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2. LAVORO PUBBLICO INDICE TESTI 2016 Partecipazione diretta e nuove strade per le relazioni industriali nel lavoro pubblico, Egea- Cisl Partecipazione dei lavoratori al miglioramento organizzativo. Una leva per sviluppare managerialità, motivazione e nuove relazioni di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, AREL 2015 Nuove esperienze di partecipazione dei lavoratori nel settore privato: quali spunti per il Pubblico impiego? RU 2012 Il lavoro in Sanità tra pubblico e privato, UNICOFIN 2010 Valutazione della performance negli Enti locali, ISMO 2004 Le trasformazioni organizzative, del mercato del lavoro e delle professioni negli ospedali italiani, REFIPAR/Carocci

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2. LAVORO PUBBLICO

INDICE TESTI

2016

• Partecipazione diretta e nuove strade per le relazioni industriali nel lavoro pubblico, Egea-

Cisl

• Partecipazione dei lavoratori al miglioramento organizzativo. Una leva per sviluppare

managerialità, motivazione e nuove relazioni di lavoro nelle pubbliche amministrazioni,

AREL

2015

• Nuove esperienze di partecipazione dei lavoratori nel settore privato: quali spunti per il

Pubblico impiego? RU

2012

• Il lavoro in Sanità tra pubblico e privato, UNICOFIN

2010

• Valutazione della performance negli Enti locali, ISMO

2004

• Le trasformazioni organizzative, del mercato del lavoro e delle professioni negli ospedali

italiani, REFIPAR/Carocci

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PARTECIPAZIONE DIRETTA E NUOVE STRADE PER LE RELAZIONI INDUSTRIALI NEL

LAVORO PUBBLICO

ANNA M. PONZELLINI

Uscito in: G. Faverin e P. Feltrin (a cura di) (2017), Fuori dal guado, Milano, EGEA.

1. Cosa sono le pratiche di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori?

In questi ultimi anni nel settore privato – soprattutto, ma non solo, nella manifattura – si sono diffuse anche

in Italia pratiche di coinvolgimento dei lavoratori (Employee Participation and Involvment Practices) su cui è

in corso un intenso dibattito1. Si tratta di pratiche chiamate di “partecipazione diretta” in quanto coinvolgono

i lavoratori personalmente nei luoghi di lavoro e non attraverso i loro rappresentanti (ma naturalmente, come

vedremo più oltre, non sono incompatibili con la partecipazione dei rappresentanti). Ragionare su queste

esperienze dal punto di vista del lavoro pubblico può essere interessante per capire se sia possibile disegnare

strategie analoghe per il miglioramento dell’efficienza delle amministrazioni e della qualità dei servizi ma

anche se l’introduzione di nuove forme di attivazione dei dipendenti possa essere una risposta alla bassa

disaffezione dal lavoro che si registra in molte parti della P.A.

2. Le esperienze del privato

Come si è arrivati a queste pratiche? Nelle esperienze in corso nel settore privato, la partecipazione sembra

avere due principali drivers. Il primo, e più importante, è certamente costituito dai nuovi modelli di gestione

della produzione, come il lean manufacturing e in generale tutti i paradigmi organizzativi generati dal

toyotismo e quindi caratterizzati da strutture più leggere, dall’accorciamento della linea gerarchica, dalla

ricerca della efficienza e della qualità principalmente attraverso la riduzione degli sprechi e l’attivazione di

tutte le organizzazioni/persone coinvolte (siano esse dipendenti, clienti, fornitori o altri stakeholder).

Esempio tipico di questi sistemi è il WCM introdotto nel gruppo Fiat-Chrysler a partire dal 2005 (AA.VV.,

2015). Si tratta di modelli organizzativi mirati a estrarre il massimo di produttività in settori che sono

contemporaneamente ad alta competizione di mercato e alta concentrazione di personale operativo - come

l’industria di esportazione (tipo l’auto), la grande distribuzione (per l’elevata competizione tra i grandi

gruppi multinazionali che si stanno spartendo il mercato), i call centre (tra le strutture maggiormente labour-

intensive) – nei quali sempre più i margini di recupero di efficienza dipendono dal contributo attivo delle

risorse che vi lavorano. Va aggiunto che si tratta di sistemi che, nelle loro migliori formulazioni, uniscono

all’obiettivo della produttività quelli di migliorare l’ambiente di lavoro, l’ergonomia e la soddisfazione dei

lavoratori (Pero e Ponzellini, 2015; Ponzellini e Della Rocca, 2015). Nuovi paradigmi organizzativi e di

lavoro sono al momento ancora da venire nel mondo pubblico, all’interno del quale per altro esistono settori

di attività molto diversificate, ma certamente la strada del rinnovamento delle amministrazioni passerà da qui

perché il miglioramento dell’efficienza dei processi, dell’accessibilità e della qualità dei servizi sono sfide

aperte anche nel pubblico.

Il secondo driver della partecipazione - stranamente meno nominato e discusso – è il desiderio dei lavoratori

di contare di più, sia nell’ambito delle proprie attività e mansioni sia anche nel perseguimento della

1 Si tratta con certezza di esperienze virtuose per entrambe le parti sociali? Nel dibattito attualmente in corso, studiosi e

attori sociali tendono a dividersi tra chi vi vede esclusivamente un coinvolgimento passivo dei dipendenti e chi

considera invece positivamente gli spazi di espressione di sé che si sono aperti per chi lavora e i nuovi spazi di

democrazia industriale che potrebbero aprirsi.

2

complessiva missione aziendale. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con cambiamenti antropologici del

lavoro, con un processo che vede al centro del rapporto che le persone hanno col lavoro sempre meno gli

aspetti “strumentali”, come il salario e la sicurezza del posto, e sempre più quelli “espressivi”, come la

realizzazione di sé, le buone relazioni, un buon equilibrio tra vita e lavoro. Si tratta di bisogni e attitudini che

hanno trovato poco spazio nelle agende e nelle piattaforme sindacali e quindi non stupisce che sia stato per

primo il management (o gli stessi imprenditori) a rendersi conto dell’immenso potenziale che essi riservano

per la salute e la competitività delle aziende. Questo secondo fattore – il desiderio dei lavoratori di “esserci”

e “essere riconosciuti” nel lavoro – è universale, riguarda tutti i lavoratori privati o pubblici che siano.

Ma quali sono in concreto queste pratiche? I sistemi di lean production sono per definizione sistemi molto

strutturati, basati su “pilastri” di gestione rigorosamente definiti. Per questa ragione, le formule di

coinvolgimento dei dipendenti nelle aziende che hanno introdotto questi nuovi sistemi sono poche,

replicabili e ben consolidate. Le principali sono:

- “sistemi guidati di suggerimenti”, tipicamente introdotti in tutte le esperienze di lean: hanno un enorme

successo tra gli operatori, che sentono di avere finalmente una voce sul miglioramento dei processi di

lavoro, delle proprie condizioni di lavoro e, a volte, anche dei prodotti;

- “lavoro in team”, che costituisce una nuova modalità di organizzazione del lavoro, introdotta in grandi

industrie come la Fiat ma anche in Ikea e altre aziende della grande distribuzione o nei call centres. I

team sono guidati da un team-leader, figura non gerarchica di primus inter pares; al team è delegato un

potere di intervento su piccoli cambiamenti organizzativi come distribuzione dei ruoli, rotazione delle

mansioni, training; nei casi più evoluti, all’autogestione del team sono delegate anche decisioni inerenti

la qualità della vita delle persone, come l’organizzazione delle ferie, gli straordinari, la flessibilità

dell’orario, lo scambi turni.

- “gruppi di qualità” attivati in base a proposte che vengono dai lavoratori, così come “gruppi di

progettazione interfunzionali” o “gruppi ad hoc per la soluzione di problemi”, a cui possono partecipare

e dire la loro anche i lavoratori esecutivi;

- “sessioni periodiche di informazione e proposta”, a livello di reparto e ufficio, in cui vengono presentati

e discussi gli obiettivi di produzione e di servizio e le innovazioni organizzative, in modo da permettere

ai dipendenti di poter influire sulla presa di decisioni (questo è, per esempio, il caso di Luxottica)2.

Oppure “briefing”, brevi riunioni di confronto sui programmi e di discussione di problemi, per esempio

una mezz’ora una volta alla settimana, o dieci minuti all’inizio del turno, a seconda degli ambienti

produttivi.

E’ molto evidente che questi sistemi mettono al centro la produttività e la pressione dei mercati sulla

competitività delle imprese. Ma è anche chiaro che, finalmente, non fanno più perno soltanto sull’aumento

dello sforzo ma piuttosto sul coinvolgimento dell’intelligenza, sulle capacità inespresse e sul desiderio dei

lavoratori di dare prova di sé nel migliorare i processi e nel risolvere i problemi organizzativi.

3. Lean organisation e pratiche partecipative anche nelle pubbliche amministrazioni?

I nuovi paradigmi organizzativi già sperimentati nel privato sono replicabili anche nella P.A.? Una risposta

importante viene oggi da OCSE che ha avviato una campagna per il cambiamento organizzativo delle

pubbliche amministrazioni proprio attraverso la formula del World Class Civil Service (WCCS): questo,

esattamente come il WCM, prevede lo snellimento della struttura gerarchica, la semplificazione delle

procedure, nuove competenze sia per il management interno che per la produzione di servizi, il

coinvolgimento di dipendenti e utenti (OECD, 2015). Anche McKinsey (2015) propone il World Class

2 E’ curioso che Luxottica abbia, almeno nell’immaginario mediatico-sindacale, un modello imprenditoriale opposto a

quello di Fiat ma alla fine ne sia accomunata nella scelta di adottare un sistema strutturato di lean manufacturing e

sistemi simili di coinvolgimento dei lavoratori.

3

Government (WCG), un’agenda per il cambiamento delle pubbliche amministrazioni significativamente

sottotitolata “Delivering more for less” che consiste in un ridisegno complessivo dei servizi pubblici guidato

dalla qualità, dal risparmio dei costi e da un nuovo ruolo dei dipendenti pubblici. D’altra parte, gli obiettivi

a cui si ispirano molte recenti riforme della PA (anche in Italia) – come qualità dei servizi, semplificazione,

dematerializzazione, orientamento al cliente finale – appaiono incredibilmente più vicini qualora venissero

applicate alcune delle tipiche formule della Lean come “riduzione gli sprechi”, “taglio delle operazioni

inutili”, “miglioramento continuo”, “definizione del valore dal punto di vista del cliente”. Qualcosa in

Europa si sta già muovendo: secondo gli studi della Fondazione europea di Dublino pratiche ispirate alla

lean – in particolare, pratiche che prevedono l’appiattimento della gerarchia manageriale, teams di lavoro

autonomi, tavole rotonde per ricerca collettiva di soluzioni ai problemi, orari di lavoro autogestiti nel team -

si stanno già diffondendo, soprattutto in aziende di servizio pubblico, con lo scopo di “migliorare

contemporaneamente performance d’impresa e qualità della vita di lavoro” (Eurofound, 2015).

Guardando al caso italiano, mi sembra ci siano buoni presupposti per introdurre pratiche di partecipazione

diretta nelle pubbliche amministrazioni. Innanzitutto, è indubbio che, quantomeno per la base impiegatizia,

sia scoccata l’ora di rimontare da una cultura - e anche da un’immagine pubblica - caratterizzata da uno

zoccolo di bassa motivazione e rispetto al quale l’età media elevata e le recenti campagne di stampa sui

fannulloni costituiscono ulteriori aggravanti: come nota Guido Melis (2016), manca ai pubblici dipendenti

italiani un “senso comune di identità”. L’economista premio Nobel George Akerlof (2012), sostenendo

l’importanza del fattore identitario nella vita quotidiana dei lavoratori, afferma che è un importante fattore di

produttività il fatto che i dipendenti si considerino degli “insider” nel proprio posto di lavoro e non degli

“outsider” che lavorano solo per i soldi: questi ultimi infatti perdono in utilità identitaria. E’ possibile che dar

prova di sé in un’esperienza partecipativa costituisca una opportunità per uno scatto d’orgoglio per molti

lavoratori pubblici stanchi di essere mal considerati? In secondo luogo, le nostre amministrazioni sono

caratterizzate da un grave deficit organizzativo e di managerialità, di cui parla recentemente anche Sabino

Cassese quando afferma che “occorrerebbe che nelle scuole amministrative si insegnasse meno diritto e più

pratiche organizzative e manageriali” (Cassese e Torchia, 2014). Da questo punto di vista, interventi di

rinnovamento delle organizzazioni da gestire insieme ai lavoratori potrebbero essere tra gli strumenti-chiave

di quel nuovo modello di managerialità che ci si attende dalla riforma della dirigenza (la quale,

auspicabilmente, potrebbe includere anche metodi più incisivi di gestione delle risorse umane, non più solo

concentrati sulla valutazione e sui sistemi di ricompensa)? In terzo luogo – e questo è argomento che

dovrebbe interessare particolarmente il sindacato – va ammesso che sono falliti i sistemi di incentivazione

della produttività nel loro compito di migliorare la performance delle amministrazione attraverso

l’erogazione selettiva e meritocratica di quote di salario accessorio (e, con questi, probabilmente anche la

ventennale stagione della contrattazione collettiva che li ha accompagnati): fallimento dovuto a vari fattori,

l’entità modesta delle somme, il fatto che la produttività nel pubblico resta comunque più difficile da

misurare, la difficoltà a realizzare equità all’interno di sistemi di grandi dimensioni e quindi il sommarsi di

sentimenti di iniquità da parte di chi viene escluso dal premio per cui a volte gli effetti negativi sulla

motivazione sono superiori agli effetti positivi (Bordogna, 2008). La necessità di aumentare le performance

degli enti pubblici resta però al centro. Potrebbe essere questo il momento di tentare sistemi che fanno leva

su aspetti di motivazione intrinseca, come la lealtà all’organizzazione, lo spirito di servizio, l’appartenenza

ad una comunità professionale? In effetti - e quest’ultimo fattore costituisce davvero un plus del lavoro

pubblico - a differenza del settore privato, la pubblica amministrazione conta una percentuale molto elevata

di lavoratori laureati e professionals, per i quali è noto che spesso gli aspetti di motivazione intrinseca

contano più dei premi in denaro (Ruffini, 2013). Infine, non dobbiamo dimenticare che allo Stato, e in

generale alle pubbliche amministrazioni, sempre più toccherà il compito, oltre che di fornire servizi ai

cittadini, di svolgere il ruolo di motore dell’innovazione dell’intero sistema economico (Mazzucato, 2013).

Tutto il sistema dei servizi pubblici e privati è ormai sostenuto dalle ICT e dal WEB e, se devono svolgere

questo ruolo, le pubbliche amministrazione non solo non possono restare fuori dal percorso di innovazione

4

digitale che adesso va sotto il nome di Industria 4.0, ma devono mettersene alla guida: dando il via

innanzitutto ad un rinnovamento dei propri processi e servizi che non può essere avviato se non dall’interno,

da chi conosce le procedure, i problemi e le soluzioni.

4. L’indagine di Forum PA

Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, Forum PA ha effettuato una call tra gli enti aderenti, chiedendo di

segnalare casi di “partecipazione dei lavoratori al cambiamento organizzativo”3. All’indagine hanno risposto

110 enti, segnalando esperienze interessanti, 56 dei quali sono stati selezionati dopo una rigorosa lettura dei

casi finalizzata a isolare, tra tutti i casi di innovazione organizzativa o di ascolto dei dipendenti, quelli che

riguardavano veri e propri progetti di cambiamento organizzativo partecipato. Attraverso questa indagine,

che comunque non può considerarsi statisticamente rappresentativa in quanto basata su adesione volontaria,

è stato possibile dimostrare la presenza, per quanto ancora limitata e frammentaria, di esperienze interessanti

di innovazione organizzativa che fanno leva sul coinvolgimento dei dipendenti. Le esperienze risultano più

diffuse in alcuni comparti (enti locali, sanità, enti pubblici non economici) e in alcuni territori (centro-nord).

A differenza che nel privato dove le pratiche partecipative sono spesso legate all’introduzione di sistemi di

lean production e nascono principalmente per una strategia centrale del management, le esperienze segnalate

hanno matrici più differenziate, come si può vedere nella classificazione che segue:

Lean government (7 casi)

Si tratta di progetti ampi e complessi d’innovazione finalizzati alla semplificazione, alla eliminazione

degli sprechi, alla riorganizzazione dei servizi ed ispirati ai principi della lean production. Alla base

una strategia dichiarata di miglioramento organizzativo nella quale viene considerano

imprescindibile - per il recupero di efficienza, per il miglioramento dei servizi, per la circolazione

dei saperi – che il lavoratori, a volte anche utenti e persino fornitori, siano coinvolti in prima

persona. Buoni esempi sono stati riscontrati nei comuni e nella sanità: il Comune di Ravenna, il

Comune di Alessandria, gli Ospedali Galliera di Genova.

Miglioramento organizzativo (7 casi)

La pratiche che abbiamo classificato come “miglioramento” sono affini alla filosofia del lean

government ma meno complesse e, in genere, occasionali. Si tratta di gruppi di miglioramento,

pratiche finalizzate a far emergere dal basso proposte di miglioramento, “settimane di

miglioramento” in cui il personale viene coinvolto in un progetto di innovazione. Buoni esempi: il

Comune di Pecognaga e due delle esperienze del Comune di Bologna.

Team, gruppi di qualità, gruppi di progetto, comunità di pratiche (13 casi)

In molti casi l’obiettivo della partecipazione si traduce nella sperimentazione di vere e proprie

strutture organizzative, più o meno formalizzate, come i team (tra lavoratori omogenei) e i gruppi

(tra professioni diverse). A volte il personale viene invitato dal management a partecipare a gruppi

di qualità; in altri casi, vengono attivati gruppi e laboratori di miglioramento dei processi e dei

3 Ringrazio Carlo Mochi Sismondi, Presidente di Forum PA, per la rapida ed efficace messa a disposizione dei mezzi

del Forum per raccogliere i casi, elaborare le schede e le prime statistiche sulle pratiche di partecipazione. Il materiale

dell’indagine è stato occasione di discussione in un gruppo di riflessione, coordinato da Giuseppe della Rocca, che si è

posto l’obiettivo di esaminare la possibilità di utilizzare la leva della partecipazione diretta come via d’uscita alla

debolezza delle relazioni di lavoro nel pubblico impiego rispetto alla pressante esigenza di innovazione dei servizi. Nel

gruppo si sono confrontate posizioni anche diverse – a cui sono in parte in debito nelle argomentazioni di questo testo -

tuttavia è stata unanime la decisione di verificare con un’indagine sul campo l’esistenza e la consistenza di pratiche di

questo tipo nelle amministrazioni.

5

servizi, anche finalizzati alla semplificazione amministrativa; ma vi sono anche casi in cui uffici

interi si attivano dal basso in gruppi di progettazione anche inter-funzionali con l’biettivo del

miglioramento organizzativo; nascono e si consolidano “reti di agenti del cambiamento” a supporto

dell'innovazione delle strutture e comunità professionali o di pratiche (spesso informali) tra

professionals che condividono le stesse aree di competenza (tecnici dei servizi urbanistici o dei

servizi anagrafici nei Comuni, assistenti sociali nelle aziende sanitarie, informatici dei servizi

centrali, ecc.). Esempi interessanti: il CFVA Sardegna (ma anche la gran parte degli enti –

specialmente i Comuni – che hanno introdotto sistemi di Lean).

Coinvolgimento di tutto il personale in sessioni informative e di proposta (11 casi)

Si tratta di esperienze d’innovazione organizzativa in cui il management decide di coinvolgere

l’insieme del personale (o tutto il personale di una certa area) in un progetto di cambiamento,

utilizzando strumenti di coinvolgimento come sessioni periodiche di informazione e discussione,

raccolte di suggerimenti e proposte, focus group e gruppi creativi. Esempi interessanti: l’Azienda

Sanitaria di Prato e il Ministero delle Infrastrutture (ma anche la gran parte delle aziende –

specialmente i Comuni – che hanno introdotto sistemi di Lean).

Network, forum, web communities, via Intranet e social media (7 casi)

L’uso delle reti interne e dei social media – blog, forum dedicati e pagine sui FB e altri social media

- si è ormai affermato come strumento importante per le aziende per la creazione di cultura

aziendale, il coinvolgimento dei lavoratori, l’organizzazione della loro cooperazione. Il web e l’uso

dei social networks sono utilizzati per la creazione, spesso spontanea, di comunità professionali o di

spazi collaborativi dove condividere conoscenze ed esperienze. Il web è’ inoltre diventato uno

strumento per la comunicazione esterna e il coinvolgimento degli utenti. Esempi interessanti:

l’Associazione di Comuni con Andria capofila, il Miur, il Ministero dell’Ambiente con la CCIAA di

Venezia.

Partecipazione degli utenti e/o dei cittadini alla riprogettazione dei servizi (8 casi)

Un aspetto peculiare dell’esperienza partecipativa nel settore pubblico è costituito dal

coinvolgimento dell’utenza – in alcuni casi della cittadinanza – nella progettazione di alcuni servizi o

procedure amministrative: si può trattare dei pazienti di una struttura ospedaliera, degli utenti o

anche degli utilizzatori intermedi (operatori sociali) di un servizio sociale, dei professionisti

(architetti, geometri, commercialisti, geologi, etc.) ai quali è destinato un determinato servizio

tecnico. Gli esempi più interessanti: Azienda Ospedaliera di Torino e il caso simile dell’Azienda

Ospedaliera di Padova, il Comune di Massa e la cabina di regia di Regione e CCIAA Lombardia per

la definizione condivisa delle procedure SUAP.

Cooperazione tra Enti (3 casi)

La creazione di networks e di team tra professionisti di strutture appartenenti sia a territori che

anche a comparti pubblici diversi è un altro tipo di partecipazione peculiare della pubblica

amministrazione. Esempi interessanti: Provincia di Pordenone assistita da Italia Lavoro, per la

definizione congiunta con Asl e Regione delle procedure di valutazione della disabilità.

Le schede con la descrizione dei casi, e i focus group svolti successivamente per analizzare tutto il processo

di implementazione delle pratiche, mettono in evidenza come, accanto a (pochi) ampi programmi introdotti

da una precisa strategia organizzativa e di gestione del personale, in genere ispirati alla filosofia della lean

production e della sua declinazione pubblica (lean government), si contano svariate esperienze minori,

6

localizzate solo in alcune aree o uffici, originate spesso spontaneamente dall’iniziativa di un dirigente

d’ufficio o anche più dal basso, dall’attivazione di un gruppo di professionals. Sembra di capire che molte di

queste esperienze nascano ad hoc: per la necessità di risolvere un problema di digitalizzazione, per stabilire

nuove procedure di accesso online dell’utenza, per accorpare più uffici, per semplificare alcune attività e

ridurre uno spreco, in alcuni casi anche solo per lanciare un messaggio di coinvolgimento ai dipendenti

(come nelle “settimane delle proposte”) o per stabilire nuove modalità di premio. A differenza che nel

privato, in parecchi casi il la pratica di partecipazione non riguarda solo gli operatori dei servizi ma anche gli

utenti, può riguardare anche esperienze di cooperazione tra uffici di enti diversi. L'impatto sui lavoratori è

riportato come molto positivo in tutti i casi e viene principalmente registrato come forte miglioramento del

“morale”, del senso di appartenenza e della responsabilizzazione. Ma è evidente anche un impatto positivo

sulle competenze (quantomeno in tutti i progetti di digitalizzazione) e un discreto arricchimento

professionale nei casi di introduzione di polifunzionalità. Il ruolo del sindacato appare invece marginale,

nella più parte degli interventi non compare. E’ presente però nei casi, non frequenti, in cui il cambiamento è

esteso e/o collegato al sistema premiante.

Come si vede si tratta di pratiche interessanti ed incisive. Tuttavia quasi mai si tratta di pratiche durature, nel

senso che l’esperienza si interrompe quando il dirigente va in pensione o cambia d’ufficio, quando cambia il

colore dell’amministrazione, quando qualcuno dei dirigenti “si mette di traverso”. Difficilmente sono

pratiche messe a regime, anzi di queste esperienze – che comunque restano a prima vista molto positive sia

per gli enti che per i dipendenti – molto spesso non sono neppure stati verificati costi e benefici. Insomma,

solo in pochi casi sono segno di una strategia organizzativa consapevole e di ampio respiro. Questo fatto ha

delle implicazioni rispetto alla loro replicabilità o ad un eventuale programma. Se infatti le pratiche

partecipative nascono da iniziative isolate, quasi mai formalizzate da un accordo, da un regolamento o da

uno statuto, trasformare in una “policy” la loro diffusione apre un dilemma: regolare il sistema suggerendo

obblighi applicativi o comunque l’adozione di uno schema specifico4 (che va comunque individuato), con il

rischio di burocratizzare e svuotare di significato le esperienze oppure lasciare all’iniziativa informale degli

attori e alla spontanea disseminazione delle buone prassi, con il rischio di una diffusione a macchia di

leopardo e con prevedibili ritardi locali e settoriali?

5. Come si situa la partecipazione diretta nei sistemi di Relazioni industriali?

Dal punto di vista del sindacato, è evidente la necessità innanzitutto di definire e poi di includere queste

formule organizzative e di partecipazione nel sistema più ampio delle relazioni di lavoro. Intanto, non è detto

che tutte le pratiche di coinvolgimento e di ascolto costituiscano di per sé “partecipazione”. Quelle più

occasionali possono addirittura rappresentare uno spreco di energia e di soldi. Altre costituiscono magari un

buon espediente sul piano del cosiddetto “benessere organizzativo” ma non cambiano che di poco le concrete

condizioni di lavoro. Perché sia riconoscibile la partecipazione, bisogna che siano rispettate alcune

condizioni: a) che i lavoratori siano (sistematicamente) coinvolti al miglioramento delle procedure e dei

servizi attraverso il loro contributo di intelligenza e di esperienza; b) che al loro sforzo di ideazione e di

responsabilizzazione faccia da contrappeso una maggiore autonomia nella gestione della propria attività,

individuale o di gruppo. La regola aurea è che il processo prenda origine da una iniziale delega verso il basso

del potere manageriale, che apra spazi (misurabili) di empowerment e di influenza degli operatori su come

organizzare il loro lavoro e che le innovazioni sperimentate, una volta positivamente testate, possano

diventare a tutti gli effetti cambiamento dell’organizzazione.

Come si può rendere coerente questa politica con le relazioni sindacali? Va premesso che, in realtà, il

desiderio dei lavoratori di “contare di più nel proprio lavoro”, di essere individualmente valorizzati ed

4 Per esempio, “lavoro in gruppi dotati di parziale autonomia”, “gruppi di proposta o di caccia agli sprechi”, “settimane

del miglioramento”, “tavoli di progettazione dei servizi con l’utenza”..

7

ascoltati in ragione della propria esperienza, competenza e capacità di giudizio, di avere margini di

autonomia nel modo di lavorare o nell’orario di lavoro, non è un tema al centro dell’azione del sindacato.

Che è invece tradizionalmente più propenso a orientare i lavoratori verso rivendicazioni collettive come

premi salariali, passaggi di qualifica, difesa occupazionale, indennità. Questo spostamento d’attenzione del

sindacato verso la dimensione personale del lavoro non è scontato. Anche se, paradossalmente, potrebbe

essere più vicino nel lavoro pubblico dove più spesso la difesa sindacale si esercita attraverso la vertenzialità

individuale (mentre nella rappresentanza del lavoro privato è ancora nettamente prevalente la dimensione

collettiva, “di classe”). In generale, il sindacato resta lontano dalla quotidianità organizzativa e di contenuto

del lavoro e quindi fatica a “vedere” le aspettative di miglioramento della vita di lavoro che hanno gli

operatori.

Va anche detto, a riprova di questa “lontananza” del sindacato, che quanto meno nell’esperienza del privato

ma anche nella più parte delle esperienze pubbliche che sono state analizzate le nuove formule partecipative

sono state introdotte su esclusiva iniziativa del management (anche se in seguito qualche volta consolidate in

accordi aziendali). Questo dato sembra evidenziare da un lato la difficoltà per il management a portare sul

tavolo contrattuale interventi di innovazione organizzativa che in genere sono di ampie dimensioni, durano

anni e di cui va continuamente aggiustato il tiro: la pratica negoziale, nel migliore dei casi, appesantirebbe il

processo . Dall’altro, però, emerge la difficoltà del sindacato a reagire di fronte a queste novità e a comporre

una sua strategia sul cambiamento organizzativo e sulle nuove pratiche di gestione delle risorse. In

particolare, nelle forme più diffuse di partecipazione – dal lavoro in team col nuovo ruolo del team leader

(che può essere, ma spesso non è, un RSU/RSA), ai gruppi di miglioramento (dove normalmente il reparto o

l’ufficio delega un suo rappresentante), ai workshop informativi (che assomigliano ad assemblee sindacali) –

appaiono potenziale interferenze (o presunte tali) rispetto al lavoro sindacale e al ruolo dei rappresentanti dei

lavoratori. In generale, l’impressione che si ricava dove i nuovi sistemi sono a regime, è che i rappresentanti

sindacali a volte si sentano spiazzati dal fatto che è l’impresa – e non loro - a dare più voce ai lavoratori5.

Come è dunque possibile ricostruire una struttura delle relazioni di lavoro, che proceda dal basso – ovvero

dalle forme di coinvolgimento/partecipazione dei lavoratori - verso l’alto – ovvero verso il sistema

tradizionale di relazioni di lavoro a livello d’azienda? In effetti, si tratta di combinare insieme la

partecipazione diretta – le forme di coinvolgimento che qui abbiamo analizzato e che riguardano i lavoratori

– con forme di partecipazione rappresentativa – ovvero quelle in cui sono coinvolti i rappresentanti dei

lavoratori chiamati a partecipare alle decisioni che riguardano il processo d’innovazione. Questi due tipi di

partecipazione, entrambi orientati al miglioramento organizzativo, non sono in alternativa ma, a certe

condizioni, si possono integrare e potenziare a vicenda. Tenendo presente che la partecipazione che

coinvolge i rappresentanti è in genere regolata dalla legge o dai contratti collettivi: si tratta dunque di una

partecipazione “istituzionale”, a differenza di quella diretta che è prevalentemente informale. Le “formule”

con cui realizzare questo intreccio nel pubblico sono tutte da studiare, anche a partire dai fallimenti verificati

nel sistemi di partecipazione sindacale degli ultimi venti anni che, attraverso varie forme di comitati e di

prassi congiunte, ha portato a pratiche di collusione tra politici, dirigenti e sindacalisti nella gestione del

personale piuttosto che creare un ambito di cooperazione tra le parti sociali in funzione dell’innovazione

dell’organizzazione pubblica.

Va anche sottolineato che queste forme di partecipazione – sia la partecipazione diretta che quella

rappresentativa - non si integrano facilmente con la contrattazione. Quest’ultima, infatti, soprattutto nel

privato si porta dietro una cultura tradizionalmente basata sulla rivendicazione e sul conflitto, che male si

addicono ai percorsi di miglioramento organizzativo nei quali sono invece ingredienti fondamentali la

5 A questo proposito, spesso si invoca maggiore competenza dei rappresentanti, iniziative di formazione anche

congiunte col management, etc. Quando però si parla di contenuto del lavoro forse si deve semplicemente dare per

scontato che i lavoratori ne sappiano di più e lasciare andare avanti loro.

8

fiducia e la cooperazione. Per questa ragione, l’esperienza dice che va evitata la commistione tra spazi

partecipativi e sistemi premianti: come abbiamo visto i primi fanno leva su motivazioni intrinseche, come

lealtà e senso di appartenenza, mentre i premi sono tradizionali incentivi economici e potrebbero spostare

l’attenzione dalla costruzione di identità ai (soliti) meccanismi opportunistici.

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Carrieri, P. Nerozzi, T. Treu (a cura di), La partecipazione incisiva. Idee e proposte per la democrazia possibile nelle

imprese, Bologna, il Mulino, 2015, p. 45

A.M. Ponzellini e G. Della Rocca, Continuità e discontinuità nelle esperienze di partecipazione dei lavoratori

all’organizzazione produttiva. Partecipazione istituzionale e partecipazione diretta, in “Economia & Lavoro”, anno

XLIX, n. 3, 2015

R. Ruffini, Dagli incentivi ai premi nella pubblica amministrazione. Passo avanti o ritorno al passato?, in “Sviluppo &

Organizzazione”, vol. 255, agosto-settembre, 2013, pp. 16-23

1

Partecipazione dei lavoratori al miglioramento organizzativo

Anna M. Ponzellini

Una versione rivista di questo testo è uscita in: C. Dell’Aringa e G. Della Rocca,

Lavoro pubblico fuori dal tunnel?, il Mulino, Bologna, 2017

PRATICHE DI COINVOLGIMENTO E “PARTECIPAZIONE DIRETTA”

Le pratiche di coinvolgimento e partecipazione – employee participation and

involvement (EPI), secondo la dizione anglofona - stanno suscitando un intenso

dibattito anche in Italia, perché si è ormai constatato che l’ottimizzazione della

produttività aziendale e la qualità dei prodotti e dei servizi dipendono sempre di più dal

contributo attivo e consapevole delle persone. La letteratura degli studi manageriali e

delle relazioni industriali le annovera tra le pratiche tipiche dell’High Performance

Work Organisation, del Participative Management e della Partnership at the Workplace

e ne sottolinea i positivi risultati sulla performance d’impresa e sulla motivazione dei

dipendenti (Appelbaum, 2002)1. Esempi di queste pratiche di “partecipazione diretta”

dei lavoratori all’organizzazione del lavoro, che condividono una filosofia in senso lato

ispirata al toyotismo, sono: i team di lavoro parzialmente autonomi, i gruppi di

progettazione interfunzionali partecipati dagli operatori, la raccolta sistematica di

suggerimenti dal basso per ridurre sprechi e inefficienze, periodiche e capillari

informazioni e confronti coi lavoratori sugli obiettivi aziendali e sul miglioramento

organizzativo… Queste formule organizzative e questi strumenti di gestione delle

risorse umane si stanno rapidamente diffondendo in molte delle imprese del settore

privato che puntano ad essere competitive sui mercati anche indipendentemente dai

modelli di relazioni di lavoro adottati, come si vede dai casi di Fiat e Luxottica, che pur

1 È però ancora aperta la discussione sull’impatto delle EPI sulle condizioni di lavoro e, in particolare,

sulle relazioni industriali: se la gran parte dei ricercatori sono d’accordo con Eileen Appelbaum (2002)

sull’aumento della creatività e del controllo sui metodi di lavoro e sull’accrescimento delle competenze

che derivano per il dipendente e sul conseguente aumento di soddisfazione e committment all’impresa, è

spesso considerato più dubbio un effettivo aumento del potere e dell’influenza dei lavoratori nel loro

insieme sulle decisioni d’impresa, in sintesi la realizzazione della “democrazia industriale”, come era

intesa negli anni Settanta (Heller, 2003; Richardson et Al., 2010).

2

avendo sistemi di relazioni industriali molto diversi tra loro applicano versioni simili di

lean production o World Class Manufacturing (AA.VV., 2015).

D’altro canto, le pratiche di coinvolgimento e partecipazione hanno successo nelle

aziende perché intercettano il desiderio dei lavoratori di contare di più, sia nell’ambito

delle proprie attività e mansioni sia anche nella complessiva missione aziendale.

Rispondono, inoltre, alla loro aspirazione a sviluppare le competenze, godere di

maggiore autonomia e cooperare con i colleghi o con i membri della propria comunità

professionale. In sintesi, sembra che l’introduzione di forme di delega e di

partecipazione dei lavoratori all’organizzazione vada nella direzione di migliorare non

solo efficienza e risultati delle imprese ma anche ergonomia, professionalità,

soddisfazione ed equilibrio vita-lavoro delle donne e degli uomini che lavorano

(Ponzellini e Pero, 2015).

E’ possibile trasferire queste formule nella Pubblica amministrazione?

Innanzitutto, bisogna specificare che queste pratiche, per quanto “partecipative”,

coinvolgono direttamente i lavoratori e non hanno a che vedere con quel sistema di

contrattazione collettiva e di partecipazione sindacale, sperimentato con risultati deboli,

se non fallimentari, negli ultimi venti anni nelle pubbliche amministrazioni in Italia.

Come si sa, l’esperienza della partecipazione sindacale, attraverso varie forme di

comitati e di prassi congiunte, ha portato a pratiche di collusione tra politici, dirigenti e

sindacalisti nella gestione del personale piuttosto che creare un ambito di cooperazione

tra le parti sociali in funzione dell’innovazione dell’organizzazione pubblica. Una nuova

esperienza di partecipazione andrà quindi almeno inizialmente circoscritta come

partecipazione “diretta” dei lavoratori al miglioramento dell’organizzazione del lavoro e

all’efficienza della P.A. e dei servizi pubblici. Tuttavia, mi riprometto di riprendere

nelle conclusioni il nesso, imprescindibile, tra queste forme di partecipazione e la

riforma in corso del sistema di relazioni industriali nel pubblico e anzi di avanzare una

proposta di riposizionamento della struttura delle relazioni di lavoro proprio a partire da

una nuova centralità del contributo dei lavoratori al rilancio della pubblica

amministrazione.

3

In merito invece alla replicabilità nella P.A. dei nuovi paradigmi organizzativi già

sperimentati nel privato, una risposta viene da OCSE che ha avviato una campagna per

il cambiamento organizzativo delle pubbliche amministrazioni proprio attraverso la

formula del World Class Civil Service (WCCS): questo, esattamente come il WCM,

prevede lo snellimento della struttura gerarchica, la semplificazione delle procedure,

nuove competenze sia per il management interno che per la produzione di servizi, il

coinvolgimento di dipendenti e utenti (OECD, 2015). Anche McKinsey (2015) propone

il World Class Government (WCG), un’agenda per il cambiamento delle pubbliche

amministrazioni significativamente sottotitolata “Delivering more for less” che consiste

in un ridisegno complessivo dei servizi pubblici guidato dalla qualità, dal risparmio dei

costi e da un nuovo ruolo dei dipendenti pubblici. D’altra parte, gli obiettivi a cui si

ispirano molte recenti riforme della PA (anche in Italia) – come qualità dei servizi,

semplificazione, dematerializzazione, orientamento al cliente finale – appaiono

incredibilmente più vicini qualora venissero applicate alcune delle tipiche formule della

Lean come “riduzione gli sprechi”, “taglio delle operazioni inutili”, “miglioramento

continuo”, “definizione del valore dal punto di vista del cliente”… Va aggiunto,

tuttavia, che la gran parte della letteratura manageriale che tratta dell’applicazioni alle

pubbliche amministrazioni dei principi organizzativi della Lean sembra in generale

trascurare la nuova centralità del lavoratore che questi sistemi originariamente

prefigurano: una centralità che è invece importante tantoché, per lo meno nel privato, ha

dato prova di fare la differenza – in termini sia di efficienza che di qualità della vita di

lavoro - rispetto ai precedenti paradigmi organizzativi. Fanno parzialmente eccezione

gli studi della Fondazione europea di Dublino che, a partire dalle evidenze emerse da

casi di studio nel settore pubblico (per la verità, concernenti in genere aziende di

servizio pubblico, ma anche biblioteche ed università) sottolineano l’importanza di una

combinazione top-down e bottom-up di queste pratiche - in particolare, l’appiattimento

della gerarchia manageriale, i teams di lavoro autonomi, tavole rotonde per la ricerca

collettiva di soluzioni ai problemi, orari di lavoro autogestiti nel team - con lo scopo di

“migliorare contemporaneamente performance d’impresa e qualità della vita di lavoro”

(Eurofound, 2015).

4

PERCHE’ FAR PARTECIPARE I LAVORATORI PUBBLICI AL

MIGLIORAMENTO DELL’ORGANIZZAZIONE

Nel caso del pubblico impiego italiano, vi sono vari elementi specifici a favore

dell’intraprendere una strada che unisca i principi efficientisti della lean organisation

con la sperimentazione di nuove formule di partecipazione dei lavoratori:

Innanzitutto, la necessità che il nostro Stato svolga il ruolo di motore principale

dell’innovazione del sistema economico come succede in tutte le economie avanzate.

Ma costruire uno “stato innovatore” significa dedicare attenzione a tutti quei processi e

a quei settori delle istituzioni che portano alla crescita, come ben argomenta Mariana

Mazzucato (2013): per incoraggiare l’innovazione e la creatività è indispensabile “dare

più importanza allo Stato”, ragionare sulle sue dinamiche organizzative e rendere il

lavoro pubblico attraente per i giovani di talento “trasformando il settore pubblico

dall’interno, per renderlo più strategico, meritocratico e dinamico” (ivi, pp. 283-4).

In secondo luogo, quel deficit organizzativo e di managerialità delle pubbliche

amministrazioni di cui parla recentemente con enfasi anche Sabino Cassese quando, a

proposito di un nuovo diritto amministrativo, afferma che la P.A. italiana si caratterizza

per una debolissima cultura organizzativa e che quindi “occorrerebbe che nelle scuole

amministrative si insegnasse meno diritto e più pratiche organizzative e manageriali…

che si appiccassero mille fuochi, se si vuole che l’incendio divampi e si diffonda”

(Cassese e Torchia, 2014, pp.29-30). Da questo punto di vista, interventi di

rinnovamento delle organizzazioni che prevedano un capillare coinvolgimento dei

lavoratori potrebbero essere tra gli strumenti-chiave di quel nuovo modello di

managerialità che ci si attende dalla riforma della dirigenza: essa, infatti, dovrebbe

includere uno spostamento da competenze prevalentemente giuridico-formali a

competenze organizzative e di management, come argomenta Gianfranco D’Alessio in

5

questo volume. Tra questi, potrebbero essere inclusi metodi nuovi e più incisivi di

gestione delle risorse umane (non più solo concentrati sulla valutazione e sui sistemi di

ricompensa).

In terzo luogo, quella carenza di senso comune di identità del corpo

amministrativo a cui fa riferimento Guido Melis in questo stesso volume. Il fatto che

storicamente il pubblico impiego italiano si sia costituito attraverso un processo

particolare che ha visto le assunzioni nella pubblica amministrazione come leva per

politiche occupazionali di sostegno alle difficoltà di sviluppo del Mezzogiorno, ha

prodotto un’idea del lavoro pubblico non come funzione, attività più o meno

gratificante, ecc. ma specificamente come “posto”: secondo una definizione diventata

molto famosa, ha messo le basi per una “concezione proprietaria del posto di lavoro”

(Cassese, 1983). È indubbio che, quantomeno per la base impiegatizia, sia necessario

rimontare da una cultura - e sicuramente da un’immagine pubblica - caratterizzate da

uno zoccolo di bassa motivazione (che a volte rasenta il disfattismo) a cui si sommano,

come aggravanti, l’età media elevata (48 anni, 54 tra i dirigenti!) e le recenti campagne

di stampa sui fannulloni. Recentemente il premio Nobel George Akerlof, aprendo un

campo del tutto nuovo dell’economia - la cosiddetta “economia dell’identità” - ha

argomentato l’importanza dell’identità per la produttività delle organizzazioni e la sua

superiorità rispetto agli incentivi monetari, affermando che “da un lato i lavoratori

dovrebbero essere impiegati in lavori in cui si identificano, dall’altro le aziende

dovrebbero favorire l’attaccamento ai valori aziendali” in quanto “quando

un’organizzazione impiega lavoratori che condividono la sua missione, ai dipendenti

bastano pochi incentivi monetari per svolgere bene il proprio lavoro” (Akerlof e

Kranton, 2012, p. 55)2. Consentire ai dipendenti di dar prova di sé in un’esperienza

partecipativa potrebbe essere la risposta giusta alla diffusa voglia di riscatto di molti

dipendenti pubblici.

2 A conclusioni analoghe era d’altra parte già da tempo arrivata la teoria organizzativa: per esempio,

William Ouchi (1980) ha rilevato l’importanza dei processi di adesione sociale e culturale interni alle

organizzazioni, soprattutto di quelle di tipo professionale, come importante fattore di controllo (controllo

di “clan”). A conclusioni analoghe giunge anche la teoria dell’azione collettiva di Albert Hirschman

quando argomenta che la “lealtà” a una organizzazione dove esista un solido senso di appartenenza può

spingere i suoi membri, invece che ad abbandonarla quando non sembra rispondere più alle proprie

aspettative (“defezione”), a dare “voce” al proprio scontento e darsi da fare per riformarla (tra l’altro, è

interessante il fatto che si riferisse anche alle organizzazioni pubbliche e ai processi di riforma dello

Stato).

6

Un’ultima ragione sta nel fallimento dei sistemi di incentivazione della

produttività fin qui sperimentati. Sono diversi i fattori che hanno impedito l’effetto sulla

motivazione che era atteso dai sistemi di salario variabile: comportamenti manageriali

propensi ad evitare conflitti coi collaboratori, la constatazione che la produttività in

molte attività pubbliche non è davvero facile da misurare e, fatto non secondario, una

difficoltà a garantire coerenze di misura all’interno di sistemi di grandi dimensioni che

nel tempo ha prodotto il sommarsi di sentimenti di iniquità da parte dei lavoratori

esclusi dai premi tanto che, a volte, gli effetti negativi sulla motivazione sono apparsi

superiori agli effetti positivi. La necessità di aumentare le performance degli enti e la

produttività del lavoro restano tuttavia al centro delle preoccupazioni della riforma. Per

questo, ci si deve chiedere se non sia il momento di tentare sistemi che facciano leva su

aspetti di motivazione intrinseca: sulla lealtà all’organizzazione, sullo spirito di servizio,

sull’appartenenza, sull’identità professionale. Da questo punto di vista, la pubblica

amministrazione parte in vantaggio perché, a differenza del settore privato, può contare

su una percentuale molto elevata di lavoratori qualificati e di professionisti (docenti,

personale sanitario, assistenti sociali, professioni tecniche, segretari generali, specialisti

di bilancio e controllo, dirigenti intermedi) per i quali gli aspetti di motivazione

intrinseca connessi alla partecipazione – siano essi l’etica del public servant o l’adesione

ai principi professionali e deontologici della propria professione – potrebbero contare di

più dei premi in denaro (Ruffini, 2015).

LO STATO NASCENTE DELLE PRATICHE PARTECIPATIVE NEL

PUBBLICO

Un gruppo di riflessione3 e una (veloce) ricognizione dell’esistente4

3 Nella seconda metà del 2015, un gruppo di riflessione coordinato da Giuseppe della Rocca (e

partecipato a titolo volontario da alcuni studiosi, politici e sindacalisti, tra cui Mauro Bonaretti, Paolo

Nerozzi, Carlo Dell’Aringa, Anna M. Ponzellini, Carlo Mochi Sismondi, Renato Ruffini, Michele

Gentile, Carmine Russo, Pierluigi Mastrogiuseppe) si è incontrato alcune volte per esaminare la

possibilità di utilizzare la leva della partecipazione diretta come via d’uscita alla debolezza delle relazioni

di lavoro nel pubblico impiego rispetto alla pressante esigenza di innovazione dei servizi. Nel gruppo si

sono confrontate posizioni anche diverse – a cui sono in parte in debito nelle argomentazioni di questo

testo - tuttavia è stata unanime la decisione di verificare con un’indagine sul campo l’esistenza e la

consistenza di pratiche di questo tipo nelle amministrazioni.

7

La necessità di verificare fino a che punto strumenti partecipativi in via di

consolidamento nel lavoro privato – come il lavoro in team parzialmente autonomi, il

coinvolgimento degli operatori nella progettazione dell’organizzazione di un processo,

l’introduzione di sistemi di proposta per migliorare la produzione o il servizio -

potessero trovare terreno adatto anche nelle pubbliche amministrazioni, è stata la

ragione per compiere una rapida ricognizione nel mondo pubblico. Tra il dicembre 2015

e il gennaio 2016, Forum PA ha effettuato una call tra gli enti aderenti, chiedendo di

segnalare casi di partecipazione dei lavoratori al cambiamento organizzativo. Nella call

si specificava che per “partecipazione” si dovevano intendere sia le iniziative di

coinvolgimento dei lavoratori nel cambiamento dell’organizzazione del lavoro, attivate

dal management (top-down), sia le iniziative di partecipazione attivate dagli stessi

lavoratori (bottom-up). All’indagine hanno risposto 110 enti, segnalando esperienze

interessanti di innovazione organizzativa, 56 dei quali sono stati selezionati dopo una

rigorosa lettura dei casi finalizzata a isolare, tra tutti i casi di innovazione organizzativa

o di ascolto dei dipendenti, quelli che riguardavano veri e propri progetti di

cambiamento organizzativo partecipato.

Benché non possa considerarsi statisticamente rappresentativa in quanto basata su

adesione volontaria, l’indagine permette di dimostrare la presenza, per quanto ancora

limitata e frammentaria, di esperienze interessanti di innovazione organizzativa che

fanno leva sul coinvolgimento dei dipendenti. Più diffuse in alcuni comparti (enti locali,

sanità, enti pubblici non economici) e in alcuni territori (centro-nord), a differenza che

nel privato dove le pratiche partecipative sono spesso legate all’introduzione di sistemi

di lean production e nascono principalmente per una strategia centrale del management,

le esperienze segnalate hanno matrici più differenziate: nascono a volte in aree

decentrate dell’ente, per volere di un singolo dirigente; oppure decisamente dal basso,

per iniziativa di un gruppo di professionals; a volte coinvolgono anche gli utenti, a volte

4 Ringrazio Carlo Mochi Sismondi, Presidente di Forum PA, per la rapida ed efficace messa a

disposizione dei mezzi del Forum per raccogliere i casi, elaborare le schede e le prime statistiche sulle

pratiche di partecipazione e anche per organizzare il focus group di approfondimento da cui sono

originate le “storie” che vengono riportate più avanti.

8

prevedono la cooperazione di uffici diversi di una stessa amministrazione o anche di

comparti diversi.

Un primo tentativo di classificazione dei 56 casi vede sette possibili diversi schemi, a

partire da quelli più ampi e strategici per andare verso quelli più specifici, occasionali o

“di frontiera”. Molte esperienze in realtà sono miste ma si è deciso di classificarle in

base alla caratteristica prevalente:

1. Lean government (7 casi)

Si tratta di progetti ampi e complessi d’innovazione finalizzati alla

semplificazione, alla eliminazione degli sprechi, alla riorganizzazione dei servizi

e espressamente ispirati ai principi della lean organisation. Alla base una

strategia dichiarata di miglioramento organizzativo nella quale viene considerato

imprescindibile - per il recupero di efficienza, per il miglioramento dei servizi,

per la circolazione dei saperi – che il lavoratori, a volte anche utenti e persino

fornitori, siano coinvolti in prima persona. Buoni esempi nei comuni e nella

sanità: il Comune di Ravenna, il Comune di Alessandria, gli Ospedali Galliera di

Genova.

2. Miglioramento organizzativo (7 casi)

La pratiche che abbiamo classificato come “miglioramento” sono affini alla

filosofia del lean government ma meno complesse e, in genere, occasionali. Si

tratta di gruppi di miglioramento, pratiche finalizzate a far emergere dal basso

proposte di modifica delle procedure e soluzione dei problemi, “settimane di

miglioramento” in cui il personale viene coinvolto in un progetto di innovazione.

Buoni esempi: il comune di Pecognaga e due delle esperienze del Comune di

Bologna.

3. Team, gruppi di qualità, gruppi di progetto, comunità di pratiche (13 casi)

In molti casi l’obiettivo della partecipazione si traduce nella sperimentazione di

vere e proprie strutture organizzative, più o meno formalizzate, come i team (tra

lavoratori omogenei) e i gruppi (tra professioni diverse). A volte il personale

viene invitato dal management a partecipare a gruppi di qualità; in altri casi,

sono stati attivati gruppi e laboratori di miglioramento dei processi e dei servizi,

per esempio finalizzati alla semplificazione amministrativa; ma vi sono anche

9

casi in cui uffici interi si attivano dal basso in gruppi di progettazione anche

inter-funzionali; nascono e si consolidano “reti di agenti del cambiamento” a

supporto dell'innovazione delle strutture e comunità professionali o di pratiche

(spesso informali) tra professionals che condividono le stesse aree di

competenza (tecnici dei servizi urbanistici o dei servizi anagrafici nei Comuni,

assistenti sociali nelle aziende sanitarie, informatici dei servizi centrali, ecc.).

Esempi interessanti: il CFVA Sardegna (ma anche la gran parte delle aziende –

specialmente i Comuni – che hanno introdotto sistemi di Lean).

4. Coinvolgimento di tutto il personale in sessioni informative e di proposta (11

casi)

Sono le esperienze d’innovazione organizzativa in cui il management ha deciso

di coinvolgere l’insieme del personale in un progetto di cambiamento,

utilizzando strumenti di coinvolgimento come sessioni periodiche di

informazione e discussione, raccolte di suggerimenti e proposte, focus group e

gruppi creativi. In questi casi, si riscontra quasi sempre un legame col sistema

premiante. Esempi interessanti: l’Azienda Sanitaria di Prato, il Ministero delle

Infrastrutture e il Comune di Bergamo.

5. Network, forum, web communities, via Intranet e social media (7 casi)

L’uso delle reti interne e dei social media – blog, forum dedicati e pagine sui FB

e altri social media - si è ormai affermato come strumento importante per le

aziende per la creazione di cultura aziendale, il coinvolgimento dei lavoratori,

l’organizzazione della loro cooperazione. E’ interessante notare come l’uso del

web e dei social networks siano diffusi anche in molte pubbliche

amministrazioni per la creazione, spesso spontanea, di comunità professionali o

di spazi collaborativi dove condividere conoscenze ed esperienze. Ma anche, e

molto più che nel privato, per la comunicazione esterna e il coinvolgimento degli

utenti. Esempi interessanti: l’Associazione di Comuni con Andria capofila, il

Miur, il Ministero dell’Ambiente con la CCIAA di Venezia.

6. Partecipazione degli utenti e/o dei cittadini alla riprogettazione dei servizi (8

casi)

Un aspetto peculiare dell’esperienza partecipativa nel settore pubblico è

costituito dal coinvolgimento dell’utenza – in alcuni casi della cittadinanza –

10

nella progettazione di alcuni servizi o procedure amministrative: pazienti di una

struttura ospedaliera, utenti o anche utilizzatori intermedi (operatori sociali) di

un servizio sociale, professionisti (architetti, geometri, commercialisti, geologi,

etc.) ai quali è destinato un determinato servizio tecnico. Gli esempi più

interessanti: Azienda Ospedaliera di Torino, Azienda Ospedaliera di Padova,

Comune di Massa, cabina di regia di Regione e CCIAA Lombardia.

7. Cooperazione tra Enti (3 casi)

La creazione di team tra dipendenti di strutture appartenenti sia a territori che

anche a comparti pubblici diversi è un altro tipo di partecipazione peculiare della

pubblica amministrazione che abbiamo riscontrato. Esempio interessanti:

Provincia di Pordenone assistita da Italia Lavoro, per la definizione congiunta

con Asl e Regione delle procedure di valutazione della disabilità.

Tre storie raccontate dai protagonisti

I risultati di questa prima fase dell’indagine sono apparsi incoraggianti. Si è così deciso

un approfondimento, attraverso un focus group a cui sono stati invitati una decina di

enti tra quelli che sembravano avere intrapreso le esperienze più emblematiche. L’idea

era innanzitutto di sondare quali fossero i principali drivers delle esperienze: decisione

manageriale o politica, pressione dell’utenza, voglia di far funzionare bene le cose

direttamente espressa dai lavoratori? E poi di valutare i risultati conseguiti in termini di

aumento dell’efficienza: riduzione dell’assenteismo, semplificazione dei processi,

eliminazione degli sprechi? Ma anche di evidenziare i costi e le difficoltà che erano

state incontrate nella messa a regime di queste pratiche.

“Trasformare il personale da fardello che appesantisce il bilancio dell’ente a “partner

nella ricerca delle economie di bilancio”. Il caso dell’eliminazione degli sprechi (e

degli esuberi) in un Comune in dissesto

Nel 2012, caso più unico che raro, viene dichiarato il dissesto del Comune di

Alessandria. Il piano di rientro, per un totale di 3 milioni di euro, prevede l’esubero di

300 dipendenti (sugli 800 iniziali), nonostante la preventiva cessazione di tutti i

rapporti a tempo indeterminato e di consulenza e la riduzione del bilancio da 120 a

circa 85mila euro. Il sindacato, spinto da un gruppo di dipendenti, prevalentemente

11

tecnici, tratta in alternativa un piano razionalizzazione della spesa comunale, in base

alla legge appena approvata sulla razionalizzazione della spesa pubblica (finanziaria

2008). Parte la campagna denominata La spending review dei dipendenti ovvero ti dico

io dove tagliare: tutti i dipendenti sono invitati a inviare proposte di risparmio o

segnalare opportunità di incremento delle entrate. Con l’avvallo del segretario

generale, si attiva un tavolo partecipato da dipendenti, soprattutto tecnici e esperti

contabili, e da un RSA che, in meno di tre mesi e una quindicina di incontri, affronta i

temi del miglioramento, della riduzione degli sprechi, del risparmio della spesa: viene

modificato l’appalto delle pulizie, rifatti i contratti telefonici (con forti recuperi rispetto

a vecchissimi contratti che non erano mai stati rivisti), ridotto l’uso della carta e

praticamente eliminate le spese postali, affrontato il problema della riduzione delle

spese di energia. Tutti gli interventi vengono approvati dalla Giunta. Visti i risultati

positivi, si da’ il via a due tavoli ad hoc – anche questi partecipati da dirigenti e tecnici

- il primo sull’efficientamento energetico, il secondo sulla digitalizzazione e

innovazione organizzativa. Quest’ultimo continua anche ora (2016) – trasformato in

Unità di progetto, quindi in una struttura stabile di supporto all’assessore

all’Innovazione, composta di una quindicina di addetti appartenenti alle diverse

direzioni - e si è occupato di rinnovare i software gestionali, introdurre un sistema di

gestione delle presenze, scanner e stampanti che consentono di limitare l’uso della

carta, una gestione più attenta degli impianti di riscaldamento e di condizionamento, la

revisione degli appalti delle pulizie e anche l’introduzione di segnalazioni qualificate

all’Agenzia delle entrate per il recupero della evasione di contributi di competenza

dell’erario. Il primo tavolo invece non ha continuato il suo lavoro, forse anche a causa

della difficoltà ad intervenire sui costi delle società partecipate (quella della raccolta

urbana e quella del trasporto locale), intervento su cui viene a mancare l’attenzione da

parte della dirigenza ma anche della politica. Nel suo complesso, questa operazione ha

permesso di mettere in luce quanti costi inutili, contratti di fornitura mal fatti, attività

superflue si nascondano in una organizzazione. Alla fine, per la fierezza per il buon

lavoro fatto - e naturalmente anche per la salvezza dei posto di lavoro – i lavoratori

apparivano “rifioriti”. I risparmi sono stati tutti contabilizzati per voci di costo.

Come si vede, in questo caso la partecipazione si è attivata attraverso una iniziativa che

parte da dipendenti anche se poi verrà fatta propria da tutta l’organizzazione. I lavoratori

scelgono di migliorare l’organizzazione, anche al fine di evitare tagli del personale,

mettendo in comune i loro saperi: in pratica avanzano direttamente le loro proposte ma

12

anche delegano alcuni tra loro che possiedono le informazioni e le competenze

necessarie a costruire e gestire il progetto di razionalizzazione in nome e per conto di

tutti. Il sindacato ha dato la sua copertura ma l’iniziativa non è prettamente sindacale, il

direttore generale e la politica avvallano: l’idea e la gestione dell’intervento sono “dal

basso”.

“Occorre una politica pubblica, di sistema, sull’innovazione organizzativa nella

P.A.”- Il caso delle Polizie municipali di una associazione di Comuni, da anni

coinvolte in programmi di miglioramento continuo

Dal 2010 ad ora (2016), le Polizie municipali dell’Associazione di 14 Comuni del nord-

barese (PIT 2 Nord-Barese) con Andria capofila, sono state coinvolte in programmi di

miglioramento organizzativo interno e di miglioramento delle relazioni col pubblico (in

particolare con i giovani del territorio sul tema della sicurezza stradale). L’obiettivo

era quello di costruire procedure comuni per l’operatività relativa alla gestione

dell’infortunistica stradale, uniformare i sistemi informativi, creare una cultura comune

tra gli operatori, ridefinire le competenze e razionalizzare i costi. L’iniziativa è stata

dei sindaci, in particolare del sindaco del Comune capofila – ma l’unità di intenti è

stata molto elevata nonostante il gran numero di enti coinvolti e il fatto che le giunte

avessero colori diversi - e attuata attraverso l’uso di fondi comunitari per la formazione

e il supporto di una consulente in funzione di responsabile di progetto. Operativamente,

la scelta è stata quella di coinvolgere direttamente gli agenti di tutti i 14 Comandi,

prima alla stesura delle nuove linee-guida, poi attraverso un approccio incrementale,

ad una completa integrazione operativa attraverso la attivazione di una vera e propria

“community degli agenti” che si confronta sulla individuazione dei problemi e su

soluzioni operative condivise. A completamento di questa nuova struttura organizzativa

virtuale, è stato attivato un gruppo whatsapp delle polizie locali, che funziona per fini

professionali come scambio di informazioni e di suggerimenti operativi e per offrire

aiuto. Il processo di miglioramento organizzativo è stato inoltre il volano di un progetto

di innovazione sociale per la sicurezza urbana, indirizzato ai giovani come

“protagonisti di processi di governance dei propri Comuni”. A valle dell’esperienza, si

è verificata una (inattesa) offerta da parte di comandanti e personale direttivo a fornire

gratuitamente e a mettere in rete contributi tecnici su vari problemi e ad attivare

laboratori tematici specialistici nei diversi Comuni: sul falso documentale, sulla

gestione dei conflitti, sulla sicurezza delle strade e dei cantieri in caso di eventi, sui

periodici problemi giuridici dei comandanti. Il progetto “ha creato entusiasmo negli

13

agenti e rafforzato la determinazione dei comandanti”, tuttavia anche oggi deve

confrontarsi con la mancanza di fondi (i fondi strutturali sono poco utilizzabili in

interventi non strettamente di formazione) e, in parte, anche con inevitabili resistenze al

cambiamento: è ancora difficile da sconfiggere una cultura da parte di alcuni operatori

che si limitano a lamentarsi del trattamento economico e delle inadeguatezze delle

proprie organizzazioni. Inoltre, si è via via reso evidente la crescente complessità del

miglioramento organizzativo nella P.A., perché “sempre più le attività richiedono

creatività e capacità di sintesi”.

In questo caso, la partecipazione dei dipendenti è attivata top-down da una precisa

strategia delle amministrazioni seguita, in seconda battuta, dal management

(comandanti). Questa pratica tuttavia fa leva sul coinvolgimento diretto degli operatori a

cui viene richiesto di attivarsi personalmente alla messa in comune di sapere ed

esperienza per la ridefinizione delle procedure e dell’organizzazione del proprio lavoro,

fino a raggiungere l’obiettivo della creazione di una comunità professionale competente

e coesa. Nel progetto sulla sicurezza stradale, si può rilevare una ulteriore forma di

partecipazione, che in questo caso riguarda gli utenti.

“Si può fare!” – La settimana di miglioramento e la creazione di gruppi omogenei

allo Sportello Unico Edilizia (SUE) del Comune di Ravenna

L’obiettivo dell’intervento, che si è realizzato nel 2014 ma poi è proseguito e si è

consolidato, era quello di rivedere l’organizzazione interna, semplificare le procedure,

velocizzare il rilascio delle pratiche edilizie, incrementare la digitalizzazione e la messa

on-line delle pratiche, allo Sportello unico per l’edilizia. La decisione è stata presa dal

Direttore generale che si è fatto promotore di una sperimentazione di miglioramento

ispirata alla lean organisation, assistita da un consulente esterno. Si è creato un gruppo

di lavoro trasversale di 23 persone, formato dai tecnici istruttori operanti allo Sportello

(12) e da rappresentanti e responsabili delle unità operative coinvolte, a monte e a

valle, nel processo di produzione della pratica edilizia (Gestione edilizia, Controllo

edilizio, Ufficio accettazione, Ufficio amministrativo, Archivio e protocollo, Servizio

gestione urbanistica). Il cambiamento più importante da realizzare riguardava la

modifica dell’assegnazione delle pratiche, attraverso la creazione di “gruppi operativi

omogenei” in luogo di tecnici specializzati in base alla zona della città e al tipo di

intervento: l’organizzazione corrente infatti soffriva di rigidità organizzativa che era

14

causa di tempi lunghi, una non sempre equa distribuzione delle pratiche, il rischio di

instaurarsi di relazioni interpersonali particolari con gli utenti. Durante “la settimana

di miglioramento” si sono alternate attività in plenaria e attività in sottogruppi e si è

anche svolta una “osservazione” all’ufficio accettazione e all’ufficio amministrativo in

modo da rappresentare i flussi di lavoro del permesso di costruire, della SCIA e

dell’accesso agli atti. Sulla base delle proposte dei tecnici – e in seguito anche dei

contributi dei clienti professionisti esterni - sono stati riprogettati i flussi

semplificandoli ed è stata sperimentata l’istruttoria delle pratiche in tempo reale. I costi

dell’operazione sono stati contenuti, anche se un po’ di difficoltà si è riscontrata per lo

strumento usato (settimana di miglioramento), che prevede “tempi troppo serrati che

non lasciano modo di metabolizzare il cambiamento”. La rotazione delle mansioni sta

comportando qualche rallentamento dovuto al tempo necessario per acquisire le nuove

competenze ma c’è grande soddisfazione degli operatori sia per l’arricchimento

professionale, sia per la semplificazione della procedura. Dal canto loro, i

cittadini/professionisti sono soddisfatti dell’accorciamento dei tempi per l’espletamento

delle pratiche.

Anche questo caso, l’esperienza nasce top-down da una strategia manageriale ma fa

leva sul coinvolgimento allargato degli operatori dello sportello e anche di altre figure-

chiave tra i dipendenti dell’ente che operano nel processo che fa capo alla gestione

edilizia. L’intervento va in direzione di alcuni obiettivi della riforma, in particolare

quelli legati alla semplificazione e alla dematerializzazione. La nuova organizzazione,

basata su gruppi omogenei, è più flessibile, professionalmente ricca e cooperativa,

perché tutti fanno tutto. E’ di grande interesse anche l’aver fatto partecipare gli utenti -

geometri e architetti - nell’individuare i modi per semplificare il processo del rilascio

della pratica e la sua (parziale) digitalizzazione.

PUNTA DELL’ICEBERG O ISOLE NEL DESERTO?

Come si è visto, le esperienze riportate sono interessanti e anche in parte inaspettate,

soprattutto la relativa diffusione anche nel pubblico di culture ispirate alla lean

organisation. Tuttavia ci dicono poco rispetto alla dimensione del fenomeno: queste

esperienze potrebbero essere sia la punta dell’iceberg, sia isole nel deserto... In ogni

caso, si tratta di casi che rilevano pratiche molto differenziate, spesso informali, quasi

15

sempre non durature (almeno sembra di capire). Forse ancora troppo poco per trarne

indicazioni utili a suggerimenti per implementare formule specifiche di gestione del

personale o di cambiamento delle relazioni di lavoro.

Vi sono comunque alcune caratteristiche comuni alle esperienze analizzate.

Intanto, come nascono? L'obiettivo principale dell'intervento è in genere un obiettivo di

riforma amministrativa: digitalizzazione e applicazioni web (soprattutto nei confronti

della comunicazione con l'utente), dematerializzazione, semplificazione, spending

review, miglioramento servizio. Quasi mai un obiettivo di coinvolgimento e/o

rimotivazione dei dipendenti. In qualche caso, l'innesco dell'intervento è un evento

incombente, come nel caso della dichiarazione di dissesto al Comune di Alessandria o

la legge sulla riorganizzazione delle Camere di commercio che ha dato il via ad una

fusione e riorganizzazione dal basso di alcune Camere di Commercio del Veneto. Altri

eventi ricorrenti che innescano esperienze partecipative sono: il cambio di

amministrazione con un Sindaco che vuol dare una svolta alla macchina organizzativa,

un nuovo city manager, il rientro di un dirigente con esperienza e voglia di innovare. In

altri casi, invece, soprattutto grandi Comuni e Sanità, si tratta di una prassi consolidata

di interventi organizzativi, spesso ispirati esplicitamente ai principi della lean

organisation. Per queste ragioni, il più delle volte l’iniziativa è top-down – nel senso che

parte dalla dirigenza o dall’amministrazione – anche se non sono pochi i casi in cui sono

gli stessi lavoratori ad attivarsi con proposte di cambiamento bottom-up. Trattandosi

quasi sempre di interventi informali, non istituzionalizzati, il committente è molto

importante: se cambia il sindaco o il dirigente che avevano dato il via al progetto,

l’intervento finisce..

Qual è l’estensione di queste pratiche, quali difficoltà incontrano, come potrebbero

migliorare? Tranne pochi casi (per esempio, raccolte delle idee di miglioramento) gli

interventi sono in genere settoriali, riguardano un solo ufficio o unità operativa, nascono

su una specifica esigenza e in genere non vengono replicati altrove. Inoltre, sono

generalmente a termine, nel senso che finiscono quando si è realizzato il cambiamento

programmato (a volte anche prima), raramente diventano strutture partecipative stabili.

16

Tra gli ostacoli, bisogna considerare che l'amministrazione può essere il committente

forte ma, all’opposto, anche impedire il cambiamento; in altri casi, le difficoltà, più o

meno dichiarate, sono venute da alcuni dirigenti, i costi sono evidenziati come un

ostacolo solo in pochi casi. Purtroppo, una criticità da sottolineare è che solo raramente

i programmi di cambiamento partecipato sono accompagnati da una misurazione dei

costi (e dei benefici), come se non facesse parte della cultura gestionale di chi lancia il

progetto: i costi non vengono preventivamente calcolati e si ripete spesso che i risultati

non sono misurabili o si dichiara semplicemente una maggiore soddisfazione dei

dipendenti e degli utenti.

E sindacato e lavoratori, come reagiscono? Il ruolo del sindacato appare marginale,

nella più parte degli interventi non compare. E’ presente però nei casi, non frequenti, in

cui il cambiamento è esteso e collegato al sistema premiante. L'impatto sui lavoratori,

invece, è riportato come molto positivo in tutti i casi e viene principalmente registrato

come “impatto sul morale”, sul senso di appartenenza, sulla responsabilizzazione. Ma è

evidente anche un impatto positivo sulle competenze, quantomeno in tutti i progetti di

digitalizzazione e un arricchimento professionale nei casi di introduzione di

polifunzionalità.

Quali suggerimenti sono possibili per la disseminazione delle esperienze? Gli interventi

sono molto dissimili e non è facile ricavarne suggerimenti per una formula da

generalizzare. Il passaggio ai servizi web-assisted è probabilmente inevitabile per tutte

le amministrazioni e potrebbe essere interessante concepirlo con il coinvolgimento degli

operatori attraverso progetti tipo le "settimane di miglioramento" di Ravenna, poco

costosi e in grado di risvegliare la voglia degli operatori di quei servizi di dire la propria

in merito a come razionalizzare le procedure. Sembrano anche più interessanti i casi di

razionalizzazione, spending review, fusione di enti, ecc. guidati dal basso da gruppi di

tecnici e professionals con competenze specifiche (tipo Alessandria) o da un pool di

dirigenti (come nel caso delle Camere di Commercio del Veneto che hanno dato il via di

propria iniziativa ad un processo di fusione e riorganizzazione dei servizi sul territori

che ha prodotto consistenti risparmi di costo). Il caso di operatori socio-sanitari

coinvolti nel miglioramento dei servizi all'utenza (come a Molinette) è già ampiamente

17

sperimentato nei servizi sociali dei Comuni, meno in Sanità, ma se ne conosce poco il

rapporto costi-benefici. L'unica esperienza generalizzabile a tutti i lavoratori appare

quella applicata di Bergamo nelle formule di "caccia agli sprechi" e "idee di

miglioramento", ma la sua realizzazione al momento appare legata al sistema premiante

(che forse non è la soluzione migliore per sperimentare nell’insieme gli impatti di un

sistema partecipativo).

IL PATTERN SPECIFICO DELLA PARTECIPAZIONE DIRETTA NEL

SETTORE PUBBLICO

Nel settore privato, le forme di coinvolgimento e di partecipazione si sono diffuse quasi

esclusivamente nell’ambiente manifatturiero – in particolare nei montaggi – e in

generale in ambienti di lavoro-massa, come sono sempre più alcune aree del terziario,

tipo i call-centres, i supermercati, i fast-food, i servizi di pulizia. In questi casi, il

coinvolgimento dei lavoratori è “una” delle forme dell’innovazione tecnico-

organizzativa (in genere ispirata alla Lean) ed è quasi sempre legata a specifiche

strutture organizzative (in genere team di lavoro omogenei, dotati di qualche forma di

autonomia). Invece nel lavoro amministrativo e professionale – anche nel settore privato

– si ha l’impressione che i nuovi paradigmi organizzativi siano meno strutturati, più

incrementali ed adattivi5. Per questa ragione, le differenze tra le esperienze di

coinvolgimento che abbiamo appena osservato nel pubblico e quelle, più note, del

settore privato vanno forse in gran parte ascritte al fatto che del privato conosciamo le

esperienze di coinvolgimento degli operatori esecutivi e quelle che stiamo analizzando

nel pubblico vedono invece una prevalenza di professionals e comunque di lavoratori

qualificati.

Qualche confronto serve comunque. Le peculiarità più evidenti del pattern pubblico

sono:

Una maggioranza di casi di partecipazione non istituzionalizzata

Persino i programmi più ampi, che concepiscono la partecipazione all’interno di piani di

miglioramento organizzativo e sono esplicitamente ispirati ai principi lean organisation,

rielaborano questi principi in una versione pubblica che appare più una generica

5E comunque non c’è molta ricerca in proposito.

18

filosofia, o un ennesimo richiamo all’aziendalizzazione, che un vero e proprio

paradigma organizzativo nuovo. Come si è visto, l’idea nasce “spontaneamente” da un

attore (o gruppo di attori) – amministratore, direttore generale, gruppo di professionisti,

più raramente rappresentanza sindacale – e quasi mai invece da una procedura

organizzativa codificata (come ad esempio il WCM nel privato), da una norma del

contratto o da una legge.6

Un certo numero di esperienze nate “dal basso”

E’ stato argomentato che ciò è dovuto al fatto che l’iniziativa dei professionisti - medici,

operatori sociali, tecnici – è in qualche modo ascritta alla autonomia tipica della pratica

professionale. Tuttavia l’impressione è che ciò sia vero solo in parte. Nei casi analizzati,

l’iniziativa dal basso ha forse più a che vedere con la necessità da parte dei lavoratori –

non necessariamente professionisti - di farsi avanti a colmare lacune organizzative e

gestionali importanti, anche della dirigenza. In parte lascia pensare all’esistenza di

situazioni di diffusa anarchia dove chiunque è abilitato ad avanzare proposte e tentare

rimedi…

Non poche esperienze di partecipazione che coinvolgono anche l’utenza

La progettazione congiunta dei servizi con i destinatari (finali o intermedi) degli stessi

ha una lunga tradizione nelle pubbliche amministrazioni, come si vede nei casi storici

dei servizi per l’infanzia in Emilia Romagna o nei casi emblematici dei team

multidisciplinari per un nuovo approccio al paziente in Sanità. Il web ha moltiplicato le

possibilità di coinvolgimento dell’utenza (via blog, forum o social media) per

l’elaborazione di proposte, la soluzione dei problemi, il controllo e la valutazione dei

servizi. Tutto questo è molto meno evidente nel privato, dove anche nei casi più

avanzati di lean manufacturing, il rapporto, per quanto considerato cruciale, con

fornitori e clienti non passa comunque attraverso i dipendenti.

Una più diffusa attitudine alla cooperazione tra pari

In questo il pubblico sembra avere una marcia in più. Nel privato un buon spirito di

cooperazione non è sempre diffuso, dovendo forse coesistere con spinte più spiccate alla

competizione. Fanno fede di questa positiva attitudine la creazione spontanea di molte

6 In una prospettiva di policy, qui si apre un dilemma: regolare il sistema suggerendo obblighi applicativi

o comunque l’adozione di uno schema specifico, con il rischio di burocratizzare e svuotare di significato

le esperienze oppure lasciare alla iniziativa informale degli attori e alla spontanea disseminazione delle

buone prassi, con il rischio di una diffusione a macchia di leopardo e con prevedibili ritardi locali e

settoriali?

19

comunità professionali, anche via web, dove i professionisti confrontano le varie

esperienze (esistono anche nel privato, naturalmente, ma nel pubblico sembrerebbero

espandersi più velocemente, vedremo).

DAI CENTO FIORI DELLA PARTECIPAZIONE A PRATICHE

ISTITUZIONALI. E, FORSE, A NUOVE RELAZIONI DI LAVORO

Allo stato attuale, la vera questione per le pubbliche amministrazioni – e soprattutto per

quelle centrali – è il ridisegno delle organizzazioni. Si tratta della condizione che può

consentire al sistema pubblico di raggiungere i risultati di performance necessari a far

funzionare l’economia e la società. Purtroppo la definizione di un nuovo paradigma

organizzativo per il pubblico appare ancora vaga e forse per prima cosa bisognerebbe

prendere atto della grande articolazione di comparti, amministrazioni e servizi,

l’ammodernamento di ciascuno dei quali – come è già stato, per esempio, per la Sanità –

presenta vincoli e caratteristiche proprie e va in qualche modo disegnato su misura.

Qualunque sia la riorganizzazione che si propone – più o meno ispirata alla lean o all’e-

government, più o meno “aziendalista” o basata sulle interconnessioni dei sistemi – il

coinvolgimento dei lavoratori nel cambiamento può essere una leva interessante.

Purché, appunto, inserito dentro una strategia. Bisogna, all’opposto, diffidare di un uso

meramente “motivazionale” delle pratiche partecipative perché formule generiche di

ascolto dei lavoratori o di miglioramento del clima possono avere sì effetto sulla

soddisfazione e creare consenso ma difficilmente riescono da sole a tenere sotto

controllo le performance, se non si porta fino in fondo il cambiamento dei modi di

lavorare (un errore del genere è già stato fatto, a mio avviso, con i sistemi di

valutazione: ci si attendeva che il solo fatto di misurarla aumentasse di per sé la

produttività, ma questo non era possibile che marginalmente se poi l’organizzazione

restava quella di sempre!). Un percorso possibile è piuttosto quello di ridefinire mission

e forme organizzative ottimali per ogni amministrazione/ servizio e coinvolgere i

lavoratori in una sorta di “cambiamento partecipato”: nel senso di aperto ai contributi e

alle soluzioni di chi “conosce perché lavora”. Perché funzioni un progetto del genere, il

20

lavoro riacquisti centralità e si possa parlare davvero di partecipazione7, le nuove

organizzazioni dovrebbero essere strutturalmente improntate alla delega, alla

responsabilizzazione sugli obiettivi e alla autonomia degli operatori nella gestione delle

attività.

Questo non vuol dire che la partecipazione dei lavoratori possa essere l’unica risposta

alle necessità di riforma della P.A., né che possa sostituirsi al ridisegno organizzativo o

a una più solida ed efficace cultura manageriale. Al contrario, il coinvolgimento dei

collaboratori nel progetto di riorganizzazione dei servizi potrebbe essere “uno” dei

banchi di prova per i nuovi compiti e ruoli della dirigenza, che ne allarghi l’ambito degli

strumenti di gestione delle risorse ora troppo concentrato sui riti (inefficaci) della

valutazione e dei sistemi premianti. Inserire i nuovi strumenti partecipativi nei sistemi di

HRM significa immaginare, per esempio, come formare i capi a un nuovo rapporto coi

collaboratori e, in particolare, all’esercizio della delega. A questo proposito, tra l’altro,

sarebbe assolutamente da evitare un legame tra strumenti partecipativi e salario

variabile, dato il rischio che il processo partecipativo sia usato strumentalmente – e

quindi svuotato di efficacia – per scopi di mera distribuzione salariale. In generale, le

pratiche partecipative potrebbero costituire uno degli assi su cui (ri)costruire la

managerialità pubblica.

Con che sistemi di relazioni industriali si può affrontare questo processo? Intanto, è

utile sottolineare che le pratiche di partecipazione osservate nella ricognizione solo

raramente sono state negoziate (quando sono incluse in verbali sindacali, ciò è avvenuto

probabilmente solo ex post). Questa evidenza è tra l’altro comune al settore privato ed è

coerente con la necessità che il cambiamento organizzativo proceda a partire da una

iniziativa manageriale “forte” ma necessariamente incrementale e di medio-lunga

durata: una azione complessa che non è opportuno sia sottoposta ai vincoli di un

contratto nel quale, per definizione, vanno precisati tempi, condizioni e impatti sul

lavoro che difficilmente sono prevedibili all’inizio del processo (Della Rocca, 2015).

Tuttavia è importante rimarcare che tutta la partita degli strumenti partecipativi non può

che giocarsi al livello aziendale, di ente. Perché è a questo livello che è possibile

7 L’idea della partecipazione, pur nella sua ambiguità semantica, deve mantenere il suo carattere forte ed

evocativo: non tanto tecnicalità manageriale ma libertà ed espressione di sé nel lavoro. Solo in questo

modo può aprire la strada a una stagione nuova del lavoro, sia nel settore privato che in quello pubblico.

21

rilanciare l’efficienza attraverso una spinta forte sull’organizzazione ed è a questo

livello che ci si attende il rilancio della managerialità su aspetti cruciali per il lavoro,

come innovazione dei processi, delega, coinvolgimento, valutazione. Qui dunque

andrebbero costruite relazioni industriali – non necessariamente contrattazione

aziendale – dove i rappresentanti dei lavoratori potrebbero essere messi in grado di co-

guidare con mano leggera questi processi insieme al management. Nel quadro più

complessivo di quella riforma delle relazioni sindacali pubbliche che si sta cercando di

impostare (Dell’Aringa, 2016), il livello aziendale – anche “senza portafoglio” -

potrebbe concentrarsi sulla gestione congiunta del cambiamento organizzativo e la

messa in opera di pratiche partecipative. E’ necessario però sapere se lo stato attuale

delle relazioni industriali aziendali è in grado di esprimere comportamenti di questo tipo

da parte delle RSA.

Si tratta ora di capire quali pratiche selezionare e promuovere. E se renderle in qualche

modo istituzionali. Mixando esperienze pubbliche e private, le cinque formule che

troviamo più consolidate sono le seguenti:

1. Raccolta idee di miglioramento (razionalizzazione dei costi, sprechi,

eliminazione ridondanze), anche modellizzando un “ciclo del suggerimento”;

2. Gruppi di miglioramento inter-funzionali legati a obiettivi di riforma

(semplificazione, digitalizzazione, dematerializzazione, piattaforme web per

accesso utenza, fusione enti);

3. Comunità professionali on-line, per favorire circolazione informazioni e

conoscenza tecnica e manageriale;

4. Gruppi di co-progettazione dei servizi, partecipati da lavoratori e utenti;

5. Reti territoriali o di filiera, che realizzino cooperazione tra Enti dello stesso

comparto per razionalizzare i servizi sul territorio oppure tra servizi di comparti

diversi per integrare i processi di produzione del servizio.

Prima di immaginare di istituzionalizzare queste o altre formule – correndo il rischio di

applicazioni burocratiche ed inefficaci – servirà comunque avviare qualche

sperimentazione controllata. E’ opportuno conoscerne costi, possibili esiti sulla

produttività e sulla qualità del lavoro, impatto sulla performance dell’ente e sulla qualità

dei servizi.

22

In sintesi, l’arretratezza organizzativa, la mancanza di managerialità, la crisi degli

strumenti contrattuali di incentivazione della produttività ma anche il relativo

diffondersi di nuovi programmi e ambiti di coinvolgimento dei dipendenti in molte

amministrazioni lasciano pensare che siano maturi i tempi per un progetto che metta al

centro del cambiamento della P.A. proprio il contributo competente, responsabilizzato e

creativo dei dipendenti. Una strada in parte simile ma in parte anche diversa da quella

che sta compiendo la manifattura con la diffusione dei principi della lean organisation e

dei relativi corollari in tema di nuova autonomia del lavoro: in entrambi i casi, le

pratiche di coinvolgimento procedono di norma in direzione top-down, tuttavia nel caso

delle pubbliche amministrazioni - in parte in ragione di una professionalità media più

elevata ma anche della frequente carenza di strategia manageriale – le iniziative dal

basso e a volte d’intesa con l’utenza (nei servizi), sono più frequenti e appaiono aspetti

peculiari di “autorganizzazione”, di cui tenere conto.

In generale, possiamo concludere che la domanda di innovazione organizzativa della

Pubblica amministrazione potrebbe trovare una buona risposta nella sperimentazione di

un percorso che unisca la nuova managerialità suggerita dalla riforma della dirigenza ad

una apertura alla partecipazione in grado di rispondere al desiderio dei dipendenti

migliori di essere protagonisti di buona amministrazione. Anche a partire dalle

suggestioni fornite dall’indagine di Forum PA sulle esperienze già in corso, questo

percorso potrebbe prevedere, da un lato, uno sforzo di delega verso il basso che realizzi

un vero empowerment dei lavoratori e li abiliti innanzitutto a ridefinire i modi di

organizzare il loro lavoro e poi anche a co-progettare – insieme a amministratori,

dirigenti e utenti - nuovi modi di amministrare e di produrre servizi (più facili da

immaginare quando si ha a che fare quotidianamente con i malfunzionamenti

dell’organizzazione e con le domande concrete dei cittadini). Dall’altro, il percorso

dovrebbe prevedere uno sforzo di costruzione di competenze manageriali che promuova

l’utilizzo di nuovi strumenti di gestione delle risorse - circolazione di informazioni,

pratiche di coinvolgimento e di costruzione di identità – insieme alla sperimentazione di

microstrutture organizzative nuove - team di lavoro, comunità professionali, gruppi di

miglioramento o di progetto, reti territoriali – che funzionino come ambiti di (relativa)

23

autonomia per i dipendenti (anche togliendo un po’ di enfasi alle uniche pratiche finora

sperimentate, e piuttosto svogliatamente, ovvero a quelle della valutazione del

personale). Il sistema delle relazioni sindacali dovrebbe funzionare come motore del

percorso, limitando il suo intervento al disegno generale, alle condizioni per il suo

sviluppo in direzione del miglioramento della produttività e della qualità del lavoro, alla

verifica del successo/insuccesso delle sperimentazioni (nella consapevolezza che

l’innovazione procede per tentativi ed errori).

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Nuove esperienze di partecipazione dei lavoratori nel settore privato: quali spunti per il

pubblico impiego?

Anna M. Ponzellini

Pubblicato su Risorse Umane, n. 6, 2015

Le esperienze di coinvolgimento dei lavoratori introdotte in questi ultimi anni nel privato – e su cui

è in corso in Italia un intenso dibattito - possono essere interessanti per aprire nuove strade e

disegnare analoghe strategie anche nel del lavoro pubblico. Si tratta di un terreno del tutto nuovo

per le relazioni di lavoro anche nel privato, come spiegherò in seguito, che quindi richiedono un

progetto di “intreccio” coi sistemi tradizionali delle relazioni sindacali.

1. I drivers della partecipazione dei lavoratori

In queste esperienze recenti la partecipazione sembra avere due principali drivers.

Il primo, e più importante, è certamente costituito dai nuovi modelli di gestione della produzione,

come il lean manufacturing e in generale tutti i paradigmi organizzativi generati dal toyotismo e

quindi caratterizzati da strutture più leggere, dall’accorciamento della linea gerarchica, dalla ricerca

della efficienza e della qualità principalmente attraverso la riduzione degli sprechi e l’attivazione di

tutte le organizzazioni/persone coinvolte (siano esse dipendenti, clienti , fornitori o altri

stakeholder). Esempio tipico di questi sistemi è il WCM introdotto nel gruppo Fiat-Chrysler a

partire dal 2005.

Si tratta di modelli organizzativi mirati ad estrarre il massimo di produttività in settori che sono

contemporaneamente ad alta competizione di mercato e ad alta concentrazione di personale

operativo - come l’industria di esportazione (vedi l’auto), la grande distribuzione (per l’elevata

competizione tra i grandi gruppi multinazionali che si stanno spartendo il mercato), i call centre (tra

le strutture maggiormente labour-intensive) – nei quali sempre più il recupero di efficienza dipende

dalle risorse umane. Si tratta di sistemi che, nelle loro migliori formulazioni, uniscono all’obiettivo

della produttività quelli di migliorare ambiente di lavoro, ergonomia e soddisfazione dei lavoratori.

In realtà, si tratta di sistemi che mettono al centro le risorse umane non solo a parole ma anche nei

fatti: non quindi secondo la classica “via bassa” alla produttività che fa perno sull’aumento dello

sforzo ma attraverso il coinvolgimento dell’intelligenza, l’ingaggio cognitivo, il desiderio di dare

prova di sé e di migliorare i processi di lavoro degli operatori. Nel dibattito attualmente in corso -

soprattutto a margine di una indagine che ha raccolto le percezioni dei dipendenti Fiat a seguito

della introduzione del WCM – studiosi e attori sociali tendono a dividersi tra chi vede

esclusivamente un coinvolgimento passivo dei lavoratori e chi considera invece positivamente gli

spazi di espressione di sé che si sono aperti per loro.

A volte, anche chi giudica positivamente queste innovazioni le considera un mero “tool” per

moderni gestori delle risorse umane in grado di portare avanti contemporaneamente efficienza

produttiva e qualità del lavoro. Ma c’è qualcosa di più: le esperienze rilevano l’effettiva

generazione di uno spazio di empowerment e di influenza dei lavoratori, uno spazio di delega vero

il basso misurabile (persino in una realtà come quella di Fiat). Un percorso quindi perfettamente

replicabile nel pubblico, che non coincide con la riforma della pubblica amministrazione ma

piuttosto con il miglioramento della macchina organizzativa.

Il secondo driver della partecipazione - stranamente meno nominato e discusso – è il desiderio dei

lavoratori di contare di più, sia nell’ambito delle proprie attività e mansioni sia anche nella

complessiva missione aziendale. È dunque qualcosa che ha a che fare con i cambiamenti

antropologici del lavoro, con un processo che vede essere al centro del rapporto col lavoro sempre

meno gli aspetti “strumentali”, come il salario e la sicurezza del posto, e sempre più quelli

“espressivi”, come la realizzazione di sé, le buone relazioni, un buon equilibrio tra vita e lavoro. Si

tratta di un bisogno che ha trovato poco spazio nelle agende e nelle piattaforme sindacali e quindi

non stupisce che sia il management a rendersi conto dell’immenso potenziale che riserva per la

salute e la competitività delle aziende.

2. Le formule più diffuse di partecipazione

I sistemi di lean sono per definizione sistemi molto strutturati, basati su pillars rigorosamente

definiti e non stupisce che anche le formule di coinvolgimento nelle aziende che hanno introdotto

questi nuovi sistemi siano poche e ben consolidate. Le principali sono:

- “sistemi guidati di suggerimenti”, tipicamente introdotti in tutte le esperienze di lean: hanno un

enorme successo tra gli operatori, che sentono di avere finalmente una “voice” sul

miglioramento dei processi di lavoro e a volte dei prodotti;

- “lavoro in team”, nuove modalità di organizzazione del lavoro, introdotti in grandi industrie

come la Fiat ma anche in Ikea e altre aziende della grande distribuzione o nei call centres: i

team sono – guidati da un team-leader, figura non gerarchica di primus inter pares. Ai team è

delegato potere di intervento su piccoli cambiamenti organizzativi, distribuzione dei ruoli,

rotazione delle mansioni, training e, a volte, anche decisioni inerenti la qualità della vita delle

persone, come le ferie, gli straordinari, la flessibilità dell’orario, lo scambi turni.

- “gruppi di progettazione interfunzionali” a cui possono partecipare e dire la loro anche gli

operatori; “gruppi di qualità” attivati in base a proposte che vengono dai lavoratori.

- “sessioni periodiche informative” diffuse a tutti i lavoratori, per reparto o ufficio, in cui

vengono presentati e discussi gli obiettivi di produzione e di servizio e le innovazioni

organizzative, in modo da permettere ai dipendenti poter influire sulla presa di decisioni (questo

è, per esempio, il caso di Luxottica che ha, almeno nell’immaginario mediatico-sindacale, un

modello imprenditoriale opposto a Fiat). Oppure “briefing”, brevi riunioni di confronto e

discussione di problemi e dei programmi, una mezzora una volta alla settimana, o dieci minuti

all’inizio del turno.

3. Come si situa la partecipazione nei sistemi di Relazioni industriali?

Anche nel privato, c’è la necessità innanzitutto di definire e poi includere queste esperienze nel

sistema più ampio delle relazioni di lavoro. Per il momento è evidente che esse stanno creando

problemi al sistema delle relazioni sindacali, non fosse che perché si tratta di formule introdotte su

esclusiva iniziativa del management (anche se in seguito spesso consolidate in accordi aziendali). Il

sindacato spesso non sa come reagire di fronte a queste novità, i rappresentanti sindacali in azienda

a volte si sentono spiazzati dal fatto che è l’impresa a dare più voce ai lavoratori.

Bisogna cominciare a distinguere questa partecipazione diretta – ovvero quella che riguarda i

lavoratori – dalla partecipazione rappresentativa, ovvero quella che riguarda i rappresentanti dei

lavoratori. La partecipazione che coinvolge i rappresentanti è in genere regolata dalla legge o dai

contratti collettivi: si tratta dunque di una partecipazione, a differenza di quella diretta,

“istituzionale”

1

Il lavoro in sanità nella transizione pubblico-privato

Anna M. Ponzellini

Una versione rivista di questo lavoro è stata pubblicata come: “Il lavoro nella sanità tra pubblico e privato” in R. Pedersini e L. Bordogna, Efficienza e cittadinanza nella riforma dei servizi pubblici, il Mulino, Bologna, 2012

Premessa

L’obiettivo di questo saggio è quello di individuare un ambito di approfondimento, attorno alle interdipendenze tra processi di privatizzazione (intesa in senso lato) e regolazione del lavoro nella Sanità. Credo che si possa

ragionevolmente guardare sia ai cambiamenti già avvenuti sia, e forse con più interesse, agli scenari prevedibili di cambiamento.

In ragione di questo obiettivo, si cercherà di delineare innanzitutto la cornice d’insieme, anche teorica, entro cui è possibile leggere i cambiamenti del lavoro avvenuti in questi ultimi anni nel settore sanitario (parr. da 1 a 3). Questa

cornice fornisce i riferimenti fondamentali su cui è stata impostata la ricerca sul campo - che ha preso in considerazione in modo specifico le aziende che stanno

vivendo i processi di transizione verso il privato più avanzati - di cui si riportano i principali risultati (par. 4). Nelle conclusioni saranno evidenziate rigidità al cambiamento, ma anche rotture con gli assetti precedenti, verificatesi nella

regolazione del mercato del lavoro e nelle relazioni sindacali in queste aziende più esposte al cambiamento e i possibili effetti che si delineano per l’insieme

delle relazioni di lavoro del settore.

2. L’assetto del mercato del lavoro

Il mercato del lavoro della sanità si caratterizza per almeno tre aspetti specifici, la cui combinazione difficilmente si ritrova in altri mercati del lavoro:

• la tensione sul mercato che caratterizza il suo principale gruppo occupazionale (infermieri)

• la dimensione di genere

• l’influenza esercitata dalle associazioni professionali

Per quanto riguarda il primo aspetto, ovvero la cronica carenza di personale infermieristico, va rilevato che l’Italia condivide questo squilibrio tra domanda ed offerta di lavoro degli infermieri con la maggioranza dei paesi della Unione

europea. Come ha infatti recentemente evidenziato una indagine della Commissione europea, solo quattro paesi (Polonia, Slovacchia, Romania e

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Spagna) hanno una offerta sufficiente di infermieri mentre solo altri due (Finlandia e Germania) presentano una situazione non eccessivamente critica

(Next 2004). Il caso italiano appare, tuttavia, particolarmente grave: secondo alcune stime

gli infermieri sarebbero in Italia solo 5,3 ogni 1000 abitanti contro una

mediaeuropea di 6,9 (Sole 24ore del 27.03.2001)1. Questa maggiore sofferenza del mercato del lavoro italiano, va però letta anche come esito della mancanza

nel nostro paese di una differenziazione interna delle figure infermieristiche - negli anni ottanta è stata fatta la scelta di abolire l’infermiere generico – che rende più lungo e costoso che negli altri paesi la messa a regime di una offerta

sufficiente. A questa situazione si è fatto fronte prima attraverso gli operatori tecnici di assistenza (Ota), che avevano in origine compiti meramente alberghieri

(pulizia ed accadimento semplice del malato) ma per i quali oggi è in corso la conversione in Operatori socio sanitari (Oss), una figura dotata di qualche maggiore qualificazione. L’assunzione da parte di queste figure di mansioni

proprie degli infermieri ha però trovato ostacoli organizzativi e, soprattutto, normativi per lo più insuperabili, stante il mancato riconoscimento di tali

occupazioni come figure di tipo infermieristico (Neri 2004). Non a caso, in entrambi i casi, tra queste figure e la figura dell’infermiere professionale sussiste un divario molto consistente in termine di durata oltre che di materie dei

curricula di studi: per esercitare quest’ultima professione è ormai necessaria una laurea di primo livello, mentre per esercitare le mansioni Oss sono sufficienti

1000 ore di formazione professionale erogata dalle Regioni. Il personale infermieristico risulta per giunta mal distribuito nel territorio

nazionale e particolarmente scarso e anche “volatile” – per le continue richieste

di trasferimento - soprattutto al Centro-Nord e a cui è stata data qualche risposta con le norme di retention introdotte nell’ultimo rinnovo del CCNL (2004) (vedi

sotto, par. 3). Come già in altri paesi - e tanto da sollecitare la richiesta di interventi di

regolazione sopranazionale (Ilo 2003) - la carenza di infermieri ha prodotto anche in Italia una cospicua migrazione di lavoratori neo-comunitari ed extra-comunitari. Nel nostro Paese, ai sensi dell’art. 27 della legge 189/02 (cd “legge

Bossi-Fini”), si può assumere questo tipo di personale sia nel pubblico che nel privato a prescindere dalle quote stabilite per l’ingresso per gli immigrati, ma

solo a condizione che si tratti di contratti di lavoro a tempo determinato: ne deriva che lo statuto occupazionale di questi lavoratori appare particolarmente esposto a rischi di precarietà mentre, più in generale, questa situazione acuisce i

problemi posti dal processo di deregolazione in atto nel mercato del lavoro del settore.

Se poi si aggiunge che in Italia vi è eccedenza di medici (anche se non in tutte le specialità) - secondo l’Ocse l’Italia, ha uno dei più alti rapporti tra medici e popolazione in Europa (nel 2000, 4.1 medici per 1000 abitanti contro la media

del 2.9) e uno dei più alti rapporti tra medici e infermieri ( 808 medici ogni 1000 infermieri, contro i 223 del Regno Unito) (Oecd 2003 e 2004) – appare chiaro

come nel nostro Paese la struttura delle occupazioni sanitarie risulti particolarmente squilibrata. Probabilmente è in parte dovuta a questo tipo di squilibrio – una struttura professionale tutta compressa verso l’alto ha

evidentemente come risultato di spostare complessivamente le mansioni

1Purtroppo l’ultima indagine Oecd (2005) non contempla i dati italiani. Gli ultimi dati disponibili sono del 1998.

3

realmente esercitate verso il basso e di allargare quindi il gap tra aspettative e effettiva realizzazione professionale (Ponzellini 2004) – che può essere in parte

spiegata la situazione di insoddisfazione lavorativa che è così diffusa nelle professioni sanitarie e l’elevato turn-over che ne deriva.

Per quanto riguarda invece la dimensione di genere, va rilevato che le donne

costituiscono la componente maggioritaria di questo settore: secondo dati della Ragioneria generale dello Stato, il personale femminile rappresenta oltre il 58%

dell’insieme del personale pubblico (Ministero delle Finanze 2004): da sempre stragrande maggioranza tra gli infermieri (benché dopo l’apertura della professione agli uomini alla fine degli anni settanta, la quota di questi ultimi sia

progressivamente aumentata), presenza consistente tra gli amministrativi (come nella gran parte dei settori pubblici), le donne sono in rapido aumento anche tra i

medici (vicino al 40% tra gli ospedalieri e oltre il 50% tra i medici di base). L’alta femminilizzazione, soprattutto allorché riguarda il personale con mansioni di assistenza (infermiere e mediche), ha importanti implicazioni sul piano della

cultura assistenziale perché “le donne-medico e le infermiere sembrano fare proprie alcune visoni del mondo finalizzate alla relazione, alla rete, alla

collaborazione..” (Vicarelli 2003). Ma, soprattutto, la prevalenza di personale femminile porta in primo piano le problematiche connesse alla conciliazione tra lavoro e vita familiare e si scontra con una distribuzione del lavoro

inevitabilmente rigida, in quanto centrata – almeno negli ospedali - sull’organizzazione della cura del malato per 24 ore al giorno e 365 giorni

all’anno. E’ una prova, per un verso positiva, di questo difficile adeguamento ai tempi rigidi dell’organizzazione sanitaria, l’alto numero dei contratti part time nel settore ma anche, purtroppo, l’elevato turn-over delle infermiere, fenomeno

diffuso in tutta Europa e attribuito in larga misura alla difficoltà di conciliare questo tipo di lavoro con gli impegni familiari (Next 2004, Oecd 2004, Oecd

2005). E’ inoltre noto che nel lavoro sanitario sono centrali il sistema delle

competenze e la loro certificazione. Ciò ha contribuito alla nascita e all’affermarsi di istituzioni delle professioni ovvero degli ordini, dei collegi e delle associazioni professionali delle diverse occupazioni sanitarie – dagli infermieri professionali

alle diverse specializzazioni mediche e tecniche – a cui gli operatori sanitari hanno obbligo di associarsi per esercitare la loro professione. Si tratta di

istituzioni influenti e perennemente intente a difendere e/o allargare il proprio ambito occupazionale anche a scapito delle occupazioni confinanti (Tousjin 2000). Gli ordini, i collegi e le associazioni hanno principalmente compiti di

disciplina, di contrasto all’abusivismo, di vigilanza sull’applicazione del codice deontologico, ma la loro azione tocca anche ambiti molto vicini alla regolazione

delle condizioni di lavoro, come succede per esempio nell’esercitare la tutela della professionalità o il potere tariffario. Per molti aspetti, dunque, la loro azione si riflette, più o meno direttamente, sulla negoziazione collettiva, per esempio,

suggerendo le regole per l’accesso (titoli di studio), la struttura delle qualifiche, i contenuti della formazione permanente. In sintesi si può dire che l’esistenza di

sistemi professionali organizzati incide in modo deciso sul mercato del lavoro del settore, sulla sua composizione e sulla struttura dei gruppi occupazionali, a volte influenzando ma a volte anche entrando in conflitto con il sistema di relazioni

sindacali.

4

2. L’impatto sul lavoro delle riforme sanitarie e della riforma del pubblico impiego

A seguito del processo di riforma in corso nel settore a partire dalla fine degli

anni settanta (Legge 833/78) ma, ancora di più, con le svolte decisive che a tale

processo sono state impresse nel corso degli anni novanta (Decreti legislativi 502/92 e 517/93, 229/99), fino alla riforma del Titolo V della Costituzione nel

2001, le aziende sanitarie sono state attraversate da profondi cambiamenti che hanno inciso sul rapporto con le istituzioni, sulla gestione economica e sui criteri di finanziamento ma anche sulle strutture organizzative, sui sistemi professionali

e sulla organizzazione del lavoro. Negli stessi anni novanta, l’intero impianto di regolazione del lavoro pubblico veniva profondamente innovato dal processo

della c.d. “privatizzazione del rapporto di impiego” (avviato col decreto legislativo 29/93).

Questo duplice processo di riforma ha avuto una notevole influenza sulle

condizioni di lavoro dei dipendenti. Si è soprattutto realizzata una nuova centralità del controllo del processo produttivo e dei costi che si è tradotta in una

serie di obiettivi gestionali, come la riduzione dei ricoveri impropri, la riduzione dei posti letto ordinari e l’aumento dei posti in day-hospital, la riduzione della durata media delle degenze. Ad essi si è affiancata però anche una nuova

attenzione all’utenza, finalizzata al miglioramento dell’accesso alle prestazioni, alla riduzione delle liste di attesa, alla riduzione dei tempi di consegna dei referti.

Soprattutto l’obiettivo del contenimento dei costi – anche in relazione al fatto che si tratta di un settore marcatamente labour-intensive – ha prodotto un impatto notevole sul lavoro che, tuttavia, data la carenza di personale e la

domanda crescente di servizi, non si è tanto concretizzato in una riduzione degli organici ma piuttosto in cambiamenti più o meno espliciti nell’organizzazione

delle mansioni e delle professioni e in nuova flessibilità sia numerica che funzionale.

Schematicamente, e anche con riferimento ai processi in corso in altri paesi, possiamo considerare tre ambiti delle condizioni di lavoro su cui le riforme sanitarie hanno avuto un impatto:

- intensificazione dei carichi di lavoro - deregolazione dei rapporti di impiego

- riorganizzazione delle professioni

Per quanto riguarda l’aumento dei carichi di lavoro, è noto che i nuovi

imperativi di efficienza fanno pressione non solo in direzione di una maggiore attenzione ai costi da parte di tutti i dipendenti, ma anche verso un uso più

flessibile e mobile del personale, sotto forma di nuovi turni, di diffusione del part time e dei contratti flessibili e di aumento della mobilità tra i reparti e tra le funzioni. In una ricerca recente sui casi dell’Italia e della Francia che ha

interrogato i dipendenti di sei ospedali pubblici e privati, l’aumentato turn-over dei pazienti (prodotto dalla riduzione della durata media dei ricoveri) è risultato

tra le cause più importanti dell’aumento dei carichi di lavoro del personale ospedaliero, mentre un’altra causa di affaticamento ed insoddisfazione è stata attribuita all’aumento del carico del lavoro burocratico che medici ed infermieri

devono espletare per le nuove procedure di controllo della qualità (Bordogna, Ponzellini 2004).

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Esiste una ampia letteratura che documenta attraverso varie ricerche empiriche il peggioramento delle condizioni di lavoro che ha toccato gli operatori

sanitari in molti paesi a seguito delle riforme dei servizi pubblici sanitari e alla loro progressiva apertura al mercato. Una indagine della World Health Organisation sottolinea come nel corso dei processi di riforma, in quasi tutti i

Paesi “sorprendentemente, dato il fatto che il settore sanitario è labour-intensive, le questioni attinenti alle risorse umane siano state completamente neglette”,

tutt’al più siano stati introdotti nuovi sistemi incentivanti, mentre sono aumentate precarietà, segmentazione del mercato del lavoro e intensificazione dei carichi di lavoro e (Brito, Galin, Novick 2001).

Per il caso inglese, Bach (2005) distingue il periodo dei governi conservatori, caratterizzato dall’imperativo di ridurre i costi e dalla conseguente

intensificazione del lavoro, dal successivo periodo dei governi laburisti, caratterizzato invece dall’obbiettivo di creare una sanità “più centrata sul paziente” nel quale, per quanto riguarda il lavoro, con il programma “Agenda for

Change”, si è puntato alla estensione dei ruoli, all’alleggerimento dei carichi e alla soluzione dei problemi di carenza di personale, il tutto accompagnato da

significativi incrementi retributivi. Secondo, questo Autore, nonostante l’esistenza di alcune importanti criticità, in particolare per gli operatori dei servizi esternalizzati, le riforme sembrano essersi tradotte in un sostanziale

miglioramento delle condizioni di lavoro del personale sanitario (si veda il capitolo di Bach all’interno di questo volume).

A livello di confronto europeo, una ricerca sulla sanità pubblica in Europa e il ruolo dei sindacati, finanziata dall’European Federation of Public Service Unions (EFPSU), denuncia come la deregolazione e la liberalizzazione dei servizi sanitari

che sta avvenendo in Europa in molti casi abbia come esito “cambiamenti nei contratti di impiego e nelle condizioni di lavoro, rottura dei contratti collettivi, più

stressanti condizioni di lavoro”, uniti all’appalto dei servizi prima svolti da personale ausiliario interno (Lethbridge 2004).

Con riferimento al caso italiano, un processo di deregolazione dei rapporti di impiego sembra essere effettivamente in atto: per quanto sia improprio, o comunque prematuro, parlare di radicale trasformazione del lavoro (o,

addirittura, di precarizzazione del lavoro), non c’è dubbio infatti che nel nostro paese i processi della cd. privatizzazione del rapporto di lavoro stanno avvenendo

in Sanità con qualche maggiore accelerazione che negli altri settori della pubblica amministrazione. Ciò vale soprattutto con riferimento alla introduzione di nuove forme di impiego (complessivamente il part time e i vari tipi di collaborazioni

sono più diffusi che negli altri settori) e alle trasformazioni indotte dall’outsourcing di molti servizi ausiliari che comportano spesso la fuoriuscita dei

lavoratori dal contratto di categoria. Per quanto riguarda il cambiamento delle forme di impiego - seppure non va

dimenticato che finora la stragrande maggioranza delle assunzioni di personale

nella sanità pubblica sono a tempo indeterminato (l’89% nel 2001)2 - resta il fatto che anche solo considerando le figure non-dirigenziali, le due indagini

dell’Aran sul cosiddetto “lavoro atipico” vedono il settore della sanità pubblica al secondo posto per spesa per il lavoro interinale, dopo il comparto degli enti locali (Aran 2003a) e al primo posto per assunzioni part-time (Aran 2003b).

2 Aran, ultimi dati disponibili.

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Se però allarghiamo il campo alle figure dei medici (i quali, se dipendenti, hanno un contratto a parte, in quanto “dirigenti”) e alla sanità privata, il grado di

deregolazione del mercato del lavoro appare ancora più elevato: benché non vi siano dati sistematici in proposito, l’evidenza è quella di un mercato del lavoro sempre più articolato nelle forme di impiego, con un aumento notevole dei

rapporti di lavoro autonomo. Il fenomeno delle collaborazioni, infatti, coinvolge ormai moltissimi medici: i medici dipendenti sono pochissimi nel privato ma

stanno diminuendo anche nel pubblico (il lavoro atipico è infatti massimo a inizio carriera dove, anche nel pubblico, moltissimi lavoratori sono precari, ma anche a fine carriera dove molti pensionati vengono riciclati con rapporti di collaborazione

free-lance nelle aziende private ma anche nelle stesse aziende pubbliche). Soprattutto nella sanità privata, il lavoro autonomo non risparmia le altre figure

sanitarie, specialmente infermieri e tecnici, tra cui, tra l’altro, è diffuso il secondo lavoro.

Questo fenomeno, tuttavia, non può essere totalmente addebitato alle

conseguenze della aziendalizzazione e dell’apertura al mercato dei servizi sanitari. Più probabilmente si tratta di un effetto congiunto delle strategie dei

diversi attori, seppure non è facile dire se il risultato finale sia più trainato dalla domanda o dall’offerta (e certamente le diverse occupazioni hanno equilibri di mercato diversi). Sul versante della domanda di lavoro, i fattori legati al

cambiamento istituzionale che sono mirati alla riduzione dei costi e alla flessibilizzazione del lavoro finiscono per combinarsi con le strategie provenienti

dal versante dell’offerta, ovvero con le strategie di carriera dei professionisti. Dove i sistemi di competenza sono centrali, infatti, le strategie individuali dei lavoratori/professionisti nel mercato del lavoro hanno più peso che altrove. Per

questa ragione, nell’area delle occupazioni sanitarie è abbastanza comune che medici, tecnici ed infermieri professionali si muovano autonomamente sul

mercato del lavoro esterno, alla ricerca di una collocazione ottimale tra la pluralità di opportunità di occupazione e di collaborazione. A maggior ragione

nell’ultimo periodo, a seguito della riarticolazione del settore tra aziende pubbliche, private e ora miste e delle conseguenti opportunità che si sono aperte.

Diverso è il caso delle pratiche di outsourcing messe in atto recentemente

dagli ospedali nei confronti di una serie di servizi, più spesso, ma non esclusivamente, tra quelli a basso contenuto di know-how e non appartenenti al

core business aziendale: pulizie, lavanderie, mense, servizi di manutenzione. Si tratta in questi casi di vere e proprie strategie trainate dalla domanda, che hanno un effetto di frammentazione del mercato del lavoro tra lavoratori interni

più garantiti e lavoratori delle aziende in appalto con condizioni di lavoro più svantaggiate.

Per quanto riguarda, infine, la riorganizzazione delle professioni, la stessa ricerca che ha coinvolto Italia e Francia, ha evidenziato come, nell’insieme, la riorganizzazione del sistema sanitario abbia avuto notevoli riflessi anche sulla

struttura del personale e sulle pratiche di lavoro (Mossé, Bordogna, Ponzellini 2001). Sia in Italia che in Francia (ma come vedremo dopo anche nel Regno

Unito), infatti, si sono verificati cambiamenti in termini di organizzazione del lavoro e distribuzione delle mansioni, come anche in termini di domanda di nuove competenze, specie di tipo manageriale. Nell’area medica come in quella

infermieristica sono stati introdotti nuovi ruoli professionali in risposta a nuove specifiche esigenze organizzative, in particolare legate a funzioni di

coordinamento e controllo. Inoltre, negli ultimi anni, la carenza di infermieri ha

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esercitato una importante pressione sui servizi sanitari – soprattutto servizi territoriali ma anche strutture ospedaliere – in direzione del reclutamento di

personale di bassa qualifica, da sottoporre a rapida qualificazione da parte delle Regioni. In Italia, attualmente, tale personale non viene riconosciuto come appartenente all’area infermieristica anche se ci sono pressioni in tal senso. Un

processo simile ha riguardato il caso inglese, dove il Servizio Sanitario Nazionale, per aumentare le risorse disponibili, ha facilitato l’ingresso nei servizi territoriali

di operatori assistenziali con una bassa qualificazione formale (Bach 2004). La creazione di nuovi ruoli di coordinamento per gli infermieri professionali, l’apertura a personale di più basso grado di qualifica e i processi di

professionalizzazione e di riconoscimento da parte delle istituzioni professionali che ne derivano, produce modificazioni nella stessa demarcazione tra le

professioni sanitarie. Secondo alcuni studiosi, si sta realizzando la progressiva erosione della tradizionale “dominanza medica” (Freidson 1975) sotto la forma di una invasione di campo da parte della professione infermieristica nei confronti di

quella medica, la quale a partire dagli anni settanta avrebbe incominciato il declino della propria parabola occupazionale (Tousjin 2000). Dal canto loro,

invece, gli infermieri hanno aumentato il loro status professionale (dopo la conquista del curriculum universitario) e la loro autonomia nelle pratica professionale ospedaliera, mantenendo nel contempo un atteggiamento di

prudenza in merito all’allargamento della professione infermieristica verso il basso, ovvero nei confronti dei nuovi profili di assistenza sanitaria (qualifiche

ausiliarie e socio-sanitarie). Più in generale, nel processo di “privatizzazione” in corso, le strategie (e anche le logiche corporative) delle diverse professioni sembrano avere un obiettivo comune: quello di “sfruttare” il processo di

privatizzazione in funzione dell’allargamento, o almeno della difesa, dei propri confini occupazionali e di status. Le strategie delle professioni andrebbero però

lette – come rileva Vicarelli – non solo in quanto “modalità specifiche di regolazione sociale ma anche nelle interconnessioni con le altre forme di

regolazione proprie di un sistema di welfare” (Vicarelli 2005) e quindi nel loro muoversi tra stato e mercato.

3. Come cambiano le relazioni industriali e la gestione delle risorse

umane Il sindacato e le relazioni industriali

Il tasso di sindacalizzazione del settore sanitario è piuttosto elevato ma inferiore a quello degli altri settori del pubblico impiego (probabilmente anche a

causa della presenza di un’area privata): in media attorno al 54%, raggiunge il 71% nel caso della dirigenza medica e sanitaria. La adesione ai sindacati va però ripartita tra sindacati confederali, che tra i dipendenti del comparto non superano

il 30% di associati, e i sindacati autonomi, che raggiungono il 20% tra i dipendenti del comparto ma sono la assoluta maggioranza tra la dirigenza

medica3. Sono presenti molte sigle autonome, anche se meno che in altri comparti della

pubblica amministrazione. Data la presenza di professioni organizzate, si tratta

soprattutto di sindacati su base occupazionale: sindacati dei primari, degli aiuti,

3 Dati 2000-1 (Aran e sindacati)

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dei tecnici di laboratorio, dei tecnici di radiologia, dei capi-sala. La presenza di molte sigle si traduce in una situazione di frammentazione della rappresentanza,

che rende critica, per molte sigle, la effettiva rappresentatività (Bordogna 1998). Diversamente da altri paesi dove il processo di riforma sanitaria ha comportato

periodi di tensione tra le parti sociali e spesso anche indebolimento e

riorganizzazione interna dei sindacati, nel caso italiano il processo di riforma si sta sostanzialmente realizzando attraverso il coinvolgimento del sindacato e la

sua attiva condivisione dei principali obiettivi di miglioramento gestionale e, in generale, attraverso relazioni sindacali poco conflittuali. Con riferimento ai quattro tipi di risposta dei sindacati europei alla deregolazione del settore

sanitario individuate da Lethbridge (2004) – sensibilizzazione degli associati e promozione di vertenze giudiziarie; alla alleanza con il resto del sindacato per

opporsi alla privatizzazione dei servizi pubblici; alla alleanza con altri movimenti sociali per lottare per la riduzione delle povertà e lo sviluppo locale; allo sviluppo di una politica sanitaria alternativa e alla promozione del dialogo sociale (che è la

politica scelta dal sindacato europeo) – l’Italia sembra abbastanza vicina a questa ultima risposta (e ne viene lodato il meccanismo di contratti esclusivi per i medici

nel servizio pubblico). Per quanto riguarda la struttura delle relazioni industriali, come in tutto il

pubblico impiego, il sindacato ha accettato – e anzi promosso – un processo di

“decentralizzazione regolata” a livello aziendale, che riguarda gli aspetti organizzativi e le retribuzioni legate alla produttività e alla qualità, con l’obiettivo

di confermare l’assetto bipolare tipico della struttura contrattuale italiana. Inoltre, in correlazione con la marcata regionalizzazione del sistema sanitario (si veda Vicarelli, Pavolini, Neri in questo stesso volume), il CCNL servizio sanitario

nazionale resta l’unico tra tutti i contratti pubblici che abbia introdotto un “coordinamento regionale” con compiti legati alla definizione degli obiettivi

sanitari e al conseguente finanziamento da parte della Regione di alcuni istituti salariali incentivanti. Sul piano organizzativo, pur non in specifica dipendenza da

pressioni esercitate dalla riforma sanitaria, le due maggiori sigle sindacali confederali hanno recentemente completato un processo di fusione con gli altri sindacati di area pubblica.

La nuova gestione delle risorse umane

Tra i cambiamenti più significativi indotti dalla riforma sanitaria ma anche dal processo di riforma della dirigenza pubblica avviato a valle del Decreto legislativo 29 del 1993, vi è quello dell’allargamento delle responsabilità dei dirigenti e della

introduzione le nuove pratiche manageriali: non a caso la Sanità – in Italia come anche in altri paesi europei - è stata tra i primi settori ad essere toccata dai

principi del cosiddetto New Public Management (NPM)4 (Bach et al. 1999, Bordogna 2002, Bordogna 2007).

Anche nel caso italiano, gli obiettivi di contenimento dei costi e di incremento

della qualità delle prestazioni, e i connessi cambiamenti organizzativi, si sono tradotti per le aziende sanitarie nella necessità della messa a punto di strumenti

adeguati di gestione del personale, mirati da un lato ad ottenere più flessibilità e dall’altro a conseguire più motivazione al lavoro da parte dei dipendenti. Dato il

4 Approccio gestionale nato nel Regno Unito ma diffuso in molti paesi Oecd, che ha l’obiettivo di orientare al

mercato la gestione dell’azienda pubblica e di importare nel sistema pubblico le pratichedi gestione delle risorse

tipiche del privato.

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forte radicamento in questo settore dei sistemi di relazioni collettive, la maggior parte delle innovazioni nelle pratiche di gestione del personale sono state

introdotte - più che attraverso pratiche di relazioni manageriali “dirette” come nel caso inglese (Bach 2004), o attraverso forme di partecipazione multiprofessionale in organismi consultivi formali come nel caso francese

(Boutellier J., Mossé Ph. 2004) – attraverso i rinnovi dei contratti nazionali di lavoro del settore, in particolare dal CCNL SSN del 1998 e dalla sua applicazione

a livello decentrato nel quadriennio 1998-2001 (Ponzellini 2002). Questo contratto infatti ha consolidato in Sanità il lavoro per progetti-

obiettivo, l’applicazione degli istituti di incentivazione retributiva collettivi,

l’estensione ai lavoratori del comparto del sistema premiante, già in vigore per i medici, che stabilisce un effettivo collegamento tra valutazione della prestazione

e salario percepito (e quindi individualizza le retribuzioni). Inoltre sono stati introdotti nuovi importanti strumenti di valutazione del personale, che benché definiti nei criteri generali dalla negoziazione tra le parti sociali, nei fatti

attribuiscono interessanti spazi di discrezionalità alle direzioni del personale e anche, per la valutazione dei risultati (e dei comportamenti) dei collaboratori e

per la definizione degli obiettivi di reparto, ai quadri con responsabilità di risorse (capi diretti). Soprattutto queste ultime pratiche, che coinvolgono l’ampio strato delle dirigenza intermedia, stanno costruendo una cultura di gestione delle

risorse umane che era del tutto sconosciuta nel settore pubblico. Normative e pratiche innovative sono particolarmente evidenti nel caso della

gestione della dirigenza medica, dove sono stati introdotti i contratti di funzione, a termine, per gli ex-primari, dove sono stati moltiplicati i contratti a tempo determinato per i medici neo-assunti, dove sono stati introdotti sistemi di

retribuzione altamente differenziati che intrecciano salari, premi di risultato e tariffe libero-professionali. Le nuove pratiche gestionali hanno coinvolto però

anche gli altri dipendenti, ampliando l’area del lavoro flessibile, del part time e della articolazione degli orari.

La stessa cosa è avvenuto nei sistemi sanitari di altri paesi. Anche in Francia e Regno Unito, per esempio, vi è stato un preciso decentramento al management locale del potere decisionale in materia di lavoro, soprattutto per la introduzione

di nuove forme di flessibilità degli orari: turni e orari annualizzati (Arrowsmith, Mossé 2000). Tuttavia, nel caso italiano le innovazioni appaiono più decise e più

specificamente legate alla introduzione di nuovi strumenti di gestione delle risorse umane (Bordogna 2002).

In questa direzione vanno alcune norme introdotte di recente in materia di

“retention” del personale, un genere di pratiche finora non molto diffuso nell’esperienza italiana (ed è singolare che sia introdotte proprio dal datore di

lavoro pubblico). Su questo punto esistono precedenti interessanti nel caso inglese, che riguardano l’estensione in sanità dell’uso del part time e dell’annualizzazione degli orari – entrambe considerate forme di orario

particolarmente adatte alla conciliazione tra lavoro e vita familiare - come strumenti per limitare l’alto turnover delle infermiere (Bach 2004). In Italia

apparentemente con lo stesso obiettivo sono state introdotte due norme, ancora una volta per via contrattuale (nel rinnovo del CCNL nel 2004) ma chiaramente ispirate ai principi delle gestione delle risorse umane. Innanzitutto, una clausola

specifica limita il ricorso alla mobilità territoriale (sostanzialmente il trasferimento al Sud) nel caso in cui il lavoratore sia stato oggetto di un investimento formativo

da parte del datore di lavoro (o anche nel caso sia un neoassunto): si tratta di

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una norma che appare molto coerente con l’obiettivo di ottimizzare l’investimento in capitale umano in un mercato del lavoro caratterizzato da

scarsità di offerta. Accanto a questa è stata introdotta una severa limitazione alla concessione di contratti part time (attualmente vi è un tetto stabilito nel 25% del totale del personale), che viene subordinata “alle prioritarie esigenze

organizzative del personale sanitario”. Nel confronto con le pratiche di retention dell’esperienza inglese, tuttavia, questo tipo di incentivi negativi (soprattutto le

limitazione al part time) sembrano più misure di programma destinate a creare malcontento, e forse l’effetto opposto, che efficaci incentivi a restare.

Nell’ambito delle problematiche della gestione delle risorse, è anche

interessante osservare la peculiare modalità di funzionamento della formazione permanente in questo settore. Diversamente che negli altri settori, dove la

formazione continua appare più che altro un diritto del lavoratore e un dovere, spesso disatteso, del datore di lavoro, il sistema di Educazione Continua in Medicina (ECM), le cui norme sono state definite dal Decreto legislativo n.229 del

1999 e successive modificazioni e poi regolate dal CCNL del 1999, oltre a prevedere l’impegno dei datori di lavoro a garantire l’acquisizione dei crediti

formativi, stabilisce l’obbligo di aggiornamento per gli operatori delle diverse occupazioni sanitarie, pena “penalizzazione economica e di carriera per un triennio” (CCNL Sanità 2002-05). Con questo, si ribadisce il carattere

dell’organizzazione sanitaria come “patrimonio di conoscenze” (Cicchetti, Lorenzoni 2000) e la centralità delle professioni e della loro riproduzione nel

lavoro sanitario.

4. L’indagine sul campo: cambiamenti del lavoro nella transizione pubblico-privato

A fronte di questa cornice che ricostruisce le problematiche generali del

processo che in largo senso intendiamo di “privatizzazione” del lavoro, sembra importante spostare l’interesse di ricerca su ciò che sta avvenendo concretamente in questi anni nelle diverse esperienze locali, cercando di dare

una risposta alle domande che la ricostruzione del quadro ci suggerisce, ovvero: “quale spazio di opzioni nella regolazione del lavoro esiste per le aziende che

passano dal pubblico al privato, nelle varie forme attualmente previste dalla legislazione o per le aziende private che si affacciano a questo mercato?” e anche “esiste un conflitto tra le soluzioni prospettate dai diversi attori: sindacati,

imprenditori privati, amministratori locali?” e, infine “i risultati ottenuti dalla nuova regolazione del lavoro e dalle nuove forme di gestione delle risorse umane

rispondono alle logiche – maggiore flessibilità ed efficienza, migliore qualità delle cure - che li hanno innescati?”.

In via di principio, un’indagine sul campo che voglia esaminare l’impatto dei

processi di privatizzazione sul lavoro deve essere diretta ad esplorare – e possibilmente a confrontare tra loro - i diversi ambiti societari a cui, nel processo

di riforma del sanità e delle sue strutture giuridiche e organizzative, fanno attualmente riferimento i servizi sanitari nel nostro Paese (ivi comprese, dunque, le recenti sperimentazioni di collaborazione pubblico-privato), ovvero:

- le aziende sanitarie pubbliche, dove l’introduzione anche per via contrattuale di strumenti di gestione di tipo privatistico – previsti a seguito della riforma del

pubblico impiego, della riforma della dirigenza pubblica e dei primi rinnovi dei

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CCNL pubblici dopo la riforma, tutti avvenuti negli anni 90 - a partire dalla seconda metà degli anni novanta ha già prodotto alcune modifiche significative

nella organizzazione del lavoro e nelle relazioni industriali (Ponzellini 2002, Bordogna e Ponzellini 2004), che restano tuttavia ancora lontano dall’esprimere compiutamente il potenziale di riforma che tali iniziative sembravano promettere;

- le aziende sanitarie private, i cui regimi contrattuali e di relazioni di impiego non sono sostanzialmente cambiati nel tempo – tranne che per il progressivo

avvicinamento normativo alle regole vigenti nei CCNL pubblici – ma che, nel quadro dell’offerta di servizi sanitari, e specialmente in alcune Regioni, stanno via via assumendo maggiore rilievo quantitativo;

- le nuove sperimentazioni miste pubblico-privato, che costituiscono sicuramente l’ambito di investigazione più interessante, dato che in queste

esperienze sono destinate ad entrare in competizione - sia in termini di complessiva efficienza gestionale sia in termini di capacità di condensare consenso sociale – le regole del lavoro del pubblico e quelle del privato.

In questa prima fase di ricerca, per ragioni di tempo e di risorse, l’indagine

empirica si è limitata a due livelli di analisi. Il primo è consistito in una serie di interviste a testimoni privilegiati scelti tra i rappresentanti delle parti sociali (con particolare riferimento alla Lombardia e alla Emilia Romagna) con l’obiettivo di

ricostruire in termini molto generali le linee del cambiamento: comparsa di nuovi operatori privati, flessibilizzazione dei mercati del lavoro anche nell’area della

Sanità pubblica, nuove esperienze gestionali. Il secondo è livello è stato quello dell’analisi approfondita, nelle stesse due regioni, di alcuni casi di cosiddetta “sperimentazione gestionale” 5 ovvero esperienze di cooperazione tra pubblico e

privato (public-private partnership). Queste esperienze infatti costituiscono attualmente il laboratorio più interessante di ideazione e applicazione di soluzioni

tecnico gestionali per la nuova sanità, anche dal punto di vista del lavoro. Le aziende indagate sono più d’una in ciascuna regione. Tuttavia, per la

Lombardia si è presa a riferimento, oltre che le grandi fondazioni pubbliche in cui sono stati trasformati gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), l’interessante esperienza della fondazione (privata) di Suzzara nel mantovano

che si è costituita attraverso la partecipazione di un importante operatore privato, l’HSS del gruppo De Benedetti, a cui è affidato l’incarico della gestione

del presidio. Per l’Emilia Romagna, l’attenzione è stata posta soprattutto sulla società per azioni a capitale misto a cui è affidata la gestione del nuovo ospedale di Sassuolo (Mo).

Sul processo di indagine e sui risultati raggiunti si rimanda ancora al capitolo di Neri su questo stesso volume, in questo saggio valuteremo solo in termini

generali l’impatto dei processi di trasformazione sulla varie dimensioni che concernono il lavoro, su cui nei paragrafi precedenti abbiamo costruito il quadro d’insieme del settore sanitario. In questo senso, le tre aree tematiche su cui si è

concentrata l’analisi sul campo sono state: • la trasformazione dei rapporti di impiego e dei CCNL di pertinenza

• la nuova flessibilità del lavoro

5 L’istituto della “sperimentazione gestionale”, come forma di cooperazione tra pubblico e privato, è stato

introdotto dal d.lgs. 502/92, ed è stato interpretato con qualche differenza normativa nelle diverse regioni (in

Lombardia il modello più diffuso è quello delle “fondazioni” e riguarda anche grandi strutture, mentre in Emilia

Romagna e Veneto è quello delle società a capitale misto e coinvolge soprattutto le piccole strutture decentrate).

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• l’evoluzione della struttura della contrattazione e del ruolo delle parti sociali

La trasformazione dei rapporti di impiego e l’applicazione dei contratti di categoria

Finora nel settore esisteva una certa corrispondenza tra forme giuridiche delle aziende e contratti di lavoro. Da un lato, le aziende pubbliche applicano il

contratto nazionale della sanità pubblica, hanno una contrattazione di secondo livello diffusa ed uniforme e si caratterizzano per relazioni industriali mediamente accentrate. Dall’altro, le aziende private - attraverso tre associazioni datoriali

diverse, AIOP per le cliniche private “laiche”, ARIS per gli ospedali gestiti dai religiosi e Fondazione Don Gnocchi - applicano un contratto privato, avendo

tuttavia relazioni industriali molto articolate a livello locale. CCNL privato e CCNL pubblico sostanzialmente si equivalgono, almeno per quanto riguarda il salario-base e gli altri istituti centralmente definiti. Quello che fa la differenza – a parte

alcune tutele/privilegi tipici dello status del dipendente pubblico - è la contrattazione aziendale, e in particolare il salario aziendale, che vede nelle

aziende private una situazione quasi polarizzata: molte cliniche private non hanno neppure un contratto aziendale mentre alcuni grandi ospedali privati garantiscono ai dipendenti condizioni salariali e di lavoro superiori a quelle del

pubblico. Negli ultimi anni, tuttavia l’articolazione nelle applicazioni contrattuali è andata aumentando. Così sono emerse alcune interessanti “ibridazioni”. Solo

nell’area milanese si contano infatti: un’azienda privata che dall’epoca della sua costituzione applica il CCNL pubblico, almeno in termini di regole salariali e normative, come l’Ospedale San Raffaele di Milano; aziende private che

applicano il contratto privato ma vantano accordi aziendali e/o normative interne più avanzate di quelle pubbliche sia dal punto di vista dei livelli salariali che delle

soluzioni di HRM, come IEO e Humanitas; un gruppo recentemente nato dalla concentrazione di più laboratori di analisi che ha passato i suoi dipendenti dal

CCNL della sanità privata ad un contratto meno costoso (CCNL Metalmeccanico), come il Centro Diagnostico Italiano.

Su questo punto, la nostra indagine sulle sperimentazioni lombarde ed emiliane di cooperazione pubblico-privato ha permesso di verificare una

interessante ulteriore articolazione dell’applicazione contrattuale. Nelle esperienze osservate, infatti, al momento del passaggio dei dipendenti Asl o Aosp alle nuove società miste e fondazioni, si è convenuto di usare l’istituto del

“comando” dei dipendenti pubblici trasferiti presso la nuova azienda, piuttosto che trasformare il rapporto di lavoro da pubblico a privato (per i particolari, si

veda il capitolo di Neri su questo stesso volume). Formalmente l’istituto è applicato in via transitoria, ma a tempo indefinito o comunque per un periodo molto lungo. Si tratta evidentemente di una decisione che, conservando ai

dipendenti il rapporto di impiego pubblico e lasciando loro la possibilità di optare per il rientro nell’azienda pubblica praticamente in modo illimitato, si è rivelata la

più accettabile per il sindacato perché consente il passaggio alla nuova formula societaria riducendone il più possibile l’impatto sociale. Con lo stesso spirito attento al consenso del sindacato e dei lavoratori, in queste sperimentazioni si è

deciso che nei casi in cui il comando arrivi a scadenza o nel caso di dipendenti pubblici che optano per il passaggio alle dipendenze della nuova struttura

privata, ai lavoratori “trasformati” verrà comunque garantito, attraverso la

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contrattazione aziendale, il mantenimento della “copertura del CCNL della sanità pubblica” (che, nel nuovo regime di rapporto di lavoro privatistico, va però letta

in termini sostanziali, nel senso di un trattamento salariale e normativo equivalente a quello pubblico). Ancora più “garantista” il caso delle fondazioni Irccs lombarde, dove non solo il CCNL pubblico viene mantenuto ai “vecchi”

dipendenti, ma si estende anche i nuovi assunti.

Flessibilità del lavoro e nuove strategie di gestione delle risorse umane Per quanto riguarda il processo di flessibilizzazione del lavoro e di ridefinizione delle forme di impiego, si può osservare che le forme di flessibilità introdotte nel

settore abbracciano praticamente tutta la gamma possibile: si va infatti dall’outsourcing, ai rapporti di lavoro atipici, al part time, alla flessibilità

retributiva. Una delle modifiche più importanti del lavoro avvenuta nelle aziende

pubbliche, che rompe la compattezza che in origine caratterizzava il mercato di

questo settore entro l’ambito del pubblico impiego, è quella prodotta dalle esternalizzazioni delle attività ausiliarie degli ospedali (ristorazione,

manutenzione, pulizie, lavanderie, centri prenotazioni, centri elaborazione dati), che nel settore sanitario sono avvenute in modo molto pervasivo, guidate dall’imperativo del risparmio dei costi (specialmente del costo del lavoro). Questi

passaggi generano nuovi mercati del lavoro interni alla stessa azienda – i lavoratori esternalizzati spesso continuano a fare le stesse mansioni e nello

stesso luogo ma sono coperti da contratti privati che prevedono condizioni salariali e tutele normative decisamente inferiori - con profonde disuguaglianze e con evidenti ricadute sulla rappresentanza sindacale. Altri fenomeni importanti

per la regolazione del mercato del lavoro in generale - come l’aumento del lavoro instabile e del lavoro autonomo – stanno avvenendo anche nella sanità, sia pure

in forme peculiari al settore. In particolare, il lavoro free-lance e i vari tipi di collaborazione coinvolgono soprattutto i medici ma non risparmiano le altre

figure sanitarie, specialmente infermieri e tecnici (tra cui, tra l’altro, è diffuso il secondo lavoro), sia nel settore privato sia anche, con crescente evidenza, quello pubblico. Nell’ambito del pubblico impiego, restano tuttavia significative e

peculiari del settore sanitario le nuove flessibilità che riguardano le remunerazioni, soprattutto, ma non solo, quelle dei medici. Infatti, pur in

presenza di rapporti di subordinazione tipici dell’impiego pubblico, in sanità sono stati introdotti per via contrattuale regimi di remunerazione basati su norme proprie delle professioni autonome: per esempio, i compensi libero-professionali

a tariffa previsti nella professione inframuraria dei medici ma anche, più recentemente, compensi calcolati in percentuale o a tariffa sulle cosiddette

“attività imprenditoriali” erogate da un certo numero di ospedali al di fuori del servizio pubblico, specialmente nelle prestazioni a più forte domanda di mercato, che coinvolgono intere equipes sanitarie (oltre ai medici, tecnici ed infermieri) e

costituiscono un forte incentivo, anche in termini di mobilità da un’azienda all’altra, per i professionisti coinvolti.

In merito alle nuove flessibilità, l’indagine sul campo ha permesso di avere

conferme puntuali di uno dei fenomeni più interessanti che riguarda questo

momento di transizione del mercato del lavoro della sanità, ovvero la nuova segmentazione del mercato del lavoro lungo due assi:

- rapporto di impiego pubblico/rapporto di impiego privato

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- lavoro dipendente/lavoro autonomo libero-professionale In particolare, l’analisi dell’andamento nel tempo dei dati occupazionali delle

due aziende analizzate più dettagliatamente, ci consente di cogliere il grado di estensione che stanno assumendo nelle professioni sanitarie il lavoro instabile e il lavoro free-lance. Nel corso di soli due anni6, infatti, e nonostante il sindacato

abbia ottenuto molta cautela nel cambiamento dei regimi contrattuali applicati ai dipendenti pubblici già in forza, in entrambe le aziende si è verificato un processo

piuttosto sostenuto di sostituzione di dipendenti a contratto pubblico con dipendenti a contratto privato e, almeno per la categoria medica, di lavoratori dipendenti con collaboratori liberi professionisti.

Il primo processo – che porta i dipendenti privati ad aumentare dal 2 al 27% in una azienda e dal 26 al 41% nell’altra - avviene in apparenza

spontaneamente, per l’effetto sommato da un lato dei pensionamenti e/o della scelta di parecchi dipendenti pubblici di rientrare nell’azienda di provenienza, dall’altro delle nuove assunzioni, che vengono fatte secondo il contratto privato.

Il secondo processo, è ben visibile nell’analisi della composizione occupazionale dei medici, a due/tre anni dall’avvio del processo di trasformazione, in una delle

due aziende7: quasi un medico su tre lavora ormai in regime libero-professionale, mentre ormai solo poco più della metà gode del rapporto di pubblico impiego (gli altri hanno un rapporto di lavoro dipendente ma privato).

E’ interessante notare che a questo proposito non vi sono differenze di strategia da parte delle aziende, benché in una delle due il gestore diretto sia un

soggetto privato ma controllato dall’Azienda pubblica e nell’altro un soggetto privato tout court: entrambe appaiono ben decise da un lato a salvaguardare le condizioni dei dipendenti (ex-)pubblici per avere la cooperazione del sindacato

nel percorso di privatizzazione ma dall’altro ad ottenere, appena possibile, una riduzione del costo e/o della rigidità della forza lavoro. Questo processo di

sostituzione del personale pubblico è particolarmente evidente tra i medici.

Evoluzione del ruolo delle parti sociali e della struttura contrattuale Se la politica ha la sua influenza nel determinare le privatizzazioni (Cella 1994), il sindacato appare tra quei soggetti politici (anzi, forse il solo) che

possono sentirsi chiamati ad opporsi. Eppure, come abbiamo visto, per il momento il sindacato italiano ha accompagnato i processi di riforma senza troppi

contrasti. Come si evidenzia anche dalla nostra indagine sulle sperimentazioni, una ragione potrebbe proprio essere il fatto che il sindacato in fondo è consapevole che il suo ruolo è più importante soprattutto dove agisce il mercato,

ovvero nelle aziende private o in via di privatizzazione. Come si vede anche dagli interventi e dagli espedienti di tutela escogitati per gestire la

trasformazione delle aziende, in questa fase le parti sociali, e la contrattazione a livello locale, giocano un ruolo indubbiamente importante. E’ forse ancora più interessante osservare il nuovo ruolo assunto dalla parte imprenditoriale privata,

soprattutto ora che sul mercato della rappresentanza datoriale si è affacciata Confindustria. Per ora se ne intravede principalmente una offerta di lobbying ai

grandi gruppi privati, ma in prospettiva non è improbabile che se ne possa misurare l’influenza sia sull’ampiezza e sulla velocità dei processi di

6 I dati raccolti riguardano l’evoluzione della composizione della forza lavoro: per l’azienda di Suzzara da

novembre 2004 a dicembre 2006 mentre per l’azienda di Sassuolo da agosto 2005 a marzo 2007. 7 Si tratta dell’Ospedale di Sassuolo Spa.

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privatizzazione, sia sugli assetti delle relazioni industriali e della regolazione delle condizioni di lavoro di tutto il settore.

Per quanto riguarda questi aspetti, anche nei cambiamenti osservati sul campo la rappresentanza imprenditoriale sembra assurgere ad una nuova

rilevanza. Nel corso delle trasformazioni pubblico privato analizzate, l’influenza del gestore privato appare molto significativa, per esempio, per quanto concerne

le politiche di flessibilizzazione del mercato del lavoro. La capacità di incidere del datore di lavoro è strettamente connessa alla nuova importanza che in queste esperienze ha assunto il livello aziendale di contrattazione. Se ne potrebbe

arguire – ma solo tra qualche anno se ne potrà avere conferma – che si stia verificando una evoluzione significativa della struttura contrattuale. Finora, pur

nell’ambito di una moderata decentralizzazione, le relazioni industriali nel settore pubblico hanno avuto il loro innegabile baricentro nella contrattazione nazionale di categoria, e segnatamente in quello pubblica. Dal canto suo, il sindacato ha da

sempre perseguito l’obiettivo dell’unificazione dei trattamenti tra pubblico e privato (verso le più privilegiate condizioni del pubblico, naturalmente) e,

insieme, della diffusione della contrattazione aziendale secondo il modello pubblico (ovvero ben regolata da norme nazionali vincolanti). Il quadro delineato dalla ricerca mette in evidenza la possibilità che la effettiva direzione di marcia

nella regolazione del lavoro sia invece quella di una più decisa decentralizzazione. Direzione già intrapresa anche nel Regno Unito, con risultati

alterni (Arrowsmith, Sisson 2002; Bach 2005), ma che in Italia potrebbe avere incentivi diversi, sia perché spinta di esigenze schiettamente imprenditoriali (come si vede dai casi osservati), sia anche per la diversificazione dei modelli

territoriali di sanità (Maino, Neri 2006).

Conclusioni

Come si è visto, in Italia e altrove, l’insieme delle trasformazioni in corso a

valle dei processi di aziendalizzazione e privatizzazione nel settore sanitario

sembra solo in parte obbedire agli obiettivi di razionalizzazione ed economizzazione delle risorse che sono tipicamente addotti come motore dei

processi di privatizzazione. Tali processi si intrecciano infatti inevitabilmente con gli impatti delle riforme istituzionali e con i nuovi equilibri di potere tra gli attori in gioco.

Va anche sottolineato che le direzioni e le modalità con cui nei diversi paesi è cambiato il lavoro a seguito di questi processi, non sono scontate e chiamano in

causa l’influenza, a volte decisiva, dei fattori culturali ed istituzionali tipici di ciascun contesto nazionale e, particolarmente, degli assetti delle relazioni industriali. Una verifica empirica di ciò viene dagli studi comparati compiuti negli

ultimi anni nel settore della sanità, che hanno evidenziato come l’impatto sulle condizioni di lavoro dei processi di privatizzazione e, più in generale, delle

riforme sanitarie è stato differente in relazione ai contesti regolatori propri di ciascun sistema-paese (Arrowsmith, Mossé 2000; Bordogna e Ponzellini 2004; Bordogna 2007)8.

8 Per esempio, la comparazione internazionale tra Italia e Francia ci ha illuminato sul fatto che a fronte di

modelli di riforma sanitaria assai simili, l’impatto sulle condizioni di lavoro a volte risulta diverso, in quanto

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A partire dalle esperienze più recenti, è tuttavia possibile evidenziare alcuni aspetti interessanti, e in parte contro-intuitivi, dell’evoluzione in corso nel caso

italiano. 1. Gradualità nella transizione

Allo stato, non sembra essersi verificata la prospettiva temuta dal sindacato di un secco passaggio dalla regolazione del lavoro pubblica a quella tipica del

settore privato. Le trasformazioni societarie e le esperienze di cooperazione pubblico-privato osservate evidenziano, al contrario, una certa cautela degli attori nel procedere in questa direzione: l’asse portante di questa transizione

“soffice” è costituito, come abbiamo visto, dal sostanziale mantenimento per i dipendenti trasferiti alle nuove strutture delle condizioni di cui fruivano in

precedenza, realizzato sia attraverso l’uso estensivo dell’istituto del “comando”, sia comunque attraverso la garanzia del mantenimento delle condizioni di previste dal CCNL pubblico.

Non a caso, questa spiccata protezione dei dipendenti pubblici e la generale prudenza con cui è stata affrontata la privatizzazione da parte delle

organizzazioni sindacali hanno sortito il pessimistico giudizio di alcuni imprenditori privati che sostengono che si stia andando piuttosto verso una “pubblicizzazione del privato”, nel senso di una estensione all’ambito privato di

alcuni tratti tipicamente cogestionali che sono specifici delle relazioni sindacali del settore pubblico.

2. Dualizzazione del mercato del lavoro Sarebbe tuttavia errato trarre la conclusione che “tutto cambia affinché tutto

rimanga come prima”. A distanza di qualche anno, infatti, i primi effetti sul mercato del lavoro sono già ben visibili dai dati comparati della composizione

occupazionale nelle aziende dove sono in corso le sperimentazioni. Questi evidenziano l’esistenza di un processo, strisciante e insieme sostenuto, di

sostituzione del tipico dipendente della sanità – lavoratore subordinato, con lo status dell’impiego pubblico, a cui è applicato il CCNL del SSN – con categorie di lavoratori meno tutelati: dipendenti assunti con contratto privato, dipendenti non

stabili, collaborazioni libero-professionali di medici e anche infermieri. In sintesi, nel processo di privatizzazione in sanità sembra si stia percorrendo

una via intermedia già osservata in altri contesti. Una via per molti aspetti, discutibile a cui però non sembra facile trovare alternative: si tratta della protezione, concordata tra le parti, del personale pubblico preesistente - i

cosiddetti insider, che tra l’altro costituiscono lo zoccolo degli iscritti al sindacato - e della contemporanea deregolazione del mercato del lavoro per i nuovi

entranti. L’assetto che ne deriva ha un carattere spiccatamente dualistico, con

appunto mediato da variabili intervenienti di tipo istituzionale, come i diversi sistemi di regolazione del lavoro e

le relazioni industriali. Si è visto infatti come una sindacalizzazione più elevata, la presenza di rappresentanze

sindacali e di contrattazione collettiva in azienda e, forse anche, strumenti di coinvolgimento economico dei

lavoratori hanno permesso che in Italia il processo di implementazione delle riforme risultasse meno conflittuale

che in Francia (Bordogna e Ponzellini 2004). Analogamente, un confronto tra Francia-Regno Unito sulla

introduzione di nuove forme di flessibilità dell’orario negli ospedali, ha evidenziato che, seppure alcune

direzioni del cambiamento sono simili nei due paesi – per esempio, l’aumento del part time – i contesti regolatori

(in Francia la legge sulle 35 ore) e sociali (la diversa consistenza dei servizi per le famiglie) ne condizionano le

modalità di utilizzo da parte del management (Arrowsmith, Mossé 2000).

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una notevole disparità tra lavoratori, i cui esiti a medio termine sono ancora difficile da valutare.

3. Un sindacato “responsabile” Per contro, va detto che, quando è stato il momento di entrare nel vivo delle

nuove strategie di gestione del lavoro all’interno delle aziende, il sindacato è stato anche capace di accettare, o addirittura favorire, contenuti decisamente

innovativi nella contrattazione aziendale, come quelli che riguardano la flessibilità organizzativa e le nuove politiche retributive. In qualche caso, l’effetto-alone di questa contrattazione integrativa sperimentale si è propagato alle strutture

pubbliche del territorio a volte creando resistenze, altre generando (positivi) effetti imitativi. Pur con i limiti di una rappresentanza molto legata alla tutela dei

“vecchi” dipendenti pubblici, si può concludere che, mantenendo un ruolo di attore fondamentale della governance territoriale di questi processi, il sindacato riesce ad imprimere anche a questa fase di sperimentazione quel carattere di

“privatizzazione partecipata” che appare necessario per l’efficacia del processo di riforma in sanità.

4. Persistente centralità del consenso sociale

D’altra parte, il consenso delle organizzazioni sindacali appare cruciale per

tutta la durata del processo sperimentale, ed anche oltre. L’iniziale irrigidimento del sindacato di fronte ai processi di privatizzazione ma anche il consolidato

modello di rappresentanza sindacale del settore pubblico rendono scontata una modalità di relazioni industriali basata sul continuo coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nelle decisioni, anche su aspetti non

necessariamente legati al rapporto di lavoro. La pervasività della presenza sindacale nei processi di definizione delle nuove strutture e delle relative regole,

appare anche un segno della perdurante debolezza manageriale (i presupposti della riforma della dirigenza pubblica in sanità come altrove sembrano essere

stati solo in parte realizzati). In ogni caso, la gestione del consenso sociale (e in particolare del consenso dei lavoratori) è apparsa una pratica costante anche da parte di altri attori e specialmente degli amministratori regionali e locali: la

devolution delle politiche sanitarie sta infatti facendo aumentare, senza troppe distinzioni tra i diversi modelli territoriali di riforma sanitaria, l’importanza delle

istituzioni locali nel gioco concertativo attraverso cui si arriva alla creazione delle nuove strutture. E porta in primo piano la loro necessità di procedere senza conflitto sociale.

5. Le nuove pratiche HRM aprono a mercato e merito

Nella trasformazione del lavoro nella sanità pubblica e in particolare nelle nuove sperimentazioni pubblico-privato è certamente evidente, forse più che in altri ambiti pubblici, un riferimento ai principi del new public management (NPM),

nel senso del tentativo di importare nel pubblico pratiche di gestione del personale proprie del privato, come l’aumento della discrezionalità manageriale,

l’introduzione di nuove flessibilità, la rottura della dimensione collettiva in favore di una maggiore differenziazione tra lavoratori. Ne sono chiara prova le nuove forme di impiego che abbiamo visto essere in rapida espansione nelle realtà

sperimentali. Da questo punto di vista, la partita più interessante appare comunque quella delle politiche di valutazione del personale e di differenziazione

salariale. Benché non abbiamo a disposizione ad oggi dati specifici sulle

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retribuzioni nelle aziende osservate, possiamo in generale rilevare che la sanità rappresenta forse un caso unico nel panorama del pubblico impiego italiano in

termini di flessibilità delle retribuzioni, per quanto forse più in termini qualitativi (molteplicità degli istituti retributivi) che in termini sostanziali (reali differenziali salariali, almeno per la media dei dipendenti, quindi escluse le grandi personalità

mediche). La differenziazione retributiva si orienta in entrambe le direzioni possibili, ovvero sia verso il merito (valutazione delle prestazioni e premi

individuali), sia verso il mercato (ampliamento dei differenziali retributivi a favore delle categorie più ricercate, come i medici di alcune specialità, i tecnici e gli infermieri professionali).

6. Decentralizzazione delle relazioni di lavoro e governance dei processi di

privatizzazione Come si è visto, lo specifico contesto in cui si svolgono i processi sperimentali

di apertura al privato nella sanità italiana vede gli attori locali - imprenditori

privati, dirigenti sanitari, sindacati territoriali, amministrazioni regionali e locali - assumere una nuova importanza. Difficile al momento individuare quanto questo

possa in qualche modo “scompaginare” i tradizionali assetti di relazioni industriali e, all’interno di questi, la centralità del sindacato. Puntando l’attenzione sul sistema delle relazioni sindacali, si può comunque osservare che, se nel percorso

di creazione delle nuove strutture, potere e influenza del sindacato non vengono messi in discussione, non va esclusa l’eventualità – di cui si rileva già qualche

segnale – di una possibile concorrenza, sul piano della costruzione del consenso sociale, da parte degli stessi politici locali. Inoltre, va sottolineato che i processi in atto stanno imprimendo un evidente carattere di decentralizzazione al sistema

di relazioni sindacali in Sanità, come per altro è successo anche in altri Paesi. Una decentralizzazione sicuramente favorita dall’imprenditore privato, che ha

evidente interesse ad una maggiore liberalizzazione dei rapporti di lavoro, ma che sembra potersi allargare anche alle aziende pubbliche. Benché i processi di

decentralizzazione negoziale nel settore pubblico presentino rischi evidenti, sia di aumento dei costi di transazione sia di comportamenti collusivi tra imprenditore e sindacati (Bordogna 2007), non va esclusa la possibilità che in un mercato misto

pubblico-privato come quello che si sta delineando, la contrattazione decentrata nelle aziende pubbliche sia passibile di maggiore controllo e quindi possa dare

corso a quegli effetti positivi che in generale l’adattamento alle condizioni locali comporta. La verifica nel tempo dell’impatto delle sperimentazioni in corso ci consentirà di appurare quanto questa ipotesi sia corretta e quindi una

decentralizzazione delle relazioni di lavoro realmente auspicabile.

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Vicarelli G. (a cura di) (2005), Il malessere del welfare, Liguori, Napoli

1

ESPERIENZE DI VALUTAZIONE DELLE PERFORMANCE

NEGLI ENTI LOCALI

Anna M. Ponzellini, ISMO, report di ricerca

1. Lo scenario: prospettive di riforma nelle pubbliche

amministrazioni

I sistemi di valutazione della prestazione sono stati introdotti nella pubblica

amministrazione alla fine degli anni novanta, con lo scopo di proseguire l’azione di

crescita dell’efficienza e dell’efficacia delle amministrazioni e di orientamento al

risultato dei dipendenti già iniziato con la contrattazione dei premi collettivi di

produttività nellea prima metà degli anni novanta. La definizione di obiettivi individuali

per i dirigenti (e anche per il personale di comparto) rompeva, almeno simbolicamente,

l’idea delle retribuzioni uguali per tutti. L’introduzione di una scheda individuale di

valutazione per tutto il personale mirava anche allo scopo di ancorare a un sistema di

giudizi formalizzati le decisioni in merito progressioni retributive e di carriera dei

lavoratori, fino a quel momento esclusivamente collegate alla contrattazione decentrata

e quindi all’azione, spesso corporativa, dei sindacati nei confronti dei propri iscritti

(quando non alle ingerenze della politica). Infine, l’introduzione, a fianco di indicatori

di risultato, di indicatori di performance “soggettivi” – come il giudizio del capo sui

comportamenti organizzativi del collaboratore – metteva in discussione la

tranquillizzante e distaccata “obiettività”, che fino allora aveva tenuto al riparo la

responsabilità dei dirigenti nel valutare i propri collaboratori.

A distanza di oltre dieci anni, il bilancio dei risultati di questa importante svolta nelle

relazioni di lavoro può essere considerato solo parzialmente positivo, con qualche

necessaria distinzione tra le diverse aree della pubblica aministrazione, visto che

risultati complessivamente migliori (anche con alcune punte di eccellenza) sono stati

realizzati nella pubblica amministrazione locale e nelle aziende sanitarie. Tuttavia,

valutata nel suo complesso, l’esperienza è stata oggetto di non poche critiche da parte di

esperti e sudiosi: “La valutazione ha avuto spesso un carattere solo formale ed è stata

utilizzata prevalentemente (se non esclusivamente) in chiave retributiva e contrattuale,

essendo mancata a tutt’oggi una stagione di cambiamento organizzativo in grado di

finalizzare strutture, sistemi operativi e stili di direzione al risultato e alla gestione delle

risorse” (Della Rocca, Mastrogiuseppe 2008). “I sistemi di valutazione esistenti a partire

dal d.lgs. 286/99 (e dai contratti collettivi successivi) e le prassi applicative che l’hanno

seguito sono stati deludenti, con diffusione irregolare e risultati scarsissimamente

selettivi…” (Bordogna 2009). Anche altri autori mettono al centro della difficoltà

applicativa della riforma degli anni novanta la problematica organizzativa: sistemi

premianti inadeguati, mancanza di un disegno delle professionalità e un “triangolo delle

Bermuda” fatto da dirigenti, politici e sindacalisti (Valotti (2009).

La legge 4 marzo 2009, n.15 e il successivo d.lgs. 27 ottobre 2009, n.150 possono

quindi essere visti come una risposta ai risultati modesti raggiunti dalla prima riforma e

a quelli che si considerano essere stati i principali ostacoli alla sua piena applicazione:

la mancata responsabilizzazione dei dirigenti, la direzione a volte controriformistica

2

della contrattazione decentrata, il carente collegamento del sistema di valutazione al

rapporto tra amministrazione e cittadini. In questo senso, la riforma Brunetta si propone

(di nuovo) come riforma organica del rapporto di lavoro pubblico e lo fa attraverso tre

principali strumenti: misurazione, valutazione e trasparenza della performance (degli

enti e delle persone); riforma della contrattazione collettiva; ampliamento della

autonomia e dei poteri della dirigenza. In particolare, rispetto alla valutazione della

performance, la riforma prevede l’obbligatorietà per gli enti di adottare un sistema

valutazione, il collegamento della performance organizzativa al soddisfacimento dei

bisogni degli utenti, piani triennali sia per performance che per la trasparenza e

l’integrità, e relazioni annuali per il personale. Per quanto riguarda la configurazione del

sistema premiante, viene richiesto un maggiore peso alle competenze dimostrate

(rispetto all’anzianità di servizio) e si stabilisce una modalità molto selettiva nella

attribuzione dei giudizi e dei premi, che rispetti la distribuzione del personale secondo

tre fasce percentuali fisse (25-50-25).

La riforma attuale si è prestata a qualche critica - forte centralizzazione, riduzione del

ruolo alla contrattazione collettiva – ma va anche letta – l’abbiamo visto sopra –

principalmente come una risposta alla mancata applicazione della riforma precedente in

parti consistenti della Pubblica Amministrazione centrale. In realtà, può anche in

qualche misura essere letta come il proseguimento del percorso di innovazione del

management pubblico verso modelli gestionali applicati in altri paesi europei. Per

esempio, la questione dell’integrazione tra valutazione della performance della struttura

e retribuzione e carriera dei dirigenti responsabili - che risulta cruciale al fine del

funzionamento dell’intero sistema di valutazione e dei suoi effetti benefici sulla qualità

dei servizi – ha un importante antecedente nell’esperienza dei non-consolidated bonus

awards introdotti per i dirigenti nel 2003 in Gran Bretagna1 (Bordogna 2009). D’altra

parte, è l’Europa stessa a richiamare l’attenzione sulla necessità di implementare nelle

pubbliche amministrazioni sistemi efficaci di performance management: purchè,

naturalmente, si tratti di sistemi e di pratiche manageriali ben orientate ad aumentare

l’efficienza amministrativa e in grado di evitare il rischio – che è presente quando

l’applicazione è meramente formale – di creare una nuova “burocrazia della

misurazione” (EIPA 2008). D’altra parte, come è stato osservato, la riforma otterrà i

risultati che si prefigge soltanto se saprà “spostare l’attenzione sulle aspettative dei

cittadini e se legherà a queste l’intero sistema di valutazione” (Bonaretti 2009).

Se c’è una parte della riforma che non convince del tutto chi opera nell’area della

organizzazione e delle risorse umane, è forse quella di un’idea di merito tutta finalizzata

in termini economici. E anche di una interpretazione della performance come svincolata

dal modello organizzativo: in realtà, sappiamo che per “performance” va inteso non solo

il risultato ma anche il processo con cui ci si arriva, per cui le modalità del processo e il

monitoraggio del suo funzionamento sono aspetti altrettanto importanti del sistema di

valutazione quanto la misurazione del risultato.

1 In particolare, dal 2003 per i dirigenti pubblici inglesi è stabilito un legame tra obiettivi operativi definiti

nei Public Service Agreements, sotto il coordinamento del Tesoro, obiettivi personali e quota di

retribuzione legata alla performance (con possibilità di arrivare al 9% della retribuzione individuale di

base (Bordogna 2009).

3

2. Perché questa indagine?

In procinto di definire meglio i potenziali contributi di consulenza per questa nuova fase

della gestione del personale pubblico e quindi predisporre un’offerta che risponda alle

effettive esigenze degli operatori degli Enti locali, ci è sembrato interessante aprire un

colloquio con i responsabili delle risorse umane di una dozzina di Comuni (con una

parte dei quali abbiamo ormai da anni rapporti di collaborazione).

L’idea era quella di aiutarli e aiutarci a “fare il punto prima della svolta” ovvero definire

uno status a quo di risultati ottenuti e di criticità ancora aperte, prima di affrontare i

cambiamenti che interverrano tra poco con l’introduzione dei nuovi sistemi e delle

nuove norme contrattuali. In modo da orientare nella giusta direzione e rendere più

efficaci le nuove normative.

L’indagine è stata uno degli strumenti messi a programma da ISMO in questa fase,

all’interno di un progetto più generale, che nella seconda metà del 2009 ha portato alla

costituzione di un Gruppo di lavoro sulla Valutazione in Area Pubblica, formato da

professionisti di competenze interdisciplinari – esperti di pubblica amministrazione,

sociologi, psicologi, formatori, economisti aziendali, – con il compito di approfondire la

situazione normativa e gestionale nella pubblica amministrazione alla luce della riforma

e innovare l’offerta formativa e consulenziale dell’Istituto.

Dal punto di vista metodolgico, l’indagine si è basata su interviste a direttori generali o

responsabili del personale (in alternativa, a responsabili del controllo di gestione o ad

altri dirigenti che avessero in carico il governo dei sistemi di valutazione) di 12 Comuni.

Le interviste sono state condotte da un gruppo di ricerca formato da professionisti

ISMO2.

Il colloquio verteva su cinque principali blocchi di domande:

1. Tipo di sistemi di valutazione applicati

2. Modalità di implementazione

3. Risultati ottenuti in termini di miglioramento della gestione dell’ente

4. Prospettive aperte dalla riforma

5. Proposte e iniziative per il proprio ente

I Comuni dove abbiamo effettuato le interviste sono: Bologna Bollate, Cesano Boscone,

Genova, Lentate, Monza, Paderno Dugnano, Reggio Emilia, Rozzano, Torino, Trento,

Venezia. Si tratta di 7 comuni capoluogo di provincia del CentroNord e 5 comuni

lombardi oltre i 15mila abitanti. La gran parte di questi partecipano alla sperimentazione

prevista da Anci3.

2 I professionisti ISMO che hanno effettuato le interviste sono: Riccardo Bozano, Tommaso Carcano, Alessandra

Costa, Alessio Fionda, Anna M. Ponzellini, Antonella Romani. La ricerca è stata coordinata da Anna M. Ponzellini. 3 Si ringraziano per il prezioso contributo alla ricerca: Isadora Blumenthal (Comune Bollate), Mauro

Bonaretti (Comune Reggio E.), Alessandro Bosco (Comune di Torino), Paola Cavadini (Comune di

Lentate sul S.), Andrea Perelli Cazzola (Comune di Cesano B.), Gaudenzio Garavini (Comune di

Bologna), Sarina Liga (Comune di Genova), Anna Iotti (Comune di Monza), Francesco Longoni

(Comune di Paderno D.), Anna Malaguti (Comune di Venezia), Massimo Manenti (Comune di Trento),

Luca Panzetta (Comune di Rozzano).

4

3. I sistemi di valutazione del personale e delle strutture: una

tecnicalità mediamente elevata

In questo primo paragrafo, diamo un’idea generale – sarebbe ovviamente impossibile

descriverli uno per uno - dei sistemi applicati negli enti osservati sia per la valutazione

dei dirigenti che per la valutazione del personale del comparto.

Tutti gli enti intervistati hanno sistemi di valutazione della prestazione, sia per i

dirigenti che anche per il personale del comparto. In qualche caso – non tutti - i sistemi

sono integrati, a cascata, con la misurazione delle performance dell’ente: in questo caso

si realizza una forte interconnessione tra programmazione/ valutazione della

performance dell’ente /valutazione e retribuzione dei dirigenti/ valutazione e

retribuzione del personale del comparto.

La valutazione dei dirigenti (e delle posizioni organizzative) è legata agli obiettivi di

performance delle relative strutture e collegata a sistemi più o meno sofisticati di

controllo di gestione (che quasi sempre esistono, anche se a volte solo in modo

formale). La misurazione viene effettuata in termini di scostamento dagli obiettivi

prefissati nel piano esecutivo di gestione (peg). Non in tutti casi viene effettuata una

misurazione della performance complessiva dell’ente: in questi casi la valutazione del

singolo dirigente si ottiene dai risultati ponderati delle performance della propria

struttura e dell’intero ente. In alcuni casi il premio è legato, oltre che a parametri di

struttura, ad obiettivi individuali definiti dal nucleo di valutazione (composto sia da

personale interno che da esperti esterni) e/o dalla giunta e/o dal direttore generale. In un

caso interessante, i dirigenti hanno anche a disposizione un ambito negoziale per la

scelta di obiettivi più o meno sfidanti e il peso di tali obiettivi.

Non sempre il dirigente viene valutato anche in relazione ai comportamenti

organizzativi e, comunque, solo in pochi casi, tra i fattori di valutazione, vi è anche la

competenza di valutatore (che è stata attualmente introdotta come obbligatoria dalla

riforma) né altri indicatori riferibili alle capacità gestionali: questo è un fatto

interessante su cui torneremo più avanti. Anche quando esistono entrambe, la

valutazione degli obiettivi “pesa” più della valutazione dei comportamenti (circa 70% e

30%).

La presenza di un sistema di misurazione - anche sofisticato - non significa però che il

sistema premiante operi una vera e propria differenziazione retributiva tra i dirigenti.

Tranne in pochi casi dove sono stati posti dei limiti alle persone valutate “eccellenti”,

alla fine la maggior parte dei dirigenti – 85% e oltre in molti casi - ottiene una

valutazione massima. Nei casi in cui sia anche in funzione un sistema di valutazione

delle posizioni dirigenziali, il premio viene riparametrato sull’indennità di posizione.

Anche la valutazione del personale non dirigente viene fatta in tutti gli enti. A volte il

sistema prevede contemporanemente la misurazione dei risultati e dei comportamenti

organizzativi (per esempio: l’impegno, il grado di cooperazione/integrazione, i rapporti

con l’utenza, l’autonomia operativa, la puntualità, le ore di presenza, etc.). Nei casi più

5

virtuosi, per bloccare una distribuzione a pioggia dei premi sono stati eliminati dalla

valutazione per il premio di risultato elementi quali la continuità della presenza sul

posto di lavoro (o l’anzianità di servizio). In diversi casi, per il personale di comparto

non vengono definiti obiettivi individuali ma semplicemente giudizi sui comportamenti.

Le schede di valutazione più sofisticate prevedono la presenza di descrizioni dettagliate

(declaratorie) dei diversi gradi di comportamento organizzativo relativi ad ogni area di

competenza, che servono ad aiutare i valutatori a dare maggiore concretezza a giudizi

che a volte possono sembrare un po’ sfuggenti. Va anche segnalato il caso di un

Comune dove il personale di alcune strutture non ha nessuna forma di valutazione della

performance e riceve il premio in ragione della media degli altri dipendenti, per la

discutibile raggione che vi sarebbe una “difficoltà alla misurazione dei loro risultati”.

Dal punto di vista della distribuzione delle risorse premiali, in genere esiste una

ripartizione del premio tra una parte collettiva e una individuale (generalmente quella

individuale è molto ridotta: massimo 5-10% del totale del premio). Oppure, il premio in

denaro è legato semplicemente al risultato (collettivo) e la scheda di valutazione viene

invece utilizzata per le progressioni orizzontali e per gli avanzamenti di carriera: in

questo caso la scheda contiene anche riferimenti all’esperienza (anzianità servizio) e

alla formazione svolta. Va comunque segnalato che la scheda di valutazione non è

sempre usata per le progressioni e gli scorrimenti: in qualche caso, la decisione degli

avanzamenti è rimessa ai responsabili delle strutture di concerto tra loro senza alcun

apparente riferimento agli esiti della valutazione.

Anche nel caso del personale del comparto, la distribuzione dei premi lascia poco spazio

alla selezione dei lavoratori effettivamente meritevoli: mediamente gli scostamenti dal

massimo del premio sono spesso solo simbolici. Lo schiacciamento verso l’alto delle

valutazioni, con il conseguente appiattimento retributivo, migliora nei casi in cui ogni

anno viene pre-assegnato un budget a ciascuna struttura: in questi casi il dirigente,

dovendo operare in base a precisi vincoli di budget, è portato a dare giudizi più attenti e

differenziati.

Il giudizio viene effettuato dal capo-diretto. In molti casi, il risultato della valutazione

annuale viene comunicato in un apposito colloquio individuale, che verte sulla scheda di

valutazione delle prestazioni: in qualche caso è possibile per il dipendente esprimere

una valutazione sulla valutazione data dai responsabili, in altri casi questa possibilità

non è ammessa. In alcuni casi, tuttavia, non è previsto o comunque non è effettuato

alcun colloquio: in questi casi si procede, in modo più burocratico, attraverso

comunicazioni scritte al dipendente riguardo al’esito della valutazione. Analogamente,

per la l’assegnazione degli obiettivi per il nuovo anno, di solito si effettuano colloqui,

talvolta collettivi (di reparto/ufficio o di gruppo professionale) ma che, su richiesta,

possono essere anche individuali. In tali colloqui, oltre all’assegnazione degli obiettivi,

si ripercorrono le aree critiche o di miglioramento emerse dalle schede di valutazione. In

poche esperienze virtuose, colloqui capo-collaboratore riferiti alla valutazione si

tengono periodicamente anche in corso d’anno, a volte su richiesta del valutato o del

valutatore (se ritiene che la prestazione del collaboratore sia inadeguata), altre volte in

base ad una procedura strutturata. Una vera e propria vertenzialità (ricorsi) riferita alle

valutazioni non esiste o è ridotta a pochi casi all’anno: spesso il disaccordo sul

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punteggio ottenuto è solo un pretesto per una situazione di disagio organizzativo più

generale.

Infine, nella gran parte dei Comuni, viene effettuata una valutazione della performance

delle strutture in base agli obiettivi di Peg concordati con la parte politica (che stabilisce

per ogni singola struttura e ufficio quali sono gli obiettivi a cui il dirigente responsabile

e’ tenuto a rispondere) ed all’impiego di indicatori di controllo di gestione. Tuttavia,

solo in pochi casi esiste un collegamento tra gli obiettivi delle strutture e la performance

complessiva dell’ente e solo raramente esiste un sistema di benchmark tra i risultati

delle strutture. Nei casi più virtuosi, il Comune, spesso ente certificato, ha un sistema

integrato di programmazione e controllo che consente di gestire l’intero “ciclo della

performance”: dagli obiettivi del Sindaco al Piano generale, al Peg, agli obiettivi e

indicatori di processo, agli obiettivi di progetto (di sviluppo) e di routine. E’ evidente

che, laddove la valutazione della performance delle strutture (e dell’ente) è strettamente

legata alle politiche, gli indicatori di riferimento vengono periodicamente dismessi o

creati.

Se non fosse per l’evidenza di esiti mediamente poco selettivi in termini

differenziazione dei giudizi e dei premi, potremmo dire di trovarci di fronte a Comuni

dotati di un quadro applicativo molto denso e spesso tecnicamente molto sofisticato. In

questo senso, si comprende perché molti intervistati, richiesti di dare un giudizio sull’

impatto che prevedano possa averea la Riforma Brunetta sul proprio ente, ritengano che

non porterà veri cambiamenti ai sistemi di valutazione del personale: i sistemi esistono

già e spesso sono stati anche migliorati nel corso degli anni. Si comprende anche

perché, a giudizio dei dirigenti intervistati, per gli enti locali la vera novità a cui fare

fronte nel dopo-riforma sarà, per chi già non la applica, la ripartizione dei premi in fasce

di risultato: norma che viene in genere vista con favore dai responsabili del personale,

come modo per “costringere i responsabili ad operare una effettiva selezione dei

meritevoli”. Secondo gli intervistati, altri aspetti della riforma che gli enti dovranno

affrontare riguardano l’introduzione di sistemi di valutazione complessiva dell’ente e di

indicatori omogenei a livello di comuni per la valutazione delle performance delle

diverse strutture, anche in funzione di un sistema di benchmark tra gli enti. Questo

implica che gli enti che dovranno adattare i loro sistemi di valutazione a quello

suggerito centralmente dalla Commissione4 e anche potenziare il controllo di gestione (e

il controllo strategico), spesso finora realizzato più a livello formale che non sostanziale.

Infine, gli Enti attendono di sapere come ristrutturare gli organismi di valutazione

secondo le indicazioni della legge.

4. L’applicazione dei sistemi e lo stile manageriale: orientato al

risultato o orientato alla norma?

Come risulta evidente dal paragrafo precedente, mediamente i sistemi applicati hanno

un grado piuttosto elevato di “tecnicalità” (a conferma di questo, nella maggior parte dei

4 ANCI già ha previsto formule per la valutazione di alcuni settori (Settore educativo, Trasporto e

viabilità, Servizi sociali, Igiene ed ambiente), mentre si annuncia più difficile una misurazione degli uffici

che hanno prodotti meramente amministrativi, come atti e documenti (ad esempio, l’Anagrafe)

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casi si tratta di sistemi che sono stati progettati da agenzie specializzate). Tuttavia, il

grado di sofisticazione dello strumento tecnico applicato – numero degli indicatori,

ponderazioni, livelli diversi di valutazione, articolazione delle schede - non basta a dare

conto di differenze sostanziali in termini di efficacia che si riscontrano poi nel loro

funzionamento. In altri termini, l’impressione è che le ragioni che alla fine fanno

funzionare un sistema siano anche altre.

Innanzitutto, le modalità di implementazione dei sistemi di valutazione sono diverse. In

alcuni casi, pur in presenza di un sistema di misurazione complesso, il processo con cui

viene applicato è molto semplificato e si esaurisce nella comunicazione degli obiettivi

(di settore e individuali) e nella verifica del raggiungimento dei risultati. In questi casi,

come ci dice qualcuno, sembra prevalere l’obbiettivo di “limitare i danni” (che

sarebbero poi, per i collaboratori, quelli prodotti dalla differenziazione retributiva e, per

i responsabili, quelli prodotti dall’aggiunta di nuovi carichi di lavoro): qui è molto

evidente che la scelta dell’amministrazione e del top management è quella della mera

obbedienza all’adempimento normativo (e di contratto), mentre l’applicazione del

sistema – che spesso è comunque complesso - appare solo un peso burocratico

aggiuntivo.

In altri casi, invece, i sistemi appaiono essere stati implementati in modo processuale e

secondo un preciso ciclo della valutazione: ad inizio anno, la decisione in merito alla

assegnazione dei budget di settore e il colloquio tra capo e collaboratore per

l’esplicitazione delle aspettative; poi il monitoraggio periodico di ogni obiettivo;

l’analisi dei comportamenti (non il giudizio sulla persona); i colloqui di analisi sulla

prestazione svolta; solo alla fine la distribuzione delle “pagelle” (in seguito alla quale si

fanno gli scorrimenti). Il processo, in questi casi, è sostenuto dalla formazione ai

valutatori – talvolta anche a tutto il personale - e cercando di accompagnare il

cambiamento di atteggiamento dei dirigenti nei confronti della valutazione. Dove viene

fatta, la formazione è indirizzata a trasferire il senso che può avere la valutazione per il

miglioramento dell’organizzazione e a sottolineare l’importanza del feedback nel

rapporto capo-collaboratore. E’ così, non a caso, che si è potuta limitare l’ostilità contro

la valutazione che, in alcuni Comuni, si era generata nelle prime esperienze applicative

da parte di dirigenti, dimostrando le ricadute positive di una gestione attiva dei sistemi

sul rapporto con i collaboratori e la possibilità, attraverso questo, di ottenere migliori

risultati dell’ente.

Le applicazioni migliori dei sistemi sembrano suggerire l’impossibilità di svincolare la

valutazione dagli aspetti organizzativi e ci confermano come la “performance” sia

qualcosa di più di un risultato, abbia piuttosto a che fare con l’intero processo con cui il

risultato viene raggiunto, e come dunque la “cura” di questo processo sia essenziale.

In questo contesto, sembra evidenziarsi anche l’importanza del ruolo delle direzioni del

personale nel governo complessivo del processo valutativo, in particolare nella

supervisione e nell’accompagnamento dei capi alla valutazione dei loro collaboratori.

Nonostante ciò, per diretta ammissione degli intervistati, non sembra che le direzioni

offrano sempre il necessario supporto adi ottimale funzionamento di tutto il processo. Il

fatto che non sempre il ciclo della valutazione sia compiutamente disegnato o che

manchino tra i fattori di valutazione dei dirigenti quelli che riguardano la gestione delle

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risorse, appare un segnale di non compiutezza applicativa e di governance ancora

carente del sistema di valutazione.

5. Il giudizio sui risultati ottenuti nel rapporto cittadino-

amministrazione e nella gestione dell’ente

Miglioramenti nel rapporto con i cittadini

Innanzitutto, mentre tutti gli intervistati hanno sottolineato il cambiamento prodotto dai

sistemi di valutazione sulla gestione interna all’ente, non sono moltissimi quelli che nel

racconto della loro esperienza hanno portato l’accento sui miglioramenti ottenuti nel

rapporto tra amministrazione e cittadino-utente.

Nei casi in cui l’attenzione è stata posta sulla qualità dei servizi e sulla efficacia della

risposta ai cittadini, vi è un giudizio unanime da parte degli intervistati sul fatto che i

sistemi di valutazione della performance hanno comunque centrato l’obbiettivo di

aumentare la comprensione da parte dei collaboratori di quali sono gli obiettivi ultimi

dell’ente e quindi quelli dei singoli uffici. Addirittura, secondo un intervistato, “dati i

vincoli contabili che i Comuni hanno dovuto subire negli ultimi anni, questa

motivazione e finalizzazione agli obiettivi di servizio da parte collaboratori è diventata

ancora più preziosa, stimolando una creatività di soluzioni per tenere comunque alto lo

standard di qualità dei servizi ai cittadini”. In tutti i casi, comunque, si menziona

l’aumento di sensibilità e attenzione nei confronti dei clienti da parte del personale.

Tanto è vero che, in più di un caso – anche se non sempre con successo – la valutazione

della performance delle strutture è stata collegata ad indagini di customer satisfaction

(soprattutto, nel caso di uffici front–line come il settore demografico).

Naturalmente, questi buoni risultati nel rapporto tra amministrazione e utenti sono

strettamente legati alle esperienze migliori di valutazione, che sono quelle dei Comuni

che hanno saputo costruire un forte legame tra bisogni dei cittadini, politiche dell’ente,

obiettivi delle strutture e sistema premiante. Tuttavia, questa applicazione completa dei

sistemi non si è verificata dappertutto. Non a caso, in qualche ente si fa notare che

“neppure ora, a distanza di anni, si può con certezza considerare il sistema di

valutazione come la leva principale per l’aumento dell’efficienza e della qualità dei

servizi”. In alcuni casi, questo legame non è stato realizzato fino in fondo anche a causa

di “scarsa consapevolezza da parte della politica dell’importanza della programmazione:

a volte gli indirizzi politici cambiano in modo estemporaneo, nel Peg stenta a essere

individuata una mission precisa e quindi si toglie senso allo sforzo di tenere collegate le

politiche alla programmazione, al controllo e al sistema premiante”. Modalità ancora

più decise di collegamento dei sistemi di valutazione alla vita dei cittadini in qualche

modo ribaltano questa ottica. Per esempio, nel sistema che è in via di realizzazione in un

importante Comune, piuttosto che partire dagli obiettivi legati alla programmazione

sono stati individuati dei veri e propri obiettivi di outcome per i cittadini (definiti

attraverso le loro aspettative di miglioramento della qualità della vita in diverse aree:

mobilità, scolarità, accesso ai servizi all’infanzia, etc.) e sul raggiungimento di questi

viene imperniato l’intero sistema di valutazione: innanzitutto la definizione di una

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filiera di servizi che consente di realizzarli, solo poi la costruzione del programma e la

definizione di obiettivi per tutti gli operatori.

Miglioramenti nell’efficienza organizzativa e nella gestione del personale

Nell’esprimere un giudizio sulle ricadute della appplicazione dei sistemi di valutazione,

la gran parte della attenzione – e non avrebbe potuto essere diversamente visto che

abbiamo intervistato quasi sempre i responsabili del personale - è riservata ai risultati

ottenuti all’interno dell’ente, ovvero ai miglioramenti della efficienza organizzativa e

nella gestione dei personale. Anche qui, tuttavia, non sempre i miglioramenti sono stati

pari alle attese.

In qualche caso – e ce ne sono anche nel nostro campione - in cui è evidente che

l’implementazione dei sistemi è stata più burocratica, la definizione degli obiettivi e la

loro misurazione più simboliche ed orientate alla semplice distribuzione dei premi, non

si può dire che i sistemi siano riusciti a creare grandi cambiamenti nel gestione del

personale e neppure a mettere a fuoco la pur semplice esigenza di aumentare

l’efficienza amministrativa. In generale, comunque, si può dire che il sistema di

valutazione ha aumentato l’efficienza degli enti, sia perché “l’esplicitazione degli

obiettivi, chiarisce dove si vuole andare”, sia perché fa “aumentare la trasparenza nei

processi interni ed il controllo su azioni che in precedenza venivano considerate prive di

importanza e quindi consente di controllare ed eliminare le inefficienze”.

L’impatto più interessante si registra però nell’ambito della cultura gestionale, quindi a

livello di rapporti capo/collaboratore, di motivazione e sviluppo del personale e di

clima organizzativo.

La positiva intensificazione della relazione capo-collaboratore è da tutti gli intervistati

considerato il risultato più interessante dell’applicazione dei sistemi di valutazione,

anche se presenta ancora ampi margini di miglioramento (e si spera che la Riforma

Brunetta sia un’occasione per rilanciare questo importante esigenza gestionale). In

generale, il colloquio strutturato fra capo e collaboratore è ritenuto un momento molto

utile da tutti gli intervistati. I collaboratori aspettano quel momento per chiarire con il

responsabile la propria situazione, per ricevere feedback, per capire prospettive di

sviluppo: “il colloquio fa ormai parte di una consuetudine positiva, tanto è vero che il

clima, quando vi sono le valutazioni, è positivo non vi sono più pettegolezzi e eccessivi

confronti e paragoni”. Nel colloqui si parla di lavoro ma non solo: “si tratta di un

momento di crescita reciproca, di potenziamento della capacità di ascolto e di incontro

con l’altro”. Purtroppo, come abbiamo visto sopra, a volte i sistemi non prevedono lo

strumento del colloquio come obbligatorio e i responsabili tendono a valutare senza

incontrare le persone. A volte, neppure la assegnazione degli obiettivi agli uffici (a valle

dell’approvazione del Peg e del Piano degli Obiettivi) viene presentata e discussa in una

riunione (vi sono dirigenti che provvedono via e-mail). Inoltre, nella gestione del

colloqui di valutazione si rilevano – come è stato osservato - “due velocità” che

corrispondono a stili manageriali diversi: dirigenti interessati e motivati li usano bene

mentre per altri il colloquio si configura soltanto come un adempimento meramente

formale e una fatica burocratica in più.

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Molte critiche (e anche autocritiche!) sono state invece dedicate al carente utilizzo dei

sistemi di valutazione in qualità di strumenti di sviluppo. Si tratta di critiche che

finiscono per sottolineare le grandi potenzialità in questa direzione che contengono i

sistemi di valutazione. Da un lato si evidenzia che “ormai i lavoratori sono abituati a

questo sistema ma andrebbero coinvolti maggiormente i dirigenti perché applichino lo

strumento come leva gestionale e di sviluppo delle prestazione dei collaboratori

sganciandolo dalla pura progressione di carriera”. In questo senso viene ribadito la

necessità che il colloquio capo-collaboratore sia visto come parte integrante dell’intero

processo.

Dall’altro si fa notare che il sistema risulta “ancora poco collegato con l’analisi delle

esigenze formative nel senso che nessuno lo utilizza in tal senso”. Per esempio, solo in

qualche caso le schede prevedono un parere del responsabile in merito alla ricaduta

della formazione erogata (e anche in questi casi molto spesso il parere non viene fornito

dai capi incaricati di compilare le schede) e più o meno dappertutto si evidenzia la

difficoltà di creare un collegamento strutturato tra le informazioni utili contenute nelle

schede di valutazione e i responsabili della Formazione e Sviluppo.

Da questo punto di vista, in generale, ci sembra che si sia ottenuto un risultato migliore

nei casi in cui il sistema comprende anche la valutazione del comportamento

organizzativo: in questo caso è più facile isolare i fabbisogni formativi e costruire un

percorso di sviluppo. D’altra parte, i sistemi di valutazione appaiono poco utilizzati in

funzione anche ad altri aspetti gestionali oltre alla formazione, come la mobilità interna

e lo sviluppo di carriera. Le possibilità aperte su questi piani dai sistemi di valutazione

fanno dire a molti dei nostri intervistati che il premio in denaro non dovrebbe essere

l’unica leva prevista dal sistema: in qualche caso, sono risultato molto efficaci anche

incentivi di tipo organizzativo, come piani formativi molto personalizzati proposti a

coloro che raggiungono elevati livelli di valutazione.

Come ormai risulta più chiaro, l’impatto dei sistema di valutazione sulla motivazione

del personale non è un fatto scontato ma dipende assolutamente dal modo con cui è

applicato il sistema, dalla presenza della valutazione del comportamento organizzativo,

dalla intensità ed efficacia del dialogo tra capo e collaboratore, dalla visibilità dal

collegamento della valutazione alle altre leve gestionali come la formazione, lo sviluppo

di carriera, la mobilità interna. Tuttavia non c’è dubbio che, come dice uno dei nostri

intervistati, “ai fini della motivazione, la parte più importante del sistema riguarda il

colloquio e in particolare il processo che rende maggiormente visibile il valore

individuale”. All’aspetto del valore che viene loro attribuito, anche più che alla quantità

di denaro raggiunta, le persone sembrano infatti riservare una speciale attenzione. Si

tratta di un passaggio molto delicato, come si vede dal fatto che il giudizio viene accolto

a volte con timore o anche con rifiuto, specialmente quando non viene sufficientemente

chiarito dal responsabile che si tratta semplicemente di una verifica delle competenze

rispetto alle esigenze della organizzazione e non di un giudizio complessivo sul valore

professionale oppure da capo non viene fatta la necessaria distinzione tra

comportamenti organizzativi e qualità personali. Come è stato sottolineato: “Questa è

una delle principali ragioni per cui si dovrebbe fare in modo di assicurare diversi

momenti di confronto con i valutatori: non basta creare uno strumento forte ed efficiente

11

di valutazione, per rendere la leva della valutazione efficace dal punto di vista delle

performance dell’ente, ma bisogna rendere consapevoli i valutati che è una parte

importante del sistema organizzativo, capace di contribuire al miglioramento di questo”.

Sarebbe quindi utile non solo fornire supporti di competenza e consapevolezza ai

responsabili della valutazione, ma anche dare supporti ai collaboratori per la

comprensione del senso della valutazione, per assicurarne il coinvolgimento negli

obiettivi e il miglioramento delle competenze.

In generale, comunque, anche da questa indagine emerge che le persone accettano – o

addirittura pretendono – di essere valutate e anche remunerate in modo differenziato.

Così si vede, per esempio, nel caso di un Comune che ha fatto un referendum per

chiedere ai lavoratori se volevano l’applicazione di strumenti di valutazione e premi

individuali e dove hanno vinto i sì. Nel caso dei dirigenti e delle posizioni

organizzative, “un aumento di soggettività e di senso deriva proprio dalla

consapevolezza di avere la possibilità di porre obiettivi su cui essere valutati”.

Naturalmente, viene anche sottolineato come la motivazione risulti decisamente

minacciata nel caso in cui non si realizza una sufficiente trasparenza nella misurazione

dei risultati e una sufficiente equità nella distribuzione di premi: come ci dice uno degli

intervistati: “La cosa più difficile è garantire realmente l’equità di trattamento dei

dipendenti: l’influenza della politica è forte, i passaggi sono spesso pilotati. Ovviamente

la politica deve indirizzare nel senso che deve dare indirizzi all’azione e i dirigenti

devono recepire questi indirizzi e poi a cascata guidare l’azione ma molto spesso i

particolarismi e gli interessi di settore fanno si che alcune persone vengano favorite

nella crescita rispetto ad altre senza che vi sia coerenza e trasparenza nei criteri

utilizzati”.

Top management, capi diretti e la leva della valutazione

Si è visto già sopra, come le capacità dei dirigenti e la loro disponibilità a utilizzare la

leva della valutazione per migliorare le perfomance dell’amministrazione e per

valorizzare il contributo dei propri collaboratori siano un fattore–chiave per il successo

di questi sistemi. D’altra parte, come ha esclamato uno dei direttori del personale che

abbiamo intervistato: “dirigenti e capi bravi a gestire i collaboratori sono perle rare!”. In

realtà, la posizione dei dirigenti nella pubblica amministrazione non è semplice.

Innanzitutto, come ci è stato fatto notare, “un dirigente pubblico non sceglie le risorse e

quindi è più facile che si senta deresponsabilizzato” e, analogamente, “da un lato,

mancando nel pubblico altre leve per sanzionare le performance negative, la semplice

valutazione mediocre o bassa ottiene spesso solo lo scopo di innescare tensioni difficili

da gestire” mentre, dall’altro, la quota variabile del premio è così bassa (soprattutto per

il personale non-dirigente) che è, in sé, scarsamente utilizzabile come leva

motivazionale”.

Va però detto l’indagine ah messo in luce forti differenze culturali tra i dirigenti

nell’uso dei sistemi di valutazione: per alcuni si tratta semplicemente di adempiere un

obbligo istituzionale e usarlo come strumento di progressione economica, mentre ad

altri è più chiaro il potenziale della valutazione come leva manageriale, per coinvolgere

e valorizzare i collaboratori. C’è poi da dire che formazione alla valutazione per i

12

dirigenti è stata fatta in diversi Comuni ma non in tutti. E’ auspicabile, a detta di molti,

che i valutatori sviluppino maggiori capacità in merito. D’altra parte, molti anche sono

d’accordo di introdurre tra i fattori di valutazione della performance dei dirigenti – e

qualche Comune l’ha già fatto - un fattore che “valuti come si valuta” (che per altro sarà

reso obbligatorio dalla riforma) e anche il clima organizzativo nell’ufficio.

Va sottolineato che in qualche caso, l’introduzione dei sistemi di valutazione ha

prodotto anche cambiamenti nel rapporto tra i responsabili degli uffici: “Sicuramente,

oggi si tende a comunicare di più tra responsabili: la necessità di riunirci per decidere al

distribuzione del budget tra gli uffici, stabilire gli avanzamenti, etc. ha portato alla

istituzione di una conferenza dei responsabili che di norma si riunisce ogni settimana

per definire l’agenda dei lavori e soprattutto per avere piena consapevolezza di cosa

succede all’interno dell’amministrazione”. Questa ricaduta in termini di crescita nella

responsabilizzazione dei dirigenti va annoverata tra le potenziali migliori ricadute

dell’introduzione dei sistemi di valutazione.

Un aspetto inatteso evidenziato dall’indagine, riguarda la differente considerazione che

è stata sottolineata in più di un’intervista che viene riservata ai sistemi di valutazione dai

diversi livelli della dirigenza: essi godrebbero infatti di poca fiducia da parte del top-

management – specialmente direttori generali e segretari – mentre trovano molto

consenso da parte dei responsabili diretti. I primi, infatti, in qualche caso sarebbero più

inclini a tenere conto, almeno nei giudizi finalizzati alle progressioni di carriera, del

peso esercitato dai politici. I secondi ne vedrebbero invece meglio il potenziale

gestionale. A volte anche le direzioni del Personale recitano il “mea culpa”, quando

ammettono che spesso “non è stato dato il necessario supporto ai responsabili durante la

valutazione, supervisionando il processo e accompagnandone l’applicazione corretta” .

6. Il ruolo del sindacato

Nel processo di valutazione, non va dimenticato il ruolo del sindacato. In quasi tutti i

Comuni del campione, l’esperienza di negoziazione della applicazione dei sistemi è

stata poco conflittuale e in generale gli intervistati parlano di “clima collaborativo” (per

qualcuno, anzi, il giudizio è “molto positivo”, riconoscendo al sindacato di aver tenuto

un comportamento collaborativo anche in alcune situazioni difficili di cambiamento).

Di fronte a domande più approfondite emergono comunque giudizi più articolati, e non

sempre positivi (anche se va tenuto conto che sono stati sentiti solo i manager pubblici

ma non anche i sindacalisti). E’ chiaro che il sindacato si preoccupa dell’equità e quindi

teme, soprattutto per i dirigenti, che la valutazione cosiddetta meritocratica copra

selezioni di tipo clientelare da parte della politica. Più in generale, sembra che il nuovo

potere dei capi nel giudicare i comportamenti dei lavoratori - e contemporaneamente il

calo della propria influenza nella negoziazione degli avanzamenti – non lasci

indifferente il sindacato: un responsabile del personale dichiara che “il sindacato non ha

eretto grandi barricate” ma che nei rinnovi del 2000 e del 2005 qualche reazione c’è

stata perché “la discrezionalità faceva paura”; in un altro caso il sindacato viene ritenuto

responsabile dell’”impoverimento del sistema”, proprio in quanto ha imposto criteri che

tendono ad alleggerire il peso del giudizio dei comportamenti; in altri si sottolinea la

13

tendenza a preferire una distribuzione a pioggia dei premi piuttosto che una selezione

più accurata dei meritevoli. Altri sottolineano che “il sindacato cerca solo di avere più

progressioni possibili… vi sono stati pochi contenziosi anche perché vi sono stati molti

scorrimenti!”. Qualcuno suggerisce che anche i rappresentanti sindacali siano coinvolti

in percorsi di formazione.

7. Le cose da salvare di questa esperienza

Abbiamo provato a chiedere agli intervistati, cosa salverebbero a dieci anni di distanza

dell’esperienza di valutazione. I tre aspetti, che qui riportiamo, sono quelli che ci sono

sembrati più interessanti (e ricorrenti) nelle loro risposte.

il linguaggio nuovo

“Adesso, si parla con altre parole…” Rispetto al passato sono stati compiuti passi in

avanti. Sono stati introdotti concetti e parole nuove: efficienza, efficacia, utilizzo delle

risorse, valutazione, programmazione e controllo, etc. Tutti sono d’accordo che

complessivamente nei Comuni vi è più sensibilità al tema della valutazione, quanto

meno in termini di conoscenza della tematica (mentre, rispetto poi alle azioni concrete

ed all’effettiva valutazione, in alcuni casi ancora molti passi in avanti vanno fatti).

il colloquio capo-collaboratore

In qualche modo da considerarsi un “risultato indiretto”, la crescita del rapporto tra capi

e collaboratori è forse il più grosso cambiamento gestionale che si è realizzato negli enti

(anche se non in tutti) a seguitodell’introduzione dei sistemi di valutazione. Il colloquio

individuale previsto per l’assegnazione degli obiettivi, la verifica dei risultati e la

discussione dei giudizi è stata la strada maestra per fare crescere questo rapporto. Che in

qualche caso è anche diventata una prassi periodica con riflessi positivi sulle attività di

lavoro, sui risultati, sulla motivazione. Purtroppo, “ i dirigenti non sempre sono sensibili

alla valutazione individuale, mentre dovrebbero badare meno agli elementi tecnici e

dare più valore alla relazione”.

una leva per lo sviluppo

Il sistema di valutazione, se utilizzato in tutte le sue potenzialità, si presta ad

accompagnare la rilevazione dei bisogni, la pianificazione e l’assessment dei percorsi

formativi individuali. Si presta inoltre ad essere utilizzato – insieme a strumenti di

manpower planning - per accompagnare lo sviluppo professionale e per realizzare una

migliore allocazione delle risorse nelle diverse atttività dell’ente. Perché succeda tutto

questo, “bisognerebbe sganciare il processo di valutazione dalla semplice progressione

economica e realizzare una vera cultura della valutazione, anche moltiplicando i

momenti di confronto”. Analogamente, la valutazione del personale può contribuire

decisamente al miglioramento della performance complessiva dell’ente: anche in questo

caso, però, “non è sufficiente la costruzione di uno buon strumento di valutazione,

bisogna rendere consapevoli i valutati che la valutazione è una parte importante del

sistema organizzativo capace di contribuire al suo miglioramento”.

14

8. Quale nuovo scenario aperto dal Decreto 150/2009?

Alla domanda su cosa, secondo loro, cambierà con l’introduzione delle nuove norme

previste dal decreto Brunetta, la maggior parte dei nostri intervistati ha risposto che per

i Comuni non c’era bisogno di riforma, mentre tutti ritengono che le necessità vere

siano chiaramente a livello della pubblica amministrazione centrale. In effetti, nei

Comuni dove abbiamo realizzato l’indagine quasi sempre c’è già tutta la gamma degli

strumenti di gestione: ci sono la programmazione, il controllo di gestione, il Peg, i

sistemi di valutazione funzionano da tempo, le retribuzioni sono differenziate, in

qualche caso sono state fatte esperienze di customer satisfaction. Per dirla con le parole

di un responsabile del personale: “Si tratta di una riforma interessante ma probabilmente

un po’ superflua per gli enti locali. Non a caso, il nostro sistema di valutazione è stato

realizzato prima della riforma stessa: infatti i Comuni si trovano a dovere fornire in

prima linea i servizi pubblici, a dover sottostare ai vincoli di bilancio e di risorse e

quindi è da tempo che avevamo dovuto dotarci di questi strumenti. E così, le modifiche

da operare a seguito della Brunetta sono davvero minime”. Analogamente, un altro

intervistato sostiene che “ gli enti locali, soprattutto i Comuni, essendo a diretto contatto

con i cittadini, subiscono gia’ una pressione della cittadinanza: questa va considerata

come una prima forma, e forse la piu’ concreta, di valutazione”.

Quanto alla “gaussiana” – la curva che devono seguire le valutazioni secondo il decreto

Brunetta e che indubbiamente costituisce una nuova norma precisa per la distribuzione

dei premi – i giudizi sono contrastanti. Qualcuno dice che “i problemi sono altri” ma

una buona parte la ritiene un’idea interessante, in quanto “potrebbe dare una scossa per

non appiattirsi sempre verso l’alto”. In effetti, il problema di giudizi elevati e

generalizzati attualmente esiste (ed è ciò che ha reso inefficace la portata innovativa

della riforma degli anni novanta), ragione per cui, come dichiara uno degli intervistati

“Se non resta un’iniziativa formale e viene colta nel suo valore dalle amministrazioni, il

decreto può fornire spunti interessanti per mettere a regime un sistema di valutazione

effettivo e meritocratico. Per quanto possibile, la nostra amministrazione applicherà la

legge e ne proverà a sfruttare il valore”.

Se la previsione dell’impatto delle nuove norme a livello dei sistemi di valutazione del

personale è di pochi adeguamenti minori, non c’è dubbio che un po’ tutti aspettano con

interesse la parte della riforma che riguarda la valutazione della performance

organizzativa. L’applicazione delle nuove norme – unitamente al modello di indicatori

della performance dei vari settori predisposto da Anci5 - porterà modifiche sensibili in

molti Enti dove ancora non viene applicato un modello di valutazione integrato a partire

dagli obiettivi di programmazione (e, anche in questi casi, comunque sarà necessarrio

allineare gli indicatori). La definizione degli indicatori della performance organizzativa

innescherà un processo a cascata sulla valutazione dei dirigenti e del personale non

dirigente. Sarà necessario prevedere verifiche periodiche anche durante l’anno e

potenziare il controllo di gestione. L’augurio di molti è comunque che la riforma non

diventi un “ulteriore adempimento burocratico che non porterebbe a nulla”.

5 Anci modello di valutazione della perfomance degli enti

15

Oltre queste tre principali ambiti di riflessione sulla riforma, abbiamo raccolto anche

una serie di giudizi più generali. Secondo una responsabile del personale, la legge

“fornisce indicazioni chiare e di forte centralismo, poi molto stemperate nelle

indicazioni successive: di questo c’era bisogno perché si è buttato molto tempo nella

contrattazione decentrata, mentre la riforma può essere uno stimolo da cogliere per

avere linee comuni e definire meglio azioni di programmazione”. Un giudizio opposto

viene da un altro dirigente intervistato che dichiara: “A mio parere, obiettivo del decreto

è la desindacalizzazione del settore (in particolare dalla CGIL) e in questo senso ho

molti dubbi sulla reale efficacia che questa potra’ avere sulle prestazioni degli enti

pubblici”.

9. Per accompagnare il cambiamento: strategie possibili (e

impossibili)

Abbiamo anche provato a chiedere ai nostri intervistati cosa metterebbero in campo

prioritariamente per migliorare la gestione del personale, se potessero farlo senza

vincoli normativi e/o finanziari. Parecchi hanno risposto dimostrando spesso anche

molta creativà e passione. Riportiamo, senza commenti, la “lista dei desideri”:

Sugli aspetti che riguardano, direttamente e indirettamente, la valutazione del

personale:

- legare i sitemi di valutazione allo sviluppo professionale

- non vincolare totalmente il premio al denaro

- implementare un sistema in cui le quote di produttività non abbiano solo

incidenza settoriale ma anche trasversale, data la quantità di progetti di natura

trasversale (e trovare contemperamento tra quota di settore e quota trasversale).

- applicare un po’ di “buon senso” nella distribuzione degli incentivi

- dare più strumenti ai responsabili per crescita, relazioni, ascolto, senso del

lavoro

- valutare i responsabili sul clima organizzativo e sull’efficacia della valutazione

- fare coaching ai dirigenti al fine di sviluppare le loro competenze gestionali

- fare in modo che i dirigenti valutino le PO, per un problema di visibilità della

loro prestazione e, a cascata, questi valutino i propri collaboratori.

Su aspetti che riguardano la gestione dell’ente in generale:

- interventi sul benessere organizzativo

- impostazione di azioni positive (telelavoro, asili nido..etc)

- trovare finanziamenti per la certificazione di qualità per certificare anche i

processi

Conclusioni

L’esperienza di una decina d’anni – in qualche caso di più, in qualche caso di meno – di

applicazione dei sistemi di valutazione della performance nel settore degli enti locali

16

sembra avere centrato l’obbiettivo importante della riforma della fine degli anni

novanta, che nella sostanza era quello di aumentare la comprensione da parte dei

lavoratori riguardo agli obiettivi dell’ente e dei singoli uffici e insieme raggiungere più

elevati traguardi di produttività. Questo processo ha innescato un cambiamento

culturale che è anche evidente nella diffusione irreversibile di un nuovo linguaggio

prima sconosciuto alla pubblica amministrazione, fatto di parole come: cliente,

efficienza, efficacia, qualità, controllo, customer satisfaction, benchmark, etc..

Meno risolti appaiono altri obiettivi, quali l’effettiva selezione – ai fini retributivi e ai

fini della carriera – dei meritevoli, il collegamento della valutazione del personale agli

strumenti di programmazione e alla misurazione delle performance dei servizi, la

trasparenza dei processi e dei risultati in funzione del controllo da parte dei cittadini-

utenti.

Risulta inoltre in parte ancora da perfezionare il pieno utilizzo delle potenzialità dei

sistemi in direzione del cambiamento della cultura di gestione del personale nelle

pubbliche amministrazioni. In particolare, risulta ancora insoddisfacente l’utilizzo della

valutazione ai fini del rafforzamento della relazione capo-collaboratore, della

formazione, dello sviluppo professionale, della migliore allocazione delle risorse umane

nelle diverse attività. Anche in conseguenza a questo, non sempre risulta rafforzata

come si vorrebbe la motivazione del personale, a volte frustrati dall’abitudine alla

distribuzione a pioggia degli incentivi, altre volte scarsamente coinvolti in un dialogo

costruttivo col capo ai fini del miglioramento del proprio contributo alla performance

dell’ente.

Sull’applicazione degli strumenti di valutazione ai vari livelli, comunque, si registrano

già nella grande parte degli enti intervistati considerevoli passi avanti: spesso una

tecnicalità elevata nella costruzione dei sistemi ma anche interessanti buone prassi

gestionali. Nella situazione di luci ed ombre che emerge, sembra di poter dire che i

miglioramenti più interessanti prodotti dall’esperienza di valutazione si siano registrati

non tanto nel sistema premiante in sé ma in un nuovo rapporto capo-collaboratore.

Sembra inoltre diffusa la consapevolezza che la buona applicazione degli strumenti di

valutazione potrebbe consentire la definitiva trasformazione del manager pubblico da

tecnico di sistemi e procedure amministrative a gestore di risorse.

In questo senso, l’indagine richiama l’esigenza di fornire supporti di competenza e

consapevolezza ai responsabili della valutazione, ma anche di accompagnare il

personale nella comprensione del senso della valutazione, per assicurarne il

coinvolgimento negli obiettivi e il miglioramento delle competenze. E, in più di cu caso,

anche la necessità di supportare le direzioni del Personale nella governance dell’intero

processo.

Bibliografia

C. Demmke, G. Hammerschmid, R. Meyer (2008), Measuring Individual and

Organisational Performance in the Public Services of EU Member States, EIPA

Maastricht.

17

M. Bonaretti (2009), Misurare serve… se cambiamo paradigma, SaperiPA, 24/11.

L. Bordogna (2009), “Imparare dal passato: per un processo di valutazione

realisticamente attuabile”, in AranNewsletter, 1-2.

G. Della Rocca, P.Mastrogiuseppe (2008), “Il performance management nella pubblica

amministrazione”, in Sviluppo&Organizzazione, maggio/giugno.

G. Valotti (2009), Fannulloni si diventa. Una cura per la burocrazia malata, Egea.

1

7

Le trasformazioni organizzative, del mercato del lavoro e delle

professioni negli ospedali italiani.

Anna M. Ponzellini

Testo pubblicato come capitolo nel libro: L. Bordogna e A.M. Ponzellini (a

cura di), Qualità del lavoro e qualità del servizio negli ospedali.

Organizzazione del lavoro e partecipazione dei lavoratori in Italia e in Francia,

Carocci, Roma, 2004

7.1 Premessa

Sia la scelta dei due paesi (Italia e Francia) da sottoporre al confronto, sia la metodologia

utilizzata per la ricerca (una metodologia “partecipata”) si sono rivelati molto appropriati

rispetto all’obiettivo generale di evidenziare l’esistenza in Europa di possibili traiettorie diverse

di riforma dei servizi sanitari e di modifica delle condizioni e dei rapporti di lavoro. Il confronto

tra paesi ha aperto infatti la possibilità di verificare costi e benefici, sul piano sociale, di

percorsi diversi di riforma e ha quindi consentito di esaminarne la trasferibilità in altri contesti

nazionali.

Da un lato infatti, Italia e Francia partono da due modelli di servizio sanitario non troppo

distanti eppure con specifiche caratteristiche nazionali, la più evidente delle quali è forse il

maggior grado di centralizzazione del sistema francese a confronto del decentramento a livello

regionale che caratterizza già da tempo il caso italiano. Su queste differenze “di partenza” si è

innestato un percorso di razionalizzazione economica e di apertura del mercato dei servizi

sanitari che risponde a logiche sostanzialmente simili dal punto di vista delle strategie di

riforma dei servizi ma che finisce per avere effetti parzialmente diversi nei due paesi – per

esempio in termini di autonomia gestionale dell’ospedale (che risulta più elevata in Italia) - e

rende in questo modo evidente la differente portata degli specifici sistemi di rappresentanza e

di regolazione del lavoro (ciò spiega, per esempio, il fatto che nel caso francese il processo di

razionalizzazione sia accompagnato da maggiore conflittualità nelle relazioni di lavoro).

Dall’altro, la scelta di una metodologia “partecipata”, caratterizzata dal costante

coinvolgimento dei militanti sindacali nella discussione in progress dei risultati delle indagini

sul campo, ha consentito di ricostruire con molta precisione (dato che le informazioni

provenivano, od erano vagliate, da chi opera direttamente sul campo) i fenomeni oggetto della

ricerca e anche di dare il via ad una riflessione all’interno del gruppo di esperti e dei due

sindacati coinvolti (Cfdt Santé Sociaux per la Francia e Fps Cisl per l’Italia) su quali percorsi di

riforma e su quali strategie degli attori sociali possano essere considerati ottimali per

affrontare la progressiva apertura al mercato di questo settore.

7.2

Le evidenze emerse dagli studi di caso

Gli studi di caso condotti nei tre ospedali italiani e nei tre ospedali francesi prescelti per

l’indagine (se ne veda una sintetica descrizione nel Cap.I) hanno innanzitutto ricostruito per

2

ciascuno di questi la situazione economico-produttiva, lo stato di avanzamento del processo di

riorganizzazione dettato dalla riforma sanitaria, il rapporto col territorio e il mercato sanitario

locale, il mercato del lavoro interno e il ruolo del sindacato. L’analisi si è particolarmente

soffermata su tre aspetti:

- l’impatto dei nuovi obiettivi di economicità imposti alle aziende sanitarie sulla qualità

del lavoro dei dipendenti;

- i cambiamenti intercorsi nella distribuzione delle mansioni e nella struttura delle

professioni all’interno degli ospedali;

- il ruolo del sindacato nella gestione del cambiamento.

7.2.1

Riduzione dei posti letto, riduzione media delle degenza

Sia negli ospedali italiani che in quelli francesi, la riorganizzazione avviata della riforma

sanitaria ruota, con qualche differenza tra i due paesi, attorno a tre innovazioni importanti:

l’introduzione delle nuove modalità di finanziamento delle attività (i Drg), l’apertura del

mercato a forme di concorrenza e l’avvio di processi di qualità e di accreditamento delle

strutture.

Lo sforzo di recupero di efficienza ed economicità del servizio a cui puntano le due prime

innovazioni si traduce contemporaneamente in una riduzione della durata media delle degenze

(DMD)1 e nello snellimento dei reparti tramite il taglio dei posti-letto. Si tratta di una tendenza

generale che viene confermata anche nella nostra indagine. In effetti, in tutti gli ospedali

analizzati è stata ridotta la durata media del ricovero: in particolare alla Clinique Pasterur -

dove è stato addirittura superato lo standard nazionale – questo processo è stato portato

avanti con decisione, mentre a Palermo è stato avviato un intervento per l’eliminazione dei

cosiddetti “ricoveri impropri”, come sono spesso quelli di un giorno.

Anche la riduzione dei posti letto è avvenuta in quasi tutti gli ospedali, per quanto in misura

diversa a seconda delle realtà e ancora solo in parte rispetto agli obiettivi prefissati. In genere

questi interventi non dovrebbero modificare il volume complessivo delle attività, tuttavia in

alcune realtà, anche in rapporto all’apertura della concorrenza tra ospedali, sono stati chiusi

alcuni reparti mentre in altre, come Clinique Pasteur e Hopital St. Nazaire, sono state aperti

nuovi servizi.. Anche dove la struttura generale dell’azienda non è cambiata, il taglio dei posti

letto non risulta quasi mai omogeneo tra i vari reparti proprio perché si intreccia con le

strategie aziendali di specializzazione: così vediamo reparti dove i letti sono invece aumentati -

è avvenuto, per esempio, in tutte le strutture di day-hospital sia di medicina che di chirurgia -

e in questo caso hanno avuto luogo anche riorganizzazioni e mobilità del personale. La

riduzione media di posti-letto più consistente risulta quella di Padova, dove sono stati già

tagliati il 20% dei letti (con l’obiettivo, però, di raggiungere il 45%). Fa eccezione il caso di St.

Nazaire, dove invece il numero complessivo dei letti è aumentato, in ragione di una strategia

di rilancio dell’ospedale nel territorio.

7.2.2

Carichi di lavoro e flessibilità funzionale

1 Per una analisi della durata media delle degenze in Italia, si vedano i Rapporti Oasi 2000 e 2001 (pp. 56

e segg.)

3

Riduzione della durata dei ricoveri e eliminazione/riorganizzazione dei posti-letto attribuiti ai

vari reparti, hanno avuto conseguenze sulle condizioni di lavoro dei dipendenti, soprattutto in

termini di aumento del carico di lavoro: Il maggior turn-over dei degenti prodotto dalla

riduzione della durata del ricovero, comporta infatti per gli infermieri una intensificazione della

attività di cura da prestare quotidianamente a ciascun malato. L’aumento del carico di lavoro

risulta diverso a seconda dell’azienda: una maggiore pressione sui dipendenti viene segnalata

soprattutto negli ospedali francesi e a Padova (in particolare per gli infermieri dei Laboratori).

Negli altri ospedali italiani la situazione sembra meno pesante, anche per un rapporto meno

stringente tra numero dei letti e numero dei dipendenti (che, per esempio, consente a Careggi

e a Palermo di mantenere i turni cosiddetti “in quinta”, particolarmente agevoli dal punto di

vista delle condizioni di lavoro).

In alcuni dei casi (in entrambi i paesi), questo effetto di intensificazione del lavoro risulta

ampliato dal diffondersi di forme di flessibilità funzionale dell’uso della manodopera. Una delle

modalità più diffuse di flessibilità è costituita dalla pratica di utilizzo fungibile del personale

anche in aree e in mansioni diverse da quelle di abituale riferimento. Questo avviene i

particolare nei casi in cui vi sono stati accorpamenti di attività (come le sale operatorie delle

Cardiochirurgie di Palermo), oppure nelle Radiologie, dove il personale viene fatto ruotare su

diverse macchine per saturarne meglio l’utilizzo. Un aumento della rotazione del personale è

segnalato anche negli ospedali italiani dove si è realizzata la “dipartimentalizzazione”, dato che

in questo caso il personale è potenzialmente utilizzabile su tutti i reparti di uno stesso

dipartimento. Casi di mobilità interna tra reparti (in genere, definitiva) sono segnalati

soprattutto negli ospedali francesi, dove i processi di riorganizzazione hanno raggiunto un fase

più avanzata: in particolare, a St.Nazaire la chiusura di alcuni reparti e l’apertura di nuove

attività, a parità di costi, hanno comportato trasferimenti del personale in base alle nuove

esigenze (mentre anche all’ospedale di Mets-Thionville è in atto un analogo processo di

spostamento dei letti e del personale verso le attività con domanda in aumento).

7.2.3

Riduzione e riorganizzazione degli orari di lavoro e miglioramento della qualità dei servizi

L’aumento della flessibilità negli orari di lavoro è altrettanto frequente. In molti ospedali si

segnala innanzitutto, a seguito delle riorganizzazioni, un consistente aumento degli

straordinari. Si tratta di un dato in apparente contraddizione con la riduzione dei posti letto,

ma spiegabile dal parallelo aumento di accessi che si registra in tutti gli ospedali francesi e

anche a Palermo. In alcuni casi, comunque, la richiesta di lavoro straordinario sembrerebbe

causata anche dal fatto che le riorganizzazioni non sono ancora regime, ovvero sono dovute a

situazioni di “cattiva organizzazione”, come viene denunciato alla Clinique Pasteur. In altri casi,

come a Metz-Thionville, il consistente aumento degli straordinari in Pronto Soccorso è dovuto

al tentativo di risparmiare sull’organico nel quadro di una intensa razionalizzazione dei costi. A

Padova, il problema degli straordinari più che ai nuovi vincoli sul costo del lavoro o agli effetti

dei cambiamenti organizzativi appare strutturalmente legato a quella cronica carenza di

personale infermieristico che spesso viene denunciata negli ospedali del nord Italia. In

particolare, in questo ospedale si segnala che la maggior parte degli infermieri professionali

non solo è costretta a fare straordinari ma avrebbe persino difficoltà a fare i “recuperi” e

anche le ferie: non è estranea a questo fenomeno dell’eccessivo numero di ore lavorate dagli

infermieri professionali la contemporanea scarsissima presenza di personale di qualifica

inferiore (Otaa e ausiliari), come si vede anche dalla Tab.7.1.

4

Un altro aspetto di flessibilità prodotto dalla riorganizzazioni è dovuto alla introduzione di turni

di lavoro per alcuni gruppi di personale che precedentemente lavoravano “a giornata”. Si

tratta di modifiche dell’orario mirate al migliore utilizzo degli impianti: per esempio, le sale

operatorie delle Cardiochirurgie di Palermo e le Radiologie di St.Nazaire funzionano adesso su

un orario più lungo. In altri casi si tratta di cambiamenti dovuti ad interventi per il

miglioramento del servizio all’utenza: per esempio, al personale Otaa del Pronto Soccorso di

Careggi è stato chiesto di lavorare su turni per ridurre i tempi di attesa dei pazienti (e ne sono

contenti, perché migliora l’organizzazione del tempo libero).

In altri casi, gli interventi per il miglioramento della qualità dei servizi sanitari ha prodotto altri

tipi di cambiamento dell’orario di lavoro: per esempio, a causa del prolungamento degli orari

di apertura al pubblico, il personale addetto ai prelievi di Padova attualmente lavora anche al

pomeriggio e al sabato mattina, mentre nello stesso ospedale ai tecnici dei Laboratori è stato

chiesto di anticipare l’ingresso al mattino (per rendere possibile la consegna dei referti nella

giornata).

Un’altra importante modifica dell’orario è avvenuta con il forte aumento del lavoro part time.

In Francia si è diffusa la modalità di orari ridotti “temps choisi” (a scelta del dipendente), che

ha creato non pochi problemi nella riorganizzazione degli orari ma anche negli ospedali italiani

il ricorso al part time sta aumentando rapidamente.

Va aggiunto che la riorganizzazione delle aziende ospedaliere sta avvenendo in Francia in

concomitanza con l’applicazione delle leggi sulla riduzione degli orari di lavoro. Tra i casi

analizzati, è particolarmente quello della Clinique Pasteur che si segnala per la compiutezza e

l’efficacia con cui è stata negoziata la riduzione dell’orario a 33 ore medie settimanali

(organizzate secondo cicli di quattro settimane, con riposi a giornata o a mezza giornata

secondo la scelta del lavoratore). Il nuovo orario è stato introdotto con molta soddisfazione sia

del sindacato (per il consistente numero di assunzioni che sono state realizzate) che anche

della direzione (che ritiene migliorata la sua immagine nei confronti dei clienti e delle altre

aziende).

7.2.4

Cambiamenti delle mansioni

La necessità di dimensionare l’organico, da un lato, e dall’altro quella di migliorare la qualità

del servizio stanno producendo una progressiva trasformazione delle professioni

infermieristiche, di cui si evidenziano nella ricerca alcuni primi segnali. La trasformazione va sia

nel senso di parziali modifiche del contenuto delle mansioni svolte, sia nel senso di

cambiamenti nella divisione del lavoro, ovvero nella ridistribuzione dei compiti tra le diverse

qualifiche professionali.

Tra le modifiche del contenuto delle professioni, dalla ricerca risulta innanzitutto che in

generale è aumentata l’importanza dei compiti gestionali a carico dei capi-sala: è una tendenza

particolarmente segnalata alla Clinique Pasteur, ma vale per tutti gli ospedali. Per quanto

riguarda invece le mansioni dell’infermiere professionale, il dato più evidente riguarda

l’aumento dei compiti di tipo amministrativo: Uno dei fattori che sta ampliando le competenze

burocratiche nel lavoro infermieristico è l’introduzione delle nuove procedure di controllo

della qualità, in quanto esse prevedono la minuta compilazione di report su tutte cure prestate

da parte del personale infermieristico, mirata a garantirne la “tracciabilità”. Ma vi sono anche

altre cause: per esempio, all’ospedale di Metz-Thionville, l’impossibilità a causa dei vincoli di

budget di ampliare l’organico costringe gli infermieri del Pronto Soccorso a svolgere anche i

5

compiti amministrativi connessi all’accettazione dei pazienti. Al contrario a Padova, dove il

personale addetto all’assistenza infermieristica scarseggia, si è tentata la strada di assumere

impiegati amministrativi da destinare ai reparti perché svolgano alcuni dei compiti burocratici

che normalmente dovevano svolgere i capi-sala (ma la soluzione non sembra funzionare).

I nuovi compiti amministrativi a cui sono sottoposti gli infermieri professionali riducono il

tempo che essi possono destinare al contatto diretto col paziente: non a caso, sia a Padova che

alla Clinque Pasteur di Brest – probabilmente le due aziende dove il processo di

riorganizzazione è andato più avanti - gli infermieri lamentano che “la qualità della prestazione

assistenziale si è ridotta”.

L’impatto della introduzione di nuovi protocolli di qualità tocca in modo ancora più specifico i

Laboratori di analisi, dove sono sensibilmente cambiate le procedure: in particolare

all’ospedale di St. Nazaire i tecnici dei laboratori si lamentano della parcellizzazione delle

mansioni e della rutinarietà del lavoro (e il sindacato è preoccupato del dimensionamento di

questi organici che è stato reso possibile dalla standardizzazione delle procedure di lavoro).

Modifiche delle competenze del personale sanitario, come abbiamo visto, sono anche quelle

indotte dal generale aumento della polivalenza professionale. Dall’indagine emerge che in

genere la rotazione delle mansioni è vista con diffidenza dal personale, perché genera stress

ed aumento del carico di lavoro. Va però anche aggiunto che, nelle situazioni più innovative,

questo fenomeno della polivalenza, di pari passo col diffondersi del lavoro di squadra, produce

anche arricchimento professionale e una maggiore responsabilizzazione del personale (come è

segnalato nel caso di Palermo).

7.2.5

Cambiamenti della struttura del personale

Queste modifiche e adattamenti del contenuto della attività infermieristica – anche a fronte,

per esempio nel caso italiano, della mancanza di un preciso mansionario – comportano un

parziale riassestamento dei confini tra le varie professioni sanitarie e sono, a loro volta, il

sintomo di un processo di razionalizzazione della struttura del personale - talvolta più esplicito,

come nel caso francese, tal’altra più contraddittorio, come nel caso italiano – che sembra in

larga misura orientata dalla necessità di ridurre il costo del lavoro. Qui le differenze tra Italia e

Francia si fanno più evidenti.

Da un lato, infatti, è una tendenza condivisa sia dai casi italiani che da quelli francesi, quella di

una maggiore importanza del ruolo del capo-sala, individuata come la figura-chiave per

rendere più efficiente il lavoro di tutto il reparto, alla quale quindi vengono affidati soprattutto

i compiti di coordinamento e controllo.

Per quanto riguarda, invece, le altre figure infermieristiche, le tendenze in corso nei due paesi

appaiono almeno in parte divergenti. Gli ospedali francesi, infatti, per problemi di costo

tendono a dimensionare il numero degli infermieri professionali, riservando loro i compiti più

tecnico-specialistici delle cure e affidando invece agli aiuto-infermieri (aides-soignantes) la

maggior parte del lavoro di assistenza al malato (e ad altre specifiche figure il rapporto con i

parenti). A causa di ciò, inoltre, gli infermieri professionali degli ospedali francesi lamentano di

essere in pochi a gestire un numero crescente di aiuto-infermieri. Come si vede, l’effetto

complessivo che risulta da questi cambiamenti nella divisione del lavoro è quello di un

processo di “slittamento verso l’alto” - in termini sia di competenze tecniche che di

competenze gestionali – delle mansioni dell’infermiere professionale ma, insieme, anche lo

6

svuotamento di questa professione di un contenuto importante come è quello dei compiti di

assistenza al malato.

Negli ospedali italiani, la situazione è diversa e, per alcuni aspetti, opposta, anche a causa di un

diverso mercato del lavoro e struttura delle professioni2. Soprattutto in situazione di scarsità di

personale (come a Padova), l’inesistenza della figura dell’aiuto-infermiere (aide-soignante) e la

scarsità degli Otaa - operatori tecnici addetti all’assistenza con compiti meramente di tipo

alberghiero: pulizia e accudimento semplice del malato - fa sì che gli infermieri professionali

siano spesso costretti a svolgere mansioni di contenuto professionale inferiore. Ma si registra

anche una situazione opposta: dove gli infermieri professionali non scarseggiano, come a

Careggi, l’azienda cerca di risparmiare sui costi sostituendo questi ultimi con gli Otaa nei turni

di notte.

Per capire il perché di tendenze così divergenti tra Italia e Francia nella definizione del

contenuto delle mansioni e dei confini tra le professioni, è utile dare un’occhiata alla struttura

del personale dei diversi ospedali, come evidenziata dalla tabella seguente.

Tabella 7.1 Distribuzione del personale di cura nei casi analizzati

(rapporti tra le diverse categorie professionali)

Ospedale Infermieri Profession/

Aides-soignantes (o Otaa)

Aides-soignantes (o Otaa)/

Ausiliari

St. Nazaire 0,97 2,49

Metz-Thionville 1,10 5,70

Clinique Pasteur 1,50 1,50

Padova 11,20 0,70

Palermo 7,80 0,40

Careggi 5,50 1,50

I dati sono riferiti al 1998-99

Come si vede dalla prima colonna, anche assimilando gli Otaa agli Aides-soignantes francesi, il

rapporto tra infermieri professionali e restante personale di cura risulta enormemente più

elevato in Italia rispetto agli ospedali francesi: basta osservare Padova dove ci sono più di 11

infermieri professionali ogni Otaa, contro St. Nazaire dove il numero degli aiuti è persino

superiore a quello dei professionali.

Se poi si considera che è molto basso anche il numero degli ausiliari3, si comprende perché nel

corso dell’indagine sia emerso come gli infermieri professionali italiani si dicano costretti a

supplire spesso ai compiti di entrambe le figure professionali inferiori. A prima vista, dunque, i

risultati dell’indagine evidenziano una situazione del mercato del lavoro infermieristico italiano

che, anche indipendentemente dalle riorganizzazioni in corso, sembrerebbe destinata a

generare per gli infermieri professionali italiani qualche rischio di dequalificazione4.

2 In Italia nel 1980 è stata abolita la figura dell’infermiere generico (simile a quella francese dell’aide-soignante) e creata, anche attraverso la rapida riqualificazione di tutti gli infermieri generici esistenti, una sola figura infermieristica che è quella dell’infermiere professionale. Solo dieci anni dopo, si è parzialmente cercato di ovviare a questo appiattimento professionale attraverso la creazione della figura dell’Otaa (operatore tecnico addetto all’assistenza) che comunque non viene attualmente riconosciuta come figura infermieristica. Gli Otaa sono ora presenti in tutti gli ospedali pur in numero ancora limitato (e non paragonabile a quello degli aides-soignantes francesi) anche se molte Regioni hanno attualmente in corso programmi per la rapida formazione di figure di questo tipo. 3 Gli Ausiliari comunque sono una qualifica in forte riduzione sia in Italia che in Francia, a causa degli interventi di outsourcing di alcune attività come i servizi di pulizia, la preparazione dei pasti, etc. 4 La situazione tuttavia è contraddittoria. Infatti a fronte di questo rischio di dequalificazione prodotto dalla unificazione della professione, vi è una tendenza alla riqualificazione indotta invece dal progressivo innalzarsi del curriculum di studi richiesto per esercitarla: già da qualche anno è previsto il diploma universitario triennale (e, più recentemente, la laurea).

7

7.3

I risultati dell’indagine su questionario ovvero le percezioni dei dipendenti sul cambiamento

Oltre agli studi di caso, la ricerca prevedeva degli approfondimenti attraverso un questionario

ai lavoratori dei reparti che avevano subito i cambiamenti più incisivi, generalmente connessi

ai processi di qualità e alla riduzione o riorganizzazione degli orari di lavoro.

L’obiettivo specifico del questionario era quello di valutare l’impatto che le riforme in atto

avessero avuto sulle condizioni di lavoro dei dipendenti e insieme verificare se i lavoratori

fossero stati coinvolti dalle direzioni aziendali - direttamente o anche indirettamente, tramite i

loro rappresentanti sindacali - nelle decisioni di cambiamento organizzativo.

Le evidenze emerse dall’indagine con questionario ci dicono innanzitutto che alcune percezioni

sul cambiamento da parte di lavoratori sono comuni ad entrambi i paesi e a tutti sei gli

ospedali. Le principali sono le seguenti:

◊ innanzitutto, il carico di lavoro individuale a seguito degli interventi di riorganizzazione

è percepito come accresciuto (42% dei casi) mentre l’organico è rimasto invariato

(secondo il 59% degli intervistati); tuttavia la qualità del servizio è percepita come

migliorata dal 64% degli intervistati;

◊ la pratica professionale appare invece poco mutata: non c’è stata nessuna modifica

reale del contenuto del lavoro per il 60% degli intervistati; sempre per il 60% degli

intervistati non si nota alcun cambiamento nelle relazioni dell’ospedale con l’esterno;

◊ complessivamente il sindacato appare essere stato poco coinvolto nel cambiamento:

“ha partecipato” solo per il 32% degli intervistati (ma “è stato informato” per il 50%).

Tra il 40% e il 60% degli intervistati mostra di ignorare la posizione del sindacato sulla

riorganizzazione (Cisl e Cfdt sono però i due sindacati che sono percepiti come quelli

che più hanno coinvolto gli associati nella messa in opera del cambiamento: 32% degli

intervistati).

A fronte di queste convergenze, emergono anche alcune articolazioni all’interno del campione,

riferibili alle diverse soggettività, alle culture nazionali e, più spesso ancora, alle culture

aziendali.:

Da un lato sono infatti le donne ad essere più propense a sottolineare i cambiamenti – in

meglio o in peggio - della qualità del servizio e della qualità della vita fuori dal lavoro, mentre,

con riferimento all’anzianità di servizio, sono i più giovani quelli che più spesso non hanno

opinioni sul cambiamento; e soprattutto non sanno che dire sul ruolo del sindacato.

Più significative differenze riguardano però la variabile “paese”, che si è rivelata molto

discriminante in particolare su alcuni aspetti: per esempio, gli italiani vedono più spesso una

intensificazione del lavoro, i francesi sono più propensi a percepire la loro situazione come

immutata o anche migliorata (ciò anche se gli indicatori di carico di lavoro sembrerebbero più

severi nei casi francesi).

La variabile maggiormente discriminante resta comunque l’“ospedale”: ciò dimostra che da un

lato esiste una influenza della cultura aziendale sulla percezione dei problemi da parte degli

intervistati e dall’altro che forse la riorganizzazione ha operato in modo diverso a seconda

dell’azienda e quindi ne è stato oggettivamente diverso l’impatto sulle condizioni di lavoro e il

Inoltre il monopolio della figura - “alta” e quindi più difficilmente riproducibile - dell’infermiere professionale, unitamente al tradizionale squilibrio nord-sud del mercato del lavoro italiano contribuiscono a mantenere nel nostro paese l’impressione, di una “emergenza infermieristica”, che in realtà non riguarda tanto la specifica figura dell’infermiere professionale ma in generale addetti all’assistenza infermieristica.

8

comportamento dei rappresentanti sindacali aziendali. Ad esempio, rispetto alla durata delle

degenze – che risulta statisticamente diminuita dappertutto – vi sono ospedali che non hanno

notato differenze (Palermo, Metz-Thionville, Clinique Pasteur) e altri dove, al contrario, la gran

parte degli intervistati ha notato la riduzione della durata e il conseguente aumento del carico

di lavoro per il personale (a Padova ben il 79% degli intervistati).

Anche il tipo di servizio, comunque, ha avuto una discreta influenza nel determinare le risposte

degli intervistati, come si vede ad esempio, dal fatto che è soprattutto il personale dei

Laboratori – nei diversi ospedali sia in Italia che in Francia - che nota che i rapporti con

l’utenza sono cambiati (mentre quelli che lo notano di meno sono quelli delle Cardio-

chirurgie).

Analizzando separatamente i due temi centrali dell’indagine – qualità del servizio e qualità

della vita (di lavoro ed extra-lavoro) - rispetto al miglioramento della qualità delle cure, come

abbiamo visto, risulta che circa il sessanta per cento degli intervistati pensa che la qualità della

assistenza sia migliorata. A questo proposito è interessante notare che tale percentuale sale ad

oltre i due terzi tra coloro che sono stati direttamente coinvolti nel cambiamento: ciò significa

che il giudizio sulla qualità delle cure viene in qualche modo influenzato dalla partecipazione

(questo dato conferma, se fosse necessario, l’utilità di strategie manageriali e di relazioni

industriali mirate alla partecipazione dei lavoratori).

Inoltre, la percezione del miglioramento della qualità del servizio è piuttosto diversa nei diversi

gruppi professionali: riconoscono che vi è stato soprattutto gli amministrativi e i medici e

dirigenti non-medici (rispettivamente 83% e 72%), lo vedono meno gli infermieri e gli ausiliari

(solo il 52%).. E sono soprattutto i lavoratori esterni al servizio quelli propensi a vedere

migliorata la qualità delle cure (72%). Questi ultimi dati ci dicono insomma che il personale

infermieristico interno ai reparti oggetto del cambiamento tra tutti i lavoratori è quello un po’

meno incline a apprezzare i risultati di qualità dei cambiamenti realizzati con la

riorganizzazione del reparto.

Esplorando meglio il tema del rapporto tra le condizioni di lavoro e la qualità della vita,

abbiamo innanzitutto notato che c’è una stretta relazione tra risposte positive sulla

diminuzione della durata delle degenze e percezione di un peggioramento della propria

condizione di lavoro. Abbiamo notato comunque che la percezione di cambiamenti nelle

condizioni di lavoro è diversa a seconda dell’ospedale: per esempio, a Padova una maggioranza

consistente di lavoratori giudica che le proprie condizioni di lavoro siano peggiorate mentre a

Pasteur e a Careggi una buona parte degli intervistati le considera migliorate. A Palermo,

invece, oltre la metà pensa che non siano proprio cambiate per nulla.

Tabella 7.2 Percezione del cambiamento nelle condizioni di lavoro nei diversi ospedali

Condizioni

di lavoro

Ospedali

St. Nazaire Matz-

Thionv

Clin.

Pasteur

Padova Palermo Careggi

Migliorate 13

39,4%

8

25,0%

13

43,3%

7

13,7%

17

32,7%

14

43,7%

Peggiorate 11

33,3%

13

40,6%

10

33,3%

32

62,8%

7

13,5%

5

15,6%

Inalterate 9

27,3%

11

34,4%

7

23,3%

12

23,5%

28

53,8%

13

40,1%

Totale 33 32 30 51 52 32

9

100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0% 100,0%

Invece, la percezione sui cambiamenti avvenuti nella qualità della vita fuori dal lavoro (in

generale essa risulta è cambiata per il 46% degli intervistati) è risultata strettamente correlata

al tipo di servizio in cui si lavora: come si vede dalla tabella che segue, quelli che dichiarano di

avere subito cambiamenti nella vita extralavorativa sono soprattutto i lavoratori delle Cardio-

chirurgie e in generale nei reparti di degenza (Pediatria, Oculistica, Day-Hospital), mentre sono

più spesso i lavoratori dei Laboratori e delle Radiologie a considerarla invariata.

Tabella 7.3 Percezione del cambiamento della qualità della vita nei diversi servizi

La vita

fuori dal

lavoro è

stata

modificata

Servizi

Laboratori

Radiologie ProntoSoccorso Cardio-

chirurgie

DayHospital Oculistica

/Pediatria

Si 16

30,2%

13

35,14%

21

40,4%

21

70,0%

17

54,8%

19

61,3%

No 37

69,8%

24

64,9%

31

59,6%

9

30,0%

14

45,2%

12

38,7%

Totale 53

100,0%

37

100,0%

52

100,0%

30

100,0%

31

100,0%

31

100,0%

In sintesi, la percezione che ricavano i dipendenti dai processi di riforma sanitaria e dalle

conseguenti riorganizzazioni delle loro aziende è innanzitutto quella di processi che si stanno

compiendo abbastanza velocemente, sotto una significativa pressione economica che punta al

riequilibrio dei conti (specialmente in Italia) e a far fronte alla accresciuta competizione sul

mercato (soprattutto in Francia).

Inevitabilmente, gli operatori avvertono su di loro un aumento del carico di lavoro, in gran

parte risultante oggettivamente dai processi generalizzati di riduzione delle durate medie dei

ricoveri, che rendono più “densa” l’attività giornaliera prestata a ciascun paziente. E’ però

interessante notare come tutti gli operatori, sia in Italia che in Francia percepiscano – con

soddisfazione – anche il miglioramento della qualità del servizio al paziente. Una percezione

che è frutto in parte della oggettiva introduzione dei processi di qualità ed accreditamento

delle strutture, in parte forse anche della pressante azione di comunicazione esterna ed

interna sul tema della qualità del servizio.

Un po’ preoccupante, invece il diffuso giudizio negativo espresso dagli intervistati in merito al

coinvolgimento di cui sono stati oggetto nel processo decisionale che ha portato ai

cambiamenti in corso: emerge un quadro dove il sindacato – tranne alcuni casi, come Palermo

per l’Italia o la Clinica Pasteur per la Francia – appare essere tenuto abbastanza ai margini dalle

direzioni aziendali e comunque dove lo stesso sindacato – a parte qualche differenza tra sigla e

sigla – sembra essere stato spesso incapace di far partecipare i suoi associati al controllo del

processo di cambiamento.

7.4

Conclusioni

10

7.4.1

Francia e Italia: due riforme dei servizi sanitari e una riforma del rapporto di impiego pubblico

Come viene evidenziato anche da altre ricerche5, il processo di apertura dei mercati e di

privatizzazioni dei servizi pubblici in Europa sta comportando importanti conseguenze sulle

relazioni di lavoro. Ciò vale anche per i servizi di welfare e, in particolare, per la sanità. In

questo settore, da un lato i processi di riforma stanno avanzando con molta cautela e in

generale con il mantenimento da parte dello stato (con poche eccezioni, tra cui il Regno Unito

e in parte Spagna e Portogallo) della proprietà dei servizi. Dall’altro – che si vada verso la

privatizzazione dei servizi o no - le relazioni di lavoro appaiono comunque soggette a notevoli

cambiamenti, dovuti al crescere della attenzione alle performance delle imprese e ai nuovi stili

di gestione aziendale che hanno come effetto di trasformare le relazioni di lavoro

tradizionalmente esistenti nei servizi pubblici e nelle pubbliche amministrazioni e di “ridurne la

distanza rispetto a quelle esistenti nei settori privati, anche attraverso la introduzione di

sistemi di valutazione del personale, incentivi retributivi e forme più ‘aggressive’ di gestione

delle risorse umane” (Eiro 1999).

La ricerca Refipar conferma come il processo di razionalizzazione economica e di progressiva

apertura del mercato che coinvolge il settore sanitario stia avvenendo in entrambi i paesi

(anche più velocemente che altri servizi in via di liberalizzazione) attraverso interventi di

riforma successivi che mostrano parziali convergenze: è il caso, per esempio, del

decentramento amministrativo e gestionale, delle nuove partnership tra pubblico-privato,

dell’apertura di forme, per ora limitate, di concorrenza. Dal punto di vista sociale, una certa

progressività degli interventi istituzionali di riforma sta lasciando agli attori sociali, sia in Italia

che in Francia, la possibilità di elaborare ed esprimere una propria posizione in merito al

cambiamento e di adeguare alla nuova situazione l’organizzazione della propria

rappresentanza, il sistema di relazioni sindacali e le forme di regolazione del lavoro. D’altro

canto, però, la ricerca rileva anche l’emergere di un nuovo stile di gestione da parte del

management ospedaliero, molto orientato alla efficienza organizzativa e alla economicità delle

aziende e non sempre incline ad associare i lavoratori o i loro rappresentati al processo

decisionale che riguarda le riorganizzazioni.

Date queste premesse, non stupisce che dalla ricerca siano già evidenziati significativi

cambiamenti sia nell’organizzazione del lavoro che nelle relazioni di lavoro che riguardano

entrambi i paesi. Tuttavia, mentre per il caso francese – dove il rapporto di impiego nella

sanità resta saldamente ancorato allo statuto dei pubblici dipendenti – il cambiamento sembra

interessare particolarmente la ridefinizione dei contenuti e dei confini delle professioni

sanitarie, nel caso italiano – dove nel frattempo ha preso le mosse la riforma del rapporto di

pubblico impiego (la cosiddetta “privatizzazione del rapporto di lavoro”) - le innovazioni

appaiono più decise e particolarmente legate all’introduzione di nuovi strumenti di gestione

delle risorse umane: lavoro per progetti-obiettivi, sistemi incentivanti, strumenti di valutazione

della performance, individualizzazione dei trattamenti retributivi (Bordogna 2002).

7.4.2

Capisaldi condivisi: efficienza aziendale e qualità del servizio

5Eiro (1999), Privatisation and Industrial Relations in Europe, www.eiro.eurofound.ie/1999/ 12/study/TN9912201s.html.

11

Una relazione molto stretta collega il processo di razionalizzazione economica del settore

sanitario ai cambiamenti che si stanno verificando nell’organizzazione del lavoro.

Come abbiamo visto nel secondo capitolo, il passaggio a forme di finanziamento dell’ospedale

controllate attraverso i Drg e l’apertura di una iniziale concorrenza con le strutture private (e

anche tra strutture pubbliche, come avviene ormai correntemente in Francia), ha posto in

primo piano l’esigenza di maggiore efficienza, che da un lato deve essere recuperata attraverso

la riduzione del numero dei letti attribuiti ai diversi reparti e la riduzione della durata media

delle degenze e, dall’altro, attraverso la riduzione del costo del personale, elemento importante

del processo di riforma, dato che nel settore la spesa per il personale tocca i due terzi della

spesa corrente6. Si cerca di raggiungere questo ultimo obiettivo vuoi tramite il contenimento

tout court degli addetti (per esempio, come in Francia, rispettando un rapporto ottimale tra

organico e posti letto), vuoi tramite il progressivo riequilibrio interno delle risorse (che passa,

in genere, attraverso una riduzione di amministrativi e tecnici a favore dei sanitari), vuoi anche

attraverso l’esternalizzazione dei servizi che non appartengono al core business sanitario, con

conseguente riduzione o eliminazione di alcune figure professionali (addetti alla cucina, alle

lavanderie, alle pulizie dei reparti, alle manutenzioni, etc.). Questi obiettivi di economicità

aziendale portano in primo piano le competenze gestionali e non a caso, proprio in questi anni

gli ospedali vedono una innovazione importante come quella della creazione - o del

rafforzamento - della figura-chiave del direttore generale dell’azienda sanitaria/ospedaliera7,

non dissimile da analoghe figure del mondo delle imprese. In diversi paesi europei, infatti,

sono proprio i servizi sanitari i primi tra i settori pubblici a sperimentare forme di gestione di

stampo privatistico, il cosiddetto “new public management” (Hood 1991, Bach 1999)8.

L’altro obiettivo delle riforme sanitarie è quello di sviluppare la qualità dei servizi: a tale fine in

molti paesi, tra cui l’Italia e la Francia, sono state introdotte procedure obbligatorie di

certificazione/accreditamento a cui devono sottoporsi tutti gli istituti di cura pubblici e privati9.

A livello di organizzazione ospedaliera, l’introduzione di standard di qualità si traduce

nell’adozione di procedure di controllo interno nei diversi processi di diagnosi e di cura e in una

nuova cultura di orientamento all’utente da parte dell’insieme del personale.

La ricerca Refipar conferma questi orientamenti. Efficienza aziendale e contenimento del costo

del lavoro sono infatti i leit motiv delle riorganizzazioni di tutti e sei gli ospedali analizzati. Per

esempio, la figura di direttore generale - con compiti simili nei due paesi, anche se con più

larga autonomia in Italia – risulta in funzione in tutti i sei gli ospedali. Anche i processi di

certificazione della qualità sono in corso in tutti gli ospedali. Il caso più evoluto di intervento

sulla qualità è quello di St:Nazaire, dove è stato ultimato un processo di accreditamento che

tocca la totalità dei servizi ospedalieri. Invece negli ospedali italiani – a parte Careggi, che è

interessato da un progetto complessivo di circoli di qualità – gli interventi sulla qualità

riguardano per il momento solo i Laboratori e le Radiologie.

Per quanto riguarda però i nuovi obiettivi di efficienza, analizzando i dati gestionali in dettaglio,

possiamo rilevare che i nuovi standard previsti dalle riforme sanitarie – in particolare, il

rapporto tra posti-letto e popolazione residente (o tra posti-letto e accessi) e quello tra addetti

e posti letto – sono raggiunti in modo diversificato nei due paesi:. Allo stadio attuale, come si

6Libera traduzione del Rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (2000), in Igiene e Sanità Pubblica, n.1/2 gennaio/aprile 2001 7 La figura del Direttore generale è stata creata in Italia in seguito al D.lgs.502/1992. In Francia invece esisteva già ma è sta rafforzata e resa più autonoma dalla riforma. 8 Secondo Bach (1999), la filosofia del “new public management” è stata decisiva, per esempio, nel condizionare la ristrutturazione manageriale ed organizzativa e modificare radicalmente il contesto delle relazioni industriali nel sistema sanitario inglese.

12

vede dalla tabella seguente, appare decisamente più avanzata la razionalizzazione del sistema

francese.

Tabella 7.4 Accessi, posti letto, organici nei casi analizzati

Ospedale Accessi

(escluso day-hospital)

Posti letto Organico

(esclusi medici)

St.Nazaire 30.360 1.028 1.845

Metz-Thionville 70.000 2.004 3.573

Clinique Pasteur 9.816 197 268

Padova 57.428 1.908 4.578

Palermo 54.245 1.274 2.763

Careggi 60.696 1.950 4.641

I dati sono riferiti al 1998-99

7.4.3

Elementi di differenziazione: la regolazione delle professioni sanitarie e la politica degli orari di

lavoro

Se, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, gli imperativi generali che presiedono a

questi processi di riorganizzazione degli ospedali sono molto simili nei due paesi, è però

diverso il contesto organizzativo e di mercato del lavoro in cui questi cambiamenti si situano.

Per esempio, la ricerca dà atto di notevoli diversità tra Italia e Francia nel mercato del lavoro e

nella regolazione e struttura delle professioni sanitarie e di questo bisogna tenere conto

quando si analizza l’impatto delle riforme sulle condizioni di lavoro. In generale possiamo dire

che, nel quadro della maggiore attenzione al livello degli organici che caratterizza tutte le

riforme dei servizi pubblici, l’esistenza di una equilibrata struttura delle professioni – nel caso

della sanità, un adeguato rapporto tra medici ed infermieri, tra infermieri professionali e figure

di supporto, tra amministrativi, tecnici e sanitari – diventa un fattore critico di successo per la

performance ospedaliera. In questo senso, dalla ricerca emerge che il caso francese ha qualche

chance in più di quello italiano per rispondere positivamente al cambiamento. I due paesi

condividono, infatti, senza grandi differenze, un trend generale di contenimento degli organici,

una riduzione delle figure tecniche ed amministrative, un processo di outsourcing di attività

(ristorazione, pulizie, lavanderie, etc.) e quindi di occupati nelle qualifiche ausiliarie.

A differenza della Francia, però, l’Italia deve fare i conti con un mercato del lavoro che

presenta un notevole squilibrio territoriale nella presenza delle figure infermieristiche –

tradizionalmente carenti negli ospedali del nord del paese – che si sovrappone (e forse anche

si spiega) con l’assenza di figure di supporto infermieristico (vedi Par.7.2.5). Questa allocazione

non ottimale delle risorse rappresenta sicuramente un punto di debolezza del mercato del

lavoro e dell’intero sistema sanitario10.

Diverso anche il contesto che caratterizza le politiche degli orario di lavoro. In Francia,

l’introduzione, nel 1996 e nel 1998, delle due leggi (loi Robien e loi Aubri) sulla riduzione

dell’orario di lavoro proprio contemporaneamente al processo in corso di riforma della sanità,

ha posto le direzioni ospedaliere e i sindacati del settore di fronte alla non facile sfida di

conciliare il mantenimento della qualità delle cure con la riduzione a 35 ore dell’orario

9 In Italia procedure obbligatorie di certificazione sono previste solo per alcuni servizi, tipo i laboratori e le radiologie. 10 Nel caso italiano, accanto a questo squilibrio ne va segnalato un altro, che è quello relativo alla sovrabbondante offerta di personale medico (il mercato del lavoro e le condizioni di lavoro del personale medico non erano tuttavia tema di questa ricerca).

13

settimanale dei lavoratori e con i nuovi obiettivi di contenimento della spesa. In Italia, invece,

la questione della riduzione degli orari non sembra affatto di attualità: qui, infatti, l’orario di

lavoro nella sanità, come in tutto il settore pubblico, è già da anni consolidato a 36 ore

settimanali (dopo l’ultimo contratto 35 ore per i turnisti) e inoltre, specialmente negli ospedali

del nord dove c’è carenza di infermieri, la pratica degli straordinari è molto diffusa e una

riduzione d’orario aggiuntiva potrebbe complicare ulteriormente la già precaria organizzazione

del lavoro infermieristico.

7.4.4

Un impatto simile (e problematico) sulla qualità del lavoro

L’obiettivo di uno sviluppo sostenibile, della modernizzazione del modello sociale europeo,

della creazione di ‘more and better jobs’ sono tra i pilastri della politica sociale dell’Unione

Europea. Nelle Linee-guida europee per l’occupazione del 2001, le parti sociali sono invitate a:

'negotiate and implement at all appropriate levels agreements to modernise the organisation

of work, including flexible working arrangements.' ma anche sollecitate a 'achieving the

required balance between flexibility and security, and increasing the quality of jobs...'.

Da questo punto di vista, la ricerca Refipar ci dice che la razionalizzazione dei servizi sanitari ha

prodotto in entrambi i paesi organizzazioni ospedaliere più flessibili, più decentrate, più

moderne, più attente ai costi e alla qualità. Che le relazioni di lavoro risultano influenzate dai

principi privatistici della valutazione delle performance dei dipendenti e dell’orientamento al

cliente. Che la gestione del personale appare nel complesso più autonoma in Francia e più

cogestita in Italia, dove il generale processo di “privatizzazione“ del rapporto di impiego

pubblico ha consentito l’introduzione di strumenti più innovativi di valutazione e

coinvolgimento del personale (in particolare, il salario di produttività). Che i dipendenti

mostrano maggiore responsabilizzazione e coinvolgimento negli obiettivi di qualità del servizio,

una generale condivisione delle politiche di innovazione e giudizi positivi sul miglioramento

della qualità delle cure realizzato nelle proprie aziende (”orgoglio dell’appartenenza ad una

azienda efficiente”). Che la professione dell’infermiere sta cambiando: è diventata

maggiormente polivalente (in particolare, in Italia, è scomparso il rigido mansionario in favore

di una maggiore fungibilità degli operatori) e il suo contenuto professionale è diventato più

complesso, anche per il fatto che ha incorporato nuove competenze manageriali.

La ricerca però ha anche rilevato – specialmente dall’indagine su questionario che ha raccolto

le dirette opinioni dei dipendenti - che il lavoro, sotto la pressione dei nuovi traguardi di

efficienza economica, è diventato più intenso e qualche volta più stressante: è aumentata la

mobilità interna tra reparti e tra mansioni e il carichi di lavoro sono cresciuti in stretta

relazione con la riduzione della durata delle degenze e il conseguente aumento del turn-over

dei pazienti.

Soprattutto nel caso francese, sono stati rilevati cambiamenti nel contenuto delle mansioni,

che destano qualche preoccupazione: in particolare, sembra che il lavoro degli infermieri

professionali diventi molto più tecnico e più burocratico, mentre le mansioni di contatto con

l’ammalato vengano delegate alle figure inferiori. La ricerca ha sottolineato anche situazioni –

come quelli dei Laboratori e delle Radiologie dove, in relazione alla adozione delle nuove

procedure di certificazione della qualità, sono state introdotte razionalizzazioni organizzative

più marcate – in cui il lavoro è diventato molto più proceduralizzato, quasi in senso neo-

tayloristico. Inoltre, in generale l’introduzione dei sistemi di controllo della qualità ha

accresciuto i compiti burocratici (minuta descrizione di ciascuna operazione per assicurare la

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“tracciabilità” del processo sanitario) di tutti gli operatori (anche in questo caso, con

conseguente aumento dei carichi di lavoro). Sia dove è aumentata la polivalenza e la

responsabilizzazione degli operatori, sia dove – al contrario - è aumentata la parcellizzazione

dei compiti e la saturazione dei tempi, il lavoro appare sottoposto ad una generale

intensificazione. Aumenta il part-time, gradito alle amministrazioni in entrambi i paesi. Ma il

part time – a detta degli operatori - se non riguarda nuove assunzioni o se non è annualizzato,

“rompe l’organizzazione” e crea problemi agli altri lavoratori.

7.4.5

Conseguenze differenti sulla professioni infermieristiche

Questi risultati, che ricostruiscono l’impatto generale sull’organizzazione del lavoro delle

riforme e dei loro corollari sul piano organizzativo, valgono per entrambi i paesi. Tuttavia i

diversi contesti nazionali hanno prodotto effetti specifici nei due casi, che sono stati

sottolineati dalla ricerca.

In Italia, infatti, il processo di efficientizzazione combinato con una distribuzione territoriale

squilibrata del personale infermieristico – al nord scarso e anche ”volatile” per le continue

richieste di trasferimento – e con la citata mancanza di differenziazione interna della qualifica

professionale, obbliga gli infermieri professionali a svolgere anche mansioni che corrispondono

ad un ampio (in senso verticale) spettro di contenuti, tra cui anche inevitabilmente mansioni di

basso contenuto.

La mancanza di figure di aiuto-infermiere, infatti, conduce in alcuni casi ad attribuire compiti di

cura al personale Otaa o, più frequentemente, costringe gli infermieri professionali a coprire le

mansioni di livello inferiore, producendo una sorta di “spinta verso il basso” della professione

che crea malcontenti. Questa spinta, tra l’altro, entra in rotta di collisione con la recente

richiesta agli infermieri professionali di esercitare mansioni superiori espressa dalla legge

42/1999, in particolare di sostituire i capi-sala nell’assistenza ai medici (oltre che con

contemporaneo aumento della durata degli studi richiesta per il diploma di infermiere

professionale e per la nuova laurea triennale). Dalla ricerca esce così confermata una

situazione complessa e contraddittoria, che forse potrebbe essere utilmente superata, come

qualcuno ha già osservato, attraverso “una riapertura del ventaglio delle professioni

infermieristiche” (Tousijn 2000).

In Francia, invece, dove non ci sono problemi di carenza di personale infermieristico e dove le

mansioni sono ben distribuite tra infermieri professionali, aiuto-infermieri e ausiliari, la

pressione all’efficienza aziendale si traduce in cambiamenti della distribuzione dei compiti tra

le varie qualifiche professionali, più o meno esplicitamente mirata a risparmiare sul costo degli

infermieri professionali (che comunque sono già numericamente molto inferiori a quelli

italiani). Si verifica in particolare quello che il sindacato francese ha definito “uno slittamento

delle mansioni tra le diverse figure infermieristiche”. Gli infermieri professionali, i cui compiti

sono diventati più complessi, finiscono per potersi occupare solo delle mansioni più elevate,

particolarmente quelle più tecniche oltre che quelle di coordinamento e controllo (ivi

compreso il sistema di controllo della qualità). La loro professione tende a quindi a diventare

più burocratica, più manageriale e soprattutto più tecnica: secondo la nota distinzione, nelle

mansioni sanitarie, tra compiti di “care” (ovvero di assistenza) e di “cure” (ovvero di terapia,

intesa in senso tecnico), agli infermieri professionali viene ora assegnata soltanto o

prevalentemente la “cure”, mentre la “care” come rapporto faccia a faccia con il malato passa

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agli aiuto-infermieri11. Questa situazione viene ben accettata da molti dipendenti ma

indubbiamente rappresenta un cambiamento della professione infermieristica su cui riflettere.

7.4.6

Reazioni differenti dei sistemi di relazioni sindacali alle riforme

Nella conferenza “Il dialogo sociale nel settore della Pubblica Amministrazione”, tenutasi ad

Helsinki del novembre 1999, di fronte ai rappresentanti dei sindacati (EPSU) e delle

organizzazioni imprenditoriali del settore, la Commissione europea, gettando le basi per il

dialogo sociale nei settori pubblici, ha affermato che esso potrebbe rivelarsi particolarmente

efficace “al fine di evitare la conflittualità che sorge dai continui cambiamenti

dell’organizzazione del lavoro che sono in corso in questi settori” ed ha inoltre auspicato

introduzione negli enti pubblici di nuove forme di flessibilità organizzativa, “purché

accompagnate adeguate forme di tutela per i lavoratori”. Lo stesso sindacato europeo,

affrontando il problema delle relazioni di lavoro nel settore pubblico, ribadito la necessità di

aumentare la partecipazione dei lavoratori alle decisioni di impresa e di rafforzare sistemi dei

diritti dei lavoratori anche nell’area pubblica12.

Alla prova dei fatti, questi auspici trovano applicazioni di segno non univoco. Tanto che forse

un dei risultati più interessanti di Refipar, è il modo diverso in cui i sindacati e i sistemi di

relazioni industriali dei due paesi hanno reagito alle riforme sanitarie e alle sue conseguenze

sul lavoro. Se osserviamo separatamente gli ospedali italiani, vediamo che solo in uno tra

questi (Careggi di Firenze) le nuove strategie di efficienza e di riduzione dei costi hanno

ingenerato un (moderato) conflitto, mentre negli altri due il processo di riforma è stato gestito

senza apparenti fratture tra le parti sociali, anzi, nel caso di Palermo attraverso un percorso

largamente consensuale. Ben differente appare la situazione francese, dove processi del tutto

simili – razionalizzazione organizzativa, uso più efficiente del personale, outsourcing di alcune

attività – hanno invece prodotto situazioni di aperta contrapposiione tra direzione aziendale e

lavoratori (St. Nazaire ne rappresenta un caso emblematico).

E’ quindi interessante valutare quanto incidano alcuni fattori – per esempio, il grado di

decentralizzazione delle relazioni industriali o il tipo di istituzioni della partecipazione o anche

gli ambiti di potere delle rappresentanze dei lavoratori – nell ’orientare le relazioni di lavoro.

Una delle tendenze generali che si stanno verificando in Europa nel corso dei processi di

liberalizzazione dei mercati e/o di privatizzazione dei servizi pubblici è un più o meno spiccato

decentramento dei poteri decisionali, sia a livello regionale che a livello aziendale. Ciò è

particolarmente evidente nell’esperienza italiana di riforma sanitaria. La stessa riforma

francese, comunque, vede il trasferimento di una parte delle responsabilità della

amministrazione dei servizi sanitari al livello territoriale (le Agences Regionales de

l’Hospitalisation) e l’attribuzione di alcune competenze datoriali in capo ai direttori degli

ospedali.

Il grado di decentralizzazione amministrativa ha evidenti interconnessioni con la struttura delle

relazioni tra amministrazioni e dipendenti. E’ infatti chiaro che possono rispondere meglio ai

nuovi assetti decentrati del servizio sanitario – e in particolare alla nuova autonomia

11 La progressiva tendenza della professione infermieristica verso una maggiore qualificazione

(nell’ambito dei compiti di assistenza) e contemporaneamente verso una maggiore specializzazione in

senso biomedico è un processo che riguarda la professione infermieristica più o meno in tutti i paesi.

(Witz 1994, Tousijn 2000). 12 CES; Nono Congresso statutario, Helsinki 29 giugno-2 luglio 1999.

16

amministrativa in capo agli ospedali - quei sistemi di relazioni sindacali dove il sindacato è

presente nelle aziende e ha il potere di contrattare le condizioni di lavoro a questo livello.

Inoltre la partecipazione – diretta o indiretta – dei lavoratori alle decisioni aziendali è

condizionata dalle istituzioni delle relazioni di lavoro presenti nei diversi contesti e, anche a

questo proposito , possiamo osservare come Italia e Francia abbiano assetti piuttosto diversi.

Negli ospedali francesi, infatti, vi è una presenza di svariate strutture di partecipazione dei

lavoratori, principalmente organizzate attraverso rappresentanti delle diverse professioni, che

hanno un carattere prevalentemente consultivo e che, alla fine, risultano poco incisive

nell’orientare le decisioni aziendali. Negli ospedali italiani la partecipazione dei lavoratori viene

assicurata solo limitatamente attraverso organismi consultivi professionali (per altro, poco o

per nulla convocati), ma il diritto dei rappresentanti dei lavoratori a negoziare il cambiamento

organizzativo, unito ad una lunga tradizione di cogestione informale, fa sì che le direzioni non

prendano alcune decisione senza il loro consenso preventivo. Inoltre, mentre il coinvolgimento

dei lavoratori avviene in Francia attraverso la mediazione delle professioni, in Italia un certo

grado di coinvolgimento diretto è assicurato dalle forme di cointeressamento finanziario ai

risultati aziendali (salario di produttività) previste dai contratti di lavoro (Ponzellini 2002).

Per queste ragioni “originarie”, il sistema italiano – dove il sindacato è ben radicato nelle

aziende attraverso le Rsu (rappresentanze sindacali unitarie) e a questo livello può contrattare

le condizioni di lavoro – ha potuto rispondere più incisivamente al cambiamento ed è riuscito

quasi sempre ad evitare il conflitto. Addirittura potremmo dire che il sindacato italiano ha

funzionato – almeno nei casi migliori - come “facilitatore” della riorganizzazione. Il sistema

francese - che non prevede contrattazione aziendale ma solo la consultazione dei lavoratori

attraverso i diversi organismi partecipativi e dove il sindacato può intervenire solo a posteriori,

rispetto ad una decisione aziendale sgradita, con una dichiarazone di sciopero – ha avuto,

come unica risorsa per opporsi al cambiamento, il conflitto. In altri termini, la riforma ha

suscitato più conflitto in Francia, proprio per il diverso tipo di partecipazione che

contraddistingue il suo sistema di relazioni sindacali.

Tuttavia va rimarcato che, come emerge in particolare dall’indagine su questionario, con

pochissime differenze tra i due paesi, alla prova dei fatti i lavoratori lamentino di essere stati

scarsamente coinvolti dalle direzioni aziendali nel processo di riforma e che, inoltre, anche il

ruolo giocato dal sindacato nel cambiamento sia stato modesto. L’insoddisfazione dei

lavoratori conferma la validità delle linee strategiche delle istituzioni europee – si veda il

Consiglio europeo sull’occupazione e la politica sociale di Bruxelles (novembre 2000) -

orientate a promuovere forme più decise di informazione e consultazione dei lavoratori nei

luoghi di lavoro.