2013/04/21 discorso di marzio muraro a longarone - un italiano macchinista in rhodesia
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2013/04/21 Discorso di Marzio Muraro a Longarone alla presentazione del libro "Un italiano macchinista in Rhodesia" di Mario e Luigi Santinello. Racconta l'esperienza di un emigrante veneto Antonio Dell'Ollivo, nativo di Selva di Cadore, che si è distinto e fatto apprezzare nell'Africa Australe onorando il lavoro italiano nel mondo. La permanenza in Rhodesia di Dell'Olivo offre agli autori l'occasione di citare la chiesetta votiva di San Francesco d'Assisi, a Fort Victoria (Masvingo), costruita dai prigionieri italiani durante la Seconda Guerra MondialeTRANSCRIPT
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LONGARONE
PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI
MARIO SANTINELLO E FIGLIO LUIGI
(di Marzio Muraro)
Ringrazio Santinello e gli organizzatori locali per la cortesia che mi hanno usato,
invitandomi da Brescia a questa manifestazione fieristica e alla presentazione di
questo libro.
Sono passati ormai degli anni da quando aziende italiane come Rivarossi e Lima
hanno chiuso i battenti.
I modellini dei treni, lasciati ora ad una ristretta cerchia di collezionisti, non
alimentano più i sogni dei ragazzini.
Oggi, addirittura, dobbiamo fare i conti con la trenofobia dei NO TAV, a mio avviso
un condensato di repulsioni, spesso retrograde e sempre ostinate.
Sembrano lontanissimi i tempi in cui Carducci scioglieva un inno a quella creatura
mostruosa ma rivoluzionaria che era il treno, rappresentato come il centro della
mitologia moderna: “…come di turbine manda il suo grido, come di turbine l’alito
spande …corusco e fumido, come i vulcani, i monti supera, divora i piani… “
E come appare di un’altra epoca l’orgoglio sociale trasmesso dallo sguardo fiero del
Ferroviere, un film di Pietro Germi nel solco del cinema neorealistico italiano!
Per questo il pregevole lavoro dell’amico Mario contiene gli ingredienti e assume i
contorni di una passione superstite, indicibile, nostalgica e struggente.
Siamo dunque in presenza di un generale ripiegamento, ma questa bella tradizione è
destinata a durare, anche perché, come diceva Gustav Mahler, “La tradizione non è
culto delle ceneri ma custodia del fuoco”.
Persone di una certa età, come me, hanno vissuto pienamente il fascino della strada
ferrata.
Senza andare al celebre e raffinato Orient Express, ispiratore di racconti e films,
spesso come luogo di misteri e intrighi all’Agatha Christie, essendo io di genitori
asiaghesi, ricordo le suggestioni del trenino a cremagliera Piovene Rocchette-Asiago,
inerpicatosi per 50 anni lungo i tornanti dell’Altopiano.
Rammento quando, di primo mattino, infreddolito e appisolato sui sedili di legno, mi
facevo svegliare da mia madre per vedere dall’alto, in ore antelucane, quella che per
me era una volta stellata rovesciata all’ingiù: ovvero le rade luci della pianura.
Per decenni esso ha segnato, quasi scandito, la vita dei 7 Comuni vicentini. Lì sono
sbocciati innamoramenti; su di esso i giovani studenti di Toni Giuriolo raggiunsero
armati la montagna, celebrati successivamente dal libro “I piccoli maestri” di
Meneghello; con esso, soprattutto, migliaia di emigranti si staccarono dalla terra
natale diretti in “Merica”, per dirla con Emilio Franzina, o in Australia. Erano in
cerca di fortuna o, più semplicemente, li muoveva il bisogno di sopravvivere.
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Commovente e bellissimo il monumento bronzeo, dedicato all’emigrante, che si trova
esternamente alla vecchia stazione ferroviaria di Asiago.
Ho anche un altro personale ricordo: alla fine degli anni ’50 percorsi in treno la
storica tratta Cortina – Dobbiaco. Dovevo raggiungere con i genitori la nostra
residenza pusterese di Monguelfo e quell’incomparabile paesaggio alpino, quasi
disabitato, dal Cristallo alla Croda dei Baranci, non tracciava semplicemente un
geografico confine di provincia ma, più nel profondo, segnava un avvertito punto di
svolta: il passaggio dalla cultura veneta e italiana al mondo sudtirolese.
Ma qui abbiamo Enrico Valmassoi, il cui bisnonno cadorino Giuseppe Da Vià fece il
macchinista ferroviere lungo il percorso forse più spettacolare del mondo: la Ferrovia
Transandina, che arrivò a collegare la capitale argentina con il porto cileno di
Valparaiso. Sui tornanti montani della Cordillera, che salgono oltre i 3.000 mt. di
quota, l’idea ingegnosa fu di lasciare binari e cremagliera esposti alla furia degli
elementi, quindi senza trincee di protezione, affinchè la neve venisse spazzata via
rapidamente dai forti venti che accompagnano le tormente. Si narra in famiglia che,
talvolta, egli rallentasse la marcia per sparare ai conigli selvatici. Il fido fuochista si
affrettava a recuperarli e, certamente, non mancava la carbonella per un buon arrosto.
Usando le parole del giornalista Pierluigi Battista, potremmo dire che: “Il treno è
distruzione delle distanze, polverizzazione dei concetti tradizionali di spazio e
tempo… Il treno distrugge le culture chiuse dell’autosufficienza, mette in contatto
mondi diversi, dilata i confini dell’universo conosciuto…”.
Quanto questo strumento di modernizzazione fosse inviso agli ambienti conservatori
lo si deduce consultando, ad esempio, nella mia provincia bresciana, gli archivi dei
consigli comunali di Iseo ed Edolo. Si scopre che la costruzione del tronco ferroviario
camuno venne ritardata, con dibattiti aspri e parole pesanti, dalla opposizione dei
consiglieri cattolici.
Al di là di questi sintomi di velleitaria “crociata” antimodernista, ci conforta
Sant’Agostino, quando dice: “Il mondo è un libro, quelli che non viaggiano ne
leggono solo una pagina”.
C’è anche la lieta storia di un treno che era stato “tagliato” e adesso riparte. Una volta
al mese, di domenica, un convoglio lascia Isernia il mattino e, dopo un viaggio
fantastico nel cuore della Maiella toccando i 1.268 metri di Pescocostanzo, rientra nel
pomeriggio avendo fatto una sosta di 2 ore a Sulmona. E’ la nostra piccola
“Transiberiana”! (nell’immagine proiettata l’ho denominata “Transappenninica”).
Nel suo secondo libro del 2008, quello dedicato alla dismessa linea ferroviaria
Padova Carmignano, Mario ha sfoderato tutta la sua competenza con una descrizione
accurata del materiale rotabile, che rasenta quasi il dettaglio proprio della specifica
tecnica. Da esso traspare tutto l’amore di Mario per i convogli su rotaia e, in primis,
per la maestà del loro agente trainante: la locomotiva.
Ma se l’interesse per le linee ferrate è costante e insopprimibile, il driver di questo
nuovo libro è un altro. Qui Mario si fa guidare dalle scelte di vita di un figlio del
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Nord-est. Negli anni’50 il triangolo industriale dell’Italia che si stava modernizzando
era quello di Milano, di Torino e di Genova, mentre nel Veneto, regione ancora
statica e depressa, le province più povere erano Rovigo e Belluno. Ed è proprio il
bellunese Antonio, il nostro protagonista, ad inseguire, un po’ per caso, il lavoro di
macchinista all’estero, in una terra distante, sotto l’equatore.
E’ una vicenda che si intreccia con altre storie di montanari partiti a lavorare lontano
da casa. Ci sovviene, il personaggio di quello che è forse il libro più riuscito di Mario
Rigoni Stern: “La storia di Toenle”. Toenle Bintarn nella seconda metà dell’800 gira
in lungo e in largo l’Impero austro-ungarico come contrabbandiere, minatore e
“eisenponnar”, che, nell’antica parlata cimbra dell’altopiano, significa posatore di
binari
E come non ricordare un’altra incredibile storia di emigrazione: quella di Giuseppe
Crestani, nativo di Conco, che all’inizio del secolo scorso lascia moglie e figli per la
terra dei gauchos, l’Argentina. Si trasferisce poi con un cargo di bovini, stipati in una
nave, a Città del Capo e l’offerta di lavoro lo spingerà fino nel Congo belga dove
morirà di febbre gialla a soli trentasette anni. Il prezioso taccuino di memorie verrà
rinvenuto da un missionario che lo recapiterà in Italia. Resterà sepolto nel baule di
una soffitta fino a quando il nipote Marco Crestani lo utilizzerà per una brillante tesi
di laurea, premiata dalla Comunità Montana dei 7 Comuni.
Con Antonio Dell’Olivo, inizia anche il viaggio di Mario alla scoperta della
Rhodesia.
E qui si apre a ventaglio una nuova prospettiva, fatta di storia, di antropologia
culturale, d’impatto con una natura ricca e meravigliosa.
Mario, naturalmente, si abbandona scientemente alla tentazione di una nuova e, come
sempre, puntuale ricognizione dei mezzi di trasporto ferroviari, caratteristici della
cultura industriale britannica. Era quella una tecnologia di prim’ordine, frutto di
ingenti investimenti effettuati dalla British South Africa Company per supportare
l’industria estrattiva.
A lungo, però, la BSACO sopravvalutò le risorse minerarie rhodesiane. Nel 1910, ad
esempio, mentre il profitto delle undici più importanti miniere d’oro di Johannesburg
toccava quasi i 7 milioni di sterline, quello delle dieci più importanti miniere
rhodesiane raggiungeva appena le 614.000 sterline.
Per rifarsi delle eccezionali spese sostenute, la BSACO si sforzò allora di promuovere
la nascita di una borghesia agraria bianca, capace di stimolare lo sviluppo del paese e
di valorizzare il sistema ferroviario, le concessioni minerarie e, soprattutto le
proprietà fondiarie. Fu così favorito l’insediamento di salariati bianchi e di coloni
dediti all’agricoltura. Nella Rhodesia prebellica si potevano allora distinguere cinque
classi sociali:
Una borghesia agraria bianca, operante nei settori minerario e agricolo;
Il grande capitalismo internazionale, che controllava le ferrovie e il carbone e
operava nella compravendita speculativa delle terre;
I salariati bianchi, la cui comparsa fu conseguenza dello sviluppo e non un
fenomeno che lo precedette (un aspetto, questo, molto interessante …);
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La piccola borghesia bianca, circoscritta al settore commerciale dell’economia
urbana;
I contadini e i salariati africani, sempre più proletarizzati (l’efflusso di
manodopera dalle aree tribali era garantito dall’imposta sulle capanne !) (… un
IMU ante litteram)
Le immagini satellitari, che dallo spazio inquadrano l’attuale Zimbabwe, mostrano un
territorio dai tenui colori pastello. Sono diverse gradazioni di ocra, di verde chiaro, di
marrone. A nord-ovest, visibilissima, la macchia blu del Kariba e ad est il rilievo
montuoso di confine con il Mozambico. Qui il verde si fa più intenso per la presenza
di fitte foreste e, oltre i monti, esso sta a indicare l’inizio della fertile pianura dell’ex
colonia portoghese. Al centro, assolutamente bizzarra, appare una lunghissima
striscia di colore rossiccio che attraversa l’intero paese da nord a sud. E’ come se un
mostro ciclopico, proveniente dagli spazi siderali, avesse inferto una terribile
unghiata, incidendo in profondità la crosta terrestre. Oppure si potrebbe pensare ad
una gigantesca meteorite che, impattando con la Terra, l’avesse strisciata sulla
circonferenza, lasciando per sempre il segno del suo passaggio.
Il Cratone dello Zimbabwe è una delle piattaforme continentali di più antica
formazione; si parla di oltre due miliardi d’anni, in era precambriana. Sin dalle
origini, questo scudo geologico è rimasto stabile, sopravvivendo ai cicli di fusione e
separazione dei continenti e, all’interno delle proprie rocce, generalmente granitiche,
conserva minerali preziosi e diamanti. Qui il vulcanismo non ha lasciato condotti
cilindrici di magma ma si è sviluppato attraverso una lunga fessura. La lava è risalita
lungo una frattura della crosta e ha creato, dopo il raffreddamento, un lungo e
compatto cordone solidificato. E’ il grande dicco dello Zimbabwe.
Queste intrusioni magmatiche cristallizzate si estendono per circa 530 km attraverso
il cratone e variano dai tre ai dodici chilometri di larghezza. Il dicco è ricco di
giacimenti di platino e cromo e, sin dall’inizio, contribuì a sostenere l'economia della
Rhodesia del Sud.
I ferri del mestiere e l’habitat di Antonio sono dunque questi. E’ fotografato spesso
alla guida della sua Garratt.
Ma l’occhio vigile e attento, e al tempo stesso discreto, di Mario cerca di captare
dall’espressione del viso di Antonio anche le sue sensazioni, il suo stato d’animo.
Ci piace immaginare il nostro protagonista colto anch’egli da quell’emozione che
racchiude una nostalgia inguaribile per un mondo fatto di purezza e semplicità e che
tradisce il disagio indotto da silenzi irreali e da tramonti impossibili con la sfumatura
di mille colori.
Riporto alcuni passi di un bellissimo articolo apparso nel 1966 su Storia Illustrata:
“Il mal d'Africa l’ha provato anche il soldatino inviatovi controvoglia; l’ha provato
chi ha lavorato sodo come manovale per vent'anni; chi ha fatto l'impiegato doganale o
il postino; chi ha seminato grano e chi ha piantato cotone; chi ha perforato la sabbia
in cerca di petrolio; chi ha costruito strade lavorando a fianco degli indigeni …
il mal d'Africa è per noi una condizione psicologica, che ha le sue origini nella stessa
natura umana, la quale instancabilmente, lungo il corso della vita, corre dietro ai
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ricordi più antichi ... L'Africa è l'immagine della terra primordiale, della Madre
primeva che generò gli uomini nei miti di tutte le genti; è il solo continente
apparentemente ancora senza tempo e senza confini … Molti hanno detto: Non sono
un missionario, né un esploratore, né un turista, voglio solo ritornare in Africa … Si
può guardare negli occhi un africano e capire il perché del suo attaccamento alla fede
degli antenati, alla verità dei fatti naturali, alla concordia delle specie nell'ordine dei
rapporti dettati dai millenni. Chiunque si avvicinerà all'Africa senza desideri di
potenza subirà il mal d'Africa, chiunque vi stabilirà una legge dura e personale vi
troverà un'amara sconfitta”.
Quante volte Antonio, attraversando le desolate lande di Beciuania, avrà cercato la
compagnia di un cielo familiare. Si sarà abituato alla vista delle costellazioni di
Magellano e alla falce di luna, che non appare a destra e a sinistra, come da noi, ma
sopra e sotto. Esattamente com’è raffigurata nella bandiera nazionale di qualche stato
islamico dell’emisfero australe.
Antonio è un professionista serio che bada essenzialmente al proprio lavoro, ma è
catapultato in una realtà ancora profondamente intrisa di elementi coloniali che non
può non condizionarlo. Tutto fa pensare che si sia comportato con l’umanità tipica
della stragrande maggioranza degli italiani. Mio padre ad esempio, milite forestale
nell’Africa orientale italiana, prese a cuore un giovane nero che faceva lo sguattero
nella casermetta di Adigrat. Gli insegnò a leggere e a scrivere, ogni giorno gli
assegnava i compiti, e vent’anni dopo venne a sapere che il giovane Ailù era
diventato un ministro del governo di Hailè Selassiè.
L’apartheid è sotto gli occhi di Antonio, nelle scuole, nell’urbanistica, nelle stesse
carrozze riservate dei treni. Tutta la realtà che lo circonda testimonia gli effetti di
quella corsa delle nazioni europee al saccheggio, brutale, delle risorse africane, noto
agli storici come “the scramble for Africa”.
Rende bene l’idea questo sostantivo della lingua inglese. Girata l’ignobile pagina
dello schiavismo, le monarchie costituzionali europee, mostrando un carattere ancora
autoritario, sgomitarono, letteralmente, tra loro per occupare le aree del continente
nero. Vi fu anche il caso di un re europeo, Leopoldo II del Belgio, che arrivò a
considerare il Congo un suo personale possedimento. Era talmente interessato a
studiare le mosse dei suoi concorrenti britannici che, giornalmente, “una copia del
«Times» giungeva a Leopoldo II, grazie al postale notturno per Dover, al battello a
vapore per Ostenda e ad un agente sull’espresso per Bruxelles, che si sporgeva a
gettare il giornale (chiuso in un robusto cesto) dal treno che passava lungo il parco
del palazzo reale a Laeken. Là veniva recuperato da un valletto in attesa e portato in
tutta fretta a palazzo, dove un altro domestico ne stirava le pagine con un ferro a
vapore prima di recapitarlo al tavolo della colazione del re.
Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali africane, in particolare la gomma
selvatica (caucciù), costrinse gli indigeni al lavoro forzato e li sottopose ad un regime
di terrore e di rappresaglie armate. Un giornalista americano ritenne che dieci milioni
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di congolesi fossero periti fino al 1908, anno in cui la colonia fu sottoposta alla
sovranità del parlamento di Bruxelles.
Kipling, il massimo e forse unico poeta dell’imperialismo, salutò nel 1897 il giubileo
di diamante della regina Vittoria, momento supremo di demagogico orgoglio
imperiale, con un monito profetico sulla caducità degli imperi:
In mari lontani le nostre flotte svaniscono;
il fuoco si spegne su dune e scogliere:
ecco la nostra superbia di ieri
giace con Ninive e Tiro!
Signore dei popoli, risparmiaci ancora,
fa’ che non dimentichiamo, che non dimentichiamo.
Proprio l’importante nodo ferroviario di Bulawaio fu teatro dell’ultima battaglia
coloniale per sottomettere le popolazioni indigene. L’etimo della città, nella lingua
Matabele, significa “luogo dei perseguitati” o “luogo della strage”. Lì nel 1896 ebbe
il suo battesimo del fuoco la mitragliatrice Maxim, d’invenzione americana, il primo
modello funzionante d’arma automatica portatile. Con una capacità di fuoco di
cinquecento colpi il minuto, 50 soldati del British South Africa Company riuscirono a
mettere in fuga, con solo quattro Maxim, 5.000 guerrieri Matabele. Questo popolo,
chiamato “la gente dai lunghi scudi” si era insediato nel sud-ovest dopo l’esodo dalle
zone costiere cui fu costretto a seguito dell’espansione boera.
Ma quale fu la presenza degli italiani nell’Africa australe?
A parte qualche etnologo o scienziato naturalista, dubito fortemente che ci fosse
traccia di connazionali civili prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale.
Durante il fascismo gli italiani che intendevano espatriare lo facevano attratti dalla
Libia o dai possedimenti del Corno d’Africa. Negli anni ’40 troviamo sì degli italiani
sotto l’equatore, ma sono tutti prigionieri di guerra.
Il maggiore concentramento si ebbe a Zonderwater, nei pressi di Pretoria in Sud
Africa. Tra il 1941 e il 1947 vissero in questa vera e propria città del prigioniero oltre
centomila militari italiani. Non posso qui non menzionare la nobile figura del
comandante del campo, il colonnello di origine boera Prinsloo, che con le sue
direttive umanitarie andò ben oltre gli standards previsti dalla convenzione di
Ginevra. All’interno del recinto di detenzione, egli diede impulso all’artigianato, alle
arti figurative, alle recite teatrali e soprattutto allo sport (con tornei di calcio e
incontri di boxe). Novemila soldati di truppa italiani furono alfabetizzati e molti
appresero la lingua inglese.
Dopo la guerra il campo fu smantellato ma in Sud Africa restarono gli eredi degli
italiani che, finita la prigionia non sono tornati in Italia, come il tenore Gregorio
Fiasconaro, papà di Marcello, recordman azzurro degli 800 metri, o i figli degli
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italiani che, prima di rientrare, hanno conquistato i cuori di ragazze del posto,
seminando un legame che ancora corre tra i due emisferi.
I prigionieri italiani catturati in Africa Orientale giungevano al porto di Durban e da lì
venivano smistati nelle colonie britanniche del sud.
Vi fu anche una tragedia del mare pressoché dimenticata. Il 28 novembre 1942 il
piroscafo inglese Nova Scotia, che aveva a bordo 760 prigionieri italiani, venne
silurato nel Canale del Madagascar da un sommergibile tedesco U-177 e in sette
minuti colò a picco. In internet c’è un bel sito fatto da due ragazzi padovani, nipoti di
una delle vittime.
Si sa poco delle fughe dai campi di concentramento dei nostri connazionali. Nella
Rhodesia del Sud i campi d’internamento erano cinque.
Quella più sorprendente mi fu personalmente segnalata dall’ambasciatore e storico
Sergio Romano. Un prigioniero di origine triestina, Felice Benuzzi, rocciatore della
scuola di Emilio Comici, fuggì dal campo di concentramento di Nanyuki in Kenya,
non per raggiungere il Mozambico, troppo distante, ma per scalare con due compagni
di fuga e con mezzi di fortuna la seconda vetta africana, il monte Kenya di 5.199 mt,
che ammirava in lontananza oltre i reticolati del campo. “Il tricolore sventola libero
nell’azzurro, in direzione nord, verso l’Italia. E piansi, piansi come un bambino”
affermò Benuzzi. Poi si riconsegnò agli increduli carcerieri inglesi.
Probabilmente il nostro Antonio ebbe modo di visitare a Fort Victoria la chiesetta
votiva costruita in cattività dai prigionieri italiani del 5° Extension Camp.
Una parte rilevante della sua edificazione l’ebbero mio padre e mio zio, che erano
finiti in quel campo punitivo dopo essere stati riacciuffati, fuggiaschi, oltre il confine
con il Mozambico. Gli agenti inglesi in borghese erano penetrati illegalmente nel
territorio portoghese a seguito di una soffiata. La corsa nella savana era durata sette
giorni e il percorso misurava oltre 350 km.
Scappati da Gatooma, avevano attraversato nel Manicaland il distretto selvaggio di
Buhera.
Si stimava allora che la Rhodesia avesse 640 diversi tipi di volatili, 270 specie di
mammiferi e 150 specie di rettili.
I vecchi dei villaggi di etnia Shona tramandavano alle più giovani generazioni un
patrimonio di conoscenze che riguardavano gli uccelli, gli alberi, gli animali terrestri
e una vasta gamma di organismi viventi. Gli alberi, ad esempio, erano rivelatori della
fertilità del terreno ed erano conosciuti molto bene anche gli indicatori utilizzati per
determinare la presenza d’acqua sotterranea.
Eppure l’uso di uccelli e di piante come misura del mutamento ambientale, frutto di
una secolare trasmissione di sapere, cominciava a essere minato dalle pretese
agronomiche degli ultimi bianchi arrivati. Un vecchio indigeno ottantenne di Buhera
si era sfogato: “Abbiamo imparato dai nostri padri! I miei figli hanno riempito ogni
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anno il granaio della famiglia! Voi ci portate indietro. Siete delle streghe! Ci state
imponendo le colture che non sono propriamente adatte al nostro terreno”.
Poi, sconsolato e in tono di resa, aveva concluso: “Dove pensate che io possa usare
queste conoscenze? Chi ha voglia di ascoltare queste cose, da un vecchio come me?”
Fu proprio nei pressi di Buhera che i due fratelli evasi scorsero, tra la vegetazione, i
binari di una ferrovia abbandonata. E’ precisato nel diario di mio zio.
All’inizio del secolo, infatti, era iniziata la costruzione di alcune linee per collegare la
costa dell’oceano indiano con i bacini auriferi dell’ovest e, nei primi anni ’20, era in
voga viaggiare in quelle aree per svago.
Era possibile vedere la selvaggina comodamente seduti in un vagone ferroviario.
Spesso il treno si fermava e i viaggiatori scendevano. Era successo che qualche
ritardatario, pedinato da un leone, fosse costretto e rifugiarsi sugli alberi e da lì
guardare rassegnato il proprio treno che, svaporando, si allontanava per poi
scomparire tra acacie ed eucalipti.
Alla fine la direzione ferroviaria, alla luce di quanto accaduto, aveva deciso di fissare
agli alberi delle scale a pioli per i passeggeri minacciati dai predatori in agguato.
Negli anni ’40, la Rhodesia aveva conservato molti cimeli che risalivano alla magia
dei pionieri dell’era ferroviaria.
E così, con l’ultimo riferimento alla ferrovia, chiudo questo mio intervento, facendo i
complimenti all’amico Mario e a suo figlio Luigi, i quali, con pervicacia, dando alle
stampe il libro, hanno coronato il loro progetto. Grazie.
Marzio Muraro, Longarone (BL), 21 aprile 2013