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1 XVII L'Angolo Novembre 1997 a cura del Gruppo Culturale PROSPETTIVE - Gambettola

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1XVIIL'Angolo

Novembre 1997

a cura del Gruppo Culturale PROSPETTIVE - Gambettola

Page 2: Angolo17 pm6 c - PROSPETTIVE · 2007-01-07 · bienti vivibili per i loro cuccioli». Luca, cambia tono di voce, si sente coin-volto in prima persona e con lo sguardo im-bronciato

L'Angolo2 XVII

Giuseppe Valentini

Il giorno tanto atteso è arrivato: Luca èimpaziente, continua ad alzarsi dalseggiolino, i miei inviti a restare fermo sonosuperflui, lo sguardo e la mano con l’indi-ce teso verso la ferrovia e la paura di nonarrivare in tempo.

All’altezza del passaggio a livello sop-presso un fischio in lontananza ci annun-cia l’arrivo del treno, è sufficiente qualchepedalata più energica per riuscire ad arri-vare in stazione quando ancora suona il fa-moso campanellino.

Attraversiamo i binari e ci mettiamo inattesa.

L’emozione che l’evento porta con se’,fa rimanere mio figlio in religioso silenzioe con la mano ben stretta nella mia. Sento ibrividi di Luca salire dalla mia mano, ca-pisco immediatamente che il treno è com-parso all’orizzonte.

Il locomotore sta infatti piegando versodestra prima di entrare in stazione con ilsuo frastuono e la sua potenza.

Luca sa che solo per oggi è dotato di po-ter magici ed è quindi attento allo stridoredei freni, perché solo allora potrà con unbattito di mani aprire le porte del treno.

E così è.Indescrivibile la gioia, lo stupore di Luca,

tutti i muscoli del viso contratti in unaespressione di felicità.

A piè pari sale sul predellino e quindi dicorsa in carrozza, ancora un battito di manie la porta si chiude.

Il capostazione alza la paletta, il treno par-te con un piccolo strattone e fa cadere Lucache intanto era con il viso spiaccicato al ve-tro della porta, assorto a scrutare quello cheavveniva sul marciapiede dove lui tante vol-te aveva osservato ciò che succedeva dentro.

Dopo il rito del salto del gradino, prendia-mo posto nella zona più alta della carrozzavicino al finestrino in direzione Bologna.

Cominciano quindi i divieti di non toc-care quello e quell’altro, tanto meno di vo-ler provare a tirare l’invitante maniglia chesta là in alto vicino al soffitto. Purtroppomi ero dimenticato di dire a mio figlio cheogni tanto nel nostro viaggio avremmo po-tuto incontrare qualche convoglio che pro-cedendo in senso contrario sull’altro bina-rio avrebbe creato uno spostamento d’ariatale da far tremare il finestrino, con grandespavento di chi vi era incollato sopra, cu-rioso di osservare tutto quel mondo chescorre così velocemente all’esterno.

All’altezza di Cesena incrociamo un tre-no rapido e Luca come morso dalla taran-tola mi balza addosso e non mi molla piùfino a quando non scompare l’ultima car-rozza.

Tranquillizzato dalla ricomparsa del cieloe di tutto quello che sta al di là del vetro, rico-mincia la serie di domande: perché gli albericorrono così veloci, cosa fanno quei “dadi”nei campi, perché le case si muovono, per-ché il treno si ferma ancora e così via.

Entriamo in stazione a Forli’, abbassia-mo allora il finestrino e ci sporgiamo unpoco, l’aria entra nei capelli di Luca che siagita salutando tute le persone in attesa sullabanchina. Diversi contraccambiano con ungesto della mano, un signore alto e ben ve-stito risponde con un ciao, sale sul treno eviene a sedersi vicino a noi.

Prima di riporre la sua valigetta nel vanoporta oggetti, si presenta: «Mi chiamo Al-berto, e tu?» chiede a mio figlio porgendo-gli cortesemente la mano.

Io mi chiamo Luca e abito a Gambettolarisponde orgoglioso.

A Gambettola? Il paese dei soldi e delferrovecchio.

Beh, questo è diventato un famoso “luo-go comune” intervengo io, certo laproverbiale vitalità dei suoi abitanti ha pro-dotto un reddito medio alto, sicuramente ilcommercio dei rottami e dei metalli è an-cora una delle maggiori attività lavorative,ma Gambettola non è solo questo.

Il nostro paese è ricco di tante altre atti-

vità artigianali, industriali e commerciali,inoltre la ricchezza di una comunità si mi-sura anche con la capacità di saper crearemomenti ricreativi, culturali e diassociazionismo in genere e Gambettola inquesto senso fa scuola ai paesi limitrofi.

Alberto annuisce elencando le manifesta-zioni che già conosceva: i corsi mascherati,la mostrascambio e un simpatico e originalepremio dedicato ai gambettolesi “NemoPropheta in Patria”? istituito da un gruppoculturale, «un po’ come, -aggiunge-, “Unuomo e la sua terra” del paese di Longiano. »

«Mi scusi se la interrompo, ma sicura-mente è il paese di Longiano che istituen-do tre anni dopo di noi il “premio” ha vo-luto imitare la nostra idea, non riuscendoperò a carpirne l’unicità.

Consideri che siamo a conoscenza solodi un altro “Nemo Propheta in Patria” or-ganizzato da una università di Helsinki. »

Luca come tutti i bambini quando si sen-tono trascurati, cerca di attirare l’attenzio-ne , è così che una delle sue magiche palli-ne sfiora il naso di Alberto e comincia asaltellare su tutti i sedili. L’effetto ricercatoè stato ottenuto, tutti i passeggeri alla ricercadi questa dannata pallina che vende Pino del-l’edicola e che è la passione di mio figlio.

Alberto capisce che Luca vuole interve-nire sull’argomento Gambettola e quindi glirivolge una domanda con la quale lo invitaa nozze.

«E tu piccolo Luca conosci bene il tuopaese? Io sai - continua Alberto - vi transi-

Sommario:

G. Valentini Io abito a Gambettola pag. 2

“Nemo Propheta In Patria?” 1997 pag. 4

R. Baiardi Il canto del pavone pag. 5

V. Franciosi Quelli del “Contrin” pag. 7

R. Forlivesi ARTE: tentativi di perimetrazione pag. 9

G. Paganelli Musica e Poesia pag. 12

C. Cardelli Ma chi erano mai questi Beatles? pag. 14

e per finire... pag. 16

NUMERO UNICO

IO ABITO A GAMBETTOLA

Con questo numero la giovane artista gambettolese Francesca Ceccarelliinizia la sua collaborazione con “L’Angolo”. La redazione nel porgere ilpiù caldo “benvenuta fra noi” a Francesca, si augura che questo esempiopossa essere presto imitato da tanti altri, giovani o meno, che tengononascosti i loro talenti in cantina o in soffitta.

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to spesso in treno e ho percio’ una visionelimitata di come è cresciuta questa cittadi-na; mi sono accorto comunque che i tettivicino alla stazione non sono più imbiancatida quel grande camino, ma cosa è successo?»

Luca risponde volentieri a quelladomanda:«Sai è stato un intelligenterecupero edilizio dovuto alla famosaproverbiale vitalità di un gambettolese, cheha ridato vita ad un rottame industriale. Noibambini a volte entriamo a correre neivialetti ben tenuti, mentre tutto attorno svol-gono il loro lavoro diversi artigiani. »«Unascelta indovinatissima che andrebbe imita-ta - incalza Alberto - ma a Gambettola cisaranno tante altre novità da scoprire perchi da trent’anni non vi mette più piede.Mio caro Luca, aiutami tu che con il babbofarai tanti giri in bicicletta per le strade deltuo paese!»

Luca non aspettava altro e come in tuttele favole che si rispettino comincia con...«C’era una volta un piccolo paese dove tutticonoscevano tutti, meno di 5000 abitantiche vivevano quasi esclusivamente fra ilponte della Rigossa e la piazza del Comu-ne. Un giorno, dopo un violento temporaleestivo, spuntò oltre il confine ideale dellavecchia Gambettola una gru, nel volgere dipochi mesi, come avviene per una epidemiainfluenzale, ne spuntano decine e decine, era-vamo alla fine degli anni 60, ma questo con-tagio continuò per tutti gli anni 70 e 80.

Nacque così una foresta di palazzi più omeno alti, dove un gruppo di leoni ha scor-razzato in lungo e in largo. Pensa Alberto -continua Luca - che uno di loro volle crea-re anche delle caverne come dimora per gliamici felini che non hanno famiglia, non cicredi? Vieni a fare un giro in viaSoprarigossa, vicino al mio amico Furia,un cavallo che vive nei dintorni. Ma non èfinita qui.

L’espressione architettonica più alta siebbe con l’innalzamento verso il cielo diun grandioso totem all’edilizia gambettolese,un palazzo alto, alto così - e Luca allarga lesue piccole braccia - bellissimo.

Il vizio comunque è rimasto: l’altro gior-no una casetta piccola piccola in via Buozziha partorito un condominio adatto ad ospi-tare un reggimento militare. Quello che in-vece rimane lettera morta è il suggerimen-to che già in altre occasioni “L’Angolo” haportato all’attenzione del paese, e cioè diarricchire le piazze, gli edifici ed altri luo-ghi pubblici con sculture dei nostri braviartisti: Forlivesi, Canducci e chi eventual-mente voglia cimentarsi. Kronos docet.»

«E tu - chiede Alberto a Luca - in chevia abiti?»

«Aah! nella più bella pista della savana:via Kennedy, nata come circonvallazione,quindi logica vorrebbe da supporto per at-

tività artigianali e industriali, trasformatasubito invece in residenziale. Di una peri-colosità inaudita. Undici incroci a raso, al-cuni dei quali in curve che neanche il cir-cuito di Indianapolis si sogna. Gli angelidel Signore devono vigilare giorno e notteperché non vi accada nulla di grave. Intan-to Gambettola cresceva 7000, 8000, 9000,abitanti, tante famiglie giovani e quindi tan-ti bambini».

«Ma quei leoni di prima - ribatte Alberto- avranno pur regalato spazi verdi e am-bienti vivibili per i loro cuccioli».

Luca, cambia tono di voce, si sente coin-volto in prima persona e con lo sguardo im-bronciato sentenzia: «I re di questa fore-sta, che una volta era solo un bosco, nonhanno mai pensato al futuro e alla realiz-zazione di una radura, di un oasi per me eper centinaia di miei coetanei. Quando iltempo lo consente anche noi piccoli voglia-mo sfuggire alla schiavitù della televisio-ne e allora tutti a correre in quel fazzolettodi verde che è piazza Moro, dove nelle oredi punta per fare l’altalena bisogna pren-dere il numero come al supermercato».

«Ci saranno pure alternative», prosegueAlberto.

Quella simpatia nata attraverso quellosguardo alla stazione di Forlì, si stava tra-mutando in un’amichevole complicità nelraccontare questa storia.

«Caro amico mio - aggiunge Luca - dovevuoi che vada? in piazza Guido Rossa adelettrizzarmi i capelli sotto i fili dell’altatensione, oppure a fare il salto dei murettinei giardini del centro? Altre alternative sonoil salto con l’asta del muro sulla Rigossa invia Buozzi, che dopo tanti anni nessuno haavuto ancora il coraggio di abbattere, o l’espo-sizione al sole nell’aiuola di fronte al Comu-ne, che nessuno ha ancora avuto il coraggiodi ridurre a dimensioni normali..., ma chi cel’ha più, ormai, il coraggio!»

Alberto intanto si era distratto per fareaccomodare una giovane.

Luca chiede subito: «come ti chiami?»«Daniela» risponde gentilmente.

Per non perdere troppo tempo (Bolognaera ormai vicina) e coinvolgerla nella con-versazione, Luca le comunica, vista la gio-vane età, che a Gambettola è nata una gran-de pista di skate-board: quattro scalinimozzafiato del giardinetto dello Stracciven-dolo, risparmiati dal martirio solo durantel’allestimento dello stupendo presepe delgruppo Prospettive.

Daniela ride di gusto mentre continua apassare le mani nei suoi lunghi capelli neri,lisci e lucenti. Luca la guarda come si os-serva una bella ragazza, avrà 15 o 16 anni.

Intanto il treno rallenta per lavori in cor-so, allora invito Luca a guardare fuori, luiinvece vuol continuare ad interessare Da-

niela su alcuni aspetti del mondoadolescenziale e giovanile gambettolese.«E’ questo da sempre il tema più dibattutoin paese e sulla scorta di ciò molto spessoalla sera i tamburi chiamano a raccolta ivari capi tribù per riunirsi a discutere e par-larsi addosso, ma senza prendere quasi maiuna decisione.

L’ultima idea portata in grembo per al-cuni mesi, per fortuna non ha visto la luce.Comprendeva l’installazione di due barac-che in piazza Foro Boario (piazza termineimproprio) e trasformarle in centri di in-contro giovanili. Probabilmente sarebberodiventate delle moderne favelas, visto l’am-biente circostante che fra l’altro è anche ilnostro biglietto da visita per tutti gli ospitiche giungono a Gambettola.

Qualcosa comunque per i più giovani èstato realizzato: un bellissimo percorso vitasull’argine destro del torrente Rigossa.(Questo nuovo ambiente prende corpo dopo17 numeri dell’Angolo, non abbandonia-molo a se stesso, curiamolo e rendiamolovivo! N.d.A.).

C’è inoltre da parte dei tuoi coetanei -prosegue Luca rivolgendosi a Daniela - unritrovato interesse per il teatro e quindiCamillo e Graziella intelligentemente han-no tenuto un innovativo corso di recitazio-ne. Lezione dopo lezione è nata in tutti unapassione per un’opera: “AspettandoGodot”. In attesa dell’evento, il teatrinocomunale che con una degna sistemazionepotrebbe ospitarli, senza pretendere di se-guire le orme del “Petrella”, giace in unostato di abbandono totale.

I Gambettolesi vivono anche per altrestrutture pubbliche la stessa attesa del po-polo Ebraico, aspetta, aspetta... La prima-vera per quello che potrebbe essere il fioreall’occhiello del paese non arriva mai.Sboccia, sboccia, ma no bisogna cambiareterreno, cambiamo fertilizzante, è necessarioun vaso nuovo e intanto lui è lì che aspetta.

I ragazzi però intanto crescono, senzaavere le opportunità di incontrarsi, di con-frontarsi, di arricchirsi culturalmente in am-bienti adeguati. La biblioteca grazie a Vin-cenzo fa i miracoli, svolge una buona atti-vità culturale, è molto frequentata, ma la-vora ad un terzo delle sue potenzialità, per-ché non supportata da strutture e tecnolo-gie al passo coi tempi.

E quando vuoi organizzare una mostradove la ospiti: in via Garibaldi n.8?

Allora fiore che ancora oggi vieni indi-viduato col vetusto nome di “ex casa delFascio” cresci, fiorisci velocemente con ipiù bei colori della modernità, troppo tem-po è stato perso inutilmente. Quante pri-mavere dovremo aspettare, forse quelle chesono occorse per il completamento dellasuperstrada E45? Confidiamo molto nello

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“Spirito Santo”, che pose qualche mese faun cartello quanto mai esplicito: “10 annidi vergogna”.

Si può obbiettare che i contenitori nonsono tutto, ma almeno aiutano a mettercidentro qualcosa».

Luca vede Alberto alquanto sconcertato evuole subito rassicurarlo che a Gambettola sivive comunque molto bene; «noi siamo, comedice sempre Bruno, un amico del babbo, ilprototipo dell’Italia: grande dinamismo pri-vato e grande lentezza pubblica. Siamo al-l’avanguardia in tutto, attualmente stiamosperimentando una nuova forma di democra-zia che non prevede l’opposizione, vedremose riusciremo ad esportare anche questa».

Bologna stazione di Bologna! La voceche esce dall’altoparlante fa girare di scat-to Luca verso il finestrino, già abbassatoper il gran caldo, ci affacciamo e il suo in-teresse è di nuovo per quell’intreccio infi-nito di binari, per quel gran numero di tre-ni, voci assordanti che si rincorrono, vali-gie accatastate, gente frenetica che corre.

Viene come rapito da questo girone dantesco,che, quando gli dico andiamo, si dimenticaquasi di salutare Alberto e Daniela.

Scendiamo tutti assieme e prima di per-derci nel dedalo di cunicoli del sottopassoferroviario, Luca vuole sorprendere, mera-vigliare i suoi compagni di viaggio: «C’èun segreto che vi voglio svelare. Come intutte le favole c’è un posto magico anche aGambettola. Un tesoro nascosto proprio alcentro del paese e che pochi conoscono. Iomi son fatto amico della custode di questoscrigno, la signora Iole e quando vi passodavanti in bicicletta le faccio l’occhiolinoe lei mi apre quei grandi portoni. Varcatala soglia vieni come catturato da questa at-mosfera magica, dimentichi tutto e inizi avivere in un’altra dimensione.

Le poderose mura che ti circondano, tiproteggono e ti avvolgono in un calorosoabbraccio, facendoti entrare attraverso lesue decine di porte in mondi sempre diver-si. Che nessuno osi profanare questo para-diso, facendolo sprofondare nell’infernodell’ennesimo centro commerciale, di cuinessuno ha più bisogno. Quei muri racchiu-devano la principale attività lavorativa perGambettola fino agli anni ‘50; l’auspicio èche diventino laboratorio di cultura e sape-re per le professioni del futuro. E’ necessa-rio riaprire quei portoni, riannodare il dia-logo con la proprietà, fornendole soluzionigratificanti, non solo dal lato economico,ma anche da quello del prestigio persona-le. Lavorare per risolvere questi problemiè spendere bene il proprio tempo, il resto èpiccolo cabotaggio o poco di più.

Ciao Alberto, ciao Daniela».«Ciao Luca, a presto, a Gambettola, vo-

gliamo vedere il tuo tesoro!»

Il Gruppo Culturale Prospettive di Gambettola, tenuto conto dellesegnalazioni pervenute e del giudizio espresso dalla Commissioneappositamente costituita, assegna il premio

“NEMO PROPHETA IN PATRIA?”1997

al gruppo comico dialettaledé Bòsch

Moderni cantastorie di Romagna che preservano, coltivano, diffon-dono con amore ed ostinazione le nostre tradizioni popolari, cherisvegliano il gusto di ritrovarsi, che esaltano, con arguzia ed intelli-genza, la voglia di ridere, di divertirsi, di vivere meglio.

PREMIO

“NEMO PROPHETAIN PATRIA?” 1997

La cerimonia di premiazione si terràvenerdì 7 novembre 1997 alle ore 20.45

p r e s s o i l T E A T R O F U L G O RVia Ravaldini - Gambettola

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5XVIIL'Angolo

IL CANTO DEL PAVONE

Ramona Baiardi

Tutto ha inizio in una tranquilla serata estiva.L’estate: con la TV che ti tortura più del solito con i suoicontinui spot pubblicitari, ossessivi, incalzanti. Il più odia-to? quello della Bilboa!Allora non resta che inforcare la bici, con la segreta spe-ranza, tra l’altro, che ciò valga a migliorare una formafisica non proprio all’apice dello splendore.In questo vagabondare senza meta un interlocutore assaiattento ridesta i miei sensi, oramai assuefatti a ciò che cicirconda.Eh sí, perché Lorenzo, anni due, è “alla scoperta” e nullasfugge al suo impellente desiderio di sapere.Così mentre costeggiamo “il muro”, alza il piccolo indi-ce accanto all’orecchio (inequivocabile segnale di allerta!)e mi fa: «mamma, cos’è?»

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L'Angolo6 XVII

«Cos’è cosa Lorenzo? Non senti ... ecco - ilgrido ritorna puntuale - è un pavone checanta!»«Mamma cos’è un pavone?» Una succes-sione tempestosa di domande e di rispostesino alla promessa che l’avrei portato incampagna a vederlo, prima o poi.Ma in quel muro c’è un varco, un portale diferro che si schiude per noi, superato il qualeil centro di Gambettola diviene improvvi-samente così distante. L’Essicatoio racchiu-de il mondo della Iole.Un profumo dolcissimo riempie l’aria, losguardo si spinge oltre al fabbricato, edeccone il motivo: un vasto prato interamentefiorito di camomilla si spalanca davanti anoi.Lei ci invita ad entrare, intenerita dall’inte-resse del bimbo per i suoi animali. La pri-ma a farne le spese è la gatta coi suoi gatti-ni, Lorenzo scatta all’inseguimento...C’al lesà andè, du ca staseiv? Conversia-mo passeggiando per il cortile, fino a quan-do la Iole non individua esattamente la casae la casata di cui faccio parte. Intanto an-ch’io mi guardo intorno. Lo spiazzo vastis-simo cinto dalle vecchie mura deltabacchificio è inondato dal sole della sera.Alcuni dei portoni sono aperti, altri socchiu-si ma tutti attraversati da bipedi di ogni raz-za: oche, pipini, galletti, galline, anatre, pic-cioni. Pulcini ed adulti che l’attenzione diun ospite irruento ha scatenato in un fuggi-fuggi generale. Sull’altro lato alcunecaprette cessano di brucare e si interessanoa noi, lentamente si avvicinano.Rientro immediato, «mamma in braccio, ho

paura!» «Non ti fanno niente», lo tranquil-lizza la Iole, ma ecco che da dietro unacapannina di edera sbuca l’artefice del grido,colui che ci ha guidato fin qui: il pavone.È un magnifico esemplare, avanza con passoregale in tutto il suo splendore, la ruota frusciantedispiegata a favore della femmina.Per molti pomeriggi ancora siamo tornatidalla generosa Iole, dai suoi animali, nelcuore verde della vecchia Gambettola.Siamo ritornati sino a scoprire che quel pa-vone, tra i tanti animali, è quello che le èpiù caro. Esso è un dono avvolto da un mi-stero dolcissimo. Da sempre la Iole lo ave-va desiderato, e questo desiderio l’aveva piùvolte confidato al marito e lui le risponde-va: mo tul, s’ut pis tul!Ma ciò non era mai avvenuto, sinché leirestò vedova.Non v’era giorno che passasse senza chepiangesse il compagno perduto, una nostal-gia sempre più acuta la portava a sognarlomolto spesso. Ed egli in sogno la consolavae la invitava a non abbattersi: Arcurdat cheat aiutarò sempra!Quella mattina dell’8 marzo, mentre scen-deva come di consueto le scale per recarsiin cortile, la Iole era ancora accarezzata daquel sogno, ripetutosi puntualmente anchequella notte.Ma questa volta, ad attenderla da basso, viera proprio lui, il nostro pavone che pas-seggiava tranquillo. Sbalordita e felice laIole chiese per giorni se qualcuno lo avesseperduto, ma quel pavone non era che suo eda allora non la lasciò mai.Lei mi racconta semplicemente i fatti così

come sono avvenuti, non aggiunge altro, nétrae conclusioni.Ma mi piace pensare che quel pavone tantodesiderato, che giunge proprio nel giornodella festa della donna, sia il legame, il tra-mite che per un istante unisce due universidistanti, che esista nella nostra mente unangolo irrazionale dove lasciar cadere ogniconvinzione, dove i confini della realtà edell’ignoto divengano così labili da confon-dersi e toccarsi. Un angolo dove potersirifugiare quando si fa sera ed ogni illusioneè perduta, un angolo sicuro dove attendere,scaldati dal fuoco dell’amore, l’alba di ungiorno nuovo.

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7XVIIL'Angolo

Vincenzo Franciosi

L’onda e’ arrivata, l’aspettavano da un po’,ma finalmente e’ arrivata. Ci ha pensato Fa-bio Fazio con il suo “Anima mia”, uno diquelle parentesi felici nello spaventosomagma della banalita’ televisiva di questistanchi anni di fine secolo, a resuscitare glianni ’70 dalle pieghe della memoria e a farlidiventare, al pari di tutti i decenni preceden-ti, i MITICI ANNI ’70.

Sull’onda di questa riscoperta, vorrei raccon-tarvi una storia un po’ speciale, o meglioun’avventura in piena regola, che si svolse inun teatro davvero suggestivo, le Dolomiti diFassa, e che ebbe come protagonisti un gio-vane prete, allora poco piu’ che trentenne, edun gruppo di temerari il piu’ grande dei qualiaveva la veneranda eta’ di 19 anni!

In quegli anni il periodo che va dal 15 giugnoal 20 settembre, per chi frequentava la Par-rocchia di Gambettola, ma anche quelle del-l’intera Diocesi di Cesena-Sarsina, volevadire Dolomiti: cominciavano i grupponi di1^ e 2^ media nella seconda quindicina digiugno, proseguivano la 3^media e il Bien-nio delle Superiori in luglio, per i quali, con-siderato il numero dei partecipanti, spesso nonera sufficiente un albergo e bisognava occu-pare le “dependance”. Agosto e settembreerano dedicati ai “campi” (cosi’ si chiamava-no e si chiamano tuttora...credo) del Triennioe dei piu’ grandi, universitari e lavoratori.Quel giovane prete di cui parlavo prima, alsecolo don Luciano Zanoli, oggi amatissimoParroco di Gattolino, viveva “in quota” pra-ticamente per tre mesi, fatta eccezione per iquindici giorni di agosto in cui il Parroco DonVittorio si ritirava nell’Eremo di Camaldoli.

A noi del Triennio, nel 1977, il turno capito’proprio a settembre, se non ricordo male dal9 al 22, a Pera di Fassa, proprio al centro del-la mitica vallata contornata dal Catinaccio,dal Gruppo del Sella, dal Sassolungo e dallaMarmolada.

Furono quindici giorni, non ho alcun dubbioad affermarlo, tra i piu’ belli e indimenticabi-li della mia vita, tra l’altro accompagnati daun sole settembrino caldo ed avvolgente, chenon ci abbandono’ mai e che si divertiva acolorare con i toni caldi dell’autunno, ora-mai alle porte, quelle cime uniche al mondo:il ricordo di quel campo e’legato anche a que-gli indimenticabili colori che baciavano le

montagne, i boschi e le valli: dal rosso inten-so della sera, al rosa del mattino intriso dirugiada. Chi ha goduto, almeno una voltanella vita, di questi spettacoli, non fatichera’certo a comprendermi.

Quel campo fu senz’altro speciale, in primoluogo perche’ il gruppo, oltre che numeroso,era davvero molto affiatato: venivamo tuttida almeno 4-5 anni di frequentazione reci-proca molto assidua: i campi scuola prece-denti, i ritiri e le uscite domenicali, le varieattivita’ parrocchiali, avevano cementato unrapporto di amicizia davvero notevole, un’in-tesa e una familiarita’ particolari. Il tuttobeneficiando della presenza di un prete che,pur con gli inevitabili difetti di tutti noi “uma-ni”, aveva carisma, sapeva darci delle moti-vazioni forti e sapeva essere “guida” nel sen-so piu’ alto del termine.

Ma quel campo e’ nella nostra memoria inparticolare per quello che ci successe dalle19 di sera alle 4 di una notte che, per nostrafortuna, fu di luna piena. A partire da quel-l’episodio e per gli anni a venire, noi sarem-mo stati identificati come “quelli del Contrin”.Ma andiamo con ordine.

Il programma era a dir poco suggestivo: sipartiva alle 16 dall’albergo con un pullman esi raggiungeva la Malga del Crocifisso, al-l’incirca a meta’ di una verdissima valle late-rale alla Val di Fassa: la Valle San Nicolo’.Questa vallata, chiusa dalla catena deiMonzoni, era collegata alla valle parallela, laVal Contrin appunto, da un valico percorribi-le ovviamente solo a piedi e alquanto impe-gnativo: il Passo San Nicolo’. Il nostro pro-gramma prevedeva appunto di percorrere tuttala vallata e di valicare il Passo per raggiunge-re il Rifugio Contrin, posto al termine dellavallata omonima, proprio ai piedi dellaMarmolada.Era previsto il pernottamento al rifugio; lamattina dopo salita al Passo Ombretta, pro-prio sotto la “pancia” della Marmolada (unmuro imponente di roccia che raggiunge i3342 metri a Punta Penia) e, per i piu’ espertila ciliegina sulla torta: la via ferrata fino aCima Ombretta. In quei luoghi i nostri Alpi-ni, durante la Grande Guerra, hanno scrittopagine eroiche.

Tutto era previsto nei minimiparticolari...tranne gli imprevisti! Il caso volleche l’autista del pullman che venne a pren-derci, al momento di partire dall’albergo con

tutti noi gia’comodamente seduti all’interno,si accorse di avere una ruota forata. Le ope-razioni di sostituzione furono alquanto lun-ghe e faticose , tenendo anche conto del fattoche il nostro Gianluca Tappi (oggi, sia dettoper inciso, autista dello scuolabus comuna-le...) nella foga di rendersi utile ad ogni co-sto, oltre a svitare i bulloni della ruota, tolseanche quelli del mozzo, che ovviamente sistacco’ dal semiasse cadendo pesantementeal suolo: l’autista, alla vista di cio’, tenne atutti noi, prete compreso, una interessantissi-ma lezione sul colorito vocabolario di paro-lacce e bestemmie del Trentino e delle vallidolomitiche.

Fatto sta che questo contrattempo ci fece ac-cumulare piu’ di un’ora di ritardo. Una voltagiunti alla Malga del Crocifisso e abbando-nati il pullman e la strada asfaltata, ci accor-gemmo che uno degli zaini con gli approvvi-gionamenti, una volta caricato sulle robustespalle di Maurizio Nanni, lasciava cadere dalfondo delle inquietanti goccioline rosse: unodei tre bottiglioni di vino che ci eravamo por-tati al seguito, aveva ceduto agli scossoni dellastrada e alla fretta dell’autista. Ovviamentele operazioni di pulizia e di salvataggio delresto del contenuto dello zaino comportaro-no un ulteriore ritardo di circa venti o trentaminuti.

A questo punto maturo’la decisione fatale:raggiungere il passo sarebbe stato troppo ri-schioso: la notte ci avrebbe senz’altro avvol-to prima di arrivare in cima al valico e allo-ra... meglio tagliare, risalire il crinale dellamontagna fuori dal sentiero segnalato,ridiscendere nella valle parallela prima delbuio e cosi’ affrontare dopo il tramonto solol’ultimo tratto del percorso, quello di fondovalle, che conduceva in tutta sicurezza etranquillita’ alla porta d’ingresso del nostrorifugio.

Ma l’ascesa verso il crinale della montagna,che non e’ esattamente come la collina diBalignano o la salita di Massa, fu un verocalvario: molto ripida e accidentata, oltre chelunga, lunghissima; fu una vera mazzata perle nostre forze e per il nostro morale. Ci ri-trovammo finalmente in cima al crinale, alconfine tra le due vallate, completamente sfi-niti e con la notte che ormai ci avvolgevacompletamente: ci aspettava una discesa al-trettanto lunga e piena di incognite.

Il momento era davvero carico di tensione:

QUELLI DEL CONTRINCronaca di una mitica notte di vent’anni fa

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L'Angolo8 XVII

soprattutto chi aveva poca pratica di monta-gna (alcuni erano alla prima esperienza), co-minciava a dare preoccupanti segni di nervo-sismo. A stemperare il clima intervenne Fran-co Faitanini, un amico di Cesenatico che,proprio nel momento di massima tensione siricordo’ candidamente, con fare da perfettogentleman inglese, di tirar fuori dal tasconedella giacca a vento, la sua inseparabile sve-glia Borletti (modello 1950 - diametro 8 cm.)e di cominciare a caricarla rumorosamente,rammaricandosi di essere in ritardo di benventi minuti sull’orario abituale e chieden-dosi come mai fosse stato cosi’ sbadato dadimenticarsi di un adempimento tanto indi-spensabile.

La scena svoltasi sotto gli occhi di tutti, pro-voco’ una risata generale che stupi’ senz’altroFaitanini il quale ancora oggi non riesce acapire perche’ uno di Cesenatico che caricala sveglia all’aperto in piena notte, sperdutosulla cima di una montagna, faccia tanto ri-dere, ma fu a dir poco provvidenziale per su-

perare quel preoccupante momento di scon-forto: credo che tutti noi dovremmo fare unpiccolo monumento a quella sveglia.

Il percorso per raggiungere il fondovalle sirivelo’ davvero molto arduo: oltretutto ave-vamo solo due torce elettriche che si scarica-rono dopo un paio d’ore ed alcune fiaccoleche dovevano servire per la Messa serale sulprato davanti al rifugio, ma che non eranocerto sufficienti per una simile emergenza.Ricordo il coraggio e la generosita’ di Ga-briele Mazzotti e Mauro Gozzoli i quali, invirtu’ della maggiore esperienza in montagna,

andarono in avanscoperta per trovare i puntidi passaggio meno pericolosi e che rischia-rono anche di cadere in uno dei tanti burronidi cui era disseminata quella montagna.

Durante la discesa - terribilmente lunga,impervia e irta di difficolta’ di ogni genere - imomenti di sconforto si alternavano ad epi-sodi davvero comici (o tragicomici): genteche piangeva giurando che mai piu’avrebbelasciato la casetta giu’ in Romagna dove ilbabbo e la mamma a quell’ora dormivanotranquilli, ignari di tutto; la Carla Tappi - oggisuora missionaria in Kenia alle prese con benaltri problemi e pericoli - che batte’ il recordmondiale di Rosari recitati in una sola notte;Carlo Bracci che, oramai completamenteimbrattato di terra che gli copriva perfino lelenti degli occhiali, si rifiutava di attraversa-re un piccolo ruscello, preoccupato di bagna-re e quindi rovinare i suoi scarponi nuovi; ilbuon Giampaolo Galassi che si becco’ ungrosso sasso in piena testa, con la fortuna chel’urto fu attutito dalla pancia di Massimo Gui-

di - gia’ allora sufficientemente “morbida” -sulla quale il masso ando’ a rimbalzare pri-ma di ferire, con una discreta perdita di san-gue, l’attuale commerciante di sementi e pro-dotti per il giardinaggio di Piazza del Comu-ne.

Tra alterne vicende, e quando oramai non cisperavamo piu’, raggiungemmo il fondo del-la Val Contrin alle 3.30 di notte e ci sembro’di nascere una seconda volta. Un quarto d’oradopo la nostra avanguardia, costituita dalla“guida” Gabriele Mazzotti e da FrancoFaitanini (che aveva messo le ali ai piedi a

causa di un impellente bisogno fisiologico dicarattere “solido” , a cui si era recisamenterifiutato di adempiere tra i rovi e le rocce del-la valle per godere delle comodita’ del W.C.del Rifugio Contrin) si presento’ al furibon-do gestore del rifugio.

Il brav’uomo, che attendeva il nostro arrivoper le 9 di sera, aveva avvertito il SoccorsoAlpino e temeva gia’ il peggio, consideratoanche il fatto che una furiosa bufera di nevestava imperversando sulla Marmolada minac-ciando di spostarsi sulla valle con conseguen-ze che sarebbero state, per noi, davvero mol-to spiacevoli, per non dire tragiche. Compren-sibile la sua ira, che sfogo’, un quarto d’orapiu’ tardi, quando giunse il resto della trup-pa, miracolosamente sano e salvo (Galassi aparte) con Don Luciano in testa. Il povero“don” dovette sorbirsi, oltre alla tensione ealla stanchezza accumulate, anche i rimpro-veri del padrone di casa.

Il giorno dopo ci alzammo verso mezzogior-no; naturalmente la seconda parte dellagita, che doveva portarci all’Ombretta,fu annullata e, dopo un pasto abbon-dante, ci sistemammo in uno dei pratiche circondano il Rifugio per unaMessa “di ringraziamento” che fusenz’altro tra le piu’sentite e parteci-pate di tutti i nostri anni di militanzanel gruppo Parrocchiale.

Questa banda di temerari, che nel cor-so degli anni ha tramandato ad amici,fidanzate, mogli, mariti e figli, questastoria di ordinaria follia giovanile, siritrovera’, consorti e figli al seguito,al Castello di Sorrivoli domenica 9novembre ’97, per ricordare a vent’an-ni esatti di distanza, davanti a un buonpiatto di tagliatelle, quella notte, quel-le paure, quelle risate, quell’amicizia.

Voglio terminare, come per tutte le“grandi avventure” che si rispettino,ricordando i nomi dei protagonisti, pergrazia di Dio a tutt’oggi ben vivi evegeti, in rigoroso ordine alfabetico:

Andrea Battistini, Cesarina Bondi, GiorgioBorghesi, Carlo Bracci, Alba Brigidi, Luanae Pamela Campana, Marco Canducci,Gabrio Faini, Franco Faitanini, Silvia Fiu-mana, Vincenzo Franciosi, Sandra Fusaroli,Giampaolo Galassi, Camillo Giorgi, FabiolaGolinucci, Mauro Gozzoli, Massimo Guidi,Monica Magalotti, Gabriele Mazzotti,Mirella Menghi, Maurizio Nanni, LorenzinaPasolini, Franca Pavolucci, Federico Seve-ri, Raniero Stramiglio, Carla e Gianluca Tap-pi, Camillo Teodorani, Vincenzo Venturi,Raffaella Zamagni, Cinzia Zanelli, don Lu-ciano Zanoli e Franco Zoffoli.

Al rifugio “CONTRIN” • settembre 1977

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9XVIIL'Angolo

NONO:FIGURATIVISMO E INFORMALE

A questo riguardo ignoriamo quasi totalmentela relativa letteratura, che immaginiamocopiosa ed esaustiva, perciò qui ci sarannosemplicemente idee personali ricavate daesperienze dirette, e proprio per questo,empiriche e soggettive. Discutibili e opinabilifinchè si vuole, ma sempre un punto di par-tenza.Immaginiamo un tizio che armato di matitasi accinge all’arte e si va a misurare con labianca superficie. Finchè il foglio è bianco,egli vede infiniti mondi di possibilità, rap-presentazioni oltre il bidimensionale, unameraviglia, ma come traccia una linea, si ren-de conto di essere limitato. Una semplice li-nea ha il potere di trasporre tutto e im-mediatamente sulla superficie liscia o rugo-sa che sia, e su di essa egli assiste soltanto alsegno lasciato da un pezzetto di grafite. Ilmomento è decisivo; c’è chi a questo punto,colto dal panico, pianta baracca e burattini esi scopre convinto collezionista di farfalle.Ma non tutti vengono travolti da un simileterrore, c’è anche chi accetta il proprio limi-te, e capisce che bisogna passare anche daqui. Costoro sapranno andare più lontano.Segno dopo segno, mettendo in campo cuo-re, anima e cervello, acquisteranno tecnica emaestrìa. Roma non è stata fatta in un giorno.Poco per volta si diventa più consapevoli deipropri mezzi, ma soprattutto si diventa piùvicini a sè stessi.

Che farne ora di questo potenziale? Si compren-de che questa energia debba essere indirizzata,ma non si sa ancora in quale direzione.Per tagliare corto dividiamo in due possibiligrandi strade: la riproduzione della realtà cosìcome essa si manifesta e la rappresentazionedell’immaginario, che chiameremo, informale.Mi rendo conto che questo potrà apparire aqualcuno un dire sacrilego, capisco anche chenon si può ridurre a termini così minimi eriassuntivi una storia di tale complessità qualeè quella dell’arte, ma l’intento è unicamentequello di semplificare per meglio compren-derci. Chi poi volesse approfondire le millesfaccettature dell’argomento, sarà sempre ecomunque il benvenuto.Attualmente la punta di diamante della ricer-ca, sembra stare con l’informale. Si sostieneda molte parti, che ciò che doveva essere dettosulla rappresentazione del reale, ha avuto giàil suo più che eloquente epilogo nel XVI°secolo; tutto ciò che è stato prodotto dopoquesto periodo, può essere al massimo soloestetismo da virtuosi.Dissentiamo da questa visione delle cose.Sappiamo che dentro a tante opere cinquecen-tesche, si nascondono concezioni assolute edi universale importanza.E fin qui non ci piove, ma quello che mi rimaneincomprensibile è perchè si vorrebbe vietare, elo si nega proprio, che autori attuali, rappresen-tando forme attinenti il reale, possano avere nel-la bisaccia, frecce altrettanto valide.Questo atteggiamento ci appare fortemente li-mitativo e aprioristico; asserire cioè, che quel-lo che è stato fatto in quel periodo sia piena-mente esaustivo dell’essere e dell’esistereall’interno delle umane esperienze, o cheperlomeno risultino esaurite, le possibilità difare arte a grande livello.Il fatto di usare come modello il corpo uma-no o altre forme esistenti in natura, mi sem-bra che non pregiudichi la ricerca che sta allabase di ogni tensione artistica.Sostengo qui, semplicemente,che all’interno dell’arte, nondevono esistere pregiudizialisullo specifico della forma,e che piuttosto è lo spiritolibero dell’autore che vasalvato, qualunque sia ilmodo o il codice con cui essosceglie di esprimersi.All’interno del discorso trova-no ampio spazio, naturalmente, tut-te le esperienze che potremmo definire, persemplificare, intermedie. Da quelle attinentiil più ortodosso figurativismo a quelle chepassando dall’astrazione arrivano all’infor-male.Tralasciando per brevità le “intermedie”, an-diamo a dare un’occhiata più da vicino a que-st’ultima.Nell’informale, ovviamente, non valgono le

regole, se pur ce ne sono, presenti nel fi-gurativo. Siamo in una prospettiva diversa.Per informale intendiamo quelle espressionid’arte che non si riconoscono in vere e pro-prie scuole o correnti, ma che sono assoluta-mente aperte ad una vera ricerca del nuovo,sia per quanto riguarda i materiali, sia per iconcetti espressi.Uno degli scogli contro cui molti dei fruitori,al momento dell’osservazione rischiano spes-so di incagliarsi e che rappresenta ben più diuna semplice difficoltà, è l’apparente stravol-gimento o la totale assenza di una qualsiasiestetica, così come abitualmente e general-mente, la si intende.Il punto è: l’opera d’arte deve essere sempreesteticamente gradevole, armoniosa, affa-scinante? Meglio ancora: l’arte “è” l’estetica?La prima impressione è che ci siamo cacciatiin mezzo a un ginepraio, e la seconda sem-bra esserne la drammatica conferma.Ebbene, molti ammettono l’arte in un’opera,solo se quest’ultima rientra nei loro personaliparametri estetici.Altre persone arrivano anche ad ammettere,non senza grande circospezione, titubanza eprolisse circonlocuzioni, che forse l’arte po-trebbe arrivare ad esistere anche al di fuori diun discorso puramente estetico.Ci sono poi i convinti assertori del contrario.Costoro sostengono con invidiabile sicurezza,che l’esperienza estetica non abbia niente ache spartire con l’arte.Una robusta e confortante omogeneità di ve-dute.Vado a ripetermi. Se l’arte è cosa apparte-nente agli umani, conterrà, sublimate ed ele-vate a potenza, tutte le espressioni apparte-nenti ad essi. Quindi anche ciò che noi defi-niamo bellezza, eleganza, purezza di linee.Ma gli umani non sono solamente questo; esi-stono aspetti importanti che vengono definitiattraverso parole quali spiritualità, inconscio,

astrazione, razionale e irrazionale, pa-ure ed esaltazioni, e queste cose

compongono un amalgamainscindibile e pienamenteinterconnesso.Ci sembra perciò, e la formadubitativa è sincera, che dopole esperienze derivate dal-l’estetica pura, dobbiamo dare

pieno titolo di arte anche aquelle esperienze che non consi-

derano la bellezza come motivo diinvenzione creativa, nè come punto di par-tenza, nè come punto d’arrivo e neppure, ov-viamente, come elemento da considerare du-rante la realizzazione dell’opera.Da qui alla non più rappresentazione del corpoumano o del mondo naturale, il passo è breve.Vengono usati segni e simboli, colori, forme,masse e procedimenti che poco o nulla han-no in comune con la visione del mondo che

ARTE

tentativi diperimetrazione

(Terza ed ultima parte)

R o b e r t o F o r l i v e s i

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L'Angolo10 XVII

ci ospita, eppure avvertiamo, in un modo deltutto subliminale, che in quelle opere c’è unaparte di noi.Quella parte in ombra, periferica, alla qualenoi stessi non sappiamo dare nome, confinee origine.Nel non-formale c’è quindi il tentativo di ren-dere visibile, di dare corpo, colore e linea, aquello che appartiene, di norma, alla regionedell’invisibile, o quantomeno del nascosto odel sotterraneo. Dobbiamo ammettere che inqueste condizioni, è difficile pretendere l’imme-diatezza di lettura che troviamo, o crediamo ditrovare, davanti alle opere d’arte figurative.Ci troviamo a fissare con perplessità opereenigmatiche, ambigue, diciamo pure in-comprensibili, ma questa difficoltà di inter-pretazione nasce solo dal fatto che non ne co-nosciamo il codice d’accesso, ci manca lachiave di lettura.Ecco quindi un buon motivo per in-formarsi. Non si può dire che ciò siacosa agevole, ma del resto, anche percomprendere e capire un poco l’arteclassica o più conosciuta, c’è la ne-cessità di approfondire e documen-tarsi. Nessuno può conoscere Fidia oPrassitele o Giotto o Raffaello, senzaaver prima letto qualcosa della lorostoria, averne sentito parlare o avervisto almeno una parte della loro pro-duzione. Così nasce una coscienzaprofonda o superficiale, a seconda deicasi, della storia dell’arte. E’ raro peròincontrare persone che siano informa-te della situazione attuale dell’arte.Per molti, dall’Ottocento in qua, c’èsolo nebbia fitta.Questo disinteresse, più apparente chereale, potrebbe essere spiegato, alme-no per coloro che sono direttamentechiamati a produrre arte, con il timo-re di rimanerne condizionati; quasi un“imprinting” dal quale sia impossi-bile staccarsi. Banale? E’ pur vero cheè difficile imparare quel tanto chebasta dalle esperienze precedenti chepermetta di lavorare meglio ma chenon condizioni al punto da portare allaripetizione monotona della stessa ma-trice. La fatica maggiore, in questocaso, sta nella ricerca costante di undifficile equilibrio: saper distinguereciò che è proprio, da quello che già èstata altrui esperienza.

DECIMO:I MONDI DI DENTRO

Se esistono i mondi di dentro, devo-no esistere anche i mondi di fuori.Nessuno si offenda, non è un giocodi parole. Per conoscere i primi, bi-sogna definire i secondi e procedere

per opposti.I mondi di fuori sono quei luoghi dove tuttoè chiaro, netto, evidente, misurabile equantificabile, dove ciò che si vede è sempli-cemente la totalità del reale esistente e l’e-sistente è sempre visibile e quantificabile.Ciò che non si vede, naturalmente, non puòesistere. Un punto di vista.Non ci sono dubbi nè possibilità di errori. Unmondo quadrato, esatto, geometrico. L’uni-ca finalità esistente è la perpetuazione di unsistema-situazione che a sua volta possa per-mettere il perpetuarsi di quell’unica finalità.Un ciclo esatto che replica sè stesso all’infi-nito. Autoclonazione?E per favore poche domande, meglio se nes-suna. Naturalmente non ci sono risposte. Lecose funzionano così, perchè è così che fun-zionano.L’intera struttura ha senso in sè stessa e solo

come parte intera non frazionabile. I singoli,intesi e riconosciuti come elementi autono-mi, acquistano significato quando e quantopiù aderiscono alla convinzione che perpe-tuare il sistema è l’unica cosa da perseguire.Tutto sommato, un “modus vivendi” sempli-ce e chiaro; tutto d’un pezzo.Questo mondo è niente di più e niente di menola nostra realtà quotidiana. Ogni cosa al suoposto e un posto per ogni cosa; oggetti, per-sone, leggi, doveri, diritti, norme, morale,comportamenti. Nessuno spazio per la fanta-sia e nessunissima pietà per l’irrazionale.Ecco a grandi linee i mondi di fuori; quelli didentro sono quasi l’opposto, anche se dettocosì, può sembrare semplicistico. Ci vuolepazienza, è un meccanismo delicato.Ma elencare quello che “non è”, anche se aiu-ta, non spiega affatto cosa “è”.Tenteremo una definizione diretta di quello

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che sono i mondi di dentro.

I mondi di dentro sono quei luoghi dove tut-to è sfiorato da ombre, incerto, ambiguo, dub-bioso ed impossibile a quantificarsi. Quelloche vediamo, non è che la parte minima del-la totalità del reale esistente, mentre ciò chenon si vede, naturalmente, va a comporre laparte maggiore del reale di questi mondi. Imondi di dentro non si vedono, ma il fattoche ci fa ritenere che essi esistono, sta nelfatto innegabile che il reale non sempre è vi-sibile. Un pensiero è reale, ma non si vede.Questo ne è la prova schiacciante. Cosaschiaccia non so, ma si dice così.In questo luogo abbiamo infinite e felicissi-me possibilità di errore e il dubbio è il succovitale dell’esistere. Un mondo irregolare,sfuocato, sgangherato, impreciso e impreve-dibile. L’immane pastrocchio elevato a po-tenza. Pur esistendo una finalità non esistel’idea di un finale precostituito.Qui si fanno continuamente domande e adogni piede sospinto si inciampa in un perchè.Naturalmente ci sono mille e una rispostediverse, anzi, qualcuna di più.Non esiste alcuna struttura e qualora ne spun-tasse una, avrebbe un destino breve ed effi-mero.I singoli (pochi purtroppo; i mondi di dentroposseggono ancora ampi spazi) sono gli uni-ci elementi che danno significato in quantoessi aderiscono alla convinzione che l’unicacosa che valga la pena perseguire sia conti-nuare all’infinito la ricerca.Tutto sommato, un mondo che sembra lon-tano dalla gestione del quotidiano.Nessuna cosa sembra alloggiare al suo postoe altrettanto sembra non esistere un posto perogni cosa. Ad oltranza, ligi alle regole, insi-stiamo sulla parvenza.Oggetti, persone, leggi, doveri, diritti, nor-me, morale, comportamenti, sono derivazio-ni dell’esistere e non modelli precedenti daiquali far dipendere l’esistere.Ecco, in soldoni, i mondi di dentro e siccomel’esistere ha già i suoi pesi, eviteremo di ad-dentrarci nei particolari.

UNDICESIMO:CREAZIONE E NASCITA DELL’OPERA

Perchè succede quella cosa che poi vienedefinita opera d’arte? Più facile conoscere ildove, il quando e il come. Meno chiaro risul-ta il perchè.Il valore primo, il significato di un’opera vacercata sempre nell’intimo di chi la con-cepisce, perciò conoscere i reali motivi chehanno determinato l’origine dell’idea, è si-curamente una strada tortuosa e indefinibile.Possiamo tentare delle supposizioni, ma nien-te di più.Possiamo osservare gli effetti di un pensiero

o di un concetto e descriverli, mai però po-tremo vedere il concetto stesso.Dobbiamo quindi prendere atto dell’unicodato reale alla nostra portata: la semplice vi-sione dell’opera con tutto quello che essa puòsignificare per noi. Non più l’indagine spe-culativa, la domanda pressante, lo spasmodi-co scavo a posteriori, bensì una posizione diascolto, di ricezione.Esiste una lettura che andando oltre il forma-le, si spinge a cercare il segno che appartienealla sfera più profonda, anche se i motivi chespingono l’artista all’invenzione nuova, sonospesso molto prosaici.Non è raro che opere belle e assolute, trovinola ragione d’esistere e la loro origine, nell’at-to della commissione. In genere è proprio inquel momento che viene deciso soggetto,cromatismo, dimensioni, tecnica di esecuzio-ne e materiali da utilizzare.

Tuttavia non si può dire che non esistanocondizionamenti; occorre saper cogliere quel-l’aspetto, quella sfumatura che può essere lachiave di volta che trasforma una possibile oquasi certa banalità, in un fatto d’arte. Nonsempre ci si riesce, si può incappare in casiveramente disperati con i quali non è possi-bile sollevarsi da terra.Commissionamento o espressione autonoma:Esiste effettivamente una antitesi insanabilefra le due cose?L’opera d’arte esiste necessariamente solonella assoluta autonomia ideativa di chi laproduce?E ancora: In condizioni indubbiamente limi-tanti; vedi scelta del soggetto, scelta della tec-nica e della cromìa, dimensioni non adatte,resa economica relativa, tempi concessi perla consegna ed altro, si può credere che pos-sano svilupparsi gli elementi legati a quelleconcezioni superiori che l’opera d’arte richie-de per essere definita tale?Si può tentare, in alcuni casi, di ripercorrere imotivi più pratici legati alla realizzazionedell’opera, o, se si vuole, quelli storicamenteaccertabili.La situazione contingente in cui si è svilup-pata e realizzata: vedi momento socio-poli-tico, luogo geografico, eccetera. I materialiscelti, la cromìa e, da non sottovalutare, an-che i supporti qualora esistano.Sia detto per tentare di conoscere meglio ilquadro complessivo che può condurre all’o-pera.Si può affermare che non c’è nulla di piùindeterminabile, fumoso e inspiegabile, del-la nascita di un’opera d’arte. Queste cose ob-bediscono a impulsi e sensazioni complesseche provengono da zone profonde degli uma-ni, e per quanto ci si affanni a scavare percomprendere, ci si può ritenere fortunati alasciare il solo segno di un graffio.

Ci sono dei campi o delle zone ideali che,pur avendo completa autonomia di azione edi espressione, nonchè l’attribuzione parto-rita dalle convenzioni sociali di una precisaposizione nella scala dei valori, mantengonoai loro margini più esterni, dei confini dotatidi estrema fluidità.E’ il caso che riguarda l’artigianato e l’arte.Affermare che esista un confine netto, credoche nessuno possa in coscienza sostenerlo,ma la difficoltà nasce qualora si debba deci-dere se un oggetto appartenga all’uno o al-l’altro dei campi.L’artigiano scrupoloso e geniale lavora per-petuando modelli appartenenti alla tradizione,e svolgendo per questo un’indubbia e impor-tante funzione culturale.A sua volta, l’artista produce al di fuori deglischemi tradizionali essendo egli stesso ilpropositore primo di elementi estetici inno-vativi, elementi che a loro volta diventeranno,nel futuro, i modelli estetici ai quali l’artigia-no farà riferimento. Il tutto a grandi linee,naturalmente.Basterà dunque riconoscere in un’opera ele-menti innovativi per affermare senza mezzitermini che l’opera è senza dubbio Arte? Noncredo si possa fare riferimento a questo mododi determinare. L’arte è sempre qualcosa d’al-tro perciò non è quantificabile.In ultima analisi, l’opera d’arte nasce all’in-terno di una fattiva volontà di elaborazione edi trasposizione delle esperienze di vita ecome tale non può essere una semplice ri-petizione delle forme già esistenti.

DODICESIMO:PERCEZIONE DELL’OPERA

I sensi ed altro.

L’insieme delle potenzialità visive e uditive,come capacità di discriminazione analitica edi comparazione, è il fattore fondamentaleagli effetti della percezione dell’opera.Queste capacità sono tipicamente soggetti-ve, personali e quindi variabili da soggetto asoggetto, e sottintendono una lettura disinte-ressata se pur selettiva. Ciò non esclude af-fatto, ci mancherebbe altro, il diritto all’esi-stenza di possibili letture più epidermiche edi carattere più spontaneo.L’opera d’arte ha il dovere di rendersi com-prensibile dal maggiore numero possibile diindividui, questo perchè ognuno di essi, espo-sto alla vasta gamma di messaggi contenuti etrasmessi dall’opera, possa farne sua almenouna parte, quella che maggiormente si avvi-cina alla sua sensibilità.L’arte non può rimanere confinata nel mon-do tutto interiore di chi la propone; se cosìfosse, verrebbe a mancare l’elemento comu-nicazione che è, mi sembra, irrinunciabile.Simili forme di ermetismo elitario possono

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L'Angolo12 XVII

solo creare dei circoli chiusi che poco o nullacontribuiscono allo sviluppo dell’arte.C’è chi sostiene che ogni opera “non può nonessere”, nel suo insieme formale e simbolico,una comunicazione, e che l’opera sia il se-gno, il tramite significante che permette lacomunicazione tra il reale del realizzatore eil reale del fruitore dell’opera. Ora, che l’operavenga considerata segno, elemento di traspor-to del reale fra mondi desiderosi di comuni-care, mi trova pienamente in accordo, am-metto però delle perplessità quando si affer-ma che comunque e sempre, l’opera d’artesia comunicativa.Che dire di quei casi in cui l’artista producesolamente in funzione di sè stesso, esponendoquindi opere assolutamente ermetiche e in-comprensibili?In questo caso, tuttalpiù, potrà avvenire unaricezione di tipo subliminale o più sempli-cemente una impressione dai contorni vaghi,ma credo che queste cose siano lontane dallalegittima percezione dell’esatto significatocontenuto nell’opera.Non basta, a mio parere, la ricezione di unaimpressione qualsiasi per affermare di essereall’interno di un sistema comunicante, occor-re invece che venga percepita la si-gnificazione voluta dall’artista. Su questo poi,possono nascere i commenti più vari, sia quel-li che interessano il profondo, sia quelli chepossono essere esposti nel dibattito sociale eche coinvolgono la sfera estetica, formale,intellettuale, storica.E’ un fatto noto a tutti purtroppo, che nell’ul-timo secolo, l’arte si è allontanata pro-gressivamente, e il fenomeno sembra nondiminuire di intensità, dalle possibilità dicomprensione della stragrande maggioranzadelle persone. Pochi studiosi possono di-squisire amabilmente sullo strutturalismo osui valori extraestetici del simbolismo comeparti integranti dei contenuti.Sono questi lambiccamenti mentali che fan-no percorrere oggi all’arte una strada semprepiù solitaria; c’è bisogno di unriavvicinamento che porti ad una maggiorecomunicazione. Già da troppo tempo, e perintere generazioni, l’arte è sinonimo di cosastrana, insensata e incomprensibile.Al di fuori del figurativo c’è ancora troppaconfusione e i più degli umani, non trovandonell’arte segnali comprensibili, che abbianosicuri punti di contatto con la loro formazio-

ne intellettuale edestetica, la abban-donano, alla identi-ca maniera che siusa per le cose pocoimportanti e chenon possono inte-ressare dal momen-to che non si com-prendono.

di Giorgio Paganelli

Che fine ha fatto la poesia? Quella che occupagran parte delle antologie della letteratura, daDante e Petrarca a Montale ? La letteratura ita-liana dei nostri giorni sembra fatta solo di pro-sa: Umberto Eco, Italo Calvino, Dacia Maraini,Stefano Benni, Susanna Tamaro (SusannaTamaro?).

Eppure la poesia non è scomparsa, vive unasua vita sotterranea fatta di molti autori che scri-vono, di riviste e rivistine, di piccoli editori chepubblicano una marea di titoli ma hanno una di-stribuzione locale o limitatissima. Ecco allorache nelle librerie si trovano soprattutto prosa,saggistica e varia, mentre la poesia è relegata inun angolo. Del resto la poesia non vende e nonfa notizia, i giornali la ignorano, la televisione,poi, non ne parliamo. La poesia è un genere eco-nomicamente marginale, per pochi lettori, peruna élite disposta a cercare. Ma soprattutto ne-gli ultimi anni la poesia si è trasformata, mime-tizzata, ha occupato altri territori, non vive piùsolo nei libri di poesia, che pure ci sono e talvol-ta sono anche molto buoni.

Penso ad esempio al cinema di Fellini ePradzanov, al teatro di Strehler e Lindsay Kemp,alle canzoni di Paolo Conte, Ivano Fossati, Fa-brizio De Andrè. La canzone è oggi una delleforme espressive dove circola spesso la poesia.Del resto è naturale che questo accada, bastipensare alla natura stessa della canzone, cheunisce musica e parole, o al fatto che anche nel-l’antichità i poeti usavano declamare i propri ver-si accompagnandosi con uno strumento.

E’ sempre più diffusa la pratica di allegare aicompact disc dei cantautori un libretto con tuttii testi delle canzoni (e le musiche? quelle pur-troppo sono da acquistare a parte e in genere sonomeno interessanti), mentre non capita mai di tro-vare in libreria allegato ai volumi di RaffaelloBaldini, di Attilio Bertolucci, di Sante Pedrelliun CD con la voce dell’autore che legge i propritesti. Peccato, perché la canzone è una forma diespressione popolare e -talvolta- poeticamente“alta” e la poesia “ufficiale” non dovrebbe ave-re paura di diventare anche popolare.

La poesia di oggi è uno strano fenomeno, moltoarticolato, sotterraneo e di élite ma allo stessotempo anche estremamente vivo, diffuso, popo-lare. Che fine ha fatto la poesia? Forse non èmai stata così bene.

CHE FINE HA FATTO LA POESIA?

L’ULVOIDAA sò rèst alasò.Int la mi bèla ulvoida.I m’ha det ch’la n’gnè piò.

L’OLIVETOSono rimasto lassù./ Nel miobello oliveto./ Mi hanno dettoche non c’è più.

L’INCHENTAc silénzi ad nòtaquant gazot la matòinache sòul, che loun d’louna!E’ po’ l’ès ch’a viaza pèra de’distòin,cmè ch’e’ fos l’inchènt?Tot e’ po’ l’ès,e’pò lès ch’a dorumte mi lèt a Roma.

L’INCANTOChe silenzio la notte/ quantiuccelli la mattina,/ che sole,che lume di luna!/ Può essereche io viaggi/ a fianco deldestino,/ come fosse un incan-to?/ Tutto può essere,/ puòessere che io dorma/ nel mioletto a Roma.

SANTE PEDRELLI

E’ nato a Longiano nel 1924. E’ stato sin-daco di Longiano negli anni cinquanta eha svolto l’attività di dirigente sindacalea Forlì, Cesena e Roma, dove vive dal1969.I suoi testi, tutti in dialettoromagnolo, sono stati pubblicati in rivi-ste, antologie e poi raccolti nel volume“L’udòur de vent” (Edizioni della Come-ta, 1993). La poesia di Pedrelli si muovetra città e campagna con testi brevi ed in-cisivi e uno stile che unisce colto e popo-lare, confidenziale e assoluto. I testi chepubblichiamo sono tratti dalla secondaraccolta, dal titolo “E ghéfal” (EdizioniMobydick, 1997).

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L'Angolo14 XVII

Il Segno dei Quattro

La Beatles Week a LiverpoolClaudio Cardelli c’è stato

e l’ha vissuta in profondità.

Spiace doverlo dire ai giovanissimi ma,per capire davvero chi erano i Quattro Sca-rafaggi - e l’impatto che hanno avuto sullanostra generazione - bisogna avere attra-versato, almeno adolescenti, il decennio’63-’73. L’Italia musicale degli anni ’50 -e non solo quella - sonnecchiava in unconformismo di piombo, canzoni d’amorealla melassa si mescolavano alle tante me-lodie-lamento dedicate alla mamma (sepossibile persino più melense). I cantantisalivano sul palcoscenico con sorrisi daoratorio o con lacrime da “due orfanelle”.E la musica, un po’ urlata, che arrivò daLiverpool via Londra inferse a tutto questouno scossone salutare e definitivo. Purtrop-po questi ultimi anni ci stannoriproponendo un tuffo nella melensaggine,stavolta anche rock. Ma dove sono i nuoviBeatles?

Londra 22 agostoSulle strisce pedonali diAbbey Road, quelle rese fa-mose dall’omonimo lp deiBeatles per intenderci, c’èuna ragazzina di circa dodicianni che cammina avanti eindietro con una sigaretta inmano mentre un adulto, cheimmagino essere il padre, lescatta qualche fotografia. Laragazzina è di Matera e il pa-dre, più o meno un mio coe-taneo mi spiega che sua fi-glia è una fanatica deiBeatles e che l’unica ragio-ne, che l’ha convinta ad an-dare in Inghilterra con i ge-nitori è stata la promessa checi sarebbe stata la visita ailuoghi “storici” dei Fab Four.Mi prega anzi di non farmenzione del fatto che sto andando aLiverpool con i miei due figli di 13 e 15anni, perché sarebbe scoppiato un mezzodramma.Dopo qualche minuto arriva altra gente, due

ragazze dalla Sardegna, altri dal Brasile,altri ancora dal Portogallo. Tutti scrivonoun ricordo, “John forever”, “Paul you arethe best e simili sul muro di cinta della EMI,la casa discografica che ebbe la grande in-tuizione nel 1963 di ingaggiare i 4 diLiverpool, scartati dalla Decca, e che creòil più grande fenomeno musicale di tutti itempi. Sono diretto alla Beatles Week diLiverpool e, con trenta e più anni di ritar-do, sto respirando quell’atmosfera della“swinging London” che tanto attirava i mieicoetanei alla fine degli anni ’60. Allora giàmilitavo in una “band” pesarese, i Log, eavevo una Mini verde e nera molto “british”ma Londra e Carnaby Street mi sembrava-no mete convenzionali e un po’ borghesied ero molto più attirato dall’oriente in ge-nerale e dall’India in particolare.

La sterlina pesanteha messo le chitarre... alle corde!

Purtroppo la sterlina pesante rende il sog-giorno meno sereno del previsto. Un pac-

chetto di sigarette a 9000 lire, un’ora diparking a 11.000.e così di seguito, sono ta-riffe insopportabili abituato come sono aicambi delle deboli valute asiatiche. ADoncaster, cittadina mineraria del

Derbyshire e dove si trova il più importan-te negozio di chitarre vintage d’Inghilter-ra, ci fermiamo un sabato sera. RichardHarrison, il proprietario del negozio, miconfessa che da quando la sterlina è schiz-zata alle stelle i suoi traffici di chitarre eamplificatori con gli altri paesi hanno avu-to una battuta d’arresto. L’albergo dove al-loggiamo, ed è una pura combinazione, haospitato due volte i Beatles nel ’62 e nel’63. Dietro la reception campeggiano arti-coli di giornali dell’epoca e fotocopie deiregistri con le firme dei Quattro. JohnLennon alla voce nazionalità scriveva“White man” mentre Harrison scriveva“Great British”, Paul “Green” e solo Ringoappuntava un normale “British”.

A Liverpool la notte dura di meno

I ragazzi e le ragazze di Doncaster alle 20sono già in giro per raggiungere i vari pub.L’atmosfera è simpatica, le ragazze “ci dan-no da dire” in modo spiritoso. Chi ha dettoche le inglesi sono brutte? Forse non sono

eleganti questo sì.Fioccano gli stivalibianchi lucidi contacchi fuori misura.Vestiti di pizzo nericon biancheriabianca a vista o vi-ceversa. Mi spiega-no che il sabato siesce presto per unamaggior “riuscita”della serata e checomunque, qui inprovincia, sono sco-nosciuti orari disu-mani fino al matti-no come da noi. Laserata deve comun-que finire in modoalticcio perchè l’in-domani le stradesono piene di botti-glie spaccate. I tito-lari del negozio diDoncaster, che for-

niscono i mitici amplificatori VOX per laconvention Liverpooliana, ci fanno da gui-da fino in città e sotto un diluvio torrenzia-le raggiungiamo il centro di questo portoinglese a cui non è rimasto più nulla della

Ma chi erano mai

questi Beatles?

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splendida atmosfera dei grandi tran-satlantici in partenza per New York. Soprav-vive la fama della squadra di calcio e deisuoi temibili tifosi hooligans e soprattuttoquella di John, Paul, George e Ringo. Lagente è comunque cordialissima e tutti siaffannano a raccomandarci il Museo,l’Albert dock ricordandoci che a Liverpoolsi può anche fare il turista. Per le stradedecine di ragazzi disoccupati, probabilmen-te portuali, esibiscono con una mano untesserino e con l’altra tengono alcune co-pie del “The Big issue” un giornale locale.

L’entusiasmo compassatodei giapponesi

Appena entrati incrociamo il MagicalMistery Tour bus, sì proprio quello dei film.A bordo ci sono un gruppo di giapponesicon guida al microfono. Li vedo passarelenti. Compiono un itinerario storico: dallecase natali dei nostri, al LIPA la scuola diPaul, all’orfanotrofio di Strawberry Fields,a Penny Lane al Cavern Club il mitico lo-cale dove i Beatles iniziarono la loro asce-sa. Il Cavern è rimasto come allora: una ca-tacomba mefitica caldo-umida dove peròappena entri ti cedono le gambe per l’emo-zione. Ecco, laggiù sotto quella volta c’era-no Loro. Le pareti di pietra si sono impre-gnate della loro musica, del loro sudore,delle grida delle fans: è un luogo ormaimetafisico; chi ha il privilegio di esibirsiqui spesso piange per l’emozione. E’ il tem-pio della mitologia Beat. Gran parte di que-sta convention internazionale si svolge inMatthew Street dove, oltre al Cavern, unamiriade di piccoli locali sparano in stradadai loro pertugi frammenti di Kinks, RollingStones, Spencer Davies, Who e soprattuttoBeatles, Beatles, Beatles. Un’orgia di Sgt.Pepper, Taxman, Eleanor Rigby, NowhereMan, Yesterday ci avvolge da ogni anfrat-to, da sopra, da sotto. La gente è allegra c’ètutto il mondo, gialli, neri, biondi, bambi-ni, cinquantenni, quarantenni, sessantenni.C’è un gruppo svedese, i Lanny Pane, chesta suonando nel courtyard adiacente alCavern. Sono formidabili, la gente ondeg-gia e canta all’unisono. Centinaia di piedibattono il tempo di Gettin’ Better l’aria èfrizzante e un vago odore di ferrovia si span-de intorno. In alto i fumosi muri lascianointravedere un pertugio di cielo azzurro.Sono molto felice, forse un pò esaltato manon mi importa.

Il vuoto di John Lennon

Qui sono arrivate Beatles Band da tutto ilmondo. Alcuni seguono in manieraossessiva il cliché originale dei Beatles finoad imitarli alla perfezione. C’è un John

Lennon , tale Gary Gibson, che fa veramen-te impressione. Ci sono i Bootleg Beatlesche propongono uno show, formalmenteperfetto, in cui si conciano in maniera di-versa a seconda dei periodi che interpreta-no. John è perfetto, Paul un pò meno anchese si affanna a mosseggiare e a sbattere gliocchi come Sir Mc Cartney. Sono bravi,hanno anche tutta l’orchestra dietro e lasolista che fa la trombetta di Penny Lane.Non mi convincono. John mi intristisce unpò. Fa anche le sue battute graffianti, lagente ride e applaude, ma John è morto enon riesco a dimenticarmelo. I Parrots nonsmentiscono la fama di grandi imitatori intutti i campi dei giapponesi e propongonouna “You really got a hold on me” da pelled’oca. I Ringer, scozzesi, sono quelli chemi affascinano di più. In quattro, sobri eloro stessi, eseguono una “Doctor Robert”da urlo e terminano con uno dei miei branipreferiti: “The Word”.

Tutti gli uomini dei Beatles

All’interno dell’enorme Hotel Adelphi sisvolge anche la grande esposizione di me-morabili dischi, gadget e quant’altro giraattorno ai grandi quattro. Sono sconvoltodalla macchina mostruosa che dopotrent’anni appare più efficiente e oliata chemai. Il mito è vivo, lo si tocca nei volti de-gli appassionati che scuciono 450.000 perun Lp “Revolver” originale. C’è il pittore

che li ha ritratti copiando da foto più o menocelebri e che “Today I sign the paintings”.C’è una marea di bootlegs, video, magliet-te belle e brutte, distintivi, statue in bron-zo, pupazzi, arazzi con copertine di dischie c’è anche il grande Rolando Giambelli,presidente instancabile dei Beatlesianid’Italia Associati, con la sua deliziosa mo-glie Alice. Rolando, appassionato fotogra-fo bresciano, dedica una buona parte dellesue energie all’organizzazione di concerti,eventi, mostre dedicate ai Beatles spessocon fini filantropici e umanitari e dirige congrande efficienza l’associazione. Rolandoè anche un ottimo musicista e ha, nella ras-segna, un suo spazio di quasi due ore dovedeve esibirsi come “one man band”. Glipropongo di accompagnarlo con i ragazzipoichè, “guarda caso...ho una Rickenbacker12 corde in macchina”. Rolando accetta en-tusiasta e mi ritrovo a suonare per due oreprima al Cavern e poi all’Abbey Road. Pra-ticamente il Sancta Sanctorum della BeatMusic. Qui sono passati tutti i grandi comeelenca the Wall of Fame, il muro esterno,con tutte le centinaia di nomi scritti sui rossimattoni. Ho un pò fifa e a Riccardino tre-ma la voce ma la gente canta per due orecon noi, ci acclama e mentre usciamo ciriempiono di complimenti ed affetto. Gra-zie Rolando, adesso veramente i trent’anninon sono più passati.

Claudio Cardelli

Claudio Cardelli e il suo gruppo de i “RANGZEN”

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L'Angolo16 XVII

Banca popolare dell'Emilia Romagna

E per finire...