ai deboli, agli insicuri, agli indifesi

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Ai deboli, agli insicuri, agli indifesi

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PUNTO G

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I fatti e i personaggi di questo romanzo sono frutto della fantasia dell’autore.

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COSIMO ARGENTINA

MASCHIO ADULTO SOLITARIO

Manni

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Page 4: Ai deboli, agli insicuri, agli indifesi

2008 Piero Manni s.r.l.Via Umberto I, 51 - San Cesario di [email protected]

www.mannieditori.it/puntog/index.htmwww.cosimoargentina.com

Quest’opera è stata rilasciata sotto la licenza Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia.Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.

Copertina di Vittorio ContaldoProgetto grafico di Giancarlo Greco

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Facit indignatio versumGiovenale, Satire

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PRIMA PARTE

L’anima deve scegliersi le fogne adatteper liberarsi dei propri escrementi.

Friedrich Nietzsche

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Il capitano mi odiava e Sara era morta, ecco perché al primo48ore marcai visita e mi feci ricoverare nell’ospedale militare di Ta-ranto.

Il capitano Corva poteva sembrare uno di quei personaggi dacolonia africana, con la facciona sudata, i piedi ficcati in scarpe sfor-mate e indurite e un ghigno che gli teneva sollevato in perpetuo illato destro della faccia. I suoi ordini erano insugati con frasi finalitipo “e adesso vai fuori dei coglioni” oppure “ora sparisci, pezzo diidiota”.

A ’sto capitano stavano sulle scatole tutti i soldati e in particolarmodo i diplomati, i laureati e i tarantini. I tarantini non li potevasopportare per via del fatto che, diceva lui, se la credevano e snob-bavano i suoi luoghi natii. Veniva da un paese di spostati, il capita-no, un paese dell’entroterra leccese, Patù, si chiama. In quella zonatutti i soldi del mondo non erano riusciti a togliere il puzzo di pe-cora e terra marcia dalla pelle degli indigeni. Sterrati rossi e landeimpolverate si susseguivano e in giro solo foglie di tabacco lasciatea essiccare, pagine di Intimità bagnate dall’acqua putrida dei sotto-vasi e ruote di carro con i raggi occupati da trecce di peperoncinorossoverde. Non c’era verso di trovare altro, da quelle parti. Lì lagente aveva un senso rusticano del sesso, mangiava roba genuina eaveva il meglio della vita, a sentir loro, perché non conosceva l’ariainvelenita dalle fabbriche e male che gli andava poteva sempre rag-giungere un parente a Brema e sposarsi con una tedesca rimbambi-ta mostrando i peli del petto o il sorriso dai denti d’oro che si por-tava in bocca.

Con me Corva ce l’aveva in modo particolare per una storia difucili e prosciutti.

Quel pomeriggio ero di guardia e la cosa non era strana: monta-vo su un’altana un giorno sì e uno no perché ero l’unico sbulinatoche preferiva farsi le guardie piuttosto che le corvè.

Così ogni giovedì che mi ritrovavo a passare in altana vedevo

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Corva entrare con la sua ford metallizzata, aprire i magazzini disussistenza e vettovagliamento che lui gestiva insieme a due mare-sciacalli, il gatto e la volpe, e prelevare cinque, sei prosciutti interiinteri ancora nell’involucro di plastica, infilarli nel cofano e andarevia a venderseli o a regalarli a qualche puttana che gliela dava.

Un giovedì non sono in altana ma in garitta, o meglio, sono die-tro una ventina di sacchi pieni di nulla e dentro quattro tavole tipobara verticale ché l’altana è stata dichiarata pericolante.

Fa abbastanza caldo, io picchio i talloni uno contro l’altro e ascol-to musica rock con una radiola tascabile. Lui, Corva, arriva con la suataunus, attraversa il cortile disegnando una curva fa’ che si è andatoa ficcare in un film americano e si ferma davanti alla porta del magaz-zino di sussistenza e vettovagliamento. Subito escono i suoi bravi. Ilgatto, un uomo grasso e coi capelli che gli sono rimasti in testa a cioc-che, la pelle bianca e il dito anulare sinistro oramai collassato dalla fe-de nuziale. La volpe, il degno compare, sui venticinque anni ma giàvecchio, il fedelissimo di Corva, incartato nella sua pelle devastatadall’acne, completamente pazzo, infantile direi, foderato nel suo su-dore con la drop che diventa una specie di scafandro per i licheni chegli crescono sul corpo. I due sono devoti a san Corva. Il ciccione se-condo me se li scopa pure. Già li vedo, chiusi nel magazzino: lui chesi spoglia e il suo quintale e due che deborda da tutte le parti e la vol-pe che gli si ficca sotto e allora via con un sandwich di carne marciacome in una scena da film dell’orrore di serie c.

Quel giovedì insomma ero dietro ai sacchi e ascoltavo musica eguardavo il perimetro del cortile. Non c’era altro da vedere. Erostordito da una dose doppia di cordiale e avevo da poco mandatoaffanculo il caporalmaggiore al posto di caricamento. Lui mi avevafatto posare il garand sulla doppia forcella e giù co’ ’sti cazzo di or-dini: indietro il meccanismo di riarmo, sicura, innestare il pacchet-to eccetera eccetera.

«Oh Terremoto, lo sai che m’hai rotto il cazzo co’ ’ste fesserie?…che uno deve farsi pure ’sta procedura prima e la guardia dopo…adesso metto il colpo in canna, ti do mazzate e me ne vado affancu-lo al posto di guardia…»

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A Terremoto lo chiamavamo così perché in bocca teneva i dentimessi a casaccio, alla rinfusa, tanto che parevano un palazzo dopoun terremoto.

Quando avevo visto la taunus di Corva avevo capito che era peri prosciutti e tanto bastava. Lo sapevo e non me ne fotteva un eme-rito; lo sapevo, sapevo che noi in mensa mangiavamo mortadella del1967 e lui si sbafava il prosciutto serio, alla spagnola, ma erano ro-gne degli altri; per me potevo diventare musulmano con una dero-ga speciale per un goccio di birra o altra bevanda alcolica di tantoin tanto.

Ma a Corva tutto questo non bastava. Lui è uno di quei ladri ba-stardi che rubano e pretendono che tu gli sorridi pure, davanti, e ticompiaci e fai una faccia fa’ che stai pensando che lui sì che è un drit-to. Devi sorridere, devi assumere quell’espressione da spastico chepoi significa: “Cacchio, quello sì che è un uomo… trafuga prosciut-ti in pieno giorno dall’amministrazione dello Stato quando io nonsono stato in grado neanche di sgamare una guardia.”

Corva dunque apre il bagagliaio e i maresciacalli gli portano iprosciutti e io me ne sto lì ma commetto un errore. Osservo i toc-chi di carne rosa e rossa ricca di venature e poi incrocio gli occhi diCorva amplificati dai suoi spessi occhiali bifocali. E Corva nel miosguardo ci legge tutto. Ci legge il mio alto disprezzo per gli uomi-ni in generale e per lui in particolare; ci legge la mia razza superio-re perché io magari un panino col prosciutto me lo posso scordarema sono un’aquila reale e lui invece è una mosca che atterra dovedeve atterrare. Io in realtà lo sto guardando solo perché è l’unicoelemento semovente in un raggio di centocinquanta metri ma lui, ilcapitano, va oltre e per questo si avvicina mentre i due maresciacal-li si appoggiano alla portiera della taunus e prendono a rosicchiarsile unghie, con la volpe che spinge di lato il gatto e quello che sghi-gnazza e restituisce il colpo. Il capitano intanto avanza a soffertefalcate nella polvere del cortile della bandiera; avanza verso di me.Il suo faccione gronda sudore settembrino e si dilata e contrae co-me un universo di spazzatura galattica. Arriva a pochi metri dallapostazione e io lo saluto.

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«’Giorno… signore…»«Signore? Hai le visioni? Vedi il Signore da qualche parte?»«Volevo dire signor capitano…» faccio e rinculo cercando a ten-

toni il fucile che prima ho poggiato a uno dei tavolacci della garitta.In quell’istante davanti alla porta carraia spunta uno dei pianto-

ni intento ad abbottonarsi i calzoni. Fa’ che sentono l’odore dellecazziate, ’sti qui, e come sorci affamati di spettacolo spuntano fuo-ri a ogni occasione. E questa è un’occasione d’oro.

«Come ti chiami, soldato?»Lo sa, è ovvio.«Soldato semplice Colombia Dànilo, signore… signor capitano.»E lui, per farla breve, s’incazza e mi mitraglia dieci giorni di con-

segna a causa del fucile fuori posto, del mio contegno contrario alregolamento e dell’obbligo disatteso di non far avvicinare chicches-sia all’ingresso dell’armeria. L’armeria è solo una stanza con otto fu-cili scassati, due pistole che utilizziamo come martelli e un depositodi munizioni che usiamo per giocare a carte dopo il contrappello.

Corva mi punisce per tutto questo ma io leggo un altro piano didialogo; le sue parole vanno, ma i suoi pensieri sfuggono e plananoin una palude pestilenziale, mi si incollano alla pelle e mi strillanodietro “cazzo avevi da guardare, i prosciutti… quelli non li devineanche pensare… quelli non esistono per te, pezzente, per te sa-rebbero roba sprecata, buffone…”.

Ma anch’io, sugli attenti, riesco a rispondergli a tono con unaparte nascosta del cervello e quello che gli dico non gli piacerebbe.Quello che sentirebbe è: “Priso dimmerda, sono quelli come te chemandano ammale le cose, tutte le cose. Sono i pidocchi della tua ri-sma che inquinano l’aria. Quelli come te mi fanno vomitare e iospero che tu possa strozzarti con un pezzo di prosciutto che ti de-ve restare incastrato in gola in modo da poter vedere il tuo lardosocorpo sfatto in un mattatoio dove due macellai armati di mannaia esega a nastro cercano di sbudellarti per tirarti fuori il tocco di car-ne che t’ha mandato all’inferno.”

Alla fine raccolgo il fucile e mi sistemo dietro i sacchi ma lui nonè contento e prima mi sequestra la radiola, dopodiché mi ordina di

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smontare il fucile per poter vedere il grado di ripulitura dell’arma.E vi giuro su quella santa donna di mia nonna che quel fucile è unafogna e non per colpa mia bensì perché è quello che usiamo di piùdurante le guardie. E la voce melliflua di Corva sguazza in quel lor-dume con la frase finale che diventa il testamento spirituale di unanno di caserma.

«Lei è un soggetto da tenere d’occhio, Colombia, a lei io spac-cherò il culo, ecco cosa farò, e sverginato a dovere farò uscire l’uo-mo da un teppista da quattro soldi.»

Da quel momento Corva non mi diede tregua.Mi ordinava di andare a prendere una bottiglia d’acqua mentre

cercavo di far salire la temperatura della caldaia centrale che finivaper spegnersi; mi ordinava di pulire gli uffici consegnandomi di fat-to nelle grinfie della signorina Adelina Rotunno; mi negava i per-messini mattutini per poter vedere Sara e mi negava le licenze bre-vi per tornare a Taranto.

Di solito quando mi chiamava stava nel suo ufficio. L’ufficiomagazzino aveva una stanza arredata con una scrivania e due ta-volinetti modello dazio tropicale e due scaffali pieni di scartoffiemesse a bella posta per far vedere che lì si lavorava. Nel retro siapriva il magazzino vero e proprio con il salone che si interrom-peva davanti a un muro con un’enorme porta a scomparsa che im-metteva in un altro salone e così via per ben tre volte. Nel magaz-zino c’erano, messi alla rinfusa, tutti i generi alimentari immagi-nabili, ma l’odore che prevaleva era quello dell’olio versato sullacarta di giornale e quello del baccalà sottosale. Anche il puzzo delformaggio spuntato era opprimente e il gatto e la volpe se lo por-tavano dietro. Corva, lui puzzava anche di aglio. Quando mi con-vocava si toglieva gli occhiali, si strofinava gli occhi bovini coidorsi di entrambe le mani e poi puliva le lenti con un fazzoletto distoffa bianca.

Mentre prorompeva con le richieste più assurde – vammi a pren-dere le ordinazioni del consiglio di leva. Ma ce le ha davanti. Ah, già,allora vai fuori dai coglioni – i due maresciacalli sghignazzavano ad-dossandosi l’uno all’altro. Soprattutto la volpe, con i suoi modi uri-

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cemici, mi sorrideva e poi sollevava le spalle come a dire “è lui il ca-po, qua” e poi dava di gomito al compare e scoppiavano a ridere tut-t’e due come scarti cerebrali. A volte il gatto succhiava uno zipperodi liquirizia, rideva e i capelli attaccati a ciocche gli cadevano e lui siintristiva di colpo e stava a guardarli come se gli fosse morto un pa-rente. Corva invece gestiva la situazione con falsa gentilezza.

«Colombia, io chiamo sempre te perché di te mi fido, non sei co-me questi due» e a quel punto di solito lanciava contro le faineun’agenda o un pezzo di sapone che non era riuscito a rubare. «Tusei uno istruito. Hai fatto le scuole superiori, no?»

Certo che le avevo fatte. Liceo, perdiana. Cinque anni, due ri-mandature, un pompino in quarta da una compagna di scuola, unamedaglia per una campestre, medaglia mai ritirata perché il profes-sore di ginnastica se l’era venduta, un esame messo di sghimbescioe un 45 sessantesimi sott’all’osso.

Fatto sta che Corva dopo la storia dei prosciutti e del fucile mielesse a vittima prediletta delle sue torture quotidiane.

Per fortuna fuori c’era la notte fresca, una città anonima e mu-scolare come Bari e c’era soprattutto Sara, anche se, ad essere sin-ceri, la prima barese che mi prese per il manico fu la signorina Ro-tunno, in ufficio maggiorità, lì al primo piano.

Questa signorina era una delle poche civili che lavoravano in ca-serma. Lei era la segretaria del responsabile dell’ufficio leva ma da-va una mano anche in maggiorità. La signorina Rotunno era unasorta di lungo ago ipodermico su cui la mattina qualcuno posavauna gonna, una camicetta e due file di perle col gancetto mezzo rot-to. Quest’ago si trascinava sulla testa una parrucca riccia biondicciae una maschera di carnevale raffigurante la ruga in tutte le sue com-binazioni. Aveva la voce stridula, la signorina, e le ossa delle maniormai prevalevano su pelle e carne tanto che stringerle la mano eracome essere al proprio turno di battuta in un torneo di shangai. Acinquantacinque anni la signorina Rotunno aveva smesso di colti-vare velleità matrimoniali. Prima, all’inizio della carriera, aveva cer-cato di accasarsi con qualche generale con greca e stellette bordatedi rosso; verso i trentacinque avrebbe accettato una mano sul culo

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da qualunque ufficiale sotto i cinquanta; dieci anni dopo si era con-vinta che valesse la pena assecondare i pruriti di qualunque sottuf-ficiale single o ammogliato che fosse, compresi i marescialli a tre bi-nari che si portavano dietro rivoltanti pance alla Corva. Ora, tra-sformata in un direttissimo destinazione sessanta, chiamava i solda-ti segaioli nel suo ufficio, li faceva mettere a torso nudo con la scu-sa di evitare che si sporcassero, e gli faceva lavare i pavimenti una,due, mille volte mentre lei si strofinava l’ossobuco contro lo spigo-lo di qualche scrivania oppure tentava di sedurre i messi peggio conla promessa di una licenza.

Io feci la conoscenza dell’orrore delle sue mani un pomeriggio. Corva mi aveva fatto pulire e ripulire i cortili sotto le raffiche di

un vento che portava lì tutte le foglie di Bari e provincia. Alla fine,vedendomi andar via stanco e sudato in direzione delle camerate,mi aveva dirottato negli uffici del primo piano del padiglione uno.Il padiglione uno era il primo entrando nella caserma; la casermaaveva quattro padiglioni e due cortili, quello della bandiera e quel-lo d’ingresso, ma il collegamento tra i due cortili era così ampio chea guardar bene si poteva dire che il cortile era uno solo con unastrozzatura al centro. Purtroppo però i militari son fatti così: devo-no dare un nome e una funzione pure al singolo acaro che se ne staaggrappato alla polvere da sparo di un qualunque deposito muni-zioni, e allora ecco due nomi, e non tre, solo perché nessuno avevanotato una rientranza nel cortile della bandiera che utilizzavamocome posto di caricamento.

La signorina Rotunno mi disse che c’era da spostare una scriva-nia e un archivio metallico per poter dare una ripassata al pavimen-to negli angoli che di solito venivano trascurati.

Quel pavimento alla fine avrei imparato a conoscerlo come lemie tasche: potrei contarvi di ogni crepa, graffio o sbrecciatura diogni singola mattonella romboidale bordeaux e giallo avorio spor-co che ho dovuto sgurare settimana dopo settimana.

Sicché sono a petto nudo con su i pantaloni della mimetica ver-de e sto versando acqua a terremoto per poi asciugare tutto con lostraccio quando lei mi porta un bicchiere d’acqua gelata.

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