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I CAPITOLO
GLI STANDARD SOCIALI NEL COMMERCIO
INTERNAZIONALE DEI PRODOTTI
AGROALIMENTARI
Nel corso degli anni ‘90 è cresciuta l’attenzione da parte dell’opinione
pubblica mondiale su alcuni degli effetti negativi del processo di liberalizzazione
degli scambi posto in essere dagli Accordi WTO. In particolare, la
“globalizzazione” dei mercati spinge sempre più le imprese multinazionali (i
principali attori dello scenario competitivo) a localizzare e/o appaltare le
produzioni, in paesi dove il lavoro e gli altri fattori locali, sono sfruttati in modo
iniquo, al fine di ridurre i costi di produzione e massimizzare i profitti. Tutto ciò
pregiudica le possibilità di uno sviluppo sostenibile, sia nei paesi del Sud del
mondo che in quelli del Nord.
L’obiettivo del presente capitolo è quello di presentare alcune riflessioni in
merito al problema dell’introduzione degli standard sociali nel commercio dei
prodotti agroalimentari, considerati come strumenti per promuovere uno sviluppo
sostenibile per i Paesi in via di sviluppo e non piuttosto come una nuova forma di
protezionismo, da parte dei Paesi occidentali.
5
1.1. L’internazionalizzazione dei mercati
La storia dell’uomo è anche una storia di commerci, i primi trattati
commerciali sembrano risalire addirittura ai tempi degli assiro-babilonese
(contemporaneamente dunque all’invenzione della scrittura). Tuttavia è soltanto
agli inizi del XIX secolo, con l’opera dell’economista inglese David Ricardo, che
le ragioni del libero commercio cominciano ad assumere una compiuta
sistemazione teorica1.
John Maynard Keynes, l’artefice della Banca Mondiale (BM) e del Fondo
Monetario Internazionale (FMI), aveva preparato prima della sua morte, avvenuta
nel 1946, il terreno per un’Organizzazione Internazionale del Commercio (ITO).
Gli statuti dell’ITO sono stati effettivamente negoziati e la Carta dell’Avana,
che li ha promulgati, è stata firmata da 56 paesi in occasione di una conferenza
internazionale tenutasi a Cuba nel 1947-48. Gli Stati Uniti hanno tuttavia
continuato a rifiutarsi di ratificarla (probabilmente perché questi statuti
prevedevano sostanziali garanzie per i lavoratori e incoraggiavano gli accordi tra
produttori di materie prime). In ogni caso, dell’impianto originario è
sopravvissuto solo il capitolo IV, che è il General Agreement on Tariffs and Trade
(GATT), un accordo che, dalla sua istituzione, ha funzionato da dispositivo per
ridurre progressivamente i diritti doganali sulle merci ed oggi anche sui servizi2.
1 Antonio Parenti, Il WTO, Cos’è e come funziona l’Organizzazione Mondiale del Commercio, Il Mulino, Bologna, 2002, pag. 10.2 Susan George, Fermiamo il WTO, Feltrinelli, Milano, 2002, pag. 17.
6
Negli ultimi cinquant’anni il GATT prima e il Word Trade Organization
(WTO)3 poi, si sono inseriti in un’ottica secondo la quale solo una politica
commerciale liberale è economicamente sensata e, in grado di portare benefici ai
paesi che la perseguono. I risultati di questa liberalizzazione su scala globale sono
stati impressionanti: dal secondo dopoguerra, il mondo ha aumentato la propria
ricchezza complessiva di circa sei volte e il volume delle esportazioni di merci di
quasi venti volte, con un incremento del commercio negli ultimi dieci anni
maggiore della crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL). Tali risultati lasciano
intendere che alla liberalizzazione degli scambi, su scala mondiale, corrisponda un
incremento del benessere collettivo. Tuttavia, è molto difficile scindere gli effetti
della liberalizzazione commerciale sulla crescita, dagli effetti di altre politiche
virtuose perseguite dai singoli Stati in altre sfere (come quella finanziaria, fiscale
e sociale) e che hanno consentito loro di beneficiare della globalizzazione dei
mercati.
Lasciando tali considerazioni, basate su dati aggregati, e passando a vedere
quali sono i paesi che hanno realmente beneficiato della liberalizzazione dei
commerci, troviamo un risultato più limitato e per certi versi allarmante. La figura
n. 1 riporta le quote di mercato mondiale delle merci detenute da singoli paesi o
gruppi di paesi. Da essa si deduce che i paesi sviluppati da soli rappresentano
circa il 50% del commercio mondiale (il risultato non cambia sostanzialmente se
alle merci aggiungiamo il commercio dei servizi).
3 L’Uruguay Round, avviato nel 1986, si è concluso nel 1994 con un Atto Finale, o Trattato di Marrakesh, che costituisce il documento della nascita ufficiale del WTO.
7
Figura n. 1 - Percentuale del commercio internazionale per paesi al 1998
(importazioni più esportazioni)
Fonte: Elaborazione da dati della Commissione Europea
La liberalizzazione ha dunque favorito i paesi sviluppati, il che non deve
sorprendere se si considera che la deregolamentazione commerciale del
dopoguerra è stata sostanzialmente operata dai paesi industrializzati a favore dei
propri prodotti manifatturieri.
Il favor per i prodotti manifatturieri dei paesi industrializzati è confermato
anche dai dati degli ultimi dieci anni: la stragrande maggioranza delle esportazioni
mondiali si sono concentrate su questi prodotti, con un declino nelle esportazioni
di quelli agricoli (cfr. n. 2).
8
Figura n. 2 - Variazione nelle esportazioni mondiali per categorie di prodotti
tra il 1990 e il 2000 (in percentuale)
Fonte: Elaborazione da dati WTO
La domanda, che potrebbe sorgere dalla lettura di questi dati è se i vantaggi
della liberalizzazione realizzati dai paesi sviluppati siano stati ottenuti a scapito
dei PVS4. Al fine di poter rispondere compiutamente bisogna sottolineare due
aspetti del processo di liberalizzazione stesso: il primo è rappresentato
dall’aumento della ricchezza globale del pianeta, per cui i paesi sviluppati
detengono una fetta di una torta che nel tempo si è ingrandita; il secondo, che non
deve indurre in generalizzazioni, è dato dal fatto che alcuni PVS sono riusciti ad
approfittare di questo processo e ad inserirsi nelle correnti commerciali
internazionali. Negli anni ’90 per la prima volta i paesi a medio reddito (71 Stati
con una popolazione di 2 miliardi 600 milioni di abitanti e un reddito pro capite
4 Antonio Parenti, op. cit., pag. 22
9
medio di 2.039 dollari) sono cresciuti di più di quelli ad alto reddito (33 paesi con
873 milioni di abitanti e un reddito pro capite di 27.464 dollari). Il tasso di
crescita medio annuo del PIL pro capite è stato del 2,3% per i “medi” e dell’1,6%
per gli “elevati”, mentre è rimasto all’1,2% per i paesi a basso reddito (58 Stati
con 2 miliardi 400 milioni di persone che vivono con 425 dollari pro capite
l’anno, meno di due dollari al giorno)5.
Nelle tre tabelle che seguono (n. 1, n. 2, e n. 3) si riportano, suddivise per aree
e per paesi, alcuni dati relativi al tasso di crescita medio annuo del prodotto
interno lordo reale pro capite.
Tabella n. 1 – Tasso di crescita medio annuo del prodotto interno lordo reale pro capite (per
aree)
1914-1950 1951-1973 1974-1990Paesi idustrializzati +1,3% +3,4% +2,1%Paesi in via di sviluppo +0,2% +2,6% +2,9%di cui: Africa +1,1% +2,3% +0,0% Asia +0,4% +2,2% +4,7%America Latina +1,3% +2,9% +1,1%Fonte: Enzo Grilli, “Long-term economic growt, income distribution and poverty in developing countries” (1994), in Le Botteghe dello scambio, Cesvi, 2001
5 UNDP, Human Development Report 2001, www.undp.org
10
Tabella n. 2 – Tasso di crescita medio annuo del prodotto interno lordo reale pro capite (per
paesi)
1965-1980 1980-1993Gran Bretagna +2,0% +2,3%Francia +3,7% +1,6%Stati Uniti +1,8% +1,7%Germania +3,0% +2,1%Giappone +5,1% +3,4%Corea del Sud +7,3% +8,2%Indonesia +5,2% +4,2%Cina +4,1% +8,2%India +1,5% +3,0%Argentina +1,7% +0,5%Brasile +6,3% +0,3%Fonte: UNDP, Rapporto sullo sviluppo umano 7: il ruolo della crescita economica, Rosenberg & Sellier, Torino, 1996, in Le Botteghe dello scambio, Cesvi, 2001
Tabella n. 3 – Tasso di crescita medio annuo del prodotto interno lordo reale pro capite (1990-
1994)
1990-1999Paesi dell’OCSE +2,5%di cui: Stati Uniti +2,0% Giappone +1,1% Germania +1,0% Italia +1,2%Europa dell’Est ed ex URSS -3,4%Paesi in via di sviluppo +3,2%di cui: Africa Sub-sahariana -0,4% Stati Arabi +0,7% Asia Orientale e Pacifico +5,9% Asia Meridionale +3,4% America Latina +1,7%Fonte: UNDP, Human Development Report 2001, www.undp.org, in Le Botteghe dello scambio, Cesvi, 2001
La risposta alla domanda precedente è dunque che la liberalizzazione (o
globalizzazione) dei mercati non è necessariamente avvenuta a spese dei PVS. Per
meglio comprendere questa risposta possiamo anche far riferimento ad alcuni
recenti studi della BM, che distinguono due fasi dell’internazionalizzazione dei
mercati negli ultimi cinquant’anni.
11
La prima fase, che dura fino alla fine degli anni Settanta, porta i suoi benefici
principalmente ai paesi occidentali, incluso il Giappone. In questa fase la marcata
riduzione delle tariffe doganali per i prodotti industriali è accompagnata da una
continua diminuzione dei costi di trasporto. Sono anche gli anni della creazione di
un mercato comune tra un numero crescente di paesi europei e dell’eliminazione
delle barriere doganali tra gli stessi. Sono anche gli anni dello shock petrolifero
che porterà ad una flessione del commercio internazionale, flessione però che il
mancato ricorso al protezionismo, reso difficile dalle regole dell’allora GATT,
permetterà di limitare nel tempo non arrestando la corsa dell’economia mondiale.
La seconda fase ha inizio nei primi anni Ottanta e, vede una crescente
penetrazione di alcuni PVS nei mercati internazionali. L’interpretazione
dominante, su questi primi successi, è che siano determinati dall’adesione al
modello neoliberista , appena temperato dal discorso sull’istruzione6. Crescono di
più, si dice, quei paesi in cui maggiore è stata la quota di investimenti in capitale
fisico (purché fatti dal settore privato, giacché quelli pubblici si rivelerebbero
poco efficienti) e in “capitale umano”(anche qui bisognerebbe evitare una
eccessiva spesa pubblica nell’istruzione, che è correlata in modo
“sorprendentemente” negativo con la crescita)7. Decisiva sarebbe poi una politica
non interventista del governo e cioè apertura dell’economia all’esterno (senza
6 I paesi che hanno attuato questa importante trasformazione sono soprattutto la Cina, l’India, il Vietnam, le cosiddette “tigri asiatiche” (Singapore, Taiwan, Hong Kong e Corea del Sud) e il Messico, ma altri paesi come la Turchia, la Malesia, l’Indonesia, il Marocco e la Thailandia hanno ottenuto risultati importanti.7 Francesco Daveri, Economia dei paesi in via di sviluppo, Il Mulino, Bologna, 1996.
12
imposte e dazi sul commercio o interventi sul tasso di cambio), liberalizzazione
dei movimenti di capitale e in generale contenimento della spesa pubblica.
In realtà nei paesi con maggiori tassi di crescita non c’è affatto un’adesione
totale al modello dominante e, anche se si punta sulle esportazioni, non mancano
tasse e controlli sulle importazioni.
E’ vero però che, soprattutto in Asia orientale, un motore importante della
crescita è stato l’investimento privato, in particolare nelle vesti di “sistema del
subappalto di tipo giapponese”. Si tratta di un sistema decentrato e flessibile ma
estremamente stratificato, in cui la società madre subappalta il lavoro a
subfornitori primari formalmente indipendenti, che a loro volta passano le
commesse a subappaltatori secondari e così via, a molteplici livelli, fino a che la
catena raggiunge il livello più basso costituito da una grande massa di aggregati
domestici che subappaltano operazioni semplici. Al fondo della catena c’è il
lavoro sfruttato di ragazze e bambini, ma anche nei livelli precedenti prevalgono
salari bassi e condizioni di lavoro pesanti8.
Nella figura n. 3 si riporta il tasso di crescita medio annuo del PIL pro capite
per alcuni paesi asiatici confrontandolo con quello di alcuni paesi considerati in
ritardo di sviluppo; nella tabella n. 4, invece, viene considerata la distribuzione del
numero di paesi in funzione delle disuguaglianze nel reddito.
8 Mani Tese (a cura di), Economie di carta, Editrice Monti, Saronno, 2001.
13
Figura n. 3 - Tasso di crescita medio annuo del PIL pro capite nel corso degli
anni’ 90
Fonte: Elaborazione da dati UNDP, Human Development report 2001*Questi paesi nelle statistiche ufficiali sono considerati a basso reddito.
Tabella n. 4 – Distribuzione del numero di Paesi in funzione delle disuguaglianze nel livello
del reddito
Paesi Sviluppati
Paesi in via di sviluppo
Paesi in transizione
Totale Quota della popolazione sul totale del campione (in
%)Disuguaglianza
crescente
12 15 21 48 59
Disuguaglianza
costante
2 14 0 16 36
Disuguaglianza
calante
2 5 2 9 5
Totale 16 34 23 73 100
Fonte: Altreconomia, aprile 2003, n. 38, pag. 23
14
1.2. Evoluzione della regolamentazione: dal GATT al
WTO
Non essendo il GATT un’organizzazione internazionale vera e propria dotata
di organi decisionali, le decisioni dovevano essere prese attraverso negoziati
diretti tra i suoi stessi membri. I più importanti di questi negoziati, dove nuove
regole e ulteriori riduzioni tariffarie venivano decise, presero ben presto il nome di
round.
Compresi i negoziati che portarono alla creazione del GATT nel 1947 e
incluso l’Uruguay Round che ha dato vita al WTO, ve ne sono stati otto nella
storia dell’organizzazione (prospetto n. 1) e a questi si è aggiunto il nuovo round,
il primo del WTO, lanciato a Doha (in Qatar) alla fine del 2001.
Prospetto n. 1 – I round del GATT/WTO
Data Denominazione del round Oggetto
1947 Ginevra Tariffe1949 Annecy Tariffe1951 Torquay Tariffe1956 Ginevra Tariffe
1960-1961 Dillon round Tariffe1964-1967 Kennedy round Tariffe e antidumping1973-1979 Tokyo round Tariffe e barriere non tariffarie1986-1994 Uruguay round Creazione del WTO, tariffe,
servizi, regole2002-2005 Doha development agenda tariffe, servizi, regole
Come evidenziato nel prospetto, i primi cinque round furono quasi
esclusivamente dedicati alle riduzioni tariffarie che, soprattutto nei paesi
15
sviluppati, procedettero ad un ritmo del 35% per ogni round per i prodotti
industriali. Col diminuire dell’impatto dei dazi doganali sulle esportazioni delle
merci, divenne ben presto evidente che altri tipi di ostacoli di carattere non
tariffario bensì regolamentare (Non Tariff Barriers, Ntb) potevano limitare in
misura prevalente gli scambi internazionali. Già a partire dagli anni Sessanta, con
il Kennedy Round, si cercò di regolare l’impatto delle Ntb anche se con risultati
modesti. E’ con il round successivo che le questioni regolamentari iniziarono ad
assumere un ruolo di primo piano rispetto alla tradizionale attenzione riservata
alle tariffe e appunto durante il Tokyo Round vennero adottati dei codici per la
disciplina delle barriere non tariffarie9. Non passò molto tempo tra la conclusione
del Tokyo Round e l’inizio delle discussioni sull’opportunità di lanciare un nuovo
round sia per ragioni di ordine economico, sia per i modesti risultati raggiunti dal
round stesso.
Da un punto di vista economico, gli anni settanta furono caratterizzati
dall’abbandono della convertibilità del dollaro (1971) e dai due shock petroliferi
(1973 e 1979); essi condussero l’economia internazionale in una situazione di
forte recessione, con un conseguente impatto negativo sul commercio
internazionale.
Il Tokyo Round, pur segnando il passaggio dai round solo tariffari a quelli
anche regolamentari, era rimasto quasi esclusivamente nell’alveo dei problemi del
9 I codici, nove in tutto, erano obbligatori soltanto per i firmatari degli stessi, principalmente i Paesi industrializzati.
16
commercio di beni industriali, con l’esclusione dei prodotti agricoli10 e del
commercio dei servizi11; inoltre, la conclusione di accordi regolamentari era
applicabile solo a pochi membri.
Nonostante le forti pressioni, fu soltanto nel 1986, a Punta del Este in
Uruguay, che fu possibile dare il via al nuovo round. A Punta del Este tutte le
resistenze avanzate precedentemente furono superate e si poté approvare
un’agenda per i negoziati estremamente ambiziosa, comprendente oltre
all’agricoltura, ai servizi e alla proprietà intellettuale anche le questioni relative al
funzionamento del GATT. Tuttavia, soltanto a partire dal 1990 si cominciò a
parlare di un’Organizzazione mondiale del commercio.
Il 15 dicembre 1993 si concludeva dopo sette anni l’Uruguay Round e,
quattro mesi dopo, il 15 aprile del 1994, 125 Paesi riuniti a Marrakesh in
Marocco, firmarono l’accordo istitutivo del WTO.
1.2.1. Gli accordi in seno al WTO10 I prodotti agricoli rientravano fin dall’inizio nell’accordo GATT, solo che molte delle sue regole non furono mai applicate, originariamente per colpa degli Stati Uniti e a partire dalla creazione della Politica agricola comunitaria per la forte opposizione dell’Unione Europea. La discussione, ancora oggi di primaria importanza, fu al centro dell’Uruguay round. 11 I servizi non avevano mai formato oggetto delle regole del GATT e, se non con qualche eccezione, di una qualunque regolamentazione internazionale.
17
Il WTO conta attualmente oltre 140 membri e può essere definita
un’organizzazione complessa, non solo perché è un insieme di diversi accordi (cfr.
prospetto n. 2), ma anche perché funziona sulla base di una regola, quella del
consenso12, che rende difficile il raggiungimento delle decisioni.
Prospetto n. 2 – I principali accordi del WTO
Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, la cui denominazione attuale è “Gatt 1994”
Oltre all’originario accordo del 1947, contiene tutte le modifiche ed accordi complementari che a tale testo si sono aggiunte nel corso dei vari round, nonché gli impegni assunti in materia di riduzione tariffarie da parte dei singoli paesi. E’ l’accordo che regola ancora gli scambi internazionali delle merci (nella tabella n. 4 vengono elencati i vari accordi contenuti nel Gatt 1994)
Accordo generale sul commercio dei servizi (Gats: General Agreement on Trade in Services)
Regola il commercio internazionale dei servizi e, contiene le liste delle concessioni in materia di prestazioni di servizi fatte da ciascun membro dell’Organizzazione
Accordo sui diritti di proprietà intellettuale legati al commercio (Trips: Trade Related Aspects of Intellectually Property Rights)
Regola vari aspetti della protezione dei diritti di proprietà intellettuale
Accordo Tprm (Trade policy review mechanism)
Prevede che le politiche commerciali dei singoli membri siano regolarmente esaminate e discusse da parte degli altri membri dell’organizzazione
Accordo sulle regole e le procedure che amministrano la risoluzione delle controversie, detto Organo di risoluzione delle controversie Drb (Dsm o Dsb: Dispute
Rappresenta la Corte Suprema del WTO riassumendo funzioni esecutive, legislative e giudiziarie. Può autorizzare un Paese membro
12Il WTO stabilisce che il consenso è stato raggiunto quando nessun membro presente alla riunione in cui la decisione viene presa si è formalmente opposto alla decisione stessa. Il consenso non è dunque la formale approvazione da parte di tutti i membri di una determinata decisione bensì la loro non opposizione alla decisione stessa. La pratica del consenso deve essere seguita per tutte le decisioni da prendersi in seno al WTO e solo laddove non sia possibile arrivare al consenso è possibile ricorrere ad un voto.
18
Settlement Mechanism or Body) ad applicare sanzioni contro un altro Paese membro.Produce giurisprudenza e dichiara “non conforme” ai testi del WTO le diverse disposizioni delle legislazioni nazionali
L’accordo più importante, il trattato di Marrakesh, non regola alcun aspetto
del commercio internazionale limitandosi a definire le regole concernenti il
funzionamento del WTO stesso, tra cui quella che sancisce che i suoi membri
devono rispettare gli accordi multilaterali allegati al trattato del WTO e che
contengono le regole vere e proprie. Gli accordi13, numerosi (cfr. tabella n. 5),
aspirano tutti a realizzare gli stessi obiettivi: liberalizzare il commercio mondiale
aprendo le frontiere e abbattendo le barriere; applicare a tutte le attività il
principio della concorrenza e le leggi del mercato14.
Tabella n. 5 – Gli accordi relativi al commercio dei beni contenuti nel Gatt 1994
Accordo sui prodotti agricoliAccordo sull’applicazione delle misure sanitarie e fitosanitarie (Sps)Accordo sui prodotti tessili e dell’abbigliamento Accordo sugli ostacoli tecnici agli scambi (Tbt)Accordo sulle misure commerciali attinenti agli investimenti (Trims)Accordo antidumpingAccordo sulla valutazione doganaleAccordo sull’ispezione prima dell’imbarcoAccordo sulle regole d’origineAccordo sulle procedure relative alle licenze d’importazioneAccordo sulle sovvenzioni e misure compensative Accordo sulle misure di salvaguardia
Fonte: Antonio Parenti, Il WTO, Il Mulino, Bologna, 2002, pag. 42
13 I membri del WTO devono applicare tutti gli accordi, senza eccezione. E’ la nozione di accordo unico che permette di riferirsi al WTO in generale, anche quando si discute di aspetti specifici coperti da uno degli accordi in esso contenuti. Questa nozione non comprende i due accordi c.d. plurilaterali, che pur facendo parte del WTO, obbligano soltanto i membri che li hanno firmati: si tratta di quelli in materia di commercio di aerei civili e sugli appalti pubblici.
14 Susan George, op.cit., pag. 22.
19
Nonostante le dichiarazioni di principio, diversi studiosi sottolineano come
gli Accordi siglati durante l’Uruguay Round risultino fortemente squilibrati a
vantaggio degli interessi dei paesi sviluppati e a spese dei PVS, soprattutto di
quelli più poveri. Tra questi si vuole richiamare l’attenzione su quelli più rilevanti.
- Nessuna eccezione: l’Atto Finale stabilisce che “non potranno essere
formulate riserve”. In ogni momento il WTO può decidere di estendere
il campo delle proprie competenze; inoltre ogni Stato membro “deve
assicurare la conformità delle proprie leggi, ordinamenti e procedure
amministrative con i suoi obblighi”(WALLACH, SFORZA, 2000).
- Il principio della nazione più favorita, contemplato in molte clausole e
in accordi specifici, ha avuto origine dagli accordi commerciali
bilaterali, in cui garantiva alle due parti l’estensione di ogni miglior
trattamento concesso in futuro da una di esse ad uno Stato terzo;
nell’ambito del WTO ha la funzione di estendere a tutte le parti
contraenti ogni concessione, sulla quale due di esse reciprocamente si
accordino. Questo principio rende impossibile garantire un trattamento
preferenziale ai paesi che si impegnano a far rispettare i diritti dei
lavoratori e, più in generale, garantire un trattamento preferenziale ad
alcuni PVS.
- Le norme del WTO vietano di trattare in modo diverso i “prodotti
similari” esportati da un altro paese membro, ossia di operare
distinzioni che non siano fondate sulle loro caratteristiche fisiche o
20
sulla destinazione d’uso; è illegale porre discrimini tra diversi fornitori
stranieri della stessa merce, per cui si potrebbe ritenere illegittima
qualunque norma che vieta l’importazione di merci prodotte con il
lavoro minorile o attraverso altra forma di sfruttamento. Le
implicazioni negative derivanti dall’applicazione di questo approccio
si sono evidenziate soprattutto in materia ambientale.
- Il trattamento nazionale è un altro principio oggetto di numerosi
articoli: ogni paese membro è tenuto a trattare i prodotti degli altri
paesi membri senza porre discrimini rispetto ai propri prodotti,
produttori e fornitori nazionali. Un’applicazione di questo principio lo
si ritrova nell’Accordo TRIMS (Trade-Related Investment Measures),
il quale vieta di imporre vincoli agli investimenti esteri e di applicare
restrizioni quantitative. In particolare, vengono proibite le prescrizioni
basate su un livello minimo di approvvigionamento di prodotti locali,
precludendo ai PVS la possibilità di incentivare gli effetti
moltiplicativi a livello locale degli investimenti esteri e incoraggiando
la costituzione di aree che lavorano per l’esportazione (le c.d. Export
Processing Zones, EPZ15).
- I paesi membri sono tenuti alla “trasparenza”, per cui i governi devono
informare la segreteria e gli altri membri delle proprie legislazioni
15 Nelle EPZ investono imprese che si occupano solo dell’assemblaggio di prodotti, partendo da semilavorati importati; esse basano il loro vantaggio competitivo sullo sfruttamento del basso costo della manodopera locale (Mariani, E. Viganò, L. Viganò, 2000).
21
attuali e di ogni nuova legge, normativa o disposizione che possa avere
un impatto sul commercio. Se un paese membro non rende noto ogni
suo dispositivo e non rende le sue politiche conformi alle regole del
WTO, incorre nel richiamo all’ordine attraverso il meccanismo di
esame delle politiche commerciali, che sottopone il paese in questione
a una forte pressione da parte degli altri paesi16.
- L’Accordo sulle forniture pubbliche (AGP17: Agreement on
Government Procurement) impedisce di discriminare prodotti o paesi
esteri, vietando che nella selezione del fornitore, possano essere presi
in considerazione aspetti diversi da quelli commerciali.
Le notazioni di cui sopra evidenziano gli svantaggi economici dei PVS
sollevando notevoli problematiche etico-politiche; per completezza di questa
problematizzazione si espone qui di seguito, invece, le concessioni offerte dal
WTO ai PVS che dovrebbero rappresentare per essi una contropartita dei primi.
16 Atto Finale, articoli III.4 e III.517 E’ stato sottoscritto solo da 25 paesi.
22
1.2.2. La posizione dei paesi in via di sviluppo nel WTO
Nell’ambito del WTO viene accordata ai paesi in via di sviluppo e meno
sviluppati, la possibilità di fare ricorso a dei periodi transitori variabili per
l’applicazione di alcuni accordi dell’organizzazione oppure di derogare
all’applicazione di talune regole se queste fossero in conflitto con i loro obiettivi
di sviluppo. Queste possibilità, in modo separato o congiunto, sono presenti in
quasi tutti gli accordi che formano il WTO. Si tratta di alcuni esempi del
trattamento speciale e differenziato previsto dalle regole dell’organizzazione per
questi paesi, al fine di facilitarne l’inserimento nel sistema commerciale
internazionale (tuttavia occorre sottolineare che non è stato con la creazione del
WTO che tali regole sono state introdotte nel sistema multilaterale degli scambi).
Prima di procedere nell’illustrazione di questo sistema occorre fare una
precisazione terminologica: nel WTO si opera spesso una differenza importante
tra paesi in via di sviluppo e paesi meno sviluppati nel senso che per questi ultimi
sono previsti ulteriori facilitazioni, ma mentre la categoria dei paesi meno
sviluppati è definita dalle Nazioni Unite secondo precisi criteri, quella dei PVS è
una categoria a cui si accede per autoproclamazione e che raramente prevede una
distinzione al suo interno a seconda del livello di sviluppo raggiunto18.
L’unica disposizione del testo originario del GATT che prende in
considerazione le necessità dell’aiuto allo sviluppo economico è l’art. XVIII, il
18 Antonio Parenti, op. cit., pag. 84
23
quale prevede deroghe sia rispetto al consolidamento dei dazi doganali, sia
rispetto al divieto di restrizioni quantitative, a vantaggio di quei paesi la cui
economia non consente che uno scarso livello di vita alla popolazione o che si
trovano ai primi stadi dello sviluppo19. Nel 1964, su impulso della Conferenza
delle Nazioni Unite sul commercio e sullo sviluppo (UNCTAD) venne aggiunta al
GATT la Parte IV, intitolata “Commercio e sviluppo”, la quale, oltre
all’affermazione di principi programmatici (ad esempio, l’aumento delle
esportazioni dei PVS e l’ottimizzazione delle condizioni di accesso ai mercati per
i prodotti di base), prevede altresì che i paesi industrializzati non impongano la
reciprocità quando concedono riduzioni tariffarie o altre agevolazioni commerciali
ai PVS (art. XXXVI.8). In base a questo principio e secondo la procedura stabilita
dall’art. XXV.5, a partire dal 1971 le parti contraenti del GATT autorizzarono
l’adozione da parte dei Paesi industrializzati di speciali sistemi unilaterali:le c.d.
preferenze tariffarie generalizzate consistenti in esenzioni, non discriminatorie,
dei dazi per determinate merci originarie dei PVS; inoltre, i membri non erano
obbligati ad estendere le stesse condizioni agli altri Paesi dell’organizzazione in
base al principio della nazione più favorita. Negli atti conclusivi del Tokyo Round
la deroga venne resa permanente, legittimando in linea di principio il trattamento
preferenziale accordato ai PVS (c.d. clausola abilitativa). Sulla base di questa
decisione i paesi sviluppati si sono dotati di un “sistema generalizzato delle
preferenze”, che permette effettivamente l’entrata a dazio zero o ridotto nei propri
mercati di molti prodotti dei PVS e, naturalmente, di quelli meno sviluppati. La 19 Gabriella Venturini, L’Organizzazione Mondiale del Commercio, Giuffrè editore, 2000, pag. 41
24
clausola abilitativa lascia però un certo margine di libertà ai membri del WTO nel
definire i vari programmi di preferenza; un interessante sviluppo, che si è avuto in
questi ultimi anni, è stata la previsione di legare alcuni incentivi commerciali al
rispetto di alcune condizioni quali le garanzie dei diritti fondamentali dei
lavoratori.
Tuttavia, lo strumento unilaterale delle preferenze tariffarie non ha
contribuito a risolvere i nodi della partecipazione dei PVS al commercio
mondiale, né a limitare l’ampliarsi del gap fra i paesi poveri e quelli con un
elevato tenore di vita. Mentre, infatti, un certo numero di Paesi ha conseguito
progressi economici e commerciali, ad esempio affermandosi come esportatori
principali in alcuni settori (quali il tessile), è cresciuta e continua ad aumentare
l’emarginazione dei paesi c.d. meno sviluppati, in cui l’economia e la società nel
suo complesso si trovano in stato di totale arretratezza. Già a conclusione del
Tokyo Round, a questo riguardo, si era prevista una correzione di prospettiva,
basata su un programma in base al quale i PVS si impegnavano a reinserirsi nel
sistema del libero scambio, regolato dalla clausola della nazione più favorita, via
via che le loro economie fossero migliorate, lasciando ai paesi meno sviluppati i
benefici del trattamento preferenziale.
Con l’Uruguay Round, la scelta politica di principio vuole che i PVS vengano
ad integrarsi a pieno titolo nel regime della WTO. Nell’Accordo istitutivo non
sono, pertanto, contenute particolari disposizioni derogatorie riguardanti tali paesi.
Per quanto concerne i tempi di attuazione degli obblighi derivanti dagli Accordi
25
commerciali multilaterali sono previste, da ciascuno di questi, condizioni di
maggiore flessibilità a vantaggio dei PVS, soprattutto di quelli meno sviluppati.
Due dichiarazioni ministeriali, inoltre, affrontano la situazione di tali paesi: nella
“Decisione sulle misure a favore dei Paesi meno sviluppati” si riafferma la
legittimità degli schemi preferenziali generalizzati e si insiste affinché sia
incrementata l’assistenza tecnica allo sviluppo, mentre nella “Decisione sulle
misure relative ai possibili effetti negativi del programma di riforme sui paesi
meno sviluppati e sui PVS importatori netti di prodotti alimentari” si stabilisce un
incremento dei programmi internazionali di aiuto alimentare per correggere gli
squilibri indotti in tali paesi dalla liberalizzazione del settore agricolo.
1.3. Alcune nuove problematiche
L’ampliarsi della sfera di efficacia della liberalizzazione degli scambi
internazionali, che i meccanismi del GATT 1994 e degli Accordi commerciali
vanno progressivamente attuando, ha portato la normativa liberoscambista a
lambire i confini di settori diversi, regolati da discipline eterogenee, per lo più
scarsamente internazionalizzate. Si sono così posti in evidenza una serie di
problemi ai quali gli accordi dell’Uruguay Round non hanno dato risposta, o che
hanno affrontato in modo superficiale ed inadeguato (VENTURINI, 2000).
L’economia di mercato che oggi trionfa, assoggettando alle proprie logiche
tutte le dimensioni dell’individuo e della società, ha comportato una riallocazione
26
delle risorse tra aree e paesi, in modo da ottimizzare i risultati, una ricerca
incessante di soluzioni diverse, per aumentare la competitività, ed un mutamento
degli attori economici sul mercato mondiale (oggi prevalentemente imprese
transnazionali e multinazionali). In particolare, la massiccia crescita delle
multinazionali è stata, sempre più, attuata disarticolando l’ordine interno degli
stati, per adeguarlo ad un ordine “globalitario” (distruttore delle solidarietà e delle
organizzazioni collettive) al fine di mantenere come protagonisti planetari soltanto
i flussi finanziari e coloro che li controllano. Una delle principali conseguenze del
libero-scambio è stata una separazione sempre più marcata tra Nord e Sud del
Mondo.
Nei PVS la tendenza verso l’efficienza economica si traduce in un trascurare
le regole ambientali, la salvaguardia dei diritti dei lavoratori e della salute
pubblica, in modo da reperire lavoro e materie prime a basso costo. Sono dunque
entrate nel linguaggio comune parole come dumping sociale ed ambientale, che
esprimono semplicemente la preoccupazione dei produttori del Nord di non essere
in grado di competere con produzioni basate su simili vantaggi di costo nei PVS.
Le problematiche relative allo sfruttamento dei lavoratori e del lavoro
minorile, la tutela dell'ambiente e della biodiversità, la difesa della salute, la
valorizzazione delle culture e delle economie locali e più in generale della
clausola sociale si inseriscono proprio in tale quadro generale.
I critici della globalizzazione sottolineano la necessità di una
regolamentazione del mercato globale e di una maggiore trasparenza degli
27
organismi internazionali, che agiscono globalmente, ritenendo la clausola sociale
e la proposta di una tassa sulle transazioni finanziarie (Tobin Tax)20 ottime valvole
di regolazione.
1.3.1. La clausola sociale nel commercio mondiale
Da tempo i paesi occidentali tendono ad inserire, negli strumenti
internazionali da essi stipulati con i PVS, clausole che condizionano gli aiuti
economici o altri trattamenti favorevoli al rispetto dei diritti umani fondamentali
in tali paesi.
Con riferimento agli scambi commerciali internazionali si pone, soprattutto,
la questione della normativa interna in materia di lavoro: quei paesi nel cui
ordinamento le condizioni dei lavoratori sono meno tutelati, oppure non lo sono
affatto, sono in grado di produrre beni e servizi a costi minori e, traendo vantaggio
dalle regole del libero scambio, potranno godere sui mercati stranieri di una
competitività maggiore rispetto a prodotti similari, ma aventi costi sociali elevati.
Per correggere questa situazione, alcuni Stati invocano la possibilità di
applicare restrizioni commerciali, nei confronti di quei paesi che non garantiscono
i diritti fondamentali dei lavoratori. Tali soluzioni, oltre a non essere
giuridicamente motivate, trovano comunque l’opposizione della maggioranza dei
20 In estrema sintesi, la Tobin Tax prevede la tassazione di tutte le transazioni sul mercato dei cambi, stabilizzandoli e, aumentando le entrate degli stati in cui si verificano, spesso, speculazioni sul mercato valutario. Si pensi, che ad un tasso dello 0,1% la tassa in questione garantirebbe circa 166 miliardi di dollari, sufficienti a sradicare l’estrema povertà.
28
membri del WTO, a motivo del loro potenziale impiego a fini protezionistici
(questa osservazione è fortemente sostenuta dagli stessi PVS). Nella
Dichiarazione ministeriale di Singapore del 13 dicembre 1996, la Conferenza dei
ministri del WTO ha espresso l’impegno dei suoi membri a rispettare le norme
sociali minime internazionalmente riconosciute in materia di lavoro ma ha
respinto ogni uso protezionistico delle stesse.
La riflessione sulla “clausola sociale”, cioè sull’introduzione di alcune norme
sociali minime nel commercio internazionale, che prevedono l’internalizzazione
dei costi sociali21, dovrebbe partire da due principi indissociabili: in primo luogo,
il rispetto dei diritti del lavoratore che costituisce un imperativo di equità che deve
essere sempre presente in una società civile; in secondo luogo, l’eventuale
introduzione di una clausola sociale negli accordi che disciplinano il commercio
internazionale non dovrebbe in nessun caso fungere da pretesto per rafforzare il
protezionismo nei confronti dei PVS22.
Partendo da tali principi lo strumento della clausola sociale dovrebbe
permettere di conseguire obiettivi di giustizia sociale e di concorrenza leale, in un
contesto economico mondiale sempre più interdipendente.
La normativa internazionale in materia di lavoro viene elaborata
dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro23 (ILO, International Labour
Organization) attraverso apposite convenzioni, le quali però non conseguono
21 I prezzi dei beni e dei servizi aumentano al decrescere delle libertà fondamentali dell’individuo, rappresentando un forte vantaggio competitivo nei paesi di origine. 22 André Sainjon, Giustizia ed equità nel commercio mondiale, febbraio 1999, in www.manitese.it 23 L’ILO dal 1946 è diventata un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite, come organo abilitato a formulare gli standard internazionali sul lavoro.
29
normalmente una sfera di applicazione internazionale. Il principale organismo
dell’ILO è la Conferenza Internazionale del Lavoro24, che si riunisce annualmente,
per discutere i problemi sociali e del lavoro e fissare le norme internazionali
minime. L’ILO elabora Convenzioni, che una volta ratificate dai paesi membri
(187), diventano vincolanti e Raccomandazioni, volte a orientare le politiche, la
legislazione e la prassi dei medesimi. L’Organizzazione non ha però nessun potere
sanzionatorio in caso di mancato rispetto di quanto ratificato.
Le Convenzioni e le Raccomandazioni adottate dal 1919 hanno affrontato
un’ampia gamma di problemi legati al mondo del lavoro, che vanno dal
riconoscimento di alcuni diritti fondamentali dell’uomo a quelli riguardanti la
sfera delle condizioni di lavoro, l’amministrazione del lavoro, la previdenza
sociale, la sicurezza e la salute sul lavoro, l’occupazione femminile e le relazioni
industriali. Nel prospetto che segue (n. 3) si riportano le Convenzioni che l’ILO
considera come fondamentali (MARIANI, E. VIGANO’, L. VIGANO’, 2001) :
Prospetto n. 3 – Le Convenzioni fondamentali dell’ILO
Abolizione del lavoro forzatoN° 29 Convenzione sul lavoro forzato (1930): esige la soppressione del
lavoro forzato o obbligatorio in tutte le sue forme. Sono autorizzate alcune eccezioni: il servizio militare obbligatorio, il lavoro penitenziario, i lavori richiesti in casi di emergenze quali guerre, incendi o calamità naturali.
N° 105 Convenzione sull’abolizione del lavoro forzato (1957): proibisce il lavoro forzato o obbligatorio, sotto ogni forma, quale misura di
24
? Nel giugno del 2001, la Conferenza Internazionale del Lavoro ha adottato la Convenzione sulla sicurezza e salute in agricoltura, la prima che stabilisce standard internazionali in questo settore che è considerato tra quelli che presentano maggiori rischi sia nei paesi sviluppati che nei PVS.
30
coercizione o di educazione politica, quale sanzione verso persone che esprimono determinate opinioni politiche o ideologiche, quale metodo di mobilitazione della manodopera, quale misura di disciplina del lavoro, quale punizione per la partecipazione a scioperi o quale misura di discriminazione.
Libertà di associazioneN° 87 Convenzione sulla libertà sindacale e la protezione del diritto
sindacale (1948): sancisce il diritto di tutti i lavoratori e dei datori di lavoro di costituire organizzazioni di loro scelta e associarvisi, senza autorizzazione preventiva e fissa una serie di garanzie per il loro libero funzionamento, senza interferenze da parte delle pubbliche autorità.
N° 98 Convenzione sul diritto di organizzazione e di contrattazione collettiva (1949): prevede la protezione contro gli atti di discriminazione antisindacale, la protezione delle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro contro gli atti di ingerenza reciproca e incoraggia l’adozione di misure per promuovere la contrattazione collettiva.
Non discriminazioneN° 100 Convenzione sull’uguaglianza di remunerazione (1951): richiede
l’applicazione del principio dell’uguaglianza di remunerazione per uomini e donne per un lavoro di uguale valore.
N° 111 Convenzione sulla discriminazione- lavoro e professione (1958): richiede una politica nazionale per eliminare ogni discriminazione in materia di accesso al lavoro, formazione e condizioni di lavoro, basata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, le opinioni politiche, l’appartenenza nazionale o l’origine sociale, e per promuovere l’uguaglianza di opportunità e di trattamento.
Eliminazione del lavoro minorileN° 138 Convenzione sull’età minima (1973): propugna l’abolizione del
lavoro minorile e stipula che l’età minima di ammissione al lavoro non deve essere inferiore a quella in cui cessa la scuola dell’obbligo.
N° 18 Convenzione sulle peggiori forme di lavoro minorile (1999): impegna i paesi a prendere le misure necessarie per eliminare le forme più gravi di sfruttamento del lavoro minorile e a fornire aiuti ai bambini e alle famiglie.
L’ILO ha avviato nel 1992 un programma internazionale per l’eliminazione
del lavoro minorile, culminato con l’adozione della “Convenzione
sull’eliminazione delle forme peggiori di sfruttamento del lavoro infantile”. La
Convenzione adottata a Ginevra nel Giugno del 1999 da 174 paesi, rappresenta
una pietra miliare per l’affermazione dei diritti dell’uomo in quanto impegna, tra
l’altro, all’eliminazione di tutte le forme di schiavitù e pratiche similari25.
25 Mariarosa Cutillo, Una storica convenzione, luglio 1999, in www.manitese.it
31
L’articolo 3 elenca le forme di sfruttamento oggetto della convenzione, quello che
qui interessa di tale articolo è l’accento posto sul lavoro che, per sua natura o per
le circostanze in cui viene svolto, può danneggiare la salute, la sicurezza e la
moralità dei bambini. Inoltre, nella sessione del giugno del 1998, la Conferenza
Internazionale del Lavoro ha adottato una dichiarazione nella quale si trova
formulato un ristretto elenco di diritti fondamentali dei lavoratori: la libertà di
associazione, il divieto di qualsiasi discriminazione sul lavoro, le limitazioni al
ricorso al lavoro minorile (n° 5 e 138), il divieto ai lavori forzati (n° 28 e 105) e il
diritto di organizzazione sindacale e di negoziazione collettiva (n° 87 e 98). Tutti
gli Stati membri dell’Organizzazione avrebbero l’obbligo di garantire il rispetto di
tali libertà, in quanto corrispondenti al diritto internazionale consuetudinario. A
questi diritti fondamentali va, dunque, riferito anche l’impegno dei membri del
WTO a rispettare le norme sociali minime in materia di lavoro.
Secondo il Parlamento Europeo26, il dialogo intrapreso dovrebbe condurre
all’adozione di misure in seno alla WTO per garantire il rispetto effettivo dei
diritti sociali fondamentali da parte di tutti gli stati firmatari di accordi
commerciali.
Se, d’altronde, la competenza dell’ILO è destinata a rimanere predominante e
la maggioranza dei membri del WTO rifiuta di dare inizio all’elaborazione di
regole multilaterali, che prevedono l’adozione di misure commerciali restrittive,
26 In ambito europeo, a partire dal 1994, il Parlamento ha più volte affermato che tutti gli Stati, a prescindere dal loro livello di sviluppo economico, dovranno accordarsi su alcune regole dirette a garantire i diritti fondamentali dell’uomo al lavoro. Le norme sociali dovranno essere circoscritte ad un nucleo minimo di convenzioni dell’ILO (il riferimento a tali norme è d’obbligo, dato che quanto dispongono ha vocazione universale e gode di un ampio consenso).
32
per imporre il rispetto delle norme sociali minime in materia di lavoro, potrà
prevedibilmente aumentare il ricorso a sanzioni unilaterali da parte degli Stati che
si ritengono lesi dalla concorrenza dei paesi, nei quali il lavoro ha un basso costo,
giacché le norme sociali minime non vengono garantite.
L’alternativa potrebbe consistere nell’adozione di misure aventi carattere
“positivo” (come l’avvio di programmi di assistenza tecnica e finanziaria) ma
anche l’offerta di condizioni più favorevoli (ad esempio, nell’ambito dei sistemi
nazionali di preferenze generalizzate) ai PVS, che dimostrino di migliorare gli
standard sociali e di lavoro (VENTURINI, 2000).
1.3.2. Commercio e ambiente
33
La rigida regolamentazione del commercio, così come concepita nell’ambito
del WTO27, condiziona in modo pesante e sul piano legale la libertà di agire dei
singoli Stati in materie inerenti la tutela della salute pubblica e dell’ambiente.
Il ruolo delle Organizzazioni Non Governative (ONG) è particolarmente
incisivo nel rappresentare, anche presso il WTO, la dialettica fra liberalizzazione
del commercio internazionale ed esigenze di tutela dell’ambiente. Su questo tema
il WTO dispone di un apposito gruppo di studio istituito a Marrakesh: la
Commissione su commercio e ambiente28 (Committee on Trade and Environment)
col mandato di studiare i modi per rendere commercio e ambiente reciprocamente
compatibili.
Le crescenti limitazioni imposte a seguito dell’Uruguay Round alla facoltà
dei governi di mantenere normative di pubblico interesse vengono attuate per
mezzo di un sistema di commissioni29 interne al WTO, che hanno la facoltà di
27 Gli Accordi del WTO contemplano diverse disposizioni che possono essere invocate per giustificare misure commerciali restrittive finalizzate alla tutela dell’ambiente: a questo proposito sono da ricordare l’art. XX GATT 1994 (eccezioni generali) nonché gli Accordi commerciali multilaterali sugli ostacoli tecnici e sulle misure sanitarie e fitosanitarie (Sps). Secondo le lettere b) e g) dell’art. XX GATT 1994 , i membri rimangono liberi di adottare le misure necessarie alla protezione della vita e della salute delle persone e degli animali, alla preservazione dei vegetali e alla conservazione delle risorse naturali esauribili. L’art. 2.2 dell’Accordo sugli ostacoli tecnici menziona espressamente la protezione dell’ambiente tra le finalità delle norme tecniche e l’Accordo Sps riafferma il pieno diritto dei membri di tutelare attraverso tali misure la vita e la salute delle persone, degli animali e dei vegetali. In tutti questi casi, però, l’applicazione delle misure restrittive finalizzate alla tutela dell’ambiente deve effettuarsi in misura non discriminatoria e non deve avere obiettivi esclusivamente commerciali.28 La Commissione su commercio e ambiente non configurandosi come organo negoziale non ha avuto la facoltà di formulare nuove norme per la protezione dell’ambiente.
29 Lo scopo delle commissioni è quello di studiare le misure statali finalizzate alla tutela dell’ambiente che hanno effetti restrittivi sugli scambi internazionali: divieti all’importazione/esportazione di prodotti nocivi o fabbricati mediante processi produttivi nocivi per l’ambiente, di specie animali minacciate di estinzione, di risorse esauribili; requisiti di qualità dei prodotti (standard tecnici e misure sanitarie e fitosanitarie) rivolti ad evitare o minimizzare il degrado ambientale (FRANCIONI, 1988).
34
giudicare la conformità delle leggi di un paese ai principi che lo regolano30. Il
problema principale nasce dal fatto che gli obiettivi e le politiche dei vari paesi
devono superare l’esame del WTO31, il quale tra gli altri criteri, esige che le leggi
e le normative siano le meno restrittive possibili nei confronti del
commercio32(WALLACH, SFORZA, 2000). In sostanza, in base ai principi che
regolano il WTO, è possibile che le misure governative sull’ambiente, la sicurezza
alimentare e la sanità pubblica vengano giudicate a priori come protezioniste e
valutate in modo più rigoroso del necessario.
Basti pensare a come è finito il tentativo degli USA sulla riduzione delle
emissioni dei gas di scarico delle auto. Dopo la vittoria del Venezuela nel ricorso
contro il Clean Air Act (la legge sull’inquinamento atmosferico), accusato di
colpire ingiustamente gli interessi dell’industria petrolifera venezuelana, gli USA
hanno abbassato gli standard che regolamentano la presenza di agenti inquinanti
nella benzina. In questo caso, la commissione arbitrale ha affermato che un paese
è libero di scegliere la politica ambientale che preferisce (a patto che sia
compatibile con le regole del WTO).
Le norme del WTO, inoltre, vietano ai paesi di trattare prodotti dalle
caratteristiche simili in modo diverso, a seconda del modo in cui essi vengono
30 Fin dal 1995 ha sempre giudicato che tutte le politiche legislative da esso prese in esame costituiscono barriere illegittime per il commercio, che in quanto tali devono essere abolite o modificate. 31 Eventuali proposte di migliorare standard obsoleti o inadeguati, vengono scoraggiate sul nascere dalla probabilità di essere ricusate dal WTO. 32 Un esempio lo si è avuto in materia di diritti del lavoro, che per indicazioni parlamentari doveva essere inclusa nell’Uruguay Round ma che di fatto è stata esclusa in quanto considerata “limitazione inopportuna al libero commercio”.
35
ottenuti o raccolti33. Per esempio, a giudizio del WTO, i tonni catturati con reti
innocue per i delfini devono essere commercialmente trattati in modo non diverso
dai tonni catturati con reti che intrappolano i delfini e ne provocano la morte.
L’esempio citato fa riferimento al panel (1991) tra Messico e USA in relazione
alle restrizioni statunitensi sulle importazioni di tonno. Nello specifico, la legge
statunitense (Marine Mammal Protection Act) vieta la vendita, sul territorio
americano, di tonni catturati da pescherecci nazionali o stranieri mediante l’uso di
giacchi, grandi reti con cui si coprono i banchi di delfini per catturare i tonni che
si trovano al di sotto34. Gli USA hanno invocato l’eccezione contenuta nell’art.
XX35 del GATT, teoricamente concepita per consentire ai paesi, in definite e
determinate circostanze, di adottare o mantenere delle leggi che contraddicono le
norme del GATT. L’eccezione dovrebbe tutelare i paesi da indebite ingerenze
nella facoltà di difendere il pubblico interesse in ambiti fondamentali quali la
sicurezza nazionale, la salute e la tutela dell’ambiente; nel caso citato l’eccezione
è stata interpretata in modo così restrittivo da renderla puramente accademica36.
1.4. Il Millennium Round
33 La possibilità di distinguere tra metodi di produzione è, invece, indispensabile per la difesa dell’ambiente poiché un elemento fondamentale per la messa a punto di politiche ecosostenibili è la possibilità di trasformare le condizioni e i processi entro cui si producono le merci e si coltivano, si raccolgono, si lavorano i prodotti della terra, in condizioni e processi più rispettosi dell’ambiente.34 Lori Wallach, Michelle Sforza, WTO, Tutto quello che non vi hanno detto sul commercio globale, Feltrinelli, Milano, 2000, pag. 19. 35 Gagriella Venturini, op. cit., pag. 51.36 Lori Wallach, Michelle Sforza, op. cit., pag. 30.
36
La conferenza ministeriale37 del WTO svoltasi a Seattle dal 30 novembre al 4
dicembre 1999, nota come Millennium Round, ha avuto un andamento complesso
e difficile, conclusasi con la sua sospensione.
L’evento è stato presentato come l’inizio di una nuova fase del capitalismo
mondiale, in cui la libera circolazione delle merci e dei capitali possono
alimentare la dinamica di sviluppo dell’economia internazionale. Per il pensiero
unico dominante la globalizzazione è sinonimo di liberalizzazione e l’impegno
delle potenze internazionali è quello di abbattere le ultime barriere che ostacolano
il libero mercato. I nuovi processi di globalizzazione impongono che le linee
guida dell’economia mondiale siano disegnate da organismi internazionali come il
WTO, capaci di gestire al meglio e senza attriti competitivi i processi di
liberalizzazione. Ma, fin dalla definizione dell’agenda, la conferenza ha incontrato
difficoltà nel perseguire tali obiettivi.
In origine, la conferenza ministeriale avrebbe dovuto essere dedicata
essenzialmente alla definizione della piattaforma negoziale su agricoltura e
servizi, in ottemperanza agli accordi sottoscritti dai 135 paesi della WTO nella
conferenza di Marrakesh del 1995.
Tuttavia, nei mesi precedenti alla conferenza di Seattle, la stragrande
maggioranza dei paesi aveva sollecitato la previsione di un’agenda più ampia, al
fine di tenere conto dell’esigenza di definire regole concernenti gli aspetti del 37 La Conferenza ministeriale è l’organo principale del WTO. Si riunisce almeno una volta ogni due anni e vi partecipano i ministri responsabili per il commercio estero eventualmente coadiuvati da altri ministri. La Conferenza ministeriale può prendere decisioni in tutte le materie coperte dell’Organizzazione, ma generalmente in occasione delle conferenze ministeriali vengono prese decisioni che hanno una particolare rilevanza politica per l’Organizzazione stessa, prima fra tutte quella di lanciare nuovi negoziati commerciali.
37
commercio e dell’internazionalizzazione, che negli ultimi anni sono cresciute in
modo particolarmente veloce: barriere non tariffarie, proprietà intellettuale e
diritti di proprietà sui marchi, brevetti e qualità dei prodotti, investimenti esteri,
concorrenza, competitività internazionale.
Al tempo stesso vi è stata la sollecitazione ad inserire nell’agenda, oltre a
questi temi, anche questioni di valenza sociale ed ambientale che sempre più
vengono investite dalle politiche economiche commerciali, tra cui: il problema
della tutela dell’ambiente e della coerenza tra gli accordi internazionali in materia
ambientale e gli accordi in materia commerciale; il problema della tutela della
salute e del rapporto tra politiche commerciali e diritto alla salute dei consumatori;
il tema cruciale del rapporto tra politiche commerciali, politiche degli scambi e
l’affermazione dei diritti sociali (a partire dai diritti del lavoro).
La complessità di tali temi, avrebbe reso necessaria un’attività istruttoria e
preparatoria assai più approfondita di quella che in realtà si è fatta, ma il vero
problema è stato la manifestazione da parte dei diversi soggetti della comunità
economica internazionale, di punti di vista e approcci assai eterogenei che non
hanno trovato prima di Seattle una composizione sufficiente.
In particolare, gli USA hanno teso a considerare la conferenza ministeriale,
come una conferenza che avrebbe dovuto concentrarsi essenzialmente sui temi
dell’agricoltura e dei servizi, avendo un atteggiamento tendenzialmente diffidente
rispetto ad un approccio più ampio. A fronte di tale posizione, si è invece radicata
nell’UE l’idea che l’approccio della conferenza dovesse essere globale, con
38
quell’ampia agenda sopra ricordata. Infine, i PVS, hanno maggiormente
privilegiato la necessità di una verifica sul grado di applicazione degli accordi già
sottoscritti, piuttosto che l’effettiva volontà di misurarsi in una fase negoziale che
si aprisse su nuovi terreni di confronto e di negoziato.
Queste diverse posizioni, non composte adeguatamente prima di Seattle,
hanno fatto sì che la conferenza si aprisse senza che vi fosse un accordo
sull’agenda e senza che fosse stato predisposto, in modo sufficiente, un testo della
dichiarazione finale38 sul quale acquisire un consenso abbastanza ampio.
Occorre sottolineare, brevemente, come in ambito europeo l’Italia abbia
lavorato positivamente, alla preparazione del Millennium Round, presentandosi al
negoziato con una linea che ha puntato su un approccio globale e su
un’impostazione che ha teso a tenere sempre fortemente intrecciate la dimensione
commerciale e quella sociale. In particolare, il gruppo di lavoro ha visto associati
non soltanto i diversi ministri ma anche rappresentanti del parlamento,
organizzazioni non governative (ONG) ed altri soggetti, investiti dai processi e dai
temi che riguardano l’attività della WTO.
38 Si è quindi caricata la conferenza di uno sforzo di sintesi e di mediazione che si è rilevato essere particolarmente complesso e difficile, ma che ha in ogni caso condotto ad un accordo di principio su una piattaforma di natura globale (e quindi con un accordo tra tutti i paesi sul varo di un negoziato che avesse un’ampia tematica di contenuti); tuttavia, la difficoltà a definire sui singoli punti i termini sui quali avrebbe dovuto svilupparsi il negoziato, non ha consentito di pervenire ad una conclusione.I delegati dei PVS di Africa, Caraibi ed America Latina hanno poi firmato, alla fine del negoziato, una dichiarazione comune nella quale auspicavano una maggiore apertura dei negoziati, ricevendo l’appoggio della società civile e dei gruppi di protesta. Per un’organizzazione come la WTO, che spesso presta poca attenzione ai membri meno influenti, è una piccola rivoluzione.
39
Tra le proposte avanzate dall’Italia, nella fase di discussione del negoziato,
ben tre avevano trovato l’accordo degli altri paesi, sia di quelli industrializzati che
di quelli in via di sviluppo: la necessità che gli accordi commerciali fossero
coerenti con quelli ambientali sottoscritti; la necessità di giungere, attraverso la
formalizzazione di un gruppo di lavoro tra WTO e ILO, ad affrontare i temi della
clausola sociale e definire proposte per affrontare il tema dell’affermazione dei
diritti del lavoro; infine, la proposta ripresa da molti paesi, relativa all’abolizione
per i 48 paesi meno avanzati di ogni forma di dazio o di tariffa all’esportazione.
Per ciò che attiene specificamente alle problematiche delle tutela
dell’ambiente, della clausola sociale e del relativo impatto sul commercio
internazionale, sono emersi durante Millennium Round gli stessi contrasti
evidenziatisi durante la Conferenza di Singapore del 1996, per la forte
opposizione dei PVS. Più nello specifico, la questione ambientale e della clausola
sociale hanno rappresentato nel vertice di Seattle un vero attacco da parte delle
grandi potenze nei confronti dei paesi meno sviluppati, rei di violare le più
elementari norme ambientali e in materia di tutela sociale, violazioni che si
traducono in un vantaggio economico per le esportazioni dei paesi in via di
sviluppo.
La preoccupazione mostrata dai PVS è che la clausola sociale possa
nascondere tentativi protezionistici da parte del Nord. Tuttavia l’Unione Europea
(UE) ha ribadito in sede WTO l’intenzione di non privare questi paesi del
vantaggio risultante dai bassi salari e inoltre, come dimostrato dallo Schema delle
40
Preferenze Generalizzate (SPG39), l’UE incentiva le relazioni con quei paesi che
dimostrano rispetto per gli standard di protezione sociale e ambientale.
1.4.1. La dimensione sociale della Conferenza di Seattle
A Seattle è emersa (ancora una volta) una radicata cultura protezionistica, nel
senso che per ciascun paese è prevalente l’obiettivo di preservare, tutelare e
difendere l’esigenza di cui si è portatori, piuttosto che la disponibilità a mettere in
discussione, insieme con gli altri, ciò che ciascuno esprime a vantaggio della
ricerca di punti di sintesi che siano espressione di un interesse comune e globale.
La stessa WTO, si è dimostrata dotata di una strumentazione per regolare i
mercati assolutamente insufficiente, che vive con regole e modi di funzionamento
fortemente caratterizzati dal negoziato intergovernativo, senza una sufficiente
trasparenza e senza regole democratiche che consentano il coinvolgimento sia di
tutti i paesi partecipanti, sia delle società civili e dell’opinione pubblica, tale da
creare condizioni di consenso sull’attività di regolamentazione che la stessa WTO
deve realizzare.
L’insieme delle contraddizioni, rilevate dal Millennium Round, rappresentano
aspetti diversi di un unico problema che è quello dell’approccio culturale alla
globalizzazione, che si traduce concretamente, nei comportamenti assunti dai
singoli attori.
39 Cfr. paragrafo 1.6. di questo capitolo
41
Il tema di come misurarsi di fronte alla globalizzazione, d’altra parte, è stato
fortemente segnalato e sottolineato dalle manifestazioni di protesta svoltesi a
Seattle, che hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica non soltanto sul
negoziato ma anche, appunto, sul tema della globalizzazione e del rapporto tra
globalizzazione e futuro. Le ONG hanno chiesto alla WTO di far rispettare gli
standard minimi lavorativi nel mercato globale e nei PVS, i cui interessi non
coincidono necessariamente con l’asserita priorità della clausola sociale.
Nello specifico, tuttavia, in modo critico, ci si chiede se la proposta avanzata
dalle ONG di boicottare i paesi a più alto tasso di lavoro minorile non si traduca di
fatto in un modo per non perdere competitività e posti di lavoro da parte del
Nord. Per questo, la proposta di boicottare i paesi che non rispettano gli standard
lavorativi e tollerano invece il lavoro minorile, vede l’opposizione proprio dei
paesi emergenti. Infatti, secondo quanto affermato dal delegato indiano durante la
conferenza, un blocco dei beni prodotti con il lavoro minorile potrebbe impedire
lo sviluppo dei paesi più poveri.
Si aggiunga a questo, inoltre, che l’organizzazione “Save the children” ha
dimostrato come il boicottaggio non sia la soluzione più adeguata, poiché i
bambini che lavorano lo fanno per sopravvivere e, se esclusi dalle leggi, si
troverebbero costretti a lavorare illegalmente.
Il problema è, allora, “come” governare e gestire la globalizzazione; ciò è
tanto più necessario se si vuole conseguire un effetto distributivo dei benefici al
più ampio numero di cittadini e di paesi. Governare la globalizzazione significa
42
tenere insieme più dimensioni: la dimensione strettamente commerciale, quella
che attiene alle politiche di sviluppo, quella che riguarda l’affermazione dei diritti
umani e quella sociale ed ambientale.
1.5. Il vertice di Doha
La conferenza di Doha è stato il primo appuntamento internazionale di rilievo
dopo l’attentato alle Torri Gemelle e la riuscita della stessa, che si teneva per la
prima volta in un paese islamico, assumeva un alto valore simbolico sulla tenuta
della comunità internazionale; inoltre, bisognava riscattare la credibilità del WTO
dopo Seattle40. Quest’ultimo aspetto ha condotto all’adozione di metodi
decisionali più aperti e ad un’agenda negoziale maggiormente in linea con le
attese dei PVS.
La conferenza ministeriale di Doha, come quelle precedenti, ha avuto uno
svolgimento sofferto, con un esito incerto fino all’ultimo e una conclusione che
costituisce una sintesi di compromesso tra le diverse, e spesso contrastanti,
esigenze tra i 142 paesi presenti. Il risultato che ne è scaturito, espresso in un
documento ufficialmente denominato dichiarazione ministeriale ma
ufficiosamente conosciuto con il nome di Development Round41, consiste nel
lancio di un nuovo round di negoziati commerciali, la cui conclusione è prevista
40 Maurizio Meloni, “WTO: nuovi protagonisti e pugni di mosche”, in Altreconomia, dicembre 2001, n. 23, pag. 32
41 Enrico Sassoon, La sfida del mercato aperto, in Il Sole 24 ore, 15 novembre 2001, n. 315, pag. 5
43
nel gennaio del 2005, accompagnato da due importanti decisioni in materia
d’applicazione delle regole vigenti e sul rapporto tra tutela della salute e la
protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Queste due ultime dichiarazioni hanno cercato di risolvere i più pressanti
problemi posti dai PVS, spianando la strada all’agenda vera e propria del round.
Preme far osservare, in particolare, che la dichiarazione in materia di rapporto tra
tutela della salute e accordo Trips tende, così come intesa durante la conferenza,
ad evitare ogni eventuale conflitto tra la protezione della proprietà intellettuale e
la tutela della salute affermando che le “regole Trips non devono costituire un
ostacolo alla protezione della salute, stabilendo che gli stati sono sovrani nel
determinare in quali circostanze vi sia l’urgenza di non fare ricorso alle licenze
(obbligatorie) per la produzione di farmaci a basso costo”.
Come i round precedenti, anche quello di Doha ha previsto negoziati tariffari
e regolamentari; sono stati, inoltre, presi impegni concreti al fine di garantire un
miglior accesso ai mercati internazionali per i prodotti dei PVS, in modo da
consentire agli stessi un’adeguata flessibilità negli impegni di liberalizzazione e
regolamentazione che risulteranno dalle negoziazioni del round. È stata anche
prevista la prestazione di assistenza tecnica necessaria per negoziare tali impegni.
Tra i vari negoziati, inseriti nell’agenda di Doha, quelli di accesso al
mercato42 hanno previsto la riduzione delle tariffe doganali e delle barriere non 42 Tra i negoziati in materia di accesso al mercato, quelli relativi all’agricoltura prevedono oltre alla riduzione dei dazi la discussione sulla riduzione, e possibilmente eliminazione, delle sovvenzioni alle esportazioni , che rimangono un importante caposaldo della politica agricola comunitaria. L’Europa, in tale sede, ha ottenuto la tutela delle denominazioni di origine per i prodotti agricoli, ma non ha avuto successo la proposta di meglio definire il principio di precauzione in ambito alimentare.
44
tariffarie, soprattutto per i prodotti d’interesse dei PVS e a facilitazioni per il
commercio dei servizi attraverso migliori condizioni di accesso per i fornitori di
servizi stranieri.
Accanto ai negoziati di accesso al mercato bisogna anche ricordare quelli
sulle regole del commercio internazionale; negoziati che possono essere divisi in
due categorie: la prima categoria comprende le modifiche delle regole già
previste dal WTO, la seconda include oggetti nuovi rispetto all’attuale disciplina.
In particolare, la seconda categoria di negoziati prevede cinque nuove aree:
- relazione tra commercio internazionale e investimenti;
- interazione tra commercio e investimento;
- trasparenza negli appalti pubblici;
- facilitazioni commerciali;
- interazione tra commercio e ambiente.
L’area di interazione tra commercio e tutela dell’ambiente, ha rappresentato
una novità di grande rilievo perché nonostante la materia fosse già presa in
considerazione43, la resistenza di molti paesi ad intraprendere la strada negoziale
era molto forte per il timore che portasse alla giustificazione di misure
protezionistiche o all’obbligo, per i PVS, di adottare gli standard ambientali dei
paesi sviluppati; timore fugato dall’impegno che i risultati dei futuri negoziati non
potranno creare barriere od obblighi di tale sorta (PARENTI, 2002). Il risultato
ottenuto, durante la conferenza, prevede la necessità di determinare con esattezza
la relazione tra le regole previste dal WTO e quelle contenute negli accordi 43 Cfr. paragrafo 1.3.2. di questo capitolo
45
multilaterali in materia di ambiente, nonché la riduzione o eliminazione delle
tariffe e delle barriere non tariffarie alle importazioni di beni e servizi di natura
ambientale.
Il programma del negoziato viene completato dall’esame di alcune questioni
di particolare rilievo per i PVS quali: quelle relative al commercio dei paesi ad
economia limitata e vulnerabili (c.d. small economies), al fine di una loro piena
integrazione nel sistema commerciale multilaterale; quelle relative alla relazione
tra il commercio, debito ed aspetti finanziari internazionali, quelli relative al
commercio e trasferimento delle tecnologie verso i PVS; quelle relative, infine,
più specificamente all’integrazione dei PVS, che prevede tra l’altro l’obiettivo di
assicurare un’effettiva libera entrata dei prodotti di questi paesi negli altri mercati.
Da quanto detto emerge l’importanza che assumeranno i futuri negoziati,
rilevando però che manca ancora una volta una previsione sull’interazione tra
commercio e diritti dei lavoratori e sull’introduzione della clausola sociale.
Molto probabilmente, sul buon fine della conferenza di Doha ha giocato un
ruolo decisivo la congiuntura economica negativa che ha caratterizzato il 2001,
come dimostrano i dati riportati nella tabella n. 6.
Tabella n. 6 – Tasso di crescita delle esportazioni nel 2001 (variazione percentuale rispetto
all’anno precedente)
Prodotti chimici 1,8%
Prodotti agricoli -0,9%
Minerali -0,6%
Vestiario -0,9%
Prodotti per l’automazione -2,1%
46
Altri macchinari -2,2%
Altri beni di consumo -2,7%
Altri semilavorati -3,4%
Metalli non ferrosi -9,1%
Tessile -5,0%
Ferro e acciaio -8,1%
Combustibili -8,4%
Telecomunicazioni -13,8%
Media -4,3%
Fonte: WTO, Statistiche sul commercio internazionale, 2002
Nel 2001 il valore (espresso in dollari) delle esportazioni a livello mondiale è
diminuito del 4,5%, segnando per la prima volta dal 1982 un trend negativo. Solo
nel settore chimico si sono registrati incrementi negli scambi, mentre tutti gli altri
settori hanno subito una flessione: il commercio di prodotti agricoli e manufatti si
è ridotto rispettivamente dello 0,9% e del 2,5%, mentre il settore delle
telecomunicazioni è stato travolto da un vero e proprio crollo del 14%.
La stagnazione ha riguardato anche i servizi, che dopo un aumento degli
scambi del 6% nel 2000 hanno segnato una riduzione di 0,5% nel 2001. L’arresto
si è verificato quasi ovunque, ma con particolare forza in Nord America, Africa e
Asia44.
1.5.1. Il fallimento della conferenza di Cancun
44 Anna Morelli, In calo gli scambi internazionali “Il commercio si fa in blocco”, in Altreconomia n. 35, gennaio 2003, pag. 25
47
La quinta conferenza ministeriale del WTO si è svolta a Cancun in Messico
dal 10 al 14 Settembre 2003.
Il vertice si è chiuso senza la firma di nessun nuovo accordo, né
sull’agricoltura né sugli investimenti né sui brevetti. Un fallimento su tutta la
linea, forse ancora più profondo di quello che si era verificato quattro anni fa a
Seattle. Allora il fallimento era stato determinato dalle contestazioni di piazza,
dall’emergere di un movimento globale che metteva sotto accusa regole,
legittimità e contenuti degli accordi del WTO. Oggi, invece, il segnale della crisi è
venuto dal G21, il gruppo dei PVS.
Per la prima volta, l’alleanza dei Paesi africani, di quelli caraibici e dei più
poveri della Terra, guidati dal Bangladesh, ha imposto le sue ragioni, unanimi e
diverse, rispetto a quelle del G7-G8. Bénin, Burkina Faso, Mali e Ciad hanno
ufficialmente chiesto, a nome di tutti i Paesi dell’Africa occidentale e centrale,
l’abolizione degli aiuti scandalo ai grandi farmers americani ed europei, che
penalizzano i produttori di cotone45. Non hanno ottenuto nulla, solo un vago
impegno a parlarne nei mesi e anni futuri all’interno di un negoziato sul tessile;
questo ha comportato il blocco delle discussioni sulle Singapore Issues (l’agenda
del WTO su investimenti, appalti, concorrenza e facilitazioni al commercio).
45 L’Africa francofona produce ogni anno circa un milione di tonnellate di cotone, che corrispondono all’incirca al 16% dell’intera produzione mondiale; almeno 10 milioni di contadini africani dipendono dalle piantagioni di cotone. Ogni anno l’Africa perde circa 300 milioni di dollari a causa dei sussidi concessi ai produttori europei e statunitensi (questi ultimi ricevono ogni anno quattro milioni di dollari). Fonte: Altreconomia, settembre 2003, n. 42, pag.36
48
Il fatto nuovo di Cancun46 è stato proprio l’incrocio di alleanze fra Paesi
diversi: il G21 si è battuto contro le posizioni americane ed europee. E’ guidato
dal Brasile (vera potenza politicamente emergente), dall’India, dai cinesi e dal
Messico. Ma vi sono anche Paesi poverissimi come il Bangladesh. Altri Stati più
poveri, specialmente africani, sono riusciti a raggrupparsi in un ampio G90.
Per la prima volta hanno partecipato anche la Cambogia 47e il Nepal, nuovi
paesi membri del WTO. La Cambogia, in particolare, dopo sette anni di negoziati,
ha dovuto modificare la sua legislazione per aprire il mercato interno al
commercio internazionale (ad esempio, entro il 2005 deve eliminare ogni
restrizione all’importazione di fertilizzanti e pesticidi).
Nella precedente conferenza di Doha erano state fatte grandi promesse ai
paesi economicamente meno sviluppati (vedi paragrafo precedente) e il fallimento
di quella attuale è anche una conseguenza del mancato rispetto delle stesse. Un
esempio per tutti è dato dalla mancata attuazione dell’accordo per aumentare
l’accesso dei cittadini ai farmaci a basso costo. A Doha si era affermato che la
salute pubblica fosse una ragione sufficiente per superare le preoccupazioni sulla
tutela dei brevetti farmaceutici e di proprietà intellettuale, in concreto però non è
stato prodotto nessun accordo. Addirittura la Cambogia, che ha bisogno di
medicine anti-Aids generiche e a basso costo, ha dovuto abbandonare la politica di
distribuzione di farmaci appena è entrata nel WTO48. 46 Andrea Semplici, “Il mercato è nudo”, in Altreconomia, ottobre 2003, n. 43, pag. 6-10
47 L’ammissione della Cambogia è il primo caso di ingresso nel WTO di uno dei paesi catalogati come Ldc (least developed countries, paesi meno sviluppati).48 Carta (almanacco), “Il nido dei serpenti”, 4-10 settembre 2003, n. 31, pag. 47
49
Oltre alla frattura sull’agricoltura, l’altro nodo caldo del vertice è stato quello
sulla liberalizzazione dei servizi. Il Giappone, assieme all’Europa, è il vero
responsabile della rottura della conferenza: entrambe le nazioni non hanno voluto
modificare le rispettive posizioni in materia di investimenti né prevedere
l’apertura di negoziati su tale tema (il Giappone, in particolare, non intende
eliminare i dazi da prodotti considerati strategici).
L’accordo sui servizi (Gats) in realtà è un negoziato parallelo e andrà avanti
comunque nonostante il fallimento di Cancun, in quanto cruciale per il mondo
delle corporate. Secondo Christopher Roberts di Esf (European Services Forum),
grande associazione di aziende di servizi, la negoziazione dell’accordo Gats è il
solo modo per superare la crisi economica in Europa, in cui il 70% dell’economia
è rappresentato da servizi (cfr. tabella n. 7). Non la pensano in questo modo le
ONG occidentali.
Tabella n. 7 – Valore in milioni di dollari del mercato dei servizi commerciali (2001)
Esportazioni ImportazioniUE 611.500 (42%) 604.900 (42%)
USA 263.380 (18,1%) 187.700 (13%)Asia 302.600 (20,7%) 355.000 (24,6%)
America Latina 58.200 (4%) 70.900 (4,9%)Africa 30.900 (2,1%) 37.500 (2,6%)
Resto del Mondo 191.620 (13,1%) 187.600 (12,9%)Mondo 1.458.200 (100%) 1.443.600 (100%)
Fonte: WTO
50
L’ideologia liberista del WTO e la sua mancanza di democraticità hanno
dimostrato ancora una volta i suoi limiti. Si avverte, quindi, la necessità di un
restringimento delle sue competenze e una maggiore trasparenza e democraticità
del suo operato; bisogna, però, anche tener presente che se non ci fosse il WTO
rimarrebbero solo gli accordi tipo l’ALCA (il trattato di libero scambio per le
americhe) o gli accordi bilaterali fra paesi a regolamentare gli scambi.
Infine, per quanto riguarda l’introduzione degli standard sociali sì e fatto
rinvio, ancora una volta, alla Conferenza di Singapore del ’96.
Concludendo, si può affermare che il voler proporre un sostanziale legame fra
norme sociali e commercio internazionale, mediante l’introduzione della clausola
sociale negli accordi commerciali, oltre ad essere interpretato dai PVS in senso
protezionistico, con effetti d’aggravamento della loro situazione economica, non
risolve sostanzialmente il problema. Il compito di ricercare soluzioni atte a
facilitare il progresso economico e contemporaneamente il miglioramento delle
condizioni di lavoro, a livello mondiale, spetta all’ILO sia per la parte giuridica
sia per quella tecnica. Occorre, pertanto, effettuare gli sforzi necessari affinché
tutti i paesi che aderiscono all’ILO ratifichino le convenzioni finora emanate in
materia sociale e ne applichino concretamente i principi che si riferiscono ai diritti
fondamentali dei lavoratori.
1.6. Percorsi alternativi alla clausola sociale: i codici di
condotta
51
Il problema dei diritti dei lavoratori nel Sud del mondo non è certamente di
facile soluzione. Ma alle richieste di libertà e di maggior tutela si può comunque
rispondere in vario modo: anzitutto cercando di creare e rafforzare un
collegamento fra commercio e diritti, tentando di far imporre la clausole sociale
negli accordi commerciali internazionali, provando a costringere le imprese ad
adottare codici di condotta, attraverso i quali le multinazionali si impegnino a non
dare la produzione in appalto alle imprese che violano alcuni principi basilari
(quali: la libertà di associazione; la contrattazione collettiva; il lavoro minorile; il
lavoro forzato; la discriminazione razziale e, misure per garantire la sicurezza e la
salubrità nei luoghi di lavoro).
Dalla collaborazione tra organizzazioni dei consumatori, gruppi ambientali,
sindacati e organizzazioni del commercio equo, si è giunti all’elaborazione di una
serie di criteri sociali ed ecologici di cui si richiede il rispetto da parte delle
multinazionali. Ma, non si può pretendere che i paesi del Terzo Mondo
mantengano i salari e gli oneri sociali ad un livello accettabile se le aziende e i
consumatori nei paesi industrializzati non sono disposti a modificare le proprie
abitudini e a pagare prezzi giusti.
L’introduzione della clausola sociale, negli accordi commerciali, condurrebbe
a benefici innegabili dal punto di vista umano ma ci si deve chiedere se queste
clausole non siano il pretesto per far sparire dai mercati del nord i beni prodotti a
buon mercato nei paesi a basso salario, o ancora, quale efficacia possano avere le
52
clausole se non vengono dotate di un rigoroso sistema di controllo
nell’applicazione dei principi che contemplano.
Per alcuni prodotti, in particolare per quelli del settore alimentare, i problemi
sopra evidenziati sono stati risolti, in parte, con il marchio TransFair49 del
Commercio Equo. Tale marchio indicherebbe che è stato pagato un certo prezzo e
che sono stati rispettati standard minimi di natura sociale; la sua applicazione ai
prodotti non alimentari risulta comunque assai complessa e di non facile soluzione
in tempi brevi.
L’UE ha un grande ruolo da giocare nel guidare l’industria verso il rispetto
sociale ed ecologico della filiera produttiva, per esempio attraverso la
proposizione e istituzione di un marchio unico riconosciuto in tutto il mondo che
prenda in considerazione diversi aspetti: produzione biologica, dignità del lavoro,
trasformazione con metodi ecocompatibili, salute del consumatore, trasformazione
realizzata il più possibile in loco; ossia un marchio veramente eco-sociale.
La crescente partecipazione delle società multinazionali (e in minor misura
delle ONG), in qualità principali attori della globalizzazione sta assumendo nuove
dimensioni e comportando conseguenze sinora sconosciute. Le multinazionali non
possono più eludere le proprie responsabilità, denunciate da ONG e associazioni
dei consumatori, per quanto riguarda le scandalose condizioni di lavoro,
perpetrate dalle loro filiali o dai loro subappaltatori stranieri.
In tale situazione, i codici di condotta volontari stanno diventando un fattore
indicativo ai fini del rispetto dei diritti dell’uomo al lavoro. Nella realtà, i vantaggi 49 Cfr. Cap. II, paragrafo 2.6. e Cap. III, paragrafo 3.7.
53
comportati dai bassi costi della manodopera per i fornitori, colpevoli di pratiche
abusive, devono essere ormai controbilanciati dai costi imputabili ad un’eventuale
campagna di pubblicità negativa, nonché da quelli in termini di relazioni
pubbliche e di proteste dei consumatori50.
I codici di condotta51 se fossero pienamente attuati potrebbero rappresentare
una conquista, in quanto obbligherebbero le multinazionali ad assumersi
responsabilità, non solo nell’ambito dei loro investimenti ma anche rispetto alle
attività dei loro fornitori.
Naturalmente i codici non potranno avere un effetto positivo se le imprese
continueranno ad agire guardando soltanto al loro interesse e se continueranno ad
inserire principi molto blandi e standard inadeguati (come lo sono oggi). In molti
paesi i diritti fondamentali dei lavoratori non sono previsti ed è inutile che i codici
facciano riferimento alle leggi locali. In tal senso, il riferimento a leggi e
consuetudini locali sono soltanto uno stratagemma adottato per continuare a
produrre con profitti elevati.
Per essere davvero efficaci, i codici di condotta dovrebbero far riferimento
agli standard fissati dalle Convenzioni dell’ILO e dovrebbero far parte integrante
del contratto che la multinazionale stipula con i suoi fornitori.
I codici di condotta, comunque, anche quando comprendessero tutti i diritti
fondamentali dei lavoratori e fossero propriamente applicati e controllati in 50 www.manitese.it51 La proliferazione dei codici di condotta e la struttura del mercato in alcuni settori (catena di produzione estremamente segmentate con un gran numero di subappaltatori) rendono le condizioni per la realizzazione e il rispetto dei codici di condotta confuse. Siccome i subappaltatori lavorano per diversi committenti, utilizzano codici di condotta diversi secondo la linea di prodotti.
54
maniera indipendente, non possono rappresentare l’unica soluzione agli abusi
crescenti cui i lavoratori dei PVS sono sottoposti. Essi vanno soprattutto visti
come strumenti per garantire la libertà sindacale ed il diritto alla contrattazione
collettiva, che sono i veri strumenti che permettono ai lavoratori di difendere i
propri diritti.
Per mantenere un atteggiamento critico rispetto alla proliferazione di codici
di condotta e di altre iniziative sarebbe importante capire, da un lato i motivi che
spingono i promotori e dall’altro quelli che sono gli effetti nel conseguimento
degli scopi. Per fare un esempio, negli Stati Uniti l’80% delle più grandi società
hanno un codice di condotta, ma ognuno ha il suo. L’ILO, nel corso del 1998, ha
esaminato oltre 200 codici di condotta: meno del 33% fanno riferimento agli
standard di base dell’ILO, il 45% copre solo il lavoro infantile (ma con differenze
sostanziali sull’età minima) e solo il 15% fa riferimento alla libertà di
associazione52.
Bisogna poi tener presente che i codici di condotta non sono giuridicamente
vincolanti e quindi il nodo della questione della conformità con gli standard
sociali non viene eliminato. Una semplice manifestazione di intenti non basta;
inoltre, è necessaria la standardizzazione fatta all’interno di una struttura che
garantisca la trasparenza e la credibilità.
1.6.1. Codici di condotta per le imprese europee operanti nei paesi in via
di sviluppo52 EFTA, Rapporto sul commercio equo, 2001-2003, Bolzano, Ctm altromercato, pag. 55.
55
Da più parti emerge l’esigenza di controllare l’impatto sociale, economico ed
ambientale delle multinazionali, considerati i principali attori del nuovo scenario
economico mondiale. Per questo negli ultimi anni si è intensificato il discorso sui
codici di condotta, volti a disciplinare l’attività delle multinazionali, viste anche le
crescenti ripercussioni del commercio internazionale sui PVS e l’interazione fra
investimenti esteri e processo di sviluppo.
In tale dibattito si inserisce la risoluzione A4-508/98 approvata dal
Parlamento Europeo il 15 gennaio 1999 “Sulle norme comunitarie applicabili alle
imprese che operano nei PVS: verso un codice di condotta europeo”53.
I punti principali, del testo della risoluzione, mettono in evidenza sia il ruolo
dell’UE in qualità di donatore di aiuti allo sviluppo, sia la preoccupazione per i
casi in cui l’intensa concorrenza per gli investimenti e la mancata applicazione di
regole internazionali hanno portato a casi di abusi commessi da imprese,
specialmente nei paesi in cui i diritti umani non sono rispettati.
Viene ad essere rilevato come nessuna impresa societaria debba trarre profitto
dai vantaggi competitivi che risultino dal mancato rispetto dei diritti fondamentali
e dagli standard sociali e ambientali; chiarisce, inoltre, che l’approccio volontario
o quello vincolante verso la regolamentazione delle imprese non si esclude a
vicenda.
53 Un codice di condotta europeo per le imprese che operano nei PVS, febbraio 1999 in www.manitese.it
56
Meritano una particolare attenzione i punti 1, 3, 4, 6, 8 della risoluzione; nello
specifico:
- nel punto 1 vengono incoraggiate le iniziative volontarie adottate dalle
imprese, sindacati e ONG, volte a promuovere codici di condotta dotati di un
seguito e di controlli efficaci e indipendenti, nel contempo si sottolinea, che i
codici di condotta non possono sostituire o rimuovere le normative
internazionali e le responsabilità proprie dei governi, né che gli stessi debbano
essere strumentalizzati per sottrarre le imprese multinazionali ai controlli
pubblici e giudiziari;
- ai punti 3 e 4, dopo aver tenuto presente che il contenuto di un codice e del
suo processo di elaborazione devono coinvolgere quanti nei PVS sono da essi
interessati, si sottolinea come una particolare attenzione debba essere attribuita
all’applicazione dei codici per quanto riguarda i lavoratori del subappalto e,
soprattutto, per quanto concerne il riconoscimento del diritto a formare
sindacati indipendenti dei lavoratori;
- il punto 6 evidenzia il ruolo propulsivo che le imprese devono svolgere nel
processo di sviluppo delle aree interessate, più dettagliatamente si parla di
sviluppo economico e sociale nel rispetto degli orientamenti definiti dalle
autorità pubbliche competenti;
- infine è degno di nota il punto 8, in cui si raccomanda che il codice, modello
di condotta per le imprese europee, comprenda alcune norme internazionali
minime in materia di diritti umani, diritti dei lavoratori e requisiti ambientali.
57
1.6.2. Il sistema di etichettatura sociale: SA 8000
Il sistema di verifica sulla responsabilità sociale, Social Accountability
(SA800054), è uno standard volontario predisposto nel 1997 dal “Council on
Economic Priorities Accreditation Agency” (poi mutato in Social Accountability
International) e si basa su un processo indipendente di verifica per la protezione
dei diritti dell’uomo. La particolarità di tale standard è data dal riferimento sia alle
convenzioni dell’ILO, sia alla Dichiarazione universale dei diritti umani e sia,
infine, alla Convenzione sui diritti del bambino.
Lo standard mira essenzialmente a garantire i diritti di base per i lavoratori,
attraverso quella che viene ad essere considerata una produzione etica, per quelle
imprese (di qualsiasi dimensione) che ne possono beneficiare. SA8000 può essere
applicato a tutte le imprese di qualsiasi settore e in tutti i paesi, ma non si applica
ai lavoratori a domicilio.
54 Si tratta dell’equivalente etico dello standard di qualità ISO 9000 e dello Standard ambientale ISO 14000.
58
In Italia, le iniziative sorte intorno alla problematica dello sfruttamento del
lavoro minorile, sono culminate nell’approvazione da parte della X Commissione,
del testo base della legge “il marchio di certificazione di conformità sociale per le
imprese che non utilizzano il lavoro minorile”, del 23 gennaio 2001.
Purtroppo, il testo, in alcuni punti è molto generico, anche se resta molto più
efficace rispetto a quello approvato nel giugno ‘99. Non si occupa del solo lavoro
infantile, ma le convenzioni internazionali di riferimento sono tutte quelle relative
a: “libertà di associazione, riconoscimento effettivo del diritto alla contrattazione
collettiva, eliminazione di ogni forma di lavoro forzato e obbligatorio,
eliminazione della discriminazione in materia di impiego e professione” e che si
occupano di “diritti civili e politici, diritti economici, sociali e culturali, contro la
tortura ed ogni altro trattamento crudele, inumano e degradante, e in materia di
eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne, di discriminazione
razziale e di tutela dei diritti dei minori”.
Viene ad essere istituito un marchio di qualità sociale limitato al solo lavoro
infantile. Il marchio è concesso alle aziende che ne facciano richiesta, da parte di
società di certificazione accreditate dal Ministero dell’Industria; lo schema è
quello della SA8000.
I problemi principali di SA8000, relativi alla segretezza del rapporto privato
tra controllato e controllore, sono presenti anche nel testo della legge italiana;
inoltre manca un ente incaricato di gestire il marchio e accogliere eventuali
reclami. Le aziende dotate del marchio, che si applica non solo ai singoli prodotti
59
ma a tutta la produzione, sono favorite nell’assegnazione delle sovvenzioni statali
per le imprese. L’uso improprio del marchio diventa reato penale e anche
l’azienda certificatrice può subire sanzioni. La parte più interessante della legge è
l’assegnazione di compiti nuovi all'Antitrust che viene chiamata ad occuparsi
anche delle “violazioni dei principi e delle regole della libera concorrenza
connesse al mancato rispetto, in Italia o all'estero, dei fondamentali diritti umani,
economici, sociali e sindacali, indicate nelle convenzioni internazionali ratificate
dall'Italia”. L’Antitrust si avvarrà dei suoi normali poteri, tra i quali quello di
svolgere indagini e comminare multe; gli atti sono coperti dal segreto d’ufficio,
ma le decisioni finali sono pubbliche.
È creata, infine, una consulta sul tema della conformità sociale dei prodotti,
col compito di organizzare campagne pubbliche di informazione, di cui fanno
parte i rappresentanti dei ministeri, dei sindacati, degli industriali ed anche delle
associazioni di volontariato.
Il metodo prescelto per combattere il fenomeno del lavoro minorile, così
come emerge dal testo, si orienta dunque verso una duplice direzione: i marchi e i
disincentivi.
Da un’indagine condotta da Gpf & Associati, nel 2001 (vedi fig. n. 4),
emerge che uno dei criteri di scelta dei consumatori è rappresentato dall’eticità, in
senso lato, del consumo stesso, cioè dalla sua capacità di accordarsi a principi di
responsabilità sociale.
60
Nell’impatto ambientale delle produzioni e nelle relazioni con il territorio,
nelle politiche occupazionali come nei rapporti con i fornitori, nella correttezza
comunicativa e nei principi che ispirano la cultura aziendale, all’azienda viene
richiesto oggi di farsi carico non solo di un rapporto a due con il consumatore , ma
anche di quelle esternalità sociali che questo rapporto determina.
Altrettanto vistosa è la penalizzazione di quei consumi e di quei
prodotti/marche (o interi Paesi) il cui operato si scontra con tali principi di etica: si
pensi, ad esempio, alle campagne di boicottaggio.
Figura n. 4 - Parametri in base ai quali i consumatori sono disposti a pagare un
prezzo più alto
Fonte: Largo Consumo n. 9/2001Il campione preso in considerazione dalla Gpf & Associati è stato di 2.500 unità (popolazione italiana 15-74 anni)
La fenomenologia etica del consumo assume comunque un aspetto graduato.
Se ci si limita a osservarne le espressioni più visibili, si va dalle iniziative di
imprenditorialità sociale esplicitamente etiche (come in Italia la Banca etica o il
61
marchio Altromercato dei prodotti del commercio equo) a quelle delle aziende che
operano a favore di cause sociali, spesso in una logica di partnership con
associazioni non profit.
L’attenzione etica dei consumatori rispetto a prodotti e aziende nasce dalla
crescente sensibilità rispetto alle implicazioni sociali dei consumi sia dalla
consapevolezza della possibilità di influenzare con i propri comportamenti tali
conseguenze. Questa stessa sensibilità etica che fatica a manifestarsi in forma
alternativa (attraverso l’impegno politico, culturale, sociale) trova così oggi nei
processi di consumo una realizzazione plausibile: aproblematica, poco
impegnativa, rapida, relativamente efficace e misurabile).
1.7. Le facilitazioni offerte ai paesi in via di sviluppo dal
sistema comunitario delle preferenze tariffarie
generalizzate
62
L’insieme delle facilitazioni commerciali55 che l’UE concede agli stati,
richiedono il rispetto di talune norme ambientali e sociali relative, in particolare,
ai diritti di organizzazione e alla negoziazione collettiva, nonché all’età minima
per accedere al lavoro (clausola sociale d'incentivazione: articoli 7 e 8 dei
regolamenti n. 3281/94 e n. 1256/96 del Consiglio).
E anche prevista la possibilità di un ritiro, totale o parziale, dei benefici del
SPG, nei confronti dei paesi che praticano la schiavitù o esportano prodotti
fabbricati in penitenziari (clausola sociale punitiva: articolo 9 del regolamento n.
3281/94 e n. 1256/96 del Consiglio).
L’UE, attuando un attraente dispositivo di stimolo tariffario per favorire il
rispetto delle norme sociali internazionalmente riconosciute, desidera
(chiaramente) inviare un importante segnale politico ai PVS, rassicurandoli sulla
volontà non protezionistica della sua posizione. Per stimolare i produttori dei PVS
a conformarsi con le norme sociali fondamentali dell’ILO, nonché con quelle in
materia di tutela dell’ambiente dell’Organizzazione internazionale delle Foreste
Tropicali (OIFT), il regime commerciale introdotto con il regolamento n. 1154/98
include sostanziali concessioni tariffarie, prevedendo, in particolare, che quelle sui
55 Anche gli Stati Uniti hanno adottato (sin dal 1976) un sistema generalizzato di preferenze attraverso il quale è concessa l’importazione senza imposizione tariffarie di una certa quantità di beni provenienti dai PVS, a condizione che i paesi esportatori rispettino i diritti dei lavoratori internazionalmente riconosciute.In questo quadro, occorre anche segnalare un’iniziativa di cui il Governo italiano è partecipe insieme ad altri sette paesi nord-europei, con i quali ha sottoscritto una convenzione per la costituzione di un centro di assistenza legale per i PVS con un contributo per ciascun paese di un milione di dollari. Tale tipo di assistenza è particolarmente importante per i PVS, perché consente loro di implementare gli accordi che via via vengono definiti e, allo stesso tempo, di non subire le regole della globalizzazione ma di esserne parte attiva.
63
prodotti industriali raddoppino il margine preferenziale accordato rispetto al
regime SPG di base (15% per i prodotti molto sensibili, 25% per i prodotti
sensibili, 35% per i prodotti semi-sensibili). Per quanto riguarda i prodotti agricoli
e della pesca, il regime di incentivazione aumenta di quasi due terzi il margine
preferenziale (10% per i prodotti molto sensibili, 20% per i prodotti sensibili, 35%
per i prodotti semi-sensibili). Le due clausole, quella sociale e quella ambientale,
sono inoltre cumulabili, nonostante nel caso dei prodotti molto sensibili l’effetto
cumulativo sia sempre limitato al 40%.
Al di là delle accuse di protezionismo, l’attuazione dei regimi speciali di
incentivazione alla tutela dei diritti dei lavoratori e alla protezione dell'ambiente
ha avuto il merito di fungere da base per una riflessione più ampia e per un
approccio molto più positivo della relazione fra il commercio internazionale e le
norme di lavoro e ambientali. D’altronde, il rifiuto dei PVS di riconoscere la
vincolatività delle norme sociali potrebbe a medio termine danneggiare la loro
immagine e, di conseguenza, quella dei loro prodotti presso i consumatori.
1.8. Il commercio equo e solidale come alternativa alle
distorsioni del commercio mondiale
Tra le finalità della WTO si annovera quello di “elevare il tenore di vita e
garantire la piena occupazione consentendo un utilizzo ottimale delle risorse
mondiali in conformità con l’obiettivo dello sviluppo sostenibile, nell’intento di
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proteggere e preservare l’ambiente in modo compatibile con le esigenze delle
nazioni nei diversi stadi dello sviluppo economico; si riconosce, inoltre, che
occorrono sforzi positivi per ottenere che i PVS possano partecipare alla crescita
del commercio internazionale in proporzione alle necessità del loro sviluppo
economico”.
E’ innegabile che gli scambi commerciali rappresentano una fonte essenziale
di ricchezza ma l’istituzione di un sistema commerciale più liberale ha tuttavia
sollevato dubbi sulla capacità dei PVS di beneficiare appieno di questo ambiente
commerciale più aperto. Per questo motivo, il presupposto fondamentale che il
Commercio Equo e Solidale (com.e.s.) si propone è quello di consentire ai
produttori dei PVS di cogliere le opportunità offerte dalla mondializzazione del
commercio e di trarne profitto, proponendo una nuova idea di commercio
responsabile e sostenibile. Tenendo presente che le attuali strutture commerciali
internazionali continuano ad essere profondamente ingiuste, perché consentono ai
PVS di esportare in ampia misura prodotti primari per la trasformazione nei paesi
industrializzati, dove viene apportato gran parte del valore aggiunto, il com.e.s.
può essere considerato uno strumento per favorire lo sviluppo dell’uomo
promuovendo regole internazionali in materia economica e commerciale ispirate a
maggior giustizia ed equità tra Nord e Sud. Il com.e.s. considera le condizioni
sociali ed ambientali, importanti fattori che determinano la qualità della vita e li
considera fattori indispensabili dello sviluppo.
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Partendo da tali presupposti, e in maniera estremamente sintetica, si può
evidenziare come il principale obiettivo del com.e.s. a breve termine sia quello di
fornire maggiori opportunità ai piccoli produttori e ai lavoratori dei PVS
apportando, in tal modo, un contributo alla promozione di uno sviluppo sociale ed
economico durevole per le popolazioni. A più lungo termine gli obiettivi sono
quelli di orientare il sistema commerciale internazionale in un senso più equo.
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