la verità la prudenza l’amore · la verità nella sua pienezza non è possesso individuale, ......
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La Verità – La Prudenza – L’Amore Riflessioni di Giuseppe Lazzati ai giovani
La verità vi farà liberi:
Gesù stesso cerca di far capire qual è la sua vera natura e la sua vera missione. Nel vangelo di
Giovanni si legge: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete miei discepoli; conoscerete la verità e la verità
vi farà liberi».1 È un’espressione che ha bisogno di essere approfondita. Dobbiamo cominciare da cosa
intenda dire Gesù con il termine “Verità”. Se da uomini dovessimo cercare, solo con la forza della nostra
intelligenza, la risposta dovremmo lasciarla ai filosofi. Invece noi dobbiamo camminare per la strada della
fede. Non per non apprezzare la ragione, ma perché il discorso di Gesù domanda la fede. Essa non elimina la
ragione, ma la supera.
Il tema della verità è collegato con quello della parola. Giovanni parla di rivelare la verità e questa
verità è dentro la parola di Gesù, in quanto è questa parola che rivela la verità. La parola di Gesù dice le
parole del Padre, dice che la parola del Padre è verità. Occorre riprendere il prologo del vangelo di Giovanni:
«In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio».2 Gesù afferma che la parola del
Padre è verità. Quella parola è Gesù stesso, apparso nella carne. Ma prima di farsi carne la parola esiste. Il
Padre si pensa e il suo pensarsi si esprime nella Parola nella quale è espresso tutto il Padre. Qui si è nel
mistero della Trinità. È una cosa che supera la forza della ragione. Giovanni, nel prologo del suo vangelo,
esprime in parole umane il fatto teologico che la parola di Dio è presso Dio, è distinta dal Padre che la
pronuncia, ma è Dio. Il Verbo, Parola espressa dal Padre, lo riproduce nella sua totalità. La differenza è solo
nella relazione che c’è tra chi genera e chi è generato.
Adesso occorre capire cosa s’intende quando si parla di verità. Tutto ciò che esiste, esiste perché Dio
lo pensa. Non esiste nulla fuori dal pensiero di Dio. Dio pensa nel suo pensiero. Non può pensare fuori di
esso. Se Dio pensa di fare qualcosa, lo pensa nella Parola. Questa è l’origine di tutto ciò che è stato creato.
Questo dice l’origine delle cose, non dice però come sono fatte le cose. Questo lo si deve scoprire con la
ragione. Dio ha dato l’intelligenza per scoprire come sono fatte le sue opere. Com’è fatta la luce pertanto lo
spiegheranno i fisici, non i teologi. Dunque la fede non sostituisce la ragione per l’ambito che le è assegnato
da Dio stesso. La verità, per noi uomini, ha quindi due ambiti: l’ambito della fede e quello della ragione. Ho
bisogno di entrambi se voglio conoscere pienamente la verità. È importante sottolineare la necessità di
questa duplice luce di cui c’è bisogno per conoscere tutta la verità. Dunque è fondamentale capire che la
verità, se la si vuol prendere nella sua interezza, ha bisogno di entrambe le luci. È importante anche capire
come la luce della fede possa essere accolta da tutti, perfino da coloro che per formazione o altro sono
“lontani”. Quando il biologo, con l’intelligenza che gli è data, scopre come funziona la vita è chiaro che
quella scoperta lo conduce a vedere le meraviglie di Dio. Così la verità stessa acquista la pienezza delle sue
dimensioni: una divina e una umana. La ragione ad un certo punto, ha creduto di poter esaurire tutta la
facoltà della conoscenza dell’uomo, ma contro la luce della fede, credendo di farne a meno, ha preteso di
spiegare tutto da sola. Pur essendo chiaro che le due dimensioni della verità possono avere un’importanza
diversa, una condizione è fondamentale per il loro rapporto: l’umiltà. Si tratta dell’umiltà di riconoscere che
l’uomo, con le sue forze, non arriva alla verità piena. La verità ha bisogno che la ragione accolga la
1 Gv 8,31-32. 2 Gv 1,1.
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rivelazione, riconoscendo il proprio limite. Non dobbiamo pretendere, o credere, che la ragione si sostituisca
alla fede. La verità nella sua pienezza non è possesso individuale, ma comunitario, è “bene comune”.
«Io sono la via, la verità e la vita».3 Gesù si proclama la via per arrivare alla verità, perché, arrivando
alla verità, si possegga la vita. La verità non è fatta solo per essere conosciuta. È fatta per essere vissuta: la
verità è vita. Necessita riprendere il prologo del vangelo di Giovanni: «Nella Parola era la vita».4 Qui si
afferma la coincidenza della verità e della vita. La verità nella carità, questo è vivere! La conoscenza
dell’atto puro di essere che è Dio, atto di amore e relazione tra Padre, Figlio, e Spirito Santo, fa si che noi
viviamo. La verità ci fa veri nel rapporto con Dio. Con il battesimo diveniamo uomo-nuovo. La potenza dello
Spirito ci fa rinascere. L’uomo è vero uomo quando, conosciuto ciò che è, vive il mistero del suo essere
creatura, ossia figlio di Dio. Certamente non è lasciando che la carne prevalga sullo spirito, che uno è uomo.
È ristabilendo l’ordine voluto da Dio che uno è uomo. Ma cosa vuol dire farsi veri nel rapporto con gli altri
uomini? Si può guardare in faccia a ogni uomo e riconoscerlo, in senso vero, come fratello. Se fratello vuol
dire essere nato dallo stesso Padre, allora insieme possiamo dire «Padre nostro». Allora diventa chiaro che i
rapporti tra gli uomini devono diventare rapporti di vera fraternità. La rivoluzione francese ha avuto come
motto “Libertà, fraternità e legalità”, ma si è trattano di una scimmiottatura della fraternità cristiana. A
generarci nella fraternità è solo lo Spirito, se questo non avviene gli sforzi dell’uomo a stento produrranno
risultato, perché ci saranno uomini disposti a violare i legami. L’uomo deve anche diventare “Signore del
creato”. Questo può avvenire in obbedienza al creatore e con l’impegno delle nostre mani e della nostra
intelligenza. Questo vuol dire obbedire alla verità rivelata. Cristo non è stato riconosciuto quando risuscitava
i morti, quando dava la vita ai ciechi, quando faceva camminare i paralitici. È nel momento in cui muore che
viene riconosciuto come Figlio di Dio. Qui è il mistero. Perché non si vive la verità se non si è disposti a
morire.
Occorre adesso porsi un’altra domanda: da cosa ci libera la verità? La prima libertà che porta la
verità, è la libertà dall’ignoranza. Liberasi dall’ignoranza vuol dire conoscersi, saper leggere la realtà,
prospettare, preservare quindi vuol dire vivere meglio. Ma la conoscenza della propria origine e del proprio
compimento l’uomo può averla solo se conosce Dio. La conoscenza della verità non libera solo in relazione
all’origine e al fine, ma libera anche dall’errore relativo al valore delle realtà in cui si vive. Quando la verità
ci illumina, noi vediamo le cose del mondo con il loro giusto valore. Certo così si diventa realmente signori
dell’universo ma in vista di arrivare al fine ultimo: «Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio».5
La verità libera l’uomo anche dall’ignoranza del suo rapporto con gli altri uomini. Quella verità per la quale
tutti gli uomini sono figli di Dio. Non si può, infatti, mai fare dell’altro uomo uno strumento perché egli è,
come ciascuno, fine delle realtà create. È solo quando questa verità invade e pervade l’uomo, che egli è
liberato dall’errore è può camminare verso il suo fine. Il secondo aspetto da considerare è che la verità ci
libera dall’istintività. L’istintività è una forza che Dio stesso ha messo nella natura, perché la natura stessa si
muova verso il suo fine. Dunque l’istintività è un bene. Nell’uomo questo bene deve essere regolato dalla
ragione. Qui è necessario ricordare un’altra espressione di Cristo: «Senza di me non potete far nulla».6 Aiuto
fondamentale è la carità. Questa quando investe l’istintività, la guida in modo che essa risponda al disegno
di Dio conosciuto attraverso la rivelazione. Se l’uomo osserva i comandamenti di Cristo, egli ha la capacità di
guidare la propria istintività. L’istintività, che di per sé è un bene, lo è in misura in cui essa è dominata.
3 Gv 14,6. 4 Gv 1,4. 5 1Cor 3,22-23. 6 Gv 15,5.
3
Senza questo l’uomo è schiavo della propria istintività. Per l’evangelista Giovanni tre sono le istintività che
guidano il mondo: quella del possedere; quella del piacere; quella del dominare. Queste ciascuno le
sperimenta dentro di sé. La verità di Dio dà agli uomini la gioia e la forza di guidare la propria istintività. Il
terzo aspetto da considerare è che la verità ci libera dalla paura. Se noi ci guardiamo intorno, facilmente
possiamo notare come gli uomini sono dominati dalla paura. Paura del futuro, paura di quanto può
accadere. La parola di Dio rassicura: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?».7 Se si crede veramente,
ovvero se per noi la verità non è soltanto una parola, allora il dubbio è superato. Il vero cristiano è libero
dalla paura.
La verità ci rende anche liberi per amare. L’amore, infatti, è la pienezza della libertà e lo è in quanto
partecipazione alla vita divina. È possibile sviluppare questa affermazione rifacendosi a Giovanni:
«Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è
amore».8 Sotto questo modo di esprimersi vi è la concezione di Dio come amore. Giovanni l’ha imparata con
Gesù. Se si conosce Dio lo si conosce come amore. Nel Figlio, Dio ha comunicato se stesso a coloro che, per
amore, aveva chiamati alla vita. Esistono certamente dei gradi nell’amore. Ci sono gradi iniziali e gradi più
profondi. Nel momento in cui, attraverso la fede, si riconosce in Cristo la pienezza dell’amore rivelata da Dio,
si entra nel circuito dell’amore che lega il Padre al Figlio e il Figlio al Padre. Da ciò si consegue che se Dio ci
ama anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Questo amarci è la testimonianza del vangelo e richiede la
partecipazione alla vita divina. Questa stessa capacità di amare ci conduce alla libertà. Una libertà che
esclude ogni timore. La verità ci fa liberi per amare, per un amore che è pienezza della libertà. Si tratta di
una libertà da intendere in senso diverso da quella della scelta tra bene e male, perché la vera libertà è la
scelta tra bene e meglio. La possibilità di scegliere il male, infatti, è un grosso limite per l’esercizio della
nostra libertà. Dice ancora Gesù: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me».9 È una parola
quanto mai forte. Può forse Dio amare qualcuno più di se stesso? Dio non tollera un amore che lo precede e
che lo superi. Nulla prima di Dio. Nel momento in cui, nel cristiano, insorge la tentazione di mettere l’amore
di qualcuno o di qualcosa prima dell’amore di Dio, in quel momento il cristiano deve dire no. Questo
precetto si attua in Cristo e diventa per l’uomo esigenza di vita. Questo esprime la radicalità del
cristianesimo. Gesù non ci dice questo per soffrire, ma per affermare la necessità di una scelta prioritaria tra
l’amore di Dio e qualsiasi altro amore. Il tema della vocazione si presta a questo ragionamento. Si pensi a
quelle madri che sono disposte a sacrificarsi pur di dare alla luce il proprio figlio. Questo genere di amore ha
Dio sopra di tutto. Si tratta di un dono che non può mai essere vissuto come la rinuncia a qualcosa, ma come
esaltazione della capacità d’amare. Oltre che per amare Dio, la verità ci libera per amare gli uomini: l’amore
tra fratelli è la rivelazione del Padre. «Se uno dicesse: “Io amo Dio” e odiasse il suo fratello, è un
mentitore».10 Se i cristiani vivessero queste realtà, probabilmente il mondo farebbe meno fatica a
riconoscere la presenza di Cristo. Naturalmente, questo amore diretto a tutti gli uomini non esclude
gradazioni. Gradazioni, però, che non escludono la capacità d’amare tutti e di darsi a tutti. L’amore filiale,
coniugale, d’amicizia sono manifestazioni d’amore possibili. L’amore, inteso cristianamente, non distrugge,
però, i cerchi concentrici, li conserva, li esalta, li apre. Infine la libertà per amare il mondo. Occorre evitare
l’egoismo che farebbe concepire le cose unicamente a nostro servizio. Gli uomini e il mondo vanno amati
come Dio li ama. Questo è il modo d’amare del cristiano. Dunque ama e fa quello che vuoi. Questa è la
7 Rm 8, 37. 8 1Gv 4,7-8. 9 Mt 10,37. 10 1Gv 4,20.
4
libertà! Questa è un‘espressione, di San Agostino, che potrebbe sembrare pericolosa. Ovviamente è da
intendere secondo lo Spirito, come espressione profonda del risultato ultimo a cui porta un’autentica
risposta alla vocazione cui Dio sollecita. Allora si può fare quello che si vuole.
La virtù della prudenza:
La virtù della prudenza cristiana è una virtù senza la quale nessuna virtù è virtù. La prudenza è virtù
madre di tutte le virtù. Quindi è molto importante che la conoscano coloro che sono chiamati a essere
costruttori della “città dell’uomo”. Ossia, coloro per i quali l’azione è certo un momento fondamentale della
loro vita, anche se sostanziata dalla contemplazione. La caratteristica del laico impegnato nella costruzione
della città è l’azione. Ebbene la prudenza è la virtù che regola l’azione. Con questo non si vuole dire di
diventare pavidi, o scaltri ma s’intende divenire prudenti nel senso autentico di questa virtù. Il punto di
partenza è la seguente domanda: che vuol dire vivere? La risposta che diamo, nell’ottica cristiana, è dire si
all’amore con cui siamo amati da Dio. Dunque vivere è rispondere a questo amore, è dire si a Dio. Questa
risposta positiva all’amore di Dio è un atto d’intelligenza ed un atto di volontà. Questo atto, è un atto
“sapienziale”, Sàpere vuol dire gustare, si tratta di gustare l’amore di Dio. Il sapiente, nel senso biblico, è
colui che è reso capace di agire rispondendo sempre a Dio con risposte d’amore. queste capacità abituali
sono le virtù. Si tratta di una capacità acquisita e sviluppata con l’impegno continuo. Alla virtù acquisita si
affianca la virtù infusa. Sono tali le virtù teologali: la fede, la speranza, la carità. Il sapiente è colui che è reso
abile ad agire per amore di Dio dalle virtù, infuse e acquisite, che lo portano a chiarezza e fermezza di
disponibilità, alla facilità e alla prontezza dell’azione. Ma come si può definire la prudenza? Isidoro la
definisce come “La retta ragione delle cose che sono da fare”. Si può dire che la prudenza è la virtù che
rende capaci di dar ragione delle azioni da compiere, valide per condurre al fine proprio. Ogni volta che si
agisce, però, si deve raggiungere un fine immediato, che è il fine proprio dell’azione che si sta compiendo.
Quest’azione non costituisce che un momento del tendere al fine ultimo. La prudenza, allora, è la virtù che
rende capaci di dar ragione del modo con cui si deve operare in ogni azione, perché ogni azione raggiunga il
suo fine. Ogni azione è una scelta. Se si vuol vivere da uomini, e da cristiani, bisogna che ogni azione che si
compie sia guidata dalla ragione e dalla fede.
Il nome di prudenza viene a questa virtù dal suo primo momento costitutivo che è il vedere a
distanza, il praevidere. Il prudente è colui che sa vedere da lontano. Il prudente, insomma, è uno che sa
vedere subito qual è il fine da raggiungere, così da non sbagliarsi circa il fine e circa i mezzi da usare per
raggiungerlo. Viene da qui il capire che la prudenza è virtù essenzialmente dell’intelligenza. Quando
l’intelligenza mi ha fatto vedere il bene, ma la mia volontà ha detto no, io invece che prudente sono stato
imprudente. Molto spesso si finisce per essere imprudenti perché non abituati alla riflessione, a quel bel
pensare per ben agire che è la caratteristica specifica del prudente. La prudenza non può fare a meno
nemmeno del retto pensare. San Tommaso d’Aquino nella sua Somma teologica scrive: «È necessario che il
prudente conosca il retto pensare, i principi fondamentali della ragione, come pure circostanze particolari
circa le quali si applica l’agire morale». Per essere prudenti, quindi, bisogna avere un’idea chiara dei principi
fondamentali generali del retto ragionare, attraverso i quali veder bene il fine ultimo da raggiungere.
Occorre poi avere la capacità di conoscere le circostanze particolari circa le quali si attua l’agire morale.
Andare a caso sarebbe un fatale muoversi sotto la spinta dell’istinto, non della ragione. Il prudente non può
fare a meno delle due luci della ragione e della fede. La virtù della prudenza non abita dove non c’è vita di
grazia.
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Il primo punto da considerare per arrivare a un buon giudizio è che l’intelligenza ha anzitutto
bisogno della memoria. La memoria, infatti, fa presenti i principi generali ai quali ci si deve riferire per le
decisioni che riguardano un determinato problema. I principi generali si deducono dal fine ultimo, che non
deve mai essere dimenticato. Nel momento in cui ci si dimentica del fine ultimo ci si mette già nella
condizione di non prendere una decisione prudente. Occorre anche considerare che ciascuno ha delle
esperienze personali, o può tener conto di esperienze di altri. Attraverso la memoria bisogna tenere conto
anche delle esperienze. Il secondo punto di questo cammino è l’esercizio della riflessione. La memoria e
l’esperienza ci hanno fornito una serie di dati che adesso devono dare vita alla riflessione. Ovvero, occorre
controllare il rapporto tra i dati disponibili e le decisione da fare. A questo secondo momento ne succede un
terzo, molto importante che conduce ad una decisione prudente. È quello di chiedere un consiglio,
rivolgendosi a persone che hanno già sperimentato il fatto di dover prendere decisioni. Il consiglio deve
essere chiesto con senso di disponibilità e di docilità a persone che possono portare consigli sereni e
oggettivi. Tra le persone a cui ci si può rivolgere, si dovrebbe collocare il direttore spirituale. È grazie al
dovuto discernimento che è possibile eliminare quella nebbia che è rappresentata dai nostri giudizi più o
meno affrettati, dalla nostra istintività, dal nostro orgoglio. Il momento successivo per una decisione
prudente è il ragionare per dare vita ad una prospettiva in cui inserire la decisione da prendere. Tutto
questo cammino sembrerebbe richiedere tempi lunghi, non è così. Il prudente non deve aspettare a decidere
quando il problema è passato, ma deve agire con prontezza. Il prudente non deve ritardare la sua decisione.
Il ritardo può avvenire o per temperamento timido o per eccessivo presenza di scrupoli. Di fronte a questi
due pericoli balza ancor più in evidenza l’importanza della docilità del consiglio. La prudenza non è la
conclusione d’un procedimento fatto per scoprire una verità. È, invece, il risultato d’un procedimento fatto
per capire, nel concreto del momento attuale, come comportarsi di fronte a un dato problema. La certezza
di carattere metafisico non è possibile nel concreto storico. Bisogna, dunque, accontentarsi della certezza
morale. Così la timidezza e lo scrupolo possono essere vinti. Occorre stare attenti all’esistenza di un altro
grosso pericolo: è l’errore opposto, la temerarietà. La temerarietà è l’atteggiamento che giudica e decide
senza sufficiente fondamento, per superficialità o per interesse. Nella nebbia suscitata dall’istintività, il
temerario non si ferma tanto a riflettere.
Per arrivare alla decisione, però, ci vuole la volontà. Qui intervengono ora alcuni fattori che
determinano la volontà in un senso o in un altro. Un primo fattore è la previdenza. La previdenza valuta le
conseguenze dell’azione o della rinuncia all’azione. La previdenza è quel momento della virtù della prudenza
in cui non si può prendere una decisione senza considerare ciò che succederà dopo. E, anche, senza
considerare ciò che succederà se non di decide. Ora, il non considerare, il procedere subito senza prevedere,
è frutto d’istintività e il procedere per istintività è proprio dell’animale non dell’uomo. L’uomo, a differenza
dell’animale, guarda, esamina, decide se è o non il caso di agire. Accanto alla previdenza, opera un secondo
fattore: la circospezione. Circum-spicere vuol dire guardarsi attorno, ossia tener conto di tutte le circostanze
moralmente importanti in cui si esercita una determinata azione. Ora l’esigenza dell’analisi ha condotto a
esaminare i vari momenti del cammino della decisione prudente come uno successivo all’altro. In verità, si
tratta di realtà complementari e, attraverso di essi, si giunge a pronunciare la delibera secondo prudenza.
Se voglio essere prudente, però, dovrò prevedere anche le difficoltà, senza farmi illusioni, perché ogni strada
ha le sue ed è bene prevederle, non rinunciando a priori a proseguire, ma valutando tutti i mezzi a
disposizione per poterle superare.
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Sul tema della virtù cristiana della prudenza, si cercherà ora di cogliere il fatto che in essa si
congiungono insieme natura e grazia. Si congiungono, cioè, le facoltà naturali e il dono di vita che si pone
sotto il nome di grazia, perché dono e facoltà a esso legati sono dati gratuitamente. In questa riflessione si
pone subito un primo interrogativo: la virtù della prudenza è in noi per natura? Ossia è in noi per il fatto
d’essere uomini? Si deve tener presente che la prudenza non è una virtù che tende a realizzare
immediatamente il fine ultimo della vita. Anche chi dovesse sbagliare nella determinazione del fine ultimo,
quello che fa lo fa per inclinazione naturale al fine ultimo. È anche vero che la virtù della prudenza non è una
virtù innata. È, invece, una virtù che si acquista e che è frutto di uno sviluppo delle facoltà umane che sono
necessarie per arrivare a pronunciare la decisione, che è il risultato della virtù della prudenza. Quindi le due
facoltà umane della ragione e della volontà vanno sviluppate in sinergia se si vuole agire con prudenza. Non
ci si può fermare alla prudenza naturale. La virtù sulla quale s’intende riflettere, infatti, è la virtù cristiana
della prudenza. Nel battesimo viene dato il dono della partecipazione alla vita divina e con questo dono
vengono comunicate le facoltà proprie di tale vita: fede, speranza, carità. Pertanto, nel battezzato c’è in
potenza anche la virtù della prudenza. Perciò all’interrogativo: la prudenza è in noi per natura? Si deve
rispondere: no. La prudenza è una virtù che si acquista, richiede tempo perché esige lo sviluppo della
ragione e della volontà nell’ordine sovrannaturale. Si presenta ora un secondo interrogativo: può esserci
prudenza in chi vive in peccato? La risposta esige delle distinzioni. San Tommaso d’Aquino risponde così: se
si parla di prudenza della carne, questa ci può essere anche in chi è in peccato. C’è, poi, un secondo tipo di
prudenza che è vero, anche se imperfetto. Questo tipo di prudenza può essere presente sia in coloro che
vivono in grazia di Dio, sia in coloro che vivono in peccato. La terza specie di prudenza è quella perfetta. Si
tratta della virtù della prudenza in cui si ha la pienezza di rapporto tra ciò che costituisce l’uomo nella sua
realtà naturale e nelle sue facoltà naturali e ciò che costituisce il cristiano nello specifico del suo essere tale.
In questo esercizio della prudenza cristiana si fa unità tra natura e grazia. Dice San Tommaso che la terza
prudenza è quella che sa arrivare al bene finale di tutta la vita. Questa è la prudenza che i cristiani devono
realizzare. Non è una cosa semplice. Attraverso la luce della fede si avrà presente continuamente il fine
ultimo della vita, che non è godere, far soldi, ma è arrivare a Dio. Si pone ora un terzo interrogativo: la
prudenza cristiana si dà quando si è in stato di grazia? A questo interrogativo la risposta è: si, in quanto si è
in grazia. Se non si ha la grazia, non si riesce ad agire secondo la prudenza cristiana. Per esempio un
sindaco, per essere un buon sindaco, deve conoscere come è strutturato il comune, la dimensione dei
problemi, deve saper valutare le priorità nell’affrontare i problemi stessi. È tutta una serie di giudizi che la
grazia aiuterà a dare, ma che da sola, non dà senza la conoscenza dei problemi da affrontare. Questo è un
punto molto importante e bisogna che nei cristiani ci sia tale convinzione. Per avere decisioni che siano
veramente di prudenza cristiana occorre che agiscano insieme, in sinergia le forze della natura e quelle della
grazia. Allora si fa bene il sindaco, il deputato, lo studente, il lavoratore; allora si fanno bene tutte le scelte
personali.
Dopo queste riflessioni risulta evidente che vi sono tre principali condizionamenti della prudenza
cristiana, che sono anzitutto delle facoltà naturali: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza va sviluppata con
l’esercizio della ragione. Occorre poi sviluppare la volontà, perché illuminata dalla ragione, veda chiaro cosa
deve fare e, sviluppata con l’esercizio, sappia prendere le decisioni e portarle a compimento. Un secondo
condizionamento della prudenza cristiana è quello delle passioni dominanti che impediscono le facoltà
naturali di agire secondo ciò che sono. Occorre rinnegare le passioni, così come comanda Cristo, per avere
come fine quello di permettere la sinergia di natura e grazia che non c’è se dominano le passioni. Infine, la
prudenza cristiana è condizionata dalla crescita di grazia. Se si ha chiaro questo, allora si capisce che se si
7
vuol essere prudenti si deve pregare. Da un punto di vista sovrannaturale, la prudenza è sostenuta dal dono
del consiglio, uno dei sette doni dello Spirito Santo, a consigliare quindi è lo Spirito stesso. La vita cristiana in
definitiva è questo continuo dipanarsi di vivere insieme con Dio e di Dio che vive insieme a noi.
L’ultima di queste riflessioni sulla prudenza è dedicata alla discrezione di momenti particolari in cui
agisce questa virtù e per i quali si può dire che si distinguono tre specie di prudenza: la prudenza che ha per
fine il bene del singolo; la prudenza che ha per fine il bene della famiglia; la prudenza che ha per fine il bene
della comunità, della città. Come laici, la politica è il primo compito. Quando si tratta della prudenza del
singolo, bisogna che a illuminare sempre ogni scelta sia la conoscenza di qual è il fine dell’uomo. Il fine
dell’uomo è quello di conoscere, amare e servire Dio, evidentemente la prudenza scatterà nel far decidere
sempre verso questo fine. Lo stesso vale per la prudenza familiare. Se si perde di vista il fine ultimo della
famiglia, non si riuscirà a formare e a far vivere una famiglia che sia cristiana. Il fine, poi, della convivenza
fra gli uomini è il bene comune, questa espressione ha elementi fissi, ma anche mutevoli. Il concetto di bene
comune va continuamente aggiornato, non in modo contradditorio. La prudenza, però, non consiste nel
contemplare il fine, ma nel trovare e porre in atto i mezzi per raggiungere il fine che si è individuato. Il fine,
almeno in alcuni elementi fondamentali, è ciò che muta i mezzi, che non possono mutare. Il concetto
importante da cogliere è questo: c’è un fine che non muta, ma i mezzi per raggiungerlo possono mutare.
Questa mutabilità dipende dalla diversità delle situazioni, oggettive e soggettive.
Tutto questo noi possiamo applicarlo alla prudenza politica. Nel caso di questa prudenza, il fine è il
bene comune. Con questa espressione s’intende la situazione in cui ciascuno, partendo da un punto iniziale
di uguaglianza, può raggiungere il massimo del suo bene personale. Si tratta di creare una situazione in cui,
da un punto di partenza di uguaglianza per tutti quanto a possibili scelte, si permette a ciascuno di
raggiungere il massimo bene a cui lui può arrivare. Ciò senza pretendere un’uguaglianza d’arrivo, ma
accettando la disuguaglianza, che Dio stesso permette facendoci diversi l’un l’altro. Questo deve essere
pensato e dal politico con responsabilità sulla pòlis e dal cittadino mentre provvede alle scelte personali e
familiari.
La prudenza, si è detto all’inizio, è la virtù senza la quale nessun’altra virtù è virtù, neppure la
carità. Ora in conclusione possiamo invertire l’ordine: l’amore fa capire che senza la prudenza non si riesce
ad amare veramente. Ecco la potenza della carità, virtù detta principe.
Dio è amore:
Una vita. Tutto parte dall’amore che l’ha pensata, voluta, amata, e tutto torna all’amore e sussiste
in forza di esso. Si tratta, in pratica, di cogliere, nella sua profondità, il progetto di Dio sull’uomo. Un quesito
importante è: chi è Dio? È importante oltre che audace cercare di rispondere a questa domanda, occorre
lasciarsi guidare non dalle sole forze della ragione, ma della ragione illuminata dalla fede. Quella fede che è
capacità di conoscere come conosce Dio. Serve, dunque, lasciarsi guidare da Lui in queste riflessioni per
cercare di penetrare in questo mistero, cui si rifà la vita che viviamo come a ragione suprema. Giovanni,
grazie allo spirito, è stato reso capace di definire Dio. Nella sua prima lettera, infatti, per due volte esce in
un’espressione che, possiamo dire, offre una certa definizione di Dio: «Chi non ama non ha conosciuto Dio,
perché Dio è amore»11. Adesso dobbiamo fermare la nostra attenzione per cogliere il significato più
profondo di tale definizione, per conoscere Dio e l’uomo. Infatti, non c’è via migliore per conoscere l’uomo di
11 1Gv 4,8.
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quella di vederlo nella luce di Dio. Dio è amore: questa rivelazione di Dio è propria del Nuovo Testamento.
L’Antico Testamento conosce un’altra definizione di Dio. Se definire significa designare il confine di una
certa realtà, l’espressione appare decisamente inesatta quando si parla di Dio che è infinito, ma il
linguaggio umano ha i suoi limiti. Nell’Antico Testamento Dio ha dato una definizione di sé nel momento in
cui affidava la sua missione a Mosè: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio d’Abramo, il Dio d’Isacco, il Dio di
Giacobbe». Dio si è chiamato Io-Sono, ossia l’essere, colui che è. Ed egli è tale perché non ha da altri la
ragione del suo essere, ma ha in se stesso tale ragione. Egli è l’essere. Seguendo la rivelazione del Nuovo
Testamento, nel mistero dell’espressione Io-Sono, cogliamo che questo nome dice che Dio “è”, ossia che Dio
è atto puro di essere. Dio, infatti, non dice: io esisto. Dice: Io-Sono: ho in me la ragione del mio esistere. Per
me, l’essere è il mio esistere, senza combinazione di essere e di esistere. In Dio non c’è differenza tra essere
e esistere. Dicendo così Dio si manifesta come atto puro di essere. Ora, questo atto puro di essere si
conosce. Tanto che parla di sé e dice il suo nome. Si conosce, ma non nel senso che ha conoscenza di se
stesso. Si conosce nel senso che egli è conoscenza di sé. Dio non acquisisce conoscenza di nulla; Dio è
conoscenza. Dio, atto puro di essere, è atto puro di conoscere. E questo sussistere di fronte a lui come sua
immagine è un sussistere nel mistero del suo essere. Riflettendo su questo mistero la teologia è la scienza
che elabora tramite la ragione e la luce della fede la rivelazione. Il Nuovo Testamento c’insegna a chiamare
Padre il generante e Figlio il generato, questa è la nostra fede. Il conoscersi ha come conseguenza che tra il
generante e il generato, tra il Padre e il Figlio, spira un rapporto nel quale si conclude il circuito di questa
vita misteriosa che è quella trinitaria: è l’atto puro di amore con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il
Padre. È quello che chiamiamo Spirito Santo, perché spira dal generante Padre al generato Figlio e
viceversa. Lo Spirito, dunque, è atto puro d’amore, termine ultimo e, quindi, senso ultimo dell’atto puro
d’essere e dell’atto puro di conoscere, in cui si conclude il circuito della vita trinitaria. È per questo che
Giovanni può osare di dire: Dio è amore. Se possiamo esprimerci così: Dio non è essere per essere, conoscere
per conoscere. È essere per conoscere e amare. Questo vuol dire che là dove si deve parlare d’amore c’è uno
che ama, c’è uno che è amato e, tra i due, c’è, come nesso di congiunzione l’amore. È qui che ha preso luce il
concetto di persona. Questo concetto esprime relazione. Nella Trinità tale termine è esaltato nel modo più
alto e più pieno, perché è relazione che sussiste per se stessa. È relazione vivente. Mistero, certo, di esso
cogliamo la profondità nella luce della fede che ci è data attraverso la parola di Cristo. La manifestazione
più alta del mistero trinitario, infatti, è proprio l’incarnazione del Verbo. Oltretutto, è attraverso il Verbo
incarnato che noi riusciamo a vedere, alla luce della fede. Gesù dice ai suoi discepoli: «Non sia turbato il
vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Io
vado a preparavi un posto. Ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io». Il Figlio,
incarnato e fatto uomo visibile, manifesta questo profondo mistero: egli è nel Padre e il Padre è in lui. Si
tratta di un’espressione altissima d’amore autentico: non faccio quello che mi piace; faccio quello che gli
piace, perché sono uno con lui. Dopo questo tentativo di comprendere il mistero di Dio, è necessario
raccogliersi e domandare l’aiuto del Signore, perché si faccia presente in noi col suo Spirito. È così è possibile
avere una maggiore illuminazione di questo mistero e che esso si riveli in noi e noi lo si accetti, fino a poter
gustare la gioia di credere che Dio è amore. Dunque, solo la fede può dare risposta all’interrogativo. Se non
c’è fede, non c’è neppure risposta.
Cerchiamo ora di riflettere sull’uomo e sul suo valore. Lo sforzo dell’uomo per conoscere se stesso è
arrivato nell’antichità ad una definizione data da Aristotele: l’uomo, animale ragionevole. Dire che l’uomo è
animale ragionevole, significa superare, con un vero e proprio salto di qualità, la conoscenza dell’uomo
come pura animalità, pur riconoscendo che questa è una delle sue componenti. Non è la componente
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animale quella che esprime l’uomo e lo differenzia dall’animale e lo costituisce nel suo valore, ma è la
razionalità. Sugli altri esseri, infatti, l’uomo riesce ad esercitare la sua capacità di dominio proprio in forza
dell’elemento spirituale: la razionalità. Ad esso segue, naturalmente, la volontà, che fa superare all’uomo la
pura animalità permeandola di spiritualità. L’animalità si muove in vista dei fini che deve raggiungere. Fini
che conosce in sé come avviene nell’animale per l’istinto, ma che conosce attraverso la ragione e che
raggiunge attraverso la volontà che ubbidisce alla ragione. La rivelazione non diminuisce affatto il valore
della conoscenza, ma lo consolida, l’approfondisce, la perfezione, portando la definizione dell’uomo da
quella aristotelica di animale ragionevole a quella cristiana di persona. Il concetto di persona è espresso in
una definizione, di cui va colto il valore, che dice di essere “sostanza individuale di natura razionale”. In
questa definizione è sparito il termine animale. La sapienza medievale ha derivato il concetto di persona
dalla riflessione su Dio, veduto come persona, ossia come “relazione con”. Questo passaggio dall’individuo,
realtà chiusa, alla persona, realtà aperta, che sottolinea l’aspetto relazionale della persona stessa, porta
una luce nuova nella visione dell’uomo e gli dà un valore nuovo, perché quest’apertura relazionale lo apre
all’infinito. Ecco l’uomo in relazione con Dio. Ecco l’uomo in relazione con le realtà del mondo. L’uomo, così,
cresce e, se vuole, può aumentare la misura del proprio valore umano. La relazione con Dio, con gli uomini e
con le cose è elemento qualificante dell’uomo che arricchisce la sua conoscenza stessa. Ora, questa nuova
luce non diminuisce affatto le conquiste della ragione. Anzi, esse acquistano pienezza di valore. La risposta
di Dio all’interrogativo: chi è l’uomo? È contenuta nella prima pagina della Bibbia, nel racconto della
creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza»12. Ebbene anche l’uomo è. Egli però
non ha in sé la ragione del suo essere. Tale ragione la domanda a colui che è, all’atto puro di essere, ossia
Dio. L’uomo è in quanto immagine di Dio. Ma egli è solo perché Dio l’ha pensato e voluto, mentre Dio è
perché non può non essere. Questo pone una differenza infinita tra l’uomo e Dio. L’espressione «Facciamo
l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» non ha solo questo significato, ma significa anche che,
nell’uomo, l’essere il conoscere, il volere sono capacità che vengono elevate per la partecipazione alla vita
divina, alla capacità di essere in rapporto con Dio. Un rapporto che non è più da creatura a creatore, ma che
porta la creatura a conoscere, a volere, ad amare come Dio conosce, vuole, ama. All’uomo è anche data
quella che i teologi chiamano capacità “obbedienziale”. Ossia la capacità che l’uomo ha, in quanto persona,
di lasciarsi fare come Dio lo pensa, lo vuole, lo ama. L’animale non ha questa capacità, perché non è dotato
di spirito e, dove non c’è spirito, non c’è la capacità di partecipare alla vita divina. L’animale, infatti, non è
persona. In Dio queste capacità relazionali si rivelano nel circuito della vita trinitaria e si manifestano anche
nell’atto creativo. L’uomo, essendo persona, è capace di mettersi in relazione con Dio, con gli uomini, con il
mondo, come Dio è in relazione con sé, con gli uomini, con il mondo. L’uomo comincia a conoscersi come
realtà corporea. Egli pertanto si serve delle facoltà del suo corpo per mettersi in relazione con gli altri
uomini. È il corpo che pone l’uomo in relazione con gli altri uomini. È il corpo che si fa nutrimento delle
relazioni interpersonali più alte, quelle tra lo sposo e la sposa. La realtà corporea nell’uomo è resa
strumento dello spirito e delle sue facoltà, intelligenza e volontà. Se Dio è amore, fare l’uomo a sua
immagine e a sua somiglianza significa: facciamo l’uomo che sa amare come Dio. Così la misura dell’uomo
consiste nella sua capacità d’amare. È questo il progetto che Dio ha voluto prima ancora che l’uomo
peccasse. E Dio ha voluto, sin dall’inizio, che questo progetto si realizzasse in Cristo. Quest’uomo infatti in
Cristo diventa Figlio di Dio, ossia partecipe dell’essere di Dio e, imitando Cristo, è fatto capace di conoscere
come conosce Dio. L’amore forma perfetta dell’uomo è l’amore inteso come carità, virtù teologale, che è la
12 Gn 1,26.
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capacità di amare come Dio ama. La misura perfetta dell’amore dell’uomo è così come Cristo ce l’ha
rivelato.
Nell’uomo, l’amore naturale è orientato a quello soprannaturale, ossia all’amore inteso come carità,
come capacità d’amare come ama Dio. Se la vita di Dio è amore, è naturale che la sua vita partecipata sia
amore. Anzitutto, però, è necessario un approfondimento del significato della parola amore che è tanto
adoperata e, spesso, è utilizzata proprio là dove l’amore, inteso nel suo senso vero, muore. Amore è
essenzialmente oblatività, ossia capacità di darsi e, più ancora, di donarsi alla persona amata. Donarsi non
per il proprio piacere o per la propria gioia, ma per la gioia della persona amata. Perché questa persona
possa realizzarsi, possa crescere. Dove non c’è questo, non si dovrebbe parlare di amore. In Dio, infatti,
l’amore è il donarsi. Così possiamo dire che l’essenza dell’amore è donare, donarsi alla persona amata. La
forma più alta e più piena di tale amore è quella nuziale, che ha due forme: quella coniugale e quella
verginale. L’amore coniugale affonda le proprie radici nel progetto di Dio creatore. Chi non sa amare è nella
solitudine, così com’è nella solitudine chi non si sente amato. L’amore coniugale è un modo con cui si rivela
l’amore di Dio e in cui Dio stesso comunica la sua vita all’uomo. Questo è il senso dell’amore tra un uomo e
una donna: l’amore coniugale. Qui la donazione fa i due uno nell’amore e li fa fecondi. Essi diventano con –
creatori, perché la vita che sboccia è frutto della donazione dell’uomo alla donna e viceversa, ma ciò avviene
con la partecipazione diretta dell’amore di Dio, che infonde nel corpo che nasce dai due lo spirito da lui
creato direttamente. Secondo il disegno di Dio, la gioia sensibile del rapporto coniugale non turba la gioia
dello spirito, anzi ne è strumento, espressione, ed è tale perché l’uomo e la donna sono fatti a immagine e
somiglianza di Dio ossia partecipi della vita divina. Adamo ed Eva, usciti dalle mani creatrici di Dio o, meglio,
dal suo amore creatore, godono di una profonda armonia tra le due componenti del loro essere umano, la
corporea e la spirituale, per il dono della grazia. La disobbedienza ha fatto perdere all’uomo l’immagine di
Dio: «Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne
fecero cinture».13 Attraverso questo linguaggio letterario, il racconto dice che, mentre prima c’era armonia,
dopo la disobbedienza a Dio, tale armonia si rompe. Con la rottura dell’armonia tra Dio e l’uomo, tra il
corpo e lo spirito, s’insinua la possibilità che l’amore, invece di essere donazione, sia rapina sia egoismo.
Così il piacere trasforma la donazione in rapina. Tutto va in rovina. Il rapporto fra fratelli, diventa fratricidio:
Caino uccide Abele. La conclusione verso cui ci conduce il testo sacro è che l’amore, secondo il progetto
originario di Dio, ha una stupenda grandezza, una luce meravigliosa. Fuori di questo progetto, l’amore
diventa rapina dell’altro.
La redenzione restaura il progetto di Dio in Cristo. Gli uomini acquisiscono in Cristo il potere di
diventare figli di Dio, perché ricevono la vita dal Padre. Sono fatti nuovamente a immagine e somiglianza di
Dio. Ciò diviene possibile all’uomo che crede in Cristo e che, così, recupera la vita di grazia per vivere la
propria fede e non accontentarsi di dire credo, ma faccia diventare vita la sua fede. La partecipazione alla
vita divina dà la capacità di realizzare il progetto di Dio quanto all’amore e all’amore coniugale. Ciò si
realizza, però, come conquista quotidiana, sorretta dalla grazia. Tutto questo esige il controllo
dell’istintività, perché all’uomo non è restituito il dono dell’integrità originale, che costituiva l’armonia tra
corpo e spirito. Dio vuole che la prova dell’obbedienza venga data giorno per giorno. Il cristiano, pertanto,
dovrebbe avere sempre l’occhio critico, per via dell’illuminazione della fede, per capire esattamente ciò che
succede e sapere quali sono i veri rimedi che possano trasformare l’umanità. Allora tutto è fatto per amore
di carità. Questo è l’amore coniugale per il cristiano che voglia viverlo in quanto tale. Nel momento in cui
13 Gn 3,7.
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Cristo restituisce l’amore coniugale al suo disegno originario, nello stesso tempo Lui si pone come forma
nuova di amore nuziale. Ma attenzione, nel momento in cui il progetto di Dio è ristabilito in Cristo, Gesù
rivela la possibilità che ci sia qualcuno che non si sposi. Cristo non si sposato. Egli non l’ha fatto perché il suo
amore va dritto al Padre. Cristo esprime la rinuncia a sposarsi con un’immagine che può fare un po’ di
impressione: «Vi sono eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati
resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire,
capisca».14Il Maestro afferma che tale scelta non può essere capita da tutti. Si tratta dunque di una
vocazione non di una scelta personale. L’amore nuziale verginale è precisamente imitazione di Cristo. Se
Cristo non fosse venuto, questa forma di amore nuziale non sarebbe nota, come non è nota nell’Antico
Testamento. Bisogna aggiungere che quest’amore nuziale verginale apre sì a una capacità di donazione
senza pari, ma, se vissuto secondo le sue esigenze, apre a uno sviluppo della persona che non ha eguali. Si
tratta di una vocazione piena di responsabilità che esige d’essere vissuta in pienezza. Queste due forme
dell’amore nuziale, la coniugale e la verginale, sono fatte per integrarsi nel reciproco aiuto.
Una società a misura d’uomo ha bisogno del contributo dei cristiani, non però come realtà che
interessi solo la comunità credente. L’autonomia e la distinzione tra ambito ecclesiale e ambito politico va di
certo rispettata, evitando l’errore di alcuni che vorrebbero la società realizzata sotto il titolo cristiano.
Questo è un atteggiamento da nostalgici d’una certa cristianità: un errore. Ossia, un portare oltre i limiti
l’esigenza e la possibilità di ciò che s’intende come cristiano. Ecco perché si deve parlare di una società a
misura d’uomo senza che questa società possa dirsi cristiana nel senso pieno della parola. Anche se i
cristiani sono chiamati a dare un contributo importante a questa società. Parlare di una società a misura
d’uomo nel senso civile-politico significa anzitutto riconoscere nella persona il punto di partenza e il punto
d’arrivo del proprio essere e del proprio operare. La società politica ha solo il dovere, se vuol essere a misura
d’uomo, di riconoscere e garantire la libertà religiosa, ma non deve andare oltre. Poi interviene la Chiesa a
curare la dimensione divina dell’uomo. La società civile-politica non ha i mezzi per farlo. Le due società
devono restare distinte e autonome.
Oggi molti parlano dell’uomo come persona. Non tutti, però, hanno coscienza del fatto che il
concetto di persona, nella sua caratteristica ultima della relazionalità, si è chiarita attraverso la riflessione
teologica su Dio. Dall’approfondimento della conoscenza di Dio è venuta la pienezza di conoscenza della
persona in quanto “essere in relazione con”. In relazione verticale con Dio, in relazione verticale con ciò che
è sotto all’uomo e in relazione orizzontale con tutti gli uomini. La società a misura d’uomo, quindi, ha come
fine quello di garantire il diritto della persona a soddisfare le esigenze proprie di ciascuna delle sue
componenti: la corporea, la spirituale, la divina. Questi diritti la società è tenuta a riconoscerli. La persona,
invece, li ha in sé. In conseguenza a quanto detto occorre operare in vista del fine che può essere espresso
con due parole: bene comune. Ossia la possibile massima soddisfazione delle proprie esigenze, considerate
in rapporto allo sviluppo di tutte le persone membri della società, e non dando a ciascuno un pezzetto di
qualcosa. La società a misura d’uomo è quella che si organizza con strutture e procedure tali da permettere
e favorire l’assunzione, da parte del singolo cittadino, delle proprie responsabilità in rapporto al bene
comune. La persona è sempre un prius. È ciò che viene prima della società e tocca alle persone definire
strutture e procedure. Le società totalitarie, infatti, non sono società a misura d’uomo. Hanno una
concezione dell’uomo come di una realtà di cui la società dispone mentre è vero il contrario. La famiglia, le
religioni, le formazioni sociali, la società sono tutte realtà a misura d’uomo se garantiscono e favoriscono la
14 Mt 19,22.
12
persona. Non è, dunque, a misura d’uomo la società che non riconosce, anche solo di fatto, la pari dignità
sociale e la libertà di tutti i cittadini. Il nemico di una società a misura d’uomo è l’egoismo. L’egoismo può
essere può essere quello di una persona o di un gruppo, può essere borghese o proletario, e affonda le radici
nelle tre istintività: possedere, godere, potere. Generalmente si giustifica il modo egoistico di procedere
dicendo che l’uomo è fatto così, che è portato per natura, a soddisfare le proprie istintività e che, quindi,
deve costituire la sua società a misura di queste stesse istintività. Allora se il vero nemico della società a
misura d’uomo è l’egoismo, al contrario, la condizione fondamentale perché esista una tale società è
l’amore. Amore almeno nel suo grado di effettiva solidarietà al quale l’uomo aspira. È la solidarietà che fa
amare il vicino e fa sentire che non si può, per affermare i diritti, annullare i diritti dell’altro, che vanno
sempre rispettati. Tutto ciò vien detto solidarietà, ma il suo vero nome è amore. È l’amore che genera
solidarietà.
Non sempre, per non dire raramente, la volontà riesce a realizzare quello che ha scoperto la
ragione. Cristo è venuto proprio per rimediare a questa debolezza dell’uomo. Per questo Cristo è il salvatore,
dà la capacità di superare questo limite, ciò significa amare i propri nemici, fare del bene a quelli che ci
fanno del male. Alla luce di tutto questo si capisce quale deve essere la presenza dei cristiani nella società:
come singoli e come comunità. questa presenza deve essere lievito che riesce a generare e a rigenerare gli
uomini. i cristiani devono rivelare la loro forza e la loro condotta di vita non per imporla, ma per offrirla.
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