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teatroememoria1
a cura di Ernesto Cilento
Madamina, il catalogo è in rete
Quaderni di Archivi di Teatro Napoli
Associazione Voluptaria
a cura diErnesto Cilento
ottobre 2010
© testiErnesto Cilento, Lino Fiorito, Lorenzo Mango,Gennaro Alifuoco, Oreste Zevola, Mario Mango Furnari
© immaginiLino Fiorito e Oreste Zevola
progetto graficoStudio Eikon
Sommario
9 TEATRO NEL TEMPOErnesto CilentoArchivi di Teatro Napoli
23 FORME DI MEMORIALino FioritoArtista
35 COSTRUIRE LA MEMORIA DEL NUOVOLorenzo MangoUniversità degli Studi di Napoli L’Orientale
49 LA MEMORIA IN RETE: IL CONTRIBUTO DELLE BIBLIOTECHEGennaro AlifuocoBiblioteca Nazionale di Napoli - Sezione Lucchesi Palli
61 LA LINEA SOTTILEOreste ZevolaArtista
73 DA ReMuNa AL CIRCUITO INFORMATIVO REGIONALEPER I BENI CULTURALIMario Mango FurnariCnr - Istituto di Cibernetica “E. Caianiello”
TEATRO NEL TEMPOdi Ernesto Cilento
Il patrimonio di beni culturali, testimone del passato storico e artistico dell’Eu-
ropa, assume un ruolo fondamentale per la cultura europea poiché concreta al
tempo stesso le diverse tappe della nostra civiltà e le diverse espressioni della sua
identità e costituisce fonte necessaria di ispirazione alla creazione contempora-
nea.
Tale espressione lapidaria della politica culturale europea, riproposta nei vari do-
cumenti progettuali, rimanda al peso di una continuità ideale e storica più che
millenaria assunta come centrale nel progetto di costituzione europea e sancita
dall’iconografia delle banconote, primo passo dell’unità realizzata. In un cre-
scendo di valore, dalla classicità raffigurata sulla banconota da 5 euro, ponti e
portali ci proiettano nel futuro attraverso lo sviluppo degli stili architettonici do-
minanti tra l’undicesimo ed il ventunesimo secolo.
Riesce difficile pensare che architetture teatrali avrebbero avuto nell’immagina-
rio europeo la stessa forza proiettiva verso il futuro, nonostante sia possibile im-
maginare un medesimo percorso dal Teatro di Dioniso all’Opera Bastille.
Forse la dimensione patrimoniale dei beni culturali risulta meglio rappresentata
da una struttura che materialmente assicura un superamento di un ostacolo,
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piuttosto che da affascinanti costruzioni animate dal tentativo di trovare nella
finzione e nella spettacolarità la forza per affrontare un mondo ideale con cui
l’umanità è costretta a fare i conti.
Il patrimonio è l’insieme dei rapporti giuridici aventi contenuto economico, che
fanno capo ad un soggetto sia esso persona fisica o persona giuridica. Tra i rap-
porti giuridici che compongono il patrimonio rientrano tanto quelli attivi (crediti)
quanto quelli passivi (debiti). Si considera patrimonio, ahimè, anche solo l’in-
sieme di rapporti giuridici passivi.
Se per quel che riguarda il valore immobiliare dei teatri, storico, artistico o ar-
cheologico, è assolutamente certa la natura di bene patrimoniale, con le sue at-
tività e drammatiche passività, più complessa risulta la definizione dei “beni”
cosiddetti immateriali legati all’attività teatrale.
Un patrimonio culturale è trasmesso di generazione in generazione, costante-
mente rigenerato da comunità e gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro in-
terazione con la natura e con la loro storia. Esso procura un senso di identità e
continuità, assicurando rispetto per la diversità culturale e la creatività umana.
Tuttavia, se nella modernità i territori erano concepiti come principali conteni-
tori di culture, nell’epoca contemporanea la cultura viene studiata in una pro-
spettiva relazionale e reticolare, pertanto, essa appartiene ai luoghi solo
indirettamente e senza una necessità logica. L’Europa, dunque, si pone come
una delle strutture reticolari di riferimento per le comunità ed i gruppi che si ri-
conoscono nella sua dimensione storica e concettuale, oggi in primo luogo eco-
nomica.
In tale progressione dei concetti di patrimonio e beni culturali verso una di-
mensione sempre più generale ed astratta, e, tuttavia, così rilevante per il no-
stro futuro, proviamo dunque ad affrontare la vexata quaestio del patrimonio
teatrale napoletano.
Nel territorio napoletano e campano il teatro ha origini antiche, con radici nel
periodo greco-romano. La cultura popolare e quella alta si sono continuamente
fuse, contribuendo alla definizione di un linguaggio autonomo fortemente ca-
ratterizzato. Le tappe fondamentali dello sviluppo di questo patrimonio, pre-
sente in quasi tutte le fasi storiche, costituiscono un “unicum” esclusivo di
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Napoli. Dal 1500 ad oggi, l’evoluzione del teatro napoletano è risultata conti-
nua e di valore europeo: dalla commedia dell’arte, che animò i primi moderni
teatri cittadini dopo le pubbliche commedie al Largo del Castello, al vitale rap-
porto di reciprocità con la produzione musicale della città, che diede vita a forme
espressive di valore assoluto, quali il barocco musicale di Provenzale e Scarlatti
e l’opera comica di Pergolesi, Cimarosa e Paisiello. Sia Rossini che Donizetti, in
seguito, considerarono di assoluta rilevanza per la loro carriera artistica assu-
mere l’incarico di Direttore dei Reali Teatri di Napoli.
Nell’ottocento e novecento, il teatro di prosa napoletano ha conquistato altis-
simo valore per autonomia linguistica e di contenuti. A questa “rifondazione”
hanno dato il loro contributo autori come Petito, Di Giacomo, Scarpetta, Vi-
viani, i De Filippo.
L’odierno spettacolo dal vivo, pur conservando la sua capacità di operare nel
solco della tradizione e di mantenere ricca l’offerta dei numerosi teatri sul terri-
torio, registra una profonda trasformazione: festival di carattere internazionale,
moderni contenitori di grandi dimensioni spettacolari come di quelle più inno-
vative e sperimentali, divengono oggi occasione per una ricca quanto articolata
tradizione teatrale di misurarsi con la contemporanea rete relazionale non più
caratterizzata da una dimensione strettamente territoriale o linguistica.
Dunque difficile non riconoscere in tale quadro sintetico la presenza e la parti-
colare rilevanza dei tratti patrimoniali sopra descritti.
Per quel che riguarda i “beni immobili” di interesse artistico, storico o archeo-
logico, anche attraverso la semplice consultazione delle mappe presenti sulla
rete internet, riesce facile scoprire tali ricchezze e addirittura vederne riprodu-
zioni fotografiche. Numerosi siti archeologici campani conservano strutture tea-
trali di origine greco-romana che ancora oggi ospitano rassegne teatrali. Nulla
purtroppo è stato conservato delle “stanze” seicentesche e delle strutture ori-
ginarie dei Conservatori di musica, ma lo splendore del settecento resta intatto
nei teatri di corte di Napoli e Caserta e nell’attuale sala del Teatro di San Carlo,
nonostante i numerosi restauri, che nel corso di quasi tre secoli ne hanno reso
possibile la conservazione. Alla seconda metà del settecento risale il Teatro del
Fondo, oggi Mercadante, restituito al suo antico fascino dall’ultimo restauro alla
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fine degli anni ottanta. Nello stesso periodo attenti restauri hanno restituito al
pubblico cittadino il Teatro Bellini, edificato nel 1878, il Teatro Augusteo del
1929 ed il Trianon del 1911.
I teatri di proprietà pubblica risultano anche iscritti nei bilanci degli Enti o Isti-
tuzioni proprietari che spesso denunciano le difficoltà di gestione di tali patri-
moni storici lamentando costi insostenibili a fronte di ricavi inadeguati, lasciando
intendere che la dimensione “passiva” di tale rapporto giuridico risulti preva-
lente rispetto a quella “attiva”.
Più complesso e difficile si presenta il riconoscimento dei “documenti” nei quali
viene iscritta la forma immateriale di tale patrimonio, per sua natura “storico”
in quanto assumibile soltanto in forma temporale. La memoria, infatti, offre i
suoi doni solo se stimolata da un elemento presente ed i suoi frammenti non
hanno alcuna coerenza se non trovano un elemento ordinatore in una necessità
che li fa apparire “oggi” ai nostri occhi offrendoli alla nostra interpretazione.
I documenti, si tratti di “pratiche”, di scritti, di riproduzioni fotografiche o fil-
miche, di racconti orali, di qualsiasi oggetto spirituale, materiale, intellettuale o
emozionale in cui viene conservata traccia di quella dimensione effimera del-
l’evento teatrale restano sempre presenti nella memoria virtuale del mondo.
Esistono, tuttavia, alcune istituzioni privilegiate, musei, archivi e biblioteche cui
viene affidato tale processo di conservazione materiale della memoria docu-
mentaria, la cui funzione viene regolata da criteri teorici, tecnici ed economici
elaborati nel corso del tempo e sanciti da opportuni regolamenti.
Ovviamente tutto prende le mosse da una definizione dello specifico teatrale.
Una delle più note ricostruzioni storiche relative al teatro napoletano è certa-
mente I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo decimottavo di Be-
nedetto Croce. Nel 1948, ritornando su quell’opera giovanile, il filosofo, che
tanto aveva amato il teatro napoletano, offre una sua precisa definizione del-
l’arte teatrale.
“La storia del teatro, della tragedia, della commedia e di tutti gli altri spettacoli
teatrali, non è trattabile se non come storia di poesia (o, almeno di buona let-
teratura), per quel tanto che al mondo della poesia e della letteratura ha con-
tribuito, per le cose belle che in essa sono fiorite, mettendo in disparte tutto
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quanto è a ciò estraneo… Se non si vuol compiere questo che è il lavoro pro-
prio del critico o storico d’arte, ebbene si compongano volumi di aneddoti sul
teatro che possono riuscire anche gradevoli e non inutili; mi par di ricordare che
anch’io, nella mia lontana giovinezza, scrissi uno di questi volumi che è stato ri-
stampato un paio di volte. Il “teatro” come tale non favorisce un unitario punto
di vista storico, perché è, per così dire, un nome collettivo di fatti estetici e di altri
variamente culturali e morali, e in questa seconda considerazione rientra nei
singoli ordini a cui quei fatti appartengono nelle varie storie.”1
Una tale concezione, così influente non solo in termini teorici ma anche istitu-
zionali, ha certamente privilegiato la dimensione testuale dell’evento teatrale. Il
testo letterario, e ancor di più la sua collocazione nel quadro dell’estetica cro-
ciana come opera d’arte e poetica, definisce pertanto la funzione più alta e spe-
cifica del teatro nel quadro delle attività dello spirito.
Ne consegue, pertanto, che le biblioteche siano le principali depositarie del com-
pito di conservazione della memoria teatrale, fermo restando il ruolo degli ar-
chivi per materiale documentario diverso, utile al lavoro dello storico che
intreccia nella sua narrazione “fatti estetici ed altri variamente culturali e mo-
rali”. Della dimensione effimera del teatro la traccia più importante e destinata
ad iscrivere la sua attività nell’universo delle arti è il suo approdo letterario. Si
esprimerà una certa considerazione per le farse di origine romana, le sacre rap-
presentazioni medioevali, per la “commedia dell’arte” e le feste rinascimentali,
mentre la danza resterà confinata ai margini della rappresentazione, prossima
ai fenomeni del canto e della musica irriducibili all’evento teatrale. Il teatro dram-
matico resta la più alta espressione dell’arte teatrale.
Su tali premesse la “collezione teatrale” ha rappresentato una sezione più o
meno significativa delle biblioteche private come di quelle pubbliche e nella se-
conda metà del secolo scorso un segmento dell’attività delle principali case edi-
trici.
La critica letteraria non ha espresso quasi mai un’alta considerazione della let-
teratura teatrale. I drammaturghi d’altra parte, pur onorati di essere accolti nella
pleiade dei letterati, si sono sempre sentiti poco vincolati dal “copione” pub-
blicato in forma di testo, riaffermando il primato delle ragioni dello spettacolo
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cralità della sua origine, alla dimensione “straordinaria” dell’evento teatrale of-
ferta dal binomio attore-spettatore.
Già dalla metà del secolo XIX la ricerca di una nuova dimensione mitica che po-
tesse riavvicinare l’arte teatrale alla potenza delle sue origini riaffermava la mi-
stica dell’evento. E mistico venne appunto definito il golfo che nel teatro di
Bayreuth separava il palcoscenico dal pubblico. Nel secolo successivo, quello
inaugurato dagli “ismi”, una costante ricerca ha provato a ridefinire i confini
dell’arte teatrale. Pensiamo all’attore biomeccanico, al teatro della crudeltà,
epico, di regia, dell’assurdo, al teatro della morte di Kantor, a quello povero di
Grotowski, al teatro fisico di Barba o del Living, al Teatro Danza, infine al Teatro
multimediale. Nell’illustrare il concetto di Teatro postdrammatico Hans-Thies
Lehmann afferma: “nel mondo mediatico della contemporaneità, l’aspetto do-
minante diventa il face to face, la situazione in atto, l’accadimento del teatro.
Si affermano perciò le realtà fisiche, corporee; la tensione a condividere il loro
irradiarsi energico; la sovversione di ogni significato ad opera della sensualità
della performance; i piccoli e grandi sconvolgimenti che possono venire provo-
cati dal coinvolgimento dell’ asse teatrale performer/spettatore”4.
Nuove forme spettacolari, in primo luogo quella cinematografica, sembrano es-
sersi radicalmente appropriate la funzione drammatica e narrativa, spingendo il
teatro verso un radicale privilegio della scena e della spettacolarità.
Nella difficoltà di ogni posizione definitoria mi sembra tuttavia che la logica
dell’“evento spettacolare” stia vivendo oggi una larga diffusione e contribuisca
a meglio individuare e, al tempo stesso, a confondere ulteriormente i confini
dell’arte teatrale nel mondo dell’arte.
Complesso secondo tale concezione definire il patrimonio documentario cui si
affida la memoria teatrale. Certo resta intatta la funzione di tutti quei “docu-
menti” cui finora la memoria si è affidata, ma la materia teatrale, forte della
sua dimensione effimera, tende facilmente a sottrarsi ad ogni iscrizione che ne
privilegi singoli aspetti. Tuttavia il numero dei documenti sembra moltiplicarsi in
forma esponenziale: foto, video-documenti, riprese televisive o cinematografi-
che, manifesti, programmi di sala che espongono motivi, intenzioni, ispirazioni
degli attori come dei registi, riviste, resoconti di stampa. Con il moltiplicarsi degli
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e del rapporto con il pubblico.
Proviamo ora, con un salto temporale di un cinquantennio, a confrontare la de-
finizione crociana con quella del filosofo francese Jean-Luc Nancy assunta come
rappresentativa di una concezione del teatro che afferma la centralità della di-
mensione spettacolare.
A partire dai manifesti del Teatro della crudeltà di Antonin Artaud ispirato dalla
danza balinese, il teatro nato dalla fusione di tutti i linguaggi gestuali, musicali
e verbali trova nella fisicità dell’attore il suo elemento principale e fondante.
“Ciò che conta è che a teatro il testo è in un corpo, è corpo…
La teatralità non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte deri-
vano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del
mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repul-
sione. “Ogni cultura si è data in spettacolo le vette più alte della padronanza
dei corpi in movimento” scrive Yves Lorelle all’inizio del suo saggio sul corpo e
la scena.
Ciò di cui bisogna tener conto è il fatto che una “cultura” consiste proprio nella
possibilità di mettere insieme e formare un modo dello spettacolo, cioè di pre-
sentare e significare che non appena c’è un mondo, ci sono corpi che si incon-
trano, si distanziano, si attirano, si respingono, si mostrano gli uni agli altri
mostrando dietro di loro, intorno a loro, la notte incorporea della loro prove-
nienza.”2
L’arte teatrale, secondo tale proposizione, è in primo luogo definita dal con-
cetto di “rappresentazione” e da quello conseguente di “spettacolo”. La di-
mensione letteraria è solo una parte tra le altre che permettono il manifestarsi
di un evento di natura “corporea”. “La parola è meno significato che voce, e
con la voce – o nel silenzio – il gesto, la postura, l’andatura del corpo”3.
Ed il teatro, in quanto arte, rimanda all’antica concezione del “mondo come
teatro”, ad una dimensione spettacolare dell’esistenza, al continuo rappresen-
tarsi del mondo.
Certamente questa concezione, ricalcata sul concetto di esistenza inteso come
“essere fuori da”, venire al mondo, offrirsi al proprio sguardo e a quello dell’al-
tro, rende maggior ragione alla dimensione effimera dell’arte teatrale, alla sa-
che comprende, come s’è detto, le visioni, ma anche la letteratura degli attori,
le loro memorie e autobiografie, la trattatistica, tutto quello che a partire dal tea-
tro diventa racconto, cronaca, memoria”5.
Nel tempo si aggiunsero materiali audio ed in seguito video. Le biblioteche o gli
archivi per lungo tempo mantennero il semplice inventario di questi nuovi ma-
teriali documentari e solo di recente hanno iniziato ad assumere la necessità di
diverse forme di catalogazione e di offerta al pubblico. L’informatica ha infine
ha permesso di rendere facilmente visibile la ricchezza di tali patrimoni ed in al-
cuni casi ne ha favorito il processo di divulgazione. Le linee di sviluppo della po-
litica culturale europea ha negli ultimi anni largamente favorito questo processo
contribuendo in modo significativo alla creazione delle cosiddette biblioteche di-
gitali, in cui le varie tipologie di documenti teatrali trovano la propria colloca-
zione ideale. La conservazione, insomma, sarà sempre più orientata da processi
selettivi e da progetti comunicativi reticolari.
Ritornando, ora, allo “stato patrimoniale” relativo alla cultura europea, il con-
tributo delle arti dello spettacolo del territorio campano ci sembra, anche in se-
guito a tali rivolgimenti, fuori discussione. Senza soluzione di continuità, dal
grand tour settecentesco ad oggi, il teatro, la teatralità, la spettacolarità restano
senza dubbio fra gli aspetti culturali di maggior rilievo nella valutazione della vi-
vacità del luogo da parte dei viaggiatori europei. Essi, siano intellettuali, opera-
tori o semplici curiosi, sono in larga misura convinti che tale patrimonio definisca
un contributo specifico napoletano ad una comune cultura continentale.
Sul territorio, negli ultimi cinquanta anni, una diffusa consapevolezza dell’im-
portanza della conservazione della memoria teatrale ha coinvolto un numero
crescente di soggetti. Numerosi artisti hanno costituito archivi personali o della
compagnia di cui erano responsabili. Gli operatori responsabili di importanti ras-
segne o festival di carattere internazionale, hanno avvertito l’esigenza di docu-
mentare le varie fasi della propria attività, anche per favorire la formazione delle
nuove generazioni. Gli stessi teatri hanno, sempre più spesso, conservato me-
moria della propria attività per scelta lungimirante o in conseguenza dell’im-
pulso di gruppi o associazioni. Gli studiosi ed i collezionisti hanno individuato e
costituito, a loro volta, numerosi archivi frutto di originali ricerche sull’arte tea-
eventi ed il prevalere della comunicazione virtuale questa massa documentaria
è destinata a raggiungere livelli quantitativi assolutamente imprevedibili e sicu-
ramente determinati dall’interesse degli utenti e dalla capacità degli operatori di
utilizzare tale mezzo conservativo oltre che comunicativo.
Memoria e tradizione spesso sono costrette a cedere il passo all’oblio necessa-
rio all’aspirazione creativa ed innovativa dei tempi nuovi ed il passato è soltanto
quel che ciascuno nel presente decide di assumere, attualizzandolo senza dele-
gare a nessuno una mediazione critica o interpretativa. Il nostro tempo non in-
clina all’esegesi, bensì all’assimilazione funzionale di quanto “affiora” alla
memoria, di quanto si conserva nel tempo. La memoria documentaria o virtuale
è sempre disponibile, quel che conta è il presente sforzo di evocazione di una
fetta del passato. Insomma Mnemosine è più madre delle muse che non vestale
delle tracce del tempo.
Tale rivolgimento copernicano non poteva lasciare indenni le istituzioni conser-
vatrici.
In tutta Europa nel secolo scorso le tradizionali biblioteche sono state affiancate
da numerosi musei del teatro, il cui compito sembrò rispondere alle esigenze di
costruzione di un’identità culturale da parte dei singoli stati nazionali cui il tea-
tro poteva offrire il suo valido contributo. Al di là dell’aspetto ideologico, cimeli,
foto o collezioni teatrali difficilmente riuscivano a conquistare l’interesse del
vasto pubblico. Ed i vari musei regredirono rapidamente ad una sorta di Kun-
stkammer, una collezione di immagini e curiosità di tema teatrale o legata alla
vita di alcuni illustri esponenti di un’arte effimera, che spesso si ritraevano inor-
riditi da tali esposizioni, ritenendole inadatte a rappresentare la vivezza dell’arte
teatrale che le aveva ispirate.
Negli stessi anni si costituirono cospicue raccolte teatrali che alle tradizionali edi-
zioni a stampa affiancarono, autografi, manoscritti, locandine, raccolte icono-
grafiche (stampe, disegni e foto) periodici.
Lo “spazio letterario del teatro”, come lo definì in seguito Ferdinando Taviani,
liberatosi del riferimento esclusivo al testo letterario drammatico, si allarga a
“tutto ciò che dalla letteratura si riversa nel mondo degli spettacoli e che dagli
spettacoli rifluisce nella letteratura. È un luogo turbolento d’oggetti mutanti,
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semantica.
Ciascuna istituzione ha poi seguito un programma di lavoro pertinente alla ca-
talogazione, contribuendo così alla creazione di “archivi di autorità” delle oc-
correnze catalografiche risultanti dal processo di organizzazione dei materiali
trattati. Il lavoro catalografico è stato effettuato nel pieno rispetto degli standard
descrittivi dei codici italiani ed internazionali. La digitalizzazione delle unità ar-
chivistiche in oggetto ha reso immediatamente visibili i documenti schedati on
line. Naturalmente l’individuazione e la descrizione dei fondi e patrimoni cu-
stoditi da ciascun ente ed istituzione promotrice è stato il primo risultato del-
l’iniziativa ed il censimento dei patrimoni è stato pubblicato nelle prime pagine
offerte in rete. Ad oggi oltre circa centomila documenti relativi alla storia dello
spettacolo dal vivo sono consultabili on line sul sito Archivi di Teatro Napoli.
Non si tratta che dei primi passi per provare ad affrontare una spinosa questione
patrimoniale.
Un patrimonio, come abbiamo visto, nella sua dimensione economica è definito
da un bene che dal punto di vista giuridico deve riferirsi ad un soggetto che ne
accetti la titolarità e ne assuma la gestione. In un processo storico in cui la na-
tura immateriale dei beni risulterà prevalente, politici o amministratori, in quanto
rappresentanti territoriali, ne accetteranno la titolarità e gli enti e le istituzioni
conservatrici preposte alla conservazione ed alla tutela dei beni riusciranno ad
assumerne la gestione? È legittimo porsi tale domanda dopo tanti fallimenti re-
gistrati sul fantomatico terreno della “gestione dei beni culturali”? Tuttavia hic
Rodhus e tocca saltare!
Forse sarebbe necessario che le istituzioni si dotassero di nuovi strumenti ope-
rativi che riescano a rispondere con maggiore sensibilità alla natura specifica
della questione: gestire in modo razionale un patrimonio di beni culturali di na-
tura eterogenea già costituito, creare strutture adeguate ad incrementarlo ed
operare un collegamento funzionale con il territorio che lo ha prodotto e pre-
sumibilmente continuerà a potenziare la sua capacità produttiva in tale settore.
Un Centro di documentazione e promozione delle arti dello spettacolo, dotato
di una biblioteca specializzata, una videoteca, con ampi spazi dedicati alle espo-
sizioni temporanee, potrebbe costituire una delle priorità per il rilancio civile e
trale e della loro costante attività critica.
Biblioteche e musei, infine, hanno mostrato un crescente interesse ad accogliere
materiali librari, documentari o iconografici relativi alla storia di un’arte che, a
dispetto di tutti i motivi di crisi che segnano la sua esistenza, suscita un vasto se-
guito di pubblico, il quale, nonostante la concorrenza di altre forme di comuni-
cazione, non sembra voler rinunciare al fascino dello spettacolo dal vivo.
Quanto, frettolosamente descritto, trova oggi nella rete web una generica forma
conservativa oltre che divulgativa.
Il patrimonio documentario del teatro napoletano, tuttavia, non ha ancora tro-
vato alcuna istituzione che nel tempo abbia assunto come compito specifico la
documentazione storico/iconografica di questo settore della cultura napoletana,
cosicché esso risulta per così dire, “distribuito”, oltre che in varie collezioni pri-
vate, tra molteplici istituzioni culturali, talvolta concorrenti nel definirsi, ciascuna,
principale rappresentante della memoria storica del teatro.
Nel 2001, simbolicamente all’inizio del nuovo secolo, la sottoscrizione di pro-
tocolli d’intesa tra la Biblioteca Nazionale, l’Archivio di Stato, la Società Napo-
letana di Storia Patria, la Soprintendenza Archivistica per la Campania e la
Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Napoli, rappresentante della Sezione
Teatrale del Museo di San Martino, e l’Associazione Voluptaria ha avviato un
progetto di realizzazione di una rete di produzione di informazione e docu-
mentazione, tra istituzioni che lamentavano un antico ritardo sulla capacità di
inserirsi nel veloce ed innovativo settore della comunicazione, pur detenendo
enormi privilegi di accesso alle fonti che si erano costituite nel tempo. L’idea
progettuale era quella di ricreare un circolo virtuoso tra coloro che conservano
la memoria e coloro che la usano e la producono, proponendo una gestione in
rete anche agli archivi dei principali teatri napoletani. La collaborazione con l’Isti-
tuto di Cibernetica “E. Caianiello” del Consiglio Nazionale delle Ricerche ha
permesso di rendere operativa una infrastruttura di rete telematica e informa-
tica in grado di gestire archivi distribuiti di documenti riguardanti il patrimonio
taetrale. Ne è scaturito un sistema di fruizione unitario, a prescindere dalla col-
locazione e ubicazione dei documenti, e, al tempo stesso, sono state speri-
mentate metodologie della classificazione ontologica di entità e della ricerca
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culturale della città, perché lo spettacolo, rispetto ad altre espressioni del patri-
monio storico-artistico, é inserito totalmente nelle trasformazioni del quotidiano
e rappresenta uno strumento culturale privilegiato e vivo di cerniera tra passato
e presente, soprattutto per Napoli e la Regione Campania che negli ultimi anni,
in controtendenza rispetto alle scelte nazionali, hanno privilegiato investimenti
nel settore culturale ed in particolare in quello teatrale. Un centro con tali ca-
ratteristiche, collegato ad altre istituzioni internazionali analoghe, potrebbe ri-
velarsi un efficace strumento di scambio e rafforzare il ruolo culturale, sociale e
turistico di Napoli, come l’esperienza del Napoli Teatro Festival negli ultimi anni
ci dimostra con dovizia di risultati e di numeri.
È indispensabile che la professionalità degli operatori assicurata dalle istituzioni
conservatrici operanti nel settore garantisca la gestione tecnico-scientifica di un
progetto di tale portata, così come sembra opportuno ritrovare adeguate forme
di collaborazione con le istituzioni di studio e di ricerca regionali. Appare ne-
cessario, infine, rafforzare le capacità progettuali di strutture troppo spesso im-
pedite da odiosi limiti burocratici ad assumere iniziative che richiedono una certa
dose di dinamismo operativo.
Gli Archivi di Teatro nella loro configurazione odierna sono espressione di un
piccolo progetto che è riuscito ad alimentarsi, in un arco temporale significativo,
grazie alla collaborazione di soggetti ed istituzioni interessati a verificare una
possibilità di affrontare i problemi su cui torniamo in questo scritto e che conti-
nueremo ad affrontare nella realtà a partire da domani.
1 Benedetto Croce, Pagine sparse, vol III, Napoli, Ricciardi, 1948, pp. 65-66.2 Jean-Luc Nancy, Corpo teatro Napoli, Cronopio, p. 28 e p. 37, 2010.3 Jean-Luc Nancy, op. cit.4 Hans-Thies Lehmann, Cosa significa teatro postdrammatico, Bologna, Prove di drammaturgia, anno
XVI, numero 1, 2010.5 Ferdinando Taviani, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del no-
vecento, Bologna, Il Mulino, 1995.
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FORME DI MEMORIAdi Lino Fiorito
Accumuliamo memoria ogni giorno che passa e la portiamo dentro di noi ovun-
que andiamo, non siamo però in grado di controllarla né sappiamo con esat-
tezza cosa essa sia e ciò offre materiale alla poesia. Noi non sappiamo cosa farà.
La memoria ritorna, se non richiamata volontariamente, quando meno te lo
aspetti, magari stimolata da un profumo avvertito tra la folla di una stazione
che ci riporta ad una altra stazione, di un altro tempo, ad una altra persona, di-
versa da quella con la quale stiamo ora viaggiando.
La memoria è un grandissimo potere (ricordate la Supermemoria di Superman?),
un magazzino di ricordi, di saperi. Souvenirs, anche imprevedibili della vita, in-
tuizioni, misteriose connessioni tra cose sconnesse.
Da quando abbiamo i computer la nostra memoria è diventata credo più ‘fisi-
camente presente’, ciascuno di noi ha ormai cassettine di plastica o metallo
dove sono contenuti in maniera compressa foto, documenti, e quant’altro; certo
qualche anno fa era lo stesso: album di fotografie, diari, taccuini consumati dal-
l’uso... ma il fatto che ora conservare memoria sia divenuto così facile un po’ mi
spaventa, mi procura un senso di vertigine (che ne faremo di tutti questi dati?),
e paradossalmente mi rende più ‘simpatico’ ed ‘umano’ il dimenticare, ultima
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FORME DI MEMORIA | Lino Fiorito
estrema libertà. Certo quanto detto riguarda me e la mia memoria soggettiva,
altro è la memoria sociale o istituzionale che preserva la memoria collettiva ed
i valori di una comunità, di un paese e queste memorie vanno difese, conservate,
condivise, ‘ricordate’ nei momenti importanti della vita sociale.
I disegni qui riprodotti nascono dalle note che spesso mi accompagnano du-
rante il giorno, fogliettini di carta dove appunto le cose da fare, come ricordarsi
di comprare il pane. Ne ho conservato alcuni,così come erano, con le cancella-
ture sulle cose poi fatte: …ho preso effettivamente il pane …ho telefonato al
tale… Ora ho questi ‘disegni’ di memoria che in realtà sono cancellazioni, essi
stessi testimonianze, in forma grafica, di una mia giornata, tracce, forme di me-
moria.
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FORME DI MEMORIA | Lino Fiorito
COSTRUIRE LA MEMORIA DEL NUOVOdi Lorenzo Mango
Si racconta – e non ho mai capito se è una leggenda metropolitana o viceversa
un fatto autentico – che ci sia, o almeno ci sia stato, un custode della Galleria
d’Arte Moderna di Roma che aveva in consegna una piccola ma preziosissima
boccettina con dentro il colore che serviva per ricostruire, ad ogni spostamento
dell’opera, il blu del Mare di Pino Pascali. Non so se sia vero, dicevo, ma am-
mettiamo che lo sia. È un aneddoto che ci pone di fronte una questione parti-
colare e, per quanto apparentemente stravagante, importante: come ci
relazioniamo nei confronti di opere che fanno della loro stessa fattura un che di
instabile, impermanente e non duraturo? Il Mare di Pascali, per restare al nostro
esempio, è una costruzione di basse vasche metalliche piene di un’acqua colo-
rata. Il suo contenuto è destinato a deperire e ad essere continuamente sosti-
tuito e allora perché conservare il campione originale? Se tempo e caso hanno
un tale rilievo, perché contrapporvi l’ansia di preservare un’originalità che l’opera
stessa sembra negare?
Quello che abbiamo citato – attraverso un aneddoto dalla incerta autenticità –
è un esempio che calza a pennello per introdurre l’argomento che stiamo per
affrontare. L’arte contemporanea – e sto pensando in questo momento princi-
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La questione della deperibilità dell’opera è talmente connaturata al teatro da ri-
guardarlo in ogni sua forma, tempo e modo e così la dialettica fra deperimento
nel tempo, conservazione e memoria è, direi, un dato strutturale nello studio
della storia del teatro. Ciò che dura, in teatro, è ciò che è indiretto. Non la cosa
in sé – per questo non c’è museo – ma la testimonianza della cosa, di qui l’im-
portanza tutta particolare che ha il lavoro sulla individuazione, organizzazione
e conservazione dei documenti teatrali. Un problema che non è solo archivistico
ma, in primo luogo, metodologico, in quanto la stessa nozione di documento
è, ai fini dello studio del teatro, un dato quanto meno ambiguo.
Si diceva che si tratta di una questione universale; vero, ma quanto meno con
dei distinguo. La conoscenza moderna del teatro, in quanto specifica identità lin-
guistica, ci ha insegnato che il teatro – sia come linguaggio che come opera –
non può essere fatto coincidere con il testo letterario, come si è stati lunga-
mente usi fare, e che una simile concezione non è solo una peculiarità moderna
ma, piuttosto, una costante della storia. Detto questo, però, il testo letterario,
nei confronti del testo spettacolare che lo accoglie – e che è l’opera – non può
essere considerato un documento tra gli altri. È un documento di natura diretta,
che conserva in sé una parte consistente di ciò che era all’interno dello spetta-
colo – sul piano della struttura narrativa, della dimensione poetica, della tra-
smissione del senso – e, anche, di come, riguardo agli stessi elementi, lo
spettacolo funzionava, in quanto narrazione e senso drammatico (oltre ovvia-
mente alla poesia) erano considerati in larga parte pertinenza e proprietà del
testo letterario.
Questo ha causato per un lungo tratto di tempo la convinzione – un po’ inge-
nua ma anche un bel po’ ideologica – che la trasmissione della memoria del
teatro coincidesse con la conservazione e trasmissione del testo letterario e di
tutto quanto ne avesse, sul piano della scrittura verbale, accompagnato la ge-
nesi e la realizzazione. Col risultato, spesso, di creare un fossato tra ciò che il tea-
tro era stato quale fatto letterario e ciò che era stato quale evento scenico. Basti
qui, a titolo d’esempio, ricordare le vicende storiografiche legate allo studio del
teatro rinascimentale. Fino a una certa data – che possiamo collocare nella prima
metà degli anni sessanta – la ricostruzione della situazione teatrale italiana del
palmente alle arti visive – ha intrapreso in molti, direi anzi moltissimi casi la via
di giocare sulla non durata dell’opera. Cominciò, per dirne una, Boccioni, uti-
lizzando per le sue sculture cartone e fil di ferro anziché pietra o bronzo e un ar-
tista come Duchamp estremizzò talmente le cose che i ready made che vediamo
esposti sono, per lo più, riedizioni assai più tarde di quelli originali che sono an-
dati persi perché la loro funzione si estingueva nel momento stesso di essere
stati fatti e visti (che senso avrebbe, d’altronde, conservare con sacralità l’ori-
natoio ribaltato esposto nel 1913 se se ne possono ribaltare infinitamente altri
assolutamente identici?).
L’arte contemporanea, insomma, ci pone un problema dalla doppia faccia: l’as-
senza di durata dell’opera e la sua conservazione, perché da un lato l’operati-
vità artistica mette in scacco la nozione stessa di prodotto da un altro, però, noi
al prodotto, qualsiasi esso sia, e alla sua durata nel tempo restiamo comunque
ancora saldamente affezionati. Il teatro quel problema lo esaspera e lo com-
plica. Se per le arti visive c’è, anzitutto, una questione di museificazione del con-
temporaneo – vale a dire di conservazione delle opere in quanto oggetti fisici –
per il teatro, che notoriamente non conosce il museo, la questione riguarda,
ancor più radicalmente, il problema della conservazione e trasmissione di quanto
realizzato e simultaneamente perduto in scena attraverso un “lavoro della me-
moria” che mette in gioco in maniera decisiva il problema dei documenti e della
loro catalogazione e archiviazione.
È una questione che non è legata esclusivamente alla “memoria del nuovo”, ma
certo nel caso del “nuovo”, di quel teatro cioè che ha voluto forzare, in funzione
dell’innovazione dei codici del linguaggio, i suoi confini istituzionali, essa si pre-
senta in una maniera estrema. Facciamo un esempio abbastanza canonico di
un certo modo di essere del teatro contemporaneo, o del Nuovo Teatro come è
stato, opportunamente credo, fin dalla sua origine, definito. Se uno spettacolo
si affida all’evento, all’irripetibilità istantanea del qui ed ora, se si fonda quindi
sull’esperienza e ancor più sull’esperienza di un singolo momento percettivo, in
che modo possiamo affidarlo alla memoria, e soprattutto esiste una fonte at-
tendibile per documentarlo? E ancora perché documentare ciò che voleva essere
per sua stessa vocazione assolutamente transeunte?
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pedisce di sapere per quale spettacolo Shakespeare scrivesse i suoi testi. Se que-
sto è vero, bisogna, però, anche stavolta operare un distinguo. Avere un’infor-
mazione su come veniva realizzato uno spettacolo di una certa epoca, ci aiuta
sicuramente a ricostruire quali fossero le convenzioni e i modelli di riferimento.
Convenzioni e modelli che riguardavano, nella maggior parte dei casi, una sorta
di linguaggio comune, di comune modo di impostare spazio, scena, azione ecc.
quasi a prescindere, verrebbe da dire, dalla realizzazione della singola opera.
Quando, per fare un esempio, siamo riusciti a ricostruire l’edificio scenico elisa-
bettiano, abbiamo finalmente conosciuto la macchina scenica all’interno della
quale erano ambientati tutti, indistintamente, i testi di Shakespeare. Abbiamo,
cioè, acquisito la conoscenza di un codice non di un’opera. È col teatro mo-
derno, e soprattutto con quello che ha voluto dichiararsi “nuovo”, che la que-
stione ha subito una svolta. Non un codice collettivo, spesso normativo o
prescrittivo come accadeva nel passato, ma un codice generale assai più lasco
al cui interno agiscono scritture molto più individuali e distinte. E’ evidente, dun-
que, che, al fine della ricostruzione dell’opera, cambia radicalmente ciò che con-
sideriamo documento. Vedere un costume di Adelaide Ristori non è la stessa
cosa di vederne uno di Robert Wilson. Nel primo caso è un fatto di vita mate-
riale del teatro, nel secondo un dato imprescindibile di scrittura. Non sto di-
cendo, si badi, che nell’un caso la conservazione di un certo tipo di documento
ha importanza e nell’altro no, ma che è diversa la funzione strategica, ai fini
della storia del teatro, di quei documenti specifici. Anche perché la storia del
teatro ha una sua vocazione plurale e quindi i racconti che la costruiscono pos-
sono essere diversi e riguardare ambiti altrettanto diversi, possono cioè riguar-
dare fatti di scrittura e di linguaggio o, diversamente, indagare il mestiere e la
cultura materiale che lo accompagna.
La via lungo cui ci siamo avviati ci porta a dire che già in un teatro di regia, al
cui interno troviamo conservati tutti i segni della tradizione, a cominciare dal
testo letterario, la conoscenza, e quindi la conservazione, di ciò che riguarda gli
apparati visivi ha una funzione capitale. In quelle forme di teatro che vanno oltre
la regia, tale conoscenza è assolutamente imprescindibile. La costruzione della
memoria del nuovo è, prima di essere un fatto archivistico, un fatto metodolo-
primo Cinquecento si risolveva nello studio, attraverso la relativa documenta-
zione, della produzione dei testi. Solo ad un certo punto, quando cioè ci si è resi
conto dell’importanza del contesto scenico al cui interno quei testi avevano visto
la luce, è emersa tutta quella documentazione sugli allestimenti scenici, le feste
e gli “ingegni” che rappresentano un caposaldo determinante per una corretta
comprensione di quel teatro e un esempio fondante della nuova metodologia
storico teatrale.
La questione della trasmissione della memoria teatrale presenta, quindi, due
questioni di fondo, che sono due vere e proprie questioni preliminari: qual è
l’oggetto, vale a dire l’opera, che dobbiamo ricostruire e quale, di conseguenza,
la documentazione necessaria. Perché, non è mai troppo ribadirlo, la storiogra-
fia teatrale ha prima di ogni altra cosa un problema di ricostruzione dell’opera;
una ricostruzione di tipo virtuale perché l’opera in sé, contrariamente a quanto
accade ad esempio all’archeologia, non è mai effettivamente ricostruibile, in
quanto non perduta a causa del trascorrere del tempo ma perduta in quanto co-
struita sul e dentro il tempo. A questo fine diventa documento – sia diretto che
indiretto – ciò che è funzionale a un certo tipo di ipotesi di ricostruzione, in altri
termini, a ciò che ci aspettiamo dall’opera d’arte teatrale di una certa epoca.
Nel teatro contemporaneo che ha spiazzato la centralità del testo letterario dai
meccanismi di scrittura, la questione di una simile interrogazione preliminare ha
un rilievo particolare. Prendiamo un caso ancora abbastanza “normale” (nel
senso che non presenta quei dati di trasgressione estrema del codice che pos-
sono trovarsi altrove), quello del teatro di regia. Vi è un testo, con racconto e
quant’altro, ma è abbastanza evidente che i segni che caratterizzano quel-
l’opera, in relazione al testo, sono esattamente tutto ciò che testo non è. Si
tratta di segni scenici. Conoscere, dunque, quali fossero le soluzioni scenogra-
fiche, i costumi, le luci e magari i movimenti sulla scena ha una funzione im-
prescindibile. Riuscire a ricostruire questi aspetti di uno spettacolo è una fonte
di conoscenza straordinaria per qualsiasi stagione della storia del teatro e spesso
ci si rifugia nei confini consolatori di ciò che dura e si conserva nel tempo, il
testo letterario, perché ciò che passa è svanito per sempre – si tenga, a titolo di
esempio, la pochezza di informazioni sullo spettacolo elisabettiano che ci im-
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certo momento storico, in un certo contesto culturale ha determinato sicura-
mente un certo tipo di angolazione e di prospettiva di lettura. Molto probabil-
mente corretta ma, altrettanto probabilmente, troppo univocamente legata al
momento congiunturale della fruizione di un oggetto da cui è possibile emer-
gano col tempo elementi che, nel momento in cui ne sono stato spettatore,
non apparivano così evidenti. Accade anche nelle altre arti, ma esse, nessuna
esclusa, mettono a disposizione del lettore futuro l’opera stessa che diventa il
primo strumento di ogni sua nuova interpretazione. Col teatro questo non av-
viene – salvo quando viene fatto, spesso pretestuosamente, coi testi – e così le
possibilità di rilettura sono enormemente condizionate dal meccanismo di co-
struzione della memoria. Molto probabilmente del teatro elisabettiano diremmo
cose almeno in parte diverse se sulla recitazione, che in quel teatro sappiamo (o
immaginiamo di sapere) essere così importante, avessimo qualche traccia do-
cumentaria in più dei pochi versi encomiastici rivolti a Burbage e delle notissime
“prescrizioni” di Amleto agli attori, cui spesso, in mancanza d’altro, ci si ag-
grappa disperatamente anche al di là di quanto possano realmente rivelarci.
Costruire la memoria di un fenomeno con cui abbiamo un rapporto di contiguità
è, dunque, in primo luogo un atto di responsabilità, sia critica che storica. Si
tratta, cioè, di operare su quanto si ritiene centrale dover documentare ai fini
della corretta immissione di un fenomeno nel flusso della storia. Verrebbe quasi
da dire che mentre siamo abituati a fare la storia a partire dai documenti qui, al-
l’inverso, la storia è una sorta di vero e proprio atto preliminare. Nel momento
in cui “costruisco la memoria”, o almeno contribuisco a farlo, compio una serie
di scelte – la selezione dei fenomeni, ad esempio, e la loro collocazione entro
specifici contesti – che determinano delle conseguenze importanti proprio sul
piano storico.
Detto questo – che è un problema di critica del contemporaneo nel suo com-
plesso in relazione alla sua “messa in storia” – c’è una questione specifica che
riguarda il Nuovo Teatro italiano, quel complesso di fenomeni che ha attraver-
sato oramai un cinquantennio di storia nazionale, caratterizzandolo in modo
decisivo. Affermare – come ritengo sia legittimo fare – che il Nuovo Teatro rap-
presenti il tratto distintivo più specifico ed efficace della tarda modernità della
gico. La documentazione serve, in primo luogo, a ricostruire ciò che si vede dello
spettacolo, l’evento.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad una scommessa che è una scommessa me-
todologica: dare un corpo il più possibile sensibile a ciò che per sua stessa na-
tura non ne ha, agendo, molto spesso, su quella che possiamo chiamare una
memoria breve. Cosa significa? che stiamo pensando di costruire la memoria
storica di qualcosa di cui abbiamo ancora un ricordo personale e diretto. Si de-
termina, così, una situazione paradossale rispetto al resto dello studio della sto-
ria del teatro e degli studi storici in genere. Anziché ricostruire la memoria di
qualcosa che è molto remoto alle nostre spalle (al fine di comprendere che cosa
sia materialmente accaduto), adesso siamo di fronte a qualcosa che sappiamo
cos’è (è un’affermazione estrema che sta a significare che ne conosciamo co-
ordinate e avvenimenti, non che ne abbiamo esaurito le possibilità di interpre-
tazione) e di cui vogliamo costruire, cioè trasmettere, la memoria. Vale a dire che
l’operazione culturale non consiste nel sottrarre all’oblio e al tempo tracce di
qualcosa che possiamo ricostruire attraverso un processo indiziario tutto virtuale
e ipotetico (perché manca la possibilità di relazionarsi all’opera), ma di collazio-
nare le testimonianze, dirette e indirette, di ciò che abbiamo fisicamente speri-
mentato come spettatori e di cui, quindi, abbiamo potuto verificare la sostanza
scenica. La differenza non è di poca portata e, se ci si ferma un momento a ri-
flettere, ha implicazioni numerose e complesse. È come se pensassimo di agire
non dentro la dialettica tra passato e presente, come è nella gran parte dei la-
vori di archiviazione, ma in una prospettiva che mette in gioco il passato nella
proiezione del futuro, vale a dire che costruire la memoria del nuovo significa co-
struire le condizioni perché un giorno possa studiarlo qualcuno che, diversa-
mente da noi, non può far uso della sua memoria personale di spettatore.
Ma il teatro ancora una volta ci spiazza. Anzitutto, può sembrare banale ma va
fatto, noi non abbiamo visto tutto e non possiamo avere memoria di tutto. Uno
spettacolo che ha avuto luogo ieri e che non ho visto mi è distante quasi quanto
uno da cui mi separano decenni o secoli, con problemi metodologici di studio
non dissimili. C’è, poi, una seconda questione, legata, in questo caso, proprio
all’atto di essere stato spettatore di un certo spettacolo. Avervi assistito in un
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tro canto l’importanza di un’archiviazione in “tempo reale” dei materiali legati
alla produzione di spettacoli prodotti in quel contesto risulta evidente nei casi
in cui la si possa esperire e il caso dell’acquisizione (con la relativa catalogazione)
da parte della Biblioteca Lucchesi Palli dei materiali scenografici di Lino Fiorito,
e la mostra che se ne trasse, ne è un esempio tangibile.
Accanto alle ragioni congiunturali che rendono complessa la documentazione
del nuovo, ve ne sono poi altre che ho definito intrinseche. Sono quelle legate
alla natura stessa di opere basate sulla scrittura scenica, in una parte consistente
dei casi prive di testi letterari di riferimento e legate, in maniera strutturale, alla
contingenza dell’evento spettacolare (fenomeno diffuso che trova la sua forma
più estrema in quelle produzioni che oggi vengono definite site specific, vale a
dire nate dentro e per uno spazio specifico). La negazione o riduzione del mo-
mento narrativo, la negazione del fatto rappresentativo in quanto legame refe-
renziale di un qualche tipo con la realtà, assieme alla centralità delle immagini
e dell’azione fisica della scena sono tutti fattori che determinano un difficilissimo
processo di ricostruzione dell’opera e, di conseguenza, rendono problematico il
processo di costruzione della memoria. Pure, quel processo è quanto più ci in-
teressa. Si tratta, dunque, di una questione metodologica: come agire nei ter-
mini della costruzione della memoria in assenza della possibilità di realizzare
attendibili ricostruzioni formali? “The Drama Review”, la celebre rivista di studi
teatrali della New York University si pose anni fa il problema e tentò di risolverlo
attraverso una particolare strategia di analisi critica dello spettacolo. Michael
Kirby, che a quel tempo la dirigeva, e lo staff della rivista erano consapevoli di
quale importanza avessero, nella corretta comprensione di uno spettacolo, tutto
un insieme di elementi, sia quelli più strutturali, come l’organizzazione dello
spazio scenico, sia quelli più particolari, i dettagli come può essere un certo
gesto di un attore, un certo modo di incedere, un taglio di luce e via dicendo.
Obiettivo primo di una recensione era la ricostruzione della trama scenica dello
spettacolo, in modo quanto più possibile aderente al suo accadere effettivo. È
una scommessa per tanti versi paradossale che ha prodotto, però, i suoi frutti,
in quanto di un certo numero di spettacoli noi possiamo avere un ritratto suffi-
cientemente attendibile. È come se il viaggiatore olandese che appuntò sul suo
scena italiana significa che porsi il problema della sua documentazione è un
fatto storiografico di primaria importanza. Ma è proprio in relazione al Nuovo
Teatro che emergono quelle questioni specifiche di costruzione e documenta-
zione della memoria su cui ci siamo sin qui lungamente soffermati. Le ragioni
di tale specificità, che è anche una difficoltà, sono di natura diversa. Le distin-
guerei in due famiglie: ragioni estrinseche ai fenomeni, cioè ragioni di contesto
e ragioni intrinseche, legate, cioè, alla qualità particolare di quel teatro. Le prime
sono presto dette. Un lungo tratto del Nuovo Teatro ha agito – un po’ per scelta
un po’ per necessità – ai margini del sistema teatrale dominante. Il che comporta
che le tracce sensibili di quelle esperienze sono spesso difficilmente reperibili e
documentabili. Ci sono, certo, casi clamorosi come quello di Carmelo Bene, ma
se già ci rivolgiamo a figure di minore notorietà mediatica, ma di non minore
spessore, come può essere il caso di Mario Ricci, che assieme allo stesso Bene e
a Carlo Quartucci animò gli albori del Nuovo Teatro nei primissimi anni sessanta,
la questione della ricostruzione storica presenta difficoltà di non poco conto che
rischiano di far sfumare il peso storico della sua figura. Si capisce, spero, da
quanto sto dicendo l’importanza di un’azione di contestualizzazione storica che
accompagni e non segua quella, altrettanto importante, della documentazione.
Il rilievo culturale di alcune figure, insomma, non è necessariamente il risultato
di un’indagine fatta sui documenti ma spesso deriva da una sorta di “sapere
preliminare” che discende dalla conoscenza diretta degli avvenimenti. Con le
difficoltà e gli errori che questo può comportare, perché il peso storico dei fatti
artistici non si commisura sempre col peso che essi hanno avuto nel loro pre-
sente. Memoria e storia, si sa, non coincidono.
Tra le ragioni estrinseche, poi, ci sono anche questioni spesso particolari, per
non dire personali: molti di questi materiali sono nelle case di artisti ancora non
solo viventi (molti sono anche giovani) ma operativi, poco interessati, quindi, a
ricostruire il proprio passato e spesso indifferenti nei confronti della costruzione
di una documentazione attendibile del proprio lavoro. Capita, così, che per tutto
l’insieme di queste ragioni il processo materiale di costruzione della memoria
del Nuovo Teatro sia arduo e ci si debba affidare spesso a un materiale così dif-
ficile da gestire, per non dire sdrucciolo, come la testimonianza individuale. D’al-
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relegato in soffitta il lavoro di Ouaknine, prezioso un tempo ma adesso divenuto
obsoleto. Non è così perché la sua non è una semplice ricostruzione passiva
degli eventi ma un tentativo, utilissimo, di organizzarli dentro sequenze dram-
maturgiche. La costruzione della memoria del Principe costante è dunque un
processo cui concorrono fonti documentarie diverse, tutte ugualmente fonda-
mentali. Certo è, però, che tra tutte, quelle visive, hanno un loro indiscutibile pri-
mato. Il “vedere” problematico di cui tentava di farsi carico “The Drama Review”
diventa, adesso, un atto concreto. Nella consapevolezza, certo, che quanto ci
sembra documento diretto, invece sempre indiretto resta, perché nessun filmato
potrà mai essere uno spettacolo, ma anche nella convinzione che la documen-
tazione audiovisiva segna uno spartiacque fondamentale nella organizzazione
metodologica degli studi storico teatrali.
Detto questo è evidente come il lavoro di costruzione della memoria del nuovo
debba riguardare in primo luogo le immagini e l’uso che se ne può fare da un
punto di vista critico. È una condizione di partenza che deve porsi chiunque in-
tenda affrontare l’arduo problema di creare un archivio o, come sembra più cre-
dibile, un sistema di archivi del Nuovo Teatro. Parlare di documentazione visiva
significa, però, parlare di tante cose diverse. Esistono, infatti, i film tratti da spet-
tacoli teatrali, come hanno fatto sia Peter Brook che Carmelo Bene che Ron-
coni restando più o meno fedeli al dato scenico; ci sono, poi, le edizioni televisive
di taglio più documentario, come quelle realizzate in più occasioni dalla RAI; ci
sono, infine, una serie di materiali “sporchi” che, in quanto tali, si fa fatica a re-
cuperare e sono lo riprese di sala realizzate in molti teatri o la documentazione
delle stesse compagnie. I primi sono materiali universalmente disponibili, gli altri
fonti preziose spesso gelosamente tenute segrete, proprio perché tecnicamente
inadeguate ma non per questo meno utili e funzionali alla bisogna. La gran
parte di questi ultimi materiali, oltretutto, o sono collocati presso archivi parti-
colari, dove non sempre ci si attende di trovarli, o sono letteralmente depositati
in scaffali senza che di essi esista una forma di schedatura. Costruire la memo-
ria del nuovo, da questo punto di vista, significa, dunque, in primo luogo por-
tare alla luce le tracce più utili, ma spesso le più nascoste, per un lavoro di
ricostruzione storica. Il problema, da un punto di vista metodologico, non con-
diario lo schizzo del Globe Theatre avesse voluto, anziché limitarsi ad annotare
per sé un’immagine sommaria di quell’edificio, fornirne una ricostruzione filo-
logicamente attendibile.
Il progetto critico di “The Drama Review” presenta alcuni aspetti problematici
– una certa difficoltà di lettura di quelle ricostruzioni e il fatto di essere limitate
a un numero circoscritto di spettacoli – ma offre un riferimento metodologico
importante: la costruzione della memoria del nuovo consiste, prima di tutto, nel
dare consistenza di cosa alla materia evanescente del fatto spettacolare, specie
lì dove, ribadiamolo ancora, esso è originario e non originato da un testo. La
questione principale, per poter lavorare di interpretazione su quel tipo di opere,
è poterle “vedere”. Metto tra virgolette una parola così ovvia per sottolinearne
le implicazioni metodologiche: vedere significa, infatti, ricostruire l’immagine di
qualcosa che, per sua stessa natura, non può essere visto. Il tramite linguistico,
gli strumenti operativi e, di conseguenza, la documentazione necessaria non
sono un dato di fatto ma il risultato di uno sforzo critico. Il documento, più che
essere rintracciato va costruito.
È evidente che una svolta radicale, in questa prospettiva, è offerta dalla docu-
mentazione audiovisiva. Quel tipo di documentazione – un tempo rara oggi
molto più diffusa – è un’occasione di lavoro preziosa, per non dire unica. Poter
usufruire – come mi è incorso di fare qualche anno fa – del filmato che rico-
struisce Il principe costante di Jerzy Grotowski, frutto di una straordinaria opera
di filologia sulle immagini documentarie dello spettacolo realizzata da Ferruccio
Marotti, rende possibile fare un’indagine dettagliata non solo delle dinamiche
sceniche ma anche delle implicazioni drammaturgiche legate al rapporto tra
azione scenica e testo letterario. Il caso del Principe costante è interessante
anche per un’altra ragione. Già prima del film di Marotti esisteva una ricostru-
zione dello spettacolo, realizzata, stavolta per il tramite della scrittura verbale,
da Serge Ouaknine che, dopo aver assistito a numerose repliche, aveva detta-
gliatamente descritto l’azione in relazione al testo che, tradotto dal polacco al
francese, veniva così messo a disposizione del pubblico occidentale. Si potrebbe
essere portati a credere che l’edizione del filmato – che recentemente è stato
anche sottotitolato, incrementando così le sue possibilità di diffusione – abbia
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mulare comporta la messa in gioco combinatoria di fonti di origine e qualità di-
verse. La prima è quella visiva, ma quasi sempre la traccia degli spettacoli con-
servata presso gli artisti è limitata a poche, se non pochissime immagini. Ma
esistono degli “involontari” archivisti teatrali: i fotografi. Accanto agli scatti pub-
blicati e a quelli conservati da artisti e compagnie c’è un mole notevolissima di
immagini che non sono finite nel circuito dell’informazione teatrale. Oltretutto
tali immagini, in un moderno approccio fotografico al teatro, non sono scatti in
posa, né fotografie isolate. Si tratta – spesso certo, non sempre – di immagini
in sequenza che attraversano momenti interi di uno spettacolo, se non addirit-
tura la sua completezza. Tali immagini, però, con la distanza che il tempo ha
posto rispetto all’oggetto spettacolare, perdono molta della loro pregnanza.
Sono cioè in grado di documentare, e non solo di illustrare, solo alla condizione
di interagire con altre fonti, le quali, oltretutto, sono conservate in luoghi fisi-
camente diversi da quelli in cui stanno le immagini. Alcune di tali fonti sono più
convenzionali – copioni, appunti di regia, recensioni – altre meno a cominciare
da quelle orali, vale a dire la testimonianza diretta del regista/autore e degli at-
tori messa a confronto con le immagini stesse. Ci sono poi i materiali sonori.
Sulla base delle indicazioni registiche (o di quanto si può ricavare da quelle pre-
ziosi fonti indirette che possono diventare, ma non sempre sono, le recensioni)
è possibile accostare, grazie alle tecnologie informatiche, musiche, suoni e im-
magini. Ci sono, poi, i casi fortunati in cui di uno spettacolo è conservata una
registrazione audio. L’insieme di queste tracce consentirebbe una ricostruzione,
virtuale e anche sommaria certo, ma senza dubbio preziosa di quel puro fiato
dell’accadere che è uno spettacolo teatrale.
Un piccolo sogno, per concludere. Uno degli artisti meno documentato audio-
visivamente nel nostro teatro – di cui viceversa è stato un grande maestro – è
Leo de Berardinis. I suoi spettacoli prevedevano una tale sofisticata partitura di
luci, colori e buio da rendersi nemica di qualsiasi registrazione video. Il suo ul-
timo straordinario assolo, tratto dai Finnegan’s wake di Joyce, Past Eve and Ada-
m’s è uno di quelli. Ma ne ho viste alcune magnifiche riproduzioni fotografiche
e ne ho sentito una registrazione audio. E se cominciassimo da lì? Se fosse quello
il primo esperimento di una nuova filologia del contemporaneo?
siste tanto allora nel recuperare tali materiali per acquisirli in un sistema con-
venzionale di archiviazione (biblioteche, centri specializzati, ecc.) ma costruire
una rete di conoscenze che consenta di sapere cosa c’è e dove sta, creando così
una vera e propria rete di archiviazione. Gli archivi del Nuovo Teatro – se li si vo-
lesse creare – non potranno mai, almeno per i prossimi anni, essere archivi con-
venzionali. Non tanto per la tipologia di materiali – l’archiviazione del visuale e
del mediale è oramai pratica corrente nelle nostre biblioteche – quanto per la
loro collocazione territoriale. Esistono tanti archivi particolari (grandi, piccoli, a
volte piccolissimi) legati in molti casi alle persone fisiche che agiscono ed hanno
agito nel panorama del Nuovo Teatro, che sono destinati, comprensibilmente,
a restare lì dove stanno. Importante sarebbe costruire un sistema di organizza-
zione dell’informazione (un sistema critico, quindi, prima che archivistico) in
grado di creare accessi mirati a quel tipo di documentazione. La costruzione
della memoria del nuovo si rivela sempre di più, mi pare, più un problema di me-
todo e di approccio critico che di pura sistematizzazione della documentazione
e delle fonti.
Un ultimo esempio per evidenziare un possibile approccio sperimentale, dal
punto di vista metodologico, alla materia. La documentazione audio visuale, si
è detto, è una fonte addirittura primaria per il tipo di studi di cui stiamo par-
lando. Non dobbiamo intenderla, però, solo nei termini più convenzionali di un
prodotto in una qualche misura, o anche del tutto, già confezionato. Può essere
altro. Può, ad esempio, riguardare tutto quell’insieme di materiali preparatori, sul
piano visivo, che, sulla scia di quanto stiamo dicendo, rappresentano più una te-
stimonianza di scrittura che un riscontro della messa in scena. Una traccia di na-
tura drammaturgica, dunque, lì dove la drammaturgia si è spostata decisamente
dalla pagina alla scena. Ma si può tentare anche altro, fare la scommessa di un
lavoro di ricostruzione testuale – si potrebbe parlare quasi di una filologia del
nuovo – a partire da tracce documentarie di tipo diverso. È solo un’ipotesi, quella
che sto lanciando, ma contiene in sé una ragione di metodo (e una strategia di
lavoro) significativa. La traccia di molti spettacoli è affidata, spesso, a materiali
isolati e spuri, portatore ciascuno di un quantum di informazione utile ma non
sufficiente al processo di ricostruzione storica. L’ipotesi che vorrei provare a for-
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LA MEMORIA IN RETE: IL CONTRIBUTO DELLE BIBLIOTECHEdi Gennaro Alifuoco
Quando, nel 1998, fu pubblicato il primo “quaderno di catalogazione” dell’Ar-
chivio Eduardo De Filippo dedicato ai copioni, il mio contributo negli interventi
introduttivi al volume – Tra occasioni perdute e nuove prospettive: quale ruolo,
oggi, per una grande biblioteca? – focalizzò allora, tra le altre cose, lo stato in-
certo delle nostre biblioteche, ancora in mezzo al guado tra la certezze del pas-
sato e le prospettive di un futuro che si preannunciava carico di rivoluzionarie
novità, e che ci vedeva in una situazione di sostanziale arretratezza, dal punto
di vista tecnologico ma soprattutto per ciò che concerneva la consapevolezza,
da parte degli operatori coinvolti, del drastico cambio di prospettiva. Le nuove
parole d’ordine – tutte concentrate sullo slittamento del punto focale dal pos-
sesso all’accesso, dalla gestione del documento fisico dentro un sistema chiuso
alla organizzazione di una rete di informazioni interna ed esterna alla biblioteca
– sembravano fare fatica ad imporsi. Eppure, in questi anni cruciali, anche in
Italia le biblioteche pubbliche hanno alla fine dimostrato non solo di adeguarsi
alle necessità di innovazione, ma di riuscire a diventare luogo privilegiato di ri-
flessione teorica e sperimentazione. Con una precisa consapevolezza: che un
potente antidoto al declino della biblioteca come raccolta di oggetti – quegli
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LA MEMORIA IN RETE: IL CONTRIBUTO DELLE BIBLIOTECHE | Gennaro Alifuoco
gere un testo non è più indispensabile tracciare dei segni di inchiostro sulla carta,
così come per ascoltare della musica registrata non è necessario possedere un
disco fonografico. Le parole e le immagini assumono sempre più una dimen-
sione “liquida”, nella loro natura di software disponibile a manifestarsi in ogni
dispositivo hardware e a duplicarsi e a manipolarsi all’infinito. Le biblioteche
sono invece nate, e per secoli hanno funzionato, proprio per accumulare i sup-
porti della conoscenza e renderli disponibili. Un libro era sì un prodotto dell’in-
gegno umano, ma entrava in biblioteca nella sua consistenza oggettuale, grazie
alla scelta di un bibliotecario che ne decideva l’acquisto (o perché la biblioteca
aveva diritto a una copia di quell’edizione, o la aveva ricevuta in dono), poi quel
libro veniva inventariato, bollato, punzonato, etichettato e catalogato, secondo
regole comuni e condivise ma all’interno di un sistema chiuso che serviva a col-
legare il lettore a quell’oggetto fisicamente collocato sopra uno scaffale.
Per fare questo i bibliotecari dell’epoca pre-digitale hanno elaborato regole di
catalogazione e normative comuni allo scopo di facilitare questo incontro tra il
lettore e il libro, e a rispondere – sulla scorta dei mitici Principi di Parigi del 1961
– a delle semplici, specifiche richieste: trovo quell’opera, di quell’autore, in quella
edizione? Cos’altro c’è in questa biblioteca di quell’autore, e in quali edizioni?
E ancora: cosa posso trovare su un determinato argomento?
È pur vero, però, che le ambizioni della comunità dei bibliotecari non sono mai
state confinate nel chiuso dei propri istituti, limitate alla organizzazione dei ser-
vizi di fornitura dei documenti. Da sempre, infatti, una delle esigenze più av-
vertite è la condivisione delle risorse informative. L’UBC (Universal Bibliographic
Control) e l’UAP (Universal Availability of Publications) sono stati nel passato i
due programmi dell’IFLA (International Federation of Library Associations and In-
stitutions) che – attraverso strumenti e pratiche condivise, come il deposito le-
gale, il prestito interbibliotecario, la cooperazione tra agenzie catalografiche –
si proponevano l’uno l’obiettivo di catalogare l’intero universo dei documenti
stampati, l’altro quello di renderne universalmente disponibile l’accesso. L’ela-
borazione e l’applicazione degli standard per la schedatura e la classificazione
ha permesso, attraverso la produzione e l’aggiornamento degli strumenti bi-
bliografici – cataloghi, repertori, bibliografie, ecc. – di avvicinarsi agli utopici
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teatroememoria Madamina, il catalogo è in rete
oggetti (libri, manoscritti, documenti iconografici e audiovisivi) fatti di atomi che
la rivoluzione digitale sta ormai radicalmente smaterializzando nella evanescenza
dei bit – è il suo approdo definitivo nei territori del knowledge management, ov-
vero nella organizzazione dei metodi e degli strumenti per facilitare l’accesso
alle informazioni. Obiettivo forse pretenzioso come l’anglicismo utilizzato, ma
di sicuro non estraneo alla sua secolare vocazione di organismo finalizzato alla
conservazione e alla diffusione, nel tempo e nello spazio, del sapere.
Sono stati anni cruciali, dicevamo, quelli che ci separano dalle prime timide ap-
parizioni di una pagina web sui computer di casa, trascorsi come un soffio di
vento che ha modificato definitivamente l’economia, la cultura, la società, le
nostre più personali abitudini di vita. Oggi ci sembra del tutto normale consul-
tare un motore di ricerca o la posta elettronica sul cellulare, guardare un video
di YouTube sullo schermo televisivo, sfogliare un quotidiano su un tablet, leg-
gere un saggio su un e-book, controllare il nostro conto corrente o pagare una
bolletta online. Allo stesso modo, per tornare al mondo delle biblioteche, ci pare
ovvio – e come abbiamo mai potuto senza? – effettuare una ricerca bibliogra-
fica davanti al monitor di un PC, compulsando cataloghi elettronici delle biblio-
teche di tutto il mondo, compilando o verificando bibliografie su banche dati,
e infine consultando interi documenti – dai codici manoscritti alle edizioni li-
brarie più recenti – senza abbandonare la nostra postazione informatica dome-
stica.
È ormai da tempo che l’informazione in formato digitale ha quantitativamente
superato, in ogni settore, quella analogica. È vero, leggiamo ancora e legge-
remo ancora in futuro – ma per quanto? – riviste e libri cartacei come quello che
in questo momento state tenendo tra le mani, ma la catena di produzione è
ormai tutta digitale, il trattamento di testi, immagini, suoni, è basato sulla ma-
nipolazione e distribuzione di bit, e il supporto finale della maggior parte dei
media è destinato a dissolversi nei canali di trasmissione delle reti mondiali o
dei dispositivi casalinghi e portatili di memorizzazione e lettura.
L’effetto più evidente di questi processi è il progressivo distacco dei contenuti dai
supporti che tradizionalmente ne rendevano possibile la trasmissione. Per leg-
LA MEMORIA IN RETE: IL CONTRIBUTO DELLE BIBLIOTECHE | Gennaro Alifuoco
tenzialità, anche in sistemi che sempre più interagiscono con i nodi informativi
della rete. È un’impresa ardua, se a quei codici e quelle liste si contrappone l’af-
fascinante anarchia dei tag clouds, generate magari dall’intervento diretto degli
utenti che, con la pratica del social tagging avvolgono il documento nella trama
di infinite associazioni, e che stanno ispirando, non sappiamo bene con quali ri-
sultati fattuali, i tentativi di edificare una Library 2.0.
Ma il concetto chiave, nell’era del knowlege management, è quello di meta-
data. Il modello tradizionale del sistema di ricerca – che consente di individuare
e reperire il documento fisico attraverso le indicazione fornite con il tramite di
una scheda catalografica – risulta del tutto inadeguate rispetto alle risorse elet-
troniche (una pagina web, una banca dati, un file MP3, un e-book) per loro na-
tura immateriali, delocalizzate e, soprattutto, continuamente variabili, mai fissate
in una forma definitiva, come invece quella di un codice manoscritto o di un
esemplare di un libro a stampa. Ci si è resi ben presto conto che la natura di que-
ste risorse impone che una descrizione delle stesse sia presente già all’interno
della loro struttura – o ad essa in qualche modo organicamente collegata – allo
scopo di facilitarne il reperimento, la gestione e il controllo. Il dibattito sui me-
tadati – ovvero quell’insieme di dati associati alla risorsa digitale che, a diversi
livelli di approfondimento e organizzazione, la descrivono dal punto di vista ca-
talografico, tecnico-gestionale e amministrativo – si è ampiamente sviluppato
generando numerosi modelli e applicazioni.
I metadati sono, di fatto, il motore invisibile che muove gli ingranaggi dei si-
stemi informativi a tutti i livelli. Un set di metadati – trasparente per l’utilizzatore
del documento – non serve solo ad informarmi su chi sia l’autore di un testo, di
una canzone, di un film, chi ne sia l’editore, in quale anno sia stata pubblicato,
in che giorno e a che apertura di diaframma ho scattato una fotografia, ma ge-
stisce la risorsa lungo il suo ciclo di vita: si interfaccia con i dispositivi di lettura
e visione, stabilendo se quella riproduzione digitale di un manoscritto possa es-
sere scaricata sul mio computer, per quanto tempo posso utilizzare una banca
dati prima di essere costretto a rinnovare la licenza, quante volte posso maste-
rizzare su un CD il file MP3 acquistato su Itunes per il mio Ipod.
Risulta evidente che le biblioteche che si vogliano porre al centro dei processi di
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teatroememoria Madamina, il catalogo è in rete
obiettivi programmatici iniziali.
Questo complesso apparato normativo e organizzativo, che governa le biblio-
teche intese come depositi dei supporti fisici delle informazioni, come si è evo-
luto di fronte ai processi di dematerializzazione tipici dell’età digitale?
Non è questa la sede per addentrarci nei tecnicismi, ma è interessante notare
come, in campo biblioteconomico, il bagaglio teorico-pratico si stia da tempo
modificando proprio per dare conto della complessità dei nuovi circuiti della co-
municazione e delle nuove forme della produzione di conoscenza.
È il caso, per esempio, del trattamento catalografico dei documenti. Arricchendo
la riflessione sulle tecniche di descrizione che ha portato all’elaborazione e ap-
plicazione delle norme ISBD (International Standard Bibliographic Description) –
ovvero l’insieme di regole e codifiche a cui si uniformano i cataloghi delle bi-
blioteche – l’IFLA ha proposto, a partire già dalla fine degli anni ’90, uno schema
di analisi strutturale dei documenti che ne rispecchiasse la natura composita,
funzionale anche al nuovo ordine/disordine della multimedialità e della rete. Gli
FRBR (Functional Requirements for Bibliographic Records) cercano così di af-
frontare l’aporia racchiusa nella catalogazione di ogni oggetto documentario,
che è al contempo opera intellettuale e supporto fisico concreto e singolare che
quell’opera trasmette. E lo fanno – superando lo schema descrittivo usuale (au-
tore - titolo - descrizione bibliografica - descrizione del documento fisico) – con
il ricorso al concetto di entità/relazione, secondo il quale un’Opera, nella sua
astratta natura di prodotto dell’ingegno umano (ad esempio, I promessi sposi),
si può sviluppare in diverse Espressioni (le molteplici stesure dell’opera, le tra-
duzioni, ecc.), si materializza fisicamente nelle concrete Manifestazioni (le varie
edizioni, a stampa, in formato elettronico, in forma di audiolibro), ed infine si
presenta concretamente al suo utilizzatore in un singolo Item (un esemplare di
quella manifestazione, con le sue specifiche individuali caratteristiche, il timbro
della biblioteca, una nota manoscritta, un ex libris, una macchia di umidità…).
È, questo, solo uno dei tentativi di sviluppare modelli teorici che, senza tradire
la coerenza logica, formale e semantica dei sistemi di descrizione catalografica
superino il collo di bottiglia della tradizionale ricerca condotta dentro l’ordine dei
codici di catalogazione, dei tesauri e dei soggettari, dispiegandone tutte le po-
LA MEMORIA IN RETE: IL CONTRIBUTO DELLE BIBLIOTECHE | Gennaro Alifuoco
Ma sono proprio i doveri insiti nella propria missione a costituire l’elemento fre-
nante che rende il confronto con i competitors sbilanciato a favore di questi ul-
timi. Nel momento in cui un colosso tecnologico e finanziario come Google
investe quantità enormi di denaro nella ricerca e nell’innovazione e dà vita a
prodotti e soluzioni che riescono ad inserirsi nell’orizzonte dei gesti abituali della
nostra vita quotidiana, come quelli di formulare interrogazioni sul motore di ri-
cerca attraverso un PC, uno smartphone, un televisore e ricevere in pochi se-
condi le risposte giuste (o presunte tali), si intende bene come l’offerta di una
biblioteca, per quanto qualificata e ricca di contenuti, risulti meno appetibile. Se
poi Google decide di invadere gli stessi spazi d’azione delle biblioteche, le in-
quietudini non possono che aumentare…
L’annuncio, nel 2004, da parte dell’azienda californiana, dell’accordo con cin-
que grandi biblioteche nordamericane per la digitalizzazione del loro intero pa-
trimonio librario ha segnato il punto di partenza di una strategia molto
aggressiva. Ben prima di Google le biblioteche avevano raggiunto la consape-
volezza che, nell’era della società globalizzata, era necessario abbattere simbo-
licamente le proprie pareti e irrompere nei flussi comunicativi della rete
planetaria. Da questa esigenza nasce la “biblioteca digitale”, una vera e propria
rivoluzione copernicana, che porta con sé radicali trasformazioni nelle compe-
tenze, nell’organizzazione dei servizi, nell’elaborazione di tecniche e standard.
L’ambizioso progetto della società di Mountain View ha sparigliato le carte, sti-
molando gli organismi governativi e culturali europei ad elaborare strategie al-
ternative e concorrenti, volte a contrastare il predominio statunitense nel
controllo delle risorse informative digitali. Non sappiamo però con quali spe-
ranze di successo: mentre le nostre istituzioni si affannano, con esiti sempre più
incerti, a reperire fondi, ad elaborare piani d’azione, a discutere di norme e pro-
tocolli, a cercare di creare sistemi interoperabili, la macchina da guerra di Goo-
gle, senza l’impiccio di dover negoziare soluzione condivise ma tenendo conto
soltanto delle proprie compatibilità economiche e strategie aziendali, avanza
col peso di milioni di pagine digitalizzate, in un progetto complessivo che, forte
della potenza del proprio motore di ricerca e degli altri strumenti che elabora a
ritmo continuo, sembra quasi voler realizzare l’utopico disegno di una riprodu-
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gestione della conoscenza, nella strutturale ibridazione di reale e virtuale, ab-
biano bisogno di apparati teorici e strumentazioni tecniche sempre più com-
plessi, per far fronte ai nuovi scenari che già si propongono all’orizzonte. Scenari
come quelli che fa intravedere il “web semantico” – proposto, ancora una volta,
da Tim Berners-Lee, l’“inventore” del World Wide Web – ambizioso tentativo
di mettere ordine nella feconda ma sregolata entropia dell’informazione nei
flussi comunicativi del cyberspazio. Attraverso linguaggi flessibili come RDF (Re-
source Description Framework) e XML (eXtensible Markup Language), i testi
non avranno solo una “formattazione” secondo i codici dell’HTML, ma anche
un “significato”, una struttura semantica che permetterà ai documenti digitali
di dialogare e interagire, di interfacciarsi in modo “intelligente” con i bisogni in-
formativi dell’utente. Non più dati isolati, collegati tra loro solo da link che non
discriminano i contenuti, ma informazioni codificate e strutturate in maniera
tale che gli agenti di ricerca siano in grado di estrapolare le relazioni pertinenti.
Sono in molti a considerare il web semantico un’utopia, alla stessa stregua di
tutti i tentativi di dare forma e accesso all’intero docuverso, come il grande ir-
realizzato progetto Xanadu di Ted Nelson. Ma da ogni utopia può scaturire la
spinta alla ricerca e all’innovazione.
Già da queste brevi note si può intuire la natura della crisi – una crisi feconda e
stimolante, ma pur sempre una crisi – che oramai da tempo scuote il mondo
delle biblioteche. La sopravvivenza di questa secolare istituzione è, infatti, le-
gata alla capacità di essere competitiva sul terreno del knowledge management,
senza però tradire la sua propria vocazione, che è quella di offrire un servizio
pubblico di accesso alla conoscenza qualificato, controllato, continuamente sot-
toposto a validazioni e verifiche, attuato attraverso procedimenti e normative di-
scussi e accettati dalla comunità degli operatori, all’interno di politiche culturali
comuni, realizzate anche per mezzo di accordi sovranazionali, e il più possibile
svincolate da condizionamenti economici e dalle ragioni del mercato. I risultati,
bisogna pur dirlo, sono stati ragguardevoli, e nel breve arco di un quindicennio
l’istituzione bibliotecaria si è posta all’avanguardia nella elaborazione di nuove
tecniche e strategie per la gestione della conoscenza.
LA MEMORIA IN RETE: IL CONTRIBUTO DELLE BIBLIOTECHE | Gennaro Alifuoco
bigue e di difficile interpretazione, spesso contaminate da pregiudizi sugli aspetti
intrinsecamente “libertari” e sfuggenti insiti nelle tecnologie delle reti, basate su
una condivisione aggregata dalle più disparate esigenze, ancora non rigorosa-
mente normalizzate e burocratizzate.
Quando nacque, il progetto Archivi di Teatro Napoli si inseriva in un panorama
in continuo mutamento, la cui evoluzione non era né prevedibile né scontata.
Avemmo però, dal nostro specifico osservatorio, quello di una biblioteca al cen-
tro di radicali trasformazioni, subito ben chiari alcuni punti cardine del progetto.
Che, innanzitutto, fosse il web il luogo naturale di sviluppo e crescita del pro-
getto, e che nel web si dovesse riuscire a creare un modello di partecipazione
che consentisse la condivisione di risorse inerenti la storia del teatro apparte-
nenti ad una pluralità di partecipanti, dalle istituzioni pubbliche e private (bi-
blioteche, archivi, musei, istituti culturali) fino ai singoli collezionisti. E che queste
fonti fossero rese accessibili a tutti non solo attraverso la catalogazione dei do-
cumenti, ma anche attraverso la loro digitalizzazione.
Fu una scelta impegnativa, che – prescindendo dagli sforzi necessari a superare
gli ostacoli organizzativi e burocratici, i vincoli del copyright e le scelte delle sin-
gole istituzioni riguardo le modalità di accesso alle proprie fonti, e soprattutto
i problemi legati alla ricerca dei finanziamenti – ci pose davanti ad una serie di
scelte, solo in apparenza concernenti l’aspetto informatico, ma che di fatto
avrebbero determinato la specifica valenza culturale del progetto.
Il nodo più resistente da scogliere, in un progetto che vede la cooperazione di
soggetti così diversi, è stato, ed è tutt’ora, quello della interoperabilità, vale a
dire la capacità di creare e gestire uno spazio comune per lo scambio di dati
provenienti da sistemi distanti tra loro, differenti sia per gli oggetti trattati (libri,
fotografie, documenti d’archivio, locandine, ecc.) sia per gli strumenti catalo-
grafici adottati. Il nostro utopistico obiettivo era stato, sin dagli inizi, quello di
creare un sistema di ricerca e interrogazione che riuscisse a mettere insieme, a
correlare, a strutturare le risorse sulla storia del teatro provenienti dalle più sva-
riate fonti. Interrogare il nostro archivio, partendo, ad esempio, dal nome di un
attore, e ricostruire un percorso di ricerca attraverso le diverse fonti, trovando le
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zione 1 a 1 della conoscenza e dell’informazione del pianeta in tutte le sue
forme (libri, immagini, video), e persino della superficie terrestre (e, se per que-
sto, anche della Luna e di Marte…).
Chiunque oggi lavori in ambito bibliotecario, o sia coinvolto nell’organizzazione
e gestione di raccolte documentarie, si muove quindi su un terreno minato,
dove le opzioni progettuali devono fare i conti su una serie di variabili, non solo
tecnologiche, ma economiche e, in definitiva, politico-culturali. Una questione
centrale, a questo proposito, è quella del libero accesso. Non c’è dubbio che, per
una biblioteca, mettere a disposizione i propri documenti e altre risorse in rete
comporti una serie di investimenti non indifferenti: i costi per l’acquisizione e la
metadatazione è elevato, ma ancora più impegnativo è l’impegno richiesto per
la gestione e conservazione.
Le risorse digitali sono, allo stato attuale, ben più fragili di quelle analogiche, e il
loro ciclo di vita si conta in lustri, o, al massimo, in decenni: deperisce l’hardware,
invecchia inesorabilmente il software, sono necessarie adeguate infrastrutture
tecnologiche per lo stoccaggio e la conservazione dei dati e per la sua distribu-
zione in rete. Tutto ciò, insieme forse al quel senso del possesso connaturato a
molti operatori delle biblioteche, potrebbe indurre a politiche di accesso più re-
strittive, condizionate dal pagamento di tariffe che, almeno in parte, contribui-
rebbe a coprire costi di gestione e, soprattutto in questi tempi assai grami per
le biblioteche e le istituzioni culturali pubbliche, a costituire, perché no, una pre-
ziosa fonte di guadagno. Ovviamente, non ci possono essere risposte univoche
in tal senso: se, a mio avviso, bisogna senz’altro equiparare l’accesso “fisico” alla
biblioteca – che, in genere, mi consente di usufruire liberamente e gratuita-
mente dei suoi servizi e dei documenti conservati nei suoi depositi – all’accesso
virtuale alla biblioteca digitale o a un repository di documenti in rete, dall’altro
è senz’altro plausibile, per sostenere i costi di un archivio documentario pubblico
prevedere una gestione mista, con contenuti in parte gratuiti e in parte a pa-
gamento, attraverso sistemi di document delivery sul modello della British Li-
brary o della Bibliotheque Nationale de France. E non si può tralasciare l’altro
notevole ostacolo rappresentato dalle legislazioni per la tutela del copyright,
che tendono a essere sempre più restrittive e, per quanto riguarda il web, am-
LA MEMORIA IN RETE: IL CONTRIBUTO DELLE BIBLIOTECHE | Gennaro Alifuoco
La nostra ambizione è quella di utilizzare il progetto Archivi di Teatro Napoli
anche a questo scopo, a patto che prosegua ancora e con ancora maggiore
convinzione da parte delle istituzioni coinvolte la cooperazione tra soggetti pub-
blici e privati, tra competenze scientifiche e saperi umanistici, che ha finora ani-
mato il progetto.
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fotografie in cui è raffigurato, le locandine degli spettacoli teatrali a cui ha par-
tecipato, un copione con le sue note manoscritte, un contratto con la compa-
gnia, una recensione o un articolo di un giornale in cui il suo nome è citato, e
così via, creando in tal modo una fitta rete di relazioni che collegasse organica-
mente le risorse documentare teatrali del territorio.
La condizione per arrivare ad un risultato del genere è quella di riuscire a far
dialogare tra loro linguaggi di catalogazione nati per scopi e con standard di-
versi, ed in più estrarre le informazioni testuali dai documenti, attraverso pro-
grammi di riconoscimento automatico dei caratteri, riuscendo ad aggregare
queste informazioni in maniera trasparente per l’utente. Possiamo affermare
che in questi anni, grazie anche alla preziosa collaborazione dell’Istituto di Ci-
bernetica “Eduardo Caianiello” del CNR, siamo riusciti, con pragmatica sempli-
cità, ad avvicinarci a questo risultato.
Ma il naturale approdo degli sforzi compiuti in questi anni dovrebbe, nei nostri
intenti, essere rivolto alla elaborazione di un sistema avanzato di federated
search che, piuttosto che operare su insiemi di dati preordinati, estrapolati da ar-
chivi e cataloghi e in qualche modo duplicati e “riadattati” per i nostri scopi, riu-
scisse a interrogare direttamente basi di dati di diversa natura e provenienza,
estrapolando e riaggregando dinamicamente i risultati ottenuti negli ambiti di
pertinenza dell’archivio. E, in prospettiva, non sarà possibile ignorare le pro-
messe del web semantico, ovvero la ricerca del Santo Graal dei sistemi di ge-
stione della conoscenza. Per ottenere la possibilità di una indicizzazione
automatica dei documenti dal punto di vista dei concetti e dei contenuti dovrà
essere necessario basarsi su sofisticati strumenti di classificazione dei documenti,
come le ontologie, insiemi di dati strutturalmente organizzati secondo specifi-
che regole semantiche e logico-formali interpretabili da un programma infor-
matico.
Come si può intuire, si tratta di soluzioni affascinanti quanto complesse, per le
quali le biblioteche – da sempre avvezze ad elaborare sistemi di classificazione, in-
dici, tesauri (che possono costituire la base per la generazione più o meno auto-
matiche delle ontologie) – rappresentano un ideale laboratorio di sperimentazione.
LA LINEA SOTTILEdi Oreste Zevola
C’è una linea sottile, non sempre visibile ma costantemente tracciata, che uni-
sce l’opera di un artista alle opere di coloro che lo hanno preceduto e crea un
legame nuovo con chi lo seguirà. Questa linea che ne traccia la storia, e spesso
ne facilita la comprensione, è la memoria.
Anni fa, lavorando ad una pubblicazione sulla malattia d’Alzheimer, riflettevo
sull’importanza di questo straordinario strumento senza il quale viene meno
non solo l’attività conoscitiva di un uomo, ma l’umanità stessa nella sua essenza
più profonda.
Nella vita come nell’arte ciascuno è l’addizione delle vite che lo hanno preceduto
ed ogni opera è figlia delle emozioni che altre opere sono state in grado di pro-
vocare nel proprio animo. La memoria in questi ultimi anni è stata oggetto di in-
dagine da parte di molti artisti, che ne hanno esplorato i meccanismi e in modi
diversi ne hanno raccontato la funzione, rappresentando la propria esperienza
attraverso il suo utilizzo. Personalmente voglio credere che nel momento in cui
la mia mano traccia un segno su un foglio o su una tela, lo faccia seguendo o
deviando da questa eterna linea che stabilisce confini e disegna le frontiere che
ognuno di noi prova tenacemente ad attraversare.
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DA ReMuNa AL CIRCUITO INFORMATIVO REGIONALEPER I BENI CULTURALIdi Mario Mango Furnari
Introduzione
I beni culturali svolgono un ruolo determinante per la conservazione dell’iden-
tità e della cultura di una comunità legando la conservazione dell’identità dei po-
poli ai grandi progetti di riforma del sapere. La loro preservazione, conservazione
e promozione è caratterizzabile come un crocevia in cui si incontrano filosofia
e fisiologia, arti figurative e logica combinatoria, astrologia e magia. Crocevia
che vede l’intreccio di competenze diverse, e che è il punto obbligato di fronte
al quale si trovano le società e le culture del terzo millennio, nella consapevo-
lezza che l’eclisse delle memorie/identità porterebbe al progressivo oscuramento
delle nostre coscienze, all’oblio del nostro lavoro, sino alla perdita della nostra
identità.
La distribuzione geografica dei luoghi di conservazione dei beni culturali rende
difficile formulare un’offerta unitaria dei beni culturali di una città, di una re-
gione, per non parlare di una nazione. Per cui è necessario pensare in termini
di sistema globale di conservazione e promozione in cui articolare e far coope-
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DA ReMuNa AL CIRCUITO INFORMATIVO REGIONALE | Mario Mango Furnari
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plicherebbe un’effettività materiale, una presenza tangibile. A titolo di esempio
si pensi all’odierna tecnologia della rappresentazione 3D immersiva, la realtà
virtuale.
IpertestualizzazioneUn testo scritto impone una struttura lineare (sequenziale) alla sua rappresen-
tazione mentre l’ipertesto consente di superare tale limite. L’ipertesto è il risul-
tato di una serie di decisioni, quali la regolazione della grandezza dei nodi e dei
moduli elementari, la disposizione delle connessioni concettuali, la struttura del-
l’interfaccia di navigazione, ecc. Non è, quindi, deducibile logicamente a partire
dal testo originario. Il processo di creazione di un ipertesto consente al naviga-
tore, a partire da una riserva testuale e dagli strumenti di composizione, di pro-
gettare infiniti altri testi. Il processo di ipertestualizzazione trasforma il testo in
una problematica testuale e, in quanto tale, è un processo opposto alla lettura.
Una volta analizzati i processi elementari è necessario analizzare anche le me-
todologie di rappresentazione digitale delle informazioni. Si osservi che una qua-
lunque rappresentazione digitale è essenzialmente costituita da due strutture
distinte e separate, la struttura fisica e la struttura logica. La struttura fisica rap-
presenta, ai fini dell’elaborazione e dell’archiviazione, il modo con cui un si-
stema algoritmico interpreta la sequenza dei bit di codifica. La struttura logica
è il modo con cui un utente (umano o artificiale) interpreta e riconosce, in un
preciso ambito concettuale, le codifiche della rappresentazione della cono-
scenza. È in questa parte della rappresentazione che si indicano, ad esempio, le
relazioni contestuali “tra” e “nelle” con altre rappresentazioni. Sarà il software,
che integrando le strutture logiche e fisiche renderà accessibile, riconoscibile e
comprensibile la conoscenza rappresentata nella forma di documenti digitali.
I documenti digitaliUn documento è un oggetto virtuale a cui è associabile una rappresentazione
digitale che codifica le informazioni interpretabili da un agente umano o da un
agente software. Un documento convoglia più tipologie di informazioni: il con-
tenuto (la rappresentazione di ciò che si vuol comunicare); la presentazione (le
rare soggetti, forze e competenze fortemente diversificate.
Nell’ultimo ventennio il rapporto tra informatica e telecomunicazioni si è con-
solidato ed ha ampliato i momenti di sinergia con un proficuo interscambio di
metodologie e tecnologie. Oggi è inimmaginabile una qualunque attività che
non veda l’utilizzo di sistemi di calcolo e delle reti di telecomunicazione come,
ad esempio, la fornitura di servizi via web. L’applicazione delle tecnologie di-
sponibili (anche quelle dell’immediato futuro) al mondo dei beni culturali ne-
cessita, comunque, di un approfondita analisi onde evitare di inseguire mode
che si riducono a garantire ampliamenti del mercato di utilizzo delle specifiche
tecnologie. Tra i processi candidati ad essere approfonditi, prima di un loro uti-
lizzo nel mondo dei beni culturali, vi sono quelli di digitalizzazione, virtualizzazione
e ipertestualizzazione delle informazioni/conoscenze. Per fissare il significato di
questi, così come sono stati da noi intesti per lo sviluppo dei prototipi di sistemi
informativi, si utilizzerà come processo archetipico l’emergere della scrittura .
Digitalizzazione - VirtualizzazioneIl processo di scrittura non produce conoscenza immediatamente interpretata
dall’uomo bensì un insieme di possibili (testi). La scrittura, quindi, non può es-
sere ridotta a mera registrazione della parola (codifica della memoria) in una se-
quenza di codici (scrittura -digitalizzazione). L’insieme dei possibili per quanto
vasto è numericamente finito e logicamente chiuso, per questo deve essere con-
siderato una combinatorica ma mai un campo problematico. In sintesi la scrit-
tura deve essere considerata un processo che accelera l’esteriorizzazione e la
virtualizzazione della memoria.
La parziale oggettivazione della memoria nel testo ha, inoltre, permesso lo svi-
luppo di una tradizione critica; ha fatto emergere un dispositivo di comunica-
zione nel quale i messaggi sono molto spesso separati, nel tempo e nello spazio,
dalla sorgente che li ha emessi e vengono quindi recepiti fuori dal contesto. Dire
che il processo della scrittura è un processo virtualizzante significa che la parola
virtuale è utilizzata per significare elevare a potenza l’entità considerata, in con-
trapposizione al significato generalmente assegnato alla parole virtuale intesa
come di assenza della pura e semplice esistenza, dal momento che la realtà im-
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versi nodi di elaborazione. In questo modo si è definita un’architettura di un Si-
stema Informativo Documentale Distribuito e Cooperativo.
Un sistema documentale distribuito e cooperativo per i Beni Culturali
In questa parte del lavoro si delinea il percorso di ricerca seguito nell’analizzare
e verificare sul campo la concreta utilizzabilità delle emergenti tecnologie infor-
matiche nello sviluppo di un sistema informativo documentale quanto più pos-
sibile aderente alle esigenze degli operatori istituzionali del settore dei beni
culturali. L’idea intorno alla quale si sono sviluppate le diverse attività di ricerca
è quella di progettare un sistema che abbia l’obiettivo di facilitare la coopera-
zione fra i musei e le soprintendenze, che facendo massa critica, possano pro-
muovere il patrimonio culturale di un territorio utilizzando le tecnologie web. La
cooperazione è stata realizzata con la costituzione di Circuiti di Promozione su-
perando la logica dei siti e/o portali web.
Una preoccupazione costante delle attività di ricerca è stata la possibilità di ve-
rificare, ad ogni passo ed in modo concreto, la possibilità di riuso ed arricchi-
mento delle informazioni, così da non disperdere il patrimonio documentale
acquisito negli anni. Un altro aspetto su ci si è focalizzati è il processo di back-
office per la produzione di documentazione, in particolare per quanto riguarda
l’organizzazione logica.
Problematiche organizzativePunto di avvio del percorso di ricerca è stato la individuazione e la costituzione
di una comunità di operatori istituzionali del settore dei beni culturali e del
mondo della ricerca tecnologica. Elemento aggregante è stato l’instaurarsi di
un rapporto fiduciario di cooperazione non solo scientifica. Lo sviluppo nel
tempo di questo rapporto fiduciario ha consentito di enucleare gli aspetti di ri-
cerca più strettamente scientifica e tecnologica ed ha dato luogo ad ipotesi di
soluzioni, la cui efficacia è stata discussa e verificata nel concreto operare della
comunità.
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informazioni riguardanti le modalità potenziali di fruizione); la struttura, che ca-
ratterizza il documento evidenziando la struttura del contenuto, eventualmente
non lineare (ipertesto); i metadati, le annotazioni che facilitano l’utilizzo del do-
cumento e catturano alcuni aspetti semantici del contenuto. Il ruolo del docu-
mento è quello di contenitore e la sua struttura è tale da garantire iden-
tificabilità, leggibilità e ricuperabilità sia di se stesso che delle informazioni con-
tenute.
Con una tale organizzazione concettuale delle informazioni (conoscenze) è pos-
sibile fornire agli utenti non solo gli oggetti che rappresentano l’informazione
ma anche i contesti interpretativi degli stessi contenuti (conoscenze). Sistemi
che utilizzano questo tipo di organizzazione sono da considerare esempi di si-
stemi software in cui i processi di virtualizzazione e ipertestualizzazione sono
realizzabili e dove l’utente svolge il ruolo di soggetto attivo e di mediazione del
processo di comprensione.
Utilizzando le tecnologie digitali un documento può essere oggi rappresentato
in modo uniforme. A partire dalla nozione di documento, si può costruire la no-
zione di Deposito di Documenti, cioè un oggetto che, alla stessa stregua del do-
cumento, ha un contenuto ed una struttura. Un aspetto interessante è che la
struttura del Deposito di Documenti è rappresentabile essa stessa mediante do-
cumenti.
In definitiva, un sistema informativo costruito a partire dalla nozione di docu-
mento consente: di rappresentare il contenuto esplicito di informazioni che ge-
stisce; le informazioni a proposito del sistema; le informazioni di raccordo tra i
suoi livelli organizzativi. Informazioni che debbono essere definite in modo da
essere elaborabili ed interpretabili automaticamente. Un sistema informativo
che realizzi questa architettura è detto Sistema Informativo Documentale.
Utilizzando le metodologie di progettazione software modulare e a componenti
è possibile implementare la precedente architettura di Sistema Informativo Do-
cumentale in modo tale da garantire un’elevata flessibilità nel numero e nella
specializzazione dei moduli software. Un altro vantaggio di queste strategie di
implementazione è la possibilità di utilizzare sinergicamente le metodologie dei
sistemi di telecomunicazione e quindi distribuire le funzionalità dei moduli su di-
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la produzione, archiviazione e diffusione telematica dell’informazione rela-
tiva ai BB.CC. a mercati diversi, quali il turismo e l’editoria elettronica. Nel
progetto sono state integrate diverse strutture organizzative dell’informa-
zione, che vanno dal modello gerarchico, basato sulla catalogazione dell’in-
formazione secondo gerarchie predefinite ed estensibili; a quello basato sui
DataBase Relazionali.
• Il Museo Virtuale di Napoli: Rete dei Musei Napoletani (ReMuNa)3 (2000-
2006)
Con questo progetto fu progettato e realizzato il prototipo di Sistema In-
formativo Multimediale Museale (SIMM), le cui componenti erano tra loro in-
tegrate con la mediazione di un Application Server, in cui si è convogliata la
logica dell’interazione e della cooperazione. La nozione di servizio collezione
distribuita è stata utilizzata per costruire dinamicamente collezioni di conte-
nuti. La piattaforma software (Octapy) sviluppata fu caratterizzata dall’uti-
lizzare il documento, nell’accezione più generale possibile, come elemento
di organizzazione dei contenuti. Octapy consentì di realizzare una prima im-
plementazione della nozione di Deposito di Documenti.
• Sistemi Informativi Avanzati per i Beni Culturali (SIABeC)4 (2005-2008)
In questo progetto furono estese le metodologie e le tecniche indagate in Re-
MuNa per l’organizzazione delle collezioni dei metadati. In particolare fu ve-
rificata l’adeguatezza della metodologia delle ontologie per la costruzione di
sistemi software orientato al web semantico. Questo ha consentito di intro-
durre una organizzazione/struttura nello spazio delle informazioni, semplifi-
cando così la costruzione di sistemi cooperativi, in accordo con l’iniziativa
del web semantico. Furono costruiti e sperimentati schemi incrementali e
specializzati di metadati (ontologie) senza invalidare lo scambio di queste in-
formazioni fra sistemi eterogenei.
Il principale risultato tecnologico di questa sequenza di progetti è la piattaforma
open source Octapy3. Octapy3 è uno strumento estremamente flessibile ma al
tempo stesso facile da usare. Con l’ausilio di un’interfaccia grafica gradevole e
semplificata è possibile gestire contenuti, modificarne il workflow, condividere
documenti su Internet. Con Octapy è possibile costruire sistemi documentali vir-
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teatroememoria Madamina, il catalogo è in rete
I problemi affrontati hanno riguardato l’identità e la storia degli aderenti alla
comunità. Preliminarmente si è dovuto affrontare il problema dell’attribuzione
di un significato condiviso alla parola progetto. Tipicamente la parola progetto
evoca l’idea di attività aggiuntive a quelle ordinarie piuttosto che una modalità
operativa (lavorare per progetti). Raramente, inoltre, sono pianificate le attività
e le corrispondenti dotazioni finanziarie per la messa in esercizio, né è previsto
lo svolgimento a regime dei risultati più significativi. Tutto ciò, generalmente,
tende a demotivare i potenziali aderenti portati ad evidenziare più i rischi che i
benefici che la partecipazione ad un progetto comporta.
Costante attenzione è stata, pertanto, rivolta all’individuazione di efficaci mo-
dalità di coesione nel tempo della comunità. Modalità che hanno riguardato
non solo aspetti istituzionali quali la garanzia di autonomia operativa per i com-
piti di propria competenza, la salvaguardia e valorizzazione delle proprie atti-
vità,ma anche aspetti informali, quali i rapporti interpersonali instaurabili nella
comunità, condivisione degli obiettivi e delle procedure.
Problematiche tecnologicheLa ricerca informatica ed il susseguente trasferimento si è focalizzata sull’indivi-
duazione degli aspetti e dei problemi riguardanti l’intero processo di valorizza-
zione e promozione dei beni culturali. Aspetti per i quali si potessero proporre
e realizzare soluzioni sostenibili utilizzando tecnologie di frontiera. La ricerca
delle metodologie e tecnologie da utilizzare è stata articolata e vissuta nella ar-
ticolazione di diversi progetti, tra i quali:
• Neapolitan Tourist Network (NTN)1; (1993-1996)
L’obiettivo fu lo studio di fattibilità per una guida ipertestuale che consentisse
di effettuare un viaggio virtuale attraverso i mille tesori di Napoli e di piani-
ficare un itinerario reale di visita, utilizzando le emergenti tecnologie Inter-
net e Web. Nel corso del progetto fu messa a punto una metodologia di
costruzione di documenti ipermediali adatti ad essere distribuiti in rete a par-
tire da un insieme di documenti arricchiti da mappe sensibili.
• An environment for a Virtual Hypermedia Factory (VHF)2 (1996-1999)
In questo progetto è stato definito e realizzato un prototipo di ambiente per
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dominio per il raccordo tra diversi schemi di metadati; supporta l’OAI ed il pro-
filo PICO sviluppato del MIBAC e quindi interopera con il portale della cultura
nazionale.
Octapy3 e i circuiti cooperativi di promozione
Oggi Octapy è adoperato con successo come piattaforma tecnologica in oltre
100 nodi documentali a tecnologia web che consentono la realizzazione di cir-
cuiti virtuali di cooperazione in diversi progetti e realtà operative. I principali cir-
cuiti sono:
- il Circuito Culturale della Campania
(http://www.campaniabeniculturali.it);
- il ‘Museo dell’identità del territorio della Terra di Bari
(http://www.memoriaeconoscenza.it);
- la rete dei Musei Culturali della Puglia e dell’Albania
(http://www.cchnet.it).
I tematismi come “musei impossibili”La cooperazione tra i diversi partecipanti al circuito trova la sua concreta estrin-
secazione nella realizzazione di percorsi culturali comuni. Questa ultima possi-
bilità è stata realizzata ideando la nozione di tematismo, ossia di itinerari tematici
trasversali ai singoli musei ed istituzioni culturali ma che si presentano tuttavia
in maniera unitaria. In realtà i tematismi sono composti da documenti che “vir-
tualmente” provengono da differenti sistemi, e che sono armonizzati dal CMS
Octapy3 in modo automatico.
Un tematisma è “Napoli tra vedutismo e cartografia” composto da una colle-
zione di 71 schede di: oggetti archivistici (gestiti dall’Archivio di Stato di Napoli),
oggetti artistici (gestiti dalla Soprintendenza Speciale al Polo Museale Napole-
tano, etc.
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tuali, interamente popolati da contenuti provenienti da circuiti di sistemi distri-
buiti, anche in presenza di una differente struttura organizzativa dei dati, nel ri-
spetto delle autonomie ed identità dei singoli information provider. È possibile
garantire la interoperabilità verso altri sistemi non utilizzanti Octapy in quanto
sono utilizzate tecnologie di interoperabilità quali l’OAI ed il Web Semantico.
L’utilizzo di Octapy consente a ciascun Museo, Soprintendenza, Sito Archeolo-
gico, etc. di gestire i documenti per diverse tipologie di beni secondo i propri
processi interni e quindi scegliere se pubblicare e/o rendere disponibile un do-
cumento o parte di esso ad un determinato aderente al circuito di promozione.
La versione 3.0 di Octapy rappresenta un solido Content Management System
(CMS) con una interfaccia grafica orientata al web ed ottimizzata per il data
entry di grandi quantità di dati, che consente di:
- Realizzare, gestire e pubblicare documenti aventi una struttura libera e un
modello organizzativo di produzione.
- Disporre di un solido CMS di base come Plone, in modo da sfruttare a pieno
le potenzialità di un prodotto maturo, ed una interfaccia grafica Web-like ot-
timizzata per il data entry di grandi quantità di dati, tradizionalmente non
fornita dai CMS web.
- Scambiare documenti tra sistemi differenti e autonomi, così da costruire flussi
documentali tra attori distinti.
- Effettuare ricerche “guidate” tra i sistemi differenti, utilizzando specifiche
tassonomie (leggasi ontologie) di dominio che siano di raccordo tra diversi
schemi di metadati.
- Supportare l’OAI ed il profilo PICO sviluppato del MIBAC così da interoperare
con il portale della cultura nazionale.
- Gestire la cartografia e di documenti cartografici.
In definitiva rappresenta un solido Content Management System (CMS) con una
interfaccia grafica orientata al web ed ottimizzata per il data entry di grandi
quantità di dati. Octapy3 consente di: scambiare documenti tra sistemi diffe-
renti e autonomi o costruire flussi documentali tra attori distinti; di produrre,
gestire, pubblicare e scambiare documenti con struttura e modello dati libero;
effettuare ricerche “guidate” utilizzando specifiche tassonomie (ontologie) di
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Conclusioni
L’attuale tendenza del mercato delle tecnologie innovative, tra le quali primeg-
giano quelle informatiche, ha un ciclo di vita da 2 a 3 volte più veloce del più
breve processo decisionale amministrativo. L’esperienza acquisita nella condu-
zione dei progetti descritti ha fatto maturare la convinzione che per consolidare
l’utilizzo e poi la produzione di tecnologie avanzate è indispensabile disporre di
un nucleo forte e stabile che possa attrarre la produzione di conoscenze tecno-
logiche. È da sottolineare, comunque, che la presenza sul territorio di centri ca-
paci di attrarre tale tipo di conoscenze o di centri di eccellenza non è di per sé
una garanzia di consolidamento delle stesse conoscenze ma rappresenta solo
una condizione necessaria perché ciò avvenga. Per ridurre, inoltre gli effetti ne-
gativi di una così rapida obsolescenza tecnologica una soluzione percorribile è
di prevedere, in fase progettuale, l’utilizzo di tecnologie che nei laboratori di
engineering sono in fase avanzata di sviluppo.
1 Parzialmente finanziato dalla HP-Italia.2 Il progetto “An environment for a Virtual Hypermedia Factory” EU-VHF. N° 22251 è stato finanziato dal-
l’Unione Europea; vi hanno partecipato 14 partners di 4 nazioni europee ed è stato coordinato dall’Istitutodi Cibernetica “E. Caianiello”.
3 Finanziato dal MIUR - L. 488 Cluster C29.4 Finanziato dal POR Campania Misura 16.
PromotoriArchivio di Stato di NapoliCentro documentazione teatrale
Biblioteca Nazionale di NapoliSezione Lucchesi Palli
Museo di San Martino NapoliSezione Teatrale
Società Napoletana di Storia Patria
Associazione Voluptaria
Consiglio Nazionale delle RicercheIstituto di Cibernetica Eduardo Caianiello
PatrocinioRegione CampaniaPresidenza
Comune di NapoliAssessorato alla Cultura
Fondazione Cariplo
Ideazione e coordinamentoErnesto Cilento
Realizzazione tecnicaMichele Castelli
Progetto grafico e coordinamento immagineStudio Eikon
Amministrazione e contabilitàStudio Scarci
Curatori delle singole sezioni
Archivio di StatoRossana Spadaccini, Paolo Franzeseschede a cura di Claudia M. Cuminale, Anna Gargano
Biblioteca Lucchesi PalliRosaria Borrelli, Gennaro Alifuocoschede a cura di Marcella Marchese, Davide Bancale,Marisa Spiniello, Patrizia Mottolese
Museo di San MartinoSilvia Cocurullo
Società Napoletana di Storia PatriaFrancesca Russoschede a cura di Patrizia Piscitello, Renata Caragliano, Luigia De Ianni
Archivio De FilippoErnesto Cilento, Claudio Novelli
Archivio Raffaele VivianiGiuliano Longone
Collezione RagniSergio Ragni, Luigi Cuoco
Riproduzioni fotograficheSalvatore Granata, Vito Palmieri, Raffaele Staiti
Riproduzioni digitalidigitalizzazione del fondo fotografico Lucchesi Pallia cura della Sezione Mediatecadella Biblioteca Nazionale di Napolicoordinamento: Vanda Rosatiacquisizioni: Luigi Mainini, Felicetta Velardo
Finito di stampare
nel mese di ottobre 2010
da Tipolit - Napoli