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UDIENZA PUBBLICA Campobasso, 16 febbraio 2018
RELAZIONE DEL PRESIDENTE TOMMASO VICIGLIONE
SEZIONE GIURISDIZIONALE
PER LA REGIONE MOLISE
INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO 2018
“Imperare sibi maximum imperium est” Lucio Anneo Seneca [Lettere a Lucilio,CXIII.30]
“Sapiens, ut loquatur, multo prius consideret” San Girolamo – Sant’Ambrogio, De Officiis, I/1,10,35 [PL 16,33d
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Indice
pagina 1. Introduzione ………………………………………………………………..…………… 3 2. Attività della sezione giurisdizionale per la Regione Molise ………………………........ 7 2.1 I giudizi maggiormente rilevanti in materia di responsabilità e aggio…………...… ... 7 2.2 I giudizi maggiormente rilevanti in materia di conti giudiziali……………………… 35 2.3 I giudizi maggiormente rilevanti in materia pensionistica ………….……….………. 41 3. Rassegna della giurisprudenza contabile nel 2017………...…………….…………….. 51 3.1 Le Sezioni Riunite in speciale composizione sulla natura e le finalità della giurisdizione contabile nell’ambito dei giudizi di impugnazione degli elenchi ISTAT……….………….... 51 3.2 Le Sezioni Riunite in speciale composizione in tema di rinuncia agli atti nei giudizi ad istanza di parte ed il ruolo del Pubblico Ministero contabile…………………………...…… 51 3.3 La Prima Sezione d’Appello fa il punto sulla fattispecie di cui all’art. 53, comma 7 del Testo Unico sul pubblico impiego………………………………………………...………….. 54 3.4 Le Sezioni Riunite in sede giurisdizionale a proposito dell’indebito pensionistico: recupero, regime degli interessi e trasmissibilità agli eredi della relativa obbligazione restitutoria………………………………………………...………………………………..…. 56 4. Interventi giurisprudenziali e normativi che hanno riguardato la Corte nell’anno 2017…………………………………………………………………………………………….. 63 4.1 La Corte di Cassazione conferma la giurisdizione contabile sui giudizi di impugnazione dell’elenco Istat delle Pubbliche Amministrazioni e ne definisce le finalità……………………………………………………………………………......……….. 63 4.2 Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano le prime questioni attinenti alla delimitazione della giurisdizione contabile in materia di società partecipate pubbliche....... 65 4.3 Brevi cenni in ordine alle novità introdotte dal D. lgs. n. 100/2017 in materia di società partecipate pubbliche………………………..………………………………………. 67 4.4 Il Legislatore interviene nuovamente sulla responsabilità medica: la legge Gelli-Bianco e gli aspetti di interesse per la giurisdizione contabile……………………….……..………. 68 4.5 La Corte di Cassazione apre l’ordinamento alla figura del danno punitivo…..……. 69 4.6 La Corte Costituzionale torna sul meccanismo di cd. perequazione automatica delle pensioni………………………………………………………………….………..…………… 74 5. Considerazioni conclusive………………………………………………..…………… 83 6. Quadri statistici …………………………………………..…………………………… 89
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1. Introduzione
Il Consiglio di Presidenza di questa Corte, con la deliberazione n. 210 in data 25 novembre
2016, ha approvato – in sostituzione della disciplina dettata con la precedente deliberazione
n. 425/CP/2005 – le linee guida sullo svolgimento della cerimonia di inaugurazione dell'anno
giudiziario innanzi alle Sezioni Riunite ed a quelle giurisdizionali regionali della Corte
medesima.
Con detta deliberazione si dispone, in particolare, quanto segue:
“6. In sede regionale compongono il Collegio il Presidente e tutti i magistrati assegnati alla
Sezione giurisdizionale o che comunque abbiano integrato il Collegio nell'anno precedente per
almeno cinque udienze.
7. Il Presidente della Sezione giurisdizionale svolgerà la relazione, redatta nella forma scritta e
previamente scambiata, con reciprocità, con il Procuratore regionale, contenuta nei limiti di 30
minuti, che sarà, poi, inviata al Consiglio di presidenza. Tale relazione illustrerà l'attività della
Sezione medesima con cenni agli interventi legislativi e normativi che hanno riguardato la Corte
nell'ultimo anno e con l'eventuale indicazione di indirizzi giurisprudenziali di particolare rilievo.
8. Seguiranno le relazioni del Procuratore regionale e del Presidente del Consiglio dell'Ordine degli
avvocati, nei limiti di 15 minuti ciascuna. La relazione del Procuratore regionale sarà redatta
nella forma scritta e sarà, poi, inviata al Consiglio di presidenza.
9. Seguiranno gli interventi, da contenere nei limiti di 10 minuti, del Presidente della Sezione
regionale di controllo, e da contenere nel limite di 5 minuti, del rappresentante del Consiglio di
presidenza della Corte dei conti e del rappresentante dell'Associazione Magistrati della Corte dei
conti.
10. Non sono consentiti interventi da parte dei rappresentanti delle Istituzioni locali.
11. Al Presidente della Sezione giurisdizionale è attribuita la funzione di disciplinare lo
svolgimento della cerimonia di inaugurazione nella massima sobrietà.
12. Il Presidente della Sezione medesima, al termine degli interventi, su richiesta del Procuratore
regionale, dichiarerà l'apertura dell'anno giudiziario.
13. In margine alla cerimonia sono consentiti contatti con la stampa, limitatamente a profili
istituzionali, coerenti con i contenuti trattati nella relazione …”.
Alla luce e con l’osservanza di dette disposizioni viene, dunque, disciplinato lo svolgimento
della presente cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2018 della Sezione
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giurisdizionale della Corte dei conti per la regione Molise, la quale, anche in ottemperanza a
quanto prescritto dalla summenzionata deliberazione, è improntata alla sobrietà e ad una
certa sinteticità degli atti, in coerenza, altresì, con il disposto del 2° comma dell’art. 5 del
Codice di Giustizia Contabile, approvato con Decreto Legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (il
quale statuisce che “Il giudice, il pubblico ministero e le parti redigono gli atti in maniera chiara
e sintetica”).
La presente relazione illustrerà, dunque, le più rilevanti questioni sottoposte alla cognizione
di questa Sezione giurisdizionale, nel corso dell’anno 2017, nonché le pronunce di maggior
rilievo definite a livello nazionale su argomenti o questioni di massima di più ampio respiro.
Le più significative riforme, coinvolgenti le funzioni di questa Corte, già avviate nell’anno
2016, hanno iniziato a manifestare i propri effetti nell’anno 2017, con ricadute su dinamiche
processuali e questioni sostanziali, che verranno illustrate in modo da valorizzarne il portato
innovativo e le eventuali problematiche applicative, con espressa salvezza degli indirizzi
interpretativi che la giurisprudenza si incaricherà di scolpire, sul campo, nell’esercizio della
sua attività ermeneutica sulla base del fatto narrato e, quindi, del caso concreto.
Verrà, altresì, effettuata una ricognizione dei più significativi indirizzi assunti dalla
giurisprudenza costituzionale, con riferimento al settore pensionistico, rientrante nella
giurisdizione di questa Corte, nonché dalla Suprema Corte di Cassazione, sia in ordine ai
limiti esterni della giurisdizione contabile, sia in merito a particolari figure dogmatiche, sulle
quali anche la giurisprudenza contabile è chiamata a sviluppare un’autonoma riflessione.
Quanto ai risultati dell’attività giudiziaria svolta da questa Sezione nel decorso anno, non ci
si può esimere dall’evidenziare come essi siano stati conseguiti nonostante le cospicue
ripercussioni generate, sul ruolo, dall’effettivo dimezzamento, fino ai primi mesi del 2017,
dell’organico del personale di magistratura, iniziato nella seconda metà dell’anno 2016.
Infatti, l’integrità del Collegio è venuta a ricostituirsi solo a partire dall’udienza di marzo
2017, tanto che si è dovuta rinviare, a seguito dell’interlocuzione con il Consiglio di
Presidente, un’intera udienza, all’inizio dell’anno, a causa della mancata disponibilità del
numero minimo di magistrati per la valida composizione del Collegio.
Quanto sopra rappresentato ha condotto la Sezione ad operare in condizioni di difficoltà
anche nell’ambito pensionistico, nel quale, tuttavia, per numero di provvedimenti, si è
pervenuti alla quadruplicazione del risultato del 2016.
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Nell’esercizio della funzione giurisdizionale in materia di contabilità pubblica, nel corso del
2017 (senza tener conto delle decisioni deliberate nell’anno ed in corso di pubblicazione nel
2018), a fronte di n. 109 giudizi in carico, la Sezione ne ha definiti n. 45, dei quali n. 2 con
procedimento monitorio e n. 22 con sentenza di condanna; i provvedimenti complessivamente
deliberati, in subjecta materia, compresi quelli non ancora pubblicati, ammontano dunque a
n. 61 (di cui n. 16 in corso di pubblicazione).
Per quanto più specificamente concerne il settore dei conti giudiziali, a fronte di un carico
complessivo di n. 4021 conti (fra quelli già in carico dal 1° gennaio e quelli pervenuti nel corso
dell’anno), ne sono stati definiti n. 432.
Nell’ambito dei ricorsi pensionistici, sono state pronunciate n. 44 sentenze, 30 in più rispetto
al decorso anno, di cui n. 8 di accoglimento.
È, infine, il caso di sottolineare che, a rendere ancor più impegnativa l’attività dispiegata nel
corso dell’anno, hanno contribuito, in modo rilevante, le numerose problematiche
interpretative insorte in ordine all’applicazione delle nuove norme introdotte dal Codice di
Giustizia Contabile (di cui al D. lgs. n. 174/2016), soprattutto in cospetto di vicende
processuali già impostate secondo il previgente ordinamento e anche in ragione dell’avvenuta
introduzione di più stringenti termini processuali fortemente sollecitatori dell’esercizio delle
funzioni giurisdizionali.
Appare infine il caso di aggiungere che, in applicazione di dette norme, si è provveduto alla
calendarizzazione di n. 2 giudizi nell’ambito delle disposizioni sul rito abbreviato di cui agli
artt. 130 e ss. del Codice, nonché alla nomina dei Giudici Unici previsti dal nuovo
ordinamento processuale in relazione ai giudizi per resa di conto.
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2. Rassegna della giurisprudenza contabile nel 2017
2.1 I giudizi maggiormente rilevanti in materia di responsabilità e di aggio
La Sezione, durante il decorso anno giudiziario, ha avuto modo di affrontare alcune fra le
tematiche più delicate e più dibattute in sede giurisprudenziale e legislativa, giungendo a
soluzioni, per certi aspetti, inedite, sebbene solidamente collocate nell’alveo dei principi
processuali e sostanziali che governano la giurisdizione contabile.
In particolare, la sentenza n. 55/2017, nel solco dei recenti e consolidati arresti in materia di
percezione di contributi pubblici, ha chiarito i presupposti della giurisdizione contabile in tale
materia, con connotazione in senso dinamico della nozione di danno erariale e con
superamento della concezione strettamente contrattuale della relativa responsabilità.
Il Collegio ha, infatti, ritenuto che “la giurisdizione di questa Corte in materia di illecita
percezione di contributi comunitari e, comunque, di erogazioni pubbliche, [costituisce], ormai, ius
receptum, in forza di varie pronunce giurisprudenziali intervenute in subiecta materia (cfr., in
particolare, Cass. SS.UU. n. 4511/2006, n. 22513/2006, n. 24002/2007, n. 19815/2008,
23/9/2009 n. 20434 e 27/10/2009 n. 24672; Corte dei conti Sez I Centr. App., n. 20/2011 e n.
256/2011, le quali ultime fanno, peraltro, espresso riferimento anche a numerose precedenti
sentenze di questa Corte nella materia de qua), che hanno individuato la fonte della responsabilità
finanziaria nel dannoso inserimento del percettore nei compiti e nei programmi prestabiliti dalla
P.A. e nella sottrazione delle risorse ai soggetti legittimati, con compromissione delle finalità
istituzionali informative di detti programmi”. Nel merito, la fattispecie aveva ad oggetto la
illegittima percezione di contributi comunitari nel settore dell’agricoltura, avvenuta sulla
base di dichiarazioni, poi risultate mendaci, circa la sussistenza dei presupposti per accedere
al beneficio. Ne era derivata “l’indebita percezione dei finanziamenti de quibus, in quanto
conseguiti dal convenuto sulla base di dichiarazioni che non possono essere considerate
corrispondenti al vero, con danno alle pubbliche finanze pari all’importo dei contributi
indebitamente percepiti […], oltre accessori di legge. E quanto sopra in considerazione del dannoso
inserimento del percettore nei compiti e nei programmi prestabiliti dalla P.A. e nella sottrazione
delle risorse ai soggetti legittimati, con compromissione delle finalità istituzionali informative di
detti programmi […]”.
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Dello stesso tenore la sent. n. 41/2017, la quale, a conferma del costante indirizzo coltivato
dalla Sezione, ha statuito, con ulteriore contributo illustrativo, che “il semplice ‘sviamento’
dalle finalità perseguite può realizzare un danno per l’Ente pubblico, anche sotto il mero profilo
della sottrazione, nei confronti di altri soggetti, del finanziamento che avrebbe potuto portare alla
realizzazione di un piano o programma prestabilito, così come concretizzato ed approvato dall’Ente
pubblico”, stabilendo, nella fattispecie oggetto d’esame, che “destinare i fondi a chi non ne
aveva diritto ha impedito, in concreto, di raggiungere quelle finalità pubbliche e di solidarietà
sociale che si volevano realizzare ad opera dell’Amministrazione comunale con quei finanziamenti
cc.dd. dedicati o vincolati (cfr., in tema, Cass. SS.UU. n. 22513/2006; n. 24002/2007; n.
19815/2008; 23/9/2009, n. 20434 e 27/10/2009, n. 24672 e, quanto alla giurisprudenza della
Corte dei conti, per tutte, Sez I Centr. App., n. 20/2011 e n. 256/2011). Da quanto precisato si
evince che solo la garanzia che i contributi di questo tipo vengano effettivamente ottenuti dai
soggetti legittimati, in base ai criteri e ai requisiti stabiliti dall’Amministrazione pubblica, può
determinare il raggiungimento dello scopo del progetto voluto dall’Ente pubblico che conferisce il
beneficio. E’ fin troppo evidente che i contributi di tipo solidale, proprio in quanto caratterizzati da
un apporto finanziario previsto in favore di determinate categorie di soggetti aventi particolari
esigenze sociali, devono essere erogati esclusivamente in favore dei soggetti aventi diritto per non
frustarne il fine, in quanto lo scopo che si vuole raggiungere non è quello di spendere comunque
tutte le risorse a disposizione esaurendo il plafond, ma quello, solidaristico-sociale (pubblico, ex
art. 2 Cost.), di aiutare e sostenere situazioni di reale bisogno o esigenza, selezionate e ritenute più
meritevoli di tutela rispetto ad altre (conforme, Sez. I Centr. App., n. 371/2016). Ed allora, nella
fattispecie, l’aver percepito contributi integrativi da parte di un soggetto, ancorché privato, dei
requisiti legittimanti l’erogazione (dei sussidi) costituisce un fatto illecito dannoso per le pubbliche
finanze, trattandosi di somme indebite del quale deve senz’altro rispondere l’indebito percettore
(ovvero chi a tale percezione ha concorso consentendola, sempreché ne ricorrano gli estremi) che ha
contribuito, con la propria condotta illecita, a frustrare lo scopo perseguìto dall’Amministrazione
pubblica, sviandolo in favore di soggetti estranei a determinate categorie di aventi diritto e non
beneficiate. Invero, lo sviamento dall’interesse pubblico cui le risorse pubbliche rese disponibili ed
erogate al privato sono concretamente destinate comporta la responsabilità di qualunque soggetto,
privato-persona fisica o persona giuridica che sia, che abbia pregiudicato (anche
indipendentemente dal concreto vantaggio personale conseguito) la realizzazione del fine pubblico
attraverso il proprio comportamento illegittimo, doloso o gravemente colposo, sulla base del
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principio della c.d. funzionalizzazione pubblica dell’attività di gestione dei fondi pubblici, capace
di rendere anche il soggetto privato compartecipe diretto e fattivo di attività istituzionali pubbliche
e, conseguentemente, responsabile del danno ingiusto inferto al patrimonio di una Pubblica
Amministrazione. Ciò, integra, di fatto, una relazione funzionale con conseguente assoggettamento
alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa patrimoniale
per danno erariale del soggetto giuridico (persona fisica o giuridica) fruitore dei fondi pubblici o
provenienti dal bilancio pubblico, per effetto dell’incardinamento o inserimento del soggetto
nell’apparato organizzativo pubblico, ancorché temporaneo o straordinario”.
In sostanza, dunque, la Sezione è risultata convintamente orientata a ritenere che ““il criterio
cardine per individuare la giurisdizione contabile, è quello cd. oggettivo, basato sulla “natura
pubblica” delle risorse gestite, in uno con la finalità pubblica perseguita, che vale a connaturare il
danno quale “erariale”, a prescindere ed indipendentemente dalla natura pubblica o privata del
soggetto agente””.
Tanto è stato affermato nella consapevolezza che “L’evoluzione della giurisdizione contabile in
senso sempre più marcatamente oggettivo ha comportato, da un lato, l’estensione della potestas
iudicandi a fattispecie prima escluse in base al criterio soggettivo della natura pubblica dell’agente
(si pensi ai privati destinatari di finanziamenti pubblici malgestiti o distratti per altri scopi,
incoerenti con l‘obiettivo prestabilito); dall’altro, non può non comportare, a contrariis e per
coerenza, il disconoscimento della giurisdizione contabile a favore della giurisdizione ordinaria in
casi in cui, pur a fronte della natura e delle finalità pubbliche dell’ente, manchino risorse
pubbliche da gestire; circostanze, queste ultime, che non ricorrono invece nella fattispecie odierna
(cfr. Sez. III App.,n.366/2016)”.
Un altro fondamentale arresto della Sezione è contenuto nella sent. n. 24/2017, la prima di tre
pronunce rese nell’ambito di una complessa fattispecie processuale, che ha visto l’azione della
Procura erariale (dis)articolarsi in plurimi atti di citazione, pur a fronte di una fattispecie
lesiva, avente, a giudizio del Collegio, carattere sostanzialmente unitario.
In tale strutturato assetto si colloca la pronuncia del Collegio, ricognitiva anche dei più
recenti principi della giurisprudenza di legittimità sul tema della cd. “parcellizzazione
artificiosa” della pretesa giudiziale.
Al riguardo, la sentenza de qua – nel dichiarare l’inammissibilità della domanda attorea – ha
sottolineato che l’ingiustificato frazionamento processuale della pretesa lambisce non di rado
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l’abuso del diritto, impegnando l’interprete in una non facile opera di regolazione dei confini.
Nella specifica fattispecie, ha ritenuto il Collegio che risultasse “ex actis che l'Ufficio requirente
ha effettivamente associato alla configurazione di alcune fattispecie apparentemente unitarie (una
per il primo segmento gestionale e due per il secondo), appresso indicate come “para-unitarie”,
l'ulteriore conformazione di domande parcellizzate, sostanzialmente coincidenti, quoad damnum,
con quelle unitariamente azionate, ed in queste ultime ricomprese […]”.
Peraltro, a detta peculiare conformazione dell'iniziativa dell'Organo requirente, si era
accompagnata “una, non agevolmente comprensibile, maggiorazione dell'importo complessivo del
danno contestato (tutto parametrato sull'esborso finanziario, in assenza dell’imputazione di danni
da disservizio o all'immagine), notevolmente superiore a quello riscontrato […] sulla base
dell'esame dei titoli provvedimentali e contabili […]”.
““Ad ogni modo – ha chiarito il Collegio, nell’affrontare il nocciolo della questione – la
problematica, lungi dal poter esser ridotta a questione di mera dosimetria del danno (in sede di
ipotetica condanna per le fattispecie ”para-unitarie”), si caratterizza, stante l'effettivo ammontare
complessivo dell'esborso finanziario e dunque del danno erariale contestabile, per un evidente
”aggravamento” della posizione sostanziale e processuale dei convenuti, anche in termini di
rispetto del canone processuale del ne bis in idem, sotto una duplice angolazione prospettica.
Innanzitutto, per quanto concerne la posizione dei soggetti citati esclusivamente nei giudizi
“"para-unitari"”, si rileva come ai medesimi sia stato imputato (pro quota) il danno già oggetto
dei separati micro-giudizi concernenti diversi convenuti, con conseguente parziale duplicazione
delle richieste risarcitorie (il medesimo danno, pro quota, verso soggetti diversi) […]””. In
conclusione, ““In ragione dell'insieme delle considerazioni svolte, [ha ritenuto il Collegio] che
detta peculiare conformazione dell'iniziativa giudiziaria attorea non possa ritenersi in linea con le
esigenze dettate dal principio di buona fede oggettiva, che deve informare anche l'iniziativa
processuale (oltre che sostanziale) del creditore, ancor più se pubblico, e per converso concreti un
utilizzo disfunzionale (qualificato, alias, come ”abusivo” nella terminologia utilizzata dalla Corte
di Cassazione) dello strumento processuale, così da determinare la declaratoria di inammissibilità
dell'atto di citazione””.
La menzionata pronuncia risulta, inoltre, di interesse anche per quanto statuito, in via
preliminare, circa il rapporto assicurativo dedotto da uno dei convenuti, il quale esercitava la
pretesa di manleva verso la propria compagnia assicurativa mediante la chiamata in causa di
quest’ultima nel processo, in qualità di terzo. Su tale aspetto si è pronunciato il Collegio,
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dichiarando ““il difetto di giurisdizione di questa Corte in ordine al rapporto assicurativo,
[…] dedotto in giudizio […]. In proposito, pare appena il caso di richiamare la consolidata ed
univoca giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex pluribus: Sez. Lombardia 17.3.2003, n.324;
Sez. Lazio 15.1.2003, n.92; sez. Campania, sent. n. 1702/2014) secondo cui la giurisdizione
della Corte dei conti non può ritenersi estensibile al rapporto di garanzia esistente tra il convenuto
in giudizio e la Società di assicurazioni, essendo l'oggetto della prima limitato all'accertamento
della responsabilità di soggetti legati all'Amministrazione Pubblica da un rapporto di servizio per
il risarcimento dei danni a questa arrecati. Conseguentemente, nell'ambito di detta sistematica
processuale, non può riconoscersi alcun margine di applicabilità dell'art. 106 c.p.c., contemplante
la c.d. “chiamata del terzo in garanzia”, in quanto ogni questione discendente dalla esistenza, o
preesistenza, di un contratto assicurativo tra il convenuto e la compagnia assicuratrice esula dalle
attribuzioni giurisdizionali della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica, il cui decidere
deve modellarsi nel rispetto dello schema normativo delineato dall'art.52 del R.D. n.1214 del 1934,
e quindi soffermarsi sulla fondatezza della azione di danno proposta dal Procuratore Regionale
verso i soggetti che esercitano funzioni pubbliche. Parimenti, ed in disparte la puntuale
ricostruzione dei rapporti tra [le due società di assicurazioni coinvolte], deve essere denegata, per
le medesime ragioni, la possibilità di intervento adesivo ad opponendum delle compagnie
assicuratrici nell'ambito di un giudizio di responsabilità amministrativa, tanto più alla luce del
disposto dell'art. 85 del Codice di giustizia contabile (d. lgs. n. 174/2016), che esplicitamente
riconosce la possibilità di intervento nei giudizi di responsabilità esclusivamente a chi “intenda
sostenere le ragioni del Pubblico Ministero […]quando vi ha un interesse meritevole di tutela””.
Sotto altro aspetto, ma con conseguenze parimenti reiettive della domanda attorea, la
Sezione ha pronunciato ““in punto di ammissibilità della domanda, [osservando], anche in
adesione ad eccezione avanzata da alcuni convenuti, che l'itinerario ricostruttivo proposto
dall'Organo requirente – che, muovendo dalla oggettiva, ma solo contingente e non definitiva,
inutilizzabilità dell'opera, identifica il danno tout court con l'intero esborso finanziario, proprio
come se nulla fosse stato costruito – denunzia (anche indipendentemente dalla riferita
“lievitazione” del detrimento complessivo contestato) rilevanti profili di problematicità nel
necessario riscontro della condizione dell'azione costituita dall'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.),
nel senso della necessaria oggettività e concretezza della lamentata lesione del diritto (cfr., ex
plurimis, Cass., sent. n.16626/2016, e precedentemente, Cass. n. 487 del 1980; Cass. n. 6177 del
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1985; Cass. n. 1897 del 1988; Cass. n. 10062 del 1998; Cass. n. 13293 del 1999; Cass. n. 5635
del 2002; Cass. n. 24434 del 2007).
Siffatta carenza di interesse concreto ed attuale emerge, già in abstracto, dalla stessa
prospettazione del danno contenuta nella domanda attorea (nei sensi innanzi esposti), sì da
consentirne l’esame ed il rilievo officiale, in termini di constatazione del difetto di una condizione
dell’azione. Al riguardo, illuminante appare la summenzionata sentenza della Suprema Corte
n. 16626/2016, allorché chiarisce, in particolare, che “… la situazione giuridica soggettiva
vantata, pur dovendosi prescindere dalla fondatezza della domanda, deve essere astrattamente
tutelabile dall'ordinamento, sicché non si può agire in giudizio per difendere un interesse che sin
dalla sua prospettazione non abbia consistenza di interesse giuridicamente protetto. Analogamente
a quanto accade per l'altra condizione dell'azione rappresentata dalla legittimazione ad agire (cfr.,
da ultimo, Cass. SS.UU. n. 2951 del 2016) ciò che rileva è la prospettazione, e cioè
l'affermazione di un diritto di cui si può esser titolari, ben potendo accadere, all'esito del processo,
che si accerti che la pretesa non sia fondata, ma ciò attiene al merito della causa e non esclude a
priori l'interesse a promuovere il processo. Di qui anche l'analogia di regime giuridico per cui il
difetto di interesse ad agire è rilevabile, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, salvo il
giudicato (per tutte cfr. Cass. n. 15084 del 2006). Infine requisiti per l'attribuzione alla parte del
potere di agire in giudizio sono la concretezza e l'attualità dell'interesse di cui all'art. 100 c.p.c. , a
presidio di un uso responsabile del processo che così ingenti risorse impiega. Necessaria presenza,
dunque, della possibilità di conseguire un risultato concretamente rilevante, non altrimenti
ottenibile se non mediante il processo e l'intervento necessario di un giudice.
La concretezza dell'interesse all'agire processuale è misurata dall'idoneità del provvedimento
richiesto a soddisfare l'interesse sostanziale protetto, da cui il primo muove.. Nella medesima
prospettiva si pone la risalente e ricorrente affermazione dell'indispensabilità di un interesse
attuale, coordinato ad una posizione giuridica già sorta in capo all'interessato e tale che la sua
effettiva esistenza escluda il carattere meramente potenziale della lesione … (cfr., ex plurimis,
Cass. n. 487 del 1980; Cass. n. 6177 del 1985; Cass. n. 1897 del 1988; Cass. n. 10062 del 1998;
Cass. n. 13293 del 1999; Cass. n. 5635 del 2002; Cass. n. 24434 del 2007) …”. […]Né il
Collegio può esimersi dal rilevare che non è dato riscontrare, nel pur ponderoso atto di citazione,
alcun concreto accenno ad un eventuale danno differenziale tra valore attuale dell'opera costruita e
costo ottimale della medesima ovvero alla necessità di eventuali ulteriori lavori aggiuntivi (e
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relativi oneri) dipendenti dalla diversa conformazione dell'opus, necessari per il raccordo con il
complesso dell'asse viario””.
In ultima analisi, “in presenza di una prospettazione attorea parificativa della mera, ritenuta
illegittimità della condotta alla illiceità e, quindi, alla effettiva dannosità della medesima – e, più
in particolare, come innanzi dicevasi, una prospettazione che, muovendo dalla oggettiva, ma solo
contingente e non definitiva, inutilizzabilità dell'opera, identifica il danno tout court con l'intero
esborso finanziario, proprio come se nulla fosse stato costruito, e senza l’indicazione di danni
differenziali – non potrebbe pervenirsi ad una sentenza di condanna, senza incorrere nella
riesumazione di una sorta di responsabilità formale, da tempo espunta dall’ordinamento; ne
consegue necessariamente che una pretesa conformata nei suddetti termini difetta, in radice,
dell’indispensabile requisito dell’interesse ad agire”.
Alla stregua delle suesposte considerazioni, il Collegio ha ritenuto di dover “necessariamente
ravvisare, e, conseguentemente, dichiarare […] l'inammissibilità dell'atto di citazione”.
Nel medesimo solco argomentativo, anche la sent. n. 39/2017 dichiara l’inammissibilità della
domanda attorea, operando una ricostruzione processuale, ancora più specifica, della vicenda
esaminata dalla sent. n. 24/2017 (sopra illustrata), evidenziando, in particolare, come “a
fronte di una presunta vicenda dannosa, inerente ad un'unica opera pubblica […] l'Ufficio
requirente avrebbe formulato ben 9 atti di citazione, instaurando altrettanti autonomi giudizi […].
Per di più, nell'ambito di detta conformazione dell'iniziativa giudiziaria […], si sarebbe verificata
una duplicazione di citazione in giudizio per [alcuni dei convenuti], nuovamente chiamati a
rispondere, per una fattispecie dannosa che includerebbe, inevitabilmente, anche danni erariali già
contestati e trattati in separato giudizio”.
Conseguentemente, l’atto di citazione non si è sottratto neanche alla censura “di
inammissibilità per violazione del principio del ne bis in idem, dal momento che imputa, tra gli
altri e pro quota, [ad alcuni dei convenuti] un presunto ed ulteriore danno che ricomprende anche
l’autonoma voce afferente ai compensi [già oggetto dei separati giudizi] sulla quale è già
intervenuta una pronuncia assolutoria, insuscettibile di qualsiasi riesame o riproposto
apprezzamento giudiziale”.
Di non minore interesse si prospetta, inoltre, l’arresto di cui alla sent. n. 20/2017, in cui la
Sezione ha respinto la domanda attorea non adeguatamente supportata sul piano istruttorio.
- 14 -
L’aspetto peculiare della pronuncia, tuttavia, è l’assunto che la definizione della questione,
rebus sic stantibus, postulando l’assenza di un esame nel merito, lasci impregiudicata – per la
parte pubblica – la possibilità di riproporre l’azione.
In particolare, si legge in tale sentenza che ““La pretesa attorea non può essere accolta per le
ragioni di seguito indicate, dovendo, di contro, essere respinta con la formula “rebus sic
stantibus”. Ai sensi dell'art. 86, c. 2, lett. f) dell'All. 1 al D. Lgs. 26 agosto 2016, n. 174 (Codice
di giustizia contabile, adottato ai sensi dell'articolo 20 della legge 7 agosto 2015, n. 124) “L'atto di
citazione contiene: […] f) l'indicazione degli elementi di prova che supportano la domanda e
l'elenco dei documenti offerti in comunicazione”.
Tale disposizione – in quanto afferente al principio “onus probandi incumbit ei qui dicit” – pur
non essendo assistita dalla comminatoria di nullità dell'atto introduttivo, deve necessariamente
considerarsi produttiva dell'inammissibilità di quest'ultimo, qualora carente dei surriportati
requisiti. In base all'art. 94, c. 1 del menzionato Decreto: “Fermo restando a carico delle parti
l'onere di fornire le prove che siano nella loro disponibilità concernenti i fatti posti a fondamento
delle domande e delle eccezioni, il giudice anche d'ufficio può disporre consulenze tecniche, nonché
ordinare alle parti di produrre gli atti e i documenti che ritiene necessari alla decisione”.
Il 2° comma del medesimo art. 94 prevede, poi, che “II giudice può richiedere d'ufficio alla
pubblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti che siano nella
disponibilità dell’amministrazione stessa, che ritiene necessario acquisire al processo””. Il
successivo art. 95, c. 1, statuisce che ““Nel decidere sulla causa il giudice pronuncia secondo
diritto e, quando la legge lo consente, secondo equità e pone a fondamento della decisione le prove
dedotte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalle
parti costituite”.
Dalla disamina del suesposto quadro normativo emerge chiaramente come il Giudice contabile non
possa supplire, con il dispiegamento di una propria officiale attività di ricerca della prova, al
difetto allegatorio e probatorio della P.R. e delle parti private, rientrando nelle sue facoltà
l'acquisizione di quegli ulteriori elementi di giudizio atti a confortare il proprio convincimento
nella valutazione del quadro probatorio ed allegatorio offerto dai contendenti, o che sfuggano alla
disponibilità di questi ultimi, senza, tuttavia, che gli sia preclusa la facoltà di porre a fondamento
della decisione le nozioni di fatto che rientrino nella comune esperienza e di desumere argomenti di
prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo (cfr. commi 2 e 3 del citato art.
95).
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Orbene quando, come nel caso di specie, pur essendo rimasta dimostrata l’illegittimità del
comportamento dei convenuti (è, invero, pacifica fra le parti la mancata precostituzione, all'epoca
dei fatti, di un regolamento comunale che disciplinasse l'elargizione dei contributi in parola) nel
procedimento di erogazione di “sovvenzioni economiche a famiglie disagiate” (cfr. pag. 1 dell'atto
di citazione), la P.R. abbia allegato la relativa documentazione in maniera parziale, con
riferimento quasi esclusivo ad alcune delle annualità considerate nell'atto introduttivo, ed abbia
prospettato che i conseguenziali esborsi abbiano prodotto un danno erariale coincidente con l'entità
dei medesimi e dipendente, sic et simpliciter, dalla mera illegittimità di tali comportamenti, senza
ancorare l'istanza risarcitoria alla prospettazione dell'illiceità (oltre che della illegittimità) della
condotta tenuta dai convenuti – il Collegio non può sostituirsi all'Ufficio requirente
nell'acquisizione, ex officio, delle prove dell'illiceità delle citate erogazioni (in quanto, ad es.,
totalmente o parzialmente, dolosamente o colposamente, concesse a favore di famiglie non
bisognose, o per fini clientelari e/o con prevaricazione nei confronti di famiglie realmente
bisognose, o con sacrificio di preminenti interessi della comunità, etc.), in presenza della quale
l'erogazione di pubbliche risorse concretizzerebbe un effettivo, specifico nocumento erariale.
Né – in cospetto di una prospettazione che parifichi la mera illegittimità della condotta alla
illiceità e, quindi, alla effettiva dannosità della medesima – potrebbe pervenirsi ad una sentenza di
condanna, senza incorrere nella riesumazione di una sorta di responsabilità formale, da tempo
espunta dall'ordinamento.
Tuttavia, in tali ipotesi – in mancanza di una prova esaustiva, da parte dei convenuti, in termini
di fatti impeditivi ai sensi del 2° comma dell'art. 2697 c.c., della insussistenza dell'illiceità dei
summenzionati comportamenti, e vertendosi in materia di superiori interessi pubblici connessi con
i principi di tutela delle pubbliche risorse e di salvaguardia degli equilibri di bilancio, da tempo
presidiati anche da norme di derivazione sopranazionale – il Collegio può pervenire al rigetto della
domanda attorea con la formula “rebus sic stantibus”, in quanto la presenza delle sopradescritte
conseguenze illecite, produttive di specifici illeciti finanziari, a loro volta causativi di effettivi,
specifici nocumenti erariali, è rimasta, in base alla sostanziale prospettazione attorea, fuori
dal thema decidendum dell'incardinato giudizio; sicché, la P.R. potrebbe pur sempre riproporre
(salvi gli effetti di eventuali preclusioni o decadenze) l'azione risarcitoria sulla base di un nuovo
profilo, conseguente all'emergenza di fatti nuovi, dimostrativi dell'illiceità di dette condotte come
produttive di specifici illeciti finanziari, a loro volta causativi di effettivi, specifici nocumenti
erariali.
- 16 -
Tale formula decisoria – utilizzata dalla giurisprudenza, sia pure in vista di diverse sistematiche
ordinamentali, in particolare (ma non solo) nel campo del diritto di famiglia (cfr., fra le altre,
Cass. Sez. 6a, Ordinanza n. 16173 del 30/07/2015; Cass. Sez. 1a, Sentenza n. 30033 del
29/12/2011) e di quello dei rapporti di durata (cfr., fra le altre, Cass. Sez. L, Sentenza n. 12554
del 14/12/1998; Cass. Sez. 3a, Sentenza n. 25454 del 06/12/2007) – è stata, peraltro, già adottata
anche in alcune pronunce di questa Corte (cfr., in particolare, sentenza Sezione giurisdizionale
per la Campania, n. 875/2007 del 9.5.2007).
Il Collegio ritiene le suesposte considerazioni e determinazioni come assorbenti di ogni altra
questione sottoposta alla propria cognizione, assumendo, nel caso di specie, la statuizione della
mancata configurabilità del danno erariale, nei termini innanzi esposti, carattere dirimente ai fini
del decidere in subiecta materia””.
La decisione, inoltre, si prospetta rilevante anche sotto il diverso profilo del regolamento delle
spese processuali, relativamente al quale il Collegio ““non escludendo […], in assoluto, con la
presente pronuncia, “definitivamente la responsabilità amministrativa per accertata insussistenza
del danno […]” (cfr. art. 31, 2° comma Dlgs n. 174/2016), ma soltanto la fondatezza della tesi
attorea secondo la quale detta responsabilità, nel caso di specie, sia riconducibile, sic et
simpliciter, agli importi erogati in dipendenza di condotte meramente illegittime (e, quindi, non di
comportamenti illeciti produttivi di specifici illeciti finanziari, a loro volta causativi di effettivi,
specifici nocumenti erariali), […] ritiene di poter pervenire, in considerazione della formulazione
del citato art. 31, 2° comma D. Lgs. n. 174/2016, alla compensazione delle spese del presente
giudizio, attesa la dimostrata non conformità a legge del comportamento dei convenuti””.
All’incrocio tra le competenze della Sezione Giurisdizionale e quelle della Sezione di Controllo
si colloca la sent. n. 75/2017, pronunciata nell’ambito di un giudizio per responsabilità
attivato dalla Procura Regionale a seguito di una Delibera della Sezione di Controllo, che
rilevava irregolarità contabili conseguenti alla violazione della normativa sull’indebitamento.
Più specificamente, veniva dedotta in giudizio la condotta del Responsabile dei Servizi
finanziari di un Comune che, sulla base di un distorto criterio di calcolo del limite massimo
dei 3/12, consentito dal Testo Unico degli Enti Locali per l’anticipazione di tesoreria, aveva,
di fatto, condotto l’Ente al superamento del suddetto limite, con il successivo e
conseguenziale utilizzo delle somme così percepite, da considerare a tutti gli effetti
indebitamento, per finanziare spese correnti, in aperta violazione del divieto posto dal
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menzionato Testo Unico ed elevato al rango di limite costituzionale per effetto della modifica
dell’art. 119 della Carta, a seguito della riforma del 2001.
Al riguardo, sottolinea il Collegio che ““nella fattispecie dedotta in giudizio, la tesi accusatoria
appare meritevole di condivisione nella dimostrata sussistenza […] delle gravi violazioni della c.d.
golden rule (regola aurea), parametro o valore costituzionalmente protetto e contenuto nell’art. 119,
co. 6, Cost., espresso nel divieto di indebitamento per spese diverse dagli investimenti,
geneticamente riconducibile ai limiti legali finanziari afferenti a fondamentali canoni e vincoli di
contabilità e di finanza pubblica integranti l'ordine giuridico, di rilievo costituzionale ed europeo.
L’esame delle risultanze processuali, prettamente di natura documentale, induce il Collegio a
ritenere dimostrato, come sostenuto dalla Procura, che le anticipazioni di cassa ottenute dal
Tesoriere si discostano dal corretto procedimento integralmente disciplinato dalla legge ed
informato ai principi costituzionali e giurisprudenziali ormai consolidati, per l’assenza dei
presupposti e dei caratteri legittimanti.
Giova ricordare, in generale, per quanto concerne la tutela degli equilibri di bilancio, che la Corte
Costituzionale (sentenza del 23/6/2014, n. 188) ha affermato che ratio del divieto di
indebitamento per finalità diverse dagli investimenti trova fondamento nell’evidenza che le
destinazioni diverse dall'investimento finiscono inevitabilmente per depauperare il patrimonio
dell'ente pubblico che ricorre al credito.
In particolare, nel delineare i confini della nozione di indebitamento, in questo inevitabilmente
vincolato ai <<criteri adottati in sede europea ai fini del controllo dei disavanzi pubblici>>
(C.Cost., n. 425 del 2004), la Consulta ha ribadito il principio che l’anticipazione di cassa,
avente causa negoziale tipica o funzione economica di contratto di “finanziamento” finalizzato a
sopperire a momentanee carenze di liquidità nel corso dell’intero esercizio, è ritenuta compatibile
col divieto di cui all'art. 119, co. 6, Cost., senza che ciò comporti un vero e proprio
“indebitamento”, nei soli casi in cui rientri in determinati confini. Ossia: sia limitata al solo
tesoriere la possibilità di concederla (c.d. confine soggettivo); sia di breve durata, di misura
determinata e rapportata a limiti ben precisi, dimodoché costituisca un mezzo di copertura
alternativo della spesa, quindi prestabilita (caratteri oggettivi) (principi trasposti, tra l'altro,
nell'art. 3, co. 17, L. n. 350 del 2003). […] Nel tentativo di definire tale istituto contabile, il
Collegio ritiene di poter affermare che il ricorso all’attivazione dell’anticipazione di tesoreria, quale
prestito a breve termine, effettuato attraverso un’apertura di credito onerosa, risponde all’esigenza
di neutralizzare gli effetti scaturenti dall’aspetto diacronico che caratterizza le fasi di “diritto”
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(accertamento ed impegno) e quelle di “fatto” (riscossioni e pagamento) delle spese, caratterizzate
dal loro incessante susseguirsi, anche impreviste, legate all’azione amministrativa, rispetto
all’acquisizione delle entrate che affluiscono con periodicità prevalentemente “fissa”, azione
amministrativa che non ammette “soste” richiedendo un “continuum gestionale” che può
costringere l’ente a coprire temporanee deficienze di liquidità (c.d. tensione o impasse di
liquidità).
Ne consegue che il ricorso all’anticipazione di tesoreria si rivela sicuramente contra legem quanto
al primo “valore” autorizzato [nel caso di specie] in quanto calcolato sulla base del più favorevole
parametro di quanto accertato per competenza di parte corrente […] risultante dal rendiconto del
2008, nonostante a quella data fossero già disponibili i dati del pre-consuntivo del 2009 ma non
ancora approvato il relativo rendiconto. Dati maggiormente attendibili ma più sfavorevoli, essendo
questo l'ultimo rendiconto approvato disponibile (atteso l’avvenuto decorso del termine di scadenza
dell’adempimento entro il 30 aprile dell'anno successivo, ex art. 227, comma 2, TUEL) in cui gli
accertamenti correnti ammontavano alla minor somma […] decisamente inferiore […].
Pertanto, l’autorizzazione esorbitante dai limiti consentiti non si sottrae alle censure di
realizzazione di una vera e propria "assunzione di mutuo passivo”, ossia un ricorso
all’indebitamento (art. 3, co. 17, I. 24 dicembre 2003, n. 350), assolutamente vietato per le
ragioni suesposte. […]
Ne discende che il finanziamento assunto, sotto qualsiasi forma e veste, in violazione dei requisiti
e dei limiti legali prestabiliti dei 3/12 posto dall'art. 222 TUEL, non costituisce superamento
consentito di una momentanea carenza di liquidità, bensì vero e proprio “indebitamento” che, ove e
nella misura in cui sia volto a coprire spese non di investimento, integra la violazione del descritto
canone costituzionale, con susseguente nullità dei relativi atti e contratti (ex art. 30, comma 15, L.
27 dicembre 2002, n. 289, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato” - legge finanziaria 2003) e configurazione di danno erariale e, dunque, di
responsabilità amministrativa di carattere c.d. “sanzionatorio” o c.d. “tipizzata” dei pubblici
amministratori che, con la loro condotta dolosa o gravemente colposa, tale deliberazione hanno
assunto (cfr. SS.RR. di questa Corte, n°12-QM/2007), per la quale è prevista l’irrogazione di
una sanzione da un minimo di 5 a un massimo di 20 volte l’indennità di carica percepita al
momento della violazione””.
Precisa, poi, il Collegio che ““con tale eccezionale forma di responsabilità, può concorrere quella
in cui possono eventualmente incorrere funzionari e dipendenti pubblici che all’assunzione di tali
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deliberazioni hanno concorso o che hanno emesso atti e provvedimenti prodromici e successivi di
attuazione/esecuzione delle medesime, atteggiandosi la responsabilità, in questo caso
corrispondente alla fattispecie in esame, con caratteristiche tipiche e tradizionali, ben note come
“responsabilità amministrativa”, di natura contrattuale-risarcitoria, per danno patrimoniale o
non patrimoniale (r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 81, r.d. 12 luglio 1934, n. 1214, art. 52 e
art. 1, L. 14/1/1994, n. 20 e s.m. e i.).
Il Collegio ritiene, pertanto, persuasivo l’assunto attoreo circa l’individuazione di tale ultima
tipologia di responsabilità amministrativa incombente sul convenuto, ed in via esclusiva,
sussistendo di essa tutti gli elementi costitutivi, sia oggettivi che soggettivi (art. 1, co. 1, L.
14/1/1994, n. 20 e s.m. e i.).
Tanto anche in considerazione della grave ed inescusabile negligenza dimostrata dal convenuto
nell’aver ignorato (anche) i fondamentali principi contabili del sistema di bilancio degli enti
locali; in particolare, quelli della prudenza e dell’attendibilità che avrebbero richiesto, invece, di
valutare attentamente la reale entità degli “accertamenti correnti di competenza” ai fini di un
corretto computo del limite massimo finanziabile dal tesoriere, senza operare sovrastime o evitando
errori grossolani.
[…] Tale condotta si traduce in un’evidente trasgressione degli obblighi di servizio derivanti dal
rapporto di lavoro di pubblico impiego intrattenuto dal [convenuto] con l’ente locale e che gli
imponevano, contrariamente, di osservare i principi fondamentali e le elementari regole di
contabilità finanziaria, compresa la fedele rappresentazione della situazione finanziaria, benché
critica, in cui l’ente versava, senza ricorrere ad espedienti ampliativi o evitando grossolani errori
di calcolo.
Tanto più in considerazione del delicato incarico di Responsabile dell’Area Finanziaria, rivestito
all’interno della struttura amministrativa, su cui incombevano, per espressa previsione normativa
(art.153, co. 4, del TUEL n. 267/2000), doveri di controllo e di verifica della veridicità dei dati
relativi alle previsioni di entrata e di spesa ed ai rendiconti dei bilanci annuali.
L’ineludibile nesso di causalità col danno provocato all’ente deve rinvenirsi nella condotta
realizzata dal convenuto, potendosi considerare determinante per l’adozione di entrambe le
deliberazioni giuntali richiamate, “illecite” in quanto produttive di danno perché autorizzatorie del
ricorso all’anticipazione”. Dalle esposte premesse, conclude il Collegio che “alla stregua delle
considerazioni svolte, deve affermarsi che la condotta del convenuto, agli effetti dell’adozione delle
due delibere autorizzatorie del debito (Del. n. 25 dell’1/6/2011 e n. 41 del 20/7/2011), si rivela
- 20 -
illecita e causativa di danno erariale avendo tale finanziamento, nei diversi giorni di seguito
indicati, travalicato il tetto, invece, effettivamente autorizzabile […] per “spese correnti”, come
risulta dall'estratto conto relativo al servizio di tesoreria””.
Nella sent. n. 78/2017, la Sezione ha affrontato il delicato snodo riguardante i rapporti tra
l’accertamento contenuto nel giudicato penale e il giudizio contabile.
Nel caso specifico, il giudizio verteva sulla responsabilità amministrativa conseguente alla
contestazione, in sede penale, di diverse ipotesi di reato, tra le quali il delitto di cui all’art.
640, n.1 c.p. (truffa ai danni di un ente pubblico).
L’esito favorevole del processo penale aveva indotto le difese dei convenuti a chiedere che la
pronuncia di assoluzione intervenuta in sede penale fosse estesa automaticamente al giudizio
di responsabilità amministrativa, attesa peraltro l’avvenuta costituzione di parte civile da
parte dell’Amministrazione asseritamente danneggiata.
““La deduzione – ha chiarito il Collegio – è solo parzialmente condivisibile, nei termini di seguito
esplicitati. Occorre, brevemente, premettere che dall’esame del contenuto del dispositivo stesso della
pronuncia penale […] si evincono, perspicuamente:
A) l’intervenuta assoluzione degli odierni convenuti dai reati loro ascritti, rispettivamente: […] di
truffa ai danni dello Stato o di altro ente pubblico […] aggravata dal danno di rilevante gravità
[…] di crollo di costruzioni o altri disastri dolosi […]
B) la declaratoria di non doversi procedere (anche) nei confronti dei convenuti per i reati di falso
ideologico in atto pubblico […] loro ascritto nei due processi riuniti siccome estinti per intervenuta
prescrizione. Sennonché, il Collegio ritiene che la corretta e prevalente interpretazione dell’art. 652
c.p.p. non autorizzi un assoluto automatismo tra la formula assolutoria adottata dal giudice
penale e la sua efficacia di giudicato extrapenale. Quindi, pur in presenza di un giudicato penale
assolutorio, l’efficacia extrapenale dell’art. 652 c.p.p. non può, comunque, prescindere da
un’autonoma disamina del Giudice adito per il risarcimento del danno in ordine ai fatti e alle
circostanze emergenti dalla motivazione della sentenza penale (cfr. ex plurimis, C. Conti Sez. I^
App. n. 207/2010, Sez. Toscana n. 258/2010, Sez. Campania n. 377/2008 e 1397/2011),
condotta caso per caso, tenendo, cioè, conto dell’effettivo accertamento contenuto nella sentenza
penale di assoluzione, secondo quanto emerge chiaramente dalla lettera della norma, la quale, nel
prevedere l’efficacia di giudicato extrapenale, lo fa discendere dallo ”…accertamento che il fatto
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non sussiste” (Sez. I App.. 12.11.2001, n. 318; Sez. III app., 28.3.2007, n. 75; Sez. I app.,
9.1.2008, n. 14; Sez. I app., 2.3.2010, n. 207).
L'art. 652 c.p.p., dunque, stabilisce che la sentenza di assoluzione è idonea a produrre gli effetti di
giudicato ivi indicati non in relazione alla formula utilizzata, bensì solo in quanto contenga, in
termini categorici, un effettivo e positivo accertamento circa l'insussistenza del fatto o
l'impossibilità di attribuirlo all'imputato o circa la circostanza che il fatto è stato compiuto
nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima (circostanze, queste ultime,
che escludono l'illiceità, non solo penale, del fatto, e conseguentemente l'ingiustizia del danno). La
formula utilizzata di per sé non è decisiva perché, al di là di essa, l'effetto di giudicato è collegato
al concreto ed effettivo accertamento dell'esistenza di una di queste ipotesi (in termini, Cass.,
SS.UU. penali n. 40049/08 e SS.UU. n. 1768/2011).
Difatti, se è vero che l’art. 652, co. 1, c.p.p. dispone che la sentenza penale irrevocabile di
assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto
all’accertamento che “il fatto non sussiste” (o che l'imputato non lo ha commesso) nel giudizio
civile o amministrativo promosso dal danneggiato per il risarcimento del danno (ovvero dal
Pubblico Ministero contabile, nell’azione erariale proposta nell’interesse dell’Amministrazione
danneggiata), è anche vero che l’incidenza di tale disposizione, nel giudizio di responsabilità
amministrativa, è ammessa solo a condizione che vi sia identità soggettiva ed oggettiva tra il fatto
posto a fondamento dell'azione di responsabilità e quello oggetto del giudicato penale assolutorio e
che quest'ultimo non derivi dall'accertamento dell’insussistenza di sufficienti elementi di prova a
carico dell’imputato […].
Ciò posto, nella fattispecie tratta a giudizio va osservato che è indubbio che l’assoluzione “perché il
fatto non sussiste” […] pronunciata dal Giudice penale ha riguardato i medesimi fatti oggetto del
giudizio risarcitorio promosso dalla Procura contabile nei confronti dei convenuti e che
l’assoluzione non è stata pronunciata per carenza di sufficienti elementi di prova della
responsabilità degli imputati, ma a seguito di accertamento positivo e pieno della causa di
assoluzione, come desumibile dalla motivazione fondata sull’insussistenza materiale del fatto
illecito. Pertanto, sulla scorta dei presupposti di costituzione di parte civile o della possibilità
offerta di essere in condizione di farlo, ricorre, nella fattispecie, l’effetto extrapenale,
eccezionalmente ed in via derogatoria, previsto dal codice processsualpenalistico (art. 652 c.p.p.).
Infatti, gli artt. 651 e ss. del c.p.p. costituiscono una chiara deroga ai principi di parità,
originarietà e di autonomia o separatezza dei diversi ordini di giudizi, affermati dalla riforma del
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processo penale, (per riferimenti giurisprudenziali, ex plurimis, v. Cass., SS.UU. n.
1768/2011).
Circostanza che comporta l’esclusione della responsabilità dei convenuti in forza del giudicato che
assiste la sentenza penale […]
Ne discende che la natura delle decisioni adottate dal giudice penale, sebbene all’esito di
dibattimento penale, non solo non preclude ma, anzi, impone - ancor di più rispetto alla precedente
formula assolutoria per il reato di truffa - un autonomo vaglio critico o prudente apprezzamento -
che concorre a formare quel libero convincimento del Collegio - del materiale probatorio acquisito.
Tanto, non essendo opponibile nel processo contabile, nel caso della prima incriminazione,
un’assoluzione da ipotesi di fatto-reato che non esclude automaticamente responsabilità di diverso
profilo (come appunto quella amministrativa) o, nel secondo caso, una pronuncia non assolutoria
nel merito, com’è quella di non doversi procedere per intervenuta estinzione dei reati di falso (art.
531, co. 1, c.p.p).
A tale riguardo giova ricordare il consolidato orientamento della Corte di Cassazione (per tutte,
Sez. 2, n. 22020/2007) secondo cui, in base al principio del libero convincimento, ogni elemento
dotato di efficacia probatoria può essere utilizzato dal giudice contabile (e civile) - attraverso una
sua autonoma valutazione, finalizzata al suo libero e prudente convincimento (art. 116, co. 1,
c.p.c.), effettuata, naturalmente, nell’integrità del contraddittorio tra tutte le parti processuali -
ricavandolo dalla sentenza, ma pure dal materiale probatorio (acquisito sia durante le indagini di
P.G. sia nel corso dell'eventuale istruttoria penale, e più in generale, nel procedimento penale), che
può costituire fonte, anche esclusiva, del convincimento del giudice; e ciò anche nel caso in cui sia
mancato il vaglio critico del dibattimento, per essere stato dichiarato estinto il reato, senza che ciò
comporti la violazione del diritto di difesa della parte (conforme, SS.UU. civili n. 25769/2015 e
17/6/2013, n. 15112; Cass., Sez. 3, n. 6502/2001; n. 8096/2006; n. 5009/2009; C.conti, SS.RR.,
2/3/1992, n. 754/A e 2/10/1997, n. 68; Sez. I Centr., n. 218, 412 e 449 del 2010; n. 3 del 2011 e
Sez. Giur. Abruzzo, n. 54/2016). […]””
Infine, nella sent. n. 81/2017, è stata affrontata la controversa questione del danno
all’immagine della Pubblica Amministrazione, al centro di un vivace dibattito dottrinario e
giurisprudenziale che rischia di essere riacceso dalle recenti novelle legislative.
I fatti dedotti in giudizio riguardavano la commissione dei reati di peculato, falsità materiale
in certificati o autorizzazioni amministrative e induzione indebita a dare o promettere utilità,
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in continuazione tra loro, da parte di un dipendente pubblico. Il compimento di siffatti reati
aveva prodotto – nelle tesi della Procura attrice – un danno all’immagine
dell’Amministrazione di appartenenza, assumendo parte attrice “che i fatti accertati e
sanzionati in sede penale hanno arrecato un palese nocumento all'immagine dell'Azienda
sanitaria, anche in ragione della loro risonanza mediatica”.
Il Requirente aveva prospettato una quantificazione del danno in via equitativa,
valorizzando la circostanza che il convenuto aveva posto in essere più condotte delittuose,
tutte di notevole gravità e disvalore sociale e che sarebbero pervenute alla conoscenza di un
numero indeterminato di persone, anche al di fuori dell’Amministrazione di appartenenza.
La quantificazione veniva proposta, dunque, al di fuori dei criteri, di stampo patrimoniale,
normalmente legati alle spese occorse per il ripristino dell’immagine lesa.
Nella pronuncia, il Collegio premette una ricognizione della disciplina attualmente vigente
sul tema, dopo un riepilogo delle vicende normative e giurisprudenziali che hanno concorso a
ridisegnarne l’assetto; in particolare, rileva come ““Sul terreno sostanziale […], il vigente dato
ordinamentale in materia di danno all’immagine si compone del disposto del menzionato art. 1,
comma 1 sexies, legge n. 20/1994, che definisce la peculiare tipologia di detrimento in questione
quale “…derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione
accertato con sentenza passata in giudicato”, nonché della previsione di cui al menzionato art. 51,
comma 7 del c.g.c., ove si parla, ancor più comprensivamente, di “delitti commessi a danno” della
P.A. (e dei soggetti a tal fine equiparati), così oggettivamente riaprendo la questione interpretativa
della puntuale individuazione dell’ambito dei reati costituenti presupposti di proponibilità
dell’azione di responsabilità amministrativa (in senso estensivo, di recente, Sez. Giur. Emilia
Romagna, sent. n. 97/2017)””.
Muovendo da questa premessa ricostruttiva, ha osservato il Collegio che ““relativamente alla
prova dell'an del detrimento, l'Organo requirente ha adeguatamente argomentato e comprovato la
sussistenza del danno, evidenziando come i fatti in questione siano giunti a conoscenza di un
numero indeterminato di persone, non solo interni all'azienda, essendo stati oggetto di attenzione
da parte della stampa locale (articolo del "quotidiano" di Isernia versato in atti). Relativamente
alla prova del quantum del danno, l'Organo requirente, ritenendo inapplicabile ratione temporis il
disposto dell'art.1, comma 1 sexies della legge n. 20/1994 (introdotto dalla legge n. 190/2012), ha
determinato in via equitativa l'ammontare del detrimento in euro 10.000,00, valorizzando nel
contempo la gravità degli illeciti penali commessi nell'ambito del medesimo disegno criminoso, e la
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risonanza pubblica e mediatica della vicenda.
In proposito, ritiene il Collegio di condividere la tesi attorea dell'inapplicabilità, ratione
temporis, alla fattispecie concreta sub iudice del disposto dell’art. 1, comma 62, della legge 6
novembre 2012 n. 190 (che ha novellato il comma 1 dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n.
20), norma che ha statuito che l'entità del danno all'immagine della Pubblica Amministrazione
derivante da giudicato penale di condanna per un reato commesso contro la stessa, “si presume
pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente
percepita dal dipendente”.
In proposito, la giurisprudenza contabile ha peraltro ormai chiarito che la disposizione de qua
contempla un criterio legale presuntivo iuris tantum di determinazione del quantum di detrimento
risarcibile, e riveste dunque natura sostanziale e non processuale, rimanendo conseguentemente
soggetta agli ordinari criteri ermeneutici che regolano la successione di leggi nel tempo in ambito
non penalistico (c.d. principio di irretroattività della legge, salvo diversa disposizione di legge, ex
art. 11 delle disp. prel. al codice civile; Sez. App. Sicilia n. 132/2013; Sez. Giur. Marche, nn. 16
e 21/2014; Sez. Lazio 395/2014; sez. giur. Veneto, n. 196/2014).
Orbene, poiché le condotte contestate al convenuto si sono realizzate precedentemente all'entrata in
vigore della legge n. 190 del 2012, la prova del quantum di danno risarcibile non può che esser
raggiunta mediante l’utilizzo degli ordinari strumenti interpretativi propri del giudice, tra i quali
l’impiego del potere di determinazione equitativa del danno ex art. 1226 e 2056 c.c..
In particolare, secondo la giurisprudenza della suprema Corte, il giudice può far ricorso al potere
di determinazione equitativa del danno non soltanto quando sia assolutamente impossibile stimare
con precisione l’entità dello stesso, ma anche qualora, in relazione alla peculiarità del caso
concreto, la precisa determinazione del pregiudizio patrimoniale si riveli ardua (““rilevante
difficoltà assoluta”” per tutte, Cass., Sez. III, n. 19148 del 29 settembre 2005; cfr., Corte dei
conti, Sez. III, n. 501 del 31 dicembre 2007); peraltro, nell'operare la valutazione equitativa, il
giudice non è tenuto a fornire una dimostrazione minuziosa e particolareggiata della
corrispondenza tra ciascuno degli elementi esaminati e l'ammontare del danno liquidato, essendo
necessario e sufficiente che il suo accertamento sia scaturito da un esame della situazione
processuale globalmente considerata.
Quanto all’esame e alla valutazione della fattispecie sub iudice, vengono dunque in rilievo i criteri
interpretativi enucleati dalle Sezioni Riunite di questa Corte (in particolare, sentenza n.
10/QM/2003), richiamati dalla giurisprudenza contabile successiva, nonché quelli individuati
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dalla Corte di cassazione, Sezioni Unite Penali, nella sentenza n. 15208/2010 e, in particolare: a)
la qualifica posseduta dal convenuto al momento della commissione degli illeciti. Nel caso di
specie il convenuto era un infermiere, avente dunque la disponibilità del materiale sottratto nonché
contatti con pazienti; b) il notevole disvalore giuridico-sociale connesso alla gravità dei molteplici
illeciti penali commessi, consistenti nel peculato (appropriazione di timbro dell'ufficio e di carta
intestata del presidio ospedaliero), nel reato di falso (certificazioni fasulle contenenti patologie e
relative prescrizioni terapeutiche) e dell'induzione a dare denaro (seppure in quantità modesta)
per il rilascio della falsa certificazione. c) l’intenzionalità dell’illecito, caratterizzato dalla
commissione di condotte plurime nel quadro di un medesimo disegno criminoso; e) la diffusione
della vicenda, oltre che all'interno dell'azienda, nella comunità sociale di riferimento, come
comprovato dalla pubblicistica prodotta dal Pubblico Ministero. Pur tenendo conto dei parametri
indicati, ritiene tuttavia il Collegio di dover ridimensionare, rispetto alla pretesa attorea, l'importo
del risarcendo danno all'immagine, avuto riguardo, innanzitutto, alla esiguità della somma
tesaurizzata dal convenuto.
Nel contempo, assume analogo rilievo la modesta diffusione mediatica della vicenda (un solo
articolo, su quotidiano a tiratura locale), nonché la correlata esiguità delle somme ipoteticamente
occorrenti per ripristinare l'immagine lesa””.
Alla luce di tutti i parametri così individuati, il Collegio è, dunque, addivenuto ad una
quantificazione in via equitativa del danno, sebbene ridimensionato proprio in virtù di una
più mite applicazione dei criteri illustrati.
La pronuncia in esame, peraltro, riveste interesse anche sotto il diverso profilo della
pregiudizialità dell’accertamento penale, posto che essa statuisce che “Avuto riguardo alla
preesistenza, rispetto all’azione per responsabilità amministrativa, di un giudicato penale di
condanna, occorre preliminarmente accennare alla problematica degli effetti delle sentenze penali
irrevocabili di condanna sul giudizio di responsabilità per danni all'erario. In proposito, l'ormai
univoca giurisprudenza contabile (ex pluribus, C. Conti III sez. appello, sent. n. 53/2014), dalla
quale non si rinviene motivo per discostarsi, ritiene direttamente applicabile il disposto
dell’articolo 651 c.p.p., a norma del quale “la sentenza penale irrevocabile di condanna
pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento della
sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso,
nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei
confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel
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processo penale”. Conseguentemente, […] ai fini del giudizio di responsabilità, la sentenza
irrevocabile di condanna penale fa stato quanto all’accertamento sia dei fatti materiali sia della
condotta illecita dell’autore, venendo così preclusa al Giudice contabile ogni diversa asserzione che
venga a collidere con i presupposti logico-giuridici, espliciti o impliciti, e con le risultanze e le
affermazioni conclusionali della pronuncia penale in merito agli stessi fatti contestati dal P.M.
contabile (cfr. Corte dei conti, Sez. giurisd. Sicilia, 11 luglio 2013, n.2680)””.
In proposito, era stata anche la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, a dichiarare
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 651 cod. proc.
pen., prospettata in relazione all'art. 103 Cost., in ragione dell’efficacia vincolante attribuita
al giudicato penale di condanna nel giudizio di danno erariale, ritenendo la Suprema Corte di
dover ascrivere alla discrezionalità del legislatore la possibilità di regolamentare la definizione
dei rapporti tra le giurisdizioni, nel presupposto della loro reciproca autonomia.
Pertanto, ha aggiunto il Collegio, ““dovendosi ritenere per accertati nel presente giudizio di
responsabilità amministrativa la “sussistenza del fatto, la sua illiceità penale e l'affermazione che
l'imputato lo ha commesso” contenute nel giudicato penale, questo Giudice può limitarsi a
richiamare sinteticamente la ricostruzione dei fatti contenuta in detto giudicato penale””.
V’è da aggiungere che il tema della giurisdizione ha attraversato più di una volta la
giurisprudenza della Sezione nell’anno giudiziario 2017.
In particolare, esso è stato affrontato nella sent. n. 35/2017 in materia di aggio.
““In via pregiudiziale – ha osservato il Collegio – pare opportuno ricapitolare sinteticamente la
vicenda inerente la questione di giurisdizione, avuto riguardo alle argomentazioni rese […] anche
nelle memorie presentate a ridosso dell’odierna udienza di trattazione, che hanno richiamato, in
guisa problematica, la già menzionata ordinanza della Suprema Corte n. 22265/2012, resa nel
“parallelo” giudizio civile […].
In proposito, si evidenzia preliminarmente la diversità di oggetto del presente giudizio rispetto a
quello civile, resa evidente, oltre che dalla diversità del rapporto dedotto sub iudice (nella specie,
esattoriale), soprattutto dalla circostanza che dinanzi a questo giudice [la Società esattrice] non
ha dispiegato alcuna domanda giudiziale, essendosi limitata ad una mera attività difensiva
rispetto [alle richieste del ricorrente]. Ad ogni modo, con riguardo alla questione di giurisdizione,
giova evidenziare che questa Sezione giurisdizionale, con la già richiamata sentenza n. 146/2010 e
dunque già precedentemente all’arresto della Suprema Corte n. 22265/2012, aveva declinato la
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propria giurisdizione, non avendo ritenuto riconducibile l’oggetto del contendere, in relativo
ad un’asserita inadempienza dell’esattore generalizzata ed in alcun modo riferibile a specifiche
quote di imposta ritenute inesigibili, alla tipologia dei cd. “giudizi per denegato rimborso di quote
inesigibili d’imposta o altri proventi erariali” (riguardanti la relazione gestoria tra esattore ed
amministrazione titolare dei tributi riscossi) di cui agli articoli13 e 56 del DR n.1214/1934
nonché 92 DPR n.858/1963.
Tuttavia, la menzionata sentenza di questa Sezione è stata oggetto di appello da parte del
[ricorrente], che peraltro, nel “parallelo” (nel senso dianzi precisato) giudizio civile, ha proposto
regolamento preventivo di giurisdizione, ad esito del quale la Suprema Corte ha ritenuto che “per le
domande attinenti i rapporti tra Consorzio ed Esattore deve essere dichiarata la giurisdizione del
giudice ordinario, mentre per le domande proposte dallo stesso Consorzio nei confronti del
Ministero delle Finanze e delle altre Amministrazioni pubbliche la giurisdizione appartiene al
giudice amministrativo”. In dettaglio, ai fini dell’esclusione della giurisdizione della Corte dei
conti, la Suprema Corte ha affermato, con riguardo eminentemente alla domanda [della Società
esattrice], che <<perché scatti la giurisdizione contabile ai sensi del R.D. 12 luglio 1934, n.
1214, artt. 13 e 44, recante l'ordinamento della Corte dei conti, è necessaria "la ricorrenza di atti e
comportamenti, intervenuti nell'ambito del rapporto gestorio tra l'ente pubblico e l'agente,
costituenti violazioni di specifici schemi procedimentali di tipo contabile, stabiliti, cioè, per la
regolarità dell'effettuazione, del servizio" (S.u. 10.12.99 n. 874, e S.u. 16.11.1994 n. 9682), il
che non si riscontra nella fattispecie in esame, dove l'obbligazione dedotta in giudizio (restituzione
di somme anticipate a titolo di contributo) non scaturisce dalla gestione e dal maneggio di danaro
pubblico, ma deriva da pretese carenze nella predisposizione dei ruoli consortili>>.
Tuttavia, il giudice contabile di Appello […], con la richiamata sentenza n. 606/2013, pur avendo
avuto diretta contezza della suddetta statuizione resa dalla Suprema Corte in sede di regolamento
preventivo di giurisdizione in ordine al “parallelo” giudizio civile, ha annullato la sentenza di
questa Sezione n. 146/2010, che aveva denegato la sussistenza della giurisdizione contabile.
In particolare, il giudice di appello, dopo aver preliminarmente affermato, in via generale, che
l’oggetto dei giudizi cc.dd. esattoriali innanzi alla Corte dei conti (artt. 56 e segg. del R.D. n.
1214/1934; artt. 52 e segg. del R.D. n. 1038/1933) è costituito dal rapporto tra l’amministrazione
finanziaria e l’esattore che assume di essere titolare di un diritto soggettivo di credito,
relativamente alle somme delle quali chiede il rimborso (senza che possa ravvisarsi un giudizio
necessariamente impugnatorio teso all’annullamento di eventuali provvedimenti amministrativi),
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ha ritenuto che il giudizio in questione, introdotto dal [ricorrente] per contrastare il rifiuto [della
Società esattrice] di versare le somme corrispondenti agli importi dovuti dai contribuenti, rifiuto
motivato con un’asserita esenzione dai pagamenti per effetto dell’evento sismico verificatosi in
Molise ad ottobre del 2002, “integra a tutti gli effetti una fattispecie riconducibile all’art. 56 e
segg. del su detto testo unico Corte dei conti, i quali disciplinano i ricorsi cc.dd. esattoriali,
promossi cioè avverso il rifiuto del rimborso di quote d'imposta inesigibili, o analoghe fattispecie;
trattasi, cioè, di un tipico giudizio ad istanza di parte in materia contabile (v., anche, il capo III,
artt. 52 e segg. del R.D. n. 1038/1933, regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte
dei conti)”.
Pertanto, ha osservato il giudice di appello, gli aspetti relativi all’inadempimento contrattuale non
verrebbero “in rilievo nel presente contenzioso, il quale riguarda, invece, l’esatta determinazione,
dal punto di vista della contabilità pubblica, del dare/avere tra due soggetti, […]”, con conseguente
affermazione della giurisdizione contabile ai sensi dell’art. 103, comma 2, Cost. e alle norme
ordinarie di cui agli artt. 56 e segg. del R.D. n. 1214/1934 e artt. 52 e segg. del R.D. n.
1038/1933" (cfr. Cass., sez. un., 10 aprile 1999, n. 237; Cass., sez. un., 29 maggio 2003, n.
8580; Cassazione civile, SS.UU., 11.7.2006, n. 15658. Cfr., inoltre, nello stesso senso, SS.UU.,
7.5.2003, n. 6956/ord.; 1.10.2002, n. 14080; 7.12.1999, n. 862; 9.6.1982, n. 3471).
La Sezione giurisdizionale di Appello ha altresì affermato che le suddette conclusioni
interpretative in punto di giurisdizione non sarebbero precluse dalla recente pronunzia delle
Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 2265/2012, adottata in sede di regolamento preventivo
di giurisdizione nel “parallelo” giudizio civile, in quanto, per un verso, la stessa ordinanza
escluderebbe (punto n. 7) che nella specie possano prodursi gli effetti di cui all’art. 59 della legge
n. 69/2009, sia in quanto darebbe <<per pacifico ….. che ci si trovasse in un presunto
inadempimento contrattuale del consorzio per la mancata restituzione di somme versate
dall’esattore a seguito della riscossione; ed invece, si è trattato di omissione di versamenti da parte
dell’esattore medesimo, che li ha motivati con una inesigibilità che opererebbe ex lege (sospensione
dei pagamenti per tutti i contribuenti residenti nella zona del c.d. “cratere”)>>.
Pertanto, la sezione giurisdizionale di appello, ricostruito l’oggetto del giudizio in termini di
definizione dei rapporti di dare/avere tra l’ente pubblico e agente della riscossione, ha affermato la
sussistenza della giurisdizione contabile, annullando la sentenza di prime cure e rinviando la
causa a questa Sezione giurisdizionale, ai sensi dell’art. 105 del R.D. n. 1038/1993, affinchè si
pronunzi nel merito. Conseguentemente – ha concluso il Collegio – questa Corte non può che
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limitarsi alla trattazione del merito della controversia, essendo vincolata, quanto alla
giurisdizione, al decisum della statuizione di appello, che ha peraltro annullato, proprio sul punto,
precedente sentenza emessa da questa Sezione giurisdizionale””.
Parallelamente il Collegio ha rilevato che, ““D’altra parte, in disparte le già rilevate peculiarità
dell’oggetto del presente giudizio […] rispetto a quello civile (instaurato [dalla Società esattrice] e
con riconvenzionale del [resistente]), la stessa Corte di cassazione (SS.UU. ord. N. 3025/2015)
ha ritenuto che “qualora la sentenza del giudice d'appello, che abbia affermato la giurisdizione
dell'autorità giudiziaria ordinaria, negata dal primo giudice, acquisti autorità di giudicato per
effetto di mancata impugnazione nei prescritti termini, la preclusione derivante da tale giudicato
interno osta a che la questione di giurisdizione possa essere nuovamente sollevata (anche ai sensi
dell’art. 59, comma 3 della legge n. 69/2009) nell'ulteriore corso del processo, riassunto davanti al
giudice di primo grado a norma dell'art. 353 c.p.c. e comporta conseguentemente l'inammissibilità
dell'impugnazione successiva che si esaurisca nella prospettazione della questione medesima””.
La menzionata pronuncia, sotto il diverso profilo sostanziale, affronta anche il tema inerente
all’esigibilità dei contributi consortili di bonifica, con particolare riferimento agli eventi
sismici che hanno interessato il territorio molisano. In tema, il Collegio ha rilevato che
““l’Agente della riscossione ha sostanzialmente disconosciuto la debenza delle somme, oltre che
sulla base della ordinaria fisiologia dl rapporto, in particolare in ragione della ritenuta sussistenza
della sospensione dell’obbligo di pagamento dei tributi (e dunque in tesi anche dei contributi
consortili) ex art. 4 del D.L. n. 245/2002 (conv. nella legge n. 28/2002; successive proroghe fino
al 30/06/2008 ex art.6 ter del d.l. n. 248/2007, conv. in legge n. 31/2008), e del successivo
abbattimento del 60% di cui all’art. 3, comma 2, del d.l. n. 162/2008 (conv. in legge n.
201/2008), normativa che avrebbe in tesi reso inapplicabile il rivendicato diritto consortile
convenzionale omnicomprensivo del riscosso per il non riscosso. […]”. Sul punto, ha dunque
puntualizzato “[…] che effettivamente i contributi consortili di bonifica, nelle sub-fattispecie
(codici interni ai contributi) del tutto prevalenti, hanno, per ormai pacifica giurisprudenza della
Corte di cassazione (fin dalla sentenza delle SS.UU. sent. n. 9493/98; da ultimo, Cass. Sent. n.
8770/2016), natura sostanzialmente tributaria (con l’eccezione degli importi correlati al consumo
a domanda di acqua; cfr. Cass. Sent. n. 11720/2010), con conseguente applicabilità,
relativamente ai codici in questione, della sospensione causa evento sismico di cui all’art. 4 del d.l.
n. 245/2002 (conv. in legge n. 28/2002), ripetutamente prorogata (ex decreti MEF 14 e 15
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novembre 2002 e 9 gennaio 2003; fino al giugno 2003 dall’art. 18 dell’opcm del 18 aprile 2003 n.
3282; fino al 31 marzo 2014 dall’OPCM n. 3308 dell’8 settembre 2003; fino al 31/12/2005
dall’OPCM n. 3354 del 7 maggio 2004; fino al 31/12/2006 dall’OPCM n. 3496/2006) da ultimo
fino al 30 giugno 2008 ex art.6 ter del d.l. n. 248/2007 (conv. in legge n. 31/2008), cui ha fatto
seguito la previsione normativa (art.3, comma 2, del d.l. n. 162/2008, conv. nella legge n.
201/2008, in combinato disposto con l'art. 6, comma 4 bis del d.l. n. 185/2008, conv. nella legge n.
2/2009) di abbattimento del 60% dei "tributi e contributi”.
Pertanto, il Consorzio, sul terreno della ricostruzione oggettiva della fattispecie e dunque in
disparte le innegabili problematiche interpretative cui le menzionate disposizioni hanno dato luogo,
avrebbe teoricamente dovuto illo tempore adottare i conseguenti provvedimenti a tutela dell’agente
della riscossione"”.
In punto di giurisdizione, e tenuto conto della rilevanza che la tematica assume nei giudizi
per aggio, si evidenzia che è stata da poco fissata l’udienza di prosecuzione per la discussione
di un ulteriore giudizio di aggio, riassunto a seguito della sent. n. 21112/2017 delle Sezioni
Unite della Corte di Cassazione, che ha definito un regolamento preventivo ex art. 41 c.p.c.
In tale arresto, il Supremo Collegio ha avuto modo di chiarire che, nei rapporti concessori
riguardanti l’attività di riscossione di imposte “la giurisdizione […] spetta comunque al giudice
contabile; la Corte dei conti, infatti, è deputata alla verifica dei rapporti di dare ed avere tra
l'agente contabile e l'amministrazione nonché del risultato contabile finale di detti rapporti; con la
conseguenza che, cessato il rapporto concessorio, ogni controversia relativa al "saldo", attivo o
passivo, della gestione dell'agente contabile va promossa innanzi all'autorità competente a
giudicare della responsabilità contabile, cioè alla Corte dei conti”.
Nella sent. n. 41/2017, in materia di garanzie e competenza relativamente ad un appalto
bandito dall'Università del Molise, la Corte si è soffermata in particolare sulla distinzione, e
sulla conseguente diversità di disciplina, tra cauzione provvisoria ed impegno a rilasciare
fideiussione per l'esecuzione del contratto, nonché sulle competenze dei diversi organi
dell'Amministrazione universitaria in materia di appalto. Nel merito, rileva il Collegio che
““occorre innanzitutto evidenziare che l’art. 75, comma 8, del d. lgs. N. 163/2006 (nel testo pro
tempore vigente) prevedeva (dopo aver disciplinato il diverso istituto della cauzione provvisoria)
che “L'offerta è altresì corredata, a pena di esclusione, dall'impegno di un fideiussore a rilasciare
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la garanzia fideiussoria per l'esecuzione del contratto, di cui all'articolo 113, qualora l'offerente
risultasse affidatario”.
In esecuzione del menzionato art. 75 del d. lgs. N. 163/2006, l’Amministrazione universitaria, in
sede di bando di gara, ha previsto che [l’offerta avrebbe dovuto essere corredata, a pena di
esclusione, dalla prestazione di una cauzione provvisoria] a garanzia della stipula del contratto,
[…] Inoltre, il medesimo bando di gara ha di seguito specificato [che l’offerta avrebbe dovuto
altresì essere corredata, a pena di esclusione, dalla dichiarazione inequivoca di impegno di un
fideiussore a rilasciare cauzione definitiva pari al 10% dell’importo contrattuale]. […].
Dunque, in adempimento sia di disposizioni normative, che del capitolato speciale, nonché della
lex specialis del bando, ciascun offerente era tenuto a corredare la propria offerta sia della
cauzione provvisoria […] che di un impegno di un fideiussore a rilasciare la cauzione definitiva
[…] di importo ben più elevato […].
Tuttavia, la Commissione di gara, […] ha ammesso alla gara [un’impresa], pur in assenza della
suddetta dichiarazione rilasciata da intermediario abilitato […]”.
Successivamente all’aggiudicazione anche definitiva della gara e a seguito delle osservazioni
critiche avanzate da un concorrente […], la medesima Commissione di gara ha sostanzialmente
confermato la precedente statuizione, richiamando la possibilità, prevista dal bando (e
sostanzialmente non contestata dalla Procura), di prestare cauzione provvisoria mediante assegno
circolare, nonché aggiungendo, relativamente alla contestata omessa produzione di impegno a
prestare la cauzione definitiva, che “la ditta si era impegnata a costituire la predetta cauzione in
caso di aggiudicazione” (non si specifica se oralmente o per iscritto)””.
In proposito, il Collegio ha ritenuto che, tuttavia, ““dette motivazioni [prestassero]
evidentemente il fianco ad intuitive osservazioni critiche, innanzitutto in quanto sovrappongono i
diversi istituti della cauzione provvisoria e della cauzione definitiva, l’impegno a prestare la quale
era previsto a pena di esclusione dalla legge e dal bando di gara, con evidente finalità di tutela
dell’Amministrazione, ovviamente non surrogabile dall’avvenuta prestazione della garanzia
provvisoria mediante assegno circolare, sia in quanto si tratta di oneri posti in via cumulativa a
carico degli offerenti, sia tenuto conto del ben diverso importo garantito.
D’altra parte, anche il richiamo al principio di massima acquisizione delle offerte in funzione
dell’interesse pubblico perseguito dall’Amministrazione, si infrange ictu oculi dinanzi alla
evidente lesione del principio di concorrenzialità tra gli offerenti, i quali hanno dovuto […]
sostenere i costi di acquisto di una promessa a prestare fideiussione da parte di intermediari
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finanziari abilitati, così come previsto dagli art. 75, commi 3 e 8, e 113 del d. lgs. n. 163/2006, a
tutela del buon andamento dell’amministrazione pubblica. […] Tanto puntualizzato in ordine alla
contrarietà a legge della condotta assunta dall’Amministrazione universitaria, occorre in
particolare soffermarsi sulla problematica, variamente prospettata dalle diverse parti convenute,
della puntuale oggettiva (prescindendo dunque, per il momento, dai profili soggettivi della
responsabilità) individuazione degli organi (e dunque dei soggetti) responsabili dell’illegittima
ammissione alla gara (e conseguente aggiudicazione) della procedura.
In proposito, premesso che il danno erariale contestato è derivato dalla illegittima mancata
esclusione della (e conseguente aggiudicazione alla) ditta [che non aveva prestato le idonee
garanzie] (e non già propriamente dall’esecuzione del contratto, come pure prospettato da un
convenuto), assume, ad avviso del collegio, un ruolo indubbiamente dominante, sul terreno della
competenza amministrativa (e dunque su piano etiologico), l’operato della Commissione di gara,
specificamente nominata al fine di gestire la procedura.
In proposito, giova preliminarmente evidenziare che l’art. 84 del decreto legislativo 12 aprile 2006,
nr. 163, nel testo pro tempore vigente […] dispone espressamente che, nell’ipotesi che sia previsto
il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, l’Amministrazione
appaltante affidi la scelta dell’aggiudicatario ad un organo straordinario, la commissione
aggiudicatrice, provvisto di qualificata competenza.
Sebbene la ragione prevalente dell’istituto sia quella di affiancare alla stazione appaltante un
organo straordinario provvisto di peculiari competenze nella valutazione delle offerte, pare evidente
che detta estimazione implichi, logicamente e giuridicamente, una valutazione di ammissibilità
delle offerte medesime cui attribuire il punteggio […].
Ad ogni modo, nella specie, innanzitutto il capitolato speciale espressamente prevedeva, all’art. 5
(“procedura di esame delle offerte”), che: “La gara è aggiudicata, in via provvisoria, in seduta
pubblica, da apposita commissione che procede in seduta pubblica […]”.
Fermo rimanendo il ruolo centrale svolto dalla Commissione di gara, il collegio ritiene altresì che
la vigente disciplina preveda anche una specifica competenza e conseguente responsabilità del
RUP con riguardo alla illegittima ammissione/aggiudicazione della gara, in ragione dell’omessa
produzione di documentazione a garanzia pur prevista dalla legge, dal capitolato speciale e dal
bando di gara. Si tratta infatti di vizio di legittimità agevolmente riscontrabile (tanto più che esso
non attiene a valutazioni tecniche) anche dal RUP, vero e proprio “motore” della procedura
(anche alla luce del più incisivo ruolo disegnato dal legislatore in sede di modifica della legge n.
- 33 -
241/1990), cui la legge affida (cfr., in particolare, l’art. 10 del d. lgs. n. 163/2006) il
fondamentale ruolo di offrire all’Amministrazione appaltante ogni elemento informativo idoneo a
una corretta e consapevole formazione della volontà contrattuale dell'Amministrazione committente
[…].
Pare dunque evidente che il RUP avrebbe dovuto svolgere una funzione di mediazione correttiva,
se non di vera e propria verifica, tra l’attività della Commissione di gara e le funzioni della
stazione appaltante, notiziando quest’ultima, già in sede procedimentale, della “libera
interpretazione” sostenuta dall’organo straordinario in ordine alle menzionate convergenti
disposizioni di legge, capitolato speciale e bando di gara.
Quanto poi al CDA (i cui membri non risultano citati in giudizio), ritiene il Collegio che debba
egualmente esser valutato (in disparte ogni apprezzamento dei profili soggettivi dell’illecito
amministrativo-contabile) il suo apporto causale, in ragione delle competenze assegnate dalla
normativa all’Organo.
In proposito, tuttavia, non riveste particolare rilievo, ad avviso del Collegio, la quaestio, sollevata
da alcuni convenuti, della natura giuridica dell’approvazione/aggiudicazione definitiva (atto
conclusivo del procedimento con efficacia verso terzi e non già endoprocedimentale come
l’aggiudicazione provvisoria), considerato che, nella dogmatica dell’illecito amministrativo-
contabile c.d. di danno, assume ruolo determinante, più che la prospettiva attizia (efficacia verso i
terzi del provvedimento finale), propria del diritto amministrativo e del relativo processo,
l'individuazione delle concrete condotte (che siano provvedimentali, attizie, endoprocedimentali o
anche meramente materiali) provviste di efficacia etiologica rispetto al detrimento per l’erario.
Piuttosto, il profilo causale/competenziale del CDA emerge ictu oculi dal disposto dell’art. 12,
comma 1, del d. lgs. n. 163/2006 (nel testo pro tempore vigente), relativo all’approvazione
dell’aggiudicazione da parte dell’Amministrazione appaltante, dall’art. 60, comma 6 del
regolamento di Ateneo per l’amministrazione, la finanza e la contabilità, nonché dall’art. 5 del
capitolato speciale (“L'aggiudicazione sarà perfetta ed efficace in via definitiva soltanto dopo che
l'Università abbia effettuato con esito positivo le verifiche e i controlli in capo all'aggiudicatario
circa il possesso di tutti i requisiti di partecipazione richiesti dal presente Capitolato, nonché di
quelli richiesti dalle vigenti disposizioni normative per la stipulazione dei contratti con le
Pubbliche Amministrazioni”) ed infine dal punto n. 18 del bando di gara, che sostanzialmente
recepisce quanto previsto (e testé riportato) dal capitolato speciale"”.
- 34 -
Infine, nella sent. n. 63/2017, in tema di finanziamenti regionali all’editoria, la Corte –
muovendo da una puntuale ricostruzione della disciplina regionale, con particolare
riferimento a quella di cui alla l. reg. n. 29/2009 – ha infine accolto la domanda attorea sulla
base del rilievo che ““Dall'esame della suddetta disciplina, emerge dunque che l'erogazione dei
contributi risulta funzionale a sostenere, nel quadro delle macrofinalità previste dall'art. 1, il
prodotto editoriale di impatto sociale (ovvero le pubblicazioni a diffusione qualificata) e non già
direttamente le imprese editrici (cfr: TAR Molise, sent. n. 572/2012), tanto è vero che la legge
prevede che si finanzino le “spese di stampa”, le “spese di trasporto dal centro stampa ai centri di
distribuzione”, nonché le “altre spese per la realizzazione delle pubblicazioni”, e non già i costi
generali di azienda […]. La normativa regionale prevede poi (art. 6, commi 2 e 4) un duplice
limite finanziario, l'uno dato dal rapporto percentuale (massimo il 70%) rispetto alle spese
sostenute e l'altro costituito dagli appositi stanziamenti del bilancio regionale. Da rilevare che,
contrariamente a quanto sostenuto dalle difese, il limite del 70% non risulta superabile in virtù del
disposto dell'art. 6, comma 9, ultimo capoverso (“Fermo restando le previsioni di cui al comma 4,
le somme non attribuite verranno ripartite tra gli altri beneficiari per categoria di pubblicazione ed
in proporzione alle percentuali di cui sopra riferite a ciascuno di essi”), in quanto la disposizione
conferma espressamente (“ferme restando le previsioni di cui al comma 4”, che richiama il limite
del 70% di cui al comma 2) la validità del limite percentuale della spesa finanziabile. […] La
legge prevede dunque che la domanda sia inoltrata in corso di anno, cosicché si ritiene che possano
logicamente ammettersi istanze di concessione dei benefici finanziari in questione fondate su dati
di spesa anche in parte previsionali. Tuttavia, la struttura del procedimento amministrativo si
completa a valle attraverso il riferimento ad ulteriori norme, che prevedono innanzitutto (art. 6,
comma 2,) che le suddette specifiche spese siano effettivamente “sostenute” nonché “documentate
da evidenze contabili e/o da fatture fiscali”. La legislazione regionale, dunque, pur consentendo la
presentazione di istanze e la concessione di finanziamento sulla base di dichiarazioni anche di
natura (parzialmente) previsionale, richiede a consuntivo che il soggetto percettore comprovi
l'effettivo sostenimento della spesa, per giunta documentandola con evidenze contabili e/o fiscali.
Per giunta, la medesima legge regionale, ad ulteriore comprova della natura necessariamente
effettiva delle spese sostenute, espressamente assegna (art. 7) al Comitato regionale per le
comunicazioni il compito di “accertare la effettiva sussistenza dei requisiti per beneficiare dei
contributi”, riconoscendogli “connessi poteri di controllo””.
- 35 -
2.2 I giudizi maggiormente rilevanti in materia di conti giudiziali
Quanto al settore dei conti giudiziali, l’attività giurisdizionale della Sezione ha trovato
sbocco, fra l’altro, nella sent. n. 51/2017.
In tale pronuncia, resa in un giudizio di conto nei confronti del consegnatario delle azioni, il
Collegio ha posto dei punti fermi sul ruolo e sulle responsabilità dell’agente consegnatario,
chiarendo come ““Nel descritto quadro normativo, la figura del consegnatario si caratterizza
dunque per avere un “debito di materie” o di “generi” o di “oggetti”, cioè precipuamente di beni
mobili, ed il concetto stesso del “debito di custodia” presuppone la presa “in carico” di detti beni
mobili. […] Con riguardo ai consegnatari di azioni e partecipazioni, occorre innanzitutto
evidenziare che i titoli azionari e partecipativi sono espressamente annoverati tra i beni mobili
dello Stato (art. 20, lett. c del RD 23 maggio 1924 n. 827 - regolamento di contabilità generale)
per i quali sussiste l'obbligo di resa del conto giudiziale, esteso agli enti locali per effetto della
normativa sopra ampiamente richiamata.
Peraltro la stessa Corte di cassazione ha testualmente affermato che “la indefettibile funzione di
garanzia della regolare gestione contabile e patrimoniale rende necessario l'esercizio della
giurisdizione di conto su tutte le componenti patrimoniali e finanziarie”, comprensive quindi
anche dei diritti e delle azioni (Cass., SS.UU., ord. n. 7390 del 6 febbraio 2007).
La Suprema Corte ha precisato che il giudizio di conto “non può essere limitato al titolo originario
nella sua materialità, ma deve riguardare anche le variazioni del valore dei titoli e gli utili o
dividendi distribuiti”, fermo rimanendo che, stante la netta distinzione tra amministrazione/potere
di spesa e maneggio/custodia, il giudizio di conto “non può, in alcun modo, dar luogo ad un
sindacato sull'esercizio dei diritti spettanti all'azionista pubblico”. La resa dei conti giudiziali in
materia costituisce dunque un adempimento di indubbia significatività e rilevanza nel quadro del
sistema delle garanzie della corretta gestione pubblica.
Peraltro, relativamente agli enti locali, il DPR n. 194 del 31 gennaio 1996 ha approvato e
prescritto l'adozione del modello n. 22 per il conto della gestione dell'agente contabile consegnatario
di azioni dei comuni; modello che deve contenere la descrizione dei titoli azionari, la consistenza in
quantità e valore al termine e alla fine dell'esercizio, con l'indicazione del motivo delle variazioni.
Tale modello deve essere presentato dal soggetto incaricato (contabile di diritto) dall'Ente,
auspicabilmente con atto di carattere generale con l'indicazione del termine di durata e di
cessazione (sez. Giur. Umbria, 86/1999), di esercitare le funzioni concernenti i diritti di azionista
- 36 -
nelle società partecipate, ovvero comunque dal soggetto che in concreto abbia esercitato le funzioni
in questione (contabile di fatto).
Il conto va sottoscritto dall'agente contabile ed è sottoposto al visto di parifica del responsabile del
servizio finanziario, il quale attesta la corrispondenza con le scritture contabili dell'ente locale, e
l’approvazione da parte dell’ente ne dichiara la esaustività e regolarità della documentazione
giustificativa.
Inoltre, secondo ormai pacifica giurisprudenza, (v., ex pluribus, sez. giur. Veneto, sent. n.
62/2012), occorre che siano documentate, ai fini del giudizio di conto, le modalità di esercizio della
gestione da parte delle società stesse e le modalità di applicazione delle direttive impartite da parte
dei titolari delle azioni o partecipazioni pubbliche””.
Una ulteriore e fondamentale statuizione ha adottato, inoltre, il Collegio, nella menzionata
pronuncia, in tema di legittimazione passiva.
La questione verteva, in particolare, sull’assoggettabilità al giudizio di conto del
rappresentante istituzionale dell’ente, il quale – pur qualificabile come agente contabile, in
assenza della nomina di uno specifico soggetto all’interno dell’Amministrazione – non aveva
rivestito detta carica nelle annualità per le quali aveva sottoscritto il conto giudiziale.
In proposito, il Collegio ha osservato che “occorre riscontrare (cfr. C. Conti, III sez. appello,
sent. n. 95/2017) l'effettiva sussistenza della legittimazione ad causam, ex artt. 81 c.p.c. e 24
della Cost., [del sottoscrittore del conto giudiziale], ovvero la concreta titolarità del rapporto
contabile sub iudice. Orbene, come già rilevato dal magistrato relatore nella originaria relazione n.
19/2015 e come puntualmente eccepito dall'interessato nella memoria depositata in atti, l'esame
della documentazione versata in atti evidenzia come il [sottoscrittore del conto] non possa esser
ritenuto agente contabile - consegnatario delle azioni e partecipazioni con riguardo agli esercizi in
esame […]. In proposito, in disparte l'assoluta assenza di formali provvedimenti di nomina-
conferimento delle funzioni di agente contabile-consegnatario delle azioni, appare dirimente
constatare che, come comprovato da certificazione in atti, il [sottoscrittore] ha assunto le funzioni
[istituzionali in una data successiva agli esercizi prospettati all’esame del Collegio]. Detta
evidenza interdice, ictu oculi (tanto più in quanto il soggetto non risulta aver rivestito alcuna
ulteriore funzione, negli anni in questione, nell'ambito dell'ente […]), ogni possibilità di attribuire
in via interpretativa [al mero sottoscrittore dei conti giudiziali], sulla base degli atti
organizzativi dell'Ente ovvero delle funzioni intestate dall'ordinamento al presidente
- 37 -
dell'Amministrazione […], la qualifica di agente contabile- consegnatario di azioni e
partecipazioni”.
Nella sent. n. 80/2017, resa sul conto giudiziale di un economo, la Sezione ha avuto modo di
tornare sulla definizione dei concetti cardine in materia di spesa economale, chiarendo che
“secondo giurisprudenza ormai consolidata, costituiscono deroga rispetto al principio generale di
necessaria programmazione degli acquisti, essendo, in linea di massima, dirette a fronteggiare
esigenze impreviste inerenti alle attrezzature e al materiale di consumo occorrente per il corretto
funzionamento della struttura amministrativa.
Detta peculiare modalità di approvvigionamento e spesa, secondo pacifica giurisprudenza,
rinviene fondamento nei principi generali in materia di amministrazione e contabilità pubblica, la
cui ratio va individuata nella esigenza di consentire alle amministrazioni pubbliche di far fronte,
con immediatezza, a quelle spese necessarie per il funzionamento degli uffici, per le quali il ricorso
all’ordinario procedimento di spesa potrebbe costituire un impedimento o un ostacolo al buon
andamento, in termini di efficienza, efficacia e speditezza, dell’azione amministrativa (ex
pluribus, Sez. Giur. Veneto, n. 134/2013).
Sul terreno contabile, mentre l'ordinario processo di spesa inizia con l'impegno e la prenotazione
sul corrispondente capitolo di bilancio (relativamente, quest'ultima, agli enti aventi contabilità
finanziaria di carattere autorizzatorio; fa invece capo al c.d. budget negli enti pubblici a
contabilità economica), la spesa economale inizia con un pagamento disposto direttamente
dall'agente contabile (nei limiti delle disponibilità ad esso assegnate e della capienza della relativa
unità elementare di bilancio-budget per gli enti con contabilità economica) che viene poi
"ratificato" dal Responsabile del Servizio Finanziario con l'imputazione a bilancio e la
riconduzione all'impegno originariamente assunto con lo stanziamento sul fondo economale (cfr,
Sez. Molise, sent. n. 31/2016 e sez. Piemonte n. 45/2017)
Dal carattere anticipatorio (e sostanzialmente derogatorio) della gestione economale, discende la
necessità che le amministrazioni pongano a disposizione dell’economo fondi necessariamente
limitati, per provvedere, in conformità alle richieste dei diversi uffici, a spese minute, controllando
ovviamente il buon fine delle medesime.
Tanto precisato, il Collegio ritiene altresì necessario richiamare alcuni principi giurisprudenziali
elaborati dalla Corte dei conti con riferimento ai giudizi di conto resi da economi operanti presso
pubbliche amministrazioni, di seguito sinteticamente riportati:
- 38 -
- l’economo è personalmente responsabile delle somme ricevute in anticipazione e pertanto deve
dimostrare, nel conto reso annualmente, la regolarità dei pagamenti eseguiti in stretta correlazione
agli scopi per i quali sono state disposte le anticipazioni;
- l’economo è abilitato ad utilizzare il fondo economato per le sole spese tassativamente previste nel
relativo regolamento e non può distrarlo per eseguire spese non espressamente previste nel
regolamento;
- in disparte ogni valutazione in ordine all’utilità diretta delle spese effettuate per l’ente, va
affermata l’irregolarità di spese economali allorquando esse non siano previste nel regolamento di
contabilità e/o economale e non siano riconducibili a finalità istituzionali dell’ente;
- il controllo e la verifica della regolarità delle spese costituisce un obbligo del responsabile del
servizio finanziario ed è propedeutico al discarico delle somme pagate;
- vi può essere responsabilità concorrente dell’economo che ha effettuato spese non previste o
superiori al limite massimo stabilito nel regolamento e del responsabile del servizio finanziario
(ma a titolo di responsabilità amministrativa, ove azionata secondo legge) che non le abbia
segnalate a seguito dell’esame in sede di rendicontazione e di parificazione;
- il fondo economale non può essere utilizzato per aggirare le disposizioni di contabilità in tema di
assunzione di impegno di spesa, neppure ricorrendo all’artificiosa parcellizzazione delle spese;
- il fondo economale deve essere determinato annualmente in sede di approvazione del documento
generale di bilancio dell’ente (per le aziende sanitarie, il budget), quale espressione dell’indirizzo
politico-amministrativo dell’ente”.
Con analogo riferimento alle gestioni economali, è significativa la pronuncia di cui alla sent.
n. 79/2017, in cui il Collegio ha specificato – con ancora maggiore sforzo descrittivo – i
connotati della relativa spesa. In particolare, si è affermato che “l’esistenza della gestione di
spese c.d. “economali”, per acquisti di beni di modesta o limitata entità economica che comportano
urgenza di liquidazione, trova giustificazione nei principi generali in materia di contabilità
pubblica, la cui ratio va individuata nella esigenza di consentire alle amministrazioni pubbliche di
far fronte, con immediatezza, a quelle spese necessarie per il funzionamento degli uffici, per le
quali, il ricorso all’ordinario procedimento di spesa (artt. 182 e ss. del T.U.E.L), costituirebbe un
impedimento o un ostacolo al buon andamento, in termini di efficienza, efficacia e speditezza,
dell’azione amministrativa (conformi, Sez. Giur. Veneto, n. 134/2013). In altri termini, le spese
economali rivestono carattere residuale rispetto agli acquisti compiuti nell’ambito di una
- 39 -
programmazione generale, e ciò in ragione del fatto che la programmazione delle spese ne
garantisce una maggiore efficienza economica, oltre ad essere non di rado resa obbligatoria dalle
norme sulle procedure di evidenza pubblica. Rientrano, dunque, nel novero delle spese economali
esclusivamente quelle caratterizzate dall’indefettibile caratteristica della non programmabilità,
imprevedibilità, improcrastinabilità; requisiti che impongono, a fortiori, una disciplina di
maggior rigore”.
Richiamando, quindi, alcuni dei principi individuati dalla legge e dalla giurisprudenza
contabile con riferimento ai giudizi sui conti resi dagli agenti contabili, in generale, operanti
presso pubbliche amministrazioni, compresi gli economi, il Collegio ha altresì chiarito che
““l’economo – al pari di ogni altro agente contabile - è personalmente responsabile delle somme
ricevute in anticipazione ed è tenuto a dimostrare la regolarità dei pagamenti eseguiti in stretta
correlazione con gli scopi per i quali sono state disposte le anticipazioni, vale a dire tassativamente
previsti nel relativo regolamento, senza alcuna possibilità di distrazione o sviamento, in disparte
da ogni valutazione operata sull’utilità delle spese effettuate per l’ente.
Invero, secondo la pacifica giurisprudenza di questa Corte (per tutte, Sez. Giur. Campania n.
1605/2001 e Sez. Giur. Lombardia, n. 244 del 08.03.2007) e aderendo a quanto affermato dalla
sentenza n. 371/1998 della Corte Costituzionale - da cui il Collegio non ravvisa valide ragioni per
discostarsi - la responsabilità contabile intesa stricto sensu, pur possedendo identità di elementi
costitutivi con la responsabilità amministrativa, si atteggia diversamente non potendo non tenere
conto della specificità delle obbligazioni che incombono su coloro che hanno il maneggio di beni e
valori di pubblica pertinenza, rinvenendosi ogniqualvolta sussista e sia dimostrata l’inescusabile,
mancata restituzione di beni e valori a causa di una condotta connotata da dolo o da grave
colpevolezza (C. Conti, SS.RR., n. 1/2001/QM del 18/1/2001 e Sez. I Centrale, 15/10/2009 n.
581 e 29/3/2010, n. 208). In altri termini, ai fini del giudizio sulla responsabilità dei contabili,
non viene in rilievo un’unica e generale obbligazione di restituzione del danaro o dei valori dello
Stato, ma l’inosservanza da parte dell’agente contabile degli obblighi propri del servizio prestato,
che abbia determinato o concorso a determinare il danno al cui ristoro l’azione mira. Tra gli
obblighi di servizio derivanti da una “posizione di garanzia” assunta dall’agente contabile,
assumono notevole rilievo l’esatta gestione, la sua formalizzazione e la tenuta di regolare
contabilizzazione, l’obbligo di custodia (custodiam praestare) e di riversamento dei proventi
incassati a scadenze determinate (Sez. II App., 20/2/1996, n. 1). Tale assunto comporta che, pur
non essendo configurabile una sorta di presunzione di colpa nei confronti dell’agente contabile,
- 40 -
tuttavia, per la particolare disciplina della responsabilità, ex art. 194 e 615 del R.D. n. 827/1924,
egli è tenuto a rispondere, in ogni caso, delle somme riscosse ed a versarle nelle casse erariali … “
con assunzione di responsabilità in caso di ammanco, salvo i casi di forza maggiore …” (come
ritenuto da Sez. I, 28/5/2009, n. 367), alla stregua dei principi di matrice civilistica che
disciplina la responsabilità contrattuale prevista dall'art. 1218 c.c. secondo cui, in caso di
inadempimento, grava sul debitore l'onere di fornire eventuale prova contraria (c.d. prova
liberatoria della dimostrazione della diminuzione patrimoniale), pur dovendosi però escludere
qualsiasi sussistenza di “presunzione di colpa” o, come opina certa dottrina, una “inversione
dell’onere della prova”, per una sorta di responsabilità c.d. “aggravata” del contabile (conforme,
art. 50, co. 5, del Regolamento comunale).
5. Da quanto appena precisato, in punto di diritto, consegue che l’accertamento della
responsabilità contabile va condotto, pressoché non dissimilmente da quanto avviene per la
responsabilità amministrativa, alla stregua dei tradizionali canoni di verifica e di valutazione
della sussistenza degli elementi costitutivi che possono atteggiarsi, nella specie, in una condotta,
dolosa o gravemente colposa, illecita o antigiuridica posta in essere nell’esercizio di un rapporto di
servizio intercorrente tra l’agente e l’Amministrazione che abbia comportato un non corretta e
regolare gestione del denaro o dei beni pubblici ricevuti in custodia e di cui si ha l’obbligo di
rendicontazione (artt. 74 R.D. n. 2440/1923, artt. 178, 194 e 616 R.D. n. 827/1924 e artt. 93 e
233 T.U.E.L., questi ultimi, in particolare costituenti referenti normativi degli agenti contabili
degli enti locali).
E ciò in disparte dalle ipotesi, pur sempre configurabili, di fatti rilevanti ai fini della
responsabilità ammnistrativa di danno, anche concorrente, da un lato, dell’economo che ha
effettuato spese non previste (o, ad esempio, superiori al limite massimo stabilito) nel regolamento
e, dall’altro, del responsabile del servizio finanziario e/o dell’organo di revisione dei conti e
dell’amministratore e dipendente della struttura amministrativa di riferimento che,
rispettivamente, non le abbia opportunamente segnalate a seguito dell’esame in sede di
rendicontazione e/o effettivamente richieste o, addirittura, imposte, la cui natura non è rilevabile
ed esula dal presente giudizio di conto.
Ragion per cui, conclusivamente, il Collegio ritiene che nei giudizi di conto economali debba farsi
luogo all’affermazione dell’irregolarità delle spese sia allorquando esse si rivelano contra legem
perché non rientrano nella tipologia di quelle previste nel relativo regolamento di contabilità e/o
economale approvato, sia se esse si rivelino prive dei requisiti indispensabili del modico valore,
- 41 -
imprevedibilità ed urgenza sia, infine, e più in generale, quando esse non si rivelino riconducibili
a finalità ed utilità istituzionali dell’ente””.
2.3 I giudizi maggiormente rilevanti in materia pensionistica
La materia pensionistica ha offerto lo spunto per interessanti pronunce, tra le quali quella di
cui alla sent. n. 18/2017.
In tale pronunzia, la Sezione ha ritenuto riconducibile alla giurisdizione della Corte dei conti
la domanda proposta da un ente pubblico datore di lavoro, nei confronti dell'Inps, avente ad
oggetto la restituzione di quanto trattenuto dall'Ente previdenziale in virtù di un presunto
indebito poi invece dichiarato insussistente con sentenza passata in giudicato. Tale
fattispecie, ad avviso del giudice monocratico, “realizza, seppure a parti invertite, una classica
azione di rivalsa tipica della materia pensionistica ex art. 8 del DPR n. 538/1986,
tradizionalmente ascritta dalla suprema Corte nell'alveo della giurisdizione contabile (da ultimo
ed ex aliis, Cass. SS.UU., sent. n. 11769/15)".
Nella medesima pronuncia, la Corte ha altresì fatto applicazione di un ““recente ed autorevole
indirizzo interpretativo, inaugurato da Cass. n. 7586/2011 e ormai seguito da Cass., 49362/2015
(nonchè incidentalmente da Cass. n. 16657/2014), secondo cui “in tema di ripetizione d'indebito
oggettivo, l'espressione "domanda" di cui all'art. 2033 c.c. non va intesa come riferita
esclusivamente alla domanda giudiziale ma anche ad atti stragiudiziali aventi valore di
costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c .... La ragione di decorrenza degli interessi, di cui
all'art. 2033 c.c., dalla domanda stragiudiziale invece che da quella giudiziale è di carattere
generale. Come ritenuto da Cass. n. 7586/2011, la riconduzione della formula letterale dell'art.
2033, che parla di "domanda" senza aggettivi, alla domanda giudiziale ha un antico fondamento
storico che a questo Collegio appare non più corrispondente all'attuale sistema del codice civile”
(in questi termini, la menzionata sentenza della suprema Corte n. 49362/2015””.
Con l’ord. n. 2/2017, il Collegio ha pronunciato in ordine al reclamo proposto, ex artt. 700 e
669-terdecies c.p.c., avverso un’ordinanza che respingeva l’istanza di riammissione in servizio,
in via cautelare, proposta da un dipendente pubblico, collocato a riposo d’ufficio.
Pur avendo, in via preliminare, declinato la propria giurisdizione in favore del Giudice civile,
il Collegio ha, tuttavia, ritenuto di riformare, in parte qua, l’ordinanza impugnata, rilevando
- 42 -
che “nell’esercizio della cognizione sommaria riservata al Giudice processualmente sovraordinato,
il Collegio ritiene che l’ordinanza n. 5/2017 reclamata vada modificata parzialmente – sia pure
nei limiti di una valutazione meramente prognostica […].
Invero, giova ricordare – brevemente rinviando al suo contenuto per relationem – che, nel
respingere l’istanza cautelare proposta, […] da una sommaria delibazione delle argomentazioni in
fatto e in diritto prospettate dal ricorrente, il G.U. ha ritenuto il ricorso proposto sfornito del
presupposto legale del "fumus boni juris" richiesto ai fini della concessione del provvedimento
cautelare invocato.
A sostegno dei motivi addotti circa la sussistenza di tale “fumus boni iuris” il G.U. si è riportato
alla circolare n. 2/2015 del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione
(peraltro citata da entrambe le parti in giudizio) che prevede, nel caso del mancato raggiungimento
del minimo contributivo, la prosecuzione del rapporto di lavoro con il dipendente, allorché
quest’ultimo non abbia maturato alcun diritto a pensione al momento del compimento della c.d. età
limite ordinamentale.
Sennonché, considerato cha a costituire il “thema decidendum” dirimente della pretesa di parte
ricorrente sia proprio l’innalzamento dei requisiti di accesso a pensione in relazione agli
incrementi della speranza di vita, il primo giudice è pervenuto alla conclusione che l’istante, che
compirà il 70° anno di età solo il 7.7.2019, potrebbe effettivamente maturare il requisito dei 20
anni di contribuzione solo computando l’aspettativa di vita al momento del raggiungimento della
predetta età, e che tale ““requisito figurativo, tuttavia, rappresenta, allo stato, solo un dato
eventuale e ipotetico, considerato che l’aspettativa di vita ha un mero valore statistico, fino a
quando non sarà concretamente recepita e normata in decreti ministeriali”” e ““in carenza di un
dato normativo siffatto, applicativo del predetto adeguamento alla speranza di vita,
all’amministrazione pubblica è interdetta l’emanazione ex nunc di un provvedimento di
prosecuzione del rapporto di lavoro che risulterebbe privo di una cornice normativa regolativa della
fattispecie””.
In pratica, fino a quando gli incrementi prospettati dal ricorrente non verranno recepiti in decreti
ministeriali (integrativi) non possono influire sulle determinazioni assunte dalla P.A.
Tale ragionamento, tuttavia, si rivela condivisibile solo in parte, in quanto, pur essendo proteso
alla non valutazione degli ulteriori (rispetto ai sette mesi già maturati) cinque mesi di aspettativa
di vita (la cui previsione non era ancora entrata a far parte dell’ordinamento positivo all’atto del
- 43 -
collocamento a riposo), non appare aver tenuto conto del periodo contributivo riconosciuto in sede
di ricongiunzione.
Al riguardo, va subito sottolineato – sempre allo stato della sommaria cognizione cautelare – che,
in forza della sentenza della Corte Costituzionale n. 33/2013 (e dei precedenti da essa
menzionati), la disposizione del D.P.R. 29 dicembre 1973, n.1092, art. 4, comma 1, che dispone
la cessazione dal servizio per gli impiegati al compimento del sessantacinquesimo anno di età, non
è stata cancellata dall'ordinamento, ma è stata modificata solo entro limiti ben precisi, nel senso
che la deroga, e quindi la facoltà di prosecuzione del rapporto di lavoro, è ammessa soltanto per il
tempo strettamente necessario al raggiungimento dell'anzianità minima per il diritto a pensione e,
comunque, non oltre il settantesimo anno di età.
Sicché, l’ordinamento – quale modificato dall’intervento del Giudice Costituzionale – prevede che
in alcune ed eccezionali ipotesi l'Amministrazione sia tenuta a proseguire il rapporto di lavoro col
dipendente.
Al riguardo, la prima parte dell’art. 2.3.1 della citata circolare n. 5/2015, sottolinea che ““Ciò si
verifica, innanzitutto, quando il dipendente non matura alcun diritto a pensione al compimento
dell'età limite ordinamentale o al compimento del requisito anagrafico per la pensione di
vecchiaia. In tali casi, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale,
sentenze n. 33 del 2013 e n. 282 del 1991), l'amministrazione deve proseguire il rapporto di lavoro
con il dipendente oltre il raggiungimento del limite per permettergli di maturare i requisiti minimi
previsti per l'accesso a pensione non oltre il raggiungimento dei 70 anni di età (limite al quale si
applica l'adeguamento alla speranza di vita)””. […]
Da quanto sopra argomentato – allo stato della sommaria cognizione della presente sede – appare
doversi, dunque, inferire che, nel caso di specie, l’età pensionabile ai fini del trattamento di
vecchiaia per l’anno 2016 – anno in cui il [ricorrente] è stato collocato a riposo […] a seguito di
risoluzione o recesso unilaterale d’ufficio del rapporto – era fissata in 66 anni e 7 mesi, mentre il
limite anagrafico, per il trattenimento in servizio, doveva computarsi in 70 anni e 7 mesi, per
effetto del requisito anagrafico adeguato alla variazione della speranza di vita che ha subito un
incremento nei due trienni successivi per effetto, rispettivamente, del D.M. 6/12/2011 (3 mesi) e
del D.M. 16/12/2014 (4 mesi), rispetto ai 66 anni inizialmente previsti dal nuovo regime a
decorrere dall’1/1/2012.
- 44 -
Non potrebbero, però, essere presi in considerazione gli ulteriori cinque mesi di aspettativa di vita,
in quanto allo stato meramente eventuali, posto che la relativa previsione, all’atto del collocamento
a riposo dell’istante, non era ancora entrata a far parte dell’ordinamento positivo.
Nondimeno, in forza della chiave interpretativa fornita dalla predetta circolare n. 2/2015, con
riferimento alla parte di essa sopra riportata – il ricorrente, aggiungendo, ai sette mesi di
aspettativa di vita già maturata, il periodo contributivo oggetto di ricongiunzione (pari a mesi 8 e
giorni 28, che è stata riconosciuta, su istanza del ricorrente presentata il 17/6/2016, dall’INPS in
data 19/7/2016 con atto n. DT011201600019005 ai fini del trattamento pensionistico; cfr. All.
16, 25 e 26 del fascicolo del ricorrente), cui fa riferimento l’istante – permanendo in servizio attivo
sino all’età di 70 anni e 7 mesi, che compirebbe il 7/2/2020 (essendo nato il 7/7/1949),
raggiungerebbe il requisito contributivo minimo dei 20 anni richiesto, ai fini del diritto al
trattenimento in servizio, per la maturazione e perfezionamento del diritto a pensione di vecchiaia
(requisiti anagrafici e contributivi); e ciò a prescindere dal profilo della concorrente condizione,
pure reclamata dal ricorrente, che l’importo della pensione, raggiunga, nel caso di specie,
comunque il limite preso in considerazione dall’ultima parte […] della circolare n. 2/2015) sopra
riportata […]. Pertanto, anche sotto tale aspetto, l’ordinanza impugnata va modificata. […] Va
ulteriormente dichiarato che restano comunque salvi gli eventuali provvedimenti (anche in sede di
autotutela, a scanso di possibili pregiudizi che potrebbero anche sortire effetti difficilmente
riparabili in considerazione dei tempi tecnici richiesti per l'esaurimento di tutte le eventuali
sequenze processuali azionabili già solo per la risoluzione della questione di giurisdizione, stante
quanto già argomentato al punto 2.1 della presente ordinanza) di competenza
dell’Amministrazione conseguenziali alla presente ordinanza cautelare di modifica parziale
dell’ordinanza del giudice di prime cure”.
Nella sent. n. 45/2017, nel pronunciare in merito ad un’eccezione di inammissibilità, per
mutatio libelli, del ricorso in riassunzione, il Giudice ha rilevato che ““sul terreno della
ricostruzione dell'istituto della "”riproposizione”" (art. 59, comma 4, della legge n. 69/2009) del
giudizio a seguito di pronunzia declinatoria di giurisdizione, la Suprema Corte, seppure
precedentemente all'entrata in vigore della suddetta legge, ha avuto modo di affermare che “La
riassunzione della causa dinanzi al giudice di rinvio instaura un processo chiuso, nel quale è
preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di proporre nuove domande, eccezioni, nonché
conclusioni diverse” (Cass. sez. lavoro, sent. n. 29329/2008). Conclusioni che la Suprema Corte
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ha sostanzialmente ribadito anche successivamente all'entrata in vigore della legge n. 69/2009,
affermando che “il processo iniziato davanti ad un giudice, che ha poi dichiarato il difetto di
giurisdizione, e riassunto nel termine di legge davanti al giudice, indicato dal primo come dotato
di giurisdizione, non costituisce un nuovo ed autonomo procedimento, ma la naturale prosecuzione
dell'unico giudizio per quanto inizialmente introdotto davanti a giudice carente della,
giurisdizione. Mediante l'istituto della translatio iudicii si mira proprio a realizzare la
conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda originaria, con esclusione della
necessità della riproposizione ex novo della domanda, allorché il giudizio è riattivato innanzi al
giudice provvisto di giurisdizione, secondo i principi fissati dalla Corte cost. (sent. 12.3.2007, n.
77) e dalle S.U. di questa Corte (22.2.2007, n. 4109)”.
Peraltro, pare utile rilevare come detto orientamento giurisprudenziale sia stato sottoposto a serrati
rilievi critici da buona parte della dottrina, nella misura in cui vieterebbe qualsivoglia mutamento
della domanda giudiziale, anche finalizzata ad adeguarla alle eventualmente diverse regole
sostanziali e processuali vigenti dinanzi al giudice ad quem. A sostegno di dette censure, la
suddetta dottrina ha evidenziato la peculiarità del termine ““riproposizione”” (e non già
riassunzione) utilizzato nel testo del menzionato art. 59 ed ha sottolineato che la qualificazione in
termini di riassunzione male si armonizzerebbe con l'inciso di cui al secondo comma della norma,
ove si prevede la salvezza degli effetti che la domanda giudiziale avrebbe prodotto se il giudice
provvisto di giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del giudizio.
Inoltre, si è rilevato che il comma 4 dell'art. 69 espressamente menziona non soltanto la
riassunzione ma anche la prosecuzione del giudizio (“L'inosservanza dei termini fissati ai sensi
del presente articolo per la riassunzione o per la prosecuzione del giudizio comporta l'estinzione del
processo, che e' dichiarata anche d'ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli
effetti sostanziali e processuali della domanda”).
Orbene, con riguardo al caso di specie, […] sebbene si riscontri una oggettiva differenza tra [...]
domanda originaria (computo tout court degli emolumenti nella base pensionabile e conseguenti
pagamenti) e [domanda] in riassunzione (computo nella quota A e conseguenti differenze rispetto
al computo in quota B), ritiene questo giudice che detta differenziazione non possa comportare
l'inammissibilità della domanda, in quanto trattasi di ricalibrazione in minus dell'originario
petitum, lamentandosi in sostanza dinanzi a questo giudice un computo parziale ovvero non
puntualmente corretto nè integralmente satisfativo.
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D'altra parte, ove si pervenisse ad una qualificazione in termini di “domanda nuova”, la
declaratoria di inammissibilità del riscorso in riassunzione dovrebbe implicare l'impossibilità di
riqualificarlo in termini di “riproposizione” (ove si accedesse a già riferita ricostruzione
dottrinale) ovvero di nuovo ricorso (principio di conservazione degli atti giuridici), seppure con le
correlate conseguenze di legge (nella specie prive di rilievo, avuto riguardo allo stato degli atti)””.
Nella sent. n. 54/2017 in tema di computabilità, ai fini pensionistici, esclusivamente in quota
B, degli emolumenti percepiti da un funzionario di una Azienda sanitaria per le funzioni di
segretario della Commissione Invalidi civili, la Sezione, premessi cenni ricostruttivi della
disciplina generale in materia di computo della base pensionabile, ha chiarito – con più
specifico riguardo alla natura dell’emolumento ““per come disciplinato dalla legislazione pro
tempore vigente – quanto appresso: “In particolare, risulta agli atti (e non contestato dalle parti
resistenti) che il ricorrente ha svolto, oltre a quelle ordinarie di funzionario amministrativo di
azienda sanitaria, le mansioni di segretario di Commissione medica, prevista dalla legge n.
295/1990, incaricata di effettuare gli accertamenti sanitari “relativi alle domande per ottenere la
pensione, l'assegno o le indennità d'invalidità civile, di cui alla legge 26 maggio 1970, n. 381, e
successive modificazioni, alla legge 27 maggio 1970, n. 382, e successive modificazioni, alla legge
30 marzo 1971, n. 118, e successive modificazioni, e alla legge 11 febbraio 1980, n. 18, come
modificata dalla legge 21 novembre 1988”.
Con specifico riguardo per la Regione Molise, la disciplina di detta Commissione è stata
dettata/integrata dalla legge regionale n. 6/1996, che ha espressamente previsto che le funzioni di
segretario della Commissione siano svolte (art. 3, comma 5) “da un dipendente del ruolo
amministrativo, in servizio presso l'Azienda”, come nella specie accaduto.
Detta legge regionale ha altresì espressamente previsto (art. 8) la corresponsione di emolumenti sia
per i componenti della commissione che per i segretari, determinato in un “gettone di presenza” per
ogni seduta, con l'aggiunta di un “compenso aggiuntivo” per ogni visita.
Orbene, con riguardo alla domanda giudiziale avanzata dal pensionato, deve innanzitutto
escludersi la computabilità dei suddetti emolumenti in quota A della base pensionabile, tenuto
conto del disposto del già menzionato art. 2, comma 11, della legge n. 335 del 1995.
Del resto, i menzionati “gettoni di presenza” e “compenso aggiuntivo” non risultano ictu oculi
riconducibili al novero dei servizi computabili sia ai sensi dell'art. 43 del DPR n. 1092/1973, che
pone un principio di stretta tipicità delle componenti computabili (prevedendo l'inclusione dello
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stipendio nonchè di alcuni specifici assegni o indennità, nonché esplicitamente disponendo,
all'ultimo comma, che “nessun altro assegno o indennità, anche se pensionabile, possono essere
considerati se la relativa disposizione di legge non ne preveda espressamente la valutazione nella
base pensionabile”), sia dell'art. 8 della legge n. 259/1957 (peraltro abrogato dal decreto- legge n.
112/2008, conv. nella legge n. 133/2008), per come integrato dall'art.30 del decreto legge n. 55 del
1983 (conv. dalla legge n. 131 del 1983), secondo cui dovevano computarsi a fini pensionistici
esclusivamente ”gli emolumenti fissi e continuativi”, requisiti che, secondo giurisprudenza ormai
prevalente di questa Corte, devono esser interpretati in maniera rigorosa (non potendo esser
riconosciuti con riguardo ad emolumenti attribuiti in via transitoria od occasionale, ovvero
liquidati ad personam).
Per contro, la domanda attorea deve esser favorevolmente delibata con riguardo alla computabilità
in quota B dei suddetti emolumenti, in quanto rientranti nella nozione di cui all'art. 2, comma 9,
della legge 335/1995 (<<...tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in denaro o in
natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro...>>).
In proposito, si aggiunge che ulteriore argomentazione a favore della computabilità dei suddetti
emolumenti (nei termini riferiti), può altresì evincersi, stante il principio normativo di
tendenziale parallelismo tra base contributiva e pensionabile (ex art. 15, comma 3, della legge n.
724/1994), dalla prassi amministrativa dello stesso Ente previdenziale, che, con circolare n. 6 del
16/1/2014, ha espressamente incluso nella base contributiva “i compensi che un’Amministrazione
pubblica corrisponde ai propri dipendenti per la partecipazione a commissioni o comitati costituiti
con provvedimenti degli organi di governo o dell’Amministrazione medesima ovvero per
affidamento di incarichi o funzioni comportanti particolari responsabilità””.
Infine, nella sent. n.53/2017 – in tema di riconoscibilità del beneficio di cui all'art. 3, comma
7, del d. lgs. n. 165/1997 (incremento del montante individuale dei contributi con un importo
pari a 5 volte la base imponibile dell'ultimo anno di servizio moltiplicata per l'aliquota di
computo della pensione) al personale militare collocato in congedo assoluto per infermità – la
Sezione, dopo aver ricostruito le rilevanti differenziazioni di disciplina tra i militari collocati
in congedo assoluto per infermità (che, ai sensi dell'art. 790 del codice dell'ordinamento
militare, "non sono più vincolati a obblighi di servizio attivo in tempo di pace, in tempo di guerra
o di grave crisi internazionale") e quelli collocati in ausiliaria (che invece sono soggetti a
possibili richiami in servizio ex art. 993 c.o.m. nonché agli obblighi di cui all'art. 994 c.o.m.),
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ha ricostruito l'ambito applicativo dell'istituto previsto dall'art. 3, comma 7 del decreto
legislativo n. 165/1997, a norma del quale "Per il personale di cui all'articolo 1 escluso
dall'applicazione dell'istituto dell'ausiliaria che cessa dal servizio per raggiungimento dei limiti di
età previsto dall'ordinamento di appartenenza e per il personale militare che non sia in possesso
dei requisiti psico-fisici per accedere o permanere nella posizione di ausiliaria, il cui trattamento
di pensione è liquidato in tutto o in parte con il sistema contributivo di cui alla legge 8 agosto
1995, n. 335, il montante individuale dei contributi è determinato con l'incremento di un importo
pari a 5 volte la base imponibile dell'ultimo anno di servizio moltiplicata per l'aliquota di computo
della pensione. Per il personale delle Forze di polizia ad ordinamento militare il predetto
incremento opera in alternativa al collocamento in ausiliaria, previa opzione dell'interessato".
La Sezione ha quindi rilevato “"che il legislatore ha riconosciuto l'incremento del montante
contributivo sia al “personale di cui all'art. 1 escluso dall'ausiliaria che cessa dal servizio per
raggiungimento dei limiti di età”, che “al personale militare che non sia in possesso dei requisiti
psico-fisici per accedere o permanere nella posizione di ausiliaria”, categoria quest'ultima nella
quale evidentemente rientra l'ufficiale ricorrente, dichiarato non idoneo permanentemente al
servizio d'Istituto ex art. 929 del d. lgs. n. 66/2010, e dunque impossibilitato a prestare i
conseguenti (pur delimitati ed eventuali) servizi d'Istituto e dunque ad accedere all'istituto
dell'ausiliaria (cfr: C. conti, sez. giur. Abruzzo, sent. n. 28/2012).
Ovviamente, considerate le ragioni dell'impossibilità normativo/oggettiva di collocamento
dell'ufficiale in ausiliaria, neppure può propriamente ipotizzarsi l'esercizio di un'opzione da parte
dell'interessato, in quanto raggiunto da un provvedimento cogente di collocamento in congedo
assoluto per inidoneità assoluta e permanente al servizio"”.
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3. Rassegna della giurisprudenza contabile nel 2017
3.1 Le Sezioni Riunite in speciale composizione sulla natura e le finalità della giurisdizione contabile nell’ambito dei giudizi di impugnazione degli elenchi ISTAT Il decorso anno giudiziario è stato attraversato da numerose nuove questioni interpretative, sia per effetto dell’entrata a regime del nuovo Codice di giustizia contabile, di cui al D. lgs. n. 174/2016, sia per la necessità di puntualizzare aspetti sistematici di specifici istituti contabili. Di notevole interesse si presenta la sent. n. 31/2017 delle Sezioni Riunite in speciale composizione della Corte dei Conti, chiamate a pronunciare in merito ad un ricorso avverso gli atti annuali dell’Istat, di ricognizione, ai sensi dell’art. 1, comma 169, l. 24 dicembre 2012, n. 228, dell’aggregato delle Amministrazioni pubbliche tenute, ai sensi del SEC 2010, a concorrere al perseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, definiti, in ambito nazionale, in coerenza con le procedure e i criteri stabiliti dall'Unione Europea. Sul piano definitorio, le Sezioni hanno chiarito che quella ad esse sottoposta, in subjecta materia, “è una giurisdizione costituzionalmente e comunitariamente necessaria su controversie che coinvolgono immediatamente gli equilibri della finanza pubblica, come tali sussumibili nelle materia di contabilità pubblica di cui all'art. 103 Cost. Il rimedio giurisdizionale, da esercitarsi nell'ambito di un processo in unico grado, è finalizzato alla tutela dell'interesse pubblico comunitario e costituzionale ad una finanza sana ed in equilibrio”. Sulla natura del giudizio rimesso alle Sezioni, si chiarisce che esso “”E' un giudizio non strettamente impugnatorio (C. conti, sez. riun. 27 novembre 2013, n. 7/2013/RIS; sez. riun., 31 marzo 2015, n. 12/2015/RIS, sez. riun., 1 luglio 2015, n. 35/2015/RIS e sez. riun., 22 luglio 2015, n. 41/2015/RIS) in quanto le Sezioni riunite esercitano una giurisdizione esclusiva a cognizione piena non sostitutiva attraverso la quale, lungi dal fermarsi all'esame delle mere violazioni formali, si effettua una valutazione sostanziale sulla legittimità dell'esercizio del potere dell'ISTAT di inserire "unità istituzionali" nell'elenco delle Amministrazioni pubbliche di cui al sistema Europeo dei conti nazionali e regionali nell'Unione Europea - c.d. SEC 2010 - istituito con regolamento n. 549/2013/UE del 21 maggio 2013, che ha superato il precedente sistema SEC 1995 adottato con regolamento n. 2223/96/CE del 25 giugno 1996 (le violazioni formali, difatti, rilevano "solo ed in quanto abbiano inciso sul contenuto sostanziale della decisione finale", con irrilevanza dei vizi meramente formali "stante la peculiare disciplina regolatoria alla quale è sottoposto il procedimento, in relazione alla sua specifica natura e finalità" C. conti, sez. riun., 21 dicembre 2015, n. 69/2015/RIS; in termini sez. riun., 22 luglio 2015, n. 41/2015/RIS secondo la quale "la giurisdizione attribuita a queste Sezioni riunite è una "giurisdizione piena a carattere non impugnatorio" (v. in termini Sezioni riunite in speciale composizione, sentenza n. 35/2015/RIS), che, lungi dal potersi qualificare "giurisdizione di merito sostitutiva" così come riterrebbe invece la parte ricorrente, conosce pienamente del rapporto, ivi compresi i vizi del procedimento, i quali non rilevano in sé, qualora sussistenti, ma solo nella loro concreta e dimostrata alterazione dell'esito finale del procedimento di inclusione degli enti nell'elenco ISTAT […]””.
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Nell'ambito della giurisdizione in unico grado ed in speciale composizione, quindi, le Sezioni riunite, ritengono di essere assegnatarie di una cognizione sostanziale piena del rapporto, che non può arrestarsi ““dinanzi all'eventuale riscontro di vizi meramente formali o procedimentali la cui deduzione non può essere esclusiva ma deve essere accompagnata da censure di ordine sostanziale finalizzate a ribaltare la ricognizione effettuata dall'Istituto nazionale di statistica. Ciò perché l'inserimento di un'unità istituzionale (ovverosia "un'entità economica caratterizzata da autonomia di decisione nell'esercizio della propria funzione principale" par. 2.12 reg. 549/2013) nel sistema dei conti pubblici italiano (c.d. conto economico consolidato delle Pubbliche amministrazioni) è fondamentale onde ottenere dati di finanza pubblica omogenei tra gli Stati membri, dunque comparabili, nonché per valutare il rispetto dei vincoli e parametri di stabilità e crescita, con conseguenziale necessità costituzionale e comunitaria della giurisdizione esercitata da queste Sezioni riunite che, peraltro, con particolare riguardo alle impugnazioni presentate dalle Federazioni sportive nazionale è stata reiteratamente affermata””. 3.2 La rinuncia agli atti nei giudizi ad istanza di parte e il ruolo del Pubblico Ministero contabile La vicenda dedotta nel giudizio definito con la sent. n. 9/2017 ha offerto, alle Sezioni Riunite, l’occasione di illustrare le finalità ed i connotati normativi dell’istituto processuale della rinuncia agli atti, definendo, nel contempo, anche alcuni principi concettuali sul ruolo della Procura contabile nei giudizi ad istanza di parte. Nello specifico, vista la rinuncia agli atti effettuata dalla Federazione ricorrente e accettata dall’Istituto resistente, la Procura generale aveva chiesto – viceversa – che il Collegio desse la precedenza alla delibazione dell’eccezione di inammissibilità del gravame per tardività, procedendo solo successivamente al vaglio della rinuncia agli atti. Coerentemente con tale richiesta, la P.G. si era opposta alla rinuncia agli atti. In proposito, il Collegio ha invece reputato ““che la rinuncia agli atti del giudizio proposta dalla parte attrice debba essere valutata con precedenza rispetto alla dedotta eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività. La rinuncia agli atti – laddove sia accettata dalla controparte che abbia un interesse alla prosecuzione del giudizio - impone infatti al Giudice di arrestarsi non solo per obiettive ragioni di economia processuale, connesse ai principi del giusto processo e di ragionevole durata dello stesso; bensì, anche e soprattutto, per garantire il rispetto della volontà delle parti: profilo, questo, vieppiù rilevante in un processo, quale è il giudizio in unico grado presso queste Sezioni riunite avente ad oggetto l’impugnazione dell’elenco ISTAT, indiscutibilmente ispirato alla logica dei giudizi ad istanza di parte, nei quali deve essere assicurato il pieno rispetto del principio dispositivo. L’accettazione della rinuncia agli atti, in effetti, preclude al Giudice la conoscenza di tutte le altre questioni relative alla controversia, siano esse di merito o di rito. Preclude l’esercizio del potere giurisdizionale da parte della Corte, in quanto adita in base ad una libera scelta del soggetto titolare dell’interesse sostanziale (nella specie la Federazione motociclistica italiana), ove tale
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scelta di ritiro dell’atto processuale sia condivisa dalla controparte sostanziale (nella specie l’ISTAT, titolare del potere di accertamento ricognitivo delle Pubbliche Amministrazioni da inserire nel conto economico consolidato). Giova rilevare, in proposito, come in tempi recenti sia la Cassazione che il Consiglio di Stato abbiano riconosciuto precipuo rilievo al principio di economia processuale che consente al Giudice di pronunciarsi tenendo conto della c.d. “ragione più liquida” (le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno richiamato tale principio nelle sentenze 12 dicembre 2014, n. 26242 e 26243, sulla complessa questione relativa al potere di rilievo d’ufficio della nullità; anche l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato – sent. 27 aprile 2015, n. 5 – ha precisato che la facoltà di graduazione dei motivi non può mai incidere sugli ampi poteri giudiziali di identificazione della priorità e dell’ordine logico delle questioni processuali, come pure non può impedire al Giudice di respingere il ricorso sulla base di una “ragione più liquida”). Egualmente le Sezioni regionali di questa Corte hanno dato applicazione a siffatto principio, affermando la precedenza logica dell’eccezione di estinzione del giudizio per mancata riassunzione nel termine perentorio ex art. 297 c.p.c. in relazione a processi con pluralità di convenuti (e.g. Sez. giur. Campania, sent. 10 luglio 2015, n. 719). 3. In termini generali deve evidenziarsi che la fattispecie estintiva correlata alla rinuncia agli atti del giudizio – annoverata dalla dottrina processuale tra le c.d. “vicende anomale” del processo – è stata espressamente disciplinata dall’art. 110 del Codice di giustizia contabile, approvato con decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, alla stregua del quale “la rinunzia agli atti del processo può essere fatta dalle parti in qualunque stato e grado della causa” e “produce i suoi effetti solo dopo l’accettazione fatta dalla controparte nelle debite forme” (ovverosia “verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti”). Nei successivi commi 6 e 7 è altresì previsto che “il giudice, se la rinuncia e l’accettazione sono regolari, dichiara l’estinzione del processo” e “la declaratoria di estinzione non dà luogo a pronuncia sulle spese”. La norma, ad avviso del Collegio, non può che essere interpretata alla luce dei principi generali che disciplinano l’istituto, con particolare riferimento al principio dispositivo ed a quelli di effettività della tutela e della celerità del processo. Sul tema […] la Corte di cassazione ha stabilito che l’efficacia estintiva della rinunzia agli atti del giudizio è subordinata all’accettazione della stessa effettuata dalla parte nei cui confronti la rinuncia è fatta quando quest’ultima abbia interesse alla prosecuzione del processo: interesse che deve sostanziarsi nella possibilità di conseguire un risultato utile giuridicamente apprezzabile [“la rinuncia agli atti del giudizio - ammissibile anche in appello ex artt. 359 e 306 cod. proc. civ. – va tenuta distinta dalla rinuncia all'azione (o rinuncia all'impugnazione se interviene dopo il giudizio di primo grado) la quale è rinunzia di merito ed è immediatamente efficace anche senza l'accettazione della controparte determinando il venir meno del potere - dovere del giudice di pronunziare. Per la rinunzia agli atti del giudizio è necessaria invece l'accettazione della parte nei cui confronti la rinuncia è fatta quando essa abbia interesse alla prosecuzione del processo, interesse che deve concretarsi nella possibilità di conseguire un risultato utile e giuridicamente apprezzabile che presuppone la proposizione da parte sua di richieste il cui integrale accoglimento
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<procurerebbe ad essa una utilità maggiore di quella che conseguirebbe all'estinzione del processo” (Cass. 3 agosto 1999, n. 8387)]. La Suprema Corte ha inoltre precisato che, in mancanza di accettazione, la rinuncia agli atti può egualmente determinare una declaratoria di estinzione – questa volta operata in via d’ufficio – qualora la suddetta parte non abbia interesse alla prosecuzione del giudizio ovvero non abbia la possibilità di conseguire una utilità maggiore di quella che conseguirebbe dall’estinzione del processo [“l'estinzione del processo conseguente alla rinuncia agli atti del giudizio - ex art. 306 cod. proc. civ. - esige l'accettazione della parte nei cui confronti la rinuncia è fatta; ma essa può essere dichiarata d'ufficio, anche in difetto di accettazione, quando la parte menzionata non abbia interesse alla prosecuzione del processo; quando, cioè, essa non abbia la possibilità di conseguire una utilità maggiore di quella che conseguirebbe all'estinzione del processo” (Cass. 21 giugno 2002, n. 9066)].”” Tanto premesso sul piano espositivo, è toccato al Collegio “valutare se – nell’ambito del presente giudizio, che si svolge ad istanza di parte in unico grado dinanzi a questo Collegio – la Procura generale sia legittimata a prendere posizione in merito alla rinunzia agli atti espressa dall’attore e accettata della controparte resistente, nella specie titolare del potere ricognitivo-accertativo, il cui esercizio ha inciso sulla situazione giuridica sostanziale attivata dalla Federazione ricorrente. Il Codice di giustizia contabile, nel regolare esplicitamente siffatta tipologia di giudizi (art. 123-129 c.g.c.), qualifica il Procuratore generale in termini di “parte necessaria interveniente” legittimandola alla presentazione di memorie conclusionali, nonché alla formulazione di conclusioni orali nella sede della pubblica udienza. Il ruolo processuale della Procura generale, dunque, è posto a presidio dell’interesse pubblico complessivo, quale espressione di una funzione sovraindividuale volta ad assicurare l’effettiva corretta applicazione delle norme di coordinamento della finanza pubblica, strumentali al rispetto dei vincoli di appartenenza all’Unione europea e, quindi, la salvaguardia degli equilibri di bilancio e il perseguimento di una gestione finanziaria strutturalmente sana (articolo 81 Cost.). Nei giudizi concernenti gli elenchi ISTAT, l’interesse pubblico erariale che la Procura deve tutelare, come parte necessaria interveniente, è connesso alla ratio normativa propria del giudizio al quale è ascrivibile il ricorso odierno. Tale interesse è specificamente destinato ad assicurare che l’inclusione delle unità istituzionali sia rispettoso dei criteri e delle finalità sostanziali del SEC e che l’operato dell’ISAT sia rigorosamente coerente con i principi del sistema europeo dei conti, al fine di ostendere dati corretti nel conto economico consolidato. D’altro canto, il giudizio ad istanza di parte presenta di per sé natura dispositiva. Tale connotazione risulta vieppiù marcata nei giudizi concernenti gli elenchi ISTAT – come quello in esame – poiché in essi il soggetto resistente – l’ISTAT appunto – è presente in giudizio con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato. In questo modello processuale l’interesse tutelato dalla Procura generale non può configurarsi come duplicazione di quello proprio dell’Amministrazione resistente e la posizione della Procura stessa non può sovrapporsi a quella delle parti costitutive del rapporto processuale.
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Ne consegue che, in linea generale, nei giudizi ad istanza di parte (e, in particolare, in quelli relativi agli elenchi ISTAT), la Procura generale è certamente titolare di tutte le facoltà e le potestà processuali e sostanziali che siano direttamente collegate all’interesse pubblico tutelato e alla posizione di interveniente in un rapporto processuale costituito. La Procura interviene in un processo promosso e subito dalle parti titolari della res controversa, non potendo superare la concorde volontà dell’attore di rinunciare agli atti e del convenuto di accettare tale rinuncia. In altre parole la Procura generale, quale parte necessaria interveniente, non “dispone” del processo, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile l’opposizione alla rinuncia agli atti da parte dell’attore, accettate dal convenuto. Ovviamente ciò non scalfisce in alcun modo il significato istituzionale e la centralità del ruolo della Procura nei giudizi ad istanza di parte. In questi giudizi, infatti, la Procura può ben dispiegare tutte le eccezioni che ritiene siano utili all’interesse erariale perseguito. Ma non può proporre quelle che incidono sul rapporto processuale in quanto tale, trovandosi normativamente rispetto ad esso nella posizione di interveniente necessario, per così dire, esterno. Del resto, in dibattimento, la Procura non ha dedotto considerazioni utili a superare quanto appena ritenuto dal Collegio, ovvero a giustificare l’interesse pubblico ad un processo comunque non più voluto dalle parti. Per di più, deve rilevarsi come – nella presente fattispecie – il Requirente abbia espresso opposizione alla rinunzia della Federazione, assentita dall’ISTAT convenuta, non sulla base di ragioni di interesse pubblico alla prosecuzione del giudizio, ma su di un piano strettamente processuale, sostenendo l’antecedenza logico giuridica della questione di inammissibilità del ricorso per tardivo deposito dello stesso, rispetto allo scrutinio dell’atto di rinuncia. Antecedenza che, tuttavia, il Collegio non ha ritenuto ravvisabile. In ogni caso, quand’anche si volesse attribuire valore all’opposizione della Procura, il Collegio dovrebbe ritenere che tale opposizione sarebbe comunque fuori dai parametri dell’articolo 306 del Codice di procedura civile (in quanto riferibili anche all’articolo 110 c.g.c.) e, in particolare, da quello dell’utilità. Infatti, dall’accoglimento dell’opposizione, la posizione tutelata dalla Procura generale non riceverebbe una utilità concreta maggiore rispetto a quella derivante dalla declaratoria di estinzione, atteso che l’effetto di entrambe sarebbe comunque il mantenimento della Federazione ricorrente nell’elenco ISTAT”. 3.3 La Sezione d’Appello fa il punto sulla fattispecie di cui all’art. 53, comma 7 del Testo Unico sul pubblico impiego
La sent. n. 80/2017, della Prima Sezione Centrale d’Appello, fornisce un apprezzabile contributo ermeneutico in merito ad una delle più note ipotesi di responsabilità cd. “tipizzata”: quella di cui all’art. 53, commi 7 e 7-bis del D.lgs. n. 165/2001 (recante il Testo Unico delle disposizioni sul pubblico impiego).
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Detti articoli, rispettivamente, così recitano: “7. I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Ai fini dell'autorizzazione, l'amministrazione verifica l'insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell'autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell'erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell'entrata del bilancio dell'amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”. “7-bis. L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”. Nel caso di specie, la difesa del convenuto aveva sollevato eccezione di difetto di giurisdizione contabile sostenendo che, all'obbligo di riversamento del compenso percepito dal dipendente in violazione della norma citata, sarebbe stata tenuta in prima battuta l’Amministrazione e, solo successivamente, il dipendente stesso. Si sarebbe configurata, in tal modo, un'obbligazione di carattere privatistico rientrante nella cognizione del Giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro. A tale proposito, il Collegio, nel ritenere l’infondatezza del descritto motivo di impugnazione, ha evidenziato come la “pacifica giurisprudenza della Corte regolatrice (Cass. Civ. SS.UU. n. 22688 del 2011 e 20701 del 2013), seguita da questa Corte dei conti (questa Sezione I, n. 406 del 2014 e n. 1052 del 2014) […] ha sottolineato che l'art. 7 del d. lgs. n. 165 del 2001 è volto a tutelare un interesse pubblico, il dovere di esclusività tipico del pubblico impiego al di fuori delle ipotesi tipicamente ed espressamente stabilite e salvo autorizzazione, che non riguarda esclusivamente il rapporto di lavoro con l'amministrazione di appartenenza. Infatti, se pure sussiste il dovere di quest'ultima di riversamento all'erario del compenso relativo a incarichi non autorizzati, nondimeno un analogo e indipendente obbligo è previsto per colui che percepisce gli emolumenti, obbligo che, certamente, non viene meno. La giurisprudenza citata al riguardo dall'appellante rimane assolutamente minoritaria e non è stata condivisa in sede di appello, come la decisione della Sezione giurisdizionale per la Lombardia n. 31 del 2012, riformata proprio da questa Sezione con la citata decisione n. 401 del 2014”. ““Aderendo all’interpretazione prospettata dalla Difesa – osserva conclusivamente la Sezione – si arriverebbe alla paradossale conclusione di svuotare di contenuto la norma precettiva, poiché nel caso in cui, come nella specie, l'amministrazione non abbia agito nei confronti del terzo, l'obbligo del privato percettore sarebbe venuto meno. In completa adesione alla richiamata giurisprudenza e alla motivazione dell'impugnata decisione, il motivo deve essere respinto. Ne discende la reiezione anche del secondo motivo di appello […] per la mancata, preventiva escussione, da parte dell'Amministrazione di appartenenza del dipendente, del terzo erogatore dei compensi illeciti. L'eccezione, oltre a trascurare il fatto che tutti i compensi di cui si verte sono stati effettivamente versati in favore dell'appellante,
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per cui soltanto a quest'ultimo incombeva l'obbligo di riversare il tantundem all'Erario, in applicazione dell'art. 7 più volte citato, è infondata. Al riguardo, ancora una volta la Corte regolatrice, nel riaffermare in subiecta materia la giurisdizione contabile, ha sancito, in armonia con la precedente giurisprudenza, che l'art. 7 bis del d. lgs n. 165 del 2011, nell'aggiungere l'inciso “L'omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico, indebito percettore, costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei Conti, è meramente ricognitiva del disposto precedente” (Cass. SS.UU. Civ., n. 25769/2015 e giurisprudenza in essa richiamata). In tale contesto, l'obbligo di versamento del compenso indebitamente percepito, in difetto di autorizzazione, da parte del dipendente, costituisce un rafforzamento del dovere di richiedere l'autorizzazione all'amministrazione di appartenenza, al fine di garantire, attraverso il controllo di quest'ultima sulla compatibilità dell'incarico extraistituzionale, il proficuo svolgimento di quello principale. Per cui deve ribadirsi l'assoluta autonomia tra la procedura testè richiamata (obbligo dell'Amministrazione di richiedere al terzo erogatore l'importo dei compensi percepiti) e il dovere di recupero dello stesso in capo al Procuratore contabile””. 3.4 Indebito pensionistico: recupero e trasmissibilità agli eredi della relativa obbligazione restitutoria In ambito pensionistico, con il pronunciamento di cui alla sent. n. 18/2017, le Sezioni Riunite hanno stabilito un rilevante principio generale in tema di assoggettamento al recupero dell’indebito pensionistico e di trasmissione della relativa posizione soggettiva iure hereditatis. A tale proposito, i giudici sono dell’avviso che “non debba escludersi il recupero dell’indebito formatosi a seguito della provvisoria esecuzione di una sentenza di primo grado del giudice contabile riformata in appello. Ciò per le seguenti ragioni. 2.1 Innanzitutto, è da dire che il diritto di natura pensionistica, essendo sub iudice, nasce in capo al dante causa condizionato e si eredita, perciò, condizionato. Infatti, l’erede subentra nella stessa posizione del de cuius, acquisendo, attraverso la provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado, una mera chance di definitività del diritto ereditato, che si perde con la definitiva sentenza negativa del giudice del gravame. Il sopravvenire di quest’ultima costituisce, perciò, una condizione che fa venir meno il diritto provvisorio come originariamente acquisito dall’erede. 2.2 Inoltre, come ritenuto dalla giurisprudenza maggioritaria della Corte dei conti (si vedano le sentenze nn. 700/2015 della seconda Sezione giurisdizionale centrale, le sentenze nn. 31 e 453/2015 della prima Sezione giurisdizionale centrale), manca un presupposto fondamentale per l’applicazione della norma in questione al caso di cui si discute, cioè la sussistenza di un vero e proprio indebito di natura pensionistica, in quanto non potrebbero considerarsi indebite le somme liquidate in esecuzione di una sentenza del giudice provvisoriamente esecutiva, successivamente riformata in appello. Infatti, l’obbligo della loro restituzione costituisce una conseguenza fisiologica del definitivo esito della vicenda processuale.
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Tale interpretazione è confortata anche da numerose pronunce della Suprema Corte (si vedano, a titolo esemplificativo, Cass. sez. lavoro n. 25589 del 2010, n. 19496 del 2014 e n. 11208 del 2003). In definitiva, trattandosi di situazione analoga a quella di cui all’art. 389 c.p.c., non si è in presenza di un indebito oggettivo, di cui all’art. 2033 del c.c., ma della restitutio in integrum della situazione patrimoniale della parte definitivamente vittoriosa in giudizio (si vedano in materia Cass. SS.UU. n. 2841 del 1989 e Cass., sez. V, n. 9480 del 2010). Pertanto, la norma in esame, laddove prescrive che il recupero non si estende agli eredi salvo che si accerti il dolo del pensionato, deve applicarsi solo in caso di indebiti conseguenti ad errori avvenuti nella fase amministrativa di riconoscimento del diritto pensionistico, limitando l’esercizio dei poteri di autotutela dell’amministrazione nei confronti degli eredi del pensionato. Conseguentemente, a seguito di una sentenza definitiva del giudice contabile sulla non spettanza di somme al pensionato, viene in rilievo il significato stesso di indebito pensionistico che non può essere esteso, come detto, alle somme liquidate in esecuzione di una sentenza del giudice provvisoriamente esecutiva e successivamente da restituire da parte dell’accipiens, a seguito della riforma della stessa in appello. In altre parole, allorché l’indebito si è concretizzato a seguito della riforma in appello di una sentenza di primo grado di per sé provvisoriamente esecutiva, sussiste l’obbligo di restituzione sia a carico dell’accipiens sia a carico dei suoi eredi, a nulla rilevando che l’indebito sia maturato su somme relative alla liquidazione dei trattamenti pensionistici. 3. Ad ulteriore supporto dell’interpretazione sostenuta da queste Sezioni riunite, soccorrono anche le disposizioni sul c.d. effetto espansivo esterno della riforma della sentenza di primo grado, previsto dall’art. 336, II co., del c.p.c. (nel senso che la riforma della sentenza di primo grado fa venir meno anche l’efficacia dei provvedimenti di esecuzione spontanei o coattivi della sentenza di primo grado, si veda Cass. n. 26171 del 2006) e sugli effetti del giudicato, di cui all’art. 2909 del c.c., che, com’è noto, prevede che l’accertamento contenuto nella sentenza definitiva fa stato “ad ogni effetto” anche nei confronti degli eredi. Tali previsioni, non derogate né espressamente né implicitamente dalla norma in esame, giustificano gli effetti restitutori, anche nei confronti degli eredi, conseguenti alla sentenza definitiva, in materia pensionistica, del giudice contabile”. Nella sent. n. 33/2017, le Sezioni Riunite hanno affrontato il delicato tema riguardante la maturazione degli interessi sull’indebito pensionistico. Riconoscendo il consolidarsi di una posizione giuridica attiva in capo al cittadino destinatario in buona fede di erogazioni indebite da parte dell’Istituto di previdenza, la menzionata pronuncia pone uno spartiacque tra la tutela del legittimo affidamento di quest’ultimo sulla spettanza delle erogazioni, e le ragioni recuperatorie dell’Erario. In particolare, il Collegio ritiene di “”riesaminare il principio di diritto già enunciato, secondo cui “in caso di accertata irripetibilità di somme indebitamente corrisposte al pensionato e fatte oggetto di recupero, le stesse devono essere restituite all’interessato limitatamente alla sorte capitale senza aggiunta di alcuna somma accessoria”. Al riguardo, ritengono queste Sezioni riunite di non poter ulteriormente confermare il suesposto principio, che ha formato oggetto di rimeditazione anche da parte della stessa Procura generale.
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In particolare, pur essendo evidenti le ragioni sottostanti la scelta giurisprudenziale di non riconoscere alcun accessorio sulle somme da restituire al pensionato, nell’intento di evitare, in qualche modo, che al vantaggio del capitale a suo tempo indebitamente erogatogli (e definitivamente acquisito al suo patrimonio) si aggiunga anche il vantaggio dei frutti sul predetto capitale, la soluzione pragmatica così adottata non appare soddisfacente e convincente, né sul piano del diritto, né sul piano dell’equità, come ha correttamente posto in risalto l’ordinanza di remissione. VI. Sul piano logico-giuridico, pare a questo Collegio giudicante che vi sia una latente contraddizione nel riconoscere, da un lato, il diritto del pensionato alla restituzione delle somme in parola negando però, dall’altro lato, gli interessi legali sulle somme stesse, benché restituite a distanza di anni dalla trattenuta, dalla conseguente richiesta di restituzione e dall’eventuale introduzione del giudizio volto a far dichiarare l’irripetibilità. Il ragionamento fin qui accolto in giurisprudenza, secondo cui non sussisterebbe un’obbligazione pecuniaria in favore del pensionato, né un diritto soggettivo di questi, trattandosi di “somme non dovute ma, comunque, percepite in buona fede e che, per inciso, spettano solo in virtù di una riconosciuta irripetibilità decretata dal Giudice”, non spiega in base a quale titolo il giudice statuisca, in definitiva, la restituzione delle somme stesse al pensionato, con effetto ex nunc. Invero, se l’ente previdenziale è tenuto a restituire le trattenute a suo tempo forzosamente effettuate, un’obbligazione sottostante deve pur esservi, a meno che non si voglia ritenere che il diritto, in capo al pensionato, a trattenere le somme sorga solo per effetto della pronuncia giudiziale, avente natura costitutiva, alla stregua di un diritto potestativo (non di credito) azionabile soltanto in sede giurisdizionale. Ma, a ben vedere, quest’ultima tesi presta il fianco ad almeno due ordini di obiezioni: in primo luogo, anche in presenza di sentenze aventi natura costitutiva non potrebbero negarsi gli interessi legali almeno dalla data della domanda, come correttamente argomentato dalla Sezione remittente; in secondo luogo, e in via assorbente, deve negarsi la natura costitutiva della sentenza che, in presenza dell’affidamento del pensionato, dichiari irripetibile l’indebito pensionistico, sussistendo il diritto del pensionato medesimo a far proprie le somme percepite a prescindere dalla relativa declaratoria giudiziale.”” Sotto il primo profilo, osserva il Collegio che, anche nel caso di sentenze costitutive, ““la giurisprudenza di legittimità è orientata nel riconoscere quanto meno gli interessi legali dalla data della domanda giudiziale: è il caso, ad esempio, delle obbligazioni restitutorie derivanti dalla revocatoria fallimentare, che costituiscono debito di valuta […]; non mancano, peraltro, pronunce che riconoscono addirittura la natura di debito di valore all’obbligazione restitutoria derivante dalla revocatoria e, per l’effetto, dispongono la spettanza anche della rivalutazione monetaria, sempre dalla data della domanda giudiziale (Cass., Sez. 1, sent. 13244 del 16.06.2011). Lo stesso è a dirsi nelle fattispecie di risoluzione del contratto, la cui pronuncia costitutiva produce effetti retroattivamente, dal momento della proposizione della domanda giudiziale, sicché gli interessi decorrono quanto meno dalla domanda stessa, tanto per l’obbligazione restitutoria […]. Per regola generale, dunque, ancorché si trattasse di pronuncia giudiziale avente natura costitutiva, con efficacia ex nunc, comunque gli interessi legali spetterebbero almeno dalla domanda e non dalla sentenza””.
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Sotto il secondo profilo, la pronuncia chiarisce come ““La giurisprudenza che nega la spettanza degli accessori sulle trattenute da restituire in esito al giudizio pare fondarsi su una più ampia costruzione sistematica secondo cui il diritto del pensionato alla restituzione delle trattenute non potrebbe sorgere che per effetto di una pronuncia giudiziale, avente natura costitutiva, erroneamente ritenuta essa solo idonea a superare il contrapposto “dovere” di ripetizione dell’indebito, gravante sull’ente di previdenza. Questa tesi postula, implicitamente, che il giudice contabile disponga di un potere, incidente sul rapporto pensionistico, di cui l’ente di previdenza sarebbe invece privo: quello di ravvisare il legittimo affidamento del pensionato e, conseguentemente, di soprassedere dal recupero dell’indebito. Si finisce così, nella prassi, per obbligare l’ente di previdenza ad agire, sempre e comunque, per il recupero dell’indebito derivante da conguaglio tra liquidazione provvisoria e definitiva della pensione, a prescindere da qualsiasi valutazione sull’affidamento del pensionato; si onera, per riflesso, il pensionato ad agire in sede giurisdizionale, al fine di vedere tutelate le proprie ragioni; si grava quindi il giudice contabile del compito di accertare se sussista o meno un affidamento, alla luce dei parametri indicati da queste Sezioni riunite con la nota sentenza n. 2/2012/QM (valutazione che sarebbe, però, preclusa all’amministrazione); si ingenera, infine, il presupposto per la successiva eventuale restituzione delle somme che, nel frattempo, sono state trattenute tanto doverosamente quanto unilateralmente dall’amministrazione a valere sulla pensione dell’interessato. Il descritto assetto, nel quale ogni fattispecie di indebito pensionistico è necessariamente destinata a trovare soluzione esclusivamente in sede giudiziaria, perché solo al giudice sarebbe concesso di assumere quel provvedimento (la declaratoria di irripetibilità) che l’amministrazione non potrebbe adottare autonomamente, non pare accettabile. La stessa sentenza n. 2/QM/2012 aveva espressamente chiarito in motivazione che il legittimo affidamento, individuabile attraverso una serie di elementi oggettivi e soggettivi, “è opponibile dall’interessato, a seconda delle singole fattispecie, sia in sede amministrativa che giudiziaria” (par. 11), ribadendo lo stesso concetto nell’enunciazione del principio di diritto (par. 14, ripetuto tal quale nel dispositivo). Se il legittimo affidamento (che preclude la ripetizione dell’indebito) è opponibile dall’interessato (e quindi rilevabile dall’ente previdenziale) già in sede amministrativa, è evidente che non può attribuirsi alcuna efficacia costitutiva alla sentenza del giudice che, in caso di contestazioni sulla fondatezza dell’opposizione, si pronunci per dirimere la controversia. E’ altresì evidente che la determinazione assunta dall’amministrazione di procedere al recupero dell’indebito pensionistico, in caso di conguaglio tra il trattamento provvisorio e quello definitivo, non è affatto automatica e necessitata, ma dovrebbe rappresentare la risultante di una previa valutazione circa la sussistenza o meno dell’affidamento del pensionato, sulla base dei parametri indicati in giurisprudenza (decorso del tempo, rilevabilità dell’errore, importo del trattamento e ragioni della relativa modifica, ecc.). Il recupero dell’indebito pensionistico, dunque, è doveroso per l’amministrazione soltanto nella misura in cui essa, esaminata la fattispecie concreta alla luce del diritto vivente (quale desumibile dalla giurisprudenza), ritenga insussistente l’affidamento del pensionato e decida di procedere in tal senso; ove, all’opposto, sia ravvisabile un affidamento del pensionato, l’amministrazione è tenuta a darne atto e a non recuperare l’indebito.
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Solo nel caso in cui insorga una controversia sul punto, esauriti se del caso i rimedi amministrativi, vi sarà ragione di adire il giudice, il quale non potrà che pronunciarsi con una sentenza di natura dichiarativa circa la ripetibilità o meno dell’indebito. IX. Corollario di quanto fin qui esposto è che il pensionato, in presenza di legittimo affidamento, ha diritto fin dall’origine, quindi già in sede amministrativa, di opporre l’irripetibilità all’amministrazione stessa, quando essa gli intimi la restituzione di un indebito pensionistico in realtà non recuperabile ovvero, allo stesso fine, vada ad operare unilateralmente una trattenuta sulla sua pensione. Il diritto del pensionato a far proprie le somme in questione non necessita dunque, in quanto tale, di alcuna intermediazione giudiziale, ben potendo - e dovendo - essere riconosciuto dall’ente di previdenza già nella sede amministrativa. Ne discende ulteriormente che, in presenza di controversia, qualora le ragioni del pensionato si rivelino poi fondate in sede giurisdizionale, le trattenute effettuate sine titulo (quindi indebite) dovranno essere restituite al medesimo con maggiorazione degli interessi legali, a titolo compensativo, fin dalla data della domanda, cioè dal momento in cui questi abbia fatto valere, nei confronti dell’ente di previdenza, il suo diritto alla definitiva acquisizione al suo patrimonio di quelle somme. In quest’ottica, la trattenuta effettuata per il recupero di un indebito irripetibile può essere qualificata, a sua volta, alla stregua di un indebito oggettivo: infatti, ove sussista l’affidamento del pensionato, il diritto di credito dell’ente di previdenza (per la ripetizione dell’indebito originario) viene meno, stante l’irripetibilità, con la conseguenza che le somme recuperate dall’ente di previdenza finiscono per costituire esse stesse un indebito, agli effetti dell’art. 2033 del codice civile. Non può ignorarsi, al riguardo, che l’art. 2033 del codice civile, pur essendo formulato con riferimento all’ipotesi del pagamento "ab origine" indebito, è applicabile per analogia anche alle ipotesi di indebito oggettivo sopravvenuto per essere venuta meno, in dipendenza di qualsiasi ragione, in un momento successivo al pagamento, la "causa debendi", così legittimando la corresponsione degli interessi compensativi secondo i criteri ivi stabiliti (Cass., SS.UU., sent. 5624 del 9.3.2009)””. Di qui la statuizione della spettanza, al pensionato, degli interessi legali dalla data della domanda, all’imprescindibile condizione della buona fede dell’accipiens, con la specificazione che “in tale condizione soggettiva si trova, di regola, l’Istituto di previdenza, dovendo trovare applicazione il principio per cui la buona fede si presume in difetto di specifiche prove contrarie e, in particolare, non restando essa esclusa per la sola circostanza che il solvens abbia effettuato il pagamento contestando di esservi tenuto e che l’accipiens sia stato consapevole di tali contestazioni, atteso che la buona fede di quest’ultimo sussiste anche in presenza di dubbio circa la debenza della somma corrisposta […]”.
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4. Interventi giurisprudenziali e normativi che hanno riguardato la Corte nell’anno 2017
4.1 La Corte di Cassazione conferma la giurisdizione contabile sui giudizi di impugnazione
dell’elenco Istat delle Pubbliche Amministrazioni, e ne definisce le finalità
In tema di riparto della giurisdizione, la sent. n. 12496/2017 delle Sezioni Unite della
Cassazione Civile offre un importante spunto ricostruttivo sulla natura e sulle caratteristiche
del giudizio di impugnazione delle determinazioni Istat in ordine alla compilazione dell’indice
degli enti compresi nel conto economico consolidato del comparto pubblico.
L’art. 1, comma 169, della l. n. 228/2012 affida, infatti, alle Sezioni Riunite della Corte dei
Conti, in speciale composizione, la cognizione sulle impugnazioni anzi dette, configurando
un’ipotesi del tutto peculiare, che investe, per molti aspetti, i confini della giurisdizione
amministrativa, pur determinando effetti di sicuro rilievo in ambito giurisdizionale contabile.
Presentata, davanti alle Sezioni Riunite della Corte dei Conti, l’impugnazione contro il
provvedimento che la includeva nell’elenco di cui all'art. 1, comma 3 della legge n.196/2009,
la Federazione Italia Golf ne aveva viste rigettate le istanze, determinandosi, pertanto, a
proporre, alla Corte di Cassazione, un ulteriore ricorso nel quale si doleva dell’asseritamente
illegittima assegnazione, al giudice contabile, della giurisdizione in subiecta materia, ritenuta
invece di natura amministrativa.
In particolare, riteneva la Federazione che il Legislatore avesse individuato un giudice
speciale, «investito di una giurisdizione sostitutiva di merito con riguardo ad una funzione che il
legislatore ha assegnato espressamente al potere amministrativo» e che tale attribuzione fondasse
il «sospetto di una contrarietà della norma in discorso anche con il parametro evincibile dal primo
comma dell'art. 113 Cost.», anche con riferimento ai principi di ragionevolezza e di
uguaglianza sanciti dall'art. 3 Cost., in quanto «mentre di tutti i provvedimenti amministrativi è
consentito un controllo della legittimità articolato nei due gradi del giudizio amministrativo ove
incisivo su posizioni di interesse legittimo ai fini del suo annullamento […] l'elenco formato
dall'Istat costituirebbe un unicum di provvedimento amministrativo il controllo della cui
legittimità sarebbe affidato al giudice contabile in un giudizio in unico grado». Ne derivava, per
la ricorrente, «il dubbio di un contrasto della norma sia con la riserva di giurisdizione operata dal
primo comma dell'art. 102 Cost. in favore degli organi di giustizia amministrativa sia ed ancor
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prima con una riserva di amministrazione (e/o di provvedimento), che discende dal generale
criterio di ripartizione dei poteri».
Lamentava, infine, che ““l'attribuzione della giurisdizione in un unico grado di tutela "di
legittimità", atteso che come noto le decisioni del giudice contabile non sono impugnabili in
cassazione per violazione di legge””, violasse “tra gli altri l'art. 111 Cost. sul giusto processo e
l'art. 24 secondo comma che espressamente postula la sussistenza di più gradi di giudizio, nonché,
più in generale, l'art. 3 Cost. per l'irragionevole disparità di trattamento creata con gli altri soggetti
titolari di posizioni giuridiche di interesse legittimo”.
Alla stregua delle motivazioni prospettate dalla federazione, ha ritenuto la sentenza che “i
dedotti dubbi di legittimità costituzionale risultano invero collegati al momento della verifica dei
presupposti della competenza giurisdizionale dal legislatore attribuita alle sezioni riunite, in
speciale composizione, della Corte dei Conti, e dalle medesime nell'impugnata sentenza affermata
come propria”. Tali dubbi sono stati ritenuti, peraltro, infondati. ““Atteso che le
amministrazioni pubbliche sono inserite nel conto economico consolidato o per diretta previsione di
legge o mediante l'inclusione nell'elenco redatto annualmente dall'Istat in base ai criteri stabiliti
dai regolamenti dell'Unione europea (cfr. Corte Conti, Sezioni riunite in speciale composizione,
27/11/2013, n. 2), l'elenco de quo è dall'Istat predisposto non con le forme proprie del
procedimento amministrativo ex L. n. 241 del 1990 (caratterizzato dalla partecipazione del privato
e dal contemperamento degli interessi pubblici e privati), dovendo ad esso riconoscersi natura
meramente ricognitiva, quale determinazione assunta all'esito dell'accertamento in ordine alla
ricorrenza dei criteri definitori e classificatori (c.d. indicatori di controllo) posti nel Regolamento
comunitario (Sec 2010), e pertanto in esplicazione di attività vincolata, e non già natura
provvedimentale di accertamento costitutivo, espressione dell'agire discrezionale. Orbene,
nell'impugnata sentenza la Corte dei Conti - sezioni riunite in speciale composizione - ha
correttamente osservato che «la compilazione dell'elenco Istat risponde a norme classificatorie e
definitorie proprie del sistema statistico nazionale e comunitario, sviluppato sulla base dei dati
forniti dalla stessa unità nazionale in sede di rilevazione dei dati di bilancio consuntivo», sicché
trattasi di un'attività di ricognizione con natura certificativa»; e, quindi «l'elenco delle
amministrazioni pubbliche è un atto amministrativo che non ha natura provvedimentale, ma un
contenuto prevalentemente ricognitivo sulla sussistenza dei presupposti previsti dalla normativa
europea per la qualificazione di un'attività istituzionale come "amministrazione pubblica"», cui
«non si applicano ... le norme procedimentali che disciplinano l'esercizio della funzione
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amministrativa contenute nella legge n. 241 del 1990». […] Quanto all'impugnazione dell'elenco
Istat de quo va ulteriormente osservato che la giurisdizione ex art. 1, comma 169, L. n. 228 del
2012 attribuita alla Corte dei Conti - sezioni riunite in speciale composizione […] è senz'altro
piena ed esclusiva. Atteso, da un canto, che le sezioni riunite in speciale composizione della Corte
dei Conti costituiscono una mera articolazione interna del plesso giurisdizionale della
magistratura contabile (v. Corte Cost., 27/1/2011, n. 30); e considerato, per altro verso, che non
sussiste in favore dell'A.G.A. alcuna riserva di generale giurisdizione sulla legittimità degli atti
amministrativi a tutela di posizioni giuridiche soggettive nonché dei vizi del procedimento o di
difetto di motivazione o di istruttoria”. […]. Va sotto altro profilo posto in rilievo che la legittimità
della previsione della decisione in unico grado trova invero conferma nella più volte affermata
insussistenza di una garanzia costituzionale al doppio grado di giurisdizione di merito (v., da
ultimo, Cass., Sez. Un., 24/10/2014, n. 22610), come sottolineato anche dalla Corte
Costituzionale (cfr., da ultimo, Corte Cost., 28/10/2014, n. 243 del 2014. E già Corte Cost. n. 351
del 2007; Corte Cost. n. 585 del 2000; Corte Cost. n. 433 del 1990; Corte Cost. n. 301 del 1986;
Corte Cost. n. 198 del 1984; Corte Cost. n. 22 del 1973), trattandosi di soluzione d'altro canto già
da tempo sperimentata (es., in materia espropriazione, concorrenza, irragionevole durata del
processo), e che nella specie trova razionale giustificazione nell'esigenza di assicurare tempi certi e
celeri alla ricognizione de qua, al fine di evitare possibili ripercussioni temporali negative in
ordine alla formazione del conto economico consolidato annuale in argomento. E' per altro verso
manifestamente infondato il prospettato dubbio di legittimità costituzionale in ragione della
determinazione di «un unico grado di tutela “di legittimità”» asseritamente conseguente
all’«attribuzione della giurisdizione in unico grado alla Corte dei conti … atteso che come noto le
decisioni del giudice contabile non sono impugnabili per violazione di legge», giacché è lo stesso
art. 111 Cost. a prevedere un non incondizionato accesso al giudizio di legittimità, limitando il
ricorso per cassazione avverso le decisioni della Corte dei Conti ai soli motivi inerenti alla
giurisdizione […] e al controllo dei limiti esterni della giurisdizione di detto giudice ovvero
all'esistenza dei vizi che attengono all'essenza della funzione giurisdizionale”.
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4.2 Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione affrontano le prime questioni attinenti alla
delimitazione della giurisdizione contabile in materia di società partecipate pubbliche
Il tema della giurisdizione, già affrontato dalla pronuncia sopra illustrata, è stato oggetto, del
resto, di diversi interventi giurisprudenziali, nel corso del 2017.
Un aspetto fondamentale della questione di giurisdizione ha riguardato le società partecipate
pubbliche, in ordine alle quali la sent. n. 6820/2017 delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione ha avuto modo di stabilire che la Corte dei Conti, nell’ambito del giudizio di
responsabilità instaurato nei confronti degli amministratori, ha il potere di accertare tutti i
fatti e comportamenti causa di danno erariale e, pertanto, ferma restando l’insindacabilità
delle scelte, operate dagli amministratori medesimi, riguardo agli strumenti più idonei al
soddisfacimento degli obiettivi dell'ente, rientra nella cognizione del giudice contabile il
potere di valutare i modi di attuazione delle scelte discrezionali alla luce del parametro della
conformità a criteri di efficacia ed economicità che, avendo acquistato dignità normativa,
assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della mera opportunità dell'azione
amministrativa.
Nel caso di specie, i ricorrenti avevano lamentato un eccesso di giurisdizione della Corte dei
Conti, asserendo che l'oggetto della verifica contabile dovesse limitarsi alla legittimità o meno
della partecipazione, mentre i giudici contabili si sarebbero spinti a sindacare scelte di merito
e gestionali ritenute non idonee rispetto alle finalità della costituzione societaria. Nel ritenere
infondato il motivo della censura, la Suprema Corte ha chiarito come “A decorrere dalla
fondamentale sent. 14488/2003 la giurisprudenza di queste sezioni unite, applicando analoghi
criteri adottati per delineare i limiti di sindacabilità della giurisdizione del giudice
amministrativo, ha ripetutamente precisato che la Corte dei Conti può e deve verificare la
compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell'ente pubblico, che, ai sensi della L. 7 agosto
1990, n. 241, art. 1, devono essere ispirati a criteri di economicità e di efficacia secondo il canone
indicato nell'art. 97 Cost. - che assumono rilevanza sul piano della legittimità, non della mera
opportunità, dell'azione amministrativa; pertanto, la verifica della legittimità dell'attività
amministrativa deve estendersi alle singole articolazioni dell'agire amministrativo e, quindi,
apprezzare se gli strumenti utilizzati dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure
esorbitanti ed estranei ai fini di interesse pubblico da perseguire con risorse pubbliche, e non
potendo, comunque, prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi
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sostenuti (sentt. nn. 4283 e 12102 del 2013, 831 e 20728 del 2012, 10069 e 12902/2011). Nel
richiamare, pertanto, i suindicati criteri, queste Sezioni Unite hanno affermato la possibilità di
un'estesa applicazione della L. n. 241 del 1990, le cui clausole generali consentono in sede
giurisdizionale un controllo di ragionevolezza sulle scelte operate dalla pubblica amministrazione.
Ne consegue che il criterio di razionalità nella valutazione delle scelte cui si riferisce la
giurisprudenza contabile non è strumento limitato all'esame del merito, che conserva la sua
rilevanza solo se inserito in un metodo di valutazione che lo individua come summa di sintomi
dell'eccesso di potere, ma investe nella sua interezza il percorso logico seguito dall'amministrazione,
onde evitare la deviazione dell'attività amministrativa dai propri fini istituzionali, che devono
essere perseguiti nel quadro complessivo degli equilibri della finanza pubblica cui il giudizio
amministrativo-contabile è specificamente orientato.
L'irragionevolezza equivale al vizio della funzione; di contro, l'esigenza di razionalità insita nello
svolgimento della funzione amministrativa corrisponde a correttezza e adeguatezza della funzione;
di modo che la ragionevolezza consente di verificare la completezza dell'istruttoria, la non
arbitrarietà e la proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché la logicità e
l'adeguatezza della decisione finale allo scopo da raggiungere.
In questo contesto, gli obblighi di servizio diventano obblighi di risultato e il mancato
raggiungimento degli obiettivi, laddove comporti un danno per la pubblica amministrazione e sia
imputabile al dolo o alla colpa grave degli operatori, può essere oggetto di valutazione in sede
giurisdizionale di responsabilità.
Il giudice contabile ha, per tale via, il potere di accertare tutti i fatti e comportamenti causa di
danno erariale e, pertanto, ferma restando la scelta dell'amministratore di apprestare gli strumenti
più idonei al soddisfacimento degli obiettivi dell'ente, valuta i modi di attuazione delle scelte
discrezionali alla luce del parametro della conformità a criteri di efficacia ed economicità che,
avendo acquistato "dignità normativa", assumono rilevanza sul piano della legittimità e non della
mera opportunità dell'azione amministrativa.
Alla stregua dei richiamati principi, deve escludersi che nella fattispecie vi sia stato, da parte del
giudice contabile, alcun superamento dei limiti della propria giurisdizione”.
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4.3 Brevi cenni in ordine alle novità introdotte dal D. lgs. n. 100/2017 in materia di società
partecipate pubbliche
Il D. lgs. n. 175/2016, menzionato, sotto il diverso profilo della giurisdizione, nella pronuncia
supra illustrata, è stato oggetto, nel corso del 2017, dell’intervento correttivo di cui al D. lgs.
n. 100/2017 che – oltre ad emendare la procedura prevista dalla legge delega n. 124/2015,
onde renderla conforme alla concertazione interistituzionale tra Stato e Regioni, delineata
dalla pronuncia n. 251/2016 della Corte Costituzionale – ha introdotto delle modifiche di
contenuto che interessano l’esercizio della funzione di controllo da parte della Corte dei Conti.
Sotto un primo profilo, la nuova versione del comma 3 dell’art. 11 rende obbligatoria la
trasmissione, alla Sezione regionale di Controllo, della delibera con la quale si stabilisca che il
governo della società partecipata sia affidato ad un consiglio di amministrazione di tre o
cinque membri in luogo dell’amministratore unico, modulo, quest’ultimo, che – per evidenti
ragioni di contenimento delle spese – la legge prevede come ipotesi normale.
Sotto altro aspetto, il correttivo introduce un ulteriore parametro di riscontro contabile in
ordine al ripianamento delle perdite delle società partecipate.
Il nuovo comma 3-bis dell’art. 21 prevede, infatti, che le Pubbliche Amministrazioni locali
partecipanti possano procedere al ripiano delle perdite suddette solo nei limiti della loro
quota di partecipazione e nel rispetto dei principi della legislazione europea in tema di aiuti di
Stato. Tale norma va coordinata con quella, già introdotta nella formulazione originaria del
Testo Unico, che prevedeva l’obbligo, per le Amministrazioni partecipanti, di accantonare in
bilancio un apposito fondo vincolato, nel quale iscrivere un importo pari al risultato negativo
non ripianato delle società partecipate. Le citate norme, il cui scopo è evidentemente quello
di realizzare un collegamento contabile tra i risultati degli enti partecipati ed il bilancio delle
Amministrazioni partecipanti, si arricchiscono dunque di un parametro ulteriore (il
contenimento entro la quota di partecipazione), la cui verifica viene rimessa allo scrutinio
della Corte dei Conti.
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4.4 Il Legislatore interviene nuovamente sulla responsabilità medica: le legge Gelli-Bianco e
gli aspetti di interesse per la giurisdizione contabile
La legge 8 marzo 2017, n. 24, cd. legge Gelli-Bianco, ha ridisegnato la responsabilità degli
esercenti la professione medica, con aspetti di interesse anche per la giurisdizione contabile.
L'art. 7 della legge in discorso prevede una bipartizione della responsabilità civile, che
distingue la posizione della struttura da quella dell'esercente la professione sanitaria. In
particolare, è previsto che la prima risponda, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 del cod. civ., delle
condotte dolose o colpose poste in essere dal secondo, del quale si avvalga nell’offrire i propri
servizi all’utenza. In altre parole, la struttura sanitaria risponderà dei fatti illeciti compiuti
dagli esercenti la professione sanitaria secondo le regole della responsabilità contrattuale, al
contrario di quanto previsto per questi ultimi, che sono invece sottoposti all’azione di
responsabilità aquiliana ex art. 2043 del Codice. La descritta sistemazione dei rapporti tra la
responsabilità del sanitario e quella delle strutture nosocomiali rende facile la previsione di un
maggior contenzioso a carico dei bilanci di queste ultime, in ragione della natura
relativamente più agevole dell’azione contrattuale rispetto a quella extra-contrattuale, sia in
termini di onere probatorio che di decorso prescrizionale.
A bilanciare, dunque, la non facile situazione di soggezione del patrimonio pubblico al debito
risarcitorio, l'art. 9 prevede che, una volta determinatasi la soccombenza e, a pena di
decadenza, entro un anno dal pagamento, l’amministrazione sanitaria possa esercitare
l’azione di rivalsa nei confronti del proprio collaboratore il quale non sia stato parte del
giudizio o della procedura stragiudiziale di risarcimento del danno
Tale azione, subordinata alla sussistenza dell’elemento psicologico non al di sotto della soglia
della colpa grave, si accompagna a quella di responsabilità amministrativa il cui esercizio è
demandato al pubblico ministero contabile.
La norma accorpa in un unico periodo entrambe le evenienze, realizzando una commistione
che rischia di generare qualche equivoco in sede applicativa.
La ratio che la ispira, ad ogni buon conto, è la stessa che giustifica la sussistenza della
giurisdizione contabile, e cioè la tutela dell’integrità patrimoniale pubblica, una volta che
questa venga intaccata dal debito risarcitorio.
Sotto tale aspetto, è previsto che si tenga conto delle situazioni di fatto di particolare
difficoltà, anche di natura organizzativa, della struttura pubblica oltre che dell’avvenuto
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rispetto, da parte del sanitario, delle linee guida adottate dalla comunità medico scientifica. È
inoltre previsto che l'importo della condanna per la conseguente responsabilità
amministrativa a carico del soggetto agente non possa superare un tetto massimo calcolato
secondo un meccanismo individuato dalla legge stessa.
L’obiettivo è dunque quello di realizzare un difficile bilanciamento tra le responsabilità del
medico e quelle della struttura, onde stabilire quanto dell’accaduto debba restare a carico
della sanità pubblica.
Quanto al regime della prova, è previsto che la decisione pronunciata nel giudizio promosso
contro la struttura sanitaria o sociosanitaria o contro l'impresa di assicurazione non faccia
stato nel giudizio di rivalsa laddove l'esercente la professione sanitaria non sia stato parte del
giudizio.
L’ultimo comma dell’art. 9 stabilisce, però, che, sia nel giudizio di rivalsa, sia in quello di
responsabilità amministrativa, il giudice possa desumere argomenti di prova dalle prove
assunte nel giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o
sociosanitaria o dell'impresa di assicurazione se l'esercente la professione sanitaria ne sia stato
parte, mentre il quarto comma dello stesso articolo precisa che, in nessun caso, la transazione
sia opponibile all'esercente la professione sanitaria nel giudizio di rivalsa.
4.5 La Corte di Cassazione apre l’ordinamento alla figura del danno punitivo
La sent. n. 16601/2017 delle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte di Cassazione potrà
determinare effetti rilevanti anche nel panorama contabile, per la portata inedita della
statuizione in ordine alla non ontologica incompatibilità, con l’ordinamento italiano,
dell’istituto dei cc.dd. “danni punitivi”, una figura adiacente a quella della responsabilità
sanzionatoria, la quale ultima trova corpo, sempre più frequentemente, in specifiche
previsioni normative in ambito erariale.
Il danno punitivo è un istituto giuridico tipico degli ordinamenti di common law (in modo
particolare, di quello statunitense) che, nelle ipotesi di illeciti perpetrati con dolo o colpa
grave, prevede la liquidazione, in favore del danneggiato, di una voce risarcitoria ulteriore
rispetto a quella finalizzata alla mera reintegrazione del danno effettivamente subito;
pertanto esso, oltre ad assolvere alla normale funzione risarcitoria, assume anche una
connotazione punitiva propria del diritto sanzionatorio.
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Il danno punitivo, quindi, oltre ad essere finalizzato ad una più severa punizione del
danneggiante, svolge anche una funzione premiale nei confronti del danneggiato che abbia
agito per propiziare il ripristino dell’ordine civile violato.
In realtà, nell’ordinamento italiano già si coglie, da tempo, una diffusa tendenza a declinare
lo schema astratto della responsabilità aquiliana (modulato, nei suoi connotati di base,
sull’art. 2043 del codice civile) in una pluralità di fattispecie in cui la legge stabilisce, per
principio, la illiceità di determinati comportamenti, salvo, comunque, l’accertamento
concreto della responsabilità. Ciò si traduce in un inasprimento della risposta ordinamentale,
non sempre facilmente riconducibile ai principi generali, contestualizzabile in un coacervo di
precetti, puntualizzazioni e richiami coordinati in maniera non del tutto soddisfacente.
A questo proposito, v’è da rilevare che già l’originaria previsione codicistica di un ristoro
economico al pregiudizio morale dei reati, in forma di pecunia doloris (un vero e proprio
ossimoro, a ben vedere), delineava una concezione del risarcimento che attinge agli aspetti
immateriali dell’illecito, quelli che non si arrestano alla mera lacerazione della sfera
patrimoniale della vittima, per tradurli in termini pecuniari, cioè tangibili, monetariamente
apprezzabili. Questo sforzo dogmatico, recando in sé l’ambizione di attrarre alla sfera del
materiale ciò che, per definizione, lo trascende, ha aperto la strada ad equivoci interpretativi
e qualificatori tutt’ora irrisolti. Ne sono seguite riflessioni fondamentali che, oltrepassato
ormai l’aspetto concretamente percettibile del danno, hanno indotto una rimeditazione
complessiva anche del significato della condanna.
Nel solco di tali riflessioni – sia pure con l’espressa affermazione della necessità del necessario
contenimento dell’incontrollata proliferazione delle fattispecie risarcitorie – si colloca la
pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione cui era stato sollecitato, dalla Prima
Sezione, un ripensamento sul tema della riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie
di danni punitivi, nell’ambito di un complesso procedimento di delibazione di una sentenza
del giudice statunitense.
In proposito, la Corte ha rilevato preliminarmente l’inammissibilità dello specifico motivo di
impugnazione della sentenza di recepimento, in ragione del non luogo, nel caso di specie, alla
liquidazione di "danni punitivi" in favore della vittima del sinistro. Ciononostante, il caso
sottoposte alla SS.UU. ha offerto ad esse l’occasione per effettuare una ricognizione del
dibattito su questo importante tema, completandolo con un ultimo, definitivo, tassello. Già
nel 2007, rileva la Corte, “la Cassazione [aveva] fondato il rifiuto di riconoscimento di una
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pronuncia in materia, sancendo l'estraneità al risarcimento del danno dell'idea di punizione e di
sanzione, nonché l'indifferenza della ““condotta del danneggiante””, affermando il carattere
monofunzionale della responsabilità civile. Ebbene, ritengono le Sezioni “che questa analisi
sia superata e non possa più costituire, in questi termini, idoneo filtro per la valutazione di cui si
discute. Già da qualche anno le Sezioni Unite […] hanno messo in luce che la funzione
sanzionatoria del risarcimento del danno non è più «incompatibile con i principi generali del
nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacché negli ultimi decenni sono state qua e là
introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento». [pur
precisando] che questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali
una «qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall'art. 25
Cost., comma 2, nonché dall'art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti
dell'Uomo e delle libertà fondamentali.»”. L’esigenza di limitare la proliferazione di fattispecie
risarcitorie non meritevoli di tutela, prosegue il Supremo consesso, “Non possono valere
tuttavia a sopprimere quanto è emerso dalla traiettoria che l'istituto della responsabilità civile ha
percorso in questi decenni. In sintesi estrema può dirsi che accanto alla preponderante e primaria
funzione compensativo riparatoria dell'istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è
emersa una natura polifunzionale […] che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente
principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva. […]
Indispensabile riscontro di questa descrizione è poi contenuto nell’excursus normativo
effettuato dalla Corte per ripercorrere, con encomiabile sforzo di completezza, tutte le
disposizioni di ispirazione sanzionatoria. Tale ricostruzione “da un lato denota l'urgenza che
avverte il legislatore di ricorrere all'armamentario della responsabilità civile per dare risposta a
bisogni emergenti, dall'altro dimostra, con la sua vivacità, quanto sia inappagante un
insegnamento che voglia espungere dal sistema, confinandole in uno spazio indeterminato e
asfittico, figure non riducibili alla "categoria". […]”. La ricostruzione della “storia giuridica”
dell’istituto giunge ad includere anche “un riscontro a livello costituzionale della cittadinanza
nell'ordinamento di una concezione polifunzionale della responsabilità civile, la quale risponde
soprattutto a un'esigenza di effettività (cfr. Corte Cost. 238/2014 e Cass. n. 21255/13) della tutela
che in molti casi, della cui analisi la dottrina si è fatta carico, resterebbe sacrificata nell'angustia
monofunzionale. […] Ciò non significa che l'istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che
questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia
di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai
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risarcimenti che vengono liquidati”. Ogni imposizione di prestazione personale o patrimoniale
esige cioè una intermediazione legislativa, visto l’insuperabile limite di cui all'art. 23 Cost.
ma, così inquadrato il tema, esso “illumina la questione della compatibilità con l'ordine pubblico
di sentenze di condanna per punitive damages.” A tale proposito, la Corte rileva che ““la
nozione di “ordine pubblico”, che costituisce un limite all'applicazione della legge straniera, ha
subito profonda evoluzione. Da “complesso dei principi fondamentali che caratterizzano la
struttura etico-sociale della comunità nazionale in un determinato periodo storico, e nei principi
inderogabili immanenti nei più importanti istituti giuridici” (così Cass. 1680/84) è divenuto il
distillato del “sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione
primaria, […]”. […] Come si è anticipato sub § 2.2, a questa storica funzione dell'ordine
pubblico si è affiancata, con l'emergere e il consolidarsi dell'Unione Europea, una funzione di esso
promozionale dei valori tutelati, che mira ad armonizzare il rispetto di questi valori, essenziali per
la vita e la crescita dell'Unione. E' stato pertanto convincentemente detto che il rapporto tra l'ordine
pubblico dell'Unione e quello di fonte nazionale non è di sostituzione, ma di autonomia e
coesistenza. […] Gli esiti armonizzanti, mediati dalle Carte sovranazionali, potranno agevolare
sovente effetti innovativi, ma Costituzioni e tradizioni giuridiche con le loro diversità costituiscono
un limite ancora vivo: privato di venature egoistiche, che davano loro "fiato corto", ma reso più
complesso dall'intreccio con il contesto internazionale in cui lo Stato si colloca. Non vi potrà essere
perciò arretramento del controllo sui principi essenziali della “lex fori” in materie, come per
esempio quella del lavoro […] che sono presidiate da un insieme di norme di sistema che attuano il
fondamento della Repubblica. Nel contempo non ci si potrà attestare ogni volta dietro la ricerca di
una piena corrispondenza tra istituti stranieri e istituti italiani. Non avrebbe utilità chiedersi se
la ratio della funzione deterrente della responsabilità civile nel nostro sistema sia identica a quella
che genera i punitive damages. L'interrogativo – conclude risolutivamente la Cassazione – è solo
il seguente: se l'istituto che bussa alla porta sia in aperta contraddizione con l'intreccio di valori e
norme che rilevano ai fini della delibazione”. […]. Perciò, escluso il limite sulla classificazione
della tipologia e la finalità del risarcimento, “l'esame va portato sui presupposti che questa
condanna deve avere per poter essere importata nel nostro ordinamento senza confliggere con i
valori che presidiano la materia, valori riconducibili agli artt. da 23 a 25 della Costituzione. Così
come (cfr § 5.2) si è detto che ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente
non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa, similmente dovrà
essere richiesto per ogni pronuncia straniera. Ciò significa che nell'ordinamento straniero (non
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per forza in quello italiano, che deve solo verificare la compatibilità della pronuncia resa all'estero)
deve esservi un ancoraggio normativo per una ipotesi di condanna a risarcimenti punitivi. […].
Ne discende che dovrà esservi precisa perimetrazione della fattispecie (tipicità) e puntualizzazione
dei limiti quantitativi delle condanne irrogabili (prevedibilità)” restando, questo aspetto,
rimesso alle valutazioni specificamente realizzate in ogni singolo ordinamento, “[…] a
seconda dell'attenzione portata alla figura dell'autore dell'illecito o a quella del danneggiato, la
declinazione dei risarcimenti punitivi e il loro ancoraggio a profili sanzionatori o più strettamente
compensatori […]”. Dall’affermazione di tale principio consegue che “il controllo delle Corti di
appello sia portato a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e
risarcimento punitivo e tra quest'ultimo e la condotta censurata, per rendere riconoscibile la natura
della sanzione/punizione. […]. Non è dunque puramente teorica la possibilità che viene schiusa
con la revisione giurisprudenziale che le Sezioni Unite stanno adottando. Il caso di specie, che
neppure comporta pronuncia a risarcimenti punitivi, non offre il destro per ulteriori
approfondimenti, che la casistica potrà incaricarsi di vagliare. Ciò che conta ribadire è che la
riconoscibilità del risarcimento punitivo è sempre da commisurare agli effetti che la pronuncia del
giudice straniero può avere in Italia, con tutta l'ampiezza di verifica che si deve praticare nel
recepimento, con le pronunce straniere, di un istituto sconosciuto, ma in via generale non
incompatibile con il sistema. […]
Dalle riflessioni così svolte, le Sezioni Unite possono dunque enunciare il principio di diritto,
dalla portata dirompente, che “Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è
assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione,
poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile
civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine
statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga
una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa
nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di
condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di
delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine
pubblico”.
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4.6 La Corte Costituzionale torna sul meccanismo di cd. perequazione automatica delle
pensioni
In materia pensionistica, la Corte costituzionale ha fissato, nel 2017, due importanti principi,
contenuti in due rilevanti pronunce.
Nella prima di esse, la n. 259/2017, il Giudice delle leggi ha dichiarato non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 220 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 1092/1973, (recante il Testo Unico delle norme sul trattamento di quiescenza
dei dipendenti civili e militari dello Stato), come modificato dall’art. 22 della legge n.
177/1976, (“Collegamento delle pensioni del settore pubblico alla dinamica delle retribuzioni.
Miglioramento del trattamento di quiescenza del personale statale e degli iscritti alle casse pensioni
degli istituti di previdenza”), sollevata dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la
Regione Marche, Giudice unico delle pensioni, con riferimento agli artt. 36 e 38 della
Costituzione. La norma era stata sospettata di illegittimità costituzionale poiché, nel
determinare il trattamento di quiescenza degli iscritti al Fondo pensioni, non
applicava, all’indennità integrativa speciale, pur confluita nello stipendio
tabellare, l’incremento del 18 per cento, previsto, invece, per l’ultimo stipendio e per gli
assegni e per le indennità pensionabili espressamente indicati dalla legge.
A tale stregua, nelle valutazioni del giudice rimettente, la mancata applicazione
dell’incremento del 18 per cento, che «trova giustificazione nella valorizzazione forfetaria […]
degli elementi accessori non direttamente valutabili ai fini di pensione sulla base del pregresso
ordinamento pensionistico», avrebbe comportato «un’irrazionale compressione della pensione
(sulla base del meno favorevole computo del trattamento pensionistico), in ragione di uno
scostamento non giustificato tra lo stipendio e la pensione stessa, pertanto pregiudizievole della
posizione del lavoratore all’atto del suo collocamento a riposo».
In proposito, la Corte Costituzionale ha, invece, chiarito che “”La determinazione della base
retributiva utile ai fini del trattamento di quiescenza è rimessa alle scelte discrezionali del
legislatore, chiamato a compiere «una congrua valutazione che contemperi le esigenze di vita dei
lavoratori, che ne sono beneficiari, e le disponibilità finanziarie» (sentenza n. 531 del 1988, punto
5. del Considerato in diritto), senza valicare il limite della «garanzia delle esigenze minime di
protezione della persona» (sentenza n. 457 del 1998, punto 5. del Considerato in diritto).
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Nella commisurazione del trattamento di quiescenza ai redditi percepiti in costanza del rapporto di
lavoro, l’art. 38 Cost. prescrive di salvaguardare la proporzione fra trattamento previdenziale e
quantità e qualità del lavoro svolto e la sufficienza del trattamento ad assicurare le esigenze di vita
del lavoratore pensionato.
L’art. 36 Cost., applicabile alle prestazioni previdenziali per il tramite e nella misura tracciata
dall’art. 38 Cost. (sentenza n. 156 del 1991, punto 3. del Considerato in diritto), costituisce
parametro di tali esigenze di vita, determinate «secondo valutazioni generali ed oggettive», che
tutelino non solo «i bisogni elementari e vitali», ma anche le esigenze «relative al tenore di vita
conseguito dallo stesso lavoratore in rapporto al reddito ed alla posizione sociale raggiunta in seno
alla categoria di appartenenza per effetto dell’attività lavorativa svolta» (sentenza n. 173 del 1986,
punto 10. del Considerato in diritto).
La garanzia dell’art. 38 Cost. è dunque connessa anche all’art. 36 Cost., «ma non in modo
indefettibile e strettamente proporzionale» (sentenza n. 173 del 2016, punto 11.1. del Considerato
in diritto). Il rapporto di corrispondenza tra pensioni e retribuzioni, pur tendenziale e imperfetto
(sentenza n. 42 del 1993, punto 5. del Considerato in diritto), deve essere preservato mediante
meccanismi di raccordo, atti a scongiurare il rischio di un «irragionevole scostamento»,
sintomatico dell’inadeguatezza del trattamento previdenziale corrisposto (sentenza n. 226 del 1993,
punto 7. del Considerato in diritto).
Spetta, pertanto, alla discrezionalità del legislatore il «ragionevole bilanciamento del complesso dei
valori e degli interessi costituzionali coinvolti nell’attuazione graduale di quei principi, compresi
quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari
per far fronte ai relativi impegni di spesa» (sentenza n. 119 del 1991, punto 3. del Considerato in
diritto).
Ben può il legislatore, nel prudente esercizio della sua discrezionalità, apportare «correttivi di
dettaglio» che, giustificati da «esigenze meritevoli di considerazione», non intacchino i criteri di
proporzionalità e adeguatezza «con riferimento alla disciplina complessiva del trattamento
pensionistico» (sentenza n. 208 del 2014, punto 4.2. del Considerato in diritto).
È proprio la molteplicità delle variabili sottese a tale bilanciamento a imporre, con riguardo alla
proporzionalità e all’adeguatezza del trattamento di quiescenza, una valutazione globale e
complessiva, che non si esaurisca nella parziale considerazione delle singole componenti.
[…] La norma censurata subordina ad un’esplicita previsione legislativa l’inclusione di un
assegno o di un’indennità nella base pensionabile soggetta a maggiorazione. In difetto di una
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disposizione espressa, l’incremento del 18 per cento non si applica all’indennità integrativa
speciale.
Come emerge dai lavori parlamentari, la disciplina introdotta dalla legge n. 177 del 1976 è l’esito
della consultazione intercorsa tra Governo e parti sociali, incentrata sul collegamento delle pensioni
del settore pubblico alla dinamica delle retribuzioni (Seduta del 21 aprile 1976 della Commissione
VI Finanze e Tesoro della Camera dei deputati).
L’assetto delineato ribadisce il ruolo primario e ineludibile della legge, chiamata a ponderare, in
una prospettiva più generale, i molteplici elementi legati alla determinazione della base
pensionabile, e persegue in pari tempo l’obiettivo di salvaguardare l’equilibrio del sistema
pensionistico (Corte dei conti, sezione prima giurisdizionale centrale d’appello, sentenza 28
gennaio 2015, n. 82), senza sacrificare in maniera sproporzionata la tendenziale correlazione tra
pensioni e retribuzioni.
Tale scelta non è lesiva dell’adeguatezza e della proporzionalità del trattamento di quiescenza. Il
meccanismo prefigurato dalla legge è circoscritto a una singola voce del trattamento previdenziale e
non vanifica la rilevanza dell’indennità integrativa speciale, che ha «natura retributiva»
(sentenza n. 91 del 2004, punto 4. del Considerato in diritto) e assolve alla «funzione di
adeguamento della retribuzione al costo della vita» (sentenza n. 243 del 1993, punto 6. del
Considerato in diritto). L’indennità integrativa speciale, pur esclusa dall’incremento del 18 per
cento, non cessa di costituire, come parte integrante della retribuzione, una componente utile ai fini
del computo della base pensionabile.
Non si riscontra dunque alcun irragionevole scostamento tra pensioni e retribuzioni, tale da
compromettere la complessiva adeguatezza e la proporzionalità del trattamento previdenziale, né
può ritenersi pregiudicato il nucleo intangibile dei diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.”
In una seconda pronuncia, la n. 250/2017, sempre attinente alla materia pensionistica, il
Giudice delle leggi ha dichiarato la legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, n. 1 del d.l.
n. 65/2015, disciplinante il meccanismo di cd. “perequazione automatica” delle pensioni
eccedenti la soglia del triplo del trattamento di quiescenza minimo. La questione trova
l’antecedente in un’altra pronuncia, la n. 70/2015, che aveva invece dichiarato l’illegittimità
costituzionale della precedente norma in subiecta materia: l’art.24, comma 25 del d.l. n.
201/2011.
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In risposta alle plurime censure di costituzionalità mosse da diversi giudici a quibus, in
ragione di un’asserita riproposizione, da parte del Legislatore del 2015, di una norma già
dichiarata incostituzionale, ha osservato la Corte che ““la discrezionalità spettante al legislatore
nella scelta dei meccanismi diretti ad assicurare nel tempo l'adeguatezza dei trattamenti
pensionistici trova pur sempre un limite nel «criterio di ragionevolezza». Quest'ultimo, «così come
delineato dalla giurisprudenza citata [della Corte costituzionale] in relazione ai principi contenuti
negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del
legislatore e vincola le sue scelte all'adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali»
(sentenza n. 70 del 2015). Ne consegue che la sussistenza della discrezionalità legislativa invocata
dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri non esclude la necessità di verificare nel
merito le scelte di volta in volta operate dal legislatore riguardo ai meccanismi di rivalutazione dei
trattamenti pensionistici, quale che sia il contesto giuridico e di fatto nel quale esse si inseriscono,
contesto del quale questa Corte, nel compiere tale verifica, non potrà, ovviamente, non tenere
conto.””
Nel merito, come anticipato, la Corte ritiene la questione non fondata. Infatti, Il Giudice
delle leggi chiarisce come “Nell'intento dichiarato di dare attuazione alla sentenza di questa Corte
n. 70 del 2015, il legislatore ha operato un nuovo bilanciamento dei valori e degli interessi
costituzionali coinvolti nella materia. L'art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 ha,
infatti, introdotto una nuova disciplina della perequazione automatica dei trattamenti
pensionistici relativa agli anni 2012 e 2013, diversa da quella dichiarata costituzionalmente
illegittima con la sentenza n. 70 del 2015, poiché riconosce la perequazione, in misura percentuale
decrescente, anche ai trattamenti pensionistici - in precedenza esclusi dalla stessa - compresi tra
quelli superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e quelli fino a sei volte lo stesso
trattamento. Inoltre, il denunciato comma 25-bis […]regola il cosiddetto "trascinamento", ossia il
computo degli incrementi perequativi, reintrodotti dal comma 25 per gli anni 2012 e 2013, ai fini
della determinazione della base di calcolo per la rivalutazione automatica per gli anni successivi.
Non vi è dunque una «mera riproduzione» (sentenze n. 73 del 2013 e n. 245 del 2012) della
normativa dichiarata incostituzionale, né la realizzazione, «anche se indirettamente, [di] esiti
corrispondenti» (sentenze n. 5 del 2017, n. 73 del 2013, n. 245 del 2012, n. 922 del 1988, n. 223
del 1983, n. 88 del 1966). Le disposizioni denunciate presentano, al contrario, «significative
novità normative» rispetto al precedente regime (sentenza n. 262 del 2009).
- 79 -
Né è corretto sostenere - come fanno alcuni dei rimettenti - che la violazione del giudicato
costituzionale deriverebbe dal fatto che parte del risultato normativo di tali disposizioni corrisponde
a quello del comma 25 dell'art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 dichiarato incostituzionale con la
sentenza n. 70 del 2015 (come accade, in particolare, con riguardo alla disciplina della
rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo
INPS). La disciplina dettata dal legislatore, infatti, deve essere considerata nella sua interezza,
perché costituisce un complessivo - ancorché temporaneo - nuovo disegno della perequazione dei
trattamenti pensionistici. Ciò che rileva, dunque, ai fini dello scrutinio della violazione del
giudicato costituzionale, è «il complesso delle norme che si succedono nel tempo» (sentenza n. 262
del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 87 del 2017)””.
Sotto il profilo dell’efficacia intertemporale della disposizione impugnata, la pronuncia
sottolinea che “la nuova disciplina, nell'accogliere la sollecitazione di questa Corte, non poteva nel
caso in questione che produrre effetti retroattivi, purché circoscritti - come in effetti è stato - all'arco
temporale relativo agli anni 2012 e 2013 cui faceva riferimento la disposizione annullata.
Un tale effetto retroattivo è dunque coerente con la finalità di una misura legislativa che, in
attuazione della sentenza di questa Corte, si prefiggeva di sostituire - per il biennio 2012-2013 – la
disciplina della perequazione, secondo diverse modalità, espressive di un nuovo bilanciamento
degli interessi costituzionali coinvolti, rispettoso dei «limiti di ragionevolezza e proporzionalità»
(per un intervento legislativo retroattivo conseguente a una declaratoria di illegittimità
costituzionale, sentenza n. 87 del 2017)”.
La sentenza contiene, inoltre, un’importante statuizione sul legittimo affidamento che il
precedente di cui alla sent. n. 70/2015 avrebbe ingenerato nei destinatari del trattamento di
perequazione. A tale proposito, la Corte esclude ““che, in capo ai titolari di trattamenti
pensionistici, si fosse determinato un affidamento nell'applicazione della disciplina
immediatamente risultante dalla sentenza n. 70 del 2015. Quest'ultima rendeva prevedibile un
intervento del legislatore che, nell'esercizio della sua discrezionalità, disciplinasse nuovamente la
perequazione relativa agli anni 2012 e 2013 sulla base di un bilanciamento di tutti gli interessi
costituzionali coinvolti, in particolare di quelli della finanza pubblica.
Né un affidamento avrebbe potuto determinarsi, data l'immediatezza dell'intervento operato dal
legislatore, tenuto conto che il d.l. n. 65 del 2015 è entrato in vigore il 21 maggio 2015, a distanza
di soli ventuno giorni dal deposito, il 30 aprile 2015, della sentenza n. 70 del 2015. Secondo la
giurisprudenza di questa Corte, una situazione giuridica, per dar luogo a un affidamento, deve
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risultare, oltre che «sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una
ragionevole fiducia nel suo mantenimento», anche «protratta per un periodo sufficientemente
lungo» (sentenza n. 56 del 2015)””.
Sotto altro profilo, riguardante la censura sull’asserita attitudine della legge impugnata a
determinare un inammissibile intervento su processi in corso, esplicitamente vietato dalla
Carta europea dei Diritti Fondamentali, i Giudici costituzionali hanno ritenuto che ““La
finalità attuativa della sentenza di questa Corte n. 70 del 2015 propria dell'intervento operato con
l'art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015, unitamente alle altre circostanze in cui esso si inserisce,
escludono che i denunciati commi 25 e 25-bis […]siano in contrasto con l'art. 6, paragrafo 1,
della CEDU.
La Corte EDU ha precisato che tale articolo «non puo' [...] essere interpretato nel senso di
impedire ogni ingerenza dei pubblici poteri in un procedimento giudiziario pendente del quale sono
parti» […]. In particolare, nelle citate sentenze, la Corte di Strasburgo ha asserito che, al fine di
valutare se un intervento normativo retroattivo idoneo a incidere sull'esito di procedimenti in corso
integri una violazione del principio della parità delle armi, occorre «tenere conto di tutte le
circostanze della causa» e «delle ragioni che lo Stato [...] ha avanzato per giustificare l'intervento»
[…]. Le circostanze e le ragioni dell'intervento operato con l'art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del
2015 portano a escludere che esso, ancorché incida sull'esito di procedimenti in corso, violi l'art. 6,
paragrafo 1, della CEDU. Infatti, lo scopo di tale intervento non era quello di incidere sull'esito di
processi di cui lo Stato era parte, ma quello, espressamente dichiarato, di «dare attuazione ai
principi enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015», operando, con
riguardo a tutti i trattamenti pensionistici, un nuovo bilanciamento tra l'interesse dei pensionati e
le esigenze finanziarie dello Stato. Oltre a eliminare le possibili incertezze in ordine alla disciplina
applicabile in seguito a tale sentenza, l'intervento si proponeva di rimediare ai vizi di
irragionevolezza e sproporzione della disposizione dichiarata incostituzionale””.
Conclusivamente, sulla ragionevolezza dell’intervento e sulla natura non tributaria delle
decurtazioni alla perequazione, la Corte osserva che ““si deve ritenere che il blocco della
perequazione per due soli anni e il conseguente "trascinamento" dello stesso agli anni successivi
non costituiscono un sacrificio sproporzionato rispetto alle esigenze, di interesse generale,
perseguite dai denunciati commi 25 e 25-bis. Tali disposizioni incidono su una limitata
percentuale dell'importo complessivo del trattamento pensionistico, non sulla disponibilità dei
mezzi di sussistenza da parte di pensionati titolari di trattamenti medio-alti. […] Non fondata è
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la censura, anch'essa prospettata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per
l'Emilia-Romagna, di violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in relazione all'asserita natura
tributaria dell'azzeramento della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici […]
previsto dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis dell'art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.
Con le sentenze n. 173 del 2016 e n. 70 del 2015, questa Corte ha già escluso che le misure di blocco
della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici abbiano natura tributaria.
Pur consapevole di tale statuizione, il rimettente afferma che le misure adottate dal legislatore in
seguito alla sentenza n. 70 del 2015 «ripropongono il dubbio circa la introduzione [...] di una
prestazione patrimoniale di natura tributaria», atteso che esse, oltre a non modificare un rapporto
di tipo sinallagmatico, procurano una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto
passivo, dato l'effetto di "trascinamento" che le caratterizza, e sono destinate a sovvenire pubbliche
spese (come sarebbe confermato dal fatto che, ai sensi dell'art. 17, comma 1, lettera b) della legge
31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica», la copertura
finanziaria delle leggi che comportino nuovi o maggiori oneri, ovvero minori entrate, puo' essere
determinata anche «mediante riduzione di precedenti autorizzazioni legislative di spesa»).
Queste argomentazioni non sono tuttavia tali da indurre questa Corte a modificare l'orientamento
espresso con le due sentenze menzionate. In proposito, è sufficiente osservare che l'effetto di
"trascinamento" proprio delle censurate misure di blocco della perequazione non ne muta la natura
di misure di mero risparmio di spesa e non di decurtazione del patrimonio del soggetto passivo.
Deve quindi essere ribadita la natura non tributaria delle misure di blocco della perequazione e, in
particolare, di quelle previste dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis, con la conseguente non
fondatezza della questione sollevata, che tale natura, viceversa, presuppone””.
- 83 -
5. Considerazioni conclusive
Al termine del presente lavoro di sintetica illustrazione delle principali attività istituzionali
svolte, nell’anno 2017, da questa Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione
Molise, ritornano alla mente – per l’attualità delle implicazioni che esse continuano a
presentare con il panorama del ius dictum nel corso dell’anno giudiziario 2017 – le
considerazioni svolte, in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, in ordine al
significato programmatico di alcuni brocardi scolpiti nella lingua madre della civiltà giuridica
europea: “Fiat Iustitia et pereat mundus”, “Fiat Iustitia et ruat caelum”.
In quella sede, infatti, ci si è chiesto di quale “Iustitia” si volesse essere fautori e realizzatori,
se, cioè, di quella “secundum legis formam” o di quella “secundum iuris substantiam”.
Si è allora osservato come le due categorie giuridiche fossero, in realtà, strutturalmente
interconnesse, e come, in uno stato moderno, non si potesse – se non in casi rari –
somministrare la sostanza della giustizia senza l’habitus delle forme di cui essa è paludata,
posto che queste ultime rappresentano, ad un tempo, la struttura portante e l’involucro
legale della giustizia, la “custodia” delle stesse garanzie giuridiche.
Tuttavia, si è espresso il fermo convincimento che le forme in tanto potessero considerarsi
secundum ius, in quanto si ponessero come diafani contenitori della sostanza del diritto.
In altri termini, si è osservato come il giudice – ma, ancor prima, il pubblico ministero –
dovesse sempre considerare che, nelle aule di giustizia, vengano traslate vicende umane e che,
dietro e dentro le “carte processuali” ci siano gli “uomini”.
Si è, pertanto, sottolineato come la giustizia non possa essere disgiunta dalla “humanitas” (se
è vero che essa è un servizio reso alla comunità, ma anche agli stessi soggetti giudicati, che si
affidano al prudente, informato, paziente, delicato e sofferto lavoro del giudice), e come,
molto spesso, la verità processuale possa risiedere nell’ultima “carta”, del fascicolo
processuale, letta dal giudicante.
Tali concetti ed esigenze di giustizia (soprattutto sostanziale) tornano ad imporsi, alla
coscienza dell’interprete e dell’operatore del diritto, con rinnovata evidenza e sintomatica
emergenza, in cospetto del sempre più incombente processo di permeabilizzazione
dell’ordinamento nazionale a favore di istituti propri di ordinamenti esteri – pur ritenuti, in
epoche appena precedenti, assolutamente non applicabili nel nostro sistema giuridico
costituzionale – anche nella delicatissima materia del risarcimento del danno.
- 84 -
Al suddetto fenomeno – in ragione delle sue necessarie implicazioni con il sistema della
responsabilità finanziaria – è stata dedicata una specifica rassegna (cui, amplius, si rinvia) nel
capitolo 4 della presente relazione, allorché si è dato conto della rivoluzione copernicana
operata dalla sent. n. 16601/2017 delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, che –
in vista della ormai riconosciuta natura polifunzionale della responsabilità civile – ha
ritenuto l’istituto di Common law, dei cosiddetti “danni punitivi”, non ontologicamente
incompatibile con l’ordinamento italiano, sia pure con il preciso “caveat” della necessaria
tipizzazione delle relative figure, in chiave di intermediazione legislativa, in considerazione
dei limiti posti dagli irriducibili presidi contenuti, in particolare, negli artt. 23 e 25 della Carta
costituzionale della Repubblica italiana.
Al riguardo, risultano facilmente immaginabili i problemi interpretativi ed applicativi che
impegneranno la riflessione degli operatori del diritto, in cospetto della prospettica
“tracimazione” di siffatti istituti (ritenuti precedentemente estranei alla sistematica degli
ordinamenti di Civil law) nell’ordinamento italiano, posto che tale processo inizia proprio nel
momento in cui gli stessi ordinamenti di provenienza cercano, ormai, di contenere, entro
precisi limiti, l’entità dei danni punitivi risarcibili.
Tale fenomeno ha fatto seguito ad una progressiva valorizzazione, da parte del nostro
sistema, di spinte, alla incontrollata proliferazione di fattispecie risarcitorie non meritevoli di
tutela, che la stessa succitata pronuncia ha riconosciuto l’esigenza di arginare.
Sicché, appare quanto mai attuale l’assunto – già espresso nella precedente relazione – che
fare giustizia non debba avere il significato di seminare sgomento e incertezza negli operatori
pubblici (soggetti alla giurisdizione di questa Corte), bensì quello di fornire, anche attraverso
il giudizio di disvalore che accompagna l’eventuale condanna, l’indicazione di linee di
condotta che rafforzino il senso di appartenenza alle strutture che innervano la Pubblica
Amministrazione ed il rispetto e la condivisione degli interessi e delle finalità istituzionali
propri degli Enti di appartenenza.
Si deve, dunque, ancora rimarcare come, a tali fini, un ruolo di primario rilievo sia assegnato,
dall’ordinamento, alla classe forense, che, nell’esercizio del proprio munus defensionale, deve
illuminare il giudice con la leale produzione di fatti ed argomenti giuridici, in modo da
contribuire alla maieutica realizzazione della verità processuale: “narra mihi factum, dabo tibi
ius”.
- 85 -
Orbene, non si può sottacere come, anche nell’anno giudiziario 2017, alla realizzazione delle
suesposte finalità abbiano inteso dedicare le proprie forze i giudici di questa Sezione, e con
essi, ai medesimi fini, abbiano sinergicamente cooperato i valorosi rappresentanti della
Procura Regionale e l’inclito corpo forense molisano, che ha continuato a distinguersi per
lealtà processuale e tatto istituzionale.
A tutti i summenzionati operatori di giustizia va, ancora una volta, indirizzato il più fervido
ringraziamento per la meritoria opera svolta.
Per quanto più specificamente attiene all’impegno profuso dai giudici di questa Sezione,
vanno ancora una volta, sottolineate le condizioni di notevole difficoltà, che, specialmente,
negli ultimi tempi, hanno accompagnato la loro attività giudiziaria, soprattutto, in ragione
dei gravi vuoti di organico che, del resto, hanno colpito l’intero apparato magistratuale della
Corte dei conti.
Tale situazione di grave carenza di magistrati si è protratta, con tutto il proprio corredo di
complesse problematiche organizzative ed operative, in modo particolarmente evidente, fino
ai primi mesi dell’anno giudiziario 2017 (con ricostituzione dell’integrità del Collegio soltanto
a partire dal mese di marzo), anno, peraltro, i cui ruoli di udienza si sono presentati
notevolmente intasati ed interessati da giudizi di elevata complessità e rilevante valore
economico, anche per il retaggio delle ancora più significative carenze d’organico dell’anno
precedente.
Difficoltà che, tuttavia, non hanno impedito il raggiungimento di risultati di tutto rispetto.
Infatti, come si è innanzi illustrato, nell’esercizio della funzione giurisdizionale in materia di
contabilità pubblica, nel corso del 2017 (senza tener conto delle decisioni deliberate nell’anno
ed in corso di pubblicazione nel 2018), a fronte di n. 109 giudizi in carico, la Sezione ne ha
definiti n. 45, dei quali n. 2 con procedimento monitorio e n. 22 con sentenza di condanna; i
provvedimenti complessivamente deliberati, in subiecta materia, compresi quelli non ancora
pubblicati, ammontano, dunque, a n. 61 (di cui n. 16 in corso di pubblicazione).
Per quanto più specificamente concerne il settore dei conti giudiziali, a fronte di un carico
complessivo di n. 4021 conti (fra quelli già in carico dal 1° gennaio e quelli pervenuti nel corso
dell’anno), ne sono stati definiti n. 432.
- 86 -
Nell’ambito dei ricorsi pensionistici sono stati quadruplicati i risultati del 2016; infatti, sono
state pronunciate n. 44 sentenze (30 in più rispetto al decorso anno), di cui n. 8 di
accoglimento.
È, infine, il caso di sottolineare che, a rendere ancor più impegnativa l’attività dispiegata nel
corso dell’anno, hanno contribuito, in modo rilevante, le numerose problematiche
interpretative insorte in ordine all’applicazione delle nuove norme introdotte dal predetto
Codice di Giustizia Contabile (di cui al D. lgs. n. 174/2016), soprattutto in cospetto di vicende
processuali già impostate secondo il previgente ordinamento, e anche in ragione
dell’avvenuta introduzione di più stringenti termini processuali, fortemente sollecitatori
dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
Appare, infine, il caso di aggiungere che, in applicazione delle citate nuove norme, si è
provveduto alla calendarizzazione di alcuni giudizi nell’ambito delle disposizioni sul rito
abbreviato di cui agli artt. 130 e ss. del Codice, nonché alla nomina dei Giudici Unici previsti,
dal nuovo ordinamento processuale, in relazione ai giudizi per resa di conto.
Un ringraziamento particolare va tributato ai Vertici del S.A.U.R., a tutto il personale
amministrativo delle tre articolazioni istituzionali regionali di questa Corte, nonché a tutti
coloro (Autorità, Funzionari, Forze dell’ordine e Volontari) che hanno attivamente
collaborato all’organizzazione e per lo svolgimento della cerimonia di inaugurazione dell’anno
giudiziario 2018.
Con l’irrinunciabile, conclusivo, ribadito auspicio che intervenga un congruo rafforzamento
della compagine magistratuale ed amministrativa di questa Sezione giurisdizionale, al fine di
propiziare la realizzazione di un’azione giurisdizionale sempre più efficace e proficua per gli
interessi della comunità regionale molisana, nella più vasta contemplazione del superiore
interesse nazionale alla somministrazione della “buona giustizia” sul territorio dello stato
italiano.
- 90 -
ATTI PUBBLICATI NELL’ANNO 2017
Sentenze
87
Ordinanze
27
Sentenze-ordinanze 0
Provvedimenti fuori udienza (decreti) 0 Totale
114
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GIURISDIZIONE GIUDIZI IN MATERIA DI CONTABILITA’ PUBBLICA
Situazione complessiva
2017 Giudizi pendenti all’inizio dell’anno 109 Atti di citazione depositati 30 Giudizi di conto aperti 0 Giudizi per resa di conto 0 Istanze di sequestro depositate 0 Ricorso di reclamo a sequestro 0 Istanze di riassunzione depositate 1 Giudizi ad istanza di parte 1 Totale carico giudizi nell’anno 141 Giudizi definiti con sentenze 43 Giudizi definiti con ordinanze di conferma del sequestro 0 Giudizi definiti con ordinanza di conferma del rigetto sequestro 0 Giudizi definiti con ordinanza di dissequestro 0 Giudizi definiti con ordinanze di pagamento (procedimenti monitori) 2 Totale giudizi definiti 45 Giudizi pendenti a fine anno 96
- 92 -
TIPOLOGIE DEI PROVVEDIMENTI ADOTTATI NEL 2017 IN
MATERIA DI RESPONSABILITÀ Provvedimenti definitori
2017 Sentenze di condanna pubblicate 22 Sentenze di assoluzione pubblicate1 20 Sentenze di estinzione 0 Altre sentenze (definizione giud. a istanza di parte) 1 Ordinanze di inammissibilità 0 Provvedimenti monitori adottati 2 Ordinanze di conferma del sequestro 0 Ordinanze di conferma del rigetto sequestro 0 Ordinanze di dissequestro 0 Totale provvedimenti definitori 45 Sentenze o ordinanze in corso di pubblicazione 16 Giudizi pendenti2 96
Provvedimenti non definitori
2017 Ordinanze istruttorie pubblicate 12 Ordinanze di sospensione 0 Ordinanze a verbale 8 Decreti fuori udienza 9
1 Di queste, n. 3 sono costituite da sentenze di inammissibilità e n. 1 di rigetto “rebus sic stantibus” 2 Il totale dei giudizi pendenti include anche i provvedimenti pur deliberati nel corso dell’anno di riferimento, ma pubblicati in quello successivo
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GIUDIZI AD ISTANZA DI PARTE
Giudizi pendenti al 01/01/2017 4 Giudizi introdotti nell’anno 2017 1 Totale giudizi in carico nell’anno 5 Giudizi discussi in udienza collegiale 5 Totale giudizi discussi 5 Giudizi definiti 1 Giudizi pendenti al 31/12/2017 4
PROVVEDIMENTI EMESSI NEI GIUDIZI AD ISTANZA DI PARTE
Sentenze pubblicate 1
Ordinanze pubblicate 2
Decreti fuori udienza pubblicati 0
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GIUDIZI DI CONTO Situazione generale
Conti in esame al 31/12/2016
3.751
Conti depositati nel corso dell’anno 2017 270 Totale conti in carico nell’anno 2017 4.021 Conti definiti: discaricati con decreto 86 discaricati con sentenza 11 estinti ex art. 2 L.20/94 335
432
Conti pendenti al 31/12/2017 3.589
RELAZIONI
Relazioni di irregolarità/richiesta di fissazione udienza 4 Relazioni di approvazione 41 Relazioni di estinzione 180 Totale relazioni emesse 221
DECRETI
Decreti emessi nell’anno 2017 261
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CONTI GIUDIZIALI DEGLI AGENTI DELL’AMMINISTRAZIONE STATALE
Pendenti al 01/01/2017 368 Pervenuti nell’anno 2017 48 Discaricati con decreto 1 Conti estinti con decreto 4
Pendenti al 31/12/2017 411
RELAZIONI
Relazioni di discarico 0
Relazioni di estinzione 9
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CONTI GIUDIZIALI DEGLI AGENTI DEGLI ENTI TERRITORIALI LOCALI
Pendenti al 01/01/2017 3.263 Pervenuti nell’anno 2017 212 Totale conti in carico nell’anno 2017 3.475 Conti discaricati con decreto 83 Conti estinti con decreto 329 Conti definiti in giudizio 11
Conti pendenti al 31/12/2017 3.052
RELAZIONI
Relazioni di discarico
31
Relazioni di estinzione 177
Relazioni di irregolarità 0
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CONTI GIUDIZIALI DEGLI AGENTI CONTABILI A.S.R.E.M.
Pendenti al 01/01/2017 84 Pervenuti nell’anno 2017 0 Totale conti in carico nell’anno 2017
84 Conti discaricati con decreto 0 Conti estinti con decreto 0
Pendenti al 31/12/2017 84
RELAZIONI
Relazioni di discarico 0
Relazioni di estinzione 0
Relazioni con richiesta di fissazione udienza 4
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CONTI GIUDIZIALI ALTRI ENTI (Camere di Commercio e Regione)
Pendenti al 01/01/2017 36 Pervenuti nell’anno 2017 10 Totale conti in carico nell’anno 2017 46 Conti discaricati con decreto 2 Conti estinti con decreto 2 Conti definiti in giudizio 0
Conti pendenti al 31/12/2017 42
RELAZIONI
Relazioni di discarico 2
Relazioni di estinzione 2
Relazioni di irregolarità 0
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GIURISDIZIONE IN MATERIA PENSIONISTICA Situazione complessiva
Pensioni
civili Pensioni militari
Pensioni di guerra Totale
Giudizi pendenti al 1° gennaio 2017
109 5 20 134
Ricorsi pervenuti durante l'anno 33 2 1 36 Totale giudizi in carico 142 7 21 170 Sentenze di accoglimento 6 2 0 8
Sentenze di rigetto 13 0 0 13 Sentenze di inammissibilità
17 1 0 18
Sentenze con altre definizioni 4 0 1 5
Totale giudizi definiti 40 3 1 44 Totale giudizi pendenti al 31 dicembre 2017 102 4 20 126