2013/04/21 discorso di marzio muraro a longarone - un italiano macchinista in rhodesia

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1 LONGARONE PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI MARIO SANTINELLO E FIGLIO LUIGI (di Marzio Muraro) Ringrazio Santinello e gli organizzatori locali per la cortesia che mi hanno usato, invitandomi da Brescia a questa manifestazione fieristica e alla presentazione di questo libro. Sono passati ormai degli anni da quando aziende italiane come Rivarossi e Lima hanno chiuso i battenti. I modellini dei treni, lasciati ora ad una ristretta cerchia di collezionisti, non alimentano più i sogni dei ragazzini. Oggi, addirittura, dobbiamo fare i conti con la trenofobia dei NO TAV, a mio avviso un condensato di repulsioni, spesso retrograde e sempre ostinate. Sembrano lontanissimi i tempi in cui Carducci scioglieva un inno a quella creatura mostruosa ma rivoluzionaria che era il treno, rappresentato come il centro della mitologia moderna: “…come di turbine manda il suo grido, come di turbine l’alito spande …corusco e fumido, come i vulcani, i monti supera, divora i piani… E come appare di un’altra epoca l’orgoglio sociale trasmesso dallo sguardo fiero del Ferroviere, un film di Pietro Germi nel solco del cinema neorealistico italiano! Per questo il pregevole lavoro dell’amico Mario contiene gli ingredienti e assume i contorni di una passione superstite, indicibile, nostalgica e struggente. Siamo dunque in presenza di un generale ripiegamento, ma questa bella tradizione è destinata a durare, anche perché, come diceva Gustav Mahler, “La tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”. Persone di una certa età, come me, hanno vissuto pienamente il fascino della strada ferrata. Senza andare al celebre e raffinato Orient Express, ispiratore di racconti e films, spesso come luogo di misteri e intrighi all’Agatha Christie, essendo io di genitori asiaghesi, ricordo le suggestioni del trenino a cremagliera Piovene Rocchette-Asiago, inerpicatosi per 50 anni lungo i tornanti dell’Altopiano. Rammento quando, di primo mattino, infreddolito e appisolato sui sedili di legno, mi facevo svegliare da mia madre per vedere dall’alto, in ore antelucane, quella che per me era una volta stellata rovesciata all’ingiù: ovvero le rade luci della pianura. Per decenni esso ha segnato, quasi scandito, la vita dei 7 Comuni vicentini. Lì sono sbocciati innamoramenti; su di esso i giovani studenti di Toni Giuriolo raggiunsero armati la montagna, celebrati successivamente dal libro “I piccoli maestri” di Meneghello; con esso, soprattutto, migliaia di emigranti si staccarono dalla terra natale diretti in “Merica”, per dirla con Emilio Franzina, o in Australia. Erano in cerca di fortuna o, più semplicemente, li muoveva il bisogno di sopravvivere.

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2013/04/21 Discorso di Marzio Muraro a Longarone alla presentazione del libro "Un italiano macchinista in Rhodesia" di Mario e Luigi Santinello. Racconta l'esperienza di un emigrante veneto Antonio Dell'Ollivo, nativo di Selva di Cadore, che si è distinto e fatto apprezzare nell'Africa Australe onorando il lavoro italiano nel mondo. La permanenza in Rhodesia di Dell'Olivo offre agli autori l'occasione di citare la chiesetta votiva di San Francesco d'Assisi, a Fort Victoria (Masvingo), costruita dai prigionieri italiani durante la Seconda Guerra Mondiale

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LONGARONE

PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI

MARIO SANTINELLO E FIGLIO LUIGI

(di Marzio Muraro)

Ringrazio Santinello e gli organizzatori locali per la cortesia che mi hanno usato,

invitandomi da Brescia a questa manifestazione fieristica e alla presentazione di

questo libro.

Sono passati ormai degli anni da quando aziende italiane come Rivarossi e Lima

hanno chiuso i battenti.

I modellini dei treni, lasciati ora ad una ristretta cerchia di collezionisti, non

alimentano più i sogni dei ragazzini.

Oggi, addirittura, dobbiamo fare i conti con la trenofobia dei NO TAV, a mio avviso

un condensato di repulsioni, spesso retrograde e sempre ostinate.

Sembrano lontanissimi i tempi in cui Carducci scioglieva un inno a quella creatura

mostruosa ma rivoluzionaria che era il treno, rappresentato come il centro della

mitologia moderna: “…come di turbine manda il suo grido, come di turbine l’alito

spande …corusco e fumido, come i vulcani, i monti supera, divora i piani… “

E come appare di un’altra epoca l’orgoglio sociale trasmesso dallo sguardo fiero del

Ferroviere, un film di Pietro Germi nel solco del cinema neorealistico italiano!

Per questo il pregevole lavoro dell’amico Mario contiene gli ingredienti e assume i

contorni di una passione superstite, indicibile, nostalgica e struggente.

Siamo dunque in presenza di un generale ripiegamento, ma questa bella tradizione è

destinata a durare, anche perché, come diceva Gustav Mahler, “La tradizione non è

culto delle ceneri ma custodia del fuoco”.

Persone di una certa età, come me, hanno vissuto pienamente il fascino della strada

ferrata.

Senza andare al celebre e raffinato Orient Express, ispiratore di racconti e films,

spesso come luogo di misteri e intrighi all’Agatha Christie, essendo io di genitori

asiaghesi, ricordo le suggestioni del trenino a cremagliera Piovene Rocchette-Asiago,

inerpicatosi per 50 anni lungo i tornanti dell’Altopiano.

Rammento quando, di primo mattino, infreddolito e appisolato sui sedili di legno, mi

facevo svegliare da mia madre per vedere dall’alto, in ore antelucane, quella che per

me era una volta stellata rovesciata all’ingiù: ovvero le rade luci della pianura.

Per decenni esso ha segnato, quasi scandito, la vita dei 7 Comuni vicentini. Lì sono

sbocciati innamoramenti; su di esso i giovani studenti di Toni Giuriolo raggiunsero

armati la montagna, celebrati successivamente dal libro “I piccoli maestri” di

Meneghello; con esso, soprattutto, migliaia di emigranti si staccarono dalla terra

natale diretti in “Merica”, per dirla con Emilio Franzina, o in Australia. Erano in

cerca di fortuna o, più semplicemente, li muoveva il bisogno di sopravvivere.

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Commovente e bellissimo il monumento bronzeo, dedicato all’emigrante, che si trova

esternamente alla vecchia stazione ferroviaria di Asiago.

Ho anche un altro personale ricordo: alla fine degli anni ’50 percorsi in treno la

storica tratta Cortina – Dobbiaco. Dovevo raggiungere con i genitori la nostra

residenza pusterese di Monguelfo e quell’incomparabile paesaggio alpino, quasi

disabitato, dal Cristallo alla Croda dei Baranci, non tracciava semplicemente un

geografico confine di provincia ma, più nel profondo, segnava un avvertito punto di

svolta: il passaggio dalla cultura veneta e italiana al mondo sudtirolese.

Ma qui abbiamo Enrico Valmassoi, il cui bisnonno cadorino Giuseppe Da Vià fece il

macchinista ferroviere lungo il percorso forse più spettacolare del mondo: la Ferrovia

Transandina, che arrivò a collegare la capitale argentina con il porto cileno di

Valparaiso. Sui tornanti montani della Cordillera, che salgono oltre i 3.000 mt. di

quota, l’idea ingegnosa fu di lasciare binari e cremagliera esposti alla furia degli

elementi, quindi senza trincee di protezione, affinchè la neve venisse spazzata via

rapidamente dai forti venti che accompagnano le tormente. Si narra in famiglia che,

talvolta, egli rallentasse la marcia per sparare ai conigli selvatici. Il fido fuochista si

affrettava a recuperarli e, certamente, non mancava la carbonella per un buon arrosto.

Usando le parole del giornalista Pierluigi Battista, potremmo dire che: “Il treno è

distruzione delle distanze, polverizzazione dei concetti tradizionali di spazio e

tempo… Il treno distrugge le culture chiuse dell’autosufficienza, mette in contatto

mondi diversi, dilata i confini dell’universo conosciuto…”.

Quanto questo strumento di modernizzazione fosse inviso agli ambienti conservatori

lo si deduce consultando, ad esempio, nella mia provincia bresciana, gli archivi dei

consigli comunali di Iseo ed Edolo. Si scopre che la costruzione del tronco ferroviario

camuno venne ritardata, con dibattiti aspri e parole pesanti, dalla opposizione dei

consiglieri cattolici.

Al di là di questi sintomi di velleitaria “crociata” antimodernista, ci conforta

Sant’Agostino, quando dice: “Il mondo è un libro, quelli che non viaggiano ne

leggono solo una pagina”.

C’è anche la lieta storia di un treno che era stato “tagliato” e adesso riparte. Una volta

al mese, di domenica, un convoglio lascia Isernia il mattino e, dopo un viaggio

fantastico nel cuore della Maiella toccando i 1.268 metri di Pescocostanzo, rientra nel

pomeriggio avendo fatto una sosta di 2 ore a Sulmona. E’ la nostra piccola

“Transiberiana”! (nell’immagine proiettata l’ho denominata “Transappenninica”).

Nel suo secondo libro del 2008, quello dedicato alla dismessa linea ferroviaria

Padova Carmignano, Mario ha sfoderato tutta la sua competenza con una descrizione

accurata del materiale rotabile, che rasenta quasi il dettaglio proprio della specifica

tecnica. Da esso traspare tutto l’amore di Mario per i convogli su rotaia e, in primis,

per la maestà del loro agente trainante: la locomotiva.

Ma se l’interesse per le linee ferrate è costante e insopprimibile, il driver di questo

nuovo libro è un altro. Qui Mario si fa guidare dalle scelte di vita di un figlio del

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Nord-est. Negli anni’50 il triangolo industriale dell’Italia che si stava modernizzando

era quello di Milano, di Torino e di Genova, mentre nel Veneto, regione ancora

statica e depressa, le province più povere erano Rovigo e Belluno. Ed è proprio il

bellunese Antonio, il nostro protagonista, ad inseguire, un po’ per caso, il lavoro di

macchinista all’estero, in una terra distante, sotto l’equatore.

E’ una vicenda che si intreccia con altre storie di montanari partiti a lavorare lontano

da casa. Ci sovviene, il personaggio di quello che è forse il libro più riuscito di Mario

Rigoni Stern: “La storia di Toenle”. Toenle Bintarn nella seconda metà dell’800 gira

in lungo e in largo l’Impero austro-ungarico come contrabbandiere, minatore e

“eisenponnar”, che, nell’antica parlata cimbra dell’altopiano, significa posatore di

binari

E come non ricordare un’altra incredibile storia di emigrazione: quella di Giuseppe

Crestani, nativo di Conco, che all’inizio del secolo scorso lascia moglie e figli per la

terra dei gauchos, l’Argentina. Si trasferisce poi con un cargo di bovini, stipati in una

nave, a Città del Capo e l’offerta di lavoro lo spingerà fino nel Congo belga dove

morirà di febbre gialla a soli trentasette anni. Il prezioso taccuino di memorie verrà

rinvenuto da un missionario che lo recapiterà in Italia. Resterà sepolto nel baule di

una soffitta fino a quando il nipote Marco Crestani lo utilizzerà per una brillante tesi

di laurea, premiata dalla Comunità Montana dei 7 Comuni.

Con Antonio Dell’Olivo, inizia anche il viaggio di Mario alla scoperta della

Rhodesia.

E qui si apre a ventaglio una nuova prospettiva, fatta di storia, di antropologia

culturale, d’impatto con una natura ricca e meravigliosa.

Mario, naturalmente, si abbandona scientemente alla tentazione di una nuova e, come

sempre, puntuale ricognizione dei mezzi di trasporto ferroviari, caratteristici della

cultura industriale britannica. Era quella una tecnologia di prim’ordine, frutto di

ingenti investimenti effettuati dalla British South Africa Company per supportare

l’industria estrattiva.

A lungo, però, la BSACO sopravvalutò le risorse minerarie rhodesiane. Nel 1910, ad

esempio, mentre il profitto delle undici più importanti miniere d’oro di Johannesburg

toccava quasi i 7 milioni di sterline, quello delle dieci più importanti miniere

rhodesiane raggiungeva appena le 614.000 sterline.

Per rifarsi delle eccezionali spese sostenute, la BSACO si sforzò allora di promuovere

la nascita di una borghesia agraria bianca, capace di stimolare lo sviluppo del paese e

di valorizzare il sistema ferroviario, le concessioni minerarie e, soprattutto le

proprietà fondiarie. Fu così favorito l’insediamento di salariati bianchi e di coloni

dediti all’agricoltura. Nella Rhodesia prebellica si potevano allora distinguere cinque

classi sociali:

Una borghesia agraria bianca, operante nei settori minerario e agricolo;

Il grande capitalismo internazionale, che controllava le ferrovie e il carbone e

operava nella compravendita speculativa delle terre;

I salariati bianchi, la cui comparsa fu conseguenza dello sviluppo e non un

fenomeno che lo precedette (un aspetto, questo, molto interessante …);

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La piccola borghesia bianca, circoscritta al settore commerciale dell’economia

urbana;

I contadini e i salariati africani, sempre più proletarizzati (l’efflusso di

manodopera dalle aree tribali era garantito dall’imposta sulle capanne !) (… un

IMU ante litteram)

Le immagini satellitari, che dallo spazio inquadrano l’attuale Zimbabwe, mostrano un

territorio dai tenui colori pastello. Sono diverse gradazioni di ocra, di verde chiaro, di

marrone. A nord-ovest, visibilissima, la macchia blu del Kariba e ad est il rilievo

montuoso di confine con il Mozambico. Qui il verde si fa più intenso per la presenza

di fitte foreste e, oltre i monti, esso sta a indicare l’inizio della fertile pianura dell’ex

colonia portoghese. Al centro, assolutamente bizzarra, appare una lunghissima

striscia di colore rossiccio che attraversa l’intero paese da nord a sud. E’ come se un

mostro ciclopico, proveniente dagli spazi siderali, avesse inferto una terribile

unghiata, incidendo in profondità la crosta terrestre. Oppure si potrebbe pensare ad

una gigantesca meteorite che, impattando con la Terra, l’avesse strisciata sulla

circonferenza, lasciando per sempre il segno del suo passaggio.

Il Cratone dello Zimbabwe è una delle piattaforme continentali di più antica

formazione; si parla di oltre due miliardi d’anni, in era precambriana. Sin dalle

origini, questo scudo geologico è rimasto stabile, sopravvivendo ai cicli di fusione e

separazione dei continenti e, all’interno delle proprie rocce, generalmente granitiche,

conserva minerali preziosi e diamanti. Qui il vulcanismo non ha lasciato condotti

cilindrici di magma ma si è sviluppato attraverso una lunga fessura. La lava è risalita

lungo una frattura della crosta e ha creato, dopo il raffreddamento, un lungo e

compatto cordone solidificato. E’ il grande dicco dello Zimbabwe.

Queste intrusioni magmatiche cristallizzate si estendono per circa 530 km attraverso

il cratone e variano dai tre ai dodici chilometri di larghezza. Il dicco è ricco di

giacimenti di platino e cromo e, sin dall’inizio, contribuì a sostenere l'economia della

Rhodesia del Sud.

I ferri del mestiere e l’habitat di Antonio sono dunque questi. E’ fotografato spesso

alla guida della sua Garratt.

Ma l’occhio vigile e attento, e al tempo stesso discreto, di Mario cerca di captare

dall’espressione del viso di Antonio anche le sue sensazioni, il suo stato d’animo.

Ci piace immaginare il nostro protagonista colto anch’egli da quell’emozione che

racchiude una nostalgia inguaribile per un mondo fatto di purezza e semplicità e che

tradisce il disagio indotto da silenzi irreali e da tramonti impossibili con la sfumatura

di mille colori.

Riporto alcuni passi di un bellissimo articolo apparso nel 1966 su Storia Illustrata:

“Il mal d'Africa l’ha provato anche il soldatino inviatovi controvoglia; l’ha provato

chi ha lavorato sodo come manovale per vent'anni; chi ha fatto l'impiegato doganale o

il postino; chi ha seminato grano e chi ha piantato cotone; chi ha perforato la sabbia

in cerca di petrolio; chi ha costruito strade lavorando a fianco degli indigeni …

il mal d'Africa è per noi una condizione psicologica, che ha le sue origini nella stessa

natura umana, la quale instancabilmente, lungo il corso della vita, corre dietro ai

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ricordi più antichi ... L'Africa è l'immagine della terra primordiale, della Madre

primeva che generò gli uomini nei miti di tutte le genti; è il solo continente

apparentemente ancora senza tempo e senza confini … Molti hanno detto: Non sono

un missionario, né un esploratore, né un turista, voglio solo ritornare in Africa … Si

può guardare negli occhi un africano e capire il perché del suo attaccamento alla fede

degli antenati, alla verità dei fatti naturali, alla concordia delle specie nell'ordine dei

rapporti dettati dai millenni. Chiunque si avvicinerà all'Africa senza desideri di

potenza subirà il mal d'Africa, chiunque vi stabilirà una legge dura e personale vi

troverà un'amara sconfitta”.

Quante volte Antonio, attraversando le desolate lande di Beciuania, avrà cercato la

compagnia di un cielo familiare. Si sarà abituato alla vista delle costellazioni di

Magellano e alla falce di luna, che non appare a destra e a sinistra, come da noi, ma

sopra e sotto. Esattamente com’è raffigurata nella bandiera nazionale di qualche stato

islamico dell’emisfero australe.

Antonio è un professionista serio che bada essenzialmente al proprio lavoro, ma è

catapultato in una realtà ancora profondamente intrisa di elementi coloniali che non

può non condizionarlo. Tutto fa pensare che si sia comportato con l’umanità tipica

della stragrande maggioranza degli italiani. Mio padre ad esempio, milite forestale

nell’Africa orientale italiana, prese a cuore un giovane nero che faceva lo sguattero

nella casermetta di Adigrat. Gli insegnò a leggere e a scrivere, ogni giorno gli

assegnava i compiti, e vent’anni dopo venne a sapere che il giovane Ailù era

diventato un ministro del governo di Hailè Selassiè.

L’apartheid è sotto gli occhi di Antonio, nelle scuole, nell’urbanistica, nelle stesse

carrozze riservate dei treni. Tutta la realtà che lo circonda testimonia gli effetti di

quella corsa delle nazioni europee al saccheggio, brutale, delle risorse africane, noto

agli storici come “the scramble for Africa”.

Rende bene l’idea questo sostantivo della lingua inglese. Girata l’ignobile pagina

dello schiavismo, le monarchie costituzionali europee, mostrando un carattere ancora

autoritario, sgomitarono, letteralmente, tra loro per occupare le aree del continente

nero. Vi fu anche il caso di un re europeo, Leopoldo II del Belgio, che arrivò a

considerare il Congo un suo personale possedimento. Era talmente interessato a

studiare le mosse dei suoi concorrenti britannici che, giornalmente, “una copia del

«Times» giungeva a Leopoldo II, grazie al postale notturno per Dover, al battello a

vapore per Ostenda e ad un agente sull’espresso per Bruxelles, che si sporgeva a

gettare il giornale (chiuso in un robusto cesto) dal treno che passava lungo il parco

del palazzo reale a Laeken. Là veniva recuperato da un valletto in attesa e portato in

tutta fretta a palazzo, dove un altro domestico ne stirava le pagine con un ferro a

vapore prima di recapitarlo al tavolo della colazione del re.

Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali africane, in particolare la gomma

selvatica (caucciù), costrinse gli indigeni al lavoro forzato e li sottopose ad un regime

di terrore e di rappresaglie armate. Un giornalista americano ritenne che dieci milioni

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di congolesi fossero periti fino al 1908, anno in cui la colonia fu sottoposta alla

sovranità del parlamento di Bruxelles.

Kipling, il massimo e forse unico poeta dell’imperialismo, salutò nel 1897 il giubileo

di diamante della regina Vittoria, momento supremo di demagogico orgoglio

imperiale, con un monito profetico sulla caducità degli imperi:

In mari lontani le nostre flotte svaniscono;

il fuoco si spegne su dune e scogliere:

ecco la nostra superbia di ieri

giace con Ninive e Tiro!

Signore dei popoli, risparmiaci ancora,

fa’ che non dimentichiamo, che non dimentichiamo.

Proprio l’importante nodo ferroviario di Bulawaio fu teatro dell’ultima battaglia

coloniale per sottomettere le popolazioni indigene. L’etimo della città, nella lingua

Matabele, significa “luogo dei perseguitati” o “luogo della strage”. Lì nel 1896 ebbe

il suo battesimo del fuoco la mitragliatrice Maxim, d’invenzione americana, il primo

modello funzionante d’arma automatica portatile. Con una capacità di fuoco di

cinquecento colpi il minuto, 50 soldati del British South Africa Company riuscirono a

mettere in fuga, con solo quattro Maxim, 5.000 guerrieri Matabele. Questo popolo,

chiamato “la gente dai lunghi scudi” si era insediato nel sud-ovest dopo l’esodo dalle

zone costiere cui fu costretto a seguito dell’espansione boera.

Ma quale fu la presenza degli italiani nell’Africa australe?

A parte qualche etnologo o scienziato naturalista, dubito fortemente che ci fosse

traccia di connazionali civili prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale.

Durante il fascismo gli italiani che intendevano espatriare lo facevano attratti dalla

Libia o dai possedimenti del Corno d’Africa. Negli anni ’40 troviamo sì degli italiani

sotto l’equatore, ma sono tutti prigionieri di guerra.

Il maggiore concentramento si ebbe a Zonderwater, nei pressi di Pretoria in Sud

Africa. Tra il 1941 e il 1947 vissero in questa vera e propria città del prigioniero oltre

centomila militari italiani. Non posso qui non menzionare la nobile figura del

comandante del campo, il colonnello di origine boera Prinsloo, che con le sue

direttive umanitarie andò ben oltre gli standards previsti dalla convenzione di

Ginevra. All’interno del recinto di detenzione, egli diede impulso all’artigianato, alle

arti figurative, alle recite teatrali e soprattutto allo sport (con tornei di calcio e

incontri di boxe). Novemila soldati di truppa italiani furono alfabetizzati e molti

appresero la lingua inglese.

Dopo la guerra il campo fu smantellato ma in Sud Africa restarono gli eredi degli

italiani che, finita la prigionia non sono tornati in Italia, come il tenore Gregorio

Fiasconaro, papà di Marcello, recordman azzurro degli 800 metri, o i figli degli

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italiani che, prima di rientrare, hanno conquistato i cuori di ragazze del posto,

seminando un legame che ancora corre tra i due emisferi.

I prigionieri italiani catturati in Africa Orientale giungevano al porto di Durban e da lì

venivano smistati nelle colonie britanniche del sud.

Vi fu anche una tragedia del mare pressoché dimenticata. Il 28 novembre 1942 il

piroscafo inglese Nova Scotia, che aveva a bordo 760 prigionieri italiani, venne

silurato nel Canale del Madagascar da un sommergibile tedesco U-177 e in sette

minuti colò a picco. In internet c’è un bel sito fatto da due ragazzi padovani, nipoti di

una delle vittime.

Si sa poco delle fughe dai campi di concentramento dei nostri connazionali. Nella

Rhodesia del Sud i campi d’internamento erano cinque.

Quella più sorprendente mi fu personalmente segnalata dall’ambasciatore e storico

Sergio Romano. Un prigioniero di origine triestina, Felice Benuzzi, rocciatore della

scuola di Emilio Comici, fuggì dal campo di concentramento di Nanyuki in Kenya,

non per raggiungere il Mozambico, troppo distante, ma per scalare con due compagni

di fuga e con mezzi di fortuna la seconda vetta africana, il monte Kenya di 5.199 mt,

che ammirava in lontananza oltre i reticolati del campo. “Il tricolore sventola libero

nell’azzurro, in direzione nord, verso l’Italia. E piansi, piansi come un bambino”

affermò Benuzzi. Poi si riconsegnò agli increduli carcerieri inglesi.

Probabilmente il nostro Antonio ebbe modo di visitare a Fort Victoria la chiesetta

votiva costruita in cattività dai prigionieri italiani del 5° Extension Camp.

Una parte rilevante della sua edificazione l’ebbero mio padre e mio zio, che erano

finiti in quel campo punitivo dopo essere stati riacciuffati, fuggiaschi, oltre il confine

con il Mozambico. Gli agenti inglesi in borghese erano penetrati illegalmente nel

territorio portoghese a seguito di una soffiata. La corsa nella savana era durata sette

giorni e il percorso misurava oltre 350 km.

Scappati da Gatooma, avevano attraversato nel Manicaland il distretto selvaggio di

Buhera.

Si stimava allora che la Rhodesia avesse 640 diversi tipi di volatili, 270 specie di

mammiferi e 150 specie di rettili.

I vecchi dei villaggi di etnia Shona tramandavano alle più giovani generazioni un

patrimonio di conoscenze che riguardavano gli uccelli, gli alberi, gli animali terrestri

e una vasta gamma di organismi viventi. Gli alberi, ad esempio, erano rivelatori della

fertilità del terreno ed erano conosciuti molto bene anche gli indicatori utilizzati per

determinare la presenza d’acqua sotterranea.

Eppure l’uso di uccelli e di piante come misura del mutamento ambientale, frutto di

una secolare trasmissione di sapere, cominciava a essere minato dalle pretese

agronomiche degli ultimi bianchi arrivati. Un vecchio indigeno ottantenne di Buhera

si era sfogato: “Abbiamo imparato dai nostri padri! I miei figli hanno riempito ogni

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anno il granaio della famiglia! Voi ci portate indietro. Siete delle streghe! Ci state

imponendo le colture che non sono propriamente adatte al nostro terreno”.

Poi, sconsolato e in tono di resa, aveva concluso: “Dove pensate che io possa usare

queste conoscenze? Chi ha voglia di ascoltare queste cose, da un vecchio come me?”

Fu proprio nei pressi di Buhera che i due fratelli evasi scorsero, tra la vegetazione, i

binari di una ferrovia abbandonata. E’ precisato nel diario di mio zio.

All’inizio del secolo, infatti, era iniziata la costruzione di alcune linee per collegare la

costa dell’oceano indiano con i bacini auriferi dell’ovest e, nei primi anni ’20, era in

voga viaggiare in quelle aree per svago.

Era possibile vedere la selvaggina comodamente seduti in un vagone ferroviario.

Spesso il treno si fermava e i viaggiatori scendevano. Era successo che qualche

ritardatario, pedinato da un leone, fosse costretto e rifugiarsi sugli alberi e da lì

guardare rassegnato il proprio treno che, svaporando, si allontanava per poi

scomparire tra acacie ed eucalipti.

Alla fine la direzione ferroviaria, alla luce di quanto accaduto, aveva deciso di fissare

agli alberi delle scale a pioli per i passeggeri minacciati dai predatori in agguato.

Negli anni ’40, la Rhodesia aveva conservato molti cimeli che risalivano alla magia

dei pionieri dell’era ferroviaria.

E così, con l’ultimo riferimento alla ferrovia, chiudo questo mio intervento, facendo i

complimenti all’amico Mario e a suo figlio Luigi, i quali, con pervicacia, dando alle

stampe il libro, hanno coronato il loro progetto. Grazie.

Marzio Muraro, Longarone (BL), 21 aprile 2013