro Bembo prospettano un ulteriore momento, e tutt’altro che secondario, di questo primato di Padova, grazie ad un personaggio di gran-de impatto storico, culturale ed umano, che con le Prose della volgar lingua e con gli Asolani si impose come figura centra-le nella maturazione di quello che doveva essere chiamato il nostro Rinascimento.

La nostra rivista ha ritenuto di dover dedicare al Bembo un numero monografico, che approfondisce e diffonde la cono-scenza del cardinale, immortalato dal ritratto di Tiziano.

Oddone Longo

* * *

La Direzione ringrazia gli amici e i colleghi universitari, che con il loro qualificato contributo hanno reso più ricco e più prezioso questo fascicolo, e la Fondazione della Cassa di Risparmio di Padova e Rovi-go per aver promosso la Mostra e sostenuto questa pubblicazione.

La sezione riservata alle recensioni, necessariamente ridotta, tro-verà gli spazi consueti nei prossimi numeri.

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Manlio Pastore Stocchi

Introduzione(brevissima)a Pietro Bembo

Un ritratto del personaggio in cui si mettono in rilievo quegli aspetti che hanno inciso più profondamente nel corso successivo della nostra storia letteraria.

Quando Angelo Poliziano, nel giugno del 1491, lo incontrò per la prima volta a Ve-nezia in casa di suo padre Bernardo, Pietro Bembo gli apparve come uno «studiosus litterarum adulescens», definizione che ringiovaniva alquanto il giovane ormai ventunenne e già ufficialmente ascritto, secondo il rito, al novero dei patrizi vene-ti. Ma in realtà, sebbene maturo per senno, per cultura, per stato sociale, Pietro viveva ancora, per così dire, all’ombra di Ber-nardo Bembo, umanista e soprattutto au-torevole diplomatico e uomo di governo, promotore (in specie) di buoni rapporti tra repubblica di Venezia e Firenze medicea; ciò che per il momento sembrava asse-gnare al pur dottissimo e adulto figliuolo una sorta di minorità rispetto alla tuttora soverchiante personalità paterna. Il Poli-ziano aveva veduto tra le mani di Pietro un preziosissimo codice di Terenzio, ora Vaticano Latino 3226, e ne aveva ottenuto con pronta e generosa cortesia la disponi-bilità per i propri studi. È perciò naturale che per un giovane così ben equipaggiato l’umanista fiorentino presentisse un pre-stigioso avvenire di antichista e di filolo-go compiuto, secondo il modello che egli aveva più volte delineato nei propri scrit-ti e aveva realizzato in se stesso. D’altra parte, è altrettanto naturale che Bernardo si aspettasse dal promettente figliuolo una riuscita non dissimile da quella di altri membri delle nobili famiglie veneziane – i Barbaro, i Donato, i Barbo, se stesso… –, per i quali la solida cultura letteraria sa-rebbe dovuta rimanere lo sfondo e l’orna-

mento di una vita dedita in primo luogo al servizio dello stato ed essenzialmente spesa in quegli uffici del governo e della diplomazia nei quali la maestria letteraria si sarebbe soprattutto cimentata nell’apo-logia e nella conferma del primato, anche in quest’ambito, di Venezia.

In Pietro, tuttavia, entrambe queste plau-sibili attese non si sarebbero avverate, o meglio si sarebbero avverate in un modo affatto diverso. Come s’è accennato, Ber-nardo Bembo conosceva a fondo l’am-biente mediceo e vi era ben accolto: l’at-tività diplomatica che la Serenissima gli aveva in più occasioni affidato mirava ad intrattenere con Firenze relazioni amiche-voli, ricomponendo le secolari diffidenze e tensioni che avevano diviso per secoli le due città. Della rispettosa attenzione che Bernardo rivolgeva anche alla tradizione culturale forentina Pietro ebbe occasione di rendersi conto molto precocemente, allorché il padre, buon lettore di Dante e nominato tra il 1481 e il 1483 rettore e ca-pitanio di una Ravenna allora soggetta a un effimero dominio veneziano, vi dispose il ristauro della tomba del divino Poeta; e non è dubbio che taluni clamorosi sviluppi del pensiero critico e linguistico nell’auto-re degli Asolani e delle Prose della volgar lingua traessero la prima origine da que-ste specifiche sollecitazioni familiari. Ma su un punto fondamentale le ragionevoli aspettative di Bernardo erano destinate a rimanere deluse: Pietro, futuro cardina-le di Santa Romana Chiesa, non avrebbe assunto mai la fisionomia paterna – e, per

diManlio Pastore

Stocchi

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Introduzione (brevissima) a Pietro Bembo

così dire, pregiudiziale – del patrizio vene-to organico, per doveri e servizi e carriere, al sistema oligarchico della Repubblica; e invece avrebbe preservato in sé una quasi totale indipendenza di soggiorni, di scelte e ambizioni di vita, di interessi letterari, di relazioni amichevoli, lungo un percorso che rispetto all’immagine tipica del colto e agiato patrizio metropolitano non poteva che apparire divergente, o almeno cauta-mente tangenziale.

La verità è che pur senza derogare alle proprie origini e senza disconoscere mai la propria naturale appartenenza, Pietro Bembo a Venezia è probabile che non si trovasse del tutto a suo agio, cioè non ri-conoscesse nella particolare fisionomia ambientale della città la sede ideale delle proprie dimore. Gli furono congeniali, in-vece, altri luoghi, non per nulla connessi strettamente alla sua opera letteraria, che più volentieri vi si riferisce: ameni oriz-zonti collinari di terraferma, eleganti sale di conversazione, giardini... Le memorie che con maggior suggestione parlavano al suo spirito si legavano alla Padova e ai colli Euganei frequentati dal Petrarca, ai paesaggi e alle ville dell’Asolano, ai raf-finati intrattenimenti di Urbino, alla Roma ariosamente ornata in egual misura sia di monumenti antichi, sia di “vigne” e di mo-derni parchi di delizia. Curiosamente, non volle nemmeno immaginarsi presente al ragionamento fittizio sulla volgar lingua che nella finzione delle Prose Giuliano de’ Medici, Federigo Fregoso ed Ercole avrebbero tenuto a Venezia nel dicem-bre del 1502, alla presenza di suo fratello Carlo «e da esso mio fratello a me, che in Padova a quelli dì mi trovai essere, poco appresso raccontato»: preferì far apparire le Prose come una rielaborazione di quel fraterno racconto padovano, e a Roma, nel preambolo del terzo libro, si rappresentò intento a compirle.

D’altra parte, non si avverò nemmeno il futuro che il Poliziano poteva prevedere per lo «studiosus litterarum adulescens» fortunato possessore del codice terenzia-no «venerandae vetustatis». Pietro Bembo ebbe, certo, una inarrivabile conoscenza delle lingue e delle letterature classiche, compose su argomenti antiquari saggi pre-gevoli, e in latino e persino in greco seppe

esprimersi con sicurezza e lindura esem-plari, tanto che, per questo riguardo, potè essere celebrato quale esempio e misura di una nuova età aurea della latinità. Ma, a differenza degli umanisti “professionali” (quale sarebbe stato persino, nel suo ceto patrizio e nel suo tempo, il grande Er-molao Barbaro), non si spese in diligenti collazioni di manoscritti, non allestì dotte edizioni critiche, non si cimentò in minu-ziosi commenti. Il suo percorso di critico e di filologo solidamente attrezzato mosse invece, genialmente, in tutt’altra direzio-ne, volgendosi piuttosto verso la nobile tradizione volgare e ad essa rivendicando,

Pietro e Tullio Lombardo, Progetto per la tomba di

Dante a Ravenna inserito da Bernardo Bembo,

promotore del monumento, nell’incunabolo della

Commedia commentata dal Landino ricevuto in dono

da quest’ultimo (Parigi, Bibliothéque National).

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Manlio Pastore Stocchi

no si annovera l’Ariosto, che si affrettò ad applicarlo nelle edizioni dell’Orlando fu-rioso succedute alla prima).

Correlate con l’innovazione linguistica consentanea al nuovo statuto dei classici moderni sono, inoltre, la riforma e l’esten-sione ad essi del principio di imitazione. Va da sé che, essendo principale oggetto della poesia la poesia stessa, essa fin dai tempi di Omero risuoni di echi, remini-scenze, emulazioni, allusioni ai predeces-sori, e la trattatistica antica e medievale non solo ne aveva preso atto, ma aveva

per la prima volta in modo sistematico, lo statuto medesimo di nobiltà e il medesimo diritto all’impegno filologico ormai già ri-conosciuto per le letterature antiche. Dan-te Petrarca Boccaccio ammiratori e imita-tori ne avevano avuti già in vita, e tuttora ne avevano assai; ma nessuno prima del Bembo aveva così coscientemente esteso a loro la condizione privilegiata e inat-taccabile di «classici». Anche se, a dire il vero, la parola in sé non aveva ancora as-sunto la pienezza dei significati (taluni, in-vero, sfuggenti) che ora le attribuiamo, in rapporto agli antichi il concetto era stato in certo modo presente a chi già nel Me-dio Evo aveva individuato i magni auc-tores quali garanti di eccellenza assoluta non soltanto per il «bello stilo» ma anche per l’insieme dei valori di umanità di cui essi s’erano fatto promotori: così Virgilio è, per Dante, ‘maestro’ e ‘autore’ nell’uno e nell’altro senso. Ma il medesimo concet-to nemmeno Dante aveva osato applicarlo esplicitamente ai moderni poeti in volga-re, che egli vede distribuiti semmai lungo una precaria e sempre aperta vicenda di fortune e di eclissi (e mi basti ricordare le rassegne nel canto XI del Purgatorio). Il Bembo è, così, davvero il primo che con piena consapevolezza e con rigore meto-dico applichi alla letteratura volgare quel-lo stesso criterio di eccellenza che aveva conferito agli antichi la dignità di ‘clas-sici’. La conseguenza più immediata di questo peculiare modo di porsi di fronte ai classici ‘moderni’ è l’istanza di definirne e regolarne il canone linguistico, per ridurlo a quella esemplare stabilità di cui ormai godeva il “sermon prisco” dei Latini: im-presa in cui il Petrarca s’era genialmente adoperato con una ricerca tutta personale nell’elaborazione delle proprie rime e, per così dire, soltanto a propria intenzione, ciò che bastava per sé a rendere i Rerum vul-garium fragmenta un punto di riferimento necessario e un modello assoluto; ma che il Bembo ebbe il merito di rendere, per dir così, categorica per la lingua poetica ita-liana promulgando nel 1525 con le Pro-se della volgar lingua una legislazione di portata universale che avrebbe governato per molti secoli le sorti della nostra let-teratura (si sa, per esempio, che tra i più tempestivi nell’adottare il canone bembia-

Giorgione, Giovane con il libro verde (San Francisco,Fine Arts Museums).

Sebastiano del Piombo, Ritratto di Vittoria Colonna (Barcellona, Museo d’Arte

della Catalogna).

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Introduzione (brevissima) a Pietro Bembo

maggiori; e si può convenirne. Ma proprio il loro innegabile decoro formale ci con-vince che anche in questo caso emerge un merito non piccolo del Bembo. Egli non diede, né ragionevolmente poteva darla, la ricetta per attingere i vertici della poesia, ma ne fissò, in qualche modo, il limite mi-nimo di decenza, insomma ne definì e rese praticabili i requisiti di correttezza almeno artigianale sotto i quali a nessuno sarebbe stato più concesso di discendere. E non è poco.

Ma se si ripensa alla nascita, al ceto, all’educazione di Pietro Bembo un para-dosso sembra balzare agli occhi. La irre-versibile norma fiorentina imposta alla nostra lingua letteraria e alle forme della nostra letteratura è stata dettata da un ve-neziano, la sensibilità storica e artistica necessaria per concepirla e formularla è appartenuta a un patrizio veneto, a un raf-finato latinista e, perché no? a un uomo di mondo capace di forti passioni terrene. Ma forse era proprio lui, signorile cosmopoli-ta, il più adatto per affrontare, senza le an-gustie municipali e i riboboli che volentie-ri insidiano le rivendicazioni fiorentine, le questioni da cui la nostra cultura letteraria rimane così profondamente segnata.

l

chiaramente indicato di quali predecessori eccellenti fosse ammissibile o persino im-perativo seguire in perfetta innocenza le orme: i classici, appunto, ai quali retoriche e poetiche raccomandavano di rendere, imitandoli, il debito omaggio mutuandone, con esso, la norma dell’eccellenza. Echi, reminiscenze, allusioni alla precedente letteratura volgare erano numerosi, natu-ralmente, anche nella letteratura italiana dei primi secoli, tuttavia non ne esisteva ancora una giustificazione che ne sancis-se ufficialmente la liceità e li qualificasse in certo modo quali rituali procedure del buono scrivere. Anche per questa differen-za tra ciò che era nettamente definito come positivo in relazione agli antichi, ed era invece in regime di incertissimo ius con-dendum circa i modelli recenti, il Petrarca, per quanto in genere si sforzasse di appa-rire originale evitando memorie troppo letterali dei propri autori, non si sarebbe adontato, anzi si sarebbe compiaciuto se gli avessero fatto notare, per esempio, una certa parentela dell’Africa con il poema di Virgilio; ma si schermì verbosamente in una lunga epistola al Boccaccio, con argo-menti capziosi e con una certa malafede, quando gli parve si sospettasse che Dante l’avesse influenzato nelle rime volgari.

Il Bembo, nelle Prose e, su un altro pia-no, negli Asolani, non solo elaborò e rese pertinente alla letteratura volgare il princi-pio di imitazione, ma ne fissò – mediante i moderni “classici” fiorentini Dante Petrar-ca Boccaccio –, modelli, regole e campi di validità all’interno di quella stessa lettera-tura. La poesia lirica risentì più largamen-te (ma dell’Ariosto epico s’è appena detto) gli effetti della sua legislazione, e abbia-mo modo di accertarcene semplicemente ponendo a fronte i centocinquant’anni di petrarchismo per così dire anarchico e di-sorganizzato (ma, s’intende, tutt’altro che sprovvisto di pregi) che lo precedono e, invece, forme e sorti del petrarchismo che con lui s’avvia a caratterizzare così pro-fondamente, fino all’Arcadia e addirittura oltre, la poesia nostra.

Sulle molte rime che egli stesso compo-se in vario metro la critica si è da sempre espressa con cautela, scorgendovi nient’al-tro che una corretta esemplificazione dei principi teorici enunciati nei dialoghi

Luca Cranach il Giovane, Ritratto di Pietro Bembo.

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Giuseppe Gullino

La Padova di Bembo

La stretta economica abbattutasi sulla città dopo Agnadello. Il rinnovamento urbanistico e la riorganizzazione amministrativa e fiscale. La ripresa dell’Università e del suo prestigio internazionale.

È il 14 maggio 1509: due eserciti si fron-teggiano sulla sponda sinistra dell’Adda, da una parte c’è il re di Francia, dall’altra i condottieri della Serenissima. Sappiamo come andò a finire e sappiamo anche che da allora, nel Veneto, nulla fu più come prima.

Passata la tempesta, dopo la pace di No-yon il governo marciano pose mano alla riorganizzazione di una terraferma de-vastata impoverita destrutturata nei suoi gangli amministrativi e fiscali. Furono no-minate magistrature straordinarie, si rin-novarono gli estimi. Soprattutto servivano soldi, denaro per pagare i debiti contratti con le truppe e assoldarne di nuove: dal 1526 al 1528, infatti, la Repubblica prese parte alla lega di Cognac che mosse guerra a Carlo V, una guerra culminata nel disa-stroso sacco di Roma.

Padova non fu toccata dagli eventi, ma – al pari delle altre province – si trovò gravata da nuove imposte statali: la tassa delle genti d’arme, istituita nell’estate del 1517 e poi, nel 1529, il sussidio, che su-bentrava ai saltuari prestiti forzosi impo-sti dal governo per far fronte a particolari circostanze. Caratteristica del sussidio fu quella di colpire la ricchezza, per cui esso variava da provincia a provincia: su un to-tale di 100.000 ducati, il Padovano venne chiamato a contribuirvi per 13.000 in un complesso di dodici province; inoltre, nel 1544 furono aggiunti tre soldi per lira a tutti i dazi, con un incremento del 15%.

L’inasprimento fiscale fu causato anche dall’opportunità di rinnovare la cinta mu-raria padovana, che risaliva all’epoca car-rarese, ma che le recenti vicende avevano

dimostrato non essere in grado di resiste-re all’aumentata potenza delle bocche da fuoco. Pertanto, una volta sopraggiunta la pace, si ripensò tutto il complesso della macchina difensiva: il castello carrarese venne utilizzato come deposito di artiglie-rie e di munizioni; quanto al circuito mura-rio, lungo più di sei miglia, gli venne data la struttura che ancor oggi sopravvive in parte, con sette porte, diciannove bastioni e fossato esterno. Essa fu realizzata quasi del tutto entro il 1521, con l’ultimazione delle porte di Santa Croce e Pontecorvo, benché i lavori al bastione Cornaro si pro-lungassero fino al 1556.

Le misure fiscali e militari furono solo due aspetti di un profondo rinnovamento del ruolo e dell’immagine stessa della Re-pubblica. Ridimensionata nel suo prestigio internazionale, non più in grado di compe-tere con le grandi monarchie occidentali, la Serenissima si trasforma da Stato impe-rialista a Stato moderato, saggio, virtuoso, rispettoso degli altrui diritti come garante dei propri. Nasce il “mito” della Repub-blica libera e pacifica, un mito elaborato a tavolino; donde l’istituzione di una pub-blica storiografia ufficiale (cui partecipò pure Bembo), il rinnovamento di Piazza San Marco, la fioritura artistica da Tiziano a Veronese a Tintoretto, dal nostro Bembo all’Aretino. La Serenissima rifiuta dunque la precedente politica aggressiva e ritira le sue truppe dal territorio per confinarle nelle fortezze; allora si costruiscono im-ponenti strutture difensive: alla metà del secolo avremo, oltre all’avamposto Ber-gamo, il potenziamento delle fortezze di Peschiera, Verona e Legnago, sulla linea

diGiuseppe Gullino

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La Padova di Bembo

Garda-Adige. E tuttavia, per uno strano scherzo del destino le splendide mura di Padova perderanno la loro ragion d’essere si può dire all’indomani della loro ultima-zione.

La guerra di Cambrai aveva comportato anche la chiusura dell’università per ben otto anni; fu solo nel 1517 che il Senato veneziano decise di riattivarla, sostituendo il precedente quadrumvirato cittadino che lo presiedeva con una nuova magistratu-ra, i cosiddetti Riformatori dello Studio di Padova. Doveva trattarsi di un organismo temporaneo, atto a rimettere in grado di operare l’antico ateneo; tuttavia il 22 set-tembre 1528 i Riformatori diventeranno magistratura permanente sino alla caduta della Repubblica. La loro sede era a Vene-zia, per cui l’università assunse il ruolo di organismo statale, perdendo i preesistenti legami con le istituzioni comunali pado-vane, ormai esautorate di ogni prerogativa nei confronti del Gymnasium.

La copertura di uno Stato impegnato – come si è visto – alla costruzione del “mito” di una repubblica colta e virtuo-sa, consentì allo Studio di recuperare alla svelta l’antico prestigio, e magari anche di superarlo, come dimostrano il collegio per dieci studenti di medicina istituito da Pietro d’Arquà nel 1523; la costruzione del palazzo del Bo, avviata nel 1545, per accelerare la concentrazione degli inse-

gnamenti in un’unica sede, e, nello stes-so anno, la fondazione dell’Orto botanico o dei semplici, essenziale per la ricerca scientifica e l’attività didattica nel campo farmaceutico. L’università conferì a Pa-dova un prestigio internazionale: il Bo è pieno di stemmi di docenti e studenti del nord Europa. V’era anche una presenza protestante? Certo, molti eterodossi italia-ni studiarono o insegnarono nella nostra città o intrattennero rapporti epistolari con amici e conoscenti qui dimoranti: tra essi possiamo ricordare Pier Paolo Vergerio, Lelio Sozzini, Pier Martire Vermigli e, più avanti, Bernardino Tomitano e Cesare Cremonini. Questa vivacità intellettuale è condivisa anche nel campo del cattolicesi-mo romano: dal 1532 al ’36 è documenta-ta la presenza di Reginald Pole, in contatto con i principali esponenti della cosiddetta “riforma cattolica”, quali Gasparo Conta-rini, Gian Giorgio Trissino, Gian Pietro Carafa, Lazzaro Bonamico e altri ancora.

La Padova cinquecentesca non ebbe un Palladio né una nobiltà forte come quella veronese, né una radicata struttura feudale come il Friuli: Padova era povera, ed era povera perché era contadina, lo era sem-pre di più col progressivo declinare delle attività artigianali, a cominciare dal lani-ficio. Nella relazione al Senato, presentata nel 1549 al termine del suo mandato come podestà di Padova, Bernardo Navagero

Arena di Padova con il palazzo Dalesmanini - Scrovegni - Foscari,

abitato per breve tempo dal Bembo.

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Giuseppe Gullino

alcuni anni dopo, dalla ristrutturazione del vicino complesso carrarese, culminato col rifacimento del ciclo di affreschi dedica-to agli eroi romani, oggi conosciuto come “Sala dei giganti”, al piano superiore di Palazzo Liviano; nel 1539, poi, iniziano i lavori di rinnovamento nel palazzo preto-rio, affidati ad Andrea Moroni: si tratta del maestoso edificio che ospita ancor oggi l’Amministrazione comunale.

Venezia dunque vuole marcare il tessu-to urbano e rendere più bella e “moderna” la città, anche nell’intento di stemperare in qualche modo il malanimo dei padovani verso la Dominante, che perdura manife-sto e irriducibile, nonostante i loro nobili avessero conservati intatti gli antichi pri-vilegi e il controllo non solo dell’ammi-nistrazione cittadina, ma anche dei sei vi-cariati della provincia: Anguillara, Arquà, Conselve, Mirano, Oriago, Teolo.

Ecco in proposito una testimonianza di-sinteressata: è di un sacerdote, il friulano Giovanni da San Foca, che nel marzo 1536 giunge a Padova al seguito dei patrizi Le-onardo Sanudo, Giovan Marco Molin e Francesco Salamon, incaricati dal Senato di visitare le province di terraferma per ri-ferirne la condizione: “Stessimo in Padoa giorni 15 […], ma certo da nissuno pa-doano mai fossimo accompagnati”. Uni-ca debole attenuazione di tanta ostentata indifferenza, l’ospitalità ricevuta in casa Obizzi, una famiglia che proprio non pote-va inimicarsi il governo della Repubblica, visto che di lì a poco un suo esponente,

forniva questo quadro: “… ritrovo che in tutto il territorio padovano sono campi circa ottocento mille, delli quali, fra mon-tagne, paludi, valli, boschi, prati, fossi et altri loci inculti, sono quasi la metà; di sor-te che le terre arative vengono ad essere circa quattrocento mille campi,”; dei quali 400.000 campi, i cittadini padovani (com-preso il clero) ne possedevano 214.500, i veneziani (clero e laici) 132.000, i rima-nenti 63.500 appartenevano alla popo-lazione rurale. Ne derivava una condi-zione di diffusa povertà nelle campagne, mentre a Padova, continua il Navagero, i gentiluomini “non hanno industria alcuna et reputano anche vergogna la mercantia; quanta industria hanno è a tenir li formenti su li granari più che ponno, et desiderar che quanti grani hanno di biave, tanti scu-di gli rendino; et all’incontro il popolo è tanto povero, che più non potria esser”1.

In tale contesto, non c’è da stupirsi se le iniziative edilizie provengono in buona parte dai patrizi veneziani, le cui capaci-tà finanziarie sono pressoché illimitate, quantomeno rispetto alla nobiltà locale (si pensi al palazzo Foscari all’Arena, che nel 1526 ospitava il Bembo2, o a quello dei Grimani in Prato della Valle o dei Corner a Santa Sofia), oppure dal governo, con la costruzione di sedi prestigiose per i suoi rappresentanti. Ecco allora il monumenta-le portale d’ingresso alla corte del capita-no, l’arco che collega l’attuale Piazza dei Signori con Piazza Capitaniato, opera del Falconetto terminata nel 1531 e seguita,

P. Damini, Scambio delle chiavi di Padova tra i rettori, 1885.

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La Padova di Bembo

secolo precedente, quando il lanificio, ali-mentato dalle greggi dell’Altopiano (non a caso facente parte, allora come oggi, della nostra diocesi), aveva rappresentato il vo-lano dell’economia urbana; donde la forte presenza di mercanti toscani, l’apertura dei banchi di Lorenzo e Cosimo de’ Me-dici e di Palla Strozzi e la concomitante fioritura artistica facente capo a Filippo Lippi, Donatello e Mantegna.

Invece la Padova di Bembo è una città provata dalla guerra, dagli assedi succe-dutisi fra il 1509 e il 1513 e dove ormai solo eccezionalmente i patrizi veneziani vengono ad addottorarsi; ma che tuttavia resta pur sempre – e tale rimarrà – il centro principale, l’interlocutore fondamentale della Dominante nello Stato da terra.

l

1) Relazioni dei rettori veneti in Terraferma. IV. Podestaria e capitanato di Padova, a cura dell’I-stituto di Storia Economica dell’Università di Trie-ste, Milano 1975, p. 23.

2) Il 23 ottobre Bembo scriveva al nipote Gian Matteo, a Venezia: ”Renderete infinite grazie, da parte mia, al cl.mo m. Marco Foscari della corte-sia che Sua Signoria m’ha usata nel concedermi la sua casa della Rena; della quale non son mai per dimenticarmi. Io nel vero credeva che ella fusse più capace che non l’ho, vedendola poi, trovata […]. Tuttavia starò qui fino a Pasqua, e in que-sto mezzo mi provederò di stanza con commodità mia”. (P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, II, Bologna 1990, p. 385). I Foscari avevano acqui-stato il complesso dell’Arena nel 1475 da Fran-cesco Trevisan, e l’avrebbero conservato sin ol-tre la caduta della Repubblica: G. Giovagnoli, Il palazzo dell’Arena e la cappella di Giotto (secc. XVI-XIX). Proprietari, prepositi, beni, Padova 2008, pp. 46-62. L’Amministrazione comunale padovana nel 1881 acquistò il complesso dalla fa-miglia Gradenigo del ramo rio Marin, alla quale era pervenuto in seguito al matrimonio (1808) di Marta Foscari con Bartolomeo I Vincenzo Gra-denigo. Effettuato l’acquisto, il Comune provvide alla demolizione del palazzo, che si riteneva con-tribuisse all’umidità della Cappella Scrovegni, ma il problema non venne risolto.

3) Per queste annotazioni padovane, si veda Bibl. Naz. Marciana di Venezia, Mss. Ital., cl. VI, cod. 209 (= 5433): G. da San Foca, Itinerario per la Terraferma veneta, cc. 4r-6v. Sull’inquadramento storico del viaggio, specie sotto il profilo artisti-co, rinvio a E. Svalduz, Il territorio veneto prima di Palladio. L’inedito viaggio di Giovanni da San Foca (1536), in Palladio 1508-2008. Il simposio del cinquecentenario, a cura di F. Barbieri et alii, Venezia 2008, pp. 274-278. Elena Svalduz sta cu-rando l’edizione critica del testo di cui sopra.

4) Per questi dati, rinvio a me stesso: L’Età mo-derna, in Storia di Padova dall’antichità all’età contemporanea, a cura di G. Gullino, Sommacam-pagna (VR) 2009, pp. 195-200.

Enea Pio, sarebbe divenuto “Collaterale generale”, ossia comandante delle truppe della Serenissima in tempo di pace3.

Ma, se facciamo due passi fuori del cen-tro, come ci appare Padova nella prima metà del secolo? Vediamo anzitutto una città d’acqua, certo non paragonabile a Venezia, ma comunque percorsa da fiumi e canali, per cui sono necessari quaranta-due ponti e due fraglie di barcaroli (a S. Giovanni delle Navi e al Portello) per assi-curarne la viabilità: insomma, moltiplicate per venti la riviera S. Benedetto e avrete la Padova cinquecentesca. Ci sono poi qua-si seimila case in muratura, con ventotto chiese parrocchiali, trentacinque monaste-ri, quattro “ospedali”, luoghi pii destinati a soccorrere non solo ammalati, ma anche poveri e questuanti. Le case, i palazzi pos-sono essere esteticamente apprezzabili, ma quasi mai ostentano ricchezza, non “stac-cano”, insomma, dal circostante tessuto urbano (poche le eccezioni, fra queste l’O-deo Cornaro); le strade sono strette e piut-tosto buie, anche per la presenza di portici, così numerosi da diventare una caratteri-stica di Padova. La popolazione si aggira sulle 30-35.000 anime; hanno il Santo, il Bo, l’Arena con la cappella degli Scrove-gni, Santa Giustina, un vescovato ricco ed esteso, così ricco che nel 1535 i suoi beni rendono seimila ducati netti all’anno4.

Eppure i padovani sono poveri: questa, almeno, la concorde testimonianza delle fonti.

Sarà infatti solo una battuta quella con cui Ruzante entra in scena nel Menego: “A muoro de fame”? Il “magnare”, l’os-sessivo rodìo del “magnare” è la costante di una vita, la sua e di tutta la popolazione contadina che rappresenta. Perciò Ruzan-te, simbolo della miseria dei braccianti rurali oppressi dal latifondo e dalla ge-rarchia degli intermediari a esso connessa (fittanzieri, fattori, gastaldi); Ruzante di-cevo, è, deve essere padovano, così come un Alvise Cornaro non potrebbe operare, che so?, a Treviso: i suoi densi umori di valorizzatore-sfruttatore della campagna non sarebbero consanguinei all’approccio morbido del Sile o delle terre alte della “Marca gioiosa”.

Questa la Padova che accolse Pietro Bembo: una città impoverita rispetto al

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Daria Perocco

Bembo, il mitodella corte e l’Amore

Ferrara, Asolo, Urbino descritti come luoghi ideali per un coltoe raffinato uomo del Rinascimento.

“Laisson la Bembo!” esclamava Michel de Montaigne. Smettiamo di ubbidire a Bembo, con le sue regole su come dob-biamo scrivere e su chi dobbiamo imitare, sembra voler esortare il grande scrittore francese. Non solo in Italia, ma in tutta l’Europa dove l’italiano era la lingua del-la cultura, bisognava seguire le direttive che Bembo aveva indicato e che la società letteraria del tempo aveva accettato. Tut-ta la notorietà e la reputazione di cui Pie-tro Bembo ha goduto in vita, l’aver detta-to delle norme che divennero regole per chi voleva scrivere in italiano “alto” non gli sono servite a mantenere nei secoli la fama che meritava, anzi. Bembo è stato un grande autore, ma soprattutto un ma-estro, un “regolatore” della lingua e della poesia italiana; ai nostri giorni, però, non è fra quelli più conosciuti, che lasciano un segno, una traccia, che si studiano sempre anche a scuola.

Quando Bembo vive ed opera siamo nel periodo splendido del Rinascimento, il periodo che vede, in Italia, la presen-za contemporanea dei più grandi artisti e dei più famosi letterati: gli uni e gli altri (nella assoluta maggioranza, praticamen-te tutti) vivono al seguito e allo stipendio dei vari Signori, all’interno di una Corte

Dobbiamo cercare di immaginare l’in-fluenza che il mondo delle corti aveva nel primo Rinascimento, il fascino con cui i grandi Signori del tempo colpivano ed impressionavano coloro che venivano in contatto con loro. Gli ambienti più ricer-

cati non si trovavano dove erano i grandi regni, o i grandi imperi: la raffinatezza, l’eleganza, l’amore per le arti raggiunge-vano il loro apice nelle piccole corti italia-ne e vedevano i loro maggiori rappresen-tanti nei signori che avevano non il titolo di re ma solo di duca e talvolta neppure quello. Il caso di Lorenzo il Magnifico, il Principe illuminato per eccellenza, gran-de protettore delle arti e delle lettere, ri-sulta esemplare.

Pietro Bembo, che era nato in una il-lustre famiglia veneziana, primogenito di Bernardo e di Elena Marcello, era sta-to abituato dal padre a frequentare quei luoghi pieni di cultura e di fascino (ma anche di intrighi e lotte), perché Bernar-do Bembo, uomo dalla forte personalità che copriva cariche di grande prestigio nel governo della Serenissima, aveva condotto con sé il figlio nelle ambascerie che gli erano state commissionate. Pietro era ancora un bambino quando Bernardo andò per la seconda volta ambasciatore a Firenze, dal luglio 1478 al maggio 1480: e lì, al di là degli stretti doveri di politi-co, Bernardo strinse rapporti personali ed amicali con i letterati ed umanisti fioren-tini. Il ricordo di Lorenzo il Magnifico (che morirà nel 1492) conosciuto in quel-la occasione, rimarrà impresso in Pietro: non solo il grande protettore delle arti ma anche il Lorenzo che, come autore, faceva conoscere a Bernardo le sue composizio-ni letterarie. I rapporti personali stretti da Bernardo con i Medici e con gli umanisti

diDaria Perocco

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Bembo, il mito della corte e l’Amore

incontrati a Firenze dureranno ben oltre il suo mandato politico: quando nel giugno del 1491, il Poliziano arriva a Venezia viene ospitato a casa Bembo. Qui colla-ziona un antico ed importante codice di Terenzio: e per compiere questa operazio-ne si fa aiutare dal giovane Pietro (che ha appena compiuto 21 anni): in un suo ap-punto annota la bravura del figlio del suo ospite nella partecipazione all’operazione filologica.

La passione per la cultura, per il mondo antico, in Pietro, è vivissima: poco tempo prima, sempre accompagnando il padre che vi era stato nominato ambasciatore, aveva visitato Roma conoscendo di per-sona il mondo classico e quello umani-stico e cristiano che vi erano felicemente mescolati ed era venuto in contatto anche con la corte papale. In questo periodo l’a-more per lo studio si era moltiplicato e sviluppato, con una «dedizione agli stu-di maggiore di quanto potesse attendersi dalla normale educazione di un patrizio veneziano». Avrebbe dovuto infatti in quel periodo iniziare la sua vita politica; invece ottiene dal padre di continuare la vita di studente e va a Messina dove rima-ne due anni a studiare il greco alla scuola di Costantino Lascaris. Tornato a Venezia nel 1494, l’anno terribile delle prime in-vasioni straniere in Italia, aveva con sé la grammatica greca scritta dal suo maestro, che affidò, perché fosse pubblicata, ad Aldo Manuzio, che era arrivato a Venezia ed aveva iniziato la sua attività per la qua-le diverrà il più importante editore del pe-riodo. Dopo un anno (1494-95) di studi di filosofia a Padova, Pietro raggiunge il pa-dre, che era vicedomino (rappresentante della Serenissima), a Ferrara, per il primo dei suoi periodi di dimora presso la corte estense. In quel preciso momento storico, i Veneziani non erano molto amati né dal popolo, né dal duca Ercole d’Este; ma Pietro si era dato allo studio e frequenta come letterato e amante delle arti la corte estense tanto che riesce a rimanerci anche quando il padre viene richiamato a Ve-nezia. Il fascino di quell’ambiente, degli studi che vi si praticavano, dei personag-gi che la frequentavano (aveva ripreso, sotto la guida di Niccolò Leoniceno, gli

studi filosofici che aveva iniziato a Pa-dova) gli facevano trascurare quella che sarebbe dovuta essere, data la sua nasci-ta, la sua carriera: quella politica. Ormai ventinovenne il padre cerca di farlo eleg-gere, a Venezia, in varie cariche, ma vie-ne sempre ignomignosamente battuto e respinto. Aveva, è vero, la stessa età che aveva Niccolò Machiavelli quando aveva cominciato la sua carriera politica, ma un giovane veneziano del suo rango avrebbe dovuto iniziare ben prima; e soprattut-to, a quanto pare, non dare a vedere che il suo interesse primario non era quello dello stato, bensì il mondo degli studi e della letteratura volgare non meno che di quella classica. Nel periodo ferrarese ed in quello seguente aveva iniziato a scri-vere un’opera che era in prosa ma anche conteneva rime, che sarà considerata un modello per la struttura a dialogo e che avrà un enorme successo durante tutto il Cinquecento: gli Asolani. È un’opera in volgare, che parla dell’Amore, dei diversi modi in cui si può presentare: i dialoganti sono giovani uomini e giovani donne, in un giardino, nelle ore di riposo durante i lunghi giorni di festeggiamento per un matrimonio.

Tornato a Venezia Bembo aveva incon-trato una donna, Maria Savorgnan, e l’a-more per lei, vedova, ma controllatissima

Gentile Bellini,Caterina Cornaro (Budapest,

Museo Nazionale).

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Daria Perocco

La prima edizione degli Asolani vide la luce a Venezia, per i tipi di Aldo Manuzio, nel 1505: prima di questa data, e dopo il lento finire dell’amore per Maria Savor-gnan, che si era da Venezia trasferita a Ferrara (dove il Bembo l’aveva raggiunta per rapidi e sempre più rari incontri) Pie-tro vivrà proprio a Ferrara alcune delle esperienze più significative ed importan-ti per la decisione di vita che pochi anni dopo sarà costretto a prendere e per la sua produzione letteraria. A Ferrara Bembo stringe amicizie letterariamente impor-tanti, la prima è quella con Ercole Strozzi (che diverrà uno dei personaggi che dialo-gano nelle Prose della volgar lingua), che gli concede di restare per tutto il tempo che desiderava in una sua villa, nelle vi-cinanze della città. Ma fa amicizia anche con l’Ariosto, con il Tebaldeo e soprattut-to con Jacopo Sadoleto, eccellente latini-sta che con lui sarà nominato, da Leone X da poco salito al soglio pontificio, “segre-

dal cognato per motivi economici, era am-piamente ricambiato e ci è rimasto, vivo, nelle lettere che i due si sono scambiati e che sono state edite negli anni cinquanta del Novecento da Carlo Dionisotti. Que-sto amore, in cui la figura di lei appare più bella e generosa di quella di lui, coincide con l’ultima fase di scrittura del colloquio degli Asolani, e lo ha influenzato. Bembo ha voluto situare questo discorso, il cui argomento è l’Amore (sempre e comun-que con la A maiuscola), l’amore felice, infelice e platonico all’interno di una cor-te ed ha scelto l’unica che era presente nel territorio della Repubblica Serenissima: quella di Caterina Cornaro. Un caso unico nella millenaria storia della repubblica di Venezia: Caterina, dopo diciassette anni di vedovanza e di regno a Cipro (pur sem-pre sotto il controllo veneziano), era stata costretta a rinunciare a quell’apparenza di dominio (il potere era tutto in mano ai delegati inviati dalla Serenissima), e a ri-tornare a Venezia: aveva avuto in cambio il dominio di Asolo ed il mantenimento di tutte le forme di apparenza esterna del potere. Qui, nel regno perfetto, proprio perché fisso ed immutabile, esattamente delineato fin nei suoi minimi contorni e particolari dalla Serenissima, ben attenta a non lasciare nulla di decisivo o impor-tante alla scelta dei singoli, in una realtà in cui tutti i giochi politici erano già stati fatti, Bembo ambienta il suo dialogo. Lo splendido giardino in cui i sei giovani protagonisti dialogano sull’amore è parte reale ed importante della idilliaca corte in cui tutti, felici, ubbidiscono a regole tan-to più intimamente sentite quanto meno scritte ed imposte, come quelle che rego-lano la vita di coloro che sono al seguito di Caterina Cornaro. Nell’ideale e cura-tissimo giardino del castello della corte di Asolo gli inganni e le trame del reale non entrano perché non ci troviamo in una au-tentica corte rinascimentale, luogo di po-litica e di sotterfugi e congiure: questa è invece una realtà in cui nulla può venire a sconvolgere il raffinato ritmo di vita della piccola corte; e Caterina è costante pre-senza (anche quando non compare fisica-mente) di quel luogo ideale e ne regola i ritmi con raffinata eleganza.

Pintoricchio, Lucrezia Borgia(Città del Vaticano,

Appartamento Borgia).

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Bembo, il mito della corte e l’Amore

talità: rimarrà ad Urbino sei anni. La cor-te, con il suo amore per la bellezza e la cultura risulta luogo ideale per il Bembo, che subito appare molto amato dai duchi, e questo per lui rimarrà un periodo ideale, almeno fino alla morte di Guidubaldo (11 maggio 1508) mentre non altrettanto caldi saranno i rapporti con il suo diversissimo erede, Francesco Maria Della Rovere.

Non solo il Bembo considera il periodo in cui ad Urbino dominavano Elisabetta e Guidubaldo un momento ideale: l’am-biente di Urbino diventa, nelle descrizioni di un libro celeberrimo, forse il più famo-so del Cinquecento, il Cortegiano di Bal-dassar Castiglione, il luogo di sogno, il luogo ideale, perfetto, dove la “cortesia” regnava sovrana e dove il cortigiano era il consigliere di un principe ideale, saggio: tale era il livello di civiltà e di eleganza della corte che poteva essere considera-ta reale e non utopistica l’esistenza del perfetto gentiluomo che i personaggi del dialogo Il Cortegiano contribuivano a delineare nei vari aspetti. In questo testo, Bembo compare come personaggio dialo-gante, e l’argomento di cui tratta è l’amo-re. Nel momento storico in cui il testo vie-ne immaginato dal Castiglione il Bembo era celebre e famoso come l’autore degli Asolani, che, ricordiamo, erano anch’essi

tario ai Brevi”. E da poco, nella assoluta-mente splendida corte estense, era entrata, come moglie di Alfonso d’Este, Lucrezia Borgia. Al di là di quanto poi il mito vorrà costruire sulla sua figura, bisogna ricor-dare che Lucrezia era donna bellissima, raffinata e che gareggiava in stile ed ele-ganza on la cognata, Isabella d’Este. Per Bembo questo «fu, corrisposto, il più am-bizioso e memorabile, ma rischioso anche e struggente amore della sua vita» (Dio-nisotti); ma già alla fine del 1503 Bembo doveva tornare a Venezia per la morte del fratello Carlo che, al suo posto, adempie-va ai doveri di patrizio veneziano. Nella prima edizione degli Asolani , però, alcu-ne copie portano una lettera di dedica a Lucrezia Borgia: non è chiaro perché solo alcuni esemplari, certo la figura della du-chessa di Ferrara deve aver lasciato su di lui un segno particolare.

Nell’aprile del 1505 segue ancora una volta il padre a Roma, dove rinnova i con-tatti con la curia papale. Sia nel viaggio di andata che in quello di ritorno si ferma ad Urbino, altra bellissima corte, retta da Elisabetta Gonzaga e Guidubaldo Della Rovere, che durante il loro esilio (cacciati da Cesare Borgia, il duca Valentino, fra-tello di Lucrezia) erano stati a Venezia. Nell’estate seguente accetta la loro ospi-

La corte di Asolo(scuola di Giorgione).

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Daria Perocco

tori da imitare volendo produrre poesia o prosa: Virgilio e Cicerone per il latino, Petrarca e Boccaccio per il volgare. La scelta, funzionale di seguire la carriera ecclesiastica non gli fa abbandonare l’i-deale dell’Amore che aveva perseguito negli Asolani, anche se a mano a mano, nella realtà, quelle corti sparivano sotto la violenza delle guerre che percorrevano l’Italia: ma la corte ideale che egli aveva creato e descritto, tanto da divenirne per-sonaggio illustre nell’opera che spiegava come doveva essere e comportarsi chi in quella corte voleva vivere, permane nelle pagine del Cortegiano, il testo più diffuso nell’Europa del Cinquecento. Fino all’ul-timo Bembo rielaborerà e correggerà i suoi testi “amorosi” (le virgolette sono d’obbligo) dimostrando con questa cura quanto teneva ad essi, che lascerà pronti per l’edizione postuma.

l

ambientati in una piccola, raffinata corte. Nei tempi tra l’ambientazione e la stesu-ra definitiva il Bembo era divenuto anche l’autore delle Prose della volgar lingua, l’opera sua più impegnativa, i cui conte-nuti diventano regole per la buona scrittu-ra, ma è un Bembo che celebra il potere della bellezza e dell’amore che conclude il Cortegiano.

Dopo il periodo trascorso ad Urbino Bembo passa a Roma: ha ormai preso la decisione di abbandonare il mondo po-litico veneziano (una decisione del tutto rivoluzionaria per un figlio primogenito e rimasto l’unico della famiglia) e di se-guire la carriera ecclesiastica per potersi dedicare totalmente agli studi. Bembo fu l’ultimo intellettuale che arrivò (ma ci arriverà in età avanzata) al cardinalato per meriti letterari: egli sarà l’arbitro che decise come si doveva scrivere in latino ed in italiano “alto”, quali erano gli au-

Lorenzo Costa, Il regno di Amore (corte di Isabella d’Este), 1506.

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Il soggiorno di Pietro Bembo a Villa Bozza

Il soggiorno di Pietro Bembo a Villa Bozza

Uno stretto rapporto univa Pietro Bembo alla propria villa di campagnasituata nei pressi di S. Maria di Non e spesso ricordata nei suoi scritti e nelle lettereinviate ai suoi illustri corrispondenti.

La caduta della signoria padovana nel 1405, spazzata via dal ruggente leone marciano, consentì alle avanguardie del patriziato veneziano di calare massiccia-mente nella terraferma per impossessarsi dei vasti latifondi confiscati ai principi carraresi. Dopo secoli d’ostracismo e di attività legate esclusivamente alla marine-ria e ai commerci, la Repubblica guardava con rinnovata fiducia al suo entroterra, sia per la necessità di tesaurizzare le sempre più aleatorie rendite mercantili, sia per creare un cordone di difesa della laguna. Per evitare l’abbandono delle vaste e fer-tili campagne padovane demaniate, il Se-nato veneziano, con parte del 17 marzo 1406, deliberò la vendita all’incanto dei beni appartenuti ai carraresi. Così, il 19 agosto 1406, Bernardo Bembo, figlio di un ex provveditore dell’esercito vene-to durante la guerra anticarrarese, riuscì ad aggiudicarsi la gastaldia di Arsego, con il pascolo e le decime di S. Maria di Non, Tessara e Villa Bozza, al prezzo di 20000 lire piccole pagabili in dieci anni. In larga parte si trattava di terreni agri-coli e boschivi compresi tra Arsego, S. Maria di Non e il Brenta, situati sulla de-stra idraulica del Piovego, corso d’acqua che dipartendosi dalla Tergola a Villa del Conte confluisce nel Brenta a Tavo. Nel 1412 il Senato veneto accordò ai Bembo la concessione di un mutuo sotto forma di grazia, un’agevolazione elargita ai nobili veneziani in morosità che nascondeva in realtà un disegno politico più ampio, mi-rante al consolidamento dell’espansione nella terraferma padovana e al graduale trasferimento strategico del baricentro economico1.

Le prime ristrutturazioni eseguite dai nuovi proprietari all’ex gastaldia carrare-se di Arsego si concretizzarono nel 1447 per opera di Niccolò Bembo, figlio di Ber-nardo, che provvide alla ricostruzione del mulino dotandolo di tre ruote, alle quali se ne aggiunse una quarta a inizio Cinque-cento2. A breve distanza dal mulino venne eretta intorno al 1480 anche la casa per la villeggiatura estiva, come ammetteva l’illustre umanista Pietro Bembo in una lettera del 1530 al podestà di Cittadella, nella quale dichiarava di possedere “un cortile e casa da contadino in Santa Ma-ria di Non, fatto dalla buona memoria di mio padre già più di cinquant’anni passa-ti...”3. Tale abitazione, dunque, fu costru-ita per espressa volontà del padre Bernar-do (1433-1519), al quale Pietro successe in qualità di unico erede, essendogli pre-morto l’amato fratello Carlo (1503) ed escluso dall’asse ereditario il fratellastro illegittimo Bartolomeo (morto nel 1526). La consistenza patrimoniale dell’ereditata tenuta di Villa Bozza comprendeva “soto la regola de Santa Maria de Non, una casa da statio con broli et horto de campi 7 in circha, con campi 30 in circha arativi et prativi”, come dichiarava il fratellastro Bartolomeo nella denuncia presentata il 15 marzo 1520 per conto dello stesso Pie-tro4.

La scarsa documentazione ha reso fino-ra ardua l’impresa di localizzare l’esatta ubicazione della villa, che secondo Re-nato Martinello doveva sorgere nell’area dell’attuale mulino Agugiaro, ipotesi ali-mentata dal ritrovamento nelle vicinan-ze dell’edificio di due bassorilievi, ora murati nel capitello ai piedi del ponte sul

diFranco

De Checchi

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Franco De Checchi

Piovego, raffiguranti un uomo barbuto in abito vescovile e una Madonna con bam-bino recante in basso lo stemma dei Bem-bo5. Tale opinione sembrerebbe rafforzata dal confronto tra la descrizione delle pas-seggiate bembiane nel proprio boschetto “a capo dell’orto” e le mappe ottocente-sche del catasto austriaco, che nell’area dell’attuale mulino mostrano la presenza di una casa colonica prospiciente al Pio-vego, preceduta da un elegante androne d’accesso e dal vasto orto, all’estremità del quale era posto un piccolo bosco ce-duo che costeggiava la strada per Curtaro-lo6. Tuttavia, nuovi elementi emersi dalla comparazione di altri scritti bembiani con la corografia locale, ma soprattutto l’ana-lisi di due pregevoli cartografie fluviali cinquecentesche, attestano con assoluta certezza che la casa del Bembo era ubi-cata in altro sito leggermente più a valle. In una lettera del 6 maggio 1525, Pietro Bembo, parlando delle sue escursioni in barca per “un vago fiumicello (il Piove-go) che dinanzi alla mia casa corre di continuo, e poi per la Brenta, in cui dopo un brevissimo corso questo fiumicello entra, e la quale è bello e allegrissimo fiume, e ancora essa da un’altra parte i miei campi bagna...”, forniva alcune in-teressanti coordinate per individuare l’a-rea dove sorgeva la villa, che si trovava inequivocabilmente sulla destra idraulica del Piovego, sia perché sul lato opposto la strada arginale non permetteva di ca-lare imbarcazioni direttamente sul fiume, sia perché egli stesso dichiarava che le proprie terre erano cinte ad occidente dal corso del Brenta. Il dilemma riguardante la precisa ubicazione della villa viene, in-vece, definitivamente sciolto osservando una cartografia d’ignoto autore (Angelo dal Cortivo?), redatta intorno al 1539 in

occasione dei lavori di manutenzione sul fondo della Tergola. Tale disegno raffigu-ra il corso del Piovego dalla diramazione di Villa del Conte fino a Villa Bozza ed evidenzia sulla destra idraulica del fiume, leggermente a valle dei mulini, il prospet-to principale di casa Bembo, che presenta una facciata tripartita da un portale cen-trale, con coppie di finestre ai due lati e abbaino posto al centro dei due spioventi del tetto7. Prestando fede all’attendibili-tà del disegno, peraltro sufficientemente preciso, saremmo di fronte a un edificio rurale con pianta e forometria tipicamen-te quattrocentesche, la cui forma presenta numerose analogie costruttive con la co-eva villa Corner-Foscari, a Cambroso di Codevigo, appartenuta ad Alvise Cornaro, amico e corrispondente di Pietro Bembo. Una localizzazione ancora più precisa del complesso bembiano emerge da un dise-gno redatto dall’ingegnere e proto Gero-lamo Gallo il 26 agosto 1595 in occasione di alcune misurazioni sui fiumi dell’alta padovana, il quale evidenzia lungo il corso del Piovego, all’altezza del ponte di Villa Bozza, il mulino a quattro ruote degli “eredi del cardinal Bembo”, lambito dalla strada per Curtarolo che, piegando verso sud, conduceva nell’ampio cortile del complesso8. L’abitazione dei Bembo (passata dal 1545 ai Gradenigo), raffigu-rata in posizione leggermente arretrata rispetto al fiume, appare situata qualche decina di metri più a valle del mulino e af-fiancata da un lungo fabbricato perpendi-colare al Piovego che ospitava le scuderie e la stalla. Dopo la caduta della Serenis-sima (1797) la villa seguì probabilmente il triste destino di molte dimore patrizie di campagna, abbandonata all’incuria da-gli ultimi eredi Gradenigo e demolita nei primi anni dell’Ottocento, quando tutti gli

Particolare di un disegno redatto intorno al 1539 (Angelo Dal

Cortivo?) che raffigura il tratto terminale del Piovego di Villa

Bozza, a S. Maria di Non; si notano, in destra idraulica, la

presenza del mulino a quattro ruote e la villa di campagna di

Pietro Bembo.

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Il soggiorno di Pietro Bembo a Villa Bozza

In molteplici occasioni le lettere bem-biane contengono riferimenti alla villa, ai mulini e al paesaggio di Villa Bozza. Il primo cenno epistolare di Pietro Bembo alla propria villa è contenuto nella lettera del 4 aprile 1492 al suo precettore Gio-vanni Alessandro Ortica, nella quale men-zionava la piccola biblioteca di Noniano, mentre altri interessanti riferimenti d’età giovanile sono presenti nella sua opera prima “De Aetna” (1495), dove glorifica-va la dolce accoglienza di quest’angolo di campagna padovana. La casa di Villa Bozza non fu solamente il rifugio predilet-to per la villeggiatura, ma più volte ospitò l’umanista durante i periodi di convale-scenza: già nel 1504 scriveva alla poetessa bresciana Veronica Gambara di essere “da dieci giorni in villa per un cagionevole sconcio”9, mentre nel 1524 comunicava all’amico Giovanni Matteo Giberti di non potersi muovere dalla villa per “una indi-sposizione catarrale, di sì mala qualità che io non ebbi mai in tutto ‘l tempo della mia vita peggiore”10. Una grave malattia renale lo aveva invece colpito e fortemen-te debilitato nell’aprile 1519, quando do-vette rapidamente abbandonare Roma per rifugiarsi nella sua Noniano, dove poté ri-stabilirsi “non con bagni, ché non vi sono stato, né con medicine, ché nessuna ne ho presa da alcune poche pillole in fuori, né con altro che con buona guardia e col giovamento di questo aere patrio mio, che ora di quella mala qualità delle reni, che così lungamente mi tormentò, pochissima noia sento...”11.

Il pensiero costante verso la casa di

immobili furono acquisiti dai Foscarini-Garzoni.

L’ospite (e proprietario) più illustre della casa di Villa Bozza fu Pietro Bembo, per-sonaggio dalle rare virtù letterarie e figura di riferimento negli ambienti culturali cin-quecenteschi, grazie al nuovo impulso che seppe infondere agli studi petrarcheschi e alla nobile propaganda condotta in favore del volgare, nel tentativo di promuovere una nuova letteratura in lingua propria-mente italiana. Fin dall’adolescenza Pietro Bembo adorava rifugiarsi nel suo “dolce Noniano” – come amava definire la villa paterna di S. Maria di Non – sia per lo stu-dio e la vita contemplativa, sia per la tran-quillità della campagna e la lontananza dai clamori cittadini. La permanenza di Pietro a Villa Bozza, tuttavia, fu breve e saltuaria sino al 1520, essendo impegnato altrove negli studi, nei viaggi e nell’intenso im-pegno presso i palazzi vaticani, mentre nel periodo 1525-30, privo d’incarichi ufficia-li, poté dedicarsi ai suoi fecondi ozi lettera-ri prolungando la sua presenza in villa dai primi tepori primaverili all’autunno inol-trato. I soggiorni bembiani a Villa Bozza trovano puntuale documentazione nella sua ponderosa raccolta epistolare (oltre 2500 lettere) che si sviluppa lungo un arco temporale di oltre mezzo secolo (1492-1546), e in particolare nelle 241 missive inviate dalla propria residenza rurale a vari corrispondenti, tra i quali figuravano umanisti, principi, papi, cardinali, uomini di curia, funzionari dello Stato, ma anche collaboratori (procuratori, segretari, amici) e familiari (figli, fratelli, nipoti).

Particolare del disegno eseguito nel 1595 da Girolamo Gallo

con dettaglio del complesso bembiano, passato come bene

dotale ai Gradenigo; si scorgono i mulini, la casa e le scuderie, posti all’interno dell’ansa descritta dal

tratto iniziale della strada Villa Bozza - Curtarolo.

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Franco De Checchi

In più occasioni il Bembo si rivelò an-che agronomo attento e competente e, nonostante egli si proclamasse “un sem-plice villanello di questo contado”, era in realtà un agricoltore erudito i cui interessi spaziavano dalla botanica alla medicina. Nella lettera inviata il 28 ottobre 1528 all’amico Flavio Crisolino, ospite poco tempo prima in villa, dimostrava tutta la sua esperienza in materia naturalistica: “Io domane mi ritornerò in villa a pian-tare, e spezialmente a rimettere il mio boschetto, che ha quest’anno per lo infi-nito caldo della state alquanti castagni e quercioli perduti. Le vostre edere hanno coperto un bello e grande padiglione che io feci loro. Ho ancora rimesso ad edera tutto il picciolo pergolato, ch’é alla fine del giardino, fatti prima di larici bene ed ordinatamente posti e incamerati, che in due o tre anni stimo verrà bellissimo”13.

Pur vivendo beatamente nella “solitu-dine villereccia” il Bembo amava circon-darsi di amici, invitandoli spesso a condi-videre con lui le gioie della campagna e trasformando la sua casa in un cenacolo letterario, senza contare i numerosi corri-spondenti che si rivolgevano a lui per via epistolare inviando sonetti e rime, ai quali Pietro dedicava scrupolose cure dispen-sando utili consigli e apportando corre-zioni minuziose e varianti sempre apprez-zate. Gli ozi letterari del Bembo erano in realtà periodi piuttosto fecondi della sua

Villa Bozza è il denominatore comune di molte lettere bembiane, dalle quali emer-ge chiaramente lo stretto legame che uni-va Pietro a quei luoghi ameni dove pote-va ritemprarsi e ricaricarsi d’energie nei periodi di villeggiatura, di convalescenza e di studio. Particolarmente significativa, a tale riguardo, è la testimonianza scritta di suo pugno nella lettera del 6 maggio 1525 ad Agostino Foglietta, nella quale offre un interessante spaccato della sua permanenza in villa, di sapore tipicamen-te rinascimentale e vagamente arcadico, affermando di non sentire altri rumori “se non quelli che mi fanno alquanti lusigno-li d’ogni intorno gareggiando tra loro, e molti altri uccelli, i quali tutti pare che s’ingegnino di piacermi con la loro na-turale armonia. Leggo, scrivo quanto vo-glio, cavalco, cammino, passeggio molto spesso per entro un boschetto che io ho a capo dell’orto. Del quale orto, assai piacevole e bello, talora colgo di mano mia la vivanda delle prime tavole per la sera, e talora un canestruccio di frago-le la mattina, le quali poscia m’odorano non solamente in bocca, ma ancora tutta la mensa. Taccio che l’orto, e la casa, e ogni cosa tutto ‘l giorno di rose è pieno... In questa guisa spero di far qui tutta la state e tutto l’autunno, tale volta tra que-sto tempo a Padova ritornandomi a vede-re gli amici per due o tre dì, acciò che, per comparazione della città, la villa mi par più graziosa”12.

La villa del Bembo a Padova.Da un’incisione delle Opere,

Venezia, 1729.

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Il soggiorno di Pietro Bembo a Villa Bozza

le acque sono meno che comuni, hanno acqua abundevolmente et cominciano a far fatti”16.

Il trasferimento a Roma di Pietro nel 1539 sancì anche il suo definitivo allon-tanamento dalle proprietà di Villa Bozza, alle quali rimase vicino solo idealmente serbandone il dolce ricordo; egli, infatti, non perderà occasione di rallegrarsi e ma-nifestare una punta d’invidia nei confronti dei figli Torquato ed Elena per i soggior-ni estivi in villa in compagnia del fedele Cola17. Alla fine del settembre 1541 tro-viamo ancora il buon Cola, accompagna-to dai fanciulli e dalla domestica Lucia, intrattenersi a Villa Bozza in occasione della vendemmia18, ma il quadretto idil-liaco era destinato a spezzarsi nel mag-gio successivo quando il fido segretario morì dopo una breve malattia, lasciando

produzione, specie gli anni precedenti il 1525, quando nella pace della villa poté lavorare alla stesura e al perfezionamento delle “Prose della volgar lingua”, che de-dicò e donò in copia autografa a papa Cle-mente VII (1524), nella speranza di muo-vere un passo decisivo verso la promozio-ne al cardinalato, ma ottenendo soltanto il beneficio di un canonicato a Padova14.

Per un ventennio Pietro si divise tra la quiete della villa e la vita operosa e misu-rata di Padova, che lo assorbivano pres-soché interamente: brevi e rare erano le sue apparizioni a Venezia. Non bisogna tuttavia credere che nella tranquilla soli-tudine della villa egli vivesse segregato anche spiritualmente dal mondo esterno. Pochi ebbero, come il Bembo, tanta tena-cia nelle amicizie e nelle relazioni perso-nali, tanto viva e grata la testimonianza del passato: non trascorreva giorno ch’e-gli non s’intrattenesse con qualcuno de-gli innumerevoli conoscenti e amici che s’era procacciato nelle corti italiane. Nel 1528, tuttavia, durante la calata lanziche-necca che portò con sé un’epidemia di peste, il Bembo non esitò a isolarsi nella sua villetta di campagna, luogo appartato e sicuro nel quale scampare il pericolo di contagio e “ben guardarmi e levarmi din-torno ogni cagion di travaglio con altri, che co’ miei”, come confidava all’amico Alvise Cornaro nel luglio 152815.

Il 30 luglio 1538, pochi mesi prima di giungere a Roma per vestire la porpora, Pietro ebbe modo d’occuparsi un’ultima volta personalmente del suo Noniano intentando una causa contro i Loredan, responsabili di aver dirottato verso i pro-pri mulini, con artifici idraulici a monte, buona parte dell’acqua del Piovego, com-promettendo il funzionamento delle ruote di Villa Bozza. Interrogati i testimoni ed effettuati i sopralluoghi, nell’aprile 1541 fu emesso un primo giudizio sfavorevo-le al Bembo, ma il successivo arbitrato di cinque periti di parte ribaltò la sentenza e convinse il podestà a riconoscere le ra-gioni dell’accusante, ordinando per il suc-cessivo 30 ottobre il ripristino della con-dizioni originarie. Pochi giorni dopo, di ritorno da Villa Bozza, il fedele segretario Cola Bruno poteva entusiasticamente in-formare il cardinale che i mulini “ora che

Il Piovego di Villabozza nei pressi di Santa Maria di Non. Oggi, come all’epoca del Bembo, il Piovego scorre in aperta

campagna incassato tra ripide sponde e cinto da una rigogliosa

vegetazione.

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Franco De Checchi

Il mulino di Villa Bozza, seicento anni di attività da Bembo ad Agugiaro, Villa del Conte 1999. Per maggiori dettagli sulla permanenza del Bembo a Villa Bozza, cfr. F. De Checchi, Il soggiorno di Pietro Bembo a Villa Bozza, in “Alta Padovana. Storia, cultura, società”, n. 6, dicembre 2005, pp. 30-49.

3) P. Bembo, Lettere, Bologna 1987-1993, vol. III, pp. 189-190, lettera del 9 ottobre 1530 a Paolo Zorzi.

4) V. Cian, Un decennio della vita di Pietro Bembo (1521-31), Torino 1885, p. 204.

5) R. Martinello, Curtarolo, storia e immagini di un territorio e dei suoi abitanti, Padova 1990, pp. 162-163. L’uomo barbuto effigiato sul basso-rilievo di Villa Bozza potrebbe identificarsi con la figura di Pietro Bembo, vagamente somigliante alle sue tradizionali raffigurazioni iconografiche. Sull’originalità dei due bassorilievi, invece, Caon e Grandesso avanzano seri dubbi, sostenendo trattarsi di copie eseguite durante la prima guerra mondiale in sostituzione degli originali trafugati da villa Pugnalin ad Arsego (cfr. B. Caon – R. Grandesso, Arsego, l’Oltrarsego e Cavino nel 250° anniversario dell’istituzione della fiera, Vil-la del Conte 1997, pp. 48-51).

6) A.S. Pd, Catasto austriaco, Curtarolo, map-pa n. 62, foglio XVIII; Censo provvisorio, serie I/c (1810-1850), bb. 115-116 Villa Bozza; Censo provvisorio, serie II, b. 55 sommarione Curtarolo (1810-1830); Censo stabile, serie I (1846-1904), bb. 262-266 Curtarolo.

7) Ibid., Archivio Civico Antico, Territorio, b. 72, t. 306, Spese del cavamento della Tergola con nota delli membri che contribuiscono.

8) Ibid., Miscellanea disegni, rotolo n. 7, Dise-gno de parte degli alvei della Vandura, Tergola, Tergolino, Piovega et Brenta.

9) P. Bembo, Lettere, cit., vol. I, pp. 179-180, lettera del 11 settembre 1504 a Veronica Gambara.

10) Ibid., vol. II, pp. 218-219, lettera del 26 agosto 1524 a Giovanni Matteo Giberti.

11) Ibid., pp. 134-135, lettera del 1 ottobre 1519 a Bernardo Bibbiena.

12) Ibid., pp. 245-246, lettera del 6 maggio 1525 ad Agostino Foglietta.

13) Ibid., pp. 548-549, lettera del 28 ottobre 1528 a Flavio Crisolino.

14) Ibid., pp. 255-256, lettera del 24 maggio 1525 a Jacopo Sadoleto.

15) Ibid., p. 530, lettera del 4 luglio 1528 ad Alvise Cornaro. Un paio di mesi più tardi (11 set-tembre 1528), alla vigilia del trasferimento a Villa Bozza, confidava a Giovanni Francesco Bini: “io mi ritornerò domani nella mia villetta, non solo per mia usanza, ma ancora perché questa città che tutta questa state è stata molestata dal morbo ancora non è libera” (ibid., pp. 536-537).

16) V. Cian, Un medaglione del Rinascimento. Cola Bruno messinese e le sue relazioni con Pie-tro Bembo, Firenze 1901, p. 101; lettere di Cola Bruno a Pietro Bembo del 2 e 9 novembre 1541.

17) P. Bembo, Lettere, cit., vol. IV, p. 365, 376-377, lettere del 3 agosto e 10 settembre 1541 a Cola Bruno.

18) V. Cian, Un medaglione..., cit., pp. 99-100; lettere di Cola Bruno a Pietro Bembo del 8 e 29 settembre 1541.

19) P. Bembo, Lettere, cit., vol. IV, pp. 539-540, lettera del 17 settembre 1545 a Pietro Gradenigo.

20) Ibid., p. 590, lettera del 16 ottobre 1546 a Giovanni Matteo Bembo.

un vuoto incolmabile nella vita e nell’ani-mo dell’ormai vecchio porporato. Ciò che preoccupava maggiormente il Bembo era l’educazione dei due figli ancora giovani: Torquato, dedito agli svaghi e poco dili-gente nello studio, dava i maggiori crucci al padre, che giunse al punto di minaccia-re di diseredarlo, mentre la piccola Elena, che somigliava tanto alla madre per bel-lezza e soavità, lo gratificava di maggiori soddisfazioni. Elena, dopo aver trascorso l’adolescenza ospite del monastero pa-dovano di S. Pietro, fu concessa in sposa nell’ottobre 1543 a Pietro Gradenigo, gio-vane rampollo di una famiglia veneziana di antica nobiltà, al quale portò in dote (7 ottobre 1543) la casa padovana e la resi-denza di Villa Bozza con gli annessi muli-ni. La trasmissione dei beni si perfezionò, tuttavia, solamente nel settembre 1545, quando il Bembo poté consegnare al ge-nero tutta la documentazione relativa ai mulini, alle terre e all’abitazione, dispia-cendosi per le “noie e i dispendi avuti nel racconciamento dei mulini, molto mag-giori di quello che io arei per me estima-to”19. La nostalgia per la sua villetta si ria-cutizzava puntualmente ad ogni autunno, tanto che l’anno successivo, a pochi mesi dalla morte, Pietro rivolgeva un definiti-vo commiato a Villa Bozza, ricordandone con gioia malinconica i profumi e i sapori del tempo della vendemmia e serbando nel cuore il desiderio d’essere là ancora una volta per assaporarli in compagnia della figlia, del genero e dei nipoti Pao-lino e Alvisetto20. Il pensiero ai familiari, il ricordo della villetta che si specchiava nell’acque del Piovego, il rumore stridulo delle macine, il canto soave degli usignoli e la pace dell’ubertosa campagna padova-na, furono forse le ultime immagini che apparvero confusamente a Pietro Bembo prima che il sipario sulla sua vita avventu-rosa calasse definitivamente il 18 gennaio 1547.

l

1) V. Lazzarini, Beni carraresi e proprietari ve-neziani, Venezia 1949.

2) Per una dettagliata panoramica sulle vicende del mulino di Villa Bozza, cfr. Renato Martinello,

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Pietro Bembo e l’aristotelismo padovano

Pietro Bemboe l’aristotelismopadovano

Umanesimo e filosofia nello Studio alla fine del Quattrocento:la presenza decisiva di Nicoletto Vernia.

Carlo Dionisotti – dopo Vittorio Cian, il maggiore studioso di Pietro Bembo (1470-1547) – ha osservato che la voca-zione dell’autore degli Asolani e delle Prose della volgar lingua «non era né fi-losofica né religiosa. Alle dottrine che gli venivano offerte dall’aristotelismo pado-vano e dal neoplatonismo fiorentino egli chiedeva una giustificazione intellettuale e morale del suo ozio letterario, ozio di un uomo ormai sui trent’anni, nella pienezza della vita».1

La giusta osservazione merita forse di essere completata, non tanto rispetto al rapporto di Bembo con la filosofia in ge-nerale, quanto piuttosto circa l’effettiva condizione degli studi filosofici a Padova, quando il giovane letterato li conobbe. Concluso il soggiorno di due anni a Mes-sina, dove si era recato per apprendere la lingua greca alla scuola di Costantino Lascaris, Bembo era ritornato a Venezia e da qui aveva raggiunto Padova spinto dal desiderio di avvicinarsi alla filosofia: lo aveva accompagnato dalla Sicilia l’a-mico Angelo Gabriele, cui si unirà quasi subito Cola Bruno, giovanetto messinese rimasto poi vicino al Bembo per il resto della vita.2 Dopo Padova, dove risiede per un anno (1494-95), Bembo si reca a Fer-rara, la città delle donne e dei cavalieri; qui, allievo di Nicolò Leoniceno, medico e filosofo ellenista, è probabile – osser-va il Dionisotti – che ancora perseguisse quell’indirizzo, filosofico e umanistico in-sieme, rappresentato in quegli anni dalla monumentale edizione delle opere di Ari-stotele, che Aldo Manuzio aveva dedica-

to ad Alberto Pio, amico del Bembo alla corte estense.3

In realtà, nella Venezia degli ultimi vent’anni del Quattrocento, Bembo s’era potuto educare alle esperienze dell’uma-nesimo veneziano e di quello fiorentino, la cui trama negli ultimi anni del sec. XV s’ispira alla lezione di Petrarca, letterato e filologo. In questo modo, i modelli dell’e-loquenza e della critica del testo vengono applicati, oltre che agli scrittori greci e latini, all’edizione, traduzione e interpre-tazione dei testi della tradizione filosofica e scientifica, che a Padova si rinnova – al-meno a partire dagli anni sessanta del XV sec. – nella quantità e qualità delle fon-ti classiche.4 È questo il vero motore di quello che è stato indicato come il “rinno-vamento del cursus studiorum patavino” nelle scienze e nella filosofia, oltre che nelle humanae litterae, cioè il ritorno fi-lologicamente fondato ai classici greci e latini nei campi della letteratura e delle scienze, dalla filosofia alla medicina, di cui, si afferma, Bembo fu protagonista.5

Varrà forse la pena di ricondurre alle giuste proporzioni i meriti di Pietro Bem-bo a questo riguardo, ponderando i diversi fattori che concorsero a formare il quadro culturale in questione. Sarà opportuno pertanto assegnare a ciascuno dei lette-rati, umanisti e professori universitari di diritto, filosofia e medicina, che interven-nero in quel processo storico, il ruolo e l’importanza che effettivamente ebbero. In questo senso, non va dimenticato che proprio all’inizio degli anni Novanta – prima che il Bembo si affacciasse all’am-

diGiulio F. Pagallo

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Giulio F. Pagallo

biente filosofico di Padova – intellettuali della statura di Poliziano, Pico della Mi-randola, Ermolao Barbaro, «riprendendo e sviluppando gli entusiasmi veneziani degli anni Ottanta», puntano sull’opera di Aristotele e i suoi commentatori, da Sim-plicio a Tommaso d’Aquino.6 Sono questi alcuni degli autori la cui scoperta o ‘rilet-tura’ contribuisce a rinnovare il panorama della filosofia universitaria a Padova, la quale, uscendo dallo Studio, diventa argo-mento di discussione fra filologi ed edito-ri di testi, per ritornare dai circoli letterari alle aule universitarie irrobustita da nuova linfa e da più vivaci interessi.

Si può dunque affermare che quando, a metà degli anni ’90 del Quattrocento, il Bembo ventiquattrenne ha il suo primo e forse unico contatto diretto con lo Studio padovano, l’insegnamento della filoso-fia che vi si pratica sta attraversando una felice stagione di rinnovamento, grazie all’impegno di un manipolo straordinario di studiosi, veneziani e fiorentini, di una generazione più anziani del nostro lettera-to, destinato a diventare famoso. Malau-guratamente tale impresa conoscerà pre-sto una lunga battuta d’arresto, sia per la morte dei suoi principali protagonisti, sia a causa degli eventi politici e bellici, che, tra la fine del Quattrocento e i primi anni del ’500, si abbatteranno sull’Italia, prima con la discesa di Carlo VIII, re di Francia (1494-95); poi, con la guerra della Lega di Cambrai che, dopo Agnadello (1509), colpisce drammaticamente Venezia.

Non è facile dire quali insegnamenti pubblici o privati di filosofia e di diritto abbia ricevuto il Bembo durante il suo soggiorno a Padova; o con quali libri si sia rifugiato nel ritiro di Villa Bozza, det-ta Nonianum, proprietà della famiglia nel Padovano, dove, dopo la morte del padre (1519), sarebbe ritornato cinquantenne, ammalato, stanco e tormentato dalla deci-sione presa di professare i voti religiosi e dedicarsi alla carriera ecclesiastica.7

Due sono i motivi che impediscono di appurare l’autentico spessore degli studi filosofici di Bembo: da un lato, la docu-mentazione troppo generica di cui dispo-niamo su quest’aspetto della sua biogra-fia intellettuale; dall’altro, l’evoluzione della filosofia nello Studio di Padova alla

fine del ’400. Già da tempo, infatti, essa aveva preso le distanze nei confronti del metodo e dei temi della logica e della fisica che Paolo Veneto (1368 ca.-1429), il grande professore udinese, aveva in un certo modo istituzionalizzato nelle sue lezioni; come pure dall’impostazione no-minalistica che Biagio Pelacani, nelle due occasioni in cui insegnò nello Studio pa-dovano (1384-1388, 1407-1411), aveva dato all’insegnamento della filosofia na-turale, impostazione conservata in massi-ma parte dal suo successore Gaetano da Thiene (1387-1465). Pertanto, se si vuole congetturare sul rapporto di Pietro Bembo con la filosofia, specie con quella a quei tempi in voga a Padova, non rimane che tenere conto delle circostanze culturali in cui l’incontro avvenne, partendo dai pro-fili intellettuali di coloro che certamen-te influirono sulla prima formazione del giovane patrizio. É da credere infatti che sia stato l’esempio di uomini della gene-razione intermedia fra quella del padre e la sua, quali Ermolao Barbaro e Girolamo Donato, a suscitare nel giovane Bembo la vocazione degli studi umanistici.8

Fra l’altro, gli anni del soggiorno di Bembo a Padova e Ferrara appartengono

Raffaello, Il CardinaleIppolito d’Este, già ritenuto ritratto

di Pietro Bembo(Budapest, Museo di Belle Arti).

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Pietro Bembo e l’aristotelismo padovano

quest’ultimo caso sull’appoggio del card. Domenico Grimani.9

Ebbene, si dà il caso che le tre ‘guide’ che assistono il Bembo nella sua prima formazione – Angelo Ambrogini detto il Poliziano, Ermolao Barbaro e Giovan-ni Pico della Mirandola, esponenti fra i maggiori della filologia umanistica e del neoplatonismo rinascimentale – ebbero rapporti di amicizia o di scuola con il Ver-nia, com’è il caso di Pico e come sarà per Pietro Pomponazzi e Agostino Nifo. Il fi-losofo di Chieti è, in effetti, il promotore principale dei mutamenti, che in due mo-menti successivi, fra il 1465 e la fine del secolo, modificano profondamente l’o-rientamento dell’aristotelismo insegnato a Padova.

Nominato professore straordinario di fi-losofia a Padova nel 1465, due anni dopo Vernia si era recato a Pavia per studiare le formule complicate del trattato sui sil-logismi dell’inglese Ralph Strode (1350-1400) e le disquisizioni sul significato delle proposizioni di William Heytesbury (c. 1330-1373). Fu questa la prima tappa che caratterizzò il progressivo distacco del Vernia e della filosofia padovana dalle dottrine di Guglielmo Ockham, Giovanni Buridano e di Richard Swineshead, espo-nenti nel ’300 del metodo filosofico detto ‘terminismo’, perché in ogni campo della

al periodo in cui Lorenzo il Magnifico manda in missione i suoi collaboratori più fidati in Emilia e nel Veneto, alla ricerca e all’acquisto di nuovi codici. E non solo di rintracciare, copiare o comprare libri si trattava, ma anche di reclutare qualche buon professore disposto a trasferirsi da Padova a Firenze o a Pisa, come, ad esem-pio, Nicoletto Vernia (1420 ca.-1499), il filosofo più in vista del momento, avvi-cinato dal Poliziano. In realtà, alla data del 1491 Vernia non era più interessato a lasciare Padova: infatti, almeno dieci anni prima la vicenda di un eventuale trasferi-mento a Pisa s’era conclusa nel peggiore dei modi, con perdita da parte del Teati-no di parte della sua biblioteca e di effetti personali. Resta l’appunto di Poliziano a Lorenzo il Magnifico: «Nicoletto verrebbe a starsi a Pisa, ma vorrebbe un beneficio, hoc est uno di quelli canonicati. Ha buon nome in Padova e buona scuola: pure, nisi fallor, è di questi strani fantastichi. Lui mi ha mosso questa cosa di benefici: siasi aviso». Ma, alla luce della passata amaris-sima esperienza, le parole del Poliziano vanno interpretate per quello che effettiva-mente dicono o lasciano intendere, e cioè che Nicoletto non fosse tanto interessato ad una cattedra a Pisa, ma mirasse piut-tosto a ottenere una prebenda o in Tosca-na o in direzione di Aquileia, contando in

Ermolao Barbaroe Angelo Poliziano

(incisioni di Theodor de Bry).

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Giulio F. Pagallo

tetica allo scopo di fornire traduzioni fe-deli ed eleganti delle opere di Aristotele. I primi risultati della polemica contro le concezioni della fisica e della metafisica dominanti nella Scolastica del XIV sec., e contro le stesse dottrine del suo maestro Gaetano da Thiene, Vernia li espone nella discussione di alcune questioni di filosofia della natura, quali il De gravibus et levi-bus (1474?), la Quaestio sull’oggetto che la filosofia naturale deve indagare (1480); per arrivare alla stesura, poco dopo il 1480, del testo tuttavia inedito de unita-

conoscenza sosteneva la centralità dell’a-nalisi del linguaggio e l’uso rigoroso del significato delle parole (termini). Irra-diatesi da Parigi e Oxford, le dottrine di questo indirizzo, spesso identificato con il ‘nominalismo’, avevano trovato in Italia ampia diffusione e nell’università di Pa-via un importante centro di diffusione. A Padova rappresentanti di spicco furono Paolo Veneto e, dopo di lui, Paolo della Pergola e Gaetano da Thiene, giungendo agli inizi del ’500, con Antonio Fracanza-ni, al definitivo tramonto.

Ora, è degno di nota il fatto che anche Ermolao Barbaro, venti anni più tardi – nell’estate 1488 – ripeta il pellegrinaggio pavese di Vernia e come lui faccia ritorno a Venezia impressionato dallo stile bar-baro e dal vuoto verbalismo dei maestri dello Studio lombardo.10 La delusione provata dal Barbaro merita di essere pon-derata alla luce della lettera con cui, cin-que anni prima (novembre 1483), aveva aderito calorosamente agli ideali di rinno-vamento dell’aristotelismo propugnati da Nicoletto. Chiamandolo vir doctissimus, ne aveva elogiato l’impegno costante teso a difendere i buoni studi e come chi, da ultimo, s’era speso nell’insegnamento di ciò che, agli occhi dell’umanista, era la vera e solida philosophia.11

Quando, nell’ottobre 1468, Vernia suc-cede a Gaetano da Thiene sulla cattedra ordinaria di Filosofia naturale, la delu-sione sperimentata a Pavia s’era tradotta in un programma d’azione ben preciso: combattere le interpretazioni di Aristote-le sostenute dai ‘moderni’, cioè dai rap-presentanti dell’ultima Scolastica, che falsano la lettera e lo spirito della scienza naturale insegnata dal Filosofo; rifiutare l’interpretazione della logica come scien-tia maior, o regina delle scienze, ricon-ducendola alla funzione di semplice ‘stru-mento’ – organon appunto – del sapere scientifico, come l’avevano intesa Aristo-tele e i suoi migliori interpreti; ricuperare la lettera autentica dell’Aristotele origi-nale, affidandosi ad autori come Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e, sopra ogni altro, all’arabo Averroè, colui cioè che secondo l’appellativo di Dante (Inf., IV, 144) «il gran commento feo»; collazio-nare nuovi codici della tradizione peripa-

Incipit del De anima nel commento di Averroè

(dall’edizione venezianadel 1483).

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Pietro Bembo e l’aristotelismo padovano

che appartennero a Vernia e che oggi si trovano nella Biblioteca nazionale di Pa-rigi. Risale, dunque, agli ultimi quattro lustri della sua vita la conoscenza e l’uso frequente dei commentatori greci di Ari-stotele: da Alessandro d’Afrodisia (il suo De anima fu tradotto da Gerolamo Dona-to) agli interpreti venati di neoplatonismo Simplicio (VI sec. d.C.) e Temistio (317 d.C.-388 ca.), quest’ultimo dalle «parole divine», come lo designa lo stesso Vernia. Letture, che grazie al dialogo assiduo con Aristotele e integrate dalla revisione dei propri scritti, condurranno l’ormai anzia-no filosofo, non per pressioni esterne (che

te intellectus. L’opera traccia una linea di demarcazione delicatissima, poiché sul tema dell’anima razionale, che è la forma specifica dell’essere uomo, essa accoglie, contro l’opinione dei teologi e dei fideles, le posizioni di Averroè, difendendo con durezza la sua tesi dell’intelletto eterno e unico per tutti gli uomini, da cui consegue necessariamente la conclusione che l’ani-ma individuale è mortale.

Di qui lo scandalo e le animate discus-sioni fra colleghi e studenti dello Studio, che provocano, il 4 maggio 1489, il de-creto del vescovo Pietro Barozzi, il quale, senza menzionare esplicitamente la quae-stio e il suo autore, proibisce formalmen-te l’esposizione e la discussione pubblica, in ogni luogo e sotto qualsiasi forma, di opinioni dottrinalmente sospette e moral-mente sconvenienti.

Dopo lo scritto sull’anima razionale, fanno seguito due episodi molto significa-tivi, i quali, da un lato, rappresentano una svolta nella biografia intellettuale di Ver-nia, e, dall’altro, annunciano alcuni tratti del periodo d’oro della cultura universi-taria padovana nel ’500. Ci riferiamo, in primo luogo, all’edizione veneziana del 1483 - curata in parte dal Vernia e poi mi-gliorata dall’allievo Agostino Nifo – che, con dieci anni d’anticipo su quella greca di Aldo Manuzio (1495), fornisce la stam-pa di quasi tutte le opere d’Aristotele nella traduzione latina, accompagnate dai com-menti di Averroè. Il significato dell’im-presa è stato sottolineato con particolare enfasi da Lorenzo Minio Paluello, il mas-simo esperto dell’Aristoteles latinus, se-gnalando che quella edizione, per il tipo di organizzazione e per l’ampiezza delle opere raccolte, rappresenta un progresso decisivo rispetto a quanto l’editoria filo-sofica aveva offerto in precedenza.12

Condotta a termine la stampa in più tomi, Vernia continuerà fino ai suoi ulti-mi giorni a leggere e rivedere i testi d’A-ristotele e dei commentatori arabi, latini e greci. Infatti, quasi a maniera di testa-mento intellettuale, qualche anno prima di morire, Vernia dà notizia all’amico e protettore cardinale Domenico Grimani di questo suo impegno; tracce del quale, peraltro, sono rimaste numerose e auto-grafe negli esemplari dell’edizione 1483

Stemma di Nicoletto Vernia (dal frontespizio miniato

dall’incunabolo 717della Biblioteca Universitaria

di Padova).

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Giulio F. Pagallo

Umanisti e il volgare fra Quattro e Cinquecento, Firenze, Le Monnier, 1968.

5) G. Mazzacurati, Pietro Bembo, in Storia della cultura veneta. Dal primo Quattrocento al Con-cilio di Trento, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, 3/II, Vicenza, Neri Pozza editore, 1980, pp. 1-59; 3.

6) V. Branca, Poliziano, p. 202.7) Cfr. la lettera da Venezia, del 22 ottobre 1494,

e quella successiva ex suburbano Patavino, dello stesso mese (P. Bembo, Lettere. Edizione critica a cura di E. Travi (1492-1507), vol. I, Bologna 1987, pp. 9 e 10.

8) Ivi, p. 143.9) Ivi., p. 140. Cfr. A. Carlino, Atlante della let-

teratura italiana. A cura di S. Luzzatto e G. Pedul-là, I: Dalle origini al Rinascimento, a cura di A. De Vincentiis, Torino, Einaudi, 2010, pp. 586 ss. Per quanto riguarda l’avventura pisana, sia consentito rinviare a G. F. Pagallo, L’animus averroisticus di Nicoletto Vernia e il vescovo Pietro Barozzi: al-cuni ritocchi al quadro d’insieme (1487-1499), in Pietro Barozzi un vescovo del Rinascimento. Atti del convegno di studi, Padova 18-20 ottobre 2007. A cura di A. Nante, C. Cavalli, P. Gios (Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana, XXXV), Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padova-na, 2012, pp. 125-149.

10) C. Dionisotti, Ermolao Barbaro e la fortu-na di Suiseth, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, I, Firenze, G.C. Sansoni, 1955, pp. 217-253. Cfr. Le lettere C e CI in E. Bar-baro, Epistolae, orationes et carmina. Edizione critica a cura di V. Branca, II, Firenze, Bibliopolis Libreria editrice, 1943, pp. 22-23.

11) E. Barbaro, Epistolae, orationes et carmina, I, pp. 45-47, 45; cfr. anche l’epistola del genna-io seguente (pp. 79-80). Va tenuto presente l’uso costante che il Vernia fa, a partire dal 1482, della traduzione dei Libri paraphraseos Themistii in po-steriora Aristotelis, in physica, in libros de anima di Ermolao Barbaro (Treviso 1481), come docu-mentano le note autografe del Vernia contenute ne-gli esemplari dell’ed. 1481 di Padova, Biblioteca universitaria, Sec. XV 96, e di Venezia, Biblioteca Marciana, Inc. 447: E.P. Mahoney, Two Aristote-lians of the Italian Renaissance. Nicoletto Vernia and Agostino Nifo, Aldershot, Ashgate, 2000, pp. I, 156-159.

12) L. M. Paluello, Opuscula. The Latin Ari-stotle, Amsterdam, Hakkert Publisher,1972, pp. 488-489, 496-497; le citazioni sono tratte dal cap. Attività filosofico-editoriale aristotelica dell’Uma-nesimo, pubblicato per la prima volta in Umane-simo Europeo e Umanesimo Veneziano, pp. 245-263.

non mancarono), ma per necessità di svol-gimento teoretico personale, a separarsi almeno sul tema dell’anima dall’ispira-zione averroistica e a stendere, nel set-tembre 1492, la ritrattazione (recantatio) delle tesi sostenute nel de unitate intellec-tus, che tanto clamore avevano sollevato in città e nello Studio.

Con la palinodia pubblicata postuma nel 1504, introdotta dalle lettere indiriz-zate al cardinale Domenico Grimani e al vescovo Pietro Barozzi, si chiudeva ve-rosimilmente il caso personale di un fi-losofo ‘fantastico’ e, dunque, scomodo; ma, piace supporre, intellettualmente e moralmente inquieto. Rimane tuttavia da studiare quanto, sul piano storico e teori-co, la cornice teorica e la giustificazione di quella sconfessione abbiano contribui-to ad arricchire il dibattito filosofico nello Studio padovano, mediante il tentativo di armonizzare la fede religiosa e il sapere filosofico, Platone e Aristotele, che sarà ripreso nella seconda metà del ’500 da Francesco Piccolomini. Quanto a Pietro Bembo, sulla base della documentazione di cui disponiamo è assai difficile accerta-re se il raffinato umanista abbia mai mo-strato vero interesse verso i temi dell’a-ristotelismo padovano, così come s’era rinnovato nel crepuscolo fra i due secoli; o se abbia pensato in qualche momento di potersene giovare nelle sue scritture.

l

1) C. Dionisotti, Scritti sul Bembo. A cura di C. Vela, Torino, Einaudi, 2002, p. 148: le pp. 143-167 del volume riproducono la voce stilata per il Dizio-nario biografico degli italiani, nel 1966. Quanto all’interesse per la politica, il Bembo mancò certo alle speranze del padre Bernardo, date le ripetute bocciature che incontrarono, fra il luglio 1499 e l’ottobre 1504, le sue varie candidature a missioni o incarichi pubblici; il che, verso il 1502, contribuì al «suo distacco dal padre e da Venezia» (pp. 146, 149).

2) V. Cian, Un medaglione del Rinascimento. Cola Bruno messinese e le sue relazioni con Pie-tro Bembo (1480c.-1542), Firenze, G.C. Sansoni, 1901, spec. pp. 3, 6-8.

3) Dionisotti, Scritti sul Bembo, p. 148.4) V. Branca, Poliziano e l’umanesimo della pa-

rola, Torino, Einaudi, 1983, p. 20. Cfr. ID., Ermo-lao Barbaro e l’Umanesimo veneziano, in Umane-simo europeo e Umanesimo veneziano, a cura di V. Branca, Firenze, Sansoni, 1963; C. Dionisotti, Gli

Colophon del volume cogli scritti aristotelici di filosofia pratica

curati da Nicoletto Vernia(edizione veneziana 1483).

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La famiglia “padovana” del Bembo

La famiglia “padovana”del Bembo

Con la rinuncia all’incarico di segretario papale, si apre un nuovo periodo della vita del futuro cardinale, rivolto agli studi e allietato dalla presenza di Morosina e dei tre figli.

Pietro Bembo fu certamente uno dei per-sonaggi più emblematici del suo tempo, di quell’età che per la sorprendente fioritura delle lettere e delle arti chiamiamo con or-goglio Rinascimento italiano. Personaggio emblematico non solo per il ruolo che ri-coprì sul piano della cultura, ma anche per le vicende che caratterizzarono la sua vita, in bilico tra pubblico e privato, tra richia-mi mondani e ricerca di una più rigorosa dirittura morale. Non ci proponiamo qui di rivisitare le varie tappe del lungo percorso dello scrittore (Venezia 1470-Roma1547) tra eccezionali esperienze di luoghi e di persone, dai viaggi giovanili, anche al seguito del padre, eccellente diplomatico veneziano, ai soggiorni nelle corti di Fer-rara e di Urbino, al prestigioso ruolo nella Curia romana fino all’ambito cardinalato, ottenuto nella vecchiaia. Ci limitiamo a gettare uno sguardo su quel periodo cen-trale della sua vita, rispondente agli anni della piena maturità, in cui scelse di vivere per se stesso, dedicandosi alla sua famiglia e ai suoi studi. Tale periodo ha coinciso in buona parte col suo soggiorno padovano che si protrasse, con varie alternanze, per più di un quindicennio, a partire dal terzo decennio del secolo.

Segnò questa nuova fase della sua vita la morte di papa Leone X, quel Giuliano dei Medici che il Bembo aveva conosciuto ad Urbino e che, salito al soglio pontificio, l’aveva voluto suo segretario per la stesu-ra dei brevi. Di fatto, già prima che questa avvenisse il Bembo aveva chiesto al papa licenza di lasciare Roma, motivandola col protrarsi di una indisposizione che forse avrebbe meglio fugato con l’aria di casa. Giunse a Venezia poco dopo la morte del padre, aggravatosi durante il viaggio di

ritorno. Quella morte inattesa lo caricò di nuove responsabilità verso la famiglia e il patrimonio domestico, messo a rischio da ristrettezze finanziarie. Doveva provvede-re tra l’altro alla dote della nipote Marcella, prossima al matrimonio con un altro mem-bro del casato, Giovan Matteo Bembo, che diventerà il fido curatore dei suoi interessi veneziani. Manifesta tali preoccupazioni nell’ottobre del 1519 all’amico Bernardo Dovizi da Bibbiena, allora cardinale legato in Francia, accennando fra l’altro al peri-colo di doversi disfare di un possedimento nel padovano che gli era particolarmente caro: la villetta presso Santa Maria di Non. Più della salute fisica, non ancora del tutto recuperata, lo angustiavano infatti le condi-zioni economiche: “Quanto poi all’animo, io ne sto assai male: egli è molto più cagio-nevole e infermo che non è la carne. Ché per la morte di mio padre mi si son scoperti tanti oblighi che non ho dove volgermi. E vorrei pure difender quella piacevole vil-letta della quale v’ho più volte ragionato, dico il mio Noniano”1. E aggiunge più ol-tre: “Io altro non desidero in questa vita che riposo, e arielo, quando N. S. [Leo- ne X] si degnasse che io lo pigliassi, se io o avessi tanto più di rendite che bastasse a levarmi le gravezze che io mi trovo senza mia colpa sopra le spalle avere, o io non avessi queste brighe”(allude agli incarichi papali, tra cui una missione a Mantova).

A metà novembre ringrazia il papa per aver benedetto le nozze dei due nipoti, scu-sandosi per il perdurare della sua assenza da Roma causata dai problemi di salute: “Venni a Padova l’altr’ieri per consiglio, un’altra volta, da questi eccellenti medici pigliare dintorno alla indisposizione mia. Il che fatto mi ritornerò a Vinegia e di quindi,

diGiorgio Ronconi

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Giorgio Ronconi

tosto che io possa, e la detta indisposizione mi conceda, a V. Santità”.

Il rientro in Curia avvenne solo nei primi mesi del 1520, ma i suoi pensieri e il suo cuore erano rimasti in patria. Ne fa fede lo scambio epistolare col nipote Giovan Mat-teo, che rivela il particolare attaccamento del Bembo nei confronti dei congiunti lon-tani, quella famiglia che in passato aveva forse trascurato, ma che, dopo la morte del padre, sentiva il bisogno di ricostruire intorno a sé. Le lettere infatti, oltre che a chiudersi col “Bembus pater”, contengono spesso espressioni di affettuoso interessa-mento, vuoi per la prossima maternità di Marcella, che lo spinge a suggerire il nome del nascituro “se sarà maschio, vorrei che si chiamasse Quintilio, se femina, Lucina”, vuoi per la sorte delle sorelle di lei, Maria e Giulia, novizie nel monastero veneziano di Santa Caterina, che si proponeva di ma-ritare, qualora il papa – scrive in una lettera – “gli doni il modo di poterle accompagna-re onoratamente ancor esse”. In un’altra ancora si compiace per la buona armonia tra i familiari, invidiando da lontano quel clima di cordialità: “Mi è caro che mia so-rella sia con voi. Vivete tutti allegramente più che si può, e amorevolmente. Piacemi che vi troviate spesso in casa mia con ma-donna Morosina, e che ella ancora vegna qualche volta a starsi con voi. È vero che vi ho un poco di invidia. Quante più amo-revolezze tutti voi le userete, me ne farete maggior piacer, e ve ne sentirò obbligo”.

Compare per la prima volta, in questa lettera, spedita da Roma il 26 giugno 1520, il nome della donna amata, Ambrogina Faustina Morosina della Torre, che egli aveva conosciuto anni prima a Roma, sta-

bilendo un legame d’affetto così profondo e durevole da indurla a trasferirsi nella sua casa di Venezia e da raccomandarla ai pa-renti come facente parte della famiglia. Un segnale anche questo del suo proposito di porre fine all’esperienza romana. Nel giu-gno dell’anno dopo, infatti, ritroviamo il Bembo a Venezia per i funerali del doge Loredan, ma ai primi di luglio aveva già fatto ritorno nella sua villa padovana, di-venuta abituale dimora, da dove scrive al nipote aggiungendo i saluti di Morosina.

Durante questo prolungato soggiorno in terra veneta Bembo continua a seguire, pur ostentando un certo distacco, il succe-dersi degli avvenimenti romani: la morte di Leone X nel dicembre 1521, le vicende del breve pontificato dell’austero Adriano VI e l’elezione di un altro papa mediceo. Nel luglio del 1522, scrivendo dal suo “Noniano” a Federigo Fregoso (uno degli interlocutori delle Prose della volgar lin-gua), ricorderà come avesse maturato la decisione di lasciare Roma già prima di quegli avvenimenti, spinto da una necessi-tà interiore, che da principio non fece pa-lesare: “… da Roma mi diparti’, e da papa Leone, in vista chiedendogli licenza per alcun brieve tempo, per cagion di risanare in queste contrade, ma in effetto per non vi ritornar più, e per vivere a me quello, o poco o molto, che di vita mi restava, e non a tutti gli altri più che a me stesso”. La lettera prosegue col famoso elogio di Pa-dova e della vita in villa, che non possiamo astenerci dal riportare: “Sommi fermato in Padova per istanza, città di temperatissi-mo aere e in sé molto bella, e sopra tutto e commoda e riposata e attissima agli ozi delle lettere e degli studi quanto altra che

Giambattista Tiepolo, Lo studio del Bembo a Padova (incisione

di Andrea Zucchi nell’edizione Hertzhauser delle Opere del

Bembo, Venezia 1729).

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La famiglia “padovana” del Bembo

restare irraggiungibile.Maturò in questo clima nel Bembo il de-

siderio di formarsi una propria famiglia, di avere dei figli non dai nipoti, ma suoi. La donna amata e stimata gli era accanto da tempo. Tuttavia non si propose di sposar-la. Ad impedirglielo erano anzitutto motivi economici, in quanto la rinuncia al celiba-to comportava la perdita di quei benefici ecclesiastici, tenacemente perseguiti, che costituivano una fonte importante del suo reddito. C’era però anche un’altra ragione: Morosina era già sposata e il marito risul-tava vivente. L’unione di fatto, peraltro abbastanza diffusa nel costume del tempo, era la soluzione più praticabile, anche se alquanto disdicevole per un religioso che,

io vedessi giammai, anzi pure molto più. E stommi ora in città e quando in villa, di tutte le cure libero; e se pure alcuna ne ho – ché nel vero il mio stato, per non essere egli più largo e abondevole de’ beni della fortuna di quello che egli è, alcuna me ne dà alle volte – elle sono leggiere e agevol-mente si portano, né turbano l’animo o gli studi suoi per questo”.

Rispetto alla capitale della rinascita ar-tistica Padova era senza dubbio un centro minore, ma “attissimo” a ciò che il Bem-bo andava cercando, sgravato da quelle incombenze curiali che gli erano state di ostacolo agli studi e che tuttavia aveva tol-lerato sperando in una ricompensa onorifi-ca, il cardinalato appunto, che continuava a

Autografo del solenne esordio del 3° libro delle Prose risalente agli anni padovani (ms. Vat. lat.

3210).

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Giorgio Ronconi

alle resistenze del beneficiario4. Per diri-mere la questione, la Morosina gli consi-gliava un accordo col rivale, senza dar retta a chi lo istigava diversamente. La lettera, nella sua schietta semplicità, è un modello di prudenza e di premura. Da sposa saggia e devota, Morosina espone infatti con fran-chezza il suo giudizio sulla lite (“le cose de quela sorte tute vanno a la longa più de quele che l’omo stima…”); non trala-scia poi di sottolineare l’aspetto economi-co (“volio che pensati quanto discomodo ve serà e spesa a stare fora di casa vostra tanto”), ma preferisce insistere sugli affet-ti domestici col tono dimesso e confidente di chi ama sinceramente (“questo che ve scrivo io non lo dico perché ve voglia inse-gnare, ma per desiderio che torniati presto a casa vostra e galdere quelo che Dio ve ha dato …”), facendo vibrare alla fine la corda più delicata, con l’accenno al figliolo che sta mettendo i primi denti (“Lucili sta così cativeto, come già ve scrise, e fa denti adeso, e non sta tropo bene”)5.

Che l’affetto di Morosina fosse piena-mente ricambiato se ne ha riprova dall’e-pistolario del Bembo. Scorrendo le lettere ai più intimi, la presenza della compagna di vita è ricordata non tanto per il ricambio dei saluti o per gli accenni ai suoi malanni, ma anche per richiamare fatterelli dome-stici o interventi a favore d’altri, che fanno ricorso a lei per ottenere dal Bembo denari o altri vantaggi, come nel passo riportato nella lettera del 5 giugno 1526, rivelatore fra l’altro della sua squisita delicatezza: “… vi ringrazia – scrive il Bembo a un amico – della memoria che tenete per lei e si proferisce di servitù in quello che ella può; tuttavia dice che se ella cercasse di ottener da me la cosa che volete avere per mezzo di lei, ella verrebbe a voi per favor da ottenerla, non che ella s’arrischiasse di credere potere, in questo, meco più di quel-lo che voi potete”.

Non sappiamo esattamente quale fosse la dimora del Bembo in città, prima della decisione, maturata nel 1527, di acquista-re un’importante proprietà, già dei Borro-meo, nel quartiere di San Bartolomeo, che trasformerà in un lussuoso palazzo, desti-nato ad ospitare le sue preziose collezioni d’arte. Risulta da una sua lettera dell’anno precedente che abbia abitato per un breve periodo nel palazzo Foscari all’Arena, ri-tenuto inadatto specie per l’umidità, che

proprio per consolidare le numerose pre-bende accumulate negli anni, nel dicembre del 1522 aveva indossato l’abito dell’Or-dine gerosolimitano, che comportava tra l’altro il voto di castità2.

Il Bembo, pur usando una certa discre-zione, non si curò di tenere segreto il suo rapporto, tanto più che nel novembre del 1523 Morosina dette alla luce il primoge-nito, Lucilio, a cui fece seguito, nel mag-gio del 1525, Torquato, mentre al giugno del 1528 risale la nascita di Elena. Tre nomi che richiamavano la classicità, ben-ché il terzo fosse anche quello della ma-dre. A questa famiglia di fatto, che gli af-fetti rendevano ancora più unita, si dovrà aggregare anche Carlo, figlio naturale del fratellastro Bartolomeo, accolto in casa già prima della morte di questi, avvenuta nel 1526, e il fedelissimo Cola Bruno, compa-gno del Bembo di tutta la vita, scrupoloso esecutore di affari e di questioni erudite.

Domina su tutti la figura di Morosina. Dai biografi, amici del Bembo e frequen-tatori della sua casa padovana, abbiamo su di lei solo generiche attestazioni. Giovan-ni della Casa la loda per l’eximia forma, Ludovico Beccadelli la definisce “giovane molto gentile et costumata, che in Roma veduta gli venne, la quale [Bembo] amò teneramente e molte rime ne fece”. Non va molto oltre la testimonianza cronologica-mente più antica dell’anonimo autore della vita premessa all’edizione dell’Istoria Vi-nitiana del 1552: “giovane bella e vaga, di rare maniere e di leggiadri costumi”. Sappiamo di più sulla sua famiglia dopo le indagini condotte nell’archivio vaticano da Alessandro Ferrajoli, che documenta fra l’altro il suo matrimonio, avvenuto in età giovanissima, pur senza darci notizie sull’identità dello sposo3.

Ma un quadro più interessante sulla per-sonalità di Morosina lo possiamo ricavare da una sua lettera autografa, l’unica che ci sia pervenuta, scritta nel febbraio 1525, du-rante un prolungato soggiorno del Bembo a Roma, recatosi per presentare al nuovo papa il manoscritto con l’opera finalmente compiuta delle Prose della volgar lingua, a lui da tempo dedicate, e poi intrattenutosi in vista del giubileo venticinquennale.

Dalla lettera tuttavia risulterebbe un’altra più intrigante ragione che ritardava il suo ritorno: il trascinarsi della contesa per l’ac-quisto di un canonicato a Padova dovuta

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La famiglia “padovana” del Bembo

consigli o addirittura per sottoporre le loro opere alla sua revisione. La fitta cor-rispondenza è rivelatrice della frequenza e dell’importanza di questi scambi, che per-misero al Bembo di diventare un punto di riferimento e una guida nella vita culturale del tempo.

L’aprirsi del quarto decennio del secolo segna forse il momento di maggior splen-dore del soggiorno padovano del Bembo. All’edizione delle opere di maggior peso s’era aggiunta la sua nomina a storiografo di Venezia e a bibliotecario della pubblica Libreria, che vantava fra i padri fondatori il Petrarca e il Bessarione. La lussuosa di-mora cittadina, che solo allora poté intera-mente occupare, diventò ben presto meta di visitatori illustri, a cui poteva esibire le preziose raccolte di libri e di opere d’arte. Né ad offuscarne la fama valsero episodi di rivalità letteraria, come le critiche al suo petrarchismo audacemente rivoltegli dal padovano Antonio Broccardo, scolaro del-lo Studio e poeta egli stesso, che sollevò lo sdegno dei letterati, armando perfino la temibile penna dell’Aretino, chiamato dal Bembo in sua difesa.

Assai spiacevole fu anche un altro even-to che riguardò la sua persona: il tentativo di avvelenamento che pare sia stato mal-destramente compiuto nel luglio del 1530 dal nipote Carlo, poco riconoscente nei confronti delle premure dello zio per la sua istruzione. Ben più grave fu il lutto che lo colpì nell’agosto del 1532: la morte del pri-mogenito Lucilio che, benché fosse ancora un fanciullo, già dava di sé “tali segni di dover divenire ad infinita sodisfazion mia

– com’egli scrive – rendeva inagibile il piano terra. La dimora prediletta di quegli anni era la “dilettevole villetta” di famiglia che abbiamo già ricordato. Qui trascorre-va i mesi estivi attendendo agli studi, ma anche lasciandosi immergere nell’ambien-te naturale: “… non sento altri romori se non quelli che mi fanno alquanti lusignoli d’ogn’intorno gareggiando tra loro, e molti altri uccelli (…). Leggo, scrivo quanto io voglio, cavalco, cammino, passeggio mol-to spesso per entro un boschetto che io ho a capo dell’orto”. Citiamo da una lettera del 1525, diretta ad un influente amico di Cu-ria, Agostino Foglietta, in cui contrappone ai fastidi e agli affanni della vita romana la ritrovata quiete, tra le delizie dell’orto, che egli stesso raccoglieva, e i piacevoli diporti serali sul fiume: “Né manca, oltre a ciò, che con una barchetta, prima per un vago fiumicello che dinanzi la mia casa corre continuo e poi per la Brenta (…) io non vada la sera buona pezza diportando-mi, qualora le acque, più che la terra, mi vengono a grado”.

Gli anni padovani, pur così diversi da quelli vissuti tra lo sfarzo delle corti, e in amori più e meno platonici, sono anni ugualmente felici e fecondi in cui l’ambien-te stesso, nella sua dimensione più serena e familiare, favoriva un felice connubio tra vita affettiva e impegno letterario. Libero dal servire gli altri, il Bembo può tutto de-dicarsi alla revisione delle opere che aveva fino ad allora composto. In primo luogo, porta a termine quel dialogo sulla lingua volgare interrotto da più di un decennio e che solo ora era in grado di concludere e consegnare al pontefice, Clemente VII nominato nella dedica a stampa con tito-lo di cardinale per rivendicare l’anteriorità dell’opera rispetto ad un’altra simile del Fortunio. Subito dopo intraprese la riela-borazione degli Asolani, il libro della pri-ma maturità che interpretava così bene le teorie platoniche sull’amore da assurgere a modello di una diffusa moda letteraria. Al tempo stesso egli andava rivedendo e siste-mando anche i suoi componimenti poetici col proposito di pubblicarne una raccolta organica, che apparirà a Venezia nel 1530, seguita dalla seconda edizione degli Aso-lani e dalla stampa di alcune prose latine.

Questo fervore letterario lo vedeva im-pegnato anche nei confronti degli amici, che ricorrevano a lui da ogni parte per

Lapide tombale di Morosina, già nella chiesa di San Bartolomeo,

trasportata agli Eremitani(atrio della sacrestia).

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Giorgio Ronconi

“ne la chiesia di San Bartolomeo di Pado-va, dove ella è per tempo sepulta, o fuori della chiesa congiunta col muro di essa chiesia”, disponendo “che si spendano du-cati ducento, et non meno”7.

È significativo che nell’anno stesso del-la morte di Morosina il Bembo pensasse a dettare le sue ultime volontà, nominando erede universale il figlio Torquato, volontà che saranno in buona parte ribadite negli atti successivi8. Avvertiva forse egli stesso che con quella morte si era chiuso un buon tratto della sua vita, pur meditando in cuor suo, con la recente elezione di Paolo III, che la sorte avrebbe potuto riservargli altre opportunità. Qualche anno dopo, infatti, poté coronare a Roma l’antica aspirazione al cardinalato. La parentesi padovana, le-gata anche all’esperienza familiare accan-to a Morosina, era ormai definitivamente conclusa.

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1) Cito, anche di seguito, dall’edizione critica dell’Epistolario bembiano a cura di E. Travi, Bolo-gna 1992, vol.III e IV.

2) La condanna morale espressa dal Dionisotti (voce Bembo nel D.B.I.) è in parte attenuata nei giudizi di V.Cian (Un decennio della vita di M .P. Bembo, Torino 1885), che conduce un approfon-dito esame proprio di questo importante periodo.

3) Cfr. A. Ferrajoli, Il ruolo della corte di Le-one x, a c. di V. Di Caprio, Bulzoni, Roma 1984, pp.280-300 (il volume contiene la ristampa ana-statica dei contributi apparsi nell’“Archivio storico della Società romana di storia patria”).

4) Anche su questo tema si trattiene il Ferrajoli, che riepiloga un primo tentativo nel 1517, e un se-condo risoltosi nel 1525 con una transazione, che portò alla rinunzia a favore di Iacopo Cocco, che gli cedeva dietro una pensione annua i frutti del-la prebenda. Sull’epilogo della vicenda si veda B. Cestaro, Il canonicato padovano di messer Pietro Bembo, “Atti e memorie dell’Accademia di Scien-ze, Lettere ed Arti in Padova”, n. s., XLV (1929), pp. 303-311.

5) Il testo di questa lettera è stato edito da A. Ratti, Una lettera autografa della Morosina a P. Bembo, “Giornale storico della Letteratura italia-na”, XI, 1902, pp. 335-342.

6) Cfr. F. Piovan, Lampridio, Bembo e altri, “Italia Medioevale e Umanistica”,XXX (1987), p. 180, 196-197.

7) Quando la chiesa fu abbattuta, si trasportò la lapide agli Eremitani, dove si conserva nell’atrio della sacrestia.

8) Con una disposizione in più a Torquato: “che egli sia ubligato di non vendere, né impegnare né donare per nessun caso alcuna delle mie cose anti-que o di pietra o di rame, o dargento, o doro, o de o che elle siano o fossero, ma ti tnerle care et in guardia…” (vedi 2° testamento del 1544). Il figlio invece contribuì alla dispersione di quel patrimo-nio, custodito nel palazzo padovano.

e de’ suoi tutti”, scrive il Bembo a un ami-co, associando al suo dolore quello della madre, che trovandosi inferma “di febbre e di dolor colichi”, s’era sconfortata a tal punto “per lo grande e infinito amore” di quel figliolo che “per poco non ha lasciata la vita anco ella”.

Quella sorte, altre volte paventata, si avverò tre anni dopo, segnando profonda-mente l’animo del Bembo. Egli espresse il suo dolore in vari componimenti, anche a distanza dall’evento, rielaborandoli piutto-sto freddamente su modelli petrarcheschi; ma la testimonianza più immediata e since-ra, quella che meglio ritrae i suoi sentimen-ti per la persona amata, cogliendone alcuni tratti delicati del carattere, la incontriamo nella risposta all’amico veneziano Trifon Gabriele, al quale confessa che i conforti dell’antica saggezza non bastavano a fargli scordare “che io perduto avea il più dolce verso di me animo, e quello il quale via più avea della mia vita cura, e via l’amava e te-nea cara maggiormente che egli la sua me-desima non facea, e che era così moderato e così sprezzante i soverchi abbellimenti ed adornamenti, le sete, gli ori, le gemme, i tesori medesimi, solo solo contentandosi e tenendosi pienamente felice dell’amore che io le portava …”.

Dopo la morte di Morosina il Bembo si preoccupò soprattutto della sistemazione dei figli. Affiderà a Benedetto Lampridio l’istruzione di Torquato, ricorrendo in se-guito ad un altro maestro quando si accor-se che non otteneva i frutti desiderati6. Per Elenetta chiederà all’amico Gualteruzzi da Fano che gli procuri “una donna attempata, di buoni e lodevoli costumi”, aggiungen-do: “ E piacerebbomi che fosse di quelle parti vostre, dico di Fano, o ancora di quel d’Urbino, o in quei dintorni, per conto del-la favella, con ciò sia che questa nostra è, come sapete, sciocca bene assai” (il dialet-to, padovano o veneziano, non gli andava proprio giù!). Ma farà di più, prometten-dola in sposa, a sette anni, a Pietro Gra-denigo con una dote di 5000 ducati d’oro, “e se ella non volesse marito, ma elegges-se di farsi monaca, a la qual cosa non la consiglio, voglio che le sia dati ducati 500 per lo suo poter monachar più comoda”. Questa disposizione è riportata nel primo testamento originale del Bembo, risalente al 25 novembre 1535, che contiene anche le disposizioni per il sepolcro di Morosina

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Il Palazzo del Bembo in via Altinate

Il Palazzo del Bembo in via Altinate

Si ricostruiscono le vicende dell’edificio che nel Cinquecentofu dimora del cardinale Pietro Bembo.

La prima metà del Cinquecento si confi-gurò per Padova come un periodo di gran-de espansione costruttiva e di profondo rinnovamento dei linguaggi e delle solu-zioni architettoniche.

In quegli anni, importanti patrizi vene-ziani, ma anche autorevoli rappresentanti della vita culturale padovana, costruirono o ristrutturarono in città la propria dimora secondo uno schema comune: complessi abitativi come la casa di Alvise Cornaro vicino al Santo, palazzo Mantova Bena-vides dietro la chiesa degli Eremitani e lo stesso palazzo Bembo nell’attuale via Al-tinate furono tutti pensati come residenze di ricreazione, impostati in un insieme di edifici liberamente collegati fra loro e messi in connessione con spazi aperti, orti e giardini, con l’intento di creare un luogo dove poter coltivare l’ideale di vita classico e lo studio umanistico. Fu pro-prio la ricerca di una abitazione come oasi sicura per gli ozi letterari che spinse Pie-tro Bembo a scegliere, e quindi con tanta determinazione ad acquistare, una grande casa che, trovandosi ai margini della città, era circondata da ampi spazi verdi.

Nei primi decenni del Cinquecento, Pie-tro Bembo, pur risiedendo spesso a Pado-va, città che amava perchè molto bella, e sopra tutto comoda e riposata, ed attis-sima agli ozi delle lettere e degli studi1, non disponeva di una propria abitazione, ma veniva ospitato da parenti e amici; si ha notizia che nel 1526 abitò a Palazzo Scrovegni, del quale era allora proprie-tario Marco Foscari2. Da un atto notarile stipulato il primo sabato di febbraio del 1528 in contrada Eremitani seu porcilia

in domo habitationis Padue d. Petrus Bembus si deduce che l’illustre letterato si sia poi provvisoriamente trasferito in una casa poco distante dall’Arena3.

Nel 1527 riuscì ad acquistare all’asta una proprietà ubicata in contrada S. Bar-tolomeo4 e composta da una grande casa con orto, brolo e giardino, che la Serenis-sima aveva confiscato nel 1510 alla fami-glia ribelle dei Borromeo, cui appartene-va fin dal secolo precedente.

In origine, la proprietà Borromeo com-prendeva anche l’edificio con corte e poz-zo, posto a ovest della casa padronale. Dopo l’incameramento, Venezia aveva diviso l’intera area in due lotti, affidando la casa grande con la vasta estensione di terreno retrostante al conte Bernardino Fortebraccio, condottiero della Serenis-sima, quale ricompensa per i suoi servigi negli ultimi eventi bellici, donando invece la casa attigua, a ponente, a Narna Duc-co, quale riconoscimento per la fedeltà dimostrata dal padre Tommaso nella con-giura di Brescia del 15125. Nel 1523, il Consiglio dei Dieci aveva però deciso di mettere all’incanto l’immobile occupato dal Fortebraccio, concedendo tuttavia a quest’ultimo il diritto di godere, vita natu-ral durante, del palazzo quale propria abi-tazione6. Dopo complesse trattative e con l’offerta d’asta di ben 1460 fiorini, il Bem-bo riuscì ad assicurarsi la proprietà tanto desiderata, che però potè occupare solo nel 1532, dopo la morte del Fortebraccio. Una volta entrato nella nuova casa, egli provvide subito a ristrutturarla secondo le proprie esigenze culturali e sociali, desti-nando uno spazio adeguato alle collezioni

diRoberta Lamon

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Roberta Lamon

librarie e artistiche. Pietro Bembo non fu infatti soltanto il più famoso letterato del-la sua epoca, ma fu anche un esperto col-lezionista d’arte, capace di radunare nella sua casa padovana dipinti di grandi mae-stri come Mantegna e Raffaello, sculture, gemme e bronzetti di rara bellezza, mano-scritti miniati, monete e medaglie antiche. Per la ricchezza e la varietà degli oggetti raccolti, il bel palazzo era considerato un vero e proprio museo, conosciuto e visita-to da umanisti, accademici ed eruditi, so-stenitori di quella consolidata tradizione antiquaria che vide nella Padova cinque-centesca uno dei centri più attivi.

Dopo aver sancito i diritti sul comples-so edilizio in forza dell’atto del 1527, il Bembo si dedicò quindi negli anni suc-cessivi ad una serie d’interventi di miglio-ramento e ampliamento della proprietà con l’acquisto di alcuni edifici confinanti e con la riorganizzazione degli orti. Al 18 giugno 1535 risale l’atto di acquisto dell’edificio posto a ponente del palazzo padronale; la casa, dotata di corte, orto e pozzo e in precedenza di proprietà di Nar-na Ducco, era stata acquistata pochi mesi prima dall’umanista cremonese Benedet-to Lampridio che, a sua volta, l’aveva venduta al Bembo, svolgendo quindi un ruolo d’intermediario nell’operazione7.

Dai suoi interessi per l’architettura e per la botanica, più volte affermati nelle sue opere, e dai suoi rapporti di amicizia con famosi architetti come Sanmicheli e San-sovino si può pensare che Pietro Bembo abbia seguito personalmente il proget-to di sistemazione sia della casa che dei giardini8, dove si trovavano piante rare e preziose e persino un orto botanico, che anticipò quello di cui si dotò l’Università di Padova nel 15469. I giardini, che si svi-luppavano nell’area retrostante il palazzo, giungevano fino al canale S. Sofia, con-sentendo un accesso privilegiato alla via d’acqua per il raggiungimento di Venezia. Dalle stanze sul retro del palazzo si go-deva una splendida vista su questa ampia zona verde, la cui presenza invitava a un sereno e piacevole conversare in compa-gnia delle persone con le quali il celebre umanista condivideva gli stessi interessi letterari e artistici.

La bella residenza padovana del Bembo divenne quindi il centro di una fitta rete di relazioni e scambi culturali, animati dallo stesso padrone di casa che amava ricevere e intrattenere i numerosi ospiti, ansiosi di ammirare i preziosi oggetti che vi erano raccolti.

Nominato cardinale nel 1539 da papa Paolo III, Pietro Bembo si trasferì a Roma, lasciando al fedele segretario Cola Bruno la cura e la custodia della casa di Padova, abitata dai figli Torquato ed Ele-na, e nella quale lo stesso Bembo ritornò solo per brevi periodi.

Alla sua morte, avvenuta a Roma il 18 gennaio 1547, il palazzo padovano passò in eredità alla figlia Elena, che nel 1543 aveva sposato il nobile veneziano Pietro Gradenigo10; nel contratto di nozze del 1544 la proprietà in contrada S. Barto-lomeo risultava composta da una casa grande con un horto molto bello et un altro molto grande che va infino alla stra-da della brenta de pietra, con la casa del hortolano et con un altra casa non molto grande con horto (…) et con altre casette piccole congiunte a la ditta casa gran-de11. Per via successoria, l’immobile ri-mase alla famiglia Gradenigo almeno fino al 1820, anno in cui i documenti d’archi-vio riportano il nome di Cornelia Dolfin Gradenigo quale intestataria dell’intero complesso12.

1. Palazzo Bembo Camerini prima dell’arretramento del 1936.

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Il Palazzo del Bembo in via Altinate

l’immobile a Silvestro Camerini, che lo utilizzò come propria abitazione a partire dal 1861. L’eventuale intervento di re-stauro condotto dal nuovo proprietario si ridusse con ogni probabilità a operazioni di ammodernamento degli interni, studia-te per rendere la casa più confortevole, ma che furono sostanzialmente rispettose di un’architettura considerata di pregio. Nell’intento di rendere omaggio all’arte-fice dell’immenso patrimonio di famiglia, il nipote Luigi Camerini fece inserire lo stemma di Castel Bolognese, paese natale dello zio Silvestro, nella seconda saletta a sinistra del pianterreno, sul cui soffit-to ligneo si trovava già l’emblema della famiglia Gradenigo (figg. 5 e 6). Nulla

Un disegno planimetrico del 1818, ad opera degli ingegneri Angelo Sacchetti e Bernardo Guarnieri13, dovrebbe in linea di massima rispecchiare ancora la situa-zione cinquecentesca, riconoscibile nella descrizione contenuta nel documento do-tale del 1544 e a sua volta analoga a quel-la presente nella Pianta di Padova pubbli-cata da Giovanni Valle nel 1784 (fig. 3). La distribuzione degli spazi aperti e delle costruzioni è stata mantenuta nel tempo, così come la destinazione d’uso del pa-lazzo principale; è cambiata invece quella degli altri edifici presenti all’interno della proprietà: nelle casette piccole congiunte a la ditta casa grande, che sorgevano sul lato occidentale del giardino e che in ori-gine venivano date in affitto14, furono poi ricavate la rimessa per carrozze, la legna-ia e la tinaia; a questa serie di costruzioni si collegava il lungo muro di recinzione intorno all’appezzamento di terreno adi-bito ad orto e giardino, esteso sul retro fino alla Riviera di S. Soffia e confinan-te a ponente con la proprietà Mantova Benavides, poi Venezze, e a oriente con il monastero dei Teatini. Nelle due case più piccole lungo la strada principale, un tempo utilizzate come abitazione dai fa-miliari del cardinale, furono ricavate al-trettante botteghe15.

Nel corso degli anni è cambiata anche la destinazione d’uso dell’area retrostante il palazzo che da orto botanico e giardino estetico contemplativo nel Cinquecento fu poi trasformata in terreno seminativo, frutteto e vigneto: si ha infatti notizia che dalla fine del Seicento e per quasi tutto il Settecento i Gradenigo affittarono sal-tuariamente l’orto al vicino convento dei padri Teatini, che lo coltivarono per le proprie necessità alimentari16.

Nel 1840 l’intero complesso edilizio ri-sultava intestato al veneziano Pietro Brug-ger. Quest’ultimo, quale libero e legittimo proprietario del palazzo dominicale, cor-te con pozzo, altra corte con pozzo, orto e terra aratoria piantata e vitata, casa a uso di ortolano, con serra di agrumi e fio-ri, rimessa, scuderia, tinaja, legnaja al ci-vico n. 2790, con adiacenti due altre case portanti li civici n. 2798, 2791, il tutto in contrada S. Gaetano17, nel 1847 vendette

2. Palazzo Bembo Cameriniin via Altinate.

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laboriose ricerche archivistiche, Oliviero Ronchi riuscì a individuarla nel palazzo di via Altinate, di cui era allora proprietario il conte Paolo Camerini, che venne quin-di esortato a porre, in ricordo dell’insigne letterato, la lapide che ancor oggi è pre-sente sulla parete di fondo del portico18.

Nel 1936 il Comune di Padova acqui-stò da Paolo Camerini l’intera proprietà immobiliare, della quale però non faceva più parte la porzione di giardino che per-metteva l’accesso all’ex Riviera S. Sofia, poi via Morgagni19. Dopo il fallimento del conte, quest’area era infatti passata in proprietà alle banche creditrici, che si

però si conosce delle eventuali contem-poranee modifiche apportate all’esterno dell’edificio, specie nella facciata retro-stante, che fu certamente rimaneggiata, almeno nell’impianto decorativo, come dimostra l’inserimento dei due stemmi in pietra bianca con l’arma Camerini, ma che tuttavia sembra aver mantenuto alcu-ni elementi della configurazione origina-ria cinquecentesca, come le sottili lesene doriche inquadranti le arcate a tutto sesto delle finestre (fig. 4).

Da segnalare che nel corso degli anni si era persa memoria della bella casa del cardinale, ma nel 1923, dopo lunghe e

3. Particolare della Pianta di Giovanni Valle (1784) con in

evidenza la proprietàBembo Gradenigo.

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Il Palazzo del Bembo in via Altinate

La disposizione interna dei locali del piano terra, come quella del piano nobile, ha lo stesso schema planimetrico comu-ne ad altri edifici del Cinquecento: da un grande androne d’ingresso, sul quale si aprono le stanze laterali, si accede, attra-verso una scala interna con soffitto a botte e decorata con stucchi, al piano superio-re, dove si trova un ampio salone passante con soffitto ligneo suddiviso in riquadri.

Oggi il palazzo, che dal 1956 ospita il Museo della III Armata, risulta intestato al Demanio dello Stato Italiano; solo re-centemente è stata infatti resa esecutiva la permuta, già approvata ben 53 anni fa dal Consiglio comunale con delibera-zione del 20 luglio 1959, con la quale il Comune di Padova ha ceduto al Demanio palazzo Bembo Camerini in cambio del complesso dei Musei Civici agli Eremita-mi, dei quali è diventato finalmente pro-prietario24.

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1) Lettera a Federigo Fregoso Arcivesc. di Sa-lerno, 20 luglio 1522, in P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, vol. II, Bologna 1990, p. 171.

2) L. Puppi, Le residenze di Pietro Bembo “in padoana”, in “L’Arte”, n. 7-8, 1969, pp. 30-65, in particolare p. 35.

3) ASPd, Notarile, b. 1450, c. 8r. 4) La contrada prendeva il nome dalla chiesa di

adoperarono per renderla edificabile20: al posto degli alberi che ancora ornavano il bel giardino vennero realizzati alcuni condomini e le vie Alessio e Lucatello.

Subito dopo l’acquisto da parte del Co-mune, iniziarono i lavori di ampliamento e di adattamento del palazzo di via Alti-nate in vista della sua destinazione a sede del Comando d’Armata: oltre alla siste-mazione dei vani interni e al rifacimento dei pavimenti e del tetto, si provvide an-che alla demolizione della facciata prin-cipale e alla successiva sua ricostruzione in posizione arretrata per permettere l’al-largamento della sede stradale21. Contem-poraneamente furono rifatti gli impianti elettrici e di riscaldamento e studiata una nuova decorazione interna dell’edificio, affidando allo scultore Luigi Strazzabo-sco l’incarico per la realizzazione degli stucchi, delle cornici e dei soprapporta22.

Della fastosa dimora originaria del car-dinale oggi rimane l’edificio principale, anche se rimaneggiato più volte nel corso degli anni, mentre gli splendidi giardini sono purtroppo occupati da nuovi edifici.

L’aspetto esterno del palazzo è sobrio ed elegante; la semplicità delle sue linee architettoniche risponde pienamente ai canoni formali del gusto classicista, nel quale tutto è ordine e simmetria.

La facciata si caratterizza per il profon-do portico sostenuto da due pilastri agli angoli e da dieci colonne doriche inter-medie, tutti in pietra di Costozza bugnata come pure i pilastri del portale d’ingresso sotto il portico; un’alta trabeazione con triglifi e metope divide il piano terreno dai piani superiori: il primo piano è no-bilitato da una quadrifora centrale con ai lati due porte finestre, tutte ad arco a tutto sesto e sottolineate da balaustre sporgenti con colonnine modanate; al secondo pia-no si apre una serie di finestre rettango-lari, mentre un cornicione, con le carat-teristiche dentellature in aggetto, corona l’edificio. La decorazione della facciata è ridotta al minimo e le semplici mem-brature architettoniche servono solo a ri-partire la parete sia orizzontalmente che verticalmente entro le due estreme spor-genze della trabeazione del portico e della cornice sommitale23.

4. Facciata di Palazzo Bembo Camerini verso il cortile interno.

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Roberta Lamon

16) ASPd, Corporazioni soppresse, Teatini, b. 10.

17) ASPd, Notarile, atto n. 18516, notaio Gaeta-no Zabeo, sez. III, Camera 2, b. 11711.

18) O. Ronchi, Inaugurazione lapide Bembo, in “Atti e memorie dell’Accademia di Scienze, Lette-re ed Arti di Padova”, XLII, 1925-26, pp. 420-434. AGCPd, Edificazione lapide Bembo, permesso co-struzione 422/1926, Fondo Atti amministrativi per categorie, b. 666.

19) AGCPd, Contratto di compravendita tra il Comune di Padova e il conte Paolo Camerini, Fondo Contratti, serie I b, n. 2388.

20) L’area corrisponde al mappale n. 1755 del Catasto Austriaco, foglio VIII.

21) La facciata fu ricostruita secondo il modello originale, recuperando la pietra solo degli elemen-ti decorativi e utilizzando invece mattoni nuovi per la muratura. AGCPd, Capitolato d’appalto per le opere di restauro e ampliamento di Palazzo Camerini in via Altinate, 17 luglio 1936, Fondo Contratti, Serie IV, n. 872.

22) AGCPd, Fondo Lavori Pubblici, ex-Polca-stro, b. 186

23) Particolarmente significative sono le analo-gie tra la facciata del padovano Palazzo Bembo e quella di Palazzo Beltramini Pasini ad Asolo, che Giorgio Massari restaurò nel Settecento seguendo un’impostazione cinquecentesca anche se basata su fonti d’ispirazione diverse da quelle del palazzo padovano. A. Massari, Giorgio Massari architetto veneziano del Settecento, Neri Pozza Editore, Vi-cenza 1971, p. 96.

24) Nel 1959, il Comune intendeva assicurare alla città di Padova l’acquisizione del comples-so immobiliare di Piazza Eremitani, adibito ad alloggi per Ufficiali e Sottoufficiali dell’Eserci-to (caserma “Gattamelata”) con la prospettiva di trasferirvi il Museo Civico, cedendo in cambio Palazzo Camerini e la caserma “Martin Vittorio” nell’ex Collegio Pratense. AGCPd, Permuta di immobili tra Il Comune e lo Stato, delib. del Con-siglio Comunale n. 153, 20 luglio 1959. In segui-to a successivi cambiamenti sui diritti riguardanti l’edificio dell’ex Collegio Pratense, la permuta ha riguardato solo palazzo Camerini e l’attuale com-plesso edilizio sede del Museo Civico agli Eremi-tani. Comune di Padova, Archivio Settore Edilizia Monumentale, Atto di permuta Rep. n.79827, 15 giugno 2012.

S. Bartolomeo che sorgeva all’angolo tra le attuali vie Cassan e Altinate. O. Ronchi, La casa di Pietro Bembo a Padova, in “Atti e memorie dell’Accade-mia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova”, vol. 40, 1924, pp. 285-329.

5) F. Piovan, Lampridio, Bembo e altri, in “Ita-lia medioevale e umanistica”, vol. XXX, 1987, pp. 179-197.

6) Nel bando per l’asta dell’immobile era stato infatti stabilito che l’acquirente doveva lasciar la casa al conte Bernardino Fortebraccio fino el vive. L Puppi, Le residenze di Pietro Bembo…, p. 36.

7) F. Piovan, Lampridio, Bembo….p. 194. Il Bembo aveva conosciuto Benedetto Lampridio a Roma, alla corte pontificia di Leone X, e a lui ave-va poi affidato l’educazione del figlio Torquato.

8) L. Puppi, Le residenze di Pietro Bembo… pp. 40-41

9) Nell’opera Gli Asolani, il Bembo illustrò la sua idea classica di giardino alla quale molto pro-babilmente s’ispirò per la realizzazione dell’orto padovano. P. Bussadori, Gli orti botanici patavini tra il XVI ed il XVIII secolo, estr. da “Museolo-gia scientifica”, 14 (1), 1998, pp. 133-144. Dopo la morte del cardinale, l’orto venne curato e ul-teriormente arricchito dal nipote Orazio, figlio di Torquato Bembo, suscitando l’interesse e il com-piacimento dei più importanti botanici italiani e stranieri dell’epoca. O. Ronchi, La casa di Pietro Bembo…..pp. 298-299.

10) A Torquato Bembo fu riservato il diritto di godere del palazzo fino alla morte, avvenuta nel 1595; solo dopo questa data l’intera proprietà pas-sò alla famiglia Gradenigo.

11) Copia parziale del contratto di nozze di Elena Bembo si trova in ASPd, Corporazioni sop-presse, Teatini, b. 10.

12) ASPd, Notarile, atto n. 2388 del 20 ottobre 1820, b. 11404

13) ASPd, Notarile, Pianta dei fabbricati della nobildonna Cornelia Dolfin Gradenigo, 31 otto-bre 1818, atto n. 2388, b. 11404.

14) I documenti d’archivio riferiscono di alcu-ne “camera e bottega contigua alla Dominicale”, affittate ad artigiani. ASPd, Estimo 1615, Inquisi-zione del quartiere di Ponte Altinà, b. 288, c. 48v.

15) Nel 1615 una di queste botteghe risultava affittata al libraio Pietro Paolo Tozzi per 40 denari. ASPd, Estimo 1615, Inquisizione del quartiere di Ponte Altinà, b. 288, c. 48v.

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5. Stemma Gradenigoall'interno di Palazzo Bembo.

6. Stemma di Castel Bolognese all'interno di Palazzo Bembo

(foto di F. Benucci).

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Alcune note sulla Padova artistica al tempo di Pietro Bembo

Alcune notesulla Padova artisticaal tempodi Pietro Bembo

Pietro Bembo e la ’compagnia degli amici padovani’ Alvise Cornaroe Marco Mantova Benavides nei loro rapporti con gli ambienti artistici veneti dominati da pittori come Tiziano e Domenico Campagnola.

L’insediamento nella città dello Studium, in apertura del terzo decennio del Cinque-cento, non può non rappresentare un cam-biamento cruciale di paesaggi e frequenta-zioni culturali per un Pietro Bembo redu-ce da partecipate esperienze cortigiane e curiali. Così la stanza a Padova del “padre delle Muse” non deve essere stata senza conseguenze sul tono della vita culturale cittadina. Ciò è in gran parte da attribu-irsi alla sua figura intellettuale di Pater e maestro, autorevole mentore e inventore di carriere letterarie e collezionistiche. Meno rilevante nel suscitare passioni per lo studio e la filologia si direbbe il suo pa-trimonio di “ricchezze virtuose”, a dispo-sizione di ammiratori e visitatori raccolti entro una cerchia ristretta. La collezione bembiana seleziona un pubblico esclusi-vo, composto da coloro che hanno l’onore di avere accesso all’ Hospitium musarum per essere ammessi così in una casta di in-tellettuali, antichisti, letterati e artisti, pro-mossi ed elevati a tale rango proprio dalla vicinanza al Pater.

Sono troppo noti i debiti contratti nei suoi confronti in termini di stimolo, inco-raggiamento ed educazione da collezionisti di antichità (medaglie, monete, ‘petti’ ed epigrafi) come Alessandro Maggi da Bas-sano, Girolamo e Francesco Querini, e lo stesso Marco Mantova Benavides, perché si debba ritornare in questa sede sull’argo-mento1.

Non altrettanto centrale si staglia la sua

figura nel campo delle arti figurative, no-nostante le cautele consigliate dalla lacu-nosità delle testimonianze su questo aspet-to. Oltrettutto siamo sprovvisti di un qua-dro definitivo in merito alla composizione della quadreria messa insieme dall’autore delle Prose della volgar lingua e transitata dalle varie abitazioni padovane fino all’ul-tima residenza, la casa di san Bartolomeo (oggi via Altinate), lasciata nelle mani di fidati custodi al momento della sua par-tenza alla volta di Roma per indossare la porpora cardinalizia.

È noto che il più rappresentativo inven-tario della galleria bembiana sia quello compilato da Marcantonio Michiel poco dopo la metà degli anni venti, dunque all’inizio di un prolungato soggiorno, den-so di esperienze e incontri, ancora caratte-rizzato da un certa provvisorietà residen-ziale. Stando alle lettere del veneziano, la quadreria non ebbe quell’incremento continuo che invece godette la sezione antiquaria e numismatica, arricchita di molti nuovi reperti anche durante gli anni trenta. Se qualche acquisizione – per altro immeritevole di memoria – vi fu, non ven-ne comunque a modificare nella sostanza l’identità della collezione di pitture, qua-le specchio di un umanista formatosi alla fine del secolo precedente ed educato ai codici visivi della corte. Non stupisce che Bembo si circondi dei prodotti di ‘artisti umanisti’, come Giulio Campagnola, e raccolga soprattutto ritratti di famigliari

diVincenzo

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e amici, oltre che propri. Il pezzo forte della galleria è sicuramente il Ritratto di Andrea Navagero e Agostino Beaziano di Raffaello, oggi nella Galleria Doria Pam-philj di Roma: una reliquia del “divino” maestro e forse l’unico specimen della maniera moderna in suo possesso in quel momento. Reperto certo caro allo stesso proprietario e non solo per il valore me-moriale e impressivo

Per Bembo, “che lo mette uguale a Mi-chelangelo” (L. Dolce), Raffaello finisce probabilmente per incarnare un modello normativo in campo pittorico, un modello assoluto, fissato, stabilizzato e persino de-storicizzato ai suoi occhi come gli optimi auctores del passato. Si capisce facilmen-te allora la noncuranza dell’ideologo del dogma classicista verso il milieu artistico padovano, in quegli anni ancora percorso da umori nordici di registro basso. Attra-verso gli amici antichisti, poteva giungere ai pittori locali l’incitamento bembiano a perseguire, attraverso lo studio e l’imita-zione delle “belle antiche figure di marmo e talora di rame”, l’eccellenza nell’arte, purché si potesse contare su modelli resti-tuiti alla loro veste autentica dalla filolo-gia. Se mai capitate sotto lo sguardo del patrizio, difficilmente avrebbero incontra-to la sua approvazione certe ricostruzioni dell’Antico stilisticamente segnate da una rilettura a elevata temperatura sentimen-tale ed espressiva circolanti in città. Basti pensare a certi studi grafici a penna di Ste-fano dall’Arzere, derivati da modelli scul-torei antichi, come lo Studio di torso e la Scena di sacrificio degli Uffizi. Non è in-vece del tutto da escludere una complicità del letterato nel progressivo aprirsi della pittura padovana agli assunti del classici-smo romano e raffaellesco.

Pochi dubbi sul fatto che “le due teste di Raffaello d’Urbino” potessero rappresen-tare per i pittori veneti l’attrazione prin-cipale della casa del Bembo e che qual-che privilegiato avesse potuto prenderne visione, compreso lo stesso Tiziano. In questo cenacolo di intellettuali votati agli Studia humanitatis il Vecellio si guadagna il massimo di considerazione ed è corteg-giato come un Raffaello redivivo. Otten-gono un suo ritratto, oltre a Bembo e al segretario Antonio Anselmi, Marco Man-tova Benavides, Sperone Speroni, senza

dimenticare il leader dei cosidetti fuori-sciti, toscani Benedetto Varchi. Altri inter-locutori del letterato si fanno immortalare dal Cadorino, a cominciare dal vescovo di Fano Cosmo Gheri e da Ludovico Becca-delli, membri della “Costogeria Comitia”, cioè partecipanti al “Liceo” aperto nella casa padovana di Gheri. Persino il filosofo ‘infiammato’ Bernardino Tomitano, “già tempo caro alli Bembi..”, avrà un ritratto uscito dalla bottega di Tiziano2.

Tiziano è certo eletto pittore ufficiale di questa élite con propensioni accademiche, ma non è detto che la sua ritrattistica reto-rica e nobilitante, “che presenta il vero col pennello” (F. Marcolini), abbia soddisfat-to i gusti di Bembo. L’appoggio incondi-zionato fornito a Tiziano da un antibem-biano a singhiozzo del calibro di Pietro Aretino, in quanto campione della natu-ralezza, proietta il Cadorino nel vivo di una disputa (non solo letteraria) che vede contrapporre la poetica della Natura alla civiltà dell’imitazione imposta da Bembo.

Ci sono ragioni per pensare che il let-terato potesse sentire vicino alla sua sen-sibilità, più del noto ritratto tizianesco di Washington, il più volte replicato ritrat-to di profilo ispirato da una medaglia. È noto infatti l’interesse dello storico e numismatico per le effigi monetarie – le “somiglianze” secondo il suo vocabolario – che lo misero in relazione con il cele-

1. D. Campagnola, Ritratto di Gian Pietro Mantova,

ubicazione ignota.

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za di quella famiglia di collezionisti in relazione anche con Gian Pietro Manto-va Benavides4. Già scomparso nel 1531, Alessandro potrebbe essere il commit-tente anche della grande tela raffigurante la Decollazione del Battista dello stesso Campagnola approdata anch’essa al mu-seo patavino5.

Tra gli interlocutori padovani di Bem-bo figura Alvise Cornaro, edificatore del complesso nei pressi del Santo composto da unità edilizie raccolte attorno alla cor-te, su cui si affacciano la celebre loggia e l’Odeo. Qui aveva la sua dimora anche il genero Giovanni Cornaro Piscopia, futuro principe dell’Accademia degli Infiamma-ti, che con il padre Fantino rientra nel no-vero degli amatori di antichità, visto che quest’ultimo non si fa scrupoli di sottrarre un “petto”, cioè un busto romano, niente-meno che a Bembo stesso, guadagnadosi espressioni di malcelato disprezzo.

Della casa di Alvise Pietro non è spo-radico frequentatore, se non altro nella

bre Valerio Belli e con il fiorentino Ben-venuto Cellini3. Prevedibile anche un suo interesse per i conii del rinomato padova-no Giovanni Da Cavino, autore di meda-glie celebrative con il profilo degli amici Marco Mantova Benavides, Alessandro Maggi da Bassano vetustatis inquisitor e Francesco Querini, figlio del seguace di vecchia data Gerolamo e mancato sposo della figlia Chiara.

A Padova, negli anni del soggiorno di Bembo, il ritratto selettivo di tipo mone-tale aveva incontrato notevole fortuna so-prattutto nei circoli antiquari e numisma-tici e aveva finito per suggerire la linea anche nella produzione pittorica. Marco Mantova aveva chiesto a Domenico Cam-pagnola di realizzare un ricordo visivo del padre Gian Pietro, con “pictura e subscrip-tio”, ispirandosi ad un conio “fictum pro antiquo” fuso sul 1530 dal Cavino per in-serirlo in un sorta di album di famiglia a corredo dello studiolo (fig. 1).

Va da sé che a Padova, fuori da questa sodalitas fedele all’autorità dell’Antico, ha maggiore seguito un tipo di ritrattistica più tradizionale che guarda ai modelli del-la pittura postgiorgionesca.

Come si concepisse un ritratto nella Pa-dova che da poco aveva accolto il Bembo lo illustra un sottovalutato dipinto giunto per vie oscure al Museo Civico della cit-tà3: un testo esemplare di Domenico Cam-pagnola che avrebbe ben figurato nella mostra dedicata a Pietro Bembo (fig. 2). Una volta restituita al corpus figurativo del caposcuola, l’opera si presta a docu-mentarne la sua produzione di metà anni venti per confronto con analoghi testi di quel momento, dal Ritratto di Teofilo Fo-lengo di Bernardino Licinio al Ritratto di Francesco Querini della Galleria Querini Stampalia dipinto da Palma il Vecchio. Una tradizione niente affatto autorevole identifica il ritrattato con il celebre ribelle padovano Bertuccio Bagarotti, giustiziato dalla Repubblica Serenissima nel 1509 dopo la riconquista della città liviana: ma si tratta quasi sicuramente di una fantasia romantica della storiografia ottocentesca. Meno campata in aria invece la possibi-lità che quello pervenuto al Museo sia il Ritratto di Alessandro Amai del Campa-gnola, conservato fino all’inizio del Sei-cento nella casa a Santa Croce, residen-

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2. D. Campagnola, Ritratto di uomo (Alessandro Amai?),

Padova, Museo Civico.

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pera sulla traccia di excerpta dell’antico o del classicismo romano, come le ben note “carte raffaellesche”8. Uno di questi maestri misteriosi potrebbe rispondere al nome di Giovanni Battista Ferro, che si fa cogliere nel 1538, quando cioè il cantiere è in piena attività, a presenziare proprio nella casa del mecenate da testimone, in concorso con un famiglio del Cornaro, al rogito di un atto riguardante Pierio Vale-riano9. Farebbe il paio con il carneade ap-pena indicato l’oscuro “W. Fano” che anni dopo iscrive il suo nome su un affresco del secondo piano, se non fosse perlomeno problematica la sua identità10.

Cornaro e Bembo (e anche l’amico Mar-cantonio Michiel, probabilmente incrocia-to a Roma) si saranno comunque incon-trati sul terreno della comune venerazione per Raffaello e la sua maniera, dato che proprio Alvise è il primo a importare e dif-fondere a Padova le invenzioni dell’Urbi-nate. Stampe e forse anche copie grafiche ha in mano Gerolamo Tessari nell’atto di mettere mano alla decorazione esterna della sua casa al Santo, in una data assai precoce, visto che deve precedere la metà degli anni venti, quando lo stesso artista utilizza stampe raffaellesche di Marcan-tonio Raimondi sulla volta della cappella di san Francesco Grande. Dirigendosi alla casa di Alvise, lungo via San Francesco, Pietro Bembo, in quel tardo pomeriggio del 1533, non avrà mancato di lasciare scorrere l’occhio sul paramento ad affre-sco della facciata, prima di accedere alla

circostanza delle recite di commedie di Ruzante allestite nella corte durante il car-nevale. Una sua lettera del 1533 al nipote Gian Matteo Bembo fa riferimento pro-prio ad una serata del genere in compagnia degli amici Gerolamo Querini e Bernardo Navagero. Se non durante il carnevale del 1533, certo in qualche altra circostanza alla comitiva si deve essere accompagna-to Pierio Valeriano, autore del celebre Hi-roglyphica, dimorante nei frequenti sog-giorni padovani proprio in casa di Alvise. Durante una di queste presenze, magari proprio su incarico dello stesso Alvise, il pittore Gerolamo Tessari detto il Santo ritrae l’umanista in un dipinto pervenuto oggi al Museo Civico di Belluno6 (fig. 3).

Benchè le commedie ruzantiane venis-sero recitate con il corredo di allestimenti scenografici essenziali, se non provvisori, non si può escludere che in qualche occa-sione Alvise mettesse al lavoro gli artisti al suo servizio per conferire una maggiore definizione ai fondali. Prestazioni del ge-nere non si possono escludere per il pit-tore Gualtiero dall’Arzere, ma sono assai probabili nel caso del cognato Tiziano Mi-nio, scultore avviato anche a una carriera di allestitore di apparati effimeri culmi-nata nell’impresa della Talanta di Pietro Aretino nel 15427. Minio è anche il pro-tagonista, nella seconda metà degli anni trenta, della decorazione interna dell’O-deo Cornaro, “appartamento” e ricetto per la musica e la conversazione “con molti onorati gentiluomini grandi d’intelletto, e di costumi e di lettere” che Bembo avrà fatto in tempo a visitare in corso d’ope-ra, guadagnandosi la “piaggeria” del suo stemma sulla volta della sala di Ercole.

La decorazione dell’Odeo si fa ricor-dare soprattutto per gli stucchi di Tiziano Minio, di un gusto postclassico tra San-sovino e Giulio Romano. Se si esclude la lezione di paesaggismo ecfrastico impar-tita da Lambert Sustris sulle pareti del-la sala ottagona, posteriore all’uscita di Bembo dalla scena padovana, la compo-nente figurativa invece non appare degna di particolare nota, in linea del resto con le scarse pretese del parsimonioso pro-prietario. Nonostante qualche volenteroso esercizio attributivo, sfugge al momento l’identità del pittori attivi nel cantiere: pittori comunque di secondo piano all’o-

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3. G. Tessari detto dal Santo, Ritratto di Pierio Valeriano,

Belluno, Museo Civico.

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2) V. Mancini, Ritratti di cattedratici padovani tra Cinque e Seicento, in “Padova e il suo territo-rio”, 74, agosto, 1998, p. 16.

3) E. Saccomani, in Da Bellini a Tintoretto, Di-pinti dei Musei Civici di Padova dalla metà del Quattrocento ai primi del Seicento, a cura di A. Ballarin e D. Banzato, Roma 1991, pp. 253-254, n. 180.

4) A. Sartori, Documenti per la storia dell’arte a Padova, Vicenza 1976, p. 54 e Mancini, “Ver-tuosi”, cit., p. 98. Gli Amai del ramo padovano possedevano una consistente quadreria con opere di Giovanni Bellini e una galleria di ritratti raffi-guranti leggendari antenati (V. Mancini, La pittura a Padova dal tardomanierismo al barocco, tesi di dottorato, Università di Udine, 2002, p. 228 ).

5) Sull’opera si veda Saccomani, in Da Bellini, cit., pp. 145-146.

6) V. Mancini, In margine a un volume mono-grafico su Paolo Pino, artista e teorico, in “Arte Veneta”, 46, 1999, p. 88.

7) V. Mancini, Schede di pittura padovana del Cinquecento, in “Atti dell’Istituto Veneto di Scien-ze, Lettere ed Arti”, CLV, 1996-1997, pp. 221.

8) Si badi che le informazioni su quanto si era fatto a Roma e poi a Mantova giungono di prima mano, perché se è vero, a esempio, che viene ri-prodotto ad affresco il bulino con Scena di Bat-taglia di Gian Giacomo Caraglio su disegno di Giulio Romano, lo si trasporta nella tecnica tipica-mente raffaellesca della terretta rossa.

9) Citato in F. Piovan, Schede padovane per Pierio Valeriano, in “Italia Medievale e Umanisti-ca”, 1994, p. 281.

10) Segnalato da A.M. Spiazzi, La decorazio-ne della Loggia e dell’Odeo Cornaro, in Angelo Beolco detto Ruzante. IV Convegno internaziona-le di Studi sul Ruzante, (1995), Padova 1997, p. 211-232. A Padova non mancavano emigrati fane-si anche di qualche rilievo, come Goro Gualteruz-zi da Fano allievo di Pietro Bembo. Un “Alvise da Fanno” si presenta nel 1537 davanti al notaio Gaspare Villani per sottoscrivere un atto avendo come testimoni Domenico Campagnola e France-sco Corona, pittore, quest’ultimo, attivo nell’orbi-ta del primo, di cui poco si sa (A.S.Pd., Notarile, 4833, c. 362).

11) Venduto con l’esatta attribuzione presso la Sotheby’s di Londra il 1° luglio 2002, lotto 82.

corte, trasformata per la circostanza in platea.

Alla comunità degli ammiratori dell’Ur-binate si inscrive un altro raccoglitore di ‘anticaglie’, quel Marco Mantova Benvi-des in possesso del “quadretto a oglio del S. Hieronimo, che fa penitenza nel deser-to, fu di mano di Rafaello d’Urbino” indi-viduato da Marcantonio Michiel nella sua casa a Sant’Urbano, oltre che di diverse carte dei suoi divulgatori a stampa.

Epicentro di una straordinariamente ra-mificata rete relazionale estesa all’intera Res pubblica litterarum, l’aristocratico Bembo guarda con distacco al mondo del-le arti figurative, senza fare troppa distin-zione tra Padova e la capitale marciana, evitata prima del 1530 circa. Ben diverso l’atteggiamento del giusperito e poligra-fo Marco Mantova che si compiace di familiarizzare con gli artisti, sentendosi a proprio agio nella veste di “mecena-te, amatore de tutti i virtuosi, di pittori e scultori”. È pertanto l’operatore che mag-giormente potrebbe aver contribuito, sulla scia di Bembo e Cornaro, a cooptare gli artefici locali in quel sistema di modelli aurei, a cominciare dal suo pittore di casa Domenico Campagnola. Non sono pochi i numeri del suo corpus nei quali il pit-tore “raffaelliza”, ma forse in nessuna in-venzione come nel grande foglio a penna raffigurante La resurrezione di Lazzaro si avvicina al senso di certe scene corali del Rinascimento romano, e lo fa costruendo un complesso telaio spaziale di monu-mentali architetture classiche (esente da connotazioni scenografiche alla Serlio) in modo da creare un’ambientazione colta e una cassa di risonanza per le figure mosse da un brulicante vitalismo e da un’energia scomposta propria del pittore11 (fig.4).

l

Il testo riprende i temi trattati nel mio volume “Vertuosi” e artisti. Saggi sul collezionismo anti-quario e numismatico tra Padova e Venezia nei se-coli XVI e XVII, Padova 2005, al quale si rimanda per maggiori ragguagli e riferimenti bibliografici.

1) Si veda inoltre G. Bodon, “Omnis generis antiquitatis refertum”. Qualche considerazione sul museum di Pietro Bembo, in Veneranda Anti-quitatis, Bern 2005, pp. 51-67.

4. D. Campagnola, Resurrezione di Lazzaro,

ubicazione ignota.

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Gino Belloni

Come il Bembodivenne il signoredella lingua italiana

Si spiega una vicenda importante alla base della competenza del Bembosul toscano antico, che è a dire alla base del suo indisturbato predominiosulla lingua nell'Italia delle Corti del medio Cinquecento.

Poco più che adolescente Pietro Bembo scambiava effusioni e versi amorosi con Lucrezia Borgia, e ci provava anche scri-vendo in spagnolo secondo la moda di lei (Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod. S.P: II. 100). È forse leggenda che tra i fasci-coli di questo codice ci fosse la ciocca di capelli biondi di Lucrezia, oggi conservati in una teca della stessa sede, caso più uni-co che raro perché fra i codici delle varie biblioteche non capita di trovare mano-scritti come uova di Pasqua, cioè con la sorpresa dentro. Per un giovane venezia-no Lucrezia, duchessa di Ferrara, era una conquista mica da niente. Pietro era sem-pre il figlio di un nobile, Bernardo, mer-cante intellettuale di spicco, molto noto nella sua città, e dalla sua poteva vantare un sicuro appeal nel momento in cui gli era concesso ancora di decidere a favore o di una fortuna politica nella repubblicana Venezia, o di una carriera ecclesiastica ai ranghi più alti, magari sotto la protezione di qualche Principe italiano. Se non voleva darsi alla mercatura, un letterato umanista come lui, o come il ferrarese Ariosto o come il fiorentino Machiavelli non aveva molte altre strade da percorrere: protezio-ne di un principe in una corte, prebende da canonicati e vescovadi di sedi che non era poi necessario, nei fatti, abitare. Ter-zo, l’insegnamento in uno Studium, cioè all’università, modello quest’ultimo che l’adolescente Bembo aveva visto im-personato nel grande Poliziano, amico di Lorenzo dei Medici. Poliziano, anni prima, era stato ospite in casa sua a Ve-nezia, giunto da Firenze per consultare di persona un vetusto codice di Terenzio

di proprietà di Bernardo: allora il giova-ne Pietro aveva allungato il collo dietro il capo dell’ umanista e professore fiorentino sfiorandogli le vesti. Fra queste possibili-tà di carriera, il Bembo avrebbe utilizzato l’opzione dell’impegno ecclesiastico, per arrivare nientemeno che alla Corte delle Corti, ovvero la corte papale, quella che ogni umanista del tempo avrebbe sogna-to, dove intanto egli fu chiamato nel 1513 dal pontefice Leone X, come deputato a mettere nel miglior latino gli editti di lui. “Segretario ai brevi”, si diceva, i brevi es-sendo infatti i dispacci (brevi o lunghi che fossero) emanati dal pontefice. Ovvio che ciò poté succedere perché il Bembo aveva tutte le carte in regola come conoscitore del latino aureo, capace cioè di dare alla scrittura epistolare e normativa del papa la veste sontuosamente appropriata che da quella penna doveva uscire. Il latino d’u-so signorile, diciamo dai tempi di Petrar-ca in poi, era andato rimodellandosi sulla scrittura dei grandi dell’antichità, sicché quello che potremmo definire il latino di cancelleria, tra fine ’400 e ’500 era diven-tato, sia detto un po’ generalizzando, assai più educato e ciceroniano (cioè più simile a quello che ha studiato la generazione, ancora, dell’ultimo dopoguerra) del latino del Due e Trecento. Ciò fu dovuto proprio alla pressione della cultura degli Umanisti, che erano potuti infatti assurgere alle cari-che politiche, e divenire anche cancellieri, sia a Firenze (Coluccio Salutati , il primo), sia altrove. E il latino di Leonardo Bruni se non di Coluccio stesso era uscito infatti più composto e classicheggiante di quello del Petrarca, quest’ultimo con qualche de-

diGino Belloni

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Come il Bembo divenne il signore della lingua italiana

cennio di vantaggio girato come modello in tutta Europa.

Alla corte del papa, dove il latino certo era di casa come lingua della ecclesia e della liturgia, il Bembo, pur attorniato nel-le sale vaticane dalle lingue nazionali dei prelati stranieri, vantava non solo un pri-mato in quanto – si direbbe oggi – latinista. Dominava infatti, e certo con altrettanta notorietà, il campo delle lettere italiane, e quasi da indiscusso tiranno: al quale uno scrittore o letteratucolo che osava pubbli-care da qualsiasi parte d’Italia un suo scrit-to, era conveniente si inchinasse, con mille moine scusandosi di mettersi alla prova. È oggi persino stucchevole assistere alla ge-nuflessioni nelle varie dediche o nei proe-mi cinquecenteschi o in altri corridoi della letteratura militante di medio ’500. Una raccolta di questi salamelecchi pro Bembo a stampa – per fortuna –, non è stata fatta, ma un breve saggio non basterebbe a con-tenerla. La riconosciuta preminenza nel campo del volgare del Bembo, se ai tempi del suo amore con Lucrezia non avrebbe costituito titolo in un curriculum diciamo di alto segretariato, ora invece, e anche per merito suo, offriva una credenziale da te-nere in tutta considerazione, perché in que-sti trent’anni il volgare aveva preso piede nelle cancellerie, e con esso anche quella fortuna, che con Petrarca era iniziata, di una poesia italiana illustre di largo con-sumo cortigiano; e si prestava così linda, nobile e imitabile che era stata esportata in tutta Europa. Di questa letteratura o in prosa o in endecasillabi il Bembo, appun-to, aveva nel 1525 formalizzato un cano-ne, severamente ritornando alla lingua di Petrarca per la lirica, per la prosa invece additando il primato dell’opera maggiore di un altro grande trecentista fiorentino, Giovanni Boccaccio. Questo svincolo de-cisivo della storia letteraria è più o meno noto ad ogni studente della scuola supe-riore. Altrettanto evidente è che la compe-tenza in materia di volgare fosse diventata via via una patente anche per il cortigiano stipendiato, dacché le cancellerie avevano cominciato a dismettere il latino, e anche perché nel frattempo il Rinascimento delle arti, soprattutto in Italia, s’era portato die-tro quello delle lettere. Proprio da poco era nata una nobile letteratura italiana in prosa che fra gli altri libri annoverava, guarda caso, un monumento che faceva ogget-

to di letteratura la vita della corte, le sue grandezze e i suoi comportamenti: il Cor-tegiano di Baldassare Castiglione, ma ci si metta anche il Galateo di Giovanni Della Casa. E proprio tra il secondo ed il quarto decennio del secolo anche un capolavoro in versi come l’Orlando furioso (1516 pri-ma scrittura) dell’ Ariosto, s’era imposto, come prima quello in prosa del Castiglio-ne, rimodellandosi sul toscano: in questo caso con il lavare più volte (1521, 1532) nelle acque dell’Arno una prosa la quale, anche se un po’ depurata, sempre era uscita dalle acque padane.

Ma come e in che modo il Bembo, la lingua della cui balia era schiettamen-te veneziana, per fonetica, morfologia e sintassi, riuscì ad imporsi in Italia, con la proposta classicista toscana? E fra in-tellettuali di corte che facevano il tifo per altri concorrenti, magari di casa? Come riuscì a diventare il Signore della lingua antica dei fiorentini, lui veneto? Provia-

L'originale del Canzonieredel Petrarca

posseduto dal Bembo (Biblioteca Apostolica Vaticana,

ms. Vat. lat. 3195, c. 1r).

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possono diminuire, per via di successivi avvicinamenti, gli effetti di paradosso.

Tutto nacque da un incidente. Chiamia-molo pure accidente. Dobbiamo tornare al 1500, l’ultimo anno del secolo, quan-do al giovane Bembo, tornato da Messina dov’era andato a studiare il greco, il gran-de editore Aldo Manuzio commissionò di curare una collana di libri italiani degna dell’altra che intanto egli aveva aper-to per i libri greci. Non che allora, come oggi, circolassero le collane, tutt’altro, ma qualche grande editore, a Roma per esempio (Andrea Bussi), o a Venezia ap-punto (il romano Aldo), aveva concepito la serialità collegata ad una idea-progetto. Bembo si mise al lavoro cominciando da Petrarca. Un intellettuale del suo calibro non poteva prendere uno dei pochi incu-naboli che già c’erano e rabberciarlo con qualche buona congettura o ricorrendo ad un manoscritto qualsivoglia (di solito contrabbandato come antico e autorevole). Era il caso di servirsi invece del più avan-zato e nobile artigianato degli Umanisti, e fondare il testo sul confronto di più codi-ci, proprio come, senza voler fare edizioni vere e proprie di testi, aveva insegnato il Poliziano, il vecchio ospite di casa sua. Il veneziano aveva così proceduto serven-dosi di più manoscritti, uno da lui detto Tuscus, ed un altro Obicianus, quando riuscì a raggiungere un codice padovano, non lontano quindi da lui, che aveva pure

mo qui a rispondere con un argomento non frusto ma convincente. Si potrebbe facilmente ridurre la risposta alla osserva-zione che come il Bembo si affermò per vocazione e con studio e passione nelle lettere latine sino ad ottenere il segreta-riato ai brevi, così la stessa applicazione e vocazione sarebbe bastata per imporsi nel verde campo – da quale pulpito non si sa – delle lettere italiane. Ma sarebbe una risposta che non tiene conto dei pre-supposti. Se infatti una letteratura e una lingua latina c’erano ed avevano ottenuto una patente dall’Umanesimo, una lingua e una letteratura italiana non c’erano, o me-glio erano tutte da codificare. Anche se si fosse voluto proporre una soluzione clas-sicistica – che era, s’è visto, l’opzione sua – bisognava dimostrare che un modello risalente a ben due secoli prima era prati-cabile e aggiornato, e per farlo bisognava di quella lingua, anche allora certo invec-chiata, proporre e le regole e gli attributi costitutivi. I fiorentini, e Machiavelli con loro, non ci stavano a fare le comparse, quando era in gioco la lingua loro, ed a Bembo opponevano non la loro antica lin-gua, ma quella moderna ed attuale. Eppoi, quale antica toscana proporre? Come si poteva farlo? Solamente potendo fidarsi dei testi. Di quei libri appunto che ne pre-supponevano l’eccellenza. E qui stava il problema, perché appunto i testi viaggia-vano negli incunaboli e nelle edizioni più varie, senza nessuna garanzia di correttez-za ed affidabilità. Il compito di provvede-re, oggi se lo prenderebbe una disciplina che chiamiamo filologia. E la filologia che dagli umanisti era stata bene o male prati-cata sui testi classici era allora una disci-plina ancor lungi dal poter essere tentata per testi in volgare, i quali possedevano sì una storia, diciamo una tradizione, ma essa era troppo più giovane e diversa da quella dei latini e greci. Ma soprattutto era, lì all’inizio, un pasticcio da gatto che si morde la coda: per codificare una lin-gua sono necessari i testi (originali), ma per allestire i testi (in originale) è neces-saria una lingua (che non era codificata). Aggiungo che ad uno stato più avanza-to, questa difficoltà nel rapporto tra testi e lingua, in grado minore, è pur sempre in agguato, ma all’impatto degli inizi, si prospetta come una vera e propria aporia, della quale solo gli affinamenti del tempo

Incunabolo del Canzonieree dei Trionfi stampato a Venezia

nel 1470 da Vindelino da Spira in una copia miniata posseduta

dalla Biblioteca Querinianadi Brescia.

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Come il Bembo divenne il signore della lingua italiana

Postilla a questa storia. Il paziente con-fronto dei testimoni di un testo (per i libri più fortunati spesso un’impresa erculea) ed il suo prodotto, ovvero le varianti dei manoscritti, non servirono solo all’editoria ed alla concorrenza degli editori, ma, evi-denziando come problema il rapporto tra il possibile e l’esistente in una lingua, hanno dimostrato di affinarne la percezione delle dinamiche e delle possibilità, facendo sì che filologia e storia della lingua conviva-no e crescano come sorelle solidali e reci-procamente legate: senza le quali la storia letteraria rischia di rimanere zoppa e senza passato. Questo stesso insegnamento si ri-cava, a posteriori, anche dalla storia molto poco nota, e anzi da fare per quanto riguar-da i testi spogliati, che contraddistinse, al tramonto dello stesso secolo, anche la na-scita del primo Dizionario della Crusca, alla fine pubblicato nel 1612, un’ impre-sa che, quando oramai non esportavamo più niente oltr’Alpe, ha insegnato a tutta Europa, e della quale si celebra appunto quest’anno il quarto centenario. C’è un pe-riodico semestrale (La Crusca per voi) che ne tiene vivo il ricordo per il largo pubbli-co, e che risponde con sollecita vivacità ai lettori sulle curiosità più varie.

l

una sua fama – voci o pettegolezzi tutti da vagliare – ed era posseduto da una fami-glia di intellettuali e medici. Fortuna for-tes adiuvat, oppure, come diceva un gran maestro del Novecento, ribaltando il pro-verbio: Chi trova cerca. Il suo merito fu di capire immediatamente che quel codice, oggi Vaticano Latino 3195, era originale del Petrarca non per fama millantata, ma per autorevolezza di lezioni (un facsimile è stato recentemente ristampato dalla An-tenore, per le cure di Furio Brugnolo ed altri). Ma ecco il punto: la sua fortuna fu quella di trovarlo in netto ritardo: quando aveva già compiuto tutto il lavoro, ovvero quando aveva fatto la fatica di costruire su gli altri testimoni, tessera per tessera, la presunta lingua del Petrarca lirico. Ora però si trovava improvvisamente davanti la risoluzione del caso. E infatti corresse il suo testo (oggi Vaticano latino 3197) sul codice ritrovato, che seguì per i pochi componimenti rimasti. Ma dell’acciden-te seppe servirsi al meglio. Poteva infatti ora confrontare le sue scelte grammati-cali, lessicali, d’uso e di stile, sulle quali molto aveva ragionato e arzigogolato, con la soluzione del problema. Fu proprio il confronto fra il suo esercizio di ricostru-zione ed il ritrovato originale a dare uno spessore profondo ed inarrivabile alla sua competenza sul toscano. Ed in più verificò anche che il Petrarca – come è poi di tutti gli scrittori, ma vallo a riscontrare! Allora soprattutto! – non era poi così uguale a se stesso, e proprio studiando questi dislivel-li, egli toccò nei singoli anfratti e scoperse nei dettagli più nascosti l’impasto della lingua del grande poeta. Se fosse partito da questo manoscritto, mai egli avrebbe potuto giovarsi di una tale esperienza. Il testo aldino intanto era uscito fra molte polemiche e invidie, nonostante o proprio perché si dichiarava fondato sul Petrar-ca originale. Questa è un’altra bella vi-cenda, che qui non si può seguire. Fatto sta che il Bembo ne seppe profittare non come correttore di testi, mestiere che non era (se poi lo sarebbe stato mai) così illu-stre, ma sull’altra scacchiera, quella della competenza sul volgare. Si direbbe che il momento era il più propizio, ma è anche vero che lo rese propizio lui. Come lettera-to, questo cardinalato linguistico gli giovò più di quello vero, che avrebbe raggiunto nel 1539.

Alfredo Ravasco, Teca contenente una ciocca

di capelli di Lucrezia Borgia (Milano, Biblioteca

Ambrosiana).

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Rosella Lauber

Note sulla collezioned’arte ‘In casa diMesser Pietro Bembo’a Padova

Un excursus attraverso le opere della collezione Bembo,a partire dalla fondamentale descrizione del manoscritto autografodi Marcantonio Michiel, con novità documentarie.

Alle opere custodite «In casa di Messer Pietro Bembo» a Padova sono dedicate carte, non datate, vergate dal dotto patrizio veneziano Marcantonio Michiel (1484-1552) nel suo manoscritto autografo detto Notizia d’opere di disegno, conservato ora nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. La ricognizione di Michiel del-la collezione padovana di Pietro Bembo (definito «Messer» e dunque non ancora insignito della dignità cardinalizia, predi-sposta «in pectore» da Paolo III Farnese nel dicembre 1538 e pubblicata nel marzo 1539) dovette estendersi in diversi spazi e lungo un ampio arco temporale, secondo una nostra nuova proposta di lettura: ov-vero dal terzo decennio del Cinquecento (e ante 12 luglio 1526) sino alle ultime aggiunte, che riteniamo databili verso il 1537 e prima del 29 luglio 1538.

La cronologia ipotizzabile per annota-zioni, correzioni e addenda di Michiel nelle carte dell’autografo marciano rela-tive alla raccolta dei Bembo, avviata dal padre Bernardo e proseguita e incremen-tata dal figlio Pietro, può introdurre preci-sazioni su opere la cui presenza nella casa padovana è certificata per la prima volta dalla testimonianza di Michiel. Il patrizio, partecipe nonché protagonista del mede-simo ambiente culturale di Pietro Bembo, da Venezia a Roma a Padova, descrive la collezione d’arte dell’amico da un osser-vatorio privilegiato. L’antica e frequente consuetudine di Marcantonio Michiel con Pietro Bembo, risalente agli anni giovani-

li, trova conferma nei Diari di Michiel e in numerose citazioni nei rispettivi carteggi. Marcantonio risulta destinatario di lettere di Pietro ed è da lui menzionato in diverse occorrenze soprattutto dal 1526 al 1532 (e in particolare nel 1529, quando sono però citati due omonimi, da distinguere l’uno nel dotto autore della Notizia, Marcan-tonio di Vettore Michiel, mentre l’altro è identificabile in Marco Michiel quondam Alvise, bandito nel 1516 e nel 1518, poi ri-scattatosi sui campi di battaglia e in favore del quale si schiera Bembo, chiedendo un salvacondotto nel luglio 1529).

Marcantonio Michiel intitola le carte de-dicate alle opere della collezione bembe-sca specificando «In casa di Messer Pietro Bembo». Proprio in merito alla residen-za padovana di Pietro Bembo possiamo ora aggiungere nuove precisazioni, che contribuiscono a definire anche le coor-dinate spaziali, oltre che temporali, del-le ricognizioni di Michiel. «Casa una in Padova con orto et terren da brolo ne la contra’ de San Bartholomeo con un’altra casetta: nelli qual io habito»: così Pietro Bembo introduce la sua dimora padova-na in una dichiarazione autografa del 20 aprile 1538, nel dare in nota i propri beni per la redecima (rinnovazione dell’esti-mo) del 1537. Abbiamo infatti rintracciato nell’Archivio di Stato di Venezia una serie inedita di denunce («condizioni») risalen-ti a Pietro Bembo, incluse quelle nuove, nuovissime, straordinarie, «aggiunte nuo-ve» e «aggiunte stravaganti», come pure

diRosella Lauber

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Note sulla collezione d’arte ‘In casa di Messer Pietro Bembo’ a Padova

partite in dare e in avere e volture nei regi-stri dei traslati, notificate sin dalla redeci-ma del 1514, preziose anche per valutare i beni stabili di Bembo e i suoi progressivi acquisti terrieri. Finora invece (a partire dalle indagini ottocentesche di Cian e di Cecchetti) si era lamentata l’impossibili-tà di reperire le polizze d’estimo di Pietro Bembo depositate presso la Dominante.

Nella casa padovana di Bembo, Marcan-tonio Michiel riconosce senza esitazioni il ritratto dei comuni amici Andrea Nava-gero e Agostino Beazzano, assegnandolo a Raffaello. In merito alla committenza del dipinto (identificato in quello ora nella Galleria Doria Pamphilj a Roma, fig. 1), sono state avanzate diverse ipotesi: San-zio avrebbe realizzato l’opera nell’Urbe nell’estate del 1516 per Navagero, prima che costui rientrasse fra le lagune per as-sumere il ruolo di bibliotecario della Re-pubblica; quindi Bembo avrebbe potuto ottenere il quadro dopo la scomparsa di Navagero, deceduto a Blois nel 1529. Si è altrimenti proposto che il doppio ritratto dei due amici fosse stato dipinto da Raffa-ello direttamente per Bembo.

Il 29 luglio 1538 Pietro Bembo scrisse da Villa Bozza ad Antonio Anselmi dispo-nendo di far inviare «il quadro delle due teste di Raphael da Urbino», eventualmen-te «con la sua cassa», ad Agostino Beazza-no a Treviso. Tale data si configura perciò quale termine ante quem pure per gli ulti-mi interventi correttori apposti da Michiel alle sue carte concernenti la raccolta pa-dovana di Bembo, dove il dipinto di Raf-faello sussiste registrato in prima stesura e senza successive modifiche o cancella-ture. Possiamo proporre un termine ante quem anche per la redazione iniziale delle annotazioni dedicate da Michiel alla colle-zione Bembo, ovvero il luglio 1526 (come si vedrà): questo suggerirebbe di escludere l’ipotesi secondo cui il doppio ritratto di Raffaello sarebbe pervenuto nella raccol-ta Bembo dopo il 1529, mentre si raffor-zerebbe la possibilità che il dipinto fosse stato realizzato proprio per Bembo, segno e memoria di corrispondenze amicali.

«In casa di Messer Pietro Bembo», ac-canto a pitture e a miniature e oltre a pre-ziosi codici quali il Virgilio e il Terenzio (già ammirato da Poliziano), entrambi ora

nella Biblioteca Vaticana, Michiel osserva vasi, gemme, medaglie, sculture, fra cui teste marmoree e bronzetti che si affolla-no anche nei fogli del manoscritto. Nelle carte della Notizia dedicate alla raccolta Bembo, dopo la segnalazione aggiunta po-steriormente di un unico bronzetto «mo-derno» risultano descritte cinque figurette di bronzo tutte antiche, di cui Michiel pre-cisa: «Queste sono de Messer Bartolomeo insieme cum el Mercurio», con segni a margine che rinviano a quelli vergati nel foglio precedente accanto a «Il Mercurio picolo in bronzo è opera anticha, che senta sopra el monte, cum la testudine a piede». Il verbo coniugato al presente («queste sono») e l’esplicitata antichità delle ope-re elencate e contrassegnate suggerisco-no di interpretare come una notazione di possesso il riferimento a «Messer Barto-lomeo». Costui (spesso individuato dalla critica in Bartolomeo Ammannati) risulta piuttosto identificabile nel figlio naturale di Bernardo Bembo, Bartolomeo (omoni-mo del miniatore Bartolomeo Sanvito, che gli fu padrino e illustrò numerosi codici di Bernardo). Pietro affida diverse commis-sioni a Bartolomeo, gli indirizza lettere e lo cita spesso; lo definisce «mio fratello», ne conferma l’integrazione in famiglia e nella cerchia di amici e ne suggerisce al-tresì competenze in campo artistico. Bar-tolomeo muore nell’estate 1526 e Pietro lamenta la scomparsa del «buono e caro» fratello, avvenuta il 12 luglio. Abbiamo dunque proposto la data del 12 luglio

1. Raffaello, Ritratto di Andrea Navagero e di Agostino Beazzano,

Roma,Galleria Doria Pamphilj.

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Rosella Lauber

ritenuto identificabile con il doppio ritratto di Raffaello segnalato in casa Bembo nella Notizia; Morelli già evidenziava però in-congruenze nella tavola veneziana rispetto alla descrizione di Michiel, ragionando su fisionomie e dettagli degli effigiati. Nel-la medesima asta parigina del 1807 delle opere di Celotti comparivano inoltre due ritratti, allora attribuiti ad Antonello da Messina, uno dei quali è stato riconosciuto nell’Uomo con la medaglia dell’imperato-re Nerone di Memling ora ad Anversa, per il cui soggetto si è ipotizzata l’identifica-zione in Bernardo Bembo.

Appartenne plausibilmente a Bernar-do Bembo «Il ritratto de Madonna Laura amica dil Petrarcha fu di mano di… tratto da una santa Margarita, che è in Avignon sopra un muro, sotto la persona della qual fu ritratta Madonna Laura», descritto da Michiel in casa di Pietro Bembo a Pa-dova. Bernardo si conferma colto mece-nate e collezionista di pitture e di codici (compreso quello di Terenzio segnalato da Michiel). Alle richieste di Bernardo riconduciamo la realizzazione da parte di Jacometto Veneziano del ritratto di Pietro Bembo, raffigurato undicenne e di profi-lo, e di quello di Carlo Bembo neonato, entrambi i dipinti descritti da Michiel nel-le carte della Notizia, insieme a opere di Giulio Campagnola. Appartennero pro-babilmente già a Bernando Bembo anche due ritratti realizzati da Jacopo Bellini segnalati nella Notizia, l’uno raffigurante Gentile da Fabriano in profilo, l’altro il cui

1526 come termine ante quem per la pri-ma stesura delle carte di Michiel dedicate alle opere di Bembo e nelle quali, in base all’esame di ductus e inchiostri e a con-fronti interni, si possono distinguere di-verse modifiche e aggiunte, in particolare riferibili al 1537 (raffrontabili anche con le righe datate quell’anno inserite nella sezione della Notizia relativa alla raccolta padovana di Marco Mantova Benavides e comparabili inoltre con la «condizio-ne» autografa dello stesso Michiel del 5 dicembre 1537, riscontrata nel fondo ar-chivistico veneziano dei Savi alle Decime in Rialto).

Riconosciamo ductus e inchiostro ri-conducibili al 1537 anche nella descri-zione in casa Bembo del dittico di Hans Memling identificato in Giovanni Battista con l’agnello e Veronica (ora diviso tra Monaco, Alte Pinakothek e Washington, National Gallery of Art: fig. 2 a,b). La re-lativa annotazione (l’unica presente nella specchiatura della pagina) è vergata in una carta che oggi appare precedere tutte le altre dedicate alla raccolta Bembo nell’at-tuale legatura degli originari fogli sciolti di cui è costituito il manoscritto autografo di Michiel, solo successivamente riuniti nel codice composito marciano. Dunque ciò che è stato spesso indicato come inci-pit originario delle carte Bembo risulta in realtà un’aggiunta, riferibile al 1537 circa. Del dittico, ora smembrato, l’anta con san Giovanni Battista e raffigurante sul retro un teschio in una nicchia con il motto «mo-rieris» sarà segnalata da Jacopo Morelli a Venezia presso l’abate Luigi Celotti, in ca’ Barbarigo a San Polo, all’esordio dell’Ot-tocento. Rintracciamo la tavola in un’asta della collezione Celotti tenutasi a Parigi il 24 settembre 1807, quando fu venduta per 97 franchi come opera di Memling (si deve dunque ipotizzare successiva alme-no al 1807 l’iscrizione ottocentesca con l’attribuzione a Hugo van der Goes e la datazione al 1472). Nella stessa vendita parigina del 24 settembre 1807 ricono-sciamo un dipinto attribuito a Giorgione e raffigurante «les Portraits de Navagero et de Beazzano», identificabile in quello ricordato da Jacopo Morelli nel 1801 a Venezia ancora presso l’abate Celotti in ca’ Barbarigo a San Polo, dal possessore

2a

2a, b. Hans Memling, Giovanni Battista con l’agnello, Monaco,

Alte Pinakothek e Veronica Washington, National Gallery

of Art.

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Note sulla collezione d’arte ‘In casa di Messer Pietro Bembo’ a Padova

Sannazaro dipinta da Sebastiano Lucia-ni, aggiunge la specificazione «ritratto da un altro ritratto»: ciò sembra rinviare alla menzione dell’effigie del poeta realizzata dal veneziano Paolo degli Agostini, come informa la lettera di Pietro Summonte in-viata a Michiel da Napoli il 20 marzo 1524 (fondamentale epistola sull’arte napoleta-na di cui abbiamo rinvenuto un ulteriore testimone manoscritto, rispetto a quelli si-nora tramandati più completo e affidabile anche per le glosse seicentesche). L’osser-vatorio di Michiel sulle opere di Raffaello, segnalate inoltre nei Diari e nelle lettere del veneziano, trova riscontri pure nel car-teggio di Bembo. Abbiamo individuato anche un’informazione trascurata relativa

effigiato è riconoscibile in Bertoldo d’E-ste, la cui descrizione risulta precisata da Michiel con un’aggiunta riferibile al 1537.

Al 1537 riteniamo riconducibile anche il paragrafo inserito da Michiel per celebra-re in casa Bembo «El cupidine che dorme stravaccato, marmoreo, è opera anticha, de man de Samos, et ha una lacerta scolpita, et è in diversa foggia da quel de Madam-ma de Mantoa». La descrizione vergata da Michiel, incluso il prezioso paragone distintivo rispetto al celebre esemplare antico della collezione di Isabella d’Este, suggerisce intervenuti aggiornamenti, ma-gari attraverso lo stesso Bembo, che fu a Mantova nel giugno 1537.

Nella raccolta bembesca era presen-te quasi una galleria di ritratti di letterati antichi e moderni. Michiel segnala anche l’effigie del giovane Pietro realizzata da Sanzio: «Il ritratto picolo di esso Messer Pietro Bembo, allhora che giovine stava in corte dil duca d’Urbino, fu di mano de Ra-fael d’Urbino, in m(aies)tà»: così abbiamo infatti proposto di sciogliere l’abbrevia-zione presente nel manoscritto, che appare aggiunta in parallelo alla specificazione successiva «in profilo» riferita al ritratto dello stesso Pietro undicenne dipinto da Jacometto. Michiel inoltre aveva iniziato a scrivere, prima di correggersi, «allhora che giovine stava in casa dil duca di Ur-bino», mutando poi «casa» in «corte», quasi ad accentuare il contesto cortigiano del ritratto. Fra il 1506 e il 1512 Bembo si fermò a Urbino, presso i duchi Elisabet-ta Gonzaga Montefeltro e Guidubaldo di Montefeltro, identificabili nei due ritratti ora agli Uffizi eseguiti da Raffaello e da-tabili al 1506 circa, che possono suggerire analogie compositive con l’effigie di Bem-bo «in m(aies)tà» segnalata nella Notizia.

Quando introduce il piccolo ritratto di Pietro Bembo eseguito da Raffaello, Mi-chiel ha appena terminato la descrizio-ne di un’effigie di Sannazaro dipinta da «Sabastiano Venitiano», artista che Mar-cantonio conosceva bene e al quale in un primo momento risulta assegnato anche il ritratto giovanile di Pietro Bembo («fu di mano de l’instesso»); Michiel infine corregge l’attribuzione: «fu di mano di Rafael d’Urbino, in m(aies)tà». Marcan-tonio, quando annota la raffigurazione di

3. Andrea Mantegna, San Sebastiano, Venezia, Galleria

Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro.

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Rosella Lauber

di Cornelia, colpita da apoplessia a settan-tasette anni. Gli incartamenti svelano liti ereditarie e introducono inventari e sti-me mobili di Cornelia Dolfin Gradenigo, compresi ancora libri, quadri, antichità. Fra gli atti emerge inoltre una donazione «inter vivos sed in causa mortis» disposta da Cornelia Dolfin Gradenigo sin dal 9 marzo 1816 in favore di un “agente” della sua casa, nominato pure fra gli esecutori testamentari e del quale si scopre il nome: Cesare Sola. Costui morirà poco dopo, anch’egli per apoplessia, il 21 ottobre 1821, come segnalato in ulteriori cause di successione ereditaria, nelle quali la vedo-va, Elisabetta Crescini, accusa l’uomo di aver tenuto in vita una condotta compli-cata e misteriosa. Si snodano così le ulti-me fasi della dispersione della collezione Gradenigo, in cui erano confluite opere già appartenute a Bernardo e a Pietro Bembo, molte delle quali segnalate per la prima volta da Marcantonio Michiel nelle sue fondamentali carte autografe marciane.

l

Il testo si correla a un contributo di chi scrive, presentato nel convegno Pietro Bembo e le arti (Padova, 2011) e nei relativi atti (R. Lauber, «In casa de Messer Pietro Bembo». Riflessioni su Pietro Bembo e Marcantonio Michiel, c.s.), come pure a un approfondimento sui rapporti fra Bembo e Michiel, di prossima pubblicazione in “Studi Ve-neziani” e di cui alcuni cenni sono stati anticipati nel catalogo della mostra padovana Pietro Bem-bo e l’invenzione del Rinascimento, insieme alla trascrizione delle carte dedicate da Marcantonio Michiel alla collezione di Pietro Bembo nel mano-scritto autografo marciano detto Notizia d’opere di disegno (R. Lauber, «Dolcissima e virtuosa vita». Note per Marcantonio Michiel e Pietro Bembo e Trascrizione dall’autografo di Marcantonio Mi-chiel [«Notizia d’opere di disegno»] delle carte dedicate alla collezione di Pietro Bembo, c.s.): a tali testi si rinvia, anche per puntuali riferimenti bibliografici.

ai due arazzi sistini della Conversione di Saulo e della Predicazione di san Paolo, giunti a Venezia dopo il Sacco di Roma e prontamente descritti da Marcantonio in casa Venier nel 1528. Pietro Bembo infatti scriverà da Padova, il 26 aprile 1529, al nipote Giovan Matteo: «Raccomandatemi al Mag. Gio. Antonio Veniero, co’l qual mi rallegro che egli abbia lì alcuno de’ suoi bellissimi Razzi, e che gli prometta di acconciarglieli»: anche se poi rileviamo come questi il 10 gennaio 1532 finiranno in pegno presso Lorenzo Loredano «per pochi denari».

Diverse opere descritte da Michiel in casa Bembo risultano ancora attestate nel primo decennio dell’Ottocento nella casa padovana degli eredi Gradenigo. Fra que-ste si annoverano il ritratto di Gentile da Fabriano eseguito da Jacopo Bellini, come pure due dipinti di Mantegna: l’uno è stato identificato nella giovanile Presentazione al Tempio (ora a Berlino, Gemäldegale-rie), mentre l’altro è stato riconosciuto nel tardo San Sebastiano (già nella raccol-ta Scarpa, ora Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro; fig. 3), descrit-to nella Notizia come: «Il san Sabastiano saettato alla colonna, grande più che ’l naturale, sopra una tela, fu di mano dil Mantegnia». Nel 1790 Morelli precisava come l’incisione di Bartolozzi del Ritratto di profilo di Pietro Bembo risultasse tratta da una «pittura del gran Tiziano», allora attestata ancora in casa di Cornelia Dolfin Gradenigo (sposata in seconde nozze da Vincenzo II Gradenigo, che nelle ultime volontà del marzo 1768 l’aveva nomina-ta erede universale), alla quale era giunta attraverso l’eredità di Pietro Gradenigo, marito di Elena, la figlia di Pietro Bem-bo. Finora, sin dalla storiografia erudita, si è sempre fissata al 1815 la scomparsa di Cornelia Dolfin Gradenigo, che avrebbe lasciato le sue sostanze e l’ultima eredità Bembo a un «familiare», dimostratosi su-bito indegno dissipatore. Abbiamo potuto rinvenire nuova documentazione archivi-stica, compresi il testamento olografo del 10 gennaio 1818 della nobildonna (il cui erede beneficiario risulta il nipote, Leo-nardo Dolfin fu Vincenzo) e la sua fede di morte registrata a Padova, che certifica invece al 14 marzo 1818 la data di morte

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La raccolta Bembo e il collezionismo antiquario padovano

La raccolta Bemboe il collezionismoantiquario padovano

Testimonianze documentarie e iconografiche assegnano alle antichitàdi Pietro Bembo un ruolo primario, di forte impatto presso collezionisti,antiquari e cultori del mondo classico.

Nella Rinascenza matura la realtà colle-zionistica padovana, come da tempo è sta-to messo in luce, si rivela marcatamente caratterizzata in senso ‘archeologico’, con una decisa predilezione per le testimonian-ze del mondo antico. Molteplici fattori concorsero a delineare tale orientamento, non ultima la forte presenza dello Studio universitario, che da secoli aveva favori-to un’inclinazione ‘erudita’ dell’ambiente intellettuale; ma fu fondamentale per il consolidarsi del fenomeno la ricezione di alcuni modelli particolarmente fortunati, anche a opera di personalità d’altissimo profilo e d’indiscussa autorevolezza, tra cui si segnala senza dubbio Pietro Bembo, che dominò il mondo della cultura umani-stica fin quasi alla metà del Cinquecento.

Il palazzo che si affaccia sull’odierna via Altinate, ove il grande letterato veneziano ebbe a Padova la sua prediletta dimora, ospitava, oltre ai quadri, agli oggetti d’ar-te e ai codici miniati, un cospicuo nucleo di antichità, formato da epigrafi, sculture – soprattutto teste e busti – bronzetti figu-rati, vetri e ceramica, gemme e monete in numero davvero ragguardevole: materiali di altissimo pregio, spesso di provenien-za romana, raccolti dal Bembo durante i suoi spostamenti lungo la Penisola, e da lui considerati come sorgente di appa-gamento estetico, in funzione di stimolo dell’esercizio intellettuale e dell’attività letteraria: “affine di mandare innanzi gli studi delle lettere, che sono in ogni tempo stati il vital cibo del mio pensiero”.

Grazie alle voci di intenditori più che competenti in materia d’arte e di antichi-tà, quali furono Marco Antonio Michiel, Enea Vico e Bernardino Scardeone, alcuni esemplari sono stati da tempo identificati, come la cosiddetta Tavola Isiaca, ora al Museo Egizio di Torino, dono, a quanto sembra, di papa Paolo III, o come la base marmorea dedicata a Vespasiano, Tito e Domiziano dal centurione Caius Papirius Aequos, appartenuta, prima del Bembo, al collezionista romano Giovanni Ciampo-lini, e attualmente conservata, dopo ulte-riori passaggi, al Museo Civico Archeolo-gico di Vicenza; di altri pezzi rimangono soltanto generiche indicazioni date dalle fonti coeve, che permettono tuttavia di formulare qualche ipotesi, in particola-re circa le opere scultoree a tutto tondo: si considera probabilmente riconducibile alla collezione Bembo l’Antinoo Farnese del Museo Nazionale di Napoli, e anche di recente le ricerche hanno esplorato pos-sibili passaggi analoghi, concentrandosi su un ritratto di Domiziano e uno di Cara-calla, giunti sempre a Napoli dal palazzo romano dei Farnese vicino a Campo de’ Fiori.

Ma, parallelamente al lavoro di ‘rico-struzione’ della raccolta, una serie di spun-ti d’estremo interesse continua a emergere da un’indagine sempre più approfondita sulla forte influenza che Pietro Bembo e il suo patrimonio antiquario esercitarono nell’ambiente collezionistico padovano del tempo. E a questo proposito la figura

diGiulio Bodon

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Giulio Bodon

Alla definizione di un ambito cronologi-co soccorrono alcuni riferimenti interni al testo, che inquadrano la stesura principale del manoscritto in un intervallo piuttosto stretto, poco dopo la metà del secolo, co-munque entro il 10 febbraio 1552, quando morì l’umanista bassanese Lazzaro Bona-mico, citato come vivente dall’autore, a lui molto vicino; occorre però osservare che l’aggiunta di chiose, postille e note a margine dovette proseguire almeno fino al 1556, come confermano anche notizie di eterogenea provenienza.

Il nome del Bembo ricorre più volte, con riferimento alla sua collezione, che il Bassano definisce “Musaeum […] omnis generis antiquitatis refertum”. Una certa importanza riveste l’episodio narrato a proposito di un denario di L. Mescinius Rufus, moneta abbastanza rara, di cui un esemplare si conservava nel medagliere del Bembo; il difficile scioglimento del-le abbreviazioni e l’interpretazione delle legende furono oggetto d’interesse anche da parte del letterato modenese Francesco Maria Molza e del giureconsulto pado-vano Marco Mantova Benavides, ma il Bassano, che in seguito riuscì a procurarsi per la propria raccolta un altro esempla-re, proveniente da Udine, grazie alla me-diazione del bresciano Francesco Scolari, fu invitato addirittura a misurarsi con il Bembo in una sorta di confronto d’erudi-zione antiquaria.

Entrambe le legende si ritrovano ripro-dotte – l’una parzialmente, l’altra per inte-ro – negli affreschi della Sala dei Giganti, in rapporto alle figure di Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto, a confermare an-cora una volta il fortissimo ruolo che la

più significativa è senza dubbio quella di Alessandro Maggi da Bassano, studioso di antichità, erede di un’importante rac-colta e collezionista egli stesso, secondo l’esempio dei suoi avi.

Alessandro junior nacque nell’anno di Cambrai, mentre il padre, Tito Livio da Bassano, cadeva in disgrazia presso la Signoria veneta per le posizioni anti-ve-neziane assunte durante la guerra, e su-biva una severa condanna, con sentenza pronunciata da una commissione di cui faceva parte un esponente di casa Bembo. Più avanti, allentatesi le tensioni politiche, il giovane rampollo dell’ormai riabilitata stirpe padovana, che pretendeva di di-scendere dall’antica gens Livia, fu accolto sotto l’ala protettrice di Pietro Bembo, ed ebbe un ruolo primario in iniziative cultu-rali e artistiche di notevole risonanza, qua-li il ciclo di Uomini Illustri nella grande aula del Capitaniato, detta la Sala dei Gi-ganti, compiuto intorno al 1540, o ancora il monumento dedicato allo storico latino Tito Livio in Palazzo della Ragione nel 1547, e l’arco trionfale effimero realizza-to per l’ingresso in Padova della regina di Polonia Bona Sforza nel 1556.

Ricordando, in età più avanzata, gli anni della sua formazione, Alessandro da Bas-sano affermò d’aver avuto libero accesso ai materiali della collezione Bembo; e fu proprio il suggerimento di Pietro a far sì che il Bassano intraprendesse gli studi sulle immagini delle monete antiche i cui principali esiti sono raccolti in un mano-scritto che oggi si conserva presso la Bi-blioteca del Seminario di Padova. Il trat-tato – che contrariamente alle intenzioni e alle attese dell’autore non fu mai dato alle stampe – commentava testimonianze numismatiche relative ai Dodici Cesari suetoniani (la parte superstite concerne emissioni monetali di Giulio Cesare, Ot-taviano Augusto, Tiberio e Caligola), in-serendosi peraltro nel contesto di un filone specialistico a quel tempo in voga: basti citare i nomi di Enea Vico, Jacopo Strada, Sebastiano Erizzo, Hubert Goltz, Antonio Agustín. Del resto, dalle tavole del Vico per Antonio Zantani, edite a Venezia nel 1548, derivano in gran parte i ritagli di stampe che, insieme a disegni autografi del Bassano, illustrano l’opera.

1. Riproduzione di un denario di L. Mescinius Rufus, dal

manoscritto di A. Da Bassano, Interpretatio historiarum,

databile intorno alla metà del XVI secolo. Padova, Biblioteca del Seminario, ms. 663, c. 90r.

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La raccolta Bembo e il collezionismo antiquario padovano

Sala dei Giganti si possono raffrontare con due altri gessi rinascimentali apparte-nuti a Marco Mantova Benavides, sempre al Museo del Liviano, ora noti rispettiva-mente come Celio Caldo e Milicho, dei quali non si conoscono eventuali archeti-pi antichi. Per ciò che concerne il primo caso, la congettura si può basare solo sulla denominazione, giacché la Notizia d’ope-re di disegno di Marco Antonio Michiel registra la presenza presso il Bembo di busti di Marcello e di Giulio Cesare, e sappiamo che il gesso era appunto iden-tificato con entrambi quei personaggi; ri-guardo al secondo caso, vi sarebbe inve-ce un elemento in più, grazie al dettaglio descrittivo trasmessoci dalla Notizia del Michiel, che accenna a una “testa de mar-mo de Bruto, che ora e parla”, fornendo così un particolare di per sé molto calzan-te all’immagine del Milicho, raffigurato con la bocca aperta e il volto atteggiato a un’intensa espressione di pathos.

Oltre agli spunti ora enucleati, altri in-dizi suggeriscono di non sottovalutare l’ascendente del Bembo su Alessandro da Bassano anche in rapporto all’attività squisitamente collezionistica. I documenti ci informano infatti che il grande intellet-

presenza del Bembo e della sua collezione ebbe nell’ambiente umanistico e antiqua-rio padovano cinquecentesco.

Alla luce di questa testimonianza, e di altri, puntuali riscontri iconografici, di matrice numismatica, si è considerata la possibilità che gli affreschi del Capita-niato celino ulteriori indizi sulle antichità della collezione Bembo, con particolare riferimento al patrimonio scultoreo ritrat-tistico. È il caso del Caracalla Farnese, già sopra menzionato, di cui un calco cin-quecentesco, proveniente dalla raccolta Mantova Benavides, è oggi al Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte dell’Uni-versità; l’immagine, che sembra in qual-che modo riconoscibile nel volto di Lucio Quinzio Cincinnato, sicuramente ispirò il ritratto di Tito Quinzio Flaminino, nel quale si avverte pure il riflesso di un’altra testa della collezione Mantova Benavides, scolpita in marmo e senza dubbio derivata dal gesso. E queste intersezioni iconogra-fiche parrebbero rafforzare la tesi di una provenienza dell’originale Caracalla an-tico, ora a Napoli, dalla raccolta Bembo.

Tra gli altri esemplari, ricorderei almeno il Marco Claudio Marcello e il Bruto Mi-nore, le cui immagini negli affreschi alla

2. Testa in gesso del cosiddetto Milicho, opera rinascimentale.

Padova, Museo di Scienze Archeologiche e d’Arte

dell’Università.

3. Bruto Minore. Affresco, ca. 1540; Padova, Sala dei Giganti.

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tuale veneziano era considerato un punto di riferimento imprescindibile nell’am-biente antiquario, anche per quanto con-cerne la lettura e l’interpretazione dei testi epigrafici, insieme all’umanista Niccolò Leonico Tomeo: ne è un esempio la con-sulenza richiesta nel 1525 dal segretario del Senato della Repubblica Giovan Bat-tista Ramusio a proposito del significato di un’iscrizione in lingua greca, donatagli dal ‘cancellier grande’ della Signoria, An-drea de’ Franceschi.

Come si è accennato poco sopra, Ales-sandro Maggi fu proprietario di una delle collezioni epigrafiche più importanti, che per secoli rimase il maggiore lapidario esistente nel territorio della Repubbli-ca veneta. Anche qui è ammissibile che la decisione di sviluppare questo aspetto della raccolta, così come di approfondirne la sezione numismatica, fosse in qualche modo appoggiata dal Bembo; va tuttavia ricordato che la passione per l’epigrafia era da lungo tempo coltivata in casa Bas-sano, e l’originario nucleo d’iscrizioni an-tiche risaliva agli avi del nostro collezio-

nista: tra costoro, si distinse il giurecon-sulto Alessandro senior, che nella seconda metà del Quattrocento ricoprì pubblici uf-fici affiancando più volte membri della fa-miglia Bembo, compreso Bernardo, padre di Pietro. Non escluderei pertanto che pro-prio la figura di Bernardo e l’allestimen-to del suo “Nonianum”, la tenuta di villa a Santa Maria di Non, vicino a Padova, avessero in qualche misura influenzato le scelte collezionistiche dei Bassano, i quali accolsero il modello del ‘giardino di anti-chità’ o hortus, sull’esempio di celebrati contesti romani, nei loro palazzi cittadini: ultimo in ordine di tempo la cosiddetta Casa degli Specchi, sull’odierna via Ve-scovado, edificio concepito e progettato da Annibale da Bassano anche come sede della raccolta di famiglia.

Qui la disposizione del lapidario, perfe-zionata da Alessandro junior, doveva se-guire una sorta di programma ideologico, a partire dalla facciata, sulla quale erano esibite due stele funerarie, l’una greca, l’altra romana, ai lati dell’ingresso, con evidente valenza autorappresentativa, ad

4. Testa in marmo, opera rinascimentale derivata dal calco

in gesso di un ritratto antico di Caracalla. Padova, Museo di

Scienze Archeologiche e d’Arte dell’Università.

5. Tito Quinzio Flaminino. Affresco, ca. 1540; Padova, Sala dei Giganti.

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La raccolta Bembo e il collezionismo antiquario padovano

anticipare la funzione ‘museale’ del pa-lazzo, certificando per così dire l’antico lignaggio e al tempo stesso proclamando le aspirazioni intellettuali dei proprietari. Parte dei marmi trovava luogo nell’andro-ne, mentre l’allestimento si sviluppava poi lungo l’asse del complesso architettonico, che conduceva al cortile retrostante, tutto risolto in uno scorcio prospettico chiuso sul lato breve di fondo da un gruppo scul-toreo di Ercole con Cerbero alla catena, icona simbolica di virtus / fortitudo, con-cepita anche come attività intellettiva ca-pace di prevalere sugli istinti e sulla sfera dell’irrazionale; è immediato il richiamo al colosso di Bartolomeo Ammannati nel cortile del palazzo di Marco Mantova Be-navides, sede di un’altra importantissima collezione padovana; ma non sfuggirà che il riferimento alle dottrine del neoplatoni-smo rinascimentale, in contesti così mar-catamente caratterizzati dal tema della cultura antiquaria, riconduce appunto al Bembo e al suo cenacolo, di cui conferma

dunque una volta di più il ruolo centrale nell’ambiente padovano del tempo.

l

I passi citati sono tratti da: P. Bembo, Prose, a cura di C. Dionisotti, Torino 1960, pp. 30-31; A. Da Bassano, Interpretatio historiarum ac signo-rum in numismatibus, Padova, Biblioteca del Se-minario Vescovile, ms. 663, cc. 91r-91v; Notizia d’opere di disegno. Pubblicata e illustrata da D. Jacopo Morelli, a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884, p. 53.

Sulla presenza dell’antico nella collezione di Pietro Bembo, fondamentale: I Favaretto, Arte an-tica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 2002, 2a ed. (in part. pp. 103-107), cui si rinvia in generale anche per altri casi di raccolte archeologiche nel mondo veneto tra Quattro e Cinquecento.

Questi e altri spunti sono stati sviluppati da chi scrive in altre sedi: G. Bodon, Veneranda Antiqui-tas. Studi sull’eredità dell’antico nella Rinascenza veneta, Bern 2005; G.Bodon, Heroum Imagines. La Sala dei Giganti a Padova: un monumento del-la tradizione classica e della cultura antiquaria, Venezia 2009; vi si aggiunga la comunicazione dal titolo Pietro Bembo e l’ambiente della cultura antiquaria: ipotesi sul programma iconografico della Sala dei Giganti, presentata nell’ambito del Seminario Internazionale Pietro Bembo e le arti (Padova, Accademia Galileiana, 24-26 febbraio 2011), i cui atti sono ora in corso di stampa.

6. Padova, Facciata di palazzo Maggi da Bassano, noto come

Casa degli Specchi. Disegno ottocentesco di P. Chevalier;

Padova, Biblioteca Civica.

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Il cenotafio del Bemboal Santo

Il monumento, ‘leggiadrissimo lavoro’ di Danese Cattaneo, segnò un nuovoindirizzo nella riqualificazione della Basilica.

“Nel più ampio della chiesa poi si vede in leggiadrissimo lavoro, di molte parti gratiosamente corrispondenti in un tutto, quest’altra, di personaggio veramente illu-strissimo”1. Padre Valerio Polidoro, autore delle prima guida della basilica di Santo (1590), nelle ultime pagine del libro, e im-mediatamente prima dell’ultimo capitolo (il 74°, dedicato alla “statua del valoroso Cavalliero e Capitano Gattamelata”, sul sagrato del Santo), corre via velocemente nella caratterizzazione della navata centra-le del Santo, ricordando il solo cenotafio di Pietro Bembo. Agli altri eminenti per-sonaggi, i cui sepolcri in un breve volgere di anni avevano non solo caratterizzato, ma trasformato in un pantheon di sepol-ture di gusto antichizzante il vano centrale del tempio – almeno nei casi di Alessan-dro Contarini e Girolamo Michiel – Poli-doro dedica un passaggio brevissimo, di-sinteressato alla forma del monumento e concentrato sul solo epitafio2.

La letteratura successiva sulla basilica e le sue illustri opere3 non ha praticamen-te mai tralasciato di citare il monumento bembiano, in forme di schietto e misurato classicismo, recante al centro dell’edicola il busto marmoreo dell’umanista. E fu con-temporanea alla sua esecuzione la prima e illustre attestazione di paternità dell’auto-re di quel busto, lo scultore Danese Catta-neo, nativo di Colonnata (presso Carrara) e morto a Padova nel 1572: nell’aprile del 1548 in una lettera diretta allo stesso “Da-nese, iscultore”, Pietro Aretino celebra il ritratto di Bembo “da lo scarpello vostro redutto vivo nell’arte”4.

La storia di questo artista, che negli ultimi vent’anni ha molto interessato gli studiosi dell’arte veneta, è complessa da ridurre in poche righe, perché Danese fu certo scul-tore, e scultore entro forme architettoniche di sua progettazione, ma insieme fu poeta, al centro di un dibattito sull’arte e la let-teratura tra le menti più qualificate dell’e-poca, che furono, contemporaneamente, suoi interlocutori, come Pietro Aretino, e suoi committenti, come, indirettamente e attraverso gli esecutori testamentari, lo fu Pietro Bembo. Le attestazioni di ami-cizia e stima nei confronti dello scultore, lui vivente, sono numerose e tutte di alto profilo, a partire da Giorgio Vasari (cui si deve la prima biografia e che, a sua volta, ebbe in Danese un informatore sulla situa-zione artistica veneta, per la composizione della seconda edizione delle Vite), Tizia-no, Bernardo e Torquato Tasso, e i cena-coli culturali veneziani e della Terraferma veneta più qualificati del momento5, qui a Padova ruotanti intorno a nomi primari come quelli di Marco Mantova Benavides e Alvise Cornaro.

Danese fu inoltre coinvolto nell’esecu-zione di opere per la basilica del Santo a più riprese, forse all’inizio dell’attività autonoma, e certamente alla fine, quan-do, non riuscì a eseguire il rilievo con il Miracolo del giovane di Lisbona per la cappella dell’Arca, ormai quasi alla fine della sua lunga storia di rifacimento cin-quecentesco6, e testando a Padova, lasciò “ tutti li miei giessi et dissegni” all’allie-vo veronese Girolamo Campagna, che lo realizzò7. Non è certo che nella stessa

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Il cenotafio del Bembo al Santo

cappella dell’arca Danese fosse stato con-vocato, dal 12 settembre al 20 dicembre 1533 per lavorare, con Falconetto, Tizia-no Minio e Silvio Cosini, agli stucchi del soffitto, per finire “licenziato per essere troppo fastidioso”8, mentre è sicuro il suo coinvolgimento nella commissione relati-va alle cancellate (serragli) in bronzo, a partire dal 4 aprile 1543: impegnato per l’esecuzione di uno dei cancelli destinati a chiudere le cinque arcate d’ingresso alla cappella, alla fine dell’anno e insieme a Tiziano Minio, lo scultore era incaricato dell’esecuzione delle altre quattro. Que-sto progetto non trovò mai soluzione e forse, io credo, non si ravvisò la convinta opportunità della chiusura della cappella: in ogni caso nessuna grata venne posta in situ e anzi, dopo la morte di Tiziano Minio (1552), l’unica messa in opera e non anco-ra finita andò distrutta.

A quella data Danese Cattaneo, nato probabilmente verso il 1512, aveva alle spalle una formazione di tutto rilievo, ini-ziata probabilmente a Roma nella botte-ga di Jacopo Sansovino e proseguita nei prestigiosi cantieri veneziani del maestro, che nella diaspora successiva al Sacco di Roma (1527), come tanti altri artisti aveva dovuto cercare riparo lontano dal tragico saccheggio della capitale. Nelle imprese marciane sansovinesche Danese è a diver-so titolo presente: nella loggetta del cam-panile, nella Libreria, nella decorazione della vera da pozzo già al centro del cor-tile della Zecca, nel corso degli anni qua-ranta e cinquanta, secondo le dinamiche di bottega e di cantiere, ruotanti intorno a Sansovino e coinvolgenti nomi di rilievo – come quello di Vittoria a esempio – che poi seguiranno percorsi autonomi.

La posizione ufficiale di Sansovino, proto della Procuratia de Supra dal 1529, probabilmente aiutò l’impegno di Catta-neo nella ritrattistica ufficiale, quale auto-re di busti in marmo e in bronzo, in cui lo scultore espresse in modo maggiormente incisivo la sua personalità. È dunque un Cattaneo della prima maturità l’autore del busto di Pietro Bembo per il cenota-fio patavino, la cui comprensione richiede peraltro qualche parola sullo sfondo pa-dovano in cui Danese operò, chiamato da Girolamo Querini, principale esecutore te-stamentario di Bembo9. Tutto ciò che ruo-

ta intorno a questo monumento lo rende particolare: l’eccellenza del dedicatario, l’insistenza con cui Pietro Aretino sotto-linea la formazione letteraria di Cattaneo, prescelto per l’esecuzione, l’inserimento dell’epitafio, richiesto a Paolo Giovio e il dialogo palese che la parte architettonica, vero frontespizio di pietra, intreccia con i frontespizi architettonici dei libri di car-ta, in un momento in cui, a parte qualche rara eccezione (i casi editoriali di Giovio e Doni), non era ancora diffusa la prassi di illustrare con i ritratti le raccolte di vite di uomini illustri: di far cioè dialogare su uno stesso piano la letteratura e le arti figura-tive, come già era accaduto in altri settori della produzione libraria a stampa10.

Cenotafio di Pietro Bembo, con il ritratto di Danese Cattaneo,

Basilica del Santo, Padova(foto di Giorgio Deganello

dalla fototeca del Messagero di Sant’Antonio).

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all’antichità e a un vero culto per quanto la rappresentasse: sculture, frammenti, mo-nete, calchi, iscrizioni, rilievi, pur non tra-scurando gli aspetti curiosi dei naturalia. Mantova fu anche committente d’arte e raccoglitore di pitture e disegni; un erudito poligrafo e letterato, piuttosto che un ama-teur d’arte, legato ai contenuti formali15. Del resto la galleria di uomini illustri co-stituiva una sorta di riferimento normativo per gli studioli dell’epoca, e ancor più in Padova, dove l’esempio di Petrarca conti-nuava a esercitare una valenza in tal senso, combinata con l’antica vocazione archeo-logica dell’Umanesimo locale e la qualità colta dell’atmosfera patavina, con la sua predilezione per le anticaglie e l’accezione erudita del collezionismo. Il cenotafio di Cattaneo dunque portava un lessico piena-mente apprezzabile nella città, che andava rinnovandosi al linguaggio della Maniera, importato a Venezia da Vasari e dai Sal-viati e dove Sansovino aveva introdot-to quella convenienza della decorazione scultorea applicata all’architettura – di cui già Vasari fu pienamente consapevole – che ebbe la prima e solenne affermazione nelle imprese romane di Raffaello e della sua bottega.

Dopo il primo gennaio 1549 il busto di Bembo, che ora è esposto alla mostra nel Palazzo del Monte, fu collocato entro l’e-dicola, sul lato verso la navata maggiore

Gli studi più recenti hanno chiarito le probabili motivazioni che spinsero Qui-rini, la cui famiglia11 fu inserita in quel-le prestigiose cerchie culturali di patrizi veneziani orientati verso la rinuncia agli honori del secolo e a forme del sapere mondano12, a impegnare Cattaneo per l’e-secuzione del cenotafio, forse attraverso Sansovino e soprattutto grazie al grande umanista veneziano Trifon Gabriele, di cui Cattaneo, come sappiamo ora per cer-to grazie alle ricerche di Manuela Mor-resi, fu allievo e discepolo13. Alla stessa studiosa si deve inoltre l’intervento più diretto, dopo aperture precedenti in tal senso, nell’attribuire a Cattaneo anche la parte architettonica del cenotafio, ritenu-ta tradizionalmente, ma senza fondamen-to, di Michele Sanmicheli. Nella nuova lettura proposta Cattaneo (che si firme-rà “sculptore et architecto” nel più tardo altare-mausoleo Fregoso in Santa Anasta-sia a Verona), sperimenta – con qualche incongruenza – un lessico architettonico che presuppone la conoscenza di Andrea Palladio e che dialoga, come si è accen-nato, attraverso la carta stampata, come è nel frontespizio architettonico delle Rime e prose di Luigi da Porto, pubblicato a Venezia nel 1539 per i tipi di Francesco Marcolini, dedicata a Bembo14 e quello dell’Italia liberata dai Gothi di Giangior-gio Trissino (il primo libro pubblicato a Roma nel 1547), zio di Girolamo Queri-ni committente del monumento e tramite fondamentale per i rapporti con Palladio.

Le testimonianze letterarie padovane del XVI secolo, di Sperone Speroni e Bernar-dino Tomitano, attestano che il dibattito culturale in quegli anni si svolgeva nel-le Accademie, negli Horti, nel Giardino, quali luoghi deputati a conversari, colti ra-duni e scambi di idee, come presso Alvise Cornaro, Pietro Bembo, Marco Mantova Benavides: erano dunque gentiluomini che esprimevano indirizzi di gusto non in-quadrabili nella figura del ‘Cortegiano’ o del chierico, quanto in quello dell’intellet-tuale e sapiente legato all’università, o in una società di stampo accademico e dove l’esito pittorico maggiormente frequenta-to era quello del ritratto. Nessuno più di Marco Mantova Benavides impersonava questa facies in città: un umanista colto ed erudito, programmaticamente volto

Rime et prosa di Messer Luigi Da Porto, Venezia 1539, frontespizio.

Esempio del rapporto col modello monumentale.

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Il cenotafio del Bembo al Santo

soprattutto al Santo e nel complesso di San Giovanni di Verdara, soppresso dalla Dominante nel 1783, fino ad arrivare alle opere di Vincenzo e Giangirolamo Grandi al Santo, autori del monumento ad Anto-nio Trombetta, commissionato nel 1521 e dell’edicola in memoria di Simone Ar-deo, contemporanea al cenotafio di Bem-bo18. Qui la tipologia funeraria improntata all’antica rende fuori luogo ogni riferi-mento ad attributi specifici e per la prima volta in Italia settentrionale un monumen-to a un uomo di lettere – complice forse il fatto che non di un docente universitario si tratta – è centrato su un busto all’anti-ca. Come quegli illustri prototipi esso ha l’estremità inferiore arrotondata, dietro è cavo e poggia sopra un zoccolo19.

Il cenotafio di Danese Cattaneo segnò un nuovo indirizzo nella qualificazione del Santo come pantheon di uomini il-lustri e nella forma del monumento fu-nerario. Nel 1548 Paolo Ramusio, figlio del geografo Giovanni Battista, pubblicò, anonime, tre Egloghe, in morte di Pietro Bembo. Nella seconda Girolamo Querini, nel travestimento virgiliano di Thirsis, au-spica l’erezione di opere commemorative per l’amico scomparso [bina…altaria]20. L’auspicio letterario sembrò avere una possibilità reale, quando i responsabili della sepoltura di Lazzaro Bonamico, che leggeva greco e latino nello Studium, si

del secondo pilastro della basilica. Privo di connotazioni episodiche, sommessamente indicate dalla mozzetta cardinalizia e dal cappello, collocato però in alto, al centro del timpano, il cenotafio allude appena alla sostanza terrena dell’uomo, mentre ne celebra per via allusiva l’apoteosi, seguen-do in questo i suggerimenti di Sebastiano Serlio nell’uso dell’ordine corinzio “per persone di vita honesta e casta”. Nel bu-sto solo gli avvitamenti della barba man-tengono una parvenza di vita, nell’aspetto raggelato e astraente di Pietro Bembo: e si trattò di un affaire, quello della barba, non di poco conto e in relazione al deco-ro richiesto dalla porpora cardinalizia16. Già Venturi, come ricorda Rossi17, aveva notato la tesa, nervosa, vitale eleganza, riconducibile alla Firenze salviatesca. E insieme la conoscenza della ritrattistica di Tiziano (sempre dentro il giro che tro-va in Aretino il suo perno fondamentale), ben nota a Danese: la tensione controllata del ritratto di Bembo ora a Washington, si percepisce anche nel busto, pienamente partecipe della ritrattistica ‘alta’ della Ma-niera degli anni quaranta.

L’assetto spoglio e pur tuttavia perfet-tamente rifinito nel decoro architettonico marca profondamente questo cenotafio rispetto alle numerose tombe di accade-mici, umanisti e uomini di studio che dal-la fine del Trecento trovarono sepoltura

Danese Cataneo, Busto e medaglia del cardinale

Pietro Bembo.

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106: p. 89ss, ripubblicato in L’arte rinascimentale in Padova, Studi e documenti, Padova 1970, p. 217-237: 232-233. Cattaneo morì tra il 28 novem-bre 1572 (giorno in cui testa) e il successivo 27 novembre, quando è già morto.

8) Questo documento reso noto da Gonzati si riferisce solo a un ‘Danese fiorentino’: B. Gonza-ti, La basilica di S. Antonio di Padova descritta e illustrata, Padova 1852.53, I (1852), p. XCVIII, doc. LLXXXIX.

9) Per la supplica rivolta da Bembo al Maggior Consiglio di Padova il 12 gennaio 1534 circa l’e-secuzione di un’arca in bronzo da collocarsi “al pilastro di mezo” nella basilica antoniana – che trovò accoglimento nel Consiglio – e sul senso di quella impresa autocelebrativa, si veda Rossi, 1995, p. 41.

10) T. Casini, Ritratti parlanti. Collezionismo e biografie illustrate nei secoli XVI e XVII, Firenze 2004, p. 31.

11) V. Mancini, “In domo Quiriniana”. Nuova luce su una famiglia di collezionisti e antiquari nella Padova del Cinquecento, in Antiquari, “Ver-tuosi” e artisti. Saggi sul collezionismo tra Pado-va e Venezia alla metà del Cinquecento, Padova 1995, p. 11-114.

12) Come quel sodalizio di amici (‘circolo di Murano’) cui legarono il proprio nome Nicolò Tiepolo, Gasparo Contarini, Pietro Bembo, Trifon Gabriele e e Gian Battista Egnazio.

13) Morresi, 2001, p. 82-84.14) Rossi, La poesia scolpita…, p. 52; Morresi,

Trifon Gabriele …, p. 87; della stessa studiosa (M. Morresi, D. Hay, Cooperation and Collaboration in Vicenza before Palladio: Jacopo Sansovino and the Pedemuro Masters at the High Altar of the Cathedral of Vicenza, in “Journal of the So-ciety of Architectural Historians”, 55 (1996), 2, p. 158-177), un’analisi relativa ad analoghe proble-matiche dell’altare Dall’Acqua della cattedrale di Vicenza.

15) Fondamentale la disamina di V. Mancini, Aliquod de Marco Mantova Benavides mecenate e collezionista di pitture, in Antiquari, “Vertuosi” e artisti. Saggi sul collezionismo tra Padova e Ve-nezia alla metà del Cinquecento, Padova 1995, pp. 115-140.

16) D. Gasparotto, La barba di Pietro Bembo, in Studi in onore del Kunsthistorisches Institut in Florenz per il suo centenario (1897 - 1997), “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia”, : Quaderni, Serie IV, 1996 (1/2), p. 183-206.

17) A. Venturi, Storia dell’arte italiana, X, 3, p. 12; Rossi, La poesia scolpita…, , pp. 54-55.

18) Siracusano, 2012, pp. 187-188; qualche al-tro esempio di monumento e lastra tombale pado-vana caratterizzata dalla presenza degli ‘ strumen-ti’ dell’uomo di lettere (libri, rude da libri, fogli sciolti, scansie, lampade…), in G. Baldissin Molli, Il poeta e il marangone. L’artigianato padovano al servizio di Petrarca e del letterato umanista, Padova 2004, pp. 46-48.

19) I. Lavin, On Illusion and Allusion in Italian Sixteenth Century Portrait Bust, “ Proceedings of the American Philosophical Society”, 119 (1975), pp. 353-362.

20) M. Rossi, La poesia scolpita…, pp. 60-62 e Id. scheda 84, Danese Cattaneo, Busto di Lazzaro Bonamico, Bassano, Museo Civico, in Donatello e il suo tempo. Il bronzetto a Padova, nel Quat-trocento e nel Cinquecento, catalogo della mostra (Padova, Musei Civici, 8 aprile 2001-15 luglio 2001), Milano 2001, pp. 310-312.

lusingarono di poter innalzare di fronte a quello di Bembo, un monumento analogo. Le cose poi andarono diversamente: il bu-sto in bronzo di Lazzaro Bonamico, dello stesso Cattaneo, è oggi nel Museo Civico di Bassano e il monumento, già in San Giovanni di Verdara, ha trovato ricovero nel chiostro del noviziato al Santo, dove, in prossimità dell’illustre prototipo, do-cumenta l’immediato successo dell’opera dello scultore-architetto-poeta .

l

1) Le Religiose memorie scritte dal R. padre Valerio Polidoro Padouano, conuentuale di San Francesco, dottore della sacra theologia, nelle quali si tratta della chiesa del glorioso S. Antonio confessore da Padoua. Con tre tauole copiosissi-me nel fine dell’opera, In Venetia, appresso Paolo Meietto, 1590, f. 89v.

2) Le religiose memorie, 1590, f. 61r.3) Nell’impossibilità di elencarla qui, rinvio,

per un primo resoconto, ad indicem a Bibliogra-fia delle opere d’arte della basilica del Santo in Padova (secoli XV-XXI), a cura di G. Baldissin Molli, Padova 2005.

4) Per i dati biografici il testo di riferimento fondamentale è la voce Cattaneo, Danese, di S. Macchioni, G. Gangemi, in DBI, 22, Roma 1979. Per i dati biografici relativi alle commissioni anto-niane, più che A. Sartori, Documenti per la storia dell’arte a Padova, a cura di C. Fillarini, Vicenza 1976 (Fonti e Studi per la storia del Santo a Pado-va, 4; Fonti, 3), è ora indispensabile la consulta-zione dell’archivio digitale (in DVD, 2007) di pa-dre Antonio Sartori, che permette la navigazione attraverso le migliaia di pagine cartacee della sua opera a stampa).

5) Fondamentale è M. Rossi, La poesia scolpita. Danese Cataneo nella Venezia del Cinquecento, Lucca 1995 (pp. 39-56 per il cenotafio di Bem-bo) e, dello stesso autore: voce Cataneo Danese, nel vol. 17 dell’Allgemeines Künstlerlexicon, Saur Verlag, München, Leipzig, 1997, pp. 283-284; “ad imitazione de gli antichi e secondo la stra-da ch’insegna Aristotile”: Danese Cataneo e la scultura colossale alla metà del Cinquecento, in Alessandro Vittoria e l’arte veneta della Maniera, atti del convegno (Udine, 26-27 ottobre 2000), a cura di Lorenzo Finocchi Ghersi, Udine, Forum, 2001, pp. 97-117; Danese Cataneo, in Donatello e il suo tempo. Il bronzetto a Padova nel Quat-trocento e nel Cinquecento, catalogo della mostra (Padova 2001), Milano 2001, pp. 301-309; schede 84-85, ibid., pp. 310-115. Inoltre L. Siracusano, Novità per la scultura di primo Seicento a Pado-va: i monumenti Campolongo e Olzignano di Ce-sare Bovo, in La chiesa di Santa Maria dei Servi in Padova. Archeologia, Storia Arte Architettura e Restauri, a cura di G. Zampieri, Roma 2012, p. 187-204, con letteratura precedente.

6) S. Blake McHam, The Chapel of St. Anthony at the Santo and the Development of Venetian Re-naissance Sculpture, Cambridge 1994. Sul recente restauro: L. Pertoldi [et al.], La cappella dell’arca di sant’Antonio nella basilica di Padova: marmi antichi, storia e restauro (2008-2009), Poggibonsi 2011.

7) E. Rigoni, Testamenti di tre scultori del Cin-quecento, in “Archivio Veneto”, 68 (1938), pp. 86-

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Viatico per la mostra su Pietro Bembo a Padova

Viatico per la mostrasu Pietro Bemboa Padova

La mostra, curata da Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Adolfo Tura,è stata promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigoe dal Centro Internazionale di Studi Andrea Palladio di Vicenza. I richiami del testo si riferiscono al catalogo, edito da Marsilio.

Conclusa non senza amarezze l’esperien-za alla corte di Leone X come segretario ai brevi, Pietro Bembo riapproda in Vene-to. Ormai cinquantenne, e con all’attivo la prima edizione delle Prose della volgar lingua (1525), testo fondativo della lingua italiana, il letterato si dedica con intensità giovanile a costruire una nuova letteratura e una nuova società letteraria in Italia: «vi-vendo a Padova o a breve distanza nella sua villa, riuscì a raccogliere e stringere a sé i giovani di maggiore ingegno che da ogni parte confluivano a quella università […] Bernardo Tasso, Giovanni Guidiccio-ni, Giovanni Della Casa, Benedetto Var-chi». Così Carlo Dionisotti delinea l’im-portanza di Padova nel corso degli anni venti e degli anni trenta del Cinquecento, un capitolo della storia della città forse non così noto, che la mostra dedicata a Pietro Bembo intende rievocare, ponendolo al centro del percorso la ricostruzione della collezione allestita nella dimora di via Al-tinate. Il palazzo con i suoi giardini, anco-ra oggi esistente ma molto rimaneggiato, era stato edificato sul modello delle ville suburbane antiche e ospitava, oltre alla bi-blioteca, i dipinti, le monete, le medaglie, le sculture, i libri e i manoscritti miniati messi assieme dal letterato e, prima di lui, dal padre Bernardo. Quanto questa rac-colta fosse importante agli occhi del pro-prietario lo indica il vincolo, rivelatosi in seguito inutile, imposto al figlio Torquato a mantenerla inalterata; lo era non meno agli occhi di chi visitava la casa, come ri-sulta dalle testimonianze coeve o di poco seguenti la morte del letterato. Tra queste

si distingue per importanza e puntualità di informazioni la descrizione fornita dall’a-mico del proprietario, il patrizio venezia-no Marcantonio Michiel, nella così detta Notizia d’opere di disegno, un manoscrit-to ospitato nel percorso espositivo, che ha fornito la traccia per la restituzione della collezione, riunita per la prima volta in questa occasione. Nella raccolta convive-vano opere ereditate dal padre come il dit-tico raffigurante San Giovanni Battista e Santa Veronica del ponentino Hans Mem-ling (cat. nn. 1.5 e 1.6), raffinato oggetto di devozione privata, con dipinti come il monumentale San Sebastiano di Mante-gna oggi alla Ca’ d’Oro (cat. n. 5.6), le cui circostanze di acquisizione non sono ancora chiare, ma parrebbero rimandare ai rapporti giovanili di Pietro con Isabel-la d’Este e con la corte di Mantova. Tra il 1505 e 1506 Pietro aveva infatti agito da mediatore e da consulente per l’esigente marchesa alla ricerca di un dipinto di Gio-vanni Bellini per il suo studiolo e aveva sollecitato al Mantegna, da decenni attivo per i Gonzaga e ormai vicino alla morte, le tele per lo studiolo di Francesco Cornaro a Venezia. Di una diversa stagione della sua vita, quella trascorsa nella Roma di Leone X, è testimone nella collezione il superbo Ritratto di Bernardo Navagero e Agosti-no Beazzano, della Galleria Doria (cat. n. 4.16) dipinto da Raffaello nel 1516, all’in-domani di un viaggio a Tivoli per visitare le rovine antiche, che vede riuniti insie-me i tre letterati e il pittore, tutti amici tra loro, assieme a Baldassarre Castiglione. Per questo lo si incontra in mostra nella

diVittoria Romani

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Vittoria Romani

sezione dedicata alla Roma medicea, ac-canto a un codicetto con studi dalle rovine di Tivoli, il codice di Fossombrone (cat. n. 4.17) e a un frammento scolpito del teatro marittimo della Villa Adriana (cat. n. 4.18), ma almeno a partire dal 1529 il dipinto era ospitato in via Altinate, dove quel particolare tipo di ritratto ideato da Raffaello e capace di restituire non solo le fattezze fisiche ma anche l’animo degli effigiati consentiva a Bembo di mantenere vivo il dialogo con gli amici lontani. Nella casa erano anche i ritratti delle tre corone, Dante, Petrarca e Boccaccio, appartenuti probabilmente al padre, ma compagni con i loro testi della studiosa giovinezza di Pietro, e l’effigie dell’amico Jacopo San-nazaro, autore dell’Arcadia, uno dei best sellers del primo Cinquecento. E c’erano i ritratti di famiglia, di Pietro giovanetto, dipinto da Raffaello nel corso di un sog-giorno a Urbino, e del fratello Carlo, “put-tino”, eseguito dal misterioso Jacometto. Prove di artisti come Jacopo Bellini, di una generazione ancora sospesa tra tardo-gotico e Rinascimento, convivevano con miniature su pelle di capretto che Giulio Campagnola, oggi noto soprattutto come raffinato incisore, aveva tratto da una nuda di Giorgione, pittore capofila della “maniera moderna” a Venezia. In questo gruppetto di opere che rimandano a regi-stri cronologici e di gusto diversi, non è sempre facile distinguere tra le scelte di Bernardo e quelle di Pietro e orientarsi sulle circostanze di acquisizione.

Nel giudizio dei visitatori cinquecen-teschi della raccolta sono indubbiamente più significative le testimonianze antiche: teste, iscrizioni, medaglie, monete e gem-me incise, che vengono considerate come la testimonianza delle eccellenti compe-tenze del Bembo, versato anche in ogni genere di antichità. Il pregiudizio umani-stico verso le arti figurative, considerate allora molto minori rispetto alle lettere, può essere così riscattato indicando nelle vestigia dell’antichità quegli strumenti di studio e di conoscenza che costituiscono un’ideale complemento dell’attività lette-raria. Un nucleo di materiali identificati con certezza e riuniti sulla base delle ac-curate indagini di Davide Gasparotto – e tra questi la testa di Antinoo (cat. n. 5.11), un ritratto maschile bronzeo creduto di

Antonino e già appartenuto a Lorenzo il Magnifico (cat. n. 5.8), o ancora la prezio-sa corniola di Dioskourides (cat. n. 5.15) – sono affiancati a proposte di nuove iden-tificazioni e a opere che, sulla base dei dati disponibili, si possono individuare quali equivalenti tipologici degli esemplari pos-seduti da Bembo, oggi perduti. Una scelta questa quasi inevitabile nel caso di oggetti di natura seriale come, ad esempio, le mo-nete (cat. nn. 5.17-5.27). È bene sottoline-are l’affezione che lo scrittore aveva per questi materiali non solo come strumenti di studio, «segni e immagini dell’antica memoria » che consentono la conoscenza del passato ma anche per il diletto che gli procuravano, al punto che, divenuto car-dinale, da Roma nel 1542 scrive di non poter più sopportare di non vedere le sue medaglie e «qualche altra cosa antica» e provvede a farsele spedire a Roma.

All’interesse dello scrittore per l’epigra-fia antica è dedicata una sala dell’esposi-zione dove è ospitato un raro pezzo, già di proprietà del duca di Urbino, Guidubaldo di Montefeltro, la così detta Tabula Bem-bina (cat. n. 5.29) del Museo Archeologico di Napoli, che riunisce dodici frammenti di testi di leggi romane incise su bronzo. La affianca la Mensa Isiaca (cat. n. 5.31) del Museo Egizio di Torino, ritenuta allora un’antichissima iscrizione in caratteri ge-roglifici, oggetto di dotte disquisizioni, cui partecipa uno dei protagonisti del revival egizio del Cinquecento, Pierio Valeriano. I due pezzi ora riuniti testimoniano di un

Arte romana (130-138 d.C.), Ritratto di Antinoo.

Napoli, Museo Archeologico.

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Viatico per la mostra su Pietro Bembo a Padova

mostra si suggerisce che la pala giovanile di Tiziano raffigurante l’Arcangelo Raffa-ele e Tobiolo in cammino in un paesaggio acceso di luci rosate (Venezia, Gallerie dell’Accademia; cat. n. 3.18), nel quale è raffigurato lo stemma di casa Bembo, possa risalire alla committenza di Ber-nardo che lo avrebbe ordinato a titolo di ringraziamento per una grave malattia sof-ferta nel 1507. Le virtù taumaturgiche di Raffaele sono evocate fin dal nome, che in ebraico significa «Dio ha guarito», e l’ar-cangelo, che rivela nelle eleganti movenze un primo sentore di classicismo, prende a prestito un gesto michelangiolesco per in-dicare la strada al piccolo Tobia. Se questa ipotesi di committenza coglie nel segno, Bembo senior rivelerebbe una sensibilità non comune nel riconoscere grandi talenti ancora in via di formazione. Oltre al cita-to dittico di Memling con San Giovanni e la Veronica, questa sezione riunisce al-tre opere appartenute e volute da Pietro, come il bassorilievo di Pietro Lombardo raffigurante la Madonna con il Bambino (cat. n. 1.8) che esibisce lo stemma Bem-bo accompagnato dall’impresa dell’alloro e della palma, la stessa che contrassegna l’intervento di restauro, promosso dal pa-trizio, della tomba di Dante a Ravenna, affidato alla bottega dello stesso scultore. Ne è testimonianza un disegno, forse un modello, incollato sul Commento del Lan-dino alla Divina Commedia, che l’autore stesso regalò in segno di ringraziamento

campo di studi del loro proprietario che introduce alla pratica di ideare iscrizioni ed epitaffi come quello che si può leggere ancora oggi in memoria dell’umanista ed amico Cristoforo Longolio in San France-sco a Padova. È composto da Bembo nel 1533 il corredo epigrafico della base rea-lizzata per esporre alla Villa Imperiale di Pesaro, l’Idolino, un esemplare in bronzo del I secolo a. C., riscoperto nel 1530, e ritenuto allora un Bacco (Firenze, Museo Archeologico, cat. n. 6.11), ora in mostra.

Attraverso la collezione si compone un’immagine degli interessi e delle passio-ni di Bembo che rivia continuamente agli altri nuclei espositivi del percorso, orga-nizzato come una narrazione che segue la biografia del letterato. Nella prima sezio-ne l’accostamento di due celebri esemplari postillati delle commedie di Terenzio (cat. n. 1.3 e 1.4) rievoca un episodio che dà la misura dell’eccellenza della formazio-ne umanistica ricevuta da Pietro: nel 1491 Angelo Poliziano, grande filologo fiorenti-no è in casa Bembo sul Canal Grande per consultare un codice antico dell’opera la-tina di proprietà di Bernardo e annotare le varianti nella sua copia a stampa, mentre al suo fianco Pietro fa altrettanto. Un anno dopo il giovane patrizio parte per la Sicilia per studiare il greco alla scuola di Costan-tino Lascaris. Da questa esperienza scatu-risce la prima opera di rilievo, il De Aetna (cat. n. 1.12), un dialogo sul modello di Platone e Cicerone, ambientato nella villa del Noniano, ristrutturata da Bembo padre che è l’altro protagonista del testo. Bernar-do, patrizio veneziano e alto funzionario del governo, è figura molto cresciuta nella considerazione degli studi: uomo di vasta cultura umanistica, frequenta ambienti importanti, dalla corte di Carlo il Temera-rio, duca di Borgogna, presso il quale si familiarizza con la pittura di Memling, a quella di Lorenzo il Magnifico, dove en-tra in contatto con la cerchia platonica di Marsilio Ficino, Cristoforo Landino e Poliziano. Qui si ambienta il legame amo-roso, celebrato in versi, nel quadro delle convenzioni platoniche e petrarchesche, con Ginevra Benci, episodio dal quale scaturisce il suo coinvolgimento nella commissione del ritratto della National Gallery di Washington a Leonardo, ancora in via di affermazione. Nel catalogo della

Tiziano, Tobiolo e l’angelo Venezia, Gallerie dell’Accademia.

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rinnovata concezione dell’amore, libera dagli stereotipi umanistici e la centralità dell’amicizia. Quest’ultimo tema è ribadi-to da un emblematico documento, le leggi della compagnia degli amici, sottoscritto da Bembo e alcuni dei patrizi veneziani che condividono con lui questa esperien-za, impegnandosi al reciproco aiuto e alla condivisione di ideali da suggellarsi con uno scambio di ritratti. È questo il clima culturale che, secondo l’interpretazione offerta da Alessandro Ballarin, alimenta la innovativa ritrattistica di Giorgione. In mostra sono affiancati il Doppio ritratto di Palazzo Venezia (cat. n. 2.12) e il Ri-tratto di giovane che si slaccia la veste di Budapest (cat. 2.13), emozionanti ritratti dell’anima. Nel primo dipinto si mette in scena la contrapposizione di due esperien-ze amorose diverse: l’amore come debi-litante stato di malinconia, espresso dal giovane in primo piano che tiene in mano un emblema della natura dolce e amara di questo sentimento, il melangolo, os-sia un’arancia amara, di contro all’amore appagato sensualmente del compagno. I sentimenti dei due protagonisti sono assai

al promotore dell’impresa (cat. n. 1.7). Si può facilmente immaginare quanto questi episodi e i numerosi contatti con le corti da Firenze, a Mantova, a Urbino e ancora i viaggi a Roma in cui il padre portò con sé il figlio, dovettero contare per la formazio-ne del giovane Bembo.

Nella sala successiva si evocano le pri-me grandi imprese letterarie ed editoriali di Pietro che, concluso il tirocinio uma-nistico, si rivolge alla letteratura volgare: pubblica per i tipi di Aldo Manuzio, edi-tore umanista, il Canzoniere di Petrarca e la Commedia di Dante, edizioni segnate dalla stessa cura filologica che lo scritto-re applica ai testi classici, e da una veste tipografica innovativa. I caratteri sono ispirati alla elegante scrittura del calligra-fo Bartolomeo da Sanvito e si distinguono per una nuova leggibilità; le pagine dagli ampi margini bianchi invitano ad anno-tare; il formato è pugillaris, tale cioè da non richiedere più un piano di appoggio per essere consultato. Il libro diviene un compagno di viaggio con cui dialogare in qualsiasi momento, o da esibire come sim-bolo di un certo status. Queste raffinate e costose edizioni – in mostra si ammirano un Virgilio e il Canzoniere di Petrarca (cat. n. 2.7 e 2.9) – furono subito ricercate e imitate in Italia, quindi in Europa, crean-do un nuovo tipo di lettore. Il Ritratto di giovane con il libro verde di San Franci-sco (cat. n. 2.8), qui attribuito a Giorgione, incarna questa nuova figura per la quale la lettura diviene pratica privata e persona-le, cibo per l’anima, e trasmette l’intensità del legame con il libro, nonché l’aspetto professionale: il guanto del giovane è ta-gliato per permettere di sfogliare più age-volmente le pagine. Nella stessa sala si incontrano due opere di Giovanni Bellini poco viste: il Ritratto di Gabriele Veneto, amico e corrispondente di Pietro (cat. n. 2.14), e la Madonna Dudley (cat. n. 2.15). Il grande patriarca della pittura veneziana è ricordato nei versi di Bembo («il mio Bellin») per il ritratto, perduto, di uno dei grandi amori della giovinezza, quel-lo con Maria Savorgnan, testimoniato da un carteggio appassionato. In quegli stes-si anni Pietro compone gli Asolani, libro d’amore d’ispirazione neoplatonica, steso in volgare, ambientato alla corte di Cateri-na Cornaro a Asolo in cui si riflettono una

Pietro Lombardo, Madonna con il bambino o stemma Bembo

Collezione privata.

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la fida Emilia Pio, ritratta in medaglia da Adriano Fiorentino (cat. 3.11), nota per le sue inclinazioni filoveneziane, che forse fu la committente del ritratto del giovane Francesco Maria della Rovere eseguito da Giorgione (cat. n. 3.3). Il grande elmo or-nato dal serto della quercia roveresca che compare in primo piano nel dipinto mostra uno di quei prodigiosi giochi di riflessi sulle superfici metalliche, grazie ai quali la pittura veneziana moderna si imporrà all’attenzione. Sono qui riunite anche le effigi scolpite di Isabella d’Este (cat. n. 3.4) e del suo cortigiano Girolamo Andre-as i(cat. n. 3.6), un busto-ritratto di Gian Cristoforo Romano, scultore che figura tra i personaggi del Cortegiano a discutere del paragone tra pittura e scultura. Non si è inteso convocare soltanto dei volti, ma mettere in scena, attraverso una scelta mi-rata di opere, i gusti figurativi di una sta-gione nel corso della quale le asprezze e la castigatezza emotiva della pittura di Man-tegna lasciano il posto alla dolcezza delle ‘arie’ e all’unione dei colori di Perugino (cat. n. 3.2), di Francesco Francia, e di Lo-renzo Costa (cat. n. 3.5), artisti oggetto di una fortuna sovraregionale.

Questo mondo lieve e brillante mostre-rà tutta la sua fragilità negli anni che se-guono la morte di Lorenzo il Magnifico,

simili a quelli espressi da Lavinello e Per-rottino, due dei personaggi degli Asolani. Nella seconda opera è messo in scena un esempio di contemplazione e di ascesi in senso neoplatonico: l’intenso giovane, tutto immerso nell’interiorità, slaccia l’e-legante fermaglio della veste alludendo al più alto grado d’amore, quello divino. Sul parapetto è raffigurato il simbolo tricipite della Prudenza, la virtù morale che, secon-do Ficino, apre la via alla contemplazio-ne del lume divino, traguardo finale del dialogo bembesco espresso dalla figura di Romito.

Il successo degli Asolani, dati alle stam-pe nel 1505 con una dedica a Lucrezia d’Este (cat. n. 2.1 e 2.2), a cui lo scrittore si era legato in un breve e misterioso af-faire amoroso, segna l’affermarsi di una esclusività della vocazione letteraria per praticare la quale Bembo matura il di-stacco definitivo da Venezia e dagli ideali della generazione paterna. Agli occhi di Bernardo la carriera politica al servizio della Serenissima era impegno imprescin-dibile che poteva conciliarsi con lo studio e la pratica delle lettere. Dopo i soggior-ni nella Ferrara estense, nel 1506 Pietro compie il distacco definitivo, scegliendo di trasferirsi alla corte dei Montefeltro a Urbino, la più brillante e cosmopolita e la più vicina a Roma, vero obiettivo di quel sofferto allontanamento dal padre e dagli amici. Nella «città in forma di palazzo», celebrata dal mantovano Baldassarre Ca-stiglione, nel suo dialogo del Cortegiano (cat. n. 3.9), dove Pietro gioca la parte del letterato elegante e mondano che discet-ta dell’amore cortese, maturano rapporti importanti con il magnifico Giuliano de’ Medici, con Bernardo Dovizi da Bibbiena, con Ottaviano Fregoso e Ludovico Canos-sa. La vivace e raffinata fioritura cultura-le di quella stagione è evocata nella terza sala del percorso espositivo, dove attorno a due testi emblematici di quella congiun-tura, il Cortegiano appunto, e l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (cat. n. 3.1), convengono i volti dei protagonisti in primis la duchessa d’Urbino, Elisabetta Gonzaga (cat. n. 3.12), ritratta dal giovane Raffaello con il celebre gioiello a forma di scorpione: a lei Bembo dedica la sua prima raccolta di rime composte nel segno del Petrarca (cat. n. 3.14). La accompagna

Raffaello, Ritratto di Elisabetta Gonzaga Firenze, Galleria degli

Uffizi.

Valerio Belli, Medaglia di Platone e Medaglia di Aristotele, Parigi,

Bibliotèque nationale de France.

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bre gruppo riscoperto nel 1506, che tanto entusiasmo aveva suscitato negli artisti e nei letterati (cat. n. 4.2), e dalle medaglie con i volti dei filosofi greci ideate dal Belli (cat. nn. 4.8-4.10).

È anche in campo architettonico che si misura il peso di questo grandioso con-fronto con l’aurea aetas di cui si vuole raccogliere l’eredità per rinnovarne lo splendore nel presente. La mostra evoca attraverso importanti disegni di architettu-ra lo studio che Raffaello conduce sul Pan-theon (cat. 4.23), l’impresa di villa Mada-ma e il cantiere di San Pietro che l’urbinate guida dal 1514, dopo la morte di Braman-te. In questa sezione della mostra Guido Beltramini presenta in modo innovativo i rapporti di Bembo con l’architettura e stu-dia le interferenze tra la codificazione de-gli ordini antichi che in quegli anni prende corpo e la codificazione linguistica. Pro-tagonista in questo tratto dell’esposizione è anche il rapporto che Bembo ebbe con Raffaello facendo da interlocutore nell’al-lestimento della stufetta del cardinale Do-vizi da Bibbiena in Vaticano, ricreazione moderna ispirata all’architettura delle ter-me romane e decorata alla maniera antica con stucchi e grottesche. L’ambiente era destinato al Bibbiena, diplomatico e let-terato con cui da tempo il veneziano cor-rispondeva, e per lui Raffaello dipinge la

di Pico, Poliziano e Ermolao Barbaro, e la discesa degli eserciti stranieri in Ita-lia. Dalla consapevolezza di questa crisi politica e culturale Bembo matura l’idea della necessità di dare a un paese diviso e debole uno strumento unificante attraver-so una lingua modellata sull’imitazione degli aurei esempi del Trecento toscano, di Petrarca e Boccaccio in particolare, e dotata di regole precise, prestigiosa e autorevole al punto da poter superare la frammentazione dei dialetti. In una let-tera all’amico Bibbiena nel 1516 scrive: «io dubito che ogni dì questa nostra Italia non si faccia più serva, e le nostre condi-zioni vadano piggiorando». La soluzione matura in parallelo a quella avanzata sul versante del latino e sulla base degli stes-si principi: contro una imitazione aperta a molti autori antichi, lo scrittore propugna la soluzione di pochi selezionati modelli organicamente assimilati: Virgilio per la poesia e Cicerone per la prosa. Le Prose della volgar lingua vengono stampate nel 1525 (cat. n. 4.1), ma la loro gestazione è già in fase avanzata negli anni del tra-passo da Urbino a Roma. È nella cornice della Roma di Leone X, tra vetuste rovi-ne e artisti che da ogni dove accorrono a studiarle, che Bembo ambienta il celebre passo di apertura del terzo libro dell’ope-ra, dove Raffaello e Michelangelo, reduci dall’impresa della decorazione delle Stan-ze vaticane e del soffitto sistino, possono divenire un modello di metodo valido an-che per la lingua in forza dell’imitazione dell’antico. La mostra trova proprio in questo cambio di stagione della cultura italiana – dalle corti a Roma – uno snodo importante. Il clima della corte leonina è evocato dalla presenza di uno dei suntuosi arazzi commissionati nel 1514 dal papa a Raffaello per la Cappella Sistina, raffigu-rante la Conversione di san Paolo (cat. n. 4.3), che testimonia la forza drammatica e l’eleganza del disegno toccate dal linguag-gio dell’artista in questa fase. Il gusto per le arti congeneri è messo in scena attra-verso un raffinato aspersorio in cristallo di rocca con le armi di papa Leone X, ideato da Valerio Belli vicentino, un artista che Bembo ha molto ammirato (cat. n. 4.5). La passione per l’antico e l’aspirazione a ri-crearlo in forme moderne è evocata da una copia in miniatura del Laocoonte, il cele-

Pieter van Aelst da cartone di Raffaello, Conversione di San Paolo Città del vaticano, Mesei Vaticani.

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Viatico per la mostra su Pietro Bembo a Padova

n. 6.1). In mostra questo capolavoro del pittore veneziano, che poco dopo avrebbe compiuto il suo primo viaggio a Roma, seguito dalle affettuose attenzioni del letterato, è esposto assieme al suo sigillo (Torino, Medagliere Reale; cat. n. 6.2), ri-portato all’attenzione in questa occasione: l’impugnatura con due efebi alati accostati di spalle parla delle propensioni antiquarie del suo proprietario, mentre l’episodio sa-cro scelto a rappresentarlo è il Battesimo di Cristo.

Bembo si spegne a Roma nel 1547 e viene sepolto nella chiesa di Santa Maria della Minerva, accanto alle tombe dei papi medicei Leone X e Clemente VII. A Pa-dova gli amici ed esecutori testamentari Girolamo Querini e Carlo Gualteruzzi si fanno promotori di un monumento in sua memoria nella Basilica del Santo, dove anni prima lo scrittore aveva chiesto il per-messo di erigere la propria sepoltura, im-maginata come un sepolcro rigorosamente aniconico, accompagnato da un’epigrafe, senza dar seguito all’impresa. Ora a realiz-zare il suo busto (cat. n. 6.14) è chiamato lo scultore-poeta Danese Cattaneo, allievo di Jacopo Sansovino che nel 1537, quando Bembo svolgeva le mansioni di bibliote-cario, aveva avviato la costruzione della Libreria Marciana. Su questo omaggio si chiude il percorso della mostra

l

Madonna con il Bambino, sant’Elisabetta e san Giovannino immersa nel paesaggio oggi al Louvre, piccola e preziosa come una miniatura, dotata di una coperta con una statuetta antica raffigurante una Dovi-zia che allude al cognome del destinatario (Dovizia-Dovizi; cat. n. 4.12 e 4. 13).

Oltrepassate le sale dedicate alla colle-zione riunita nella casa di Padova, di cui si è detto all’inizio di questo itinerario, la sezione finale della mostra è dedicata all’ultima stagione della vita di Bembo quando ormai settantenne ricevette la no-mina a cardinale da papa Paolo III Farnese, giunta a sorpresa e non senza contrasti a causa dei suoi scritti giovanili e del lungo legame con Morosina, da poco scompar-sa. Sospese l’incarico di storiografo della Serenissima per raggiungere nuovamente Roma e unirsi a quel collegio cardinalizio contrassegnato da una presenza di figure di eccellente formazione umanistica e alta levatura morale, come i cardinali Reginald Pole e Gaspare Contarini, negli anni deci-sivi che preparano il Concilio di Trento. Benchè il panorama artistico fosse ancora per tanta parte dominato dai pittori arche-ologi allievi di Raffaello, il travaglio attra-versato dalla Chiesa e dalle sue coscienze più sensibili si riflette nel terribile Giudizio Universale compiuto nel 1541 da Miche-langelo nella Cappella Sistina. Nel corso degli anni trenta Bembo si era avvicinato a Vittoria Colonna, promuovendone con la sua ammirazione il talento di poetessa. Con lei scambiò sonetti e ritratti e condi-vise l’interesse per le prediche del cappuc-cino Bernardo Ochino, familiarizzandosi con quell’ala riformatrice della Chiesa det-ta degli spirituali. Nell’esposizione pado-vana la nuova temperie è suggerita dall’ac-costamento tra la Crocifissione del British Museum (cat. n. 6.5), un disegno dono, lavorato a matita nera con tecnica mirabi-le, offerto da Michelangelo alla Colonna come oggetto di privata meditazione reli-giosa, ricevendone in cambio un elegante codice manoscritto con le Rime spirituali da lei composte (cat. n. 6.6).

Il nuovo status cardinalizio del Bembo è fissato da Tiziano in un intenso ed ele-gante ritratto dove il cardinale, il mento ornato da una barba bianca, gli occhi feb-brili, è atteggiato in posa retorica (Wa-shington, National Gallery of Art; cat.

Raffaello, Petite Sainte Famille Parigi, Musèe du Louvre.

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(Su tissutale, un falso angli-cismo nel linguaggio medico (e sull’uso di internet nella lessicografia)), Arturo Tosi (Conflitti di lingue e compe-tenze a contatto: tre casi con l’italiano in ambienti anglo-foni).

Se lo scopo primo del volume, ottimamente curato (cioè esente da quei refusi anche madornali che sem-brano inevitabili in un’epo-ca di edizioni affrettate), è di “rallegrare” il festeggia-to. Non secondaria sembra la sua funzione di stimolo molteplice e di indirizzo al comune lettore, perché filo-logia ed erudizione, e cultu-ra, non restino chiuse nelle accademie ma tornino a cir-colare, e sostituiscano un po’ di “codici” confezionati e di “sfumature” colorate.

Luciano Morbiato

Don GuiDo BeltramePastore e ricercatoreA cura di Franco BenucciCleup, Padova 2012, pp. 514.

A distanza di dieci anni dalla perdita di don Guido Beltrame, straordinaria figu-ra di parroco e di pubblicista di storia locale e di argomen-ti religiosi, per decenni sem-pre attivo oltre il suo eser-

origine, progressu, vicibus, pretio di Cesarotti), Giosuè Lachin (La «langue romane» da Raynouard a Diez), Pier Vincenzo Mengaldo (Strut-ture fini e costruzione nella Sera del dì di festa), Mario Chiesa (Il gelso sliricato), Pietro Trifone («I diziona-rii sono sempre un dall’altro copiati» Cesare Cantù e la lessicografia del primo Otto-cento), Maria G. Lo Duca (La grammatica nei Pro-grammi e nelle Indicazioni per la scuola dell’obbligo, dall’Unità a oggi), Rossa-na Melis (Di paese in paese. Lettere di Mario Pratesi a Emilia Toscanelli Peruzzi), Mario Mancini (‘O canta-storie (1895). I paladini di Ferdinando Russo), Alfredo Stussi (Appunti sul poemetto La morte del Papa di Gio-vanni Pascoli), Andrea Afri-bo (Lingua e stile di Roberto Longhi), Gino Belloni (Qua-simodo, in una città lontana), Patrizio Tucci («Je voulais dire une chose vraie de notre vie…» Masques et identités dans Blanche ou l’oubli de Louis Aragon), Sergio Boz-zola (Primo avvicinamento alle Ultime lettere di con-dannati a morte e di depor-tati della Resistenza), Gian-felice Peron (Leone Traver-so traduttore di T.S. Eliot), Antonio Daniele (Pasolini “corsaro”), Luca Zuliani

bino (Il ramo di biancospi-no. Breve ricognizione sulla diffusione di un topos lette-rario), Alvaro Barbieri (La regalità ha sete di sangue: sovranità sacra e riti cruen-ti nel Perlesvaus), Alvise Andreose (L’allungamento di -n finale prevocalica in italiano e romeno), Maurizio Dardano (Tipi di subordina-zione completiva in italiano antico), Nello Bertoletti (Un rendiconto di spese in vol-gare (Roma, 1279)), Furio Brugnolo (Il cuore “leg-giadro” del giovane Dante. Commento al sonetto O voi che per la via d’amor passate (Vita nuova, VII[2]), Mirko Tavoni (Perché i volgari ita-liani sono quattordici (De vulgari eloquentia Ix7), Vit-torio Formentin (Altre note-relle sulla tenzone tridialet-tale del codice Colombino di Nicolò de’ Rossi), Andrea Cecchinato (Osservazioni filologiche, storico-cultura-li, linguistiche e stilistiche sulla Storia della guerra per i confini di Nicoletto d’Ales-sio, Luca D’Onghia (I sonet-ti bergamaschi di Giorgio Sommariva), Chiara Schia-von (Il facchino: storia di una parola e di un perso-naggio), Piermario Vesco-vo (Tra Padova e Venezia: lo spazio dell’Anconitana di Ruzante), Mauro Cano-va (Moralismo e trionfo dei “vecchi” nell’anti-comme-dia La Veniexiana), Nuccio Ordine (Le Balet comique de la Royne et les devises: les dispositifs iconiques et verbaux, la «plaisante escor-ce», le «navire Françoys» et l’allegorie de Circé), Tobia Zanon (Sul testo dell’Isto-ria del concilio tridentino di Paolo Sarpi), Silvia Morga-na (Appunti sul Vocabolario bergamasco italiano latino di Giovan Battista Angeli-ni), Franco Fido (Elogio di Francesco Gritti), Carlo Enrico Roggia (La prolu-sione De linguarum studii

«una BriGataDi voci»Studi offerti a ivanoPaccagnella per isuoi sessantacinque annia cura di C. Schiavone A. CecchinatoCleup, Padova 2012, pp. 636.

Proprio un bel regalo di compleanno questa miscel-lanea (di quasi 650 pagine!) che amici e colleghi hanno offerto a Ivano Paccagnel-la, docente di Storia della Lingua Italiana nella nostra Università! Nella inizia-le Bibliografia degli scritti viene dipanato il lungo elen-co (quasi 100 titoli) dei lavo-ri scientifici di Paccagnella, dal lontano Mescidanza e macaronismo: dall’ibrida-zione delle prediche all’in-terferenza delle macaronee (1973) fino al recentissimo Questioni lessicali ruzantia-ne (2012), mentre è in corso di pubblicazione la pluri-decennale impresa, ideata dal suo maestro Gianfranco Folena, ripresa e diretta da Paccagnella, del Vocabo-lario del pavano: uno stru-mento basato sullo spoglio e sullo studio del teatro di Ruzante e dei testi in “lingua pavana” che lo precedono e seguono. Il plurilinguismo del Cinquecento e la lin-gua di Ruzante sono infatti i sentieri di ricerca lettera-ria e linguistica che più sono stati battuti in quarant’anni da Ivano Paccagnella, tanto che non è retorico parlare di «una lunga fedeltà a tutto quanto sta sopra o sotto il rigo della ‘norma’, norma che è spesso la versione desalinizzata della lingua» (dalla Premessa del volume miscellaneo).

La “brigata di voci” evo-cata dal titolo è formata da 35 saggi, che racconta-no e spiegano la comples-sità e l’interesse di singoli testi letterari, ma non solo, antichi e moderni; ne sono autori colleghi, allievi, amici del festeggiato, che mi limi-to qui a elencare assieme ai titoli dei contributi, abba-stanza articolati da mostrare la variegata ampiezza degli argomenti trattati, rinuncian-do, per ragioni di spazio, a note di lettura. Ecco dunque i componenti della “brigata”: Lorenzo Tomasin («Da le Veniesie, vinizian di buoni e di maore» Per la storia delle parole ‘Venezia’, ‘veneziano’ e ‘veneto’), Francesca Gam-

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PADOVA, CARA SIGNORA...Biblioteca

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Paolo Fresu, Claudio Fasoli (per molti anni anche diretto-re artistico del festival). Ma accanto a queste scelte che si collocano su un terreno saldo e affidabile, sono state propo-ste valide esperienze innova-tive che hanno aperte strade musicali inusuali e che hanno rivelato artisti poco cono-sciuti o sconosciuti del tutto al grande pubblico. Fin dall’i-nizio il festival padovano è voluto uscire dai ristretti con-fini dei cultori del jazz in una duplice direzione: da un lato sono stati invitati artisti che hanno anche solo attraversa-to il mondo del jazz, creando una intersezione, talora una interessante fusione tra aree musicali diverse (ultimo in ordine di tempo è il concerto di Gino Paoli con Rea, Gatto, Bonaccorso e Boltro con cui si è chiusa la passata edizione del festival); dall’altro i con-certi si sono svolti anche in luoghi tradizionalmente non deputati a questo tipo di mu-sica, come il conservatorio “Pollini”, invaso, con buo-na pace dei puristi, qualche anno fa da sonorità diverse. Ma, se un conservatorio è pur sempre uno spazio depu-tato all’esecuzione musicale, non così un hotel, segnata-mente il Plaza, che durante la settimana del festival si trasforma in un jazz club. È stata poi la volta del caffè Pedrocchi e infine di molti ristoranti della città, come se ci si trovasse, si parva licet, nel Village di New York. In questa edizione i locali coin-volti sono stati ben dicianno-ve, alcuni dei quali dislocati anche nei dintorni del cen-tro cittadino. Integrano la rassegna due mostre: quella di Giorgio Cattani, Di là da dove, all’Hotel Plaza, e quel-la delle fotografie di Michele Giotto, fotografo ufficiale del festival, “Attimi di Jazz” alle Scuderie di Palazzo Moroni.

Ma passiamo ora alla musi-ca. Non possiamo passare in rassegna tutti gli eventi arti-stici in cartellone, ma almeno segnaliamo i concerti dei sas-sofonisti Claudio Fasoli, in duo con Luca Garlaschelli al contrabbasso (nell’occasio-ne è stato presentato il libro Claudio Fasoli. Note inte-riori di Francesco Martinelli per le edizioni Siena Jazz), e Marco Strano, eclettico musi-cista, pittore e scenografo pa-dovano, che si è proposto con un quartetto composto anche da Giko Pavan al contrabbas-so, Bruno Cesselli al piano-forte e Marco Campigotto alla batteria.

15° PaDova JaZZ FeStival11-18 novembre 2012

Al quindicesimo anno di vita, il “Padova Jazz Festival” va ormai conside-rato un appuntamento fisso per la vita culturale della nostra città e una tra le più interessanti manifestazioni di musica jazz in Italia (manife-stazione che meriterebbe di essere ancor più conosciuta a livello nazionale di quanto è ora anche nei grandi mezzi di comunicazione). Questa rassegna è nata grazie alla tenace volontà, all’impegno e alla passione di Gabriella Piccolo Casiraghi, presidente dell’Associazione Culturale Miles, che ha saputo convo-gliare in un ben preciso pro-getto artistico molte energie istituzionali e imprendito-riali. Ha creato con entusia-smo questa iniziativa, nella quale, il Comune di Padova e, nel corso degli anni, molte aziende si sono succedute nel sostenere economicamente il festival. Da tre anni an-che Veneto Jazz, collabora nella organizzazione e con il suo presidente Giuseppe Mormile, alladirezione arti-stica per la creazione di un cartellone ricco e originale, tanto più interessante in un momento difficile per la cul-tura italiana, che riflette (e amplifica) quello di tutta la società. Ma ostacoli e ristret-tezze (che pure non devono mai essere dimenticate) pas-sano in secondo piano quan-do si assiste a una serie di spettacoli di alto livello, belli e appassionanti.

Il “Padova Jazz Festival” nel corso di questi anni ha presentato molti musicisti già affermati, spesso stelle di prima grandezza del mon-do del jazz, tra cui, senza fare la lista completa, che è davvero impressionan-te, Richard Galliano, Steve Lacy, Lee Konitz, Wayne Shorter, Ornette Coleman, McCoy Tyner, Roy Haynes, Jan Garbarek, Charles Lloyd e, per gli italiani, Giovanni Tommaso, Stefano Bollani,

con la morte vedendo un cadavere: “Da allora in poi non fissai più un cadavere, quando non posso farne a meno ‘vedo’, ma ‘non vedo’: c’è una bella differenza”.

Largo spazio è dato alla scelta del sacerdozio. “La decisione sembrò improvvi-sa, ma invece maturata, nella più gelosa segretezza, da lungo tempo”.

Nell’ottobre 1935 il giova-ne Beltrame fa il suo ingres-so nel “glorioso” seminario di Padova ove mantiene “un fortissimo senso di famiglia, così come ho sempre colti-vato uno sviscerato amor di patria”, rivelato in una sua poesia, “Italia! Italia!”, con “...alcuni accenti lirici che non ripudio nemmeno ora”.

Non viene trascurata la realtà di quel tempo: “Il mio ‘fascismo’ di allora non era altro che un’espressione del mio amor di patria, ma nes-suno ‘mai’ cercò di illumi-narmi sul significato di ditta-tura, di fascismo, ecc.”.

I ricordi coinvolgono la vita nel seminario, gli amici, con la gratitudine verso i suoi insegnanti, in particola-re degli Studi Biblici, “forse la disciplina che studiai con maggiore impegno”.

Verrà la guerra e la prima-vera del ’45 e la liberazio-ne: ”Ma i guai purtroppo non erano finiti; gustammo allo-ra le ...delizie della Banda del Maggiore Carità”. E qui ancora la solidarietà con i perseguitati, il soccorso, i rischi e la sua avventura a Palazzo Giusti e l’aiuto del vescovo Agostini.

Infine una serie di altri capitoli: “Parroco si diven-ta”, “Benedicere et beneface-re”, “Restauro di opere d'ar-te”, “Patronato femminile”, “S. Tomaso centro di atten-zione culturale”, “Cammina-re insieme nei tempi nuovi”.

Un’autobiografia che dun-que trascende più spesso

cizio spirituale nella chiesa di S. Tomaso Becket adia-cente al Castello dei Carra-resi, questo volume contiene quanto di Lui si poteva recu-perare attraverso la memo-ria di un’ingente quantità di saggi, di testimonianze e documenti, raccolti con il contributo di più persone, con il determinante interven-to dei familiari.

Un materiale presente in rilevante misura (circa 300 pagine) e di diversa prove-nienza: una cinquantina di testimonianze e dieci saggi relativi ai suoi interessi pub-blici (ad esempio per il recu-pero del carcere nel Castel-lo), artistici e di catechismo sociale, che danno nel loro insieme in diversa prospetti-va quanto di meglio e di più non si poteva realizzare.

Un tributo davvero ecce-zionale alla conoscenza di un personaggio della storia con-temporanea cittadina da non dimenticare e da farlo rivi-vere con l’esempio della sua vita dedicata al suo essere “Pastore e Ricercatore”.

Della sua produzione sto-rico-religiosa c’è nel libro soltanto qualche richiamo, ma nello stesso volume è tuttavia presente una sua opera autografa, pubblicata “pro manuscripto” nel 1992, unautobiografia dal titolo “La mia parabola”, che nel volume occupa ora le prime duecento pagine, con rife-rimento alla Parabola del Figliol Prodigo.

È questa per me una feli-cissima scoperta, non solo per quel che può riguardare l’operosità dell’autore, ma soprattutto perché si tratta di un saggio autobiografi-co compilato con uno stile personale di scrittura vivace, spontanea, aneddotica e veri-tiera che offre di don Bel-trame un ritratto per qualche aspetto sorprendente.

Nel primo capitolo, “L’al-ba”, il ricordo va al padre che un giorno “...di fronte all’ombra del fico davanti alla casa mi disse in segre-to, con aria di solenne miste-ro: Ricordati che tu sei stato ‘stampato’ – così si espres-se – il 25 marzo 1918 e sei nato, esattamente 9 mesi dopo, il 25 dicembre 1918”.

L’infanzia, prima nella natìa Maserà e poi a Cartu-ra, rievoca quel mondo della campagna veneta, le inter-minabili passeggiate, i bachi da seta, un cocomero ecce-zionale, “ero ghiottissimo di anguria”, la “pazza e gigan-tesca” Gaetana, l’incontro

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oltre i limiti della propria persona per consegnare oggi a noi un don Beltrame con tutto il suo carattere, in que-sto ulteriore lascito che ben completa la sua memoria.

Giuliano Lenci

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si con scogli di ogni sorta: tono confessionale, pateti-smo stantio, chiusura pretta-mente individuale, orizzonti limitati, che solo ai grandi è stato concesso di supera-re. Tre le opere segnalate: Nel cuore della Madre, di Paolo Butti, Edizioni Fee-ria – Comunità di San Leo-lino, 2010; Di un’altra luce, di Luigi Riceputi, Bergamo, Moretti & Vitali, 2010; L’Ar-ca, di Marco Cian, Venezia, Multigraf, 2011.

Paolo Butti pone al cen-tro della sua ricerca poetica l’ispirazione religiosa, pro-fonda e sorgiva, e più preci-samente il mistero cristiano. Nella raccolta egli costrui-sce una specie di oratorio, quasi un’antica rappresen-tazione medioevale, sulla vita di Maria ripercorsa in un succedersi di 17 “stazio-ni”, dall’Annunciazione alla Pentecoste, in cui appro-fondisce, quasi scavandovi dentro, le scelte del cuore di una donna, la cui immensa maternità diventa esperien-za sconvolgente e imper-scrutabile. La narrazione si dipana come una complessa sinfonia, che alterna silen-zi inquietanti, dialoghi ser-rati, pause animate e respiri affannosi. Il tutto espresso con un linguaggio pulito, rigoroso, di una semplici-tà alta e nobile che suscita emozioni profonde.

Poesia laica quella di Riceputi, che si esprime ora in immagini lievi e mobili, quasi lampi che illuminano improvvisi un particolare, ora in racconti che si dipa-nano rapidi a far emergere un ritratto, a rievocare un ricordo, a cantare un senti-mento. Di un’altra luce fa pensare a un antico libro d’ore: vi si snoda una serie di immagini di vita semplice

PremiocamPoSamPiero xxi edizione

Nell’edizione 2012 il Pre-mio Camposampiero è tor-nato alla sua formula origi-naria. Le opere inviate dagli autori sono pervenute da tutte le regioni d’Italia, segno palese che il bando di con-corso pubblicato nel 2011 ha raggiunto ogni angolo del paese, come ci si augurava. Proseguendo l’esperienza delle recenti edizioni è stato proposto anche il concorso “Parole e immagini”, riserva-to a persone di età compresa tra i 16 e i 20 anni, invitate a esprimersi con due linguaggi diversi e complementari: la fotografia e la scrittura.

Grazie alla notevole par-tecipazione, la giuria del Premio, presieduta dalla scrittrice Antonia Arslan, ha potuto confrontarsi con parecchi autori del nostro tempo impegnati nella sfida della poesia d’ispirazione religiosa, intenti a misurar-

pianoforte, Dario Deidda al basso elettrico, Zeno De Rossi alla batteria e Ernesto Lopez Maturell alle percus-sioni. Chi si aspettava una riproposizione dei pezzi di Michael Jackons è stato delu-so: Ottolini ha letteralmente reinventato le popolari can-zoni, che in alcuni casi sono apparse quasi irriconoscibili (facilmente identificabile è rimasto soprattutto il tema principale della irrinuncia-bile Thriller). In compenso sono state assorbite molte suggestioni dell’intera storia del jazz, dalla musica delle grandi orchestre dello swing degli anni Venti e Trenta del secolo scorso fino al free jazz d’avanguardia. Ci sono già stati esperimenti di questo tipo. Basti pensare alla rilet-tura da parte di Miles Davis di una canzoncina pop di Cindy Lauper o delle mu-siche dei Doors da parte di Giorgio Gaslini: si trattava di interpretazioni, per così dire, d’autore, di riletture ge-niali, ma che mantenevano l’impianto musicale di par-tenza. Nel caso di Rava e di Ottolini, invece, l’interpreta-zione si è spinta fino a esiti che, volutamente, superano il modello originale.

Mirco Zago

tissimo trombettista di New Orleans, si è presentato a Padova con un quintetto con Brice Winston (sax tenore), Fabian Almazan (pianofor-te), Joshua Crumbly (con-trbbasso), Kendrick Scott (batteria). La carriera pro-fessionistica di Blanchard è iniziata in modo prestigioso già nei primi anni Novanta del secolo scorso con l’or-chestra di Lionel Hampton ed è poi proseguita con i Jazz Messengers di Art Blakey come trombettista al po-sto dei famosissimi fratelli Marsalis. Nel decennio suc-cessivo Blanchard si è dedi-cato alle colonne sonore per il cinema collaborando con il regista Spike Lee. Il concerto padovano ha messo in luce, se ancora ce ne fosse biso-gno, il suo grande talento e la sua forza musicale.

Il festival si è chiuso con l’esibizione di uno dei più affermati jazzisti italiani, il triestino Enrico Rava, che ha alle spalle una prestigiosa carriera, ma che ha ancora la voglia di cimentarsi con nuove prove e di percorre-re strade musicali originali, anche se rischiose. Questo concerto è stato, da questo punto di vista, la sintesi dello spirito che anima il “Padova Jazz festival” in quanto ha fuso sia le certezze di musici-sti dall’alto livello artistico e dal profilo musicale ben pre-ciso sia la ricerca di nuove sonorità grazie all’intreccio di suggestioni provenienti da mondi diversi. Rava, infatti, con una vera e propria big band, ha presentato una serie di pezzi rielaborati sulle can-zoni di un’icona della musica pop del nostro tempo, quelle di Michael Jackson. Oltre a Enrico Rava alla tromba, l’ensemble è composto da Mauro Ottolini al trombone, che ha anche firmato gli ar-rangiamenti e a cui si deve gran parte dell’operazione artistica, Andrea Toffanelli e Claudio Corvini alle trom-be, Daniele Tittarelli e Dan Kinzelman ai sax, Marcello Giannini alla chitarra elet-trica, Franz Bazzani alle tastiere, Giovanni Guidi al

Il momento culminante del festival è rappresentato dai tre concerti tenuti al teatro Verdi. Come l’anno scorso, anche questi sono stati con-certi doppi perché in ogni serata, prima dell’evento musicale principale, si sono esibiti tre pianisti, rispettiva-mente Giovanni Guidi (che ha anche partecipato all’ulti-mo concerto nel teatro pado-vano), Riccardo Arrighini e Claudio Filippini. La finalità di questa operazione è quel-la di allargare ancora di più l’offerta artistica, permetten-do anche ai musicisti più gio-vani di esibirsi di fonte a una grande pubblico, e nel con-tempo di creare un dialogo tra forme espressive diverse. E sia pure, ma si corre il ri-schio di mettere in scena due distinti eventi, di cui il pri-mo potrebbe erroneamente essere accolto solo come un momento di intrattenimento, mentre i tre pianisti hanno meritato piena attenzione.

Le serate al Verdi sono sta-te inaugurate da uno splendi-do concerto di David Murray con il suo gruppo The Black Saint Quartet composto da musicisti di grande efficacia come Marc Cary al pianofor-te, Jaribu Shahid al contrab-basso e Hamid Drake alla batteria. David Murray è un sassofonista californiano, ma molto legato all’Europa, che, partendo da influenze del free jazz di Albert Ayler e Archie Sheep, si è avvi-cinato a forme più tradizio-nali, prendendo a modello sassofonisti come Coleman Hawkins o Ben Webster, senza passare, a differenza di gran parte dei musicisti della sua generazione, per la lezione di John Coltrane. Eppure, nel suo concerto padovano, ricco e potente, tra le tante suggestioni, dai ruggiti “free” alla Ayler fino alla dolcezza melodica di Hawkins, mi è sembrato che ci fosse anche la complessità di fraseggio e la precisione di ritmo di Coltrane (sia detto con ammirazione), sostenuti l’uno e l’altra dalla bravura di tutto il quartetto.

Terence Blanchard, no-

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tiePolo, PiaZZetta,novellil’incanto dellibro illustrato

Una mostra unica nel suo genere, per vastità e com-pletezza di trattazione, tra-sforma le sedi espositive dei Musei Civici agli Eremitani e di Palazzo Zuckermann in una straordinaria galleria, dove accanto a 115 volu-mi illustrati del Settecento vengono esposti fogli sciolti e incisioni, disegni e dipin-ti. L’esposizione, curata da Vincenza Cinzia Donvito, Francesco Paolo Petronelli e Denis Ton, con la direzione generale di Davide Banzato e Francesco Aliano, si quali-fica come una sorta di viag-gio affascinante alla scoperta di un aspetto culturale molto importante nella Repubbli-ca di Venezia settecentesca, quello dell’editoria che ha visto la collaborazione d’im-portanti artisti veneziani del XVIII secolo. Sfilano così, davanti agli occhi dei visi-tatori edizioni rare e pre-ziose, le cui pagine svelano antiporte e cornici, vignette o preziosi finalini. I volu-mi, le stampe sciolte tratte dagli stessi libri e incisio-ni autonome documentano la ricchezza illustrativa set-tecentesca e nel contempo l’attività grafica degli artisti ai quali si deve l’invenzio-ne grafica delle opere. Pit-tori che vengono ricordati in mostra ognuno con un dipinto, quasi a sottolinea-re la relazione tra editoria e produzione artistica.

Le opere della Biblioteca Civica, dei Musei Civici agli Eremitani e della Bibliote-ca Universitaria di Pado-va sono affiancate a quelle di collezioni private e di importanti istituti culturali del Veneto attraverso nove sezioni che privilegiano, di volta in volta, un approccio cronologico, monografico o tematico.

Il libro illustrato del Set-tecento diventa protagonista e riporta di attualità quel-le che erano le sue funzio-ni più specifiche: la lettura, il collezionismo, il piacere di godere esteticamente del volume in quanto oggetto d’arte. Ecco allora che la storia dell’illustrazione libra-ria si snoda partendo dall’ap-porto dei grandi Maestri, primo tra tutti Giambattista

do come ogni epoca abbia conosciuto un modo pecu-liare di rappresentare Gesù, esattamente come risposta al bisogno degli uomini di quel tempo. La ricerca di signi-ficato di questa espressione artistica è stata commentata da brani musicali per arpa e flauto e dalla lettura di brani evangelici.

Giovedì 6 dicembre, per ricordare la figura di David Maria Turoldo, che presie-dette la giuria del premio dal 1982 al 1992, è stato pro-iettato il film “Gli ultimi”, regia di Vito Pandolfi e sce-neggiatura di Turoldo stesso. L’8 dicembre presso il San-tuario della Visione ha avuto luogo il concerto dell’orche-stra dell’Accademia musi-cale di Schio e del coro I Polifonici vicentini, che hanno eseguito il Magnificat di John Rutter per soprano, coro e orchestra: un’opera poco conosciuta dal grande pubblico, che ha suscitato profonda emozione. Dome-nica 9 dicembre ha avuto luogo la cerimonia finale, commentata dalla musica dell’Accademia Filarmonica di Camposampiero e dalla lettura di testi dei premiati letti da parte di Laura Cavi-nato.

Valeria Martellozzo

giovani, presieduta da Giu-seppe Donegà, ha premiato Costanza Biasibetti, il cui testo ha commosso il pubbli-co per l’intensità e la forza dell’espressione.

La giornata della premia-zione è giunta a coronamen-to di una settimana vissuta all’insegna della religiosità espressa nei diversi linguag-gi della poesia, della pittura, della musica e del cinema.

Mercoledì 5 dicembre la serie di incontri è stata aperta da Paolo Crepet che ha dialogato con i giovani degli Istituti Superiori sul tema “Il coraggio di cresce-re, la voglia di futuro”. Nella serata della stessa giornata, presso i Santuari antoniani, è stato presentato a un folto pubblico un grande politti-co donato recentemente alla chiesa di San Giovan-ni: si tratta di un importan-te mosaico che rappresenta il volto di Gesù e occupa il centro di una serie di 34 tele di pittori diversi – italiani, spagnoli, francesi, argentini e iraniani –, ciascuna delle quali interpreta un episodio della vita di Cristo. L’opera è stata presentata da Ettore Vio, proto della basilica di S. Marco di Venezia, che ha illustrato il rapporto tra pit-tura e religione, sottolinean-

e quotidiana eppure piena, di un’esperienza che fissa mille piccoli episodi eppure è totale, di una riflessione che a volte assume la forma della preghiera. Si sfoglia un po’ alla volta, lentamen-te assaporando la luce di un tramonto, la cordialità di un ritratto, l’umanità pronta a comprendere dei protagoni-sti di un avvenimento quo-tidiano.

Nei testi essenziali, quasi metafisici, di Marco Cian voce narrante e coro intro-ducono e commentano sto-rie di personaggi che sulla scena raccontano le loro esperienze di solitudine e di ricerca d’amore, di errori e di impegno, di speranze e di disillusioni, in quell’alter-nanza di lotte e di sogni che sono le diverse facce della vita umana. C’è qualcosa di grande in questa costruzio-ne: un’architettura sapien-te che sa mettere in scena personaggi complessi, che presentano ciascuno una condizione soggettiva che si fa esemplare e sintomatica di una generale condizione sociale e umana. E l’impres-sione è accentuata dai versi che si susseguono con un ritmo altalenante, tra pause e forti accelerazioni, con accenti che impongono ora una lettura lenta ora affretta-ta o scandita.

Vincitrice del premio è risultata la raccolta di Serena Dal Borgo, Non ancora. Di molta acqua e molto fango sono intrise le prime quattro poesie dell’omonima sezione che affrontano una delle più orrende cicatrici nazionali: la tragedia del Vajont del 9 ottobre 1963. Rievocando-la, Serena allarga la propria memoria dolorosa: non parla solo di sé ma canta “l’ora di tutti”. La voce dell’au-trice, che nei testi succes-sivi diventerà quella di una donna sola, di una ragazza violentata e soprattutto di una madre ferita, si fa richie-sta di un porto sicuro per arginare lo smarrimento. Il fango del Vajont, la galleria dei lutti, la carie della sof-ferenza sono tanti i demoni, eppure la luce della speranza non si spegne. Lo testimonia la bellissima preghiera con-clusiva della raccolta: “credo nella tempesta / credo nel cielo e nella terra. / credo nelle tue parole / nella forza dell’amore. / nella grandine e nei fulmini / ma non credo di credere bene. / Credo come posso”

La giuria della sezione

Incontri - Mostre

centro turiStico Giovanile GruPPo “la SPecola”35122 PADOVA - Via Aleardo Aleardi, 30Tel. e Fax 049 654210; cell. 340 55 22 764

XIX CORSO “CONOSCI LA TUA CITTA” 2013DoPo Giotto: altri teSori Del trecento PaDovanoGiovedì 7 febbraio, Chiesa e Società nella Padova del Trecento (Antonio

Rigon).Giovedì 14 febbraio, Il monumento funerario: simboli, significati, forme

(Piera Ferraro).Giovedì 21 febbraio, La lezione di Giotto e i Riminesi a Padova

(Alessandro Volpe).Giovedì 28 febbraio, Guariento di Arpo (Davide Banzato).Giovedì 7 marzo, Giusto de’ Menabuoi al Battistero e al Santo

(Annamaria Spiazzi)Giovedì 14 marzo, Alti-chiero da Zevio e Jacopo Avanzi (Luca Baggio).Giovedì 21 marzo, Jacopo da Verona nell’oratorio di S. Michele

(Giovanna Mori).Giovedì 4 aprile, La miniatura a Padova dopo Giotto: la chiesa, la città,

la corte (Giordana Mariani Canova).Giovedì 11 aprile, Dopo Giotto: tesori per la corte carrarese, Tesori per

la Chiesa padovana (Giovanna Baldissin Molli).

Sabato 2 marzo, ore 16.30, sala Anziani, il dott. Pietro Favero, terrà la conferenza: I veneti antichi tra storia e mistero.

Sabato 9 marzo, ore 16.30, sala Anziani, Giorgio Ronconi terrà la conferenza: Pietro Bembo e la città di Padova.

Sabato 16 marzo, ore 16.30, sala Anziani, Mario Bertolissi, terrà la conferenza: Regioni, Province, Città metropolitane: costituzione e amministrazione, progetti, realizzazioni.

Sabato 23 marzo, ore 16.30, sala Anziani, la dott. Marisa Sottovia, studiosa di storia locale, terrà la conferenza: La peste a Venezia.

circolo Storici PaDovaniGall. Cappellato Pedrocchi, 11 - tel. 049 655719

Mostre

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va, nel 1732, a opera della Tipografia del Seminario, per volontà del vescovo Barba-rigo viene pubblicato il pre-gevole volume Numismatica virorum illustrium ex Barba-dica gente, con le incisioni del fiammingo, ma naturaliz-zato veronese, Robert Aude-nauder.

Particolarmente ricco è il settore dedicato ai libri a carattere scientifico o relativi ad Atlanti geografici, manua-li di navigazione, enciclope-die sugli usi e i costumi di paesi esotici. Volumi dove le immagini fanno scoprire strane piante, animali scono-sciuti, fogge e volti diversi, a volte in bilico tra realtà e fantasia. Non ci si stupisce allora che i nobili veneziani del Settecento, attirati dalla preziosità dei libri, spesso andassero nelle librerie “più per leggere e studiare che non per comprare”.

La mostra ai Musei Civi-ci agli Eremitani e Palazzo Zuckermann resterà aperta fino al 7 aprile 2013, dalle 9.00 alle 19.00, chiuso il lunedì.

Maria BeatriceRigobello Autizi

del Parnaso Italiano, diver-se versioni per le comme-die di Goldoni, affrontate a più riprese sia per Pasquali (1761-1787) che per Zatta (1788-1795).

Un genere librario molto in voga tra i Veneziani era quello delle così dette pub-blicazioni d’occasione, rac-colte poetiche edite in rela-zione a eventi ufficiali o privati. Ingressi solenni dei procuratori di San Marco, nozze, monacazioni, veniva-no tradotte in rime e pubbli-cate. I volumi avevano per lo più come caratteristica un’antiporta araldica con il ritratto del personaggio cele-brato inserito in una ricca cornice, dove l’inesauribile fantasia rococò lascia gra-dualmente il posto all’ele-ganza neoclassica.

A Palazzo Zuckermann tro-vano posto anche una serie di volumi che svelano una delle grandi passioni del secolo, la riscoperta dell’antico, la pre-dilezione per la cultura anti-quaria e il collezionismo, set-tore dove la ricchezza delle illustrazioni e la qualità degli incisori raggiungono vertici straordinari. Proprio a Pado-

ditore Giambattista Albrizzi, dove l’artista rivela grandi capacità innovative. Tra le opere esposte si distingue quello che è considerato uno dei massimi capolavo-ri dell’editoria veneziana del secolo, La Gerusalem-me Liberata, del 1745, frut-to della collaborazione di Piazzetta e Albrizzi, un testo fin da subito ricercatissimo e introvabile che ottenne un successo internazionale senza precedenti.

Nella prima metà del seco-lo uno dei fenomeni più inte-ressanti è la pubblicazione dei grandi testi della lette-ratura italiana e straniera, con l’inserimento di ricche illustrazioni spesso opera dei migliori artisti e inciso-ri veneti come Fontebasso, Zompini, Leonardis, Crivel-lari e Giampiccoli.

Nella seconda metà del Settecento appare sulla scena editoriale Pietro Anto-nio Novelli (1729-1804), che diventerà uno dei disegna-tori più importanti e fecondi del secolo. Egli lavora per i maggiori editori venezia-ni creando, tra l’altro, varie illustrazioni per i 56 volumi

Tiepolo con accanto la sua cerchia. La Verona illustrata di Scipione Maffei, stampa-to nel 1732, rappresenta la prima importante partecipa-zione del Tiepolo a un’im-presa editoriale di grande valore. I disegni sono del 1724 e vengono tradotti in incisioni da Andrea Zucchi, con il quale l’artista avvia una fervida collaborazione. Tra i tanti disegni del Tie-polo ci sono anche quelli realizzati per un testo fon-damentale della storiografia settecentesca come il De Rerum Italicorum Scriptores di Ludovico Antonio Mura-tori, dove il pittore appare anche come il principale ide-atore della grafica.

L’attività del Tiepolo lega-ta alla editoria veneziana si interrompe nel 1740, ma è interessante confrontarla con il suo impegno di peintre-graveur documentata in mostra dalle acqueforti dei suoi Capricci.

A rivitalizzare il panorama librario veronese dell’epoca è Antonio Balestra, che ela-bora alcuni dei più bei fron-tespizi dell’editoria veneta dei primi decenni del Sette-cento, dipinti in miniatura la cui progettazione riprende la quadratura degli affreschi, come nella antiporta per Li cinque ordini d’architettura civile di Michel Sanmicheli.

Un’ampia sezione della mostra è dedicata a Giam-battista Piazzetta, altro gran-de protagonista del disegno per l’illustrazione libraria nella prima metà del seco-lo, dalla Chiesa di Gesù Cristo vendicata di Antonio da Venezia, del 1724, fino a opere importanti come l’Or-lando Furioso di Ludovi-co Ariosto, del 1730, o Les Oeuvres di Jacques-Benigne Bossuet, opera in dieci volu-mi in collaborazione con l’e-

Mostre

comune Di PaDova Settore attività culturaliaSSeSSorato alla cultura Settore muSei e BiBliotecHe

PROGRAMMA MOSTREInformazioni: tel. 049 8204501 - 8204502, fax 049 8204503,

e-mail: [email protected] Internet: http://padovacultura.padovanet.it

centro culturale altinate Via Altinate, 71

nader - Opere 1973-20139 febbraio - 7 aprile

valentine… e le altre - Le macchine da scrivere Olivetti ’50-’709 febbraio - 10 marzo

art room - Riflettendo. Viaggio tra luce e pensieri2 - 24 marzo orario 10 -19 lunedì chiuso - Servizio Mostre – Settore Attività Culturali tel 049 8204522 - [email protected] - http://padovacultura.padovanet.it

Galleria cavour Piazza Cavour

riccardo Galuppo - Una vita per la pittura - Antologica10 febbraio - 17 marzo

Galleria larinaScente Piazza Garibaldi

mirella Scotton. viaggio nell’evanescenza1 febbraio - 16 marzo

enrico Bovi - Il buio alla fonte28 marzo - 11 maggio

Galleria Samonà Via Roma

ragione e sentimento - Opere di Bruno Czerny e Agostino Greco10 febbraio - 10 marzo

roberto Pittarello - Arazzi ricamatidal 27 marzo al 5 maggio

Galleria SottoPaSSo Della Stua Largo Europavite sospese21 febbraio - 10 marzoInstallazione a cura di Alessio Brugnoli e donatella edini - Foto e video- proiezione di Bruno Maran - Collaborazione artistica di Rita Servello

eX macello Via CornaroQuattro protagonisti della “nuova creatività italia-na” (Officina Italia 2): 23 febbraio - 24 marzoAlex Bellan, Eloise Ghioni, Antonio Guiotto, Diego Soldà - A cura di Renato Barilli, Guido Bartorelli e Guido Molinari

artisti per gli alberimarzo 2013Inaugurazione sabato 2 marzo ore 11 - Orario parco 8-18.30 - [email protected]

Galleria c. GaSParotto P.ta Gasparotto

Progetto vivi Piazza GasparottoDal 12 gennaio al 28 aprile

Porta San GiovanniProgetto porta aperta 2013dal 2 marzo al 3 maggioOrario: dalle ore 16 alle ore 19, lunedì chiuso - [email protected] - www.xearte.net

PalaZZo Savonarola Via S. Pietro, 5

Padova fotografia festival Il primo festival indipendente della città di Padova9 marzo - 6 aprileSabspace, Contenitore di Arte Contemporanea,[email protected] - padovafotografia.it

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Lunedì 17 dicembre 2012, alle ore 17.30 nella Sala Pa-ladin di Palazzo Moroni, è avvenuta la consegna del si-gillo della città ad alcuni cittadini segnalati dalla nostra rivista e dalle associazioni culturali che la sostengono. Sono stati quest’anno prescelti:Giampaolo Babetto, orafo, nato a Padova nel 1947, dove si diploma presso l’Istituto d’Arte “Pietro Selvati-co”, diventandone uno dei docenti più prestigiosi negli anni che vedono nascere la “Scuola Orafa Padovana”. È artista tra i più quotati e riconosciuti internazional-mente, con opere presenti in gallerie e musei di tutto il mondo. Le sue creazioni si sganciano dalla tradizione decorativa per indagare i limiti dei materiali orafi, intro-ducendo nuove figuratività.Leo Borghi, pittore, nato a Montagnana nel 1937, si è affermato dalla fine degli anni cinquanta per il suo modo di raccontare per frammenti, quasi lacerti di un antico affresco, il suo viaggio attraverso il medioevo non solo padovano, come memoria di figure esemplari e di paesaggi sospesi tra realtà e sogno, con fraseggi decorativi e cromatici di grande suggestione, quasi a farci sentire la nostalgia del passato e il sentimento del trascorrere inesorabile del tempo.Antonio Righetti, imprenditore, nel 1963 ha dato vita, partendo da zero, a una azienda per la fabbricazione di nastro adesivo che è diventata una delle più rappresen-tative in Europa. Va orgoglioso di aver inserito i tre figli nella sua attività, che si sviluppa attraverso cinque sta-bilimenti per la produzione e la lavorazione di supporti di plastica e carta. Appassionato di Dante e dei valori della civiltà italiana, da anni anima la vita del Comitato di Padova della Società Dante Alighieri.Gianni Sandon, ingegnere elettrotecnico, già docente negli istituti tecnici, dalla fine degli anni sessanta ha operato attivamente alla salvaguardia dei Colli Euga-nei, contribuendo a far nascere quei Comitati che si op-posero alle cave, che portarono all’approvazione della legge speciale per la tutela dei Colli. Continua ad occu-parsi di problemi urbanistico-ambientali e in particolare di quest’area. È autore di varie pubblicazioni, tra cui i “Quaderni di documentazione” sul Parco Colli.

consegna del sigillo della città di padova - 2012

Nella foto da sinistra: Oddone Longo, Antonio Righetti, l’assessore Andrea Colasio, in rappresentanza del Sindaco, Gianni Sandon, Giampaolo Babetto e Leo Borghi. Il Sindaco ha voluto assegnare il sigillo anche al prof. Longo, docente emerito della nostra Università, già presidente dell’Accade-mia Galileiana e condirettore della rivista.

Adami Corradetti IrisAllegri Filippini GraziellaAloisi MassimoAngrilli FrancescoArslan AntoniaBabetto GiampaoloBalestra LuigiBarbieri CesareBedeschi GuglielmoBellinati ClaudioBeltrame GuidoBertolini GilmoBiasuz GiuseppeBillanovich GiuseppeBillanovich GuidoBorella Girolama

Borgato LuigiBorghi LeoCalendoli GiovanniCalore AndreaCamon FerdinandoCappelletti ElsaCarazzolo BrunaCarlassare LorenzoCarraro MarioCasuccio CalogeroCavaliere FernandaCella SergioCeolin Baldo MassimillaCévese Pier GiuseppeChemello Terrin LuciaChiarotto Romeo

INSIGNITI DEL SIGILLO DELLA CITTÀ DI PADOVAPER INIZIATIVA DELLA RIVISTA“PADOVA E IL SUO TERRITORIO”

A PARTIRE DAL 1986

Ciman MarioContran AlfredoContri LorenzoCortelazzo ManlioCortese Dino e LybiaCovi AntonioCuonzo TravagliaDal Santo AngeloDallaporta NicolaDanesin FrancescoDe Poli PaoloDe Stefani GiancarloDe Vivo FrancescoEmo Capodilista UmbertoFanello Giaretta LauraFerro AngeloFinotti AntonioFiocchi GiuseppeFranceschetto GildaFranzin ElioGalletto PietroGambarin FrancescoGambillara GuidoGamboso VergilioGiaretta MercedesGiulini PatrizioGuglielmo BernardettaGuzzon CesareLa Rosa SalvatoreLazzarini LinoLuxardo FrancoMalatesta GianniMandruzzato EnzoManfredini Maria LuisaMarconato SandraMartini PietroMaschietto LudovicoMassignan LuigiMazzucato LuigiMesirca GiuseppeMinici Zotti LauraNardo LuigiNervo GiovanniOngaro GiuseppeOreffice Ninì

Palma AlbinoPanajotti Maria LetiziaPengo PietroPerin PieroPeruzzi ElioPeruzzi Omizzolo EnricaPinton MarioPiva FrancescoRampazzi TeresaRandi PietroRebellato BinoRighetti AntonioRiondato EzioRizzon AlfredoRolma QuintoRossetti LuciaRuffato CesareSalizzato AngelaSambin PaoloSandon GianniSartori FrancoScarso LinoScorzon EnricoSegato GiorgioSemenzato CamilloSemerano GiovanniSoatto RenzoSoranzo GianniStievano GemmaSuman UgoToffanin GiuseppeTonzig MariaTravaglia CarloVarotto AntonioVasoin De Prosperi LuigiVentura BrunoVolpato MarioWeiller SilvanaZanetti GilbertoZanibon FrancaZanibon GuglielmoZaninello LuigiZanotto SandroZaramella Pietro

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articoli

Augello A., Allegri: glorioso “aeroportino” di periferia 157 35-37

Augello A., Volo su Vienna: un “tormentone” finito nella leggenda 159 43-48

Banzato D., Ospiti al Museo 157 19-22Baradel V., Antonio Menegazzo

in arte “Amen” 160 16-19Battalliard M., La briglia alle

grate dei Carmini 160 11-12Bellinati C., Notizie sulla Biblioteca

capitolare di Padova 156 15-17Benedetti A. – Maggiolo P.,

Antonio Belloni, illustre secentista padovano 156 22-25

Bertolaso B. – Maggiolo P., Adelaide Cairoli lettrice assidua del giornale ‘La Donna’ 160 34-36

Brogiolo G. P., Gli scavi in corso al Battistero di Padova 158 6-10

Brunazzo L., I colori dell’aria 156 32-34Calore A., Il monastero delle

Cappuccine e la pala della Pietà del Bassanello 155 15-19

Calore A., Palazzo Ascari in via Dante 160 43-46

Carraro G., Giovanni Brunacci storiografio del monachesimo padovano 157 6-10

Contin B., Padova futura 160 13-15Dagan G., Giacomo Manzoni,

pittore padovano tra Otto e Novecento 157 29-34

Davi M., I duecento anni del liceo Tito Livio 160 25-29

De Checchi F., L’Esposizione agricola industriale di Pontevigodarzere (1910) 160 20-24

Degli Esposti P., Nin Scolari e il suo Lessico teatrale 155 32-33

De Marchi L., Il Palazzo vescovile di Padova 159 6-13

Fontana R., Cinquant’anni di Italia Nostra a Padova 160 6-10

Franceschetti P., Nota sul Palazzo del Gallo e sullo Storione 157 14-18

Frigo C. C., L’attualità del classico in Emilio Baracco 156 35-39

Lamon R., La cappella dei Nodari a palazzo Moroni 159 14-19

Lamon R., Palazzo Angeli in Prato della Valle 155 24-28

Lamon R., I sigilli del comune di Padova 158 28-31

Lamon R., Le statue di palazzo Scarpari 156 18-21

Lenci G., Guido Solitro 155 29-31Longo O., La Bovetta

e il suo vicolo 156 26-27Malachin F., Novità sull’attività

padovana di Mattia Bortoloni 159 38-42Mariani L., Fondazione Lanza:

venticinque anni di studi di etica applicata 155 11-14

Massaro M. N., Nel centenario della morte di Cesare Pollini 159 20-23

Monti G., La cittadella della musica e dei musei 158 11-15

Morbiato L., L’esperienza di Paul Scheurmacher nel Veneto 155 6-10

Morbiato L., Presenze padovane nella vita e nell’opera di Andrea Zanzotto 160 30-33

Nave A., Un’amicizia senile: Manara Valgimigli e Giuseppe Fatini 158 32-35

Ongaro G., Gabriele Falloppia a 450 anni dalla morte 158 16-20

Pavan P., A scuola dall’alchimista 155 37-38Pavan P., L’oreficeria?

Un gioco d’azzardo 158 38-40 Pavan P. – Siviero L.,

“Fratres in unum” 156 6-9Pedron S., Nuove ricerche

sugli affreschi di villa Bassi Rathgeb ad Abano 158 21-27

Rampazzo Baciami G., Don Giuseppe Paccagnella e la Casa del Fanciullo 159 24-31

Ronconi G., Luigi Montobbio, giornalista e scrittore padovano 156 28-31

Sesler L., Riccardo Demel, un artista polacco a Padova 157 38-40

Tessari F., Per Guido Petter 157 23-28Vascon M., Dipinti e arazzi

dell’ex collezione Cini a Ca’ Marcello 160 37-42

Vedova A. – Campagnolo S., La Fondazione Cassa di Risparmio 157 11-13

Veronese Francesco, La storia di Padova nella leggenda agiografica di s. Prosdocimo 155 20-23

Veronese Francesca, Tra terre e acque: il territorio a sud di Padova nell’antichità 156 10-14

Zago M., La nuova sede della rivista “Padova e il suo territorio” 155 34-36

Zanetti P. G., Camino sporgente alla veneta 159 32-37

Zannini G., Leone Fortis, il doctor veritas “padovano” 158 36-37

PriMo PiaNo

Bertazzo L. – Baldissin G. (cur.), Cultura, arte e committenza nella basilica di S. Antonio di Padova nel Quattrocento (G. Ronconi) 158 42-43

Parenzo S., Il posto delle capre (A. Daniele) 156 40-41

Saonara C., Una città nel regime fascista. Padova 1922-1943 (M. Davi) 155 39-40

Vespa B. (cur.), I teatri della Serenissima (G. Ronconi) 157 41-42

BiBliotEca

Agostinis A. (cur.), Padova, finestra aperta sulla poesia (A. Artmann) 155 44-45

Album Fogazzaro (M. Zago) 157 42-43Allegri G., L’altopiano tibetano

(G. Ronconi) 157 48 L’altra metà del Risorgimento.

Voci e volti di patriote venete (G. Lenci) 157 43

Archieo L., Una terra chiamata Giare (A. Augello) 158 47

Baggio L. – Bertazzo L. (cur.), Padova 1310 (R. Lamon) 157 52-53

Baldissin Molli G., Erasmo da Narni (Gattamelata) e Donatello (R. Lamon) 159 51

Baratello L., Pioggia di marzo e altre poesie (G. Ronconi) 157 49

Battaglini R., L’aria di casa (A. Scarpellini) 155 42

Battilana M., Danny Boy (M. Mazzocca) 158 45

Beghetto M., Passi di donne (R. Lamon) 159 53

Bolzan E., Alla ricerca di un amore impossibile (A. Artmann) 155 43-44

Boscolo Bielo M., Crollo e ricostruzione del campanile di San Marco (A. Augello) 160 51-52

Brotto Pastega A., Riccardo Drigo (1846-1930) (P. Maggiolo) 158 44

Canazza M., La madre distratta (A. Augello) 157 49-50

Caravello G., La città e altro (G. Ronconi) 157 50-51

Caravello G., Le poesie del Cognaro (G. Ronconi) 157 50-51

Carli R., Scarmigliati accordi (A. Artmann) 155 42-43

Ceccolin A., Padova. Un po’ di storia e qualche storiella (A. Augello) 156 46

Cecchinato A. (cur.), Molte cose che stanno bene nella penna… (L. Morbiato) 160 49

Cenghiaro E. – Cioffredi P., Santuari padovani (T. Mario) 157 48-49

Ciol E. e S., Padova. Prato della Valle (P. Tieto) 155 42

Code di stampa. Racconti per aiutare gli animali (P. Maggiolo) 156 46

Daniele Toffanin M. L., Appunti di mare (A. Cancellier) 160 52-53

De Cunzolo V., L’orologio segna tempo perso (C. Zanellato) 158 46

Dinelli G., Lontani anni verdi (P. Tieto) 158 47

D’Onghia L., Un’esperienza etimologica veneta: per la storia di mona (P. Casetta) 159 52-53

Due secoli di opportunità e di sviluppo, 1811-2011 (G. Ronconi) 156 42

Evangelisti G., Nico Piccoli pioniere del volo (A. Augello) 156 44

Fabris O., I misteri del ragno (G. Lenci) 159 52

Faggin L. – Tolomio I. (cur.), San Filippo Neri e la sua presenza nella chiesa di San Tomaso Becket in Padova (P. Maggiolo) 158 47-48

Favaro F., Luci (M. Zago) 158 45-46Finotti F. (cur.), M. Cesarotti

e le trasformazioni del paesaggio europeo (M. Zago) 159 50-51

Fiori M. – Dall’Acqua M. (cur.), I sette vizi capitali (P. Tieto) 160 55

Fogazzaro A., Taccuino bavarese (M. Zago) 157 42-43

Fogazzaro A. – Biaggini Moschini Y., Carteggio (M. Zago) 157 42-42

Frison C., Nel nome di Elohim e di Yahweh e dello Spirito Santo (S. Bongiovanni) 160 53-54

Gaspari P., Le bugie di Caporetto (G. Lenci) 157 43-44

Giralucci S., L’inferno sono gli altri (P. Casetta) 155 43

Gobbo D., L’occupazione fascista della Jugoslavia (G. Lenci) 156 45-46

Grassi N. (cur.), Franco Murer. La luce la forma (P. Maggiolo) 157 53

Indice dell’annata 2012fasc. pag.

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Incisori italiani contemporanei 2011 (M. Zago) 157 51

Lamon R., Il palazzo del Capitanio e la torre dell’Orologio (A. Boscardin) 155 44

La Rosa T., Si fa per dire (M. Zago) 156 46Lenci G., Memorie di un

nonagenario (M. Zago) 159 49-50Liguori F., Padova tra diletti e disagi

(G. Ronconi) 157 45Liguori P., Esercizi di stile

(G. Ronconi) 158 49Malaguti P., Sillabario veneto

(M. Zago) 157 46-47Marinai sulla Muraglia (G. Lenci) 158 44-45Moneta V. G., Santi e monete

(C. Grandis) 155 41-42Nicolò Antonio Giustiniani

vescovo di Padova (R. Lamon) 158 48-49Ongaro G. (cur.), Alpiniana.

Studi e testi, I (P. Maggiolo) 156 41-42Operette di varj autori intorno

ai giardini inglesi ossia moderni (M. Zago) 159 50-51

Petter G., I giorni dell’ombra (M. Davi) 156 43

Petter G., La prima stella (R. Pittarello) 157 44

Petrin M., Riscatto (F. De Checchi) 159 51-52Pietrogrande E., L’opera di Quirino

De Giorgio (O. Longo) 160 50Poppi M., La riviera del Brenta

nel periodo napoleonico (G. Carraro) 157 47-48

Romanato G. (cur.), Veneti in Canada (L. Morbiato) 157 45-46

Ronchi V., Poesie (G. Ronconi) 157 49Ruffato F. L., Albino Luciani,

uno scricciolo diventato papa (L. Giacomin) 160 53

“Il Santo. Rivista francescana di storia, dottrina e arte” 2011 (M. Zago) 157 53

Scabia G., Canti del guardare lontano (L. Morbiato) 160 51

Selmin F., Nessun ‘giusto’ per Eva (A. Augello) 156 42-43

Stocco B., La fornace Morandi (P. Pavan) 155 40

Strukul M., La ballata di Mila (M. Zago) 155 41

Suman U., C’era una volta padre Leopoldo (L. Giacomin) 157 51-52

Terra d’Este, n. 43 (2012) (M. Zago) 160 54Terra d’Este vs Terra e Storia

(L. Morbiato) 156 44-45Terra e Storia, n. 1 (2012)

(L. Morbiato) 160 54-55Tessari A., Raccontando Pannella

(G. Lenci) 156 43-44Virdis Limentani C., Percorsi

(R. Lamon) 160 54Write, not die. Raccolta di narrativa

(M. Zago) 160 52Zago M. (cur.), Padova. Antologia

dei grandi scrittori (G. Ronconi) 160 49-50Zampieri G. (cur.), I diari di Carlo

Anti (R. Lamon) 158 43-44Zanetti P. G. (cur.), Che più di terra,

che di villa, il nome si merita (R. Lamon) 158 46-47

Zaramella M., Celebrità (M. Zago) 157 50Zateli Z., Nella desolazione con

grazia (B. Codogno) 155 44Zatta P. – Todaro A., La Saccisica

in cucina (A. Pelle) 155 45

PErSoNaGGi

Intervista a Emilio Briguglio (S. Gorgi) 155 45-46

iNcoNtri

Congresso nazionale di neurologia pediatrica (N. Grassi) 155 47

Consegna del sigillo Città di Padova 2011 155 54

‘Dante Alighieri’. L’anno sociale inaugurato da Ramat (M. Rossella) 156 46-47

La Fiera delle parole a Padova (B. Mozzi) 160 56-57

Oltre la crisi (A. Augello) 157 55Premiazione del Concorso

Federico Viscidi. 24. edizione (P. Maggiolo) 158 50

Premio Mastèa d’oro a Murer, Toniato, Trolese (G. Peretti) 160 57

Problema carcere (R. Delaidini) 160 57-58Repubblicanesimo e impero

da Polibio ai ‘padri fondatori’ (M. Frare) 157 55

Sacralità e storia in un grande musicista padovano (L. Scimemi di San Bonifacio) 156 48

“La Specola”: iniziative culturali del 2012 (M. Xausa) 158 50-51

Un Veneto “depresso” (O. Longo) 156 47-48

MUSica

Calicanto. Un concerto per i 30 anni del gruppo (L. Morbiato) 156 53

Il ciclo “Tesori nascosti” (V. Franco) 160 55-56

Concorso internazionale pianistico “Fausto Zadra” (G. Ferraris De Gaspare) 158 50

La musica fa scuola: il Barbarigo all’opera (N. Sassano) 158 49-50

Veneto Festival 2012 a Padova con i Solisti Veneti e Claudio Scimone (V. Fano) 158 49

XIV. Padova Jazz Festival (M. Zago) 155 47

MoStrE

111 anelli (M. Vallanzasca Bianchi) 155 481991-2011. Vent’anni di fotografia

del gruppo fotografico Antenore (L. Cesarin) 155 48-49

Alfreda Pege Giraldo (P. Tieto) 156 50Antonio Beato, Felice Beato

e Adolfo Farsari (R. Torrisi – C. Visentini) 155 50-51

L’arte italiana del Novecento a palazzo della Ragione (E. Vanzelli) 158 51-52

La cappella degli Scrovegni a dieci anni dal restauro 157 56

Caterina Belviso (P. Tieto) 160 61Città di Padova. Presenze dell’arte

contemporanea nel Triveneto (P. Tieto) 158 53-54

La conquista della libertà (A. Augello) 157 55

Cuori sulla terra (M. Cisotto Nalon) 159 54

La donna in Istria e Dalmazia nelle immagini e nelle storie (A. Augello) 156 49-50

Elena Cecchinato (P. Tieto) 155 50Fabrizio Plessi e il flusso della Ragione

(M. B. Rigobello Autizi) 160 60Flangini & Minnelli (L. Cesarin) 159 53-54

Galeazzo Viganò. Ritratti 1956-2012 (C. C. Frigo) 156 48-49

Gianni Longinotti (P. Tieto) 157 55-56Giulia Moretto (V. Baradel) 155 49-50Inguardia! Mostra di arti visive

“Il testimone” (P. Pavan) 157 56Jacques Villeglé (D. Stella) 155 49Kitsch: tra arte e ornamento

(G. Folchini Grassetto) 155 48Luciano Bonello (C. C.Frigo) 158 53Metamorfosi. Miti d’amore e di

vendetta nel mondo romano (F. Ghedini) 160 62

Nobiltà del lavoro (R. Torrisi) 160 59-60Paolo Zatti (P. Pavan) 158 53Pensieri preziosi 7 (P. Pavan) 155 49La poesia della maternità

(M. Mazzocca) 160 60-61Renato Pengo (B. Codogno) 159 54-55Riccardo Galuppo e Dionisio

Gardini a Monselice (L. Sesler) 156 49Studio di Silvio De Campo

& Renata Galiazzo (L. Cesarin) 156 50-51Svelare l’invisibile (S. Jessi Ferro) 155 47-48Il Vetro contemporaneo

(G. Folchini Grassetto) 160 61-62

i lEttori ci ScriVoNo

Costantini Gaffuri M., In margine all’articolo di L. Sesler sull’artista Riccardo Demel 159 55

Brombin P., Come un artista immagina il carcere 158 54

Gios P., I fratelli Gioachino e Giuseppe Niero 156 54-55

Piovan C., Ricordo di Rolando Baesso 155 51-53

iNtErVENti

Longo O., Inseguimenti 155 53Monti G., Salviamo il Seminario

minore 158 41Sandon G., Il parco Colli Euganei

in balìa della nuova legge regionale 160 47

Zannini G., Il presepe “murale” di Leo Borghi nella chiesa di Santa Rita in Padova 155 52

PErSoNaGGi

Antonio Lazzarin (A. Augello) 156 53-54Pietro Loro (C. Piovan) 160 56

ProFili

Enzo Mandruzzato (R. Gallabresi) 157 54Gianfranco Folena (P. Folena) 160 48Giulia Laverda (P. Pavan) 156 52Paolo Saetti (A. Augello) 156 52

SPiGolatUrE (di toto la rosa)

I buchi 158 54La “Veneta” 158 54

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