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INDICE
Ringraziamenti ………………………………………………………………………........Pag.3
Introduzione …………………………………………………………………………........Pag.4
Cap.1 Analisi e prospettive della legislazione antimafia ………………………………....Pag.6
Par.1.1 Le mafie nel XXI secolo …………………………………………………….……Pag.6
Par.1.2 Lo “stato dell‟arte” della normazione italiana ……………………………………Pag.9
Par.1.2.1 La figura del collaboratore di giustizia ………………………………………..Pag.10
Par.1.2.2 Prospettive circa la normativa sulle intercettazioni …………………………...Pag.13
Par.1.3 Prospettive della normazione antimafia ………………………………………....Pag.18
Cap. 2 La genesi e la struttura del sistema legislativo processuale antimafia …………..Pag.23
Par.2.1 Profili storici …………………………………………………………………….Pag.23
Par.2.1.1 La confisca ……………………………………………………………...…......Pag.24
Par.2.1.2 Direzione investigativa antimafia e Direzione nazionale antimafia …………..Pag.26
Par.2.1.3 I collaboratori di giustizia ……………………………………………………..Pag.28
Par.2.2 Legislazione processual-penalistica di contrasto alle mafie e “diritto penale del
nemico”: il sistema a “doppio binario” ……………………………………………….…Pag.30
2
Cap. 3 Svolgimento di un processo in materia di criminalità organizzata ……………...Pag.33
Par.3.1 Le indagini preliminari ………………………………………………………….Pag.34
Par.3.1.1. Dall‟iscrizione della notizia di reato all‟avvio delle indagini ………………...Pag.35
Par.3.2 Le misure cautelari ……………………………………………………………...Pag.43
Par.3.3 L‟udienza preliminare ed i procedimenti speciali ………………………………Pag.50
Par.3.4 Le prove e la loro acquisizione ………………………………………………….Pag.53
Par.3.4.1 Il diritto alla prova …………………………………………………………….Pag.54
Par.3.4.2 Il contraddittorio per la prova …………………………………………………Pag.58
Par.3.4.3 La testimonianza nei processi di mafia ………………………………………..Pag.61
Par.3.5 Il giudizio ………………………………………………………………………..Pag.74
Par.3.5.1 Il predibattimento ………………………………………………………….......Pag.79
Par.3.5.2 Il dibattimento …………………………………………………………………Pag.84
Par.3.5.3 Gli atti successivi al dibattimento ………………………………………........Pag.100
Bibliografia ……………………………………………………………………….……Pag.107
3
RINGRAZIAMENTI
A conclusione del mio corso di studi in Giurisprudenza ritengo doveroso esprimere la mia
gratitudine a tutti coloro che mi hanno accompagnato e sostenuto lungo questo percorso.
Grazie alla mia famiglia, che non mi ha mai negato il suo supporto morale e materiale in tutti
questi anni.
Grazie a Sara, che ha subito e condiviso con me la tensione ed il peso degli esami più difficili
e dei momenti di sconforto.
Grazie agli amici per le ore di studio assieme e per la capacità di sdrammatizzare, sempre.
Grazie a Mary e Vale, senza il loro ottimismo ed i loro appunti il mio percorso universitario
sarebbe stato certamente più complesso.
Grazie alla professionalità ed alla disponibilità della Prof.ssa Galantini e del Prof. Pellacani,
rispettivamente Relatrice e Correlatore della presente tesi.
Grazie a tutti gli altri che non ho menzionato ma che, ognuno a modo proprio, hanno
partecipato a questa lunga ed importante avventura.
4
INTRODUZIONE
La presente tesi si pone l‟obiettivo di effettuare un‟analisi critica su quello che è oggi, nel
nostro ordinamento, il processo penale nell‟ambito dei reati di criminalità organizzata e, nello
specifico, di stampo mafioso.
Una tematica che si è ritenuto di non poter affrontare esclusivamente su un piano tecnico-
giuridico, ma che necessariamente deve essere letta anche attraverso le lenti della sociologia
del diritto e della storia.
Il capitolo iniziale sarà dedicato alle prospettive ed agli sviluppi futuri della legislazione in
esame. Per questo ho ritenuto necessario approfondire in questa sede le disposizioni che, in
materia, sono state varate dal Governo in carica. Le valutazioni della dottrina sul punto
permetteranno, e saranno la solida base, per proporre una tesi circa i provvedimenti che
potrebbe essere utile emanare in questo settore.
Il secondo capitolo prenderà le mosse da un profilo storiografico, per permettere di inquadrare
il contesto entro il quale le diverse norme in materia sono state approvate e, successivamente,
applicate.
5
Gli strumenti utilizzati saranno, in primis, gli stessi testi legislativi; “coadiuvati” da articoli e
saggi storici.
La seconda parte del capitolo avrà lo scopo di studiare le caratteristiche della legislazione
sopra individuata. Attraverso la lettura di diversi articoli, generalmente afferenti al campo
delle scienze giuridiche (tanto di sociologia del diritto quanto, prevalentemente, di procedura
penale), si approfondiranno i concetti di “Diritto Penale del Nemico” e di “sistema a doppio
binario”.
In conclusione si dimostrerà quanto queste due nozioni siano applicabili al nostro sistema
processuale antimafia, sottolineandone i profili di criticità (ancora attraverso articoli di
dottrina processual- penalistica).
Il terzo capitolo avrà come obiettivo quello di analizzare le diverse fasi di un processo per
reati di criminalità organizzata, e nello specifico di tipo mafioso.
In particolare l‟attenzione ricadrà sulle peculiarità che contraddistinguono, attualmente, tale
procedimento; con specifico riguardo alle indagini preliminari, all‟applicazione delle misure
cautelari, all‟udienza preliminare, al dibattimento, alla formazione della prova ed al giudizio
finale. Tutta la discussione è sostenuta, e non potrebbe essere diversamente, da numerose
fonti: articoli ed approfondimenti di giuristi, manuali di procedura penale, sentenze.
6
CAP. 1: ANALISI E PROSPETTIVE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA
1.1 Le mafie nel XXI secolo
"Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali
gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il
clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso nord, di cinquecento metri,
mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del
caffè concentrato… E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma,
del caffè forte, degli scandali: su su per l'Italia, ed è già oltre Roma…".1
La citazione di Leonardo Sciascia è assai significativa e niente affatto casuale. La “linea della
palma” che, lentamente ma inesorabilmente, sale lungo lo stivale è la metafora più riuscita per
rappresentare l‟ampliamento dei territori sui quali le mafie esercitano il loro controllo ed i
loro affari. Basta dare qualche numero: le statistiche più recenti stimano, per difetto, che in
Italia l‟economia criminale fatturi 100 miliardi di euro all‟anno. La sola „ndrangheta, grazie
all‟asse con i narcotrafficanti sudamericani, ricava dalle sue attività illecite più di 51 miliardi
di euro l‟anno.2
1 Leonardo Sciascia, Opere – 1956.1971, a cura di Claude Ambroise, Classici Bompiani, 2004, pag. 479.
2 Roberto Galullo, Economia Criminale. Storia di capitali sporchi e società inquinate, Il sole 24 ore, Maggio
2010, Pag. 13.
7
Senza dimenticare che il mondo globalizzato e privo di opportune “difese immunitarie”3 del
XXI secolo ha influenzato enormemente le strutture organizzative ed “imprenditoriali” delle
mafie. Prendiamo ad esempio la tratta della cocaina. Questa, prodotta principalmente in
America latina, raggiunge il consumatore europeo e nord-americano grazie all‟attività ed agli
accordi economico-criminali tra narcotrafficanti messicani e colombiani, mafia africana e
mafia italiana.4 Discorso identico vale per l‟eroina. Almeno il 60 % del brown sugar che
circola in Europa proviene dall‟Afghanistan. Nel paese del sud-est asiatico difatti, anche alla
luce degli ingenti sequestri effettuati in Turchia ed ai confini europei, le materie prime
vengono non solo coltivate (si calcola che il 93 % dell‟oppio grezzo mondiale provenga dalle
piantagioni afgane) ma anche lavorate.5 Il prodotto finito, l‟eroina appunto, arriva sino al
vecchio continente (ma anche in Russia ed Iran) attraverso una solida rete di joint venture
aventi come protagonisti i Buyuk baba turchi (letteralmente “nonno”, termine indicante i
dirigenti supremi della criminalità organizzata turca), i Vory v zakone russi (letteralmente
“ladri in legge”, termine indicante i capimafia russi), le mafie dei paesi dell‟ex blocco
sovietico sino alle mafie nostrane.6
Tali considerazioni devono convincere che, oramai, bisogna sgombrare il campo da
concezioni superate e stereotipate inerenti alle mafie. Queste difatti, pur conservando taluni
3 Jean Ziegler, I signori del crimine. Le nuove mafie europee contro la democrazia, Marco Tropea Editore, Anno
2000, Pag.23. 4 Moisés Naim, Il flusso inarrestabile dei traffici illeciti globalizzati. In Roberto Galullo, Economia Criminale.
Storia di capitali sporchi e società inquinate, Il sole 24 ore, Maggio 2010, Pag. 293. 5 Matteo Tacconi, Al gran bazar dell’eroina, Narcomafie, N. 7/8 2010, Pagg. 19-28.
6 Ibidem.
8
elementi arcaici (basti pensare ai riti di affiliazione, tramandati di generazione in generazione,
ed alla loro valenza non solamente simbolica7), sono da considerarsi a tutti gli effetti delle
vere e proprie aziende multinazionali.8 Ne deve sorprendere se le nuove leve mafiose, figli e
nipoti dei boss “storici”, siano professionisti laureati pronti a mettere al servizio del sodalizio
criminale le proprie competenze e la propria immagine “ripulita”.9
Inoltre è sempre più pressante l‟esigenza di una legislazione sovranazionale univoca e
coerente in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso nonché in riferimento ai
delitti ad essa connessi. Necessario sarà dunque arrivare ad una definizione riconosciuta a
livello globale, in primis dal punto di vista normativo, di ciò che s‟intende con “criminalità
mafiosa”. Urge, ancora, rafforzare le procedure di controllo in ambito bancario, finanziario ed
amministrativo. In generale l‟Europa, ma non solo, necessita di una presa di coscienza
collettiva sul fenomeno criminale mafioso.10
7 Morosini Piergiorgio, Associazione di stampo mafioso e “testimonianza” dell’imputato aliunde, Ass. Palermo
Sez. II, 20 marzo 2002, Dir. Pen. e Processo, 2003, 4, 479. 8 Roberto Galullo. Op. cit.
9 Cfr. Davide Carlucci, Giuseppe Caruso. A Milano comanda la ‘Ndrangheta. Ponte alle Grazie. Milano. 2009.
10 Jean Ziegler, I signori del crimine. Le nuove mafie europee contro la democrazia, Marco Tropea Editore,
Anno 2000, Pag.277-278.
9
1.2 Lo “stato dell’arte” della normazione italiana
Fatte le opportune premesse nel paragrafo precedente, si ritiene utile ora dedicarsi
specificatamente allo “stato dell‟arte” della legislazione processual-penalistica italiana volta al
contrasto della criminalità organizzata di stampo mafioso.
In materia il legislatore sembra essere affetto, usando un termine non propriamente giuridico,
da apparente “schizofrenia”.11
Le norme approvate a partire dagli anni ‟60, difatti, soffrono
sovente di un andamento ondivago e mostrano un comportamento istituzionale
contraddittorio.12
Influenzate da spinte politiche e da eventi tragici13
, queste leggi tracciano un
quadro di non facile valutazione. Per cercare di favorirne l‟analisi, a scopo esemplificativo, si
approfondiranno ora gli interventi normativi dell‟ultimo decennio in materia di collaboratori
di giustizia e di intercettazioni che hanno avuto (e che avranno) un forte impatto sul contrasto
alle mafie.
11
Vincenzo Macrì, Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, Pag. 11. 12
A cura di Gabriella Gribaudi, Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, Bollati Boringhieri, 2009, Pag. 27. 13
Sul punto si rinvia al Cap. 2.
10
1.2.1 La figura del collaboratore di giustizia
Il collaboratore di giustizia (c.d. “pentito”) è colui che, avendo partecipato ad attività
delittuose, oltre ad ammettere la propria responsabilità nella commissione dell‟illecito chiama
anche in correità gli altri soggetti agenti o, comunque, corresponsabili.14
Questa figura assume una rilevanza cruciale nell‟ambito delle indagini per delitti quali
terrorismo, banda armata, criminalità organizzata ed associazionismo mafioso. Le
dichiarazioni del collaboratore, difatti, permettono di fare chiarezza sulla struttura e
l‟organizzazione di sinodi criminali potenzialmente, e pericolosamente, imperscrutabili.15
Come ebbe a dire Giovanni Falcone a proposito delle dichiarazioni rese da Tommaso
Buscetta, a seguito della scelta di quest‟ultimo di collaborare con la giustizia, “prima di lui
non avevo-non avevamo- che un‟idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo
cominciato a guardarvi dentro. […] Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a
largo raggio del fenomeno”.16
Ed in effetti la scelta di collaborare con le autorità italiane
assunta da Buscetta segnò una svolta definitiva nella legislazione processual-penalistica
italiana. Queste portarono, da un lato, all‟accertamento in via definitiva dell‟esistenza
dell‟organizzazione mafiosa denominata “Cosa Nostra” con conseguenti lunghe pene
detentive per i boss siciliani. Dall‟altro il “fenomeno Buscetta” costrinse il legislatore a
discutere ed approvare la L. 15 marzo 1991, n. 82 di conversione del d.l. 15 gennaio 1991, n.
14
Giovanna Montanaro, voce Pentitismo e pentiti in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, Pag. 403. 15
Vedi par. 3.4.3. 16
G. Falcone- M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano, 1993, Pag. 41.
11
8 e la L. 12 luglio 1991, n.203 di conversione del d.l. 13 maggio 1991, n.152. Queste norme,
fortemente volute da Giovanni Falcone (ed ampliate all‟indomani delle stragi mafiose del
1992 con il d.l. 8 giugno 1992, n.306 convertito in L. 7 agosto 1992, n.356)17
, prevedevano un
regime di favore per i collaboratori di giustizia. L‟intento era quello di incentivare la
collaborazione in riferimento ai “reati di mafia”, prevedendo protezione ed assistenza per il
collaborante ed assimilando la condotta collaborativa ad una “speciale attenuante” nella
determinazione della pena. In tal modo veniva chiaramente a differenziarsi il trattamento tra
collaboratore e “mafioso irriducibile”: quest‟ultimo si trova a scontare la propria pena in un
nuovo regime di carcere duro, apportato dall‟art.41 bis inserito nell‟Ordinamento
Penitenziario.
Il successo di questa normazione, figlia della reazione popolare e politica alle stragi di Capaci
e via D‟Amelio, fu straordinario. Nel corso degli anni Novanta si sviluppò una “sorta di
„catena investigativa‟ che aveva al centro i collaboratori di giustizia, i quali con le loro
rivelazioni davano l‟input a nuove indagini da cui- con reazione a catena- scaturivano nuovi
procedimenti, poi nuovi arresti di mafiosi che a loro volta decidevano di collaborare, dando
origine a ulteriori indagini e cosi via. Il fenomeno sembrò assumere le dimensioni di una
„diserzione di massa‟”.18
17
G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 404. 18
G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 410.
12
Proprio all‟apice di questo meccanismo virtuoso, qualcosa si ruppe. A partire dalla seconda
metà degli anni Novanta scoppiarono numerose polemiche sul fenomeno dei collaboratori di
giustizia, in particolare con riferimento al ritorno a delinquere di alcuni di questi soggetti. Il
dibattito fu fomentato da politici e giornali che, a dispetto della percentuale assolutamente
“fisiologica” di recidiva19
, ne crearono un vero e proprio “caso nazionale” che gettò un cono
d‟ombra inquietante sulle dichiarazioni dei collaboratori e sui processi in corso.20
L‟iter parlamentare innescato dalle summenzionate polemiche portò all‟approvazione della L.
13 febbraio 2001, n.45. Questa norma, integrando e coordinando la legislazione degli anni
Novanta, mira a razionalizzare il sistema di protezione e ad eliminarne le lacune e gli
inconvenienti.21
La riforma individua criteri più rigorosi e restrittivi in ordine alla selezione
dei collaboratori e delle dichiarazioni, riduce le fattispecie di reato per le quali è applicata la
disciplina premiale, fissa un termine tassativo di 180 giorni entro i quali il collaboratore deve
indicare i fatti di cui è a conoscenza, introduce limiti di pena da scontare per accedere ai
benefici penitenziari. La novella legislativa ha portato con se un importante
ridimensionamento del fenomeno della collaborazione di giustizia con conseguente riduzione
del numero dei collaboratori. Gli ultimi dati parlano di 785 pentiti a dispetto dei 1214 del
1996.22
Un crollo verticale che, se in parte si può spiegare con un calo fisiologico di un
19
Per un approfondimento in materia si veda Ernesto Calvanese, Pena riabilitativa e mass-media, Franco Angeli Editore, 2004. 20
G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 410. 21
G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 405. 22
G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 413.
13
fenomeno che ha prodotto tanto negli anni scorsi, è da imputare precipuamente ad una
condotta ambigua ed immobile della classe dirigente, sorda alle richieste degli operatori della
giustizia.23
D‟altronde, come scrive lo storico Francesco Renda, “l‟efficacia del pentitismo
mafioso è direttamente proporzionale alla determinazione dello Stato nel proposito di
combattere la mafia. Forte l‟impegno statale a combattere la mafia, forte il pentitismo.
Tentennante lo Stato, oscillante il pentito”.24
1.2.2. Prospettive circa la normativa sulle intercettazioni
Le intercettazioni, tanto ambientali quanto telefoniche e telematiche, sono uno degli strumenti
più validi nelle indagini nei confronti delle associazioni criminali di stampo mafioso.25
Su di
queste, al contempo, si è aperto un dibattito politico assai acceso sui limiti da porre al loro
utilizzo per tutelare il diritto alla privacy.26
Nello specifico, l‟analisi ricade sul d.d.l. 1415C
presentato alla Camera dei Deputati il 30 giugno 2008, e successive modifiche. Questo
provvedimento, ancora in discussione ed attualmente fermo in Senato, è mosso dall‟intento di
trovare il miglior contemperamento tra esigenze investigative e diritto di riservatezza. Un
risultato nient‟affatto scontato e, per giunta, accompagnato dal forte rischio di creare nuove
aree di vulnerabilità del diritto.27
23
G. Montanaro, Op. Cit., Pag. 412. 24
F. Renda, Storia della mafia. Come, dove, quando, Sigma Edizioni, Palermo, 1997. 25
Vincenzo Macrì, Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, pag.11. 26
Maffeo Vania, La riforma in itinere delle intercettazioni, tra tutela della privacy ed esigenze dell’accertamento, Dir. Pen. e Processo, 2009, 4, 510. 27
Ibidem.
14
Può essere utile, allora, approfondire quanto proposto dal summenzionato d.d.l. in riferimento
alle indagini sulla criminalità organizzata di stampo mafioso. In tal senso, una delle previsioni
che ha maggiormente attirato critiche è quella inserita nell‟art.3 dell‟originario d.d.l. 1415 C.
Questo articolo, volto a ridurre l‟utilizzo dello strumento intercettativo, indica un elenco di
reati per i quali sono consentite le intercettazioni (tra questi sono ovviamente inclusi i delitti
di mafia); estendendo la disciplina delle intercettazioni all'acquisizione di immagini mediante
riprese visive e ai c.d. "tabulati telefonici" e limitando drasticamente le c.d. "intercettazioni
ambientali" ( ossia le comunicazioni fra presenti), confinandole nello spazio del "fondato
motivo di ritenere che nei luoghi ove è disposta l'intercettazione si stia svolgendo l'attività
criminosa".28
I rischi insiti in queste possibili modifiche al codice di procedura penale, in
relazione alle indagini sui delitti di criminalità mafiosa ex art. 416 bis c.p., sono due. In
primis, li dove si estende ai tabulati telefonici il concetto di intercettazione ex art. 266 c.p.p. si
crea un‟antinomia con quanto previsto dall‟art. 4 del d.d.l. in oggetto. Quest‟ultimo, volto a
riformulare l‟art. 267 c.p.p. in materia di presupposti e forme del provvedimento, al comma 3-
bis prevede, invero, “che la procedura meno restrittiva prevista per i reati di criminalità
organizzata e terrorismo è azionabile „quando l'intercettazione è necessaria‟ per lo
svolgimento di tale genere di indagini, lasciando intendere che tale procedura è riferibile alle
28
Maffeo Vania, Op. cit.
15
sole intercettazioni, sebbene più avanti la stessa norma mostri di riferirsi a tutte „le operazioni
previste nell'articolo 266‟”.29
Sul secondo punto l‟incongruità è ancor più grave, in quanto richiedere la presenza di fondati
motivi che inducano a ravvisare lo svolgimento dell‟attività criminosa nel luogo della
captazione rischia “di eliminare con un tratto di penna la quasi totalità delle intercettazioni
ambientali”.30
Se oggi questo limite è richiesto dal comma 2 dell‟art. 266 c.p.p. per i luoghi di
privata dimora indicati dall‟art. 614 c.p., con le modifiche apportate dal legislatore si farà
“riferimento allo svolgimento „attuale‟ e non „potenziale‟ dell'attività criminosa, con
inaccettabile equiparazione, quanto all'obbligo di indicazione di elementi concreti sull'attualità
dell'attività criminosa, al regime delle intercettazioni ambientali in luoghi di privata
dimora”.31
Proseguendo nell‟analisi del d.d.l. 1415C, ci si sofferma sull‟art. 4 destinato a riformare l‟art.
267 c.p.p. sui “presupposti e forme del provvedimento”. Le modifiche riguardano tanto
l‟aspetto procedurale quanto, soprattutto, la facoltà per il giudice ritenuto competente di
autorizzare le intercettazioni in presenza di “gravi indizi di colpevolezza” e non più dei soli
“gravi indizi di reato”. Questa limitazione, volta ad individualizzare lo svolgimento delle
intercettazioni, presuppone che le indagini si trovino già in una fase avanzata e che in capo al
soggetto intercettabile vi sia “un elevato livello di congruità degli elementi di
29
Maffeo Vania, Op. cit. 30
Maffeo Vania, Op. cit. 31
Maffeo Vania, Op. Cit.
16
responsabilità”.32
Nulla o quasi varia per le indagini attinenti ai delitti di criminalità
organizzata, rimanendo intatto il presupposto dei “gravi indizi di reato” e la relativa
applicazione dell‟art. 203 c.p.p. in relazione agli informatori di polizia giudiziaria e servizi di
sicurezza. Sul punto, però, sono piovute le critiche dell‟Unione delle camere penali che hanno
sottolineato come questa disposizione sia espressione del c.d. “doppio binario”33
, con una
inaccettabile distorsione dei valori di giustizia.34
L‟analisi del d.d.l. 1415C si conclude con un approfondimento circa le inutilizzabilità delle
intercettazioni individuate agli artt. 7 e 8.
L‟art. 7 interviene per modificare quanto disposto dall‟art. 270 c.p.p. il quale, rubricato
“utilizzazione in altri procedimenti”, prevede al comma 1 che “i risultati delle intercettazioni
non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti,
salvo che risultino indispensabili per l‟accertamento di delitti per i quali è obbligatorio
l‟arresto in flagranza”. La riforma in esame prevede, invece, che i risultati delle intercettazioni
sarebbero utilizzabili solo in caso di indispensabilità per l'accertamento dei delitti di cui agli
artt. 51, commi 3-bis e 3-quater, e 407, comma 2, lett. a), c.p.p., a condizione che non siano
stati dichiarati inutilizzabili nel procedimento a quo; con conseguenti effetti “deprimenti”
32
Maffeo Vania, Op. Cit. 33
Si veda in materia par. 2.2. 34
Unione delle camere penali italiane, documento depositato in data 15 gennaio 2009.
17
sulle indagini per delitti gravi e statisticamente frequenti quali, ad esempio, rapina o
estorsione non aggravata.35
L‟art. 8, invece, novella l‟art. 271 c.p.p. estendendo le previsioni di divieto di utilizzazione
delle intercettazioni. Dopo aver disposto, al primo comma, che "i risultati delle intercettazioni
non possono essere utilizzati qualora le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti
dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli art 267 e 268
commi 1, 3, 5, 6 e 6-bis ", si aggiunge, al comma 1-bis, che il divieto opera qualora "in
udienza preliminare o nel dibattimento emerga una diversa qualificazione del fatto e, in
relazione alla nuova fattispecie, non si rientri nelle ipotesi previste dall'art. 266 c.p.p. ". Se
l‟obiettivo originario è quello di porre un freno alle intercettazioni a rete ovvero alle iscrizioni
strumentali, in realtà quello che si fa è costruire “un principio che è in rapporto
d'incompatibilità con il regime tipico dei mezzi di ricerca della prova.”36
Il divieto di
utilizzazione “sarebbe conseguenza di una valutazione ex post in punto di qualificazione
giuridica del fatto, trascurando un dato di struttura normativa, che lega la valutazione di
legittimità del mezzo di ricerca della prova alle risultanze disponibili al momento in cui è
disposto”.37
Dissenso che si rafforza con la considerazione dell'assenza di previsioni in
deroga, in favore dei procedimenti per reati gravi come quelli di criminalità organizzata di
stampo mafioso. Semmai, propongono alcuni studiosi della materia, “il divieto di
35
Maffeo Vania, Op. Cit. 36
Maffeo Vania, Op. Cit. 37
Maffeo Vania, Op. Cit.
18
utilizzazione potrebbe essere circoscritto al caso in cui muti il fatto nella sua struttura di
accadimento storico, o emerga un fatto nuovo in udienza preliminare o in dibattimento”.38
1.3 Prospettive della legislazione antimafia
Tutte le misure sopra elencate, supportate dalle numerose operazioni di polizia giudiziaria,
sembrano corroborare quanto da più parti viene segnalato circa l‟impostazione nel contrasto
alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Se da un lato si fa più forte la stretta nei
confronti dei vecchi capi, dei grandi latitanti e dell‟ala militare delle mafie; dall‟altro sembra
aprirsi un ciclo favorevole nei confronti delle nuove leve della c.d. “borghesia mafiosa”39
,
imprenditori che in tutta Italia partecipano alla realizzazione di grandi opere infrastrutturali e
diventano “interlocutori necessari di ogni forma di potere amministrativo, politico,
istituzionale”.40
Il lavoro incessante di contrasto alle mafie svolto dagli organi inquirenti
viene, inoltre, “svilito da un sistema giudiziario iniquo e farraginoso: i processi arrivano dopo
anni e durano anni, molti criminali incalliti vengono scarcerati per decorrenza dei termini di
custodia cautelare. I capi hanno avvocati capaci e lautamente pagati che riescono ad ottenere
attenuanti e vantaggi che stupiscono […]”.41
38
Maffeo Vania, Op. Cit. 39
Si veda sopra par. 1.1. 40
Vincenzo Macrì, Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, pag.13. 41
A cura di Gabriella Gribaudi, Traffici criminali. Camorra, mafie e reti internazionali dell’illegalità, Bollati Boringhieri, 2009, Pag. 27.
19
Un‟importante svolta per il futuro è, allora, rappresentata dalla Legge delega 13 agosto 2010,
n. 136. Rubricata come “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in
materia di normativa antimafia”, la norma è definibile come un intervento legislativo di ampio
respiro volto, nelle intenzioni, alla sconfitta definitiva della criminalità organizzata.42
Le modalità previste dal legislatore per raggiungere obiettivi tanto ambiziosi sono indicate
all‟art. 1 della Legge delega 136. Per iniziare, il comma 1 delega il Governo ad adottare,
“entro un anno dall‟entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante il
codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”.
Governo che, alla luce della previsione del comma secondo, dovrà realizzare il
summenzionato decreto legislativo effettuando una ricognizione completa della normativa di
contrasto alla criminalità organizzata attuale, compresa quella inclusa nel codice penale e di
procedura penale. Le norme cosi individuate dovranno essere armonizzate tra di loro e
coordinate tanto con le disposizioni comunitarie, quanto con le disposizioni interne
concernenti l‟istituzione dell‟Agenzia nazionale per l‟amministrazione e la destinazione dei
beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.43
Per far questo, il comma terzo indica precisi criteri direttivi al Governo. Nello specifico, per
quanto riguarda l‟applicazione delle misure di prevenzione, è da sottolineare la possibilità che
“l‟azione di prevenzione possa essere esercitata anche indipendentemente dall‟esercizio
42
Camera dei Deputati, Atto n. 3290, Relazione al disegno di legge denominato “Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia”. 43
Si veda in materia il par. 2.1.1.
20
dell‟azione penale” e “indipendentemente dalla pericolosità sociale del soggetto proposto
per la loro applicazione al momento della richiesta della misura di prevenzione”. Tali
misure patrimoniali, inoltre, potranno essere disposte anche in caso di morte del soggetto
proposto con la prosecuzione del relativo procedimento a carico degli eredi. Procedimento
che, su richiesta del proposto, potrà svolgersi in udienza pubblica anziché in camera di
consiglio. Sono consentite poi, ex artt. 146bis e 147bis del decreto legislativo 28 luglio 1989,
n. 271, audizioni mediante video-conferenza dell‟interessato o dei testimoni.
Misure di prevenzione e confisca che dovranno essere coordinate per evitare rischi di intralcio
o depotenziamento dei loro effetti. Le indicazioni in tal senso sono che “il sequestro e la
confisca di prevenzione possano essere disposti anche in relazione a beni già sottoposti a
sequestro nell'ambito di un procedimento penale”; che “nel caso di contemporanea esistenza
di un sequestro penale e di un sequestro di prevenzione in relazione al medesimo bene, la
custodia giudiziale e la gestione del bene sequestrato nel procedimento penale siano affidate
all'amministratore giudiziario del procedimento di prevenzione, il quale applica, anche con
riferimento a detto bene, le disposizioni in materia di amministrazione e gestione previste
dal decreto legislativo di cui al comma 1, prevedendo altresì, a carico del medesimo soggetto,
l'obbligo di trasmissione di copia delle relazioni periodiche anche al giudice del
procedimento penale”; che “in relazione alla vendita, all'assegnazione e alla destinazione
dei beni si applichino le norme relative alla confisca divenuta definitiva per prima”; che
“se la confisca di prevenzione definitiva interviene prima della sentenza irrevocabile di
21
condanna che dispone la confisca dei medesimi beni in sede penale, si proceda in ogni caso
alla gestione, alla vendita, all'assegnazione o alla destinazione dei beni secondo le
disposizioni previste dal decreto legislativo di cui al comma 1”.
L‟art. 2 della Legge delega 136/2010 è dedicato al tema della documentazione antimafia. Il
Governo dovrà adottare, entro un anno dall‟entrata in vigore della presente legge, “un decreto
legislativo per la modifica e l'integrazione della disciplina in materia di
documentazione antimafia di cui alla legge 31 maggio 1965, n. 575, e di cui all'articolo 4 del
decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490, e successive modificazioni”. Disposizione di
particolare interesse, di cui al comma 1 lettera c, è l‟istituzione di una banca di dati nazionale
unica della documentazione antimafia alla quale potrà accedere, come specificato alla lettera
e, la Direzione nazionale antimafia “per lo svolgimento dei compiti indicati all‟art. 371-bis del
codice di procedura penale”.
Di specifico interesse per la procedura penale è, ancora, l‟art. 11 della Legge delega 136. La
norma, rubricata “Ulteriori modifiche al codice di procedura penale e alle norme di
attuazione, di coordinamento e transitorie del medesimo codice”, prevede al primo comma
che “all'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale, le parole: «e dall'articolo
291-quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23
gennaio 1973, n. 43» sono sostituite dalle seguenti: «dall'articolo 291-quater del testo unico
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e
22
dall'articolo 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152,»”. Al secondo comma,
invece, è indicato che “all'articolo 147-bis, comma 3, delle norme di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28
luglio 1989, n. 271, la lettera a) e' sostituita dalla seguente: «a) quando l'esame e' disposto
nei confronti di persone ammesse al piano provvisorio di protezione previsto dall'articolo
13, comma 1, del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con
modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni, o alle
speciali misure di protezione di cui al citato articolo 13, commi 4 e 5, del medesimo decreto-
legge;»”.
Nel suo complesso la norma è espressione di un rinnovato impegno al contrasto delle mafie a
tutto tondo, viste le ulteriori ed importanti novità in materia di appalti, certificati antimafia,
controllo dei flussi finanziari, rafforzamento delle attività investigative ed accertamenti fiscali
e patrimoniali. Bisognerà attendere il decreto legislativo scaturente dalle linee guida tracciate
dalla Legge delega 136 per poter effettuare delle valutazioni “finali” sull‟opera riformatrice
proposta dal Governo in carica e sul suo reale impatto a favore del contrasto e della sconfitta
del fenomeno criminale mafioso.
23
CAPITOLO 2: LA GENESI E LA STRUTTURA DEL SISTEMA LEGISLATIVO
PROCESSUALE ANTIMAFIA
2.1. Profili storici
L‟analisi storica della normazione antimafia, e nello specifico di quella d‟interesse
processual- penalistico, non può essere affrontata discernendo le singole disposizioni di legge.
Difatti gli interventi del legislatore sono diventati sempre più frequenti, soprattutto nel corso
degli ultimi anni: interventi di natura anche correttiva od equilibrativa di singole norme o
fattispecie rispetto al sistema processuale ( in tal senso, esemplificativo il d.l. 12 febbraio
2010, n.10 che ha riconosciuto la competenza dei Tribunali per il reato di associazione di tipo
mafioso in relazione all‟aumento delle pene edittali per lo stesso reato, cosi come previsto
dalla Legge 251/2005)44
.
Converrà allora dividere la legislazione in esame in tre grandi categorie, andando poi ad
analizzarle individualmente e definendo le caratteristiche del sistema processuale
sviluppatosi.
44
Sull’argomento si rinvia agli approfondimenti effettuati nel Cap. 1.
24
2.1.1. La confisca
Il sistema attuale di confische è pensato per contrastare le mafie e le associazioni criminali sul
loro punto di forza: la ricchezza economica.
Con tali strumenti il legislatore risponde alle moderne tecniche di riciclaggio ed occultamento
dei proventi illeciti utilizzate dalle organizzazioni mafiose. Proventi e ricchezze che
permettono alle mafie di “esercitare una vera e propria signoria sul territorio, perché
mantengono salda l‟organizzazione, controllano le persone e le attività, colludono con la
politica, condizionano la pubblica amministrazione, intrecciano relazioni col sistema delle
imprese, conquistano ed inquinano i meccanismi di funzionamento del libero mercato”45
.
Di particolare interesse in questo ambito sono la confisca di prevenzione antimafia e la
confisca di valori ingiustificati.
La prima ipotesi summenzionata è disciplinata dall‟art. 2 bis e seguenti della Legge 575/1965
con le modifiche apportate dalla Legge 646/1982 (c.d. Legge Rognoni- La Torre).
E‟ importante citare unitamente le due norme, poiché la Legge 646 ha definito il reato di
associazione a delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.) ed ha permesso l‟estensione
delle misure di prevenzione patrimoniale, quali sequestro e confisca dei beni, all‟ipotesi
delittuosa da essa stessa definita.
45
Antonio Maruccia, voce Confisca dei beni in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia. AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 138-147.
25
La seconda ipotesi vedrà la luce dieci anni dopo, disciplinata dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306
convertito con modificazioni in legge 7 agosto 1992, n. 356.
Nello specifico, se il patrimonio è sproporzionato rispetto al reddito dichiarato o all‟attività
svolta, esso sarà confiscato a meno che il mafioso non ne dimostri la provenienza lecita. Si
tratta di una forma di confisca slegata da uno specifico reato, tant‟è che in questi casi si parla
di “confisca allargata”46
.
A queste due realtà “specifiche” del settore vanno affiancate le ipotesi di confisca penale
obbligatoria e confisca obbligatoria (artt. 240- 416 bis c.p.) e di confisca per equivalente (art.
600 septies c.p.), i cui campi di applicazione sono stati allargati negli ultimi anni per andare
ad intervenire in tutti quei settori nei quali la criminalità organizzata ha allargato i propri
interessi. Emblematica è l‟estensione dell‟obbligatorietà della confisca non solo rispetto ai
delitti di criminalità organizzata, ma anche rispetto ai delitti d‟usura (art. 644 c.p.), alla
responsabilità delle persone giuridiche ed ai reati contro la pubblica amministrazione (art. 323
ter c.p.).
A far da contraltare all‟utilizzo sempre più pervasivo e rilevante degli strumenti di sequestro e
confisca, è sorta la problematica relativa alla gestione dei beni e patrimoni sottoposti a questi
stessi provvedimenti. Proprio in questa direzione si è mosso il d.l. 4 febbraio 2010 n.4 che
istituisce l'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e
confiscati alla criminalità organizzata. La volontà del legislatore è ben chiara sin dall‟incipit:
46
Ivi, pag.24.
26
creare un‟Agenzia che, fungendo da collegamento tra autorità giudiziaria ed amministrazioni
interessate, permetta una unitaria ed efficace amministrazione e destinazione dei beni
confiscati alla criminalità organizzata.
2.1.2. Direzione investigativa antimafia e Direzione nazionale antimafia
Sul finire degli anni Ottanta il bilancio dello Stato italiano nella lotta alle mafie è “ricco di
luci positive ma anche di ombre inquietanti”47
.
Se difatti si era concluso positivamente il primo “maxi-processo” che dimostrò l‟esistenza di
Cosa nostra, dall‟altro lato mancava il “coordinamento investigativo imprescindibile per le
indagini in materia di criminalità organizzata”.48
In questa direzione si muove l‟attività di
Giovanni Falcone nei primissimi mesi del 1990 come Direttore generale degli affari penali
presso il Ministero di Grazia e Giustizia.
I frutti di questo lavoro saranno due decreti legge sul finire del 1991: il primo è il d.l. 29
ottobre 1991, n.345 convertito in Legge 30 dicembre 1991, n.410 intitolato “Disposizioni
urgenti per il coordinamento delle attività informative e investigative nella lotta contro la
criminalità organizzata”. Con questo atto normativo verrà istituita la Direzione investigativa
antimafia (DIA), agenzia a composizione interforze e con competenza su tutto il territorio
47
Lorenzo Frigerio, voce Direzione investigativa antimafia in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 203-211. 48
Cfr. Fondazione Falcone, 1994.
27
nazionale, avente lo scopo di studiare l‟evoluzione del fenomeno mafioso e di fornire
elementi utili a orientare e coordinare l‟attività di investigazione preventiva49
.
Il secondo è il d.l. 20 novembre 1991, n.367 convertito in Legge 20 gennaio 1992, n.8 ossia
l‟atto di nascita della Direzione nazionale antimafia (DNA).
Con queste norme si è proceduto ad una complessiva riorganizzazione degli uffici del
pubblico ministero, con l‟obiettivo di un migliore coordinamento delle indagini riguardanti i
delitti, consumati o tentati, di associazione di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di
estorsione, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, e
qualunque delitto commesso avvalendosi della forza di intimidazione e della condizione di
assoggettamento e omertà che derivano dal vincolo associativo di tipo mafioso, o compiuto al
fine di agevolare l‟attività delle associazioni mafiose. Alle originarie previsioni si sono
aggiunti il delitto di associazione contrabbandiera e, con L. 228/2003, i delitti di riduzione o
mantenimento in schiavitù; tratta di persone; acquisto e alienazione di schiavi; associazione
per delinquere finalizzata a commettere detti reati50
.
Il coordinamento investigativo della DNA ricade tanto sull‟attività delle procure distrettuali
antimafia (DDA), corrispondenti ai distretti di Corte d‟appello; tanto in riferimento all‟attività
della DIA e delle varie forze di polizia impegnate nel contrasto al crimine organizzato51
.
49
Lorenzo Frigerio, op. cit. 50
Gian Carlo Caselli, voce Direzione nazionale antimafia in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 211-216. 51
Ibidem.
28
A livello ordinamentale, la DNA è una articolazione della Procura generale presso la Corte di
Cassazione. I componenti della DNA godono delle guarentigie assicurate alla Costituzione a
ogni altro magistrato: soggezione soltanto alla legge; autonomia ed indipendenza da ogni altro
potere dello Stato; inamovibilità52
.
2.1.3. I collaboratori di giustizia53
La figura del collaboratore di giustizia nasce a cavallo tra la fine degli anni 70‟ e gli inizi
degli anni 80‟ come strumento di indagine e contrasto delle organizzazioni clandestine e
terroristiche di quegli anni, fino ad allora ritenute impenetrabili ( L. 15 dicembre 1979, n.625).
Tale norma si fondava su una pragmatica visione di do ut des: la collaborazione fattiva alle
indagini unita alla dissociazione comportava una sensibile riduzione di pena.
I risultati positivi ottenuti da questa normativa premiale uniti alla “tenuta processuale” dei
collaboratori fece si che molti chiesero l‟estensione di tale strumento anche per il contrasto al
crimine organizzato.
Il legislatore rispose con il d.l. 15 gennaio 1991 n.8 convertito in L. 15 marzo 1991 n. 82 e
con il successivo d.l. 13 maggio 1991, n.152 convertito in L. 12 luglio 1991, n.203.
52
Ibidem. 53
Giovanna Montanaro, voce Pentitismo e pentiti in Nuovo dizionario di mafia ed antimafia, AA. VV., EGA Editore, 2008, pagg. 402-413.
29
Con tali provvedimenti vengono riconosciuti regimi di favore, protezione ed assistenza di cui
possono godere collaboratori e testimoni di giustizia. Inoltre per i collaboratori in materia di
reati di mafia verranno riconosciute diminuzioni di pena e possibilità di scontare la pena al di
fuori degli istituti carcerari ( d.l. 8 giugno 1992, n. 306 convertito in L. 7 agosto 1992, n. 356).
Questo quadro normativo è stato di recente aggiornano, coordinato e risistemato con la L. 13
febbraio 2001, n.45. Tale riforma è segnata da talune linee cardine quali: individuazione di
criteri più rigorosi e restrittivi in ordine alla selezione dei collaboratori ed al vaglio delle loro
dichiarazioni, riduzione delle fattispecie alle quali è applicata la disciplina premiale, la
separazione tra momento di ammissione alle misure di protezione e concessione dei benefici
penitenziari, la fissazione di un termine tassativo (180 giorni) entro il quale il collaboratore
deve indicare i fatti di cui è a conoscenza, la redazione di un verbale illustrativo,
l‟introduzione di limiti di pena da scontare in carcere consistenti in un quarto della pena
inflitta o in dieci anni di reclusione nel caso di condanna all‟ergastolo.54
Inoltre questa legge ha posto una diversa regolamentazione tra collaboratore di giustizia e
testimone di giustizia, partendo dalla diversa valutazione delle due posizioni: il collaboratore
di giustizia proviene da organizzazioni criminali e mafiose, e fornisce notizie circa la propria
responsabilità o la responsabilità di terzi rispetto a fatti delittuosi; il testimone di giustizia è
solitamente un cittadino onesto, estraneo alle organizzazioni criminali, che fornisce notizie od
informazioni circa il reato subito, del quale è stato testimone o di cui è venuto a conoscenza.
54
Si veda sopra par. 1.2.1.
30
2.2 Legislazione processual-penalistica di contrasto alle mafie e “diritto penale del
nemico”: il sistema a “doppio binario”.
Il sistema processuale che si è andato a delineare, in relazione ai reati di criminalità
organizzata di stampo mafioso, è il frutto di una stratificazione legislativa realizzatasi nel
corso degli anni che, “ponendo la ragion di Stato a fondamento, ha visto un continuo
susseguirsi di leggi d‟emergenza (spesso varate a seguito di eventi traumatici)”55
.
Tale continuum senza fine ha avuto un evidente impatto sul versante processuale: comporre
quel sistema che “con espressione tanto allusiva quanto ambigua viene chiamato del „doppio
binario‟”, ossia di un vero e proprio processo penale speciale per i reati di criminalità
organizzata che si differenzia dal processo ordinario per i reati comuni56
.
Gli esempi individuabili all‟interno del codice di procedura penale sono numerosi: la custodia
cautelare in carcere è “favorita” in relazione ai reati di criminalità organizzata (artt. 274 lett. C
e 275 comma 3 c.p.p.), si tratta di reati per i quali sono previsti termini più lunghi per le
indagini preliminari (art. 407 c.p.p.) e per i quali è fatto divieto di comunicare l‟iscrizione nel
registro delle notizie di reato (art. 335 comma 3 c.p.p.), sono ancora previste particolari
restrizioni nel diritto alla prova (art. 190 bis c.p.p.) e nella facoltà di ottenere l‟esame delle
persone le cui dichiarazioni siano acquisite tramite verbali (art. 238 comma 5 c.p.p.).
55
Roberto E. Kostoris, Processo penale, delitto politico e “Diritto Penale del nemico”, La Magistratura, AA.VV., Luglio-Dicembre 2009, pagg. 72-82. 56
Ibidem.
31
Tale sistema a “doppio binario”, cosi restrittivo nei confronti degli autori di reati
organizzativi, viene fatto rientrare all‟interno della categoria del “diritto penale del nemico”57
.
Con tale concetto si intende indicare un diritto penale, e processual- penalistico, “non tanto
del fatto colpevole quanto dell‟autore pericoloso, non della colpevolezza ma della
pericolosità, non della retribuzione proporzionale ma della neutralizzazione; presentando un
evidente trattamento discriminatorio rispetto al diritto penale e processuale normale ed
ordinario”58
.
Nella realtà specifica dell‟ambito processuale si notano certe distorsioni in materia di
perquisizioni, sequestri, confische, intercettazioni, misure cautelari personali, di garanzie
probatorie, in accelerazioni dei tempi processuali, in meccanismi di pressione-compensazione
verso forme di collaborazione. Sotto il profilo preventivo, nella applicazione di misure di
prevenzione, personali e patrimoniali.
Questo si è realizzato poiché, ciclicamente, “il processo penale tende ad assumere le
caratteristiche di uno strumento volto a tutelare il potere costituito ed a neutralizzare i propri
avversari”59
.
Uno strumento che si è emancipato, nel corso degli anni, da “una funzione servente del diritto
penale ad un ruolo di “socio tiranno” del diritto sostanziale (secondo la metafora di Tullio
57
Ivi, pag. 30. 58
Ferrando Mantovani, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, Riv. it. dir. e proc. pen. 2007, 2-3, 470. 59
Roberto E. Kostoris, Processo penale, delitto politico e “Diritto Penale del nemico”, La Magistratura, AA.VV., Luglio-Dicembre 2009, pagg. 72-82.
32
Padovani), proprio con riguardo ai reati di criminalità organizzata, le cui fattispecie sono
ritagliate su precisi moduli investigativi”60
.
60
Ivi, pag. 31.
33
CAPITOLO 3: SVOLGIMENTO DI UN PROCESSO IN MATERIA DI
CRIMINALITA’ ORGANIZZATA
La tesi, proponendosi di analizzare lo stato dell‟arte della legislazione processual- penalistica
in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso nel suo complesso, non intende e non
potrebbe approfondire in modo specifico tutti gli istituti predisposti dal legislatore in tale
ambito.
La scelta di ripercorrere una vicenda giudiziaria “tipo” permette, allora, di avere una visione
complessiva dell‟oggetto in esame attraverso una struttura fatta di passaggi logici e
consequenziali.
In quest‟ottica, il capitolo è composto da cinque paragrafi corrispondenti ad altrettanti
importanti fasi dell‟attività processuale: indagini preliminari, applicazione delle misure
cautelari, udienza preliminare, dibattimento, formazione della prova e giudizio finale.
Per ognuno di questi, l‟attenzione sarà focalizzata sugli istituti specificatamente destinati ai
reati di criminalità organizzata di stampo mafioso.
34
3.1. Le indagini preliminari
In riferimento alle indagini preliminari in materia di criminalità organizzata è utile, in primis,
individuare chi sono i giudici ed i magistrati competenti.
In tal senso dispone l‟art. 328 comma 1 bis c.p.p., che affida le funzioni di giudice per le
indagini preliminari ad un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito
ha sede il giudice competente.
Il riferimento effettuato dall‟articolo in esame è alla competenza delle diverse Direzioni
Distrettuali antimafia, corrispondenti ai distretti di corte d‟Appello, per i reati di cui all‟art. 51
comma 3 bis c.p.p.
Il summenzionato art. 51 comma 3 bis c.p.p. assume una certa rilevanza nell‟ambito
d‟approfondimento della presente tesi per due ordini di motivi.
Da un lato esso viene costantemente richiamato dalle norme procedurali dedicate al contrasto
alla criminalità organizzata in quanto elenca, e ricorda, gli articoli del codice penale indicanti
i delitti, consumati o tentati, per i quali sorge la competenza materiale delle Direzioni
Distrettuali Antimafia.
L‟elenco comprende: artt. 416 e 416 bis c.p. (associazione per delinquere ed associazione di
tipo mafioso), artt. 600-601-602 c.p. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù,
tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi), art. 630 c.p. (sequestro di persona a scopo
di estorsione), art. 74 D.P.R. 9 ottobre 1990 n.309 (associazione finalizzata al traffico illecito
35
di sostanze stupefacenti o psicotrope), art. 291 quater D.P.R. 23 gennaio 1973 n. 43
(associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri).
Ma l‟art. 51 comma 3 bis c.p.p. è altrettanto rilevante in questa sede in quanto individua, per i
reati sopraindicati, il pubblico ministero competente.
In questo senso il riferimento è ancora alle Direzioni distrettuali antimafia ed alla loro
competenza territoriale corrispondente ai singoli distretti di Corte d‟Appello.
3.1.1. Dall’iscrizione della notizia di reato all’avvio delle indagini
Qualsiasi vicenda giudiziaria prende il via dall‟acquisizione di una notizia di reato.
Acquisizione che, come disciplinato dagli artt. 330 c.p.p. ss., può avvenire dall‟iniziativa
propria di pubblico ministero e polizia giudiziaria o dalla trasmissione agli stessi di denuncie
e referti.
In qualsiasi modo giunga al pubblico ministero la notizia di reato, ex art. 335 comma 1 c.p.p.
questi dovrà immediatamente iscriverla nell‟apposito registro presso l‟ufficio,
contestualmente al nome della persona alla quale il reato è attribuito.
Se si ha, invece, la registrazione di reati commessi da persone ignote, il primo obiettivo
dell‟indagine sarà proprio individuare il soggetto agente, arrivando a poter iscrivere nel
registro delle notizie di reato il nome di questo (art. 415 c.p.p.).
Ritornando all‟art. 335 c.p.p., una disposizione specifica in riferimento ai delitti di cui all‟art.
416 bis c.p. viene indicata al comma 3 dell‟articolo 335 c.p.p., nel quale si prevede che per
36
uno dei delitti di cui all‟art. 407 comma 2 lettera a) c.p.p. è esclusa la comunicazione
dell‟iscrizione alla persona offesa, alla persona alla quale il reato è attribuito, nonché ai
relativi difensori ove ne facciano richiesta.
La ratio della norma sta nella volontà da parte del legislatore di approntare una più forte e
specifica tutela per le indagini in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso,
consapevole dell‟importanza della segretezza delle stesse; al fine di garantirne uno
svolgimento scevro da qualsiasi tipo di “inquinamento” o pressione esterna, tanto da parte dei
soggetti privati coinvolti quanto di soggetti terzi61
.
A questo punto prende avvio la fase prettamente investigativa. Si tratta di un momento assai
delicato, dove emergono diversi profili di particolare interesse.
Un primo punto d‟approfondire è quello relativo alla coordinazione e relazione tra il pubblico
ministero e la polizia giudiziaria.
L‟incipit è dato da un aspetto meramente organizzativo. Cosi come è individuato dalle norme
in materia di contrasto alla criminalità organizzata il pubblico ministero competente
territorialmente e materialmente presso le diverse Direzioni Distrettuali Antimafia, cosi è
individuato l‟organo atto a svolgere le funzioni di polizia giudiziaria: si tratta della DIA
(Direzione Investigativa Antimafia), organo composto dagli uomini di Polizia di Stato, Arma
61
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Volume secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 62-63.
37
dei Carabinieri e Corpo della Guardia di Finanza avente il compito di assicurare lo
svolgimento, in forma coordinata, delle attività di investigazione preventiva attinenti alla
criminalità organizzata, nonché di effettuare indagini di polizia giudiziaria relative
esclusivamente a delitti di associazione di tipo mafioso o comunque ricollegabili
all'associazione medesima (art.3 D.L. 29 ottobre 1991, n.345, convertito con modifiche in
Legge 30 dicembre 1991, n.410).
Pubblico ministero e polizia giudiziaria, cosi individuati e definiti, entrano costantemente in
contatto e, di fatto, operano assieme. Una relazione che ha visto importanti modifiche e
variazioni rispetto al modello originario del 1988.
L‟idea del legislatore era quella di modificare il sistema previgente, “passando da una sorta di
istruttoria di polizia ad un sistema dove la centralità dell‟attività investigativa gravitasse
attorno alla figura del pubblico ministero”62,63
.
Per far questo, gli originari artt. 347 e 348 c.p.p. prevedevano che la polizia giudiziaria si
limitasse a riferire per iscritto gli elementi essenziali del fatto e gli altri elementi sino ad allora
raccolti, indicando le fonti di prova e le attività compiute; prevedendo che la notizia di reato
venisse inoltrata entro 48 ore al pubblico ministero, senza che la polizia giudiziaria potesse far
altro senza apposite direttive dello stesso pubblico ministero.
62
Ciro Santoriello, Novità in tema di attività di polizia giudiziaria, repressione e prevenzione ad opera delle forze dell'ordine dopo la legge n. 128 del 2001, Agosto 2002. 63
Giorgio Lattanzi, Pubblico ministero e polizia giudiziaria nel d.d.l. n. 1440/s, Cassazione penale 2009, 05, 1783.
38
Ma questo sistema era “assolutamente inconciliabile con la realtà di un pubblico ministero
investito da centinaia di migliaia di notizie di reato e nell‟impossibilità di disporre le
opportune misure investigative”64
. Senza dimenticare che gli anni immediatamente successivi
all‟entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale furono segnati da brutali episodi di
violenza criminale nei confronti di magistrati e membri delle forze dell‟ordine, tali da
riproporre il tema dell‟efficacia delle nuove norme a contrastare il fenomeno criminale
mafioso65
.
Per correggere e superare tale incongruenza, dando nuova spinta ed al contempo flessibilità
alle indagini, è intervenuto dapprima il d.l. 8 giugno 1992 n.306 convertito in L. 7 agosto
1992 n.356 e successivamente la L. 128 del 2001.
L‟impatto di queste disposizioni è evidente. L‟art. 327 c.p.p., cosi come modificato, prevede
ancora che il pubblico ministero dirige le indagini e dispone della polizia giudiziaria, ma
quest‟ultima svolge attività di propria iniziativa anche dopo la comunicazione della notizia di
reato.
E‟ scomparso il limite temporale delle 48 ore per inoltrare la notizia di reato da parte della
polizia giudiziaria al pubblico ministero al comma 1 dell‟art. 347 c.p.p., sostituito da un più
generico “senza ritardo”.
64
Ivi, pag.37 . 65
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Volume secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 67.
39
Viene ribadito e rafforzato il ruolo investigativo autonomo della polizia giudiziaria anche
all‟art. 348 c.p.p. Il primo comma garantisce alla polizia giudiziaria la continuazione delle
proprie attività ex art. 55 c.p.p. anche dopo la comunicazione della notizia di reato, mentre al
terzo comma si prevede che la polizia giudiziaria realizzi tanto le direttive del pubblico
ministero quanto indagini di propria iniziativa (in riferimento agli atti diretti e delegati ex art.
370 c.p.p.).
Tali modifiche, aggiunte agli ulteriori compiti ed attività svolti dalla polizia giudiziaria ex artt.
349-350-354 c.p.p. in riferimento alla raccolta di sommarie informazioni ed accertamenti su
luoghi, cose e persone, permettono di affermare che “la polizia giudiziaria abbia riacquistato
un proprio ruolo autonomo collegato al pubblico ministero, il quale non è più il dominus
dell‟azione penale”66,67
.
Sotto questa nuova prospettiva assume un diverso significato l‟attività di direzione delle
indagini da parte del pubblico ministero, facendo riemerge la rilevanza investigativa e
processuale degli atti compiuti dalla polizia giudiziaria e raccolti nel fascicolo dello stesso
pubblico ministero68
.
66
Ciro Santoriello, Novità in tema di attività di polizia giudiziaria, repressione e prevenzione ad opera delle forze dell'ordine dopo la legge n. 128 del 2001, Agosto 2002. 67
Giorgio Lattanzi, Pubblico ministero e polizia giudiziaria nel d.d.l. n. 1440/s, Cassazione penale 2009, 05, 1783. 68
Ibidem.
40
Un ulteriore ed importante aspetto di coordinamento nella fase delle indagini preliminari è
quello che investe i rapporti tra i diversi uffici del pubblico ministero.
Di particolare interesse, in tal senso, risultano essere le disposizioni poste dall‟art. 371 bis
c.p.p., introdotto dal d.l. 20 novembre 1991 n. 367 e convertito in L. 20 gennaio 1992 n.8
(recentemente modificato dal d.l. 23 maggio 2008 n. 92, convertito in l. 24 luglio 2008 n.125
al fine di rafforzarne l‟operatività69
).
Tale articolo va a disciplinare quelle che sono le attività, le competenze e le facoltà del
procuratore nazionale antimafia, esercitante le sue funzioni in relazione ai procedimenti per i
delitti indicati all‟art. 51 comma 3 bis c.p.p.
Dal punto di vista investigativo egli dispone della Direzione investigativa antimafia e dei
servizi centrali ed interprovinciali delle forze di polizia, impartendo direttive per regolarne
l‟impiego a fini investigativi.
Inoltre il procuratore nazionale antimafia è organo d‟impulso per le indagini dei singoli
procuratori distrettuali, avendo come obiettivo l‟effettiva collaborazione tra le diverse procure
al fine di realizzare investigazioni tempestive e complete.
Gli strumenti concessi dal legislatore a tal fine vengono elencati al comma terzo dell‟art. 371
bis c.p.p.: collegamento investigativo tra le diverse procure distrettuali antimafia e la
Direzione nazionale antimafia, mobilità e flessibilità dei magistrati delle singole direzioni
distrettuali per soddisfare specifiche esigenze investigative e processuali, acquisizione ed
69
Vincenzo Macrì. Legislazione antimafia, i conti non tornano, Narcomafie, ottobre 2009, pag. 11.
41
elaborazione delle notizie attinenti la criminalità organizzata, sostegno del coordinamento
delle indagini tra le diverse procure attraverso direttive e, in caso di contrasti, è prevista la
riunione dei procuratori distrettuali interessati.
A chiudere l‟elenco, al comma 3 lettera h) ed al comma 4, vi è la previsione della facoltà di
avocazione delle indagini da parte del procuratore nazionale antimafia.
Questi ne dispone, con decreto motivato, quando le riunioni volte a coordinare le indagini non
hanno dato esito a causa della perdurante ed ingiustificata inerzia nella attività d‟indagine,
nonché dell‟ingiustificata e reiterata violazione dei doveri previsti dall‟art. 371 c.p.p. ai fini
del coordinamento delle indagini (scambio di atti e d‟informazioni, comunicazione delle
direttive rispettivamente impartite alla polizia giudiziaria).
Il procuratore nazionale antimafia provvede all‟avocazione dopo aver assunto le necessarie
informazioni personalmente o tramite un magistrato della Direzione nazionale antimafia
all‟uopo designato.
Il decreto motivato col quale il procuratore nazionale antimafia dispone l‟avocazione è
reclamabile al procuratore generale presso la Corte di Cassazione.
Le indagini preliminari nell‟ambito dei delitti ex art. 416 bis c.p. godono di un‟altra
disposizione derogatoria all‟interno del codice di procedura penale.
42
Si tratta dell‟art. 407 c.p.p. che, in riferimento ai termini di durata massima delle indagini
preliminari, elenca al comma secondo una serie di delitti per i quali la durata delle indagini è
prolungata, in via eccezionale, sino a due anni.
Il legislatore ha cosi inteso tutelare e favorire le investigazioni per reati (tra i quali
l‟associazione di tipo mafioso) spesso strutturati in modo assai complesso, che vedono la
partecipazione di numerosi soggetti e la necessità d‟utilizzo di diversi mezzi di prova.
Per queste tipologie di delitti, insomma, non si è ritenuta sufficiente la proroga delle indagini
richiedibile dal pubblico ministero al giudice ex art. 406 c.p.p.
Difatti questa ipotesi soffre di due limiti, uno di tipo temporale ed uno di tipo qualitativo.
Il limite temporale è riscontrabile li dove l‟art.406 c.p.p. riconosce possibilità di proroga delle
indagini fino a diciotto mesi, contro i ventiquattro complessivi dell‟art. 407 c.p.p.
Il limite qualitativo a danno dell‟art. 406 c.p.p. è individuabile sul punto del procedimento per
ottenere la proroga.
Al primo comma si prevede che il pubblico ministero, nel chiedere la proroga dei termini al
giudice, dovrà motivare la propria richiesta. A questo punto il giudice notificherà tale richiesta
alla persona offesa e all‟indagato.
La decisione sul punto, ex art. 406 c.p.p. comma terzo, si avrà in camera di consiglio entro
dieci giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle memorie.
43
La complessità di questo procedimento è stata però esclusa, al comma 5 bis, per i delitti di cui
all‟art. 51 comma 3 bis c.p.p. nonché per il delitto di associazione di tipo mafioso cosi come
indicato dall‟art. 407 comma secondo lettera a).
Per queste categorie di reati il giudice provvede con ordinanza entro dieci giorni dalla
presentazione della richiesta, dandone comunicazione al pubblico ministero.
Si ripete la ratio normativa che guida il legislatore in materia, ossia tutelare e non rallentare le
indagini in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso, garantendo al contempo la
minor dispersione verso l‟esterno di atti e notizie.
3.2. Le misure cautelari
L‟applicazione delle misure cautelari, in particolare di quelle personali, pone interessanti
spunti in riferimento ai reati di criminalità organizzata e all‟analisi del sistema del doppio
binario.
Nello specifico l‟attenzione ricade sugli articoli dal 273 al 275 del codice di procedura, in
relazione alla scelta e all‟applicabilità delle misure cautelari.
L‟analisi parte proprio dall‟art. 273 c.p.p. , rubricato come “Condizioni generali di
applicabilità delle misure”, il cui primo comma prevede che “nessuno può essere sottoposto a
misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza”.
44
Tale previsione normativa, unita all‟elencazione delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p.
(specifiche ed inderogabili esigenze delle indagini, fuga o pericolo di fuga dell‟imputato,
pericolo che l‟indagato o l‟imputato possa commettere gravi delitti di specie identica o
differente rispetto a quello per il quale si procede), è volta a garantire il “giusto processo
cautelare”; cosi come richiesto anche dalla Corte europea dei diritti dell‟uomo70
.
L'imputato merita condanna per un fatto di reato soltanto se ne sono provati tutti i presupposti,
e non ha alcun onere di provare la propria innocenza. In secondo luogo l'imputato, "come se"
fosse innocente fino alla condanna, non può in pendenza del processo subire perdite o
diminuzioni di diritti. Entrambe le regole sono preordinate ad assicurare “che la restrizione
della libertà ante iudicatum sia correlata esclusivamente alle garanzie del processo, tanto sul
piano del suo stesso svolgimento, quanto su quello del risultato. La limitazione della libertà
non può essere autorizzata se non in casi eccezionali, per esigenze processuali, e per tempi
limitati, e si giustifica solo quale eccezione strettamente condizionata dai criteri di necessità,
adeguatezza e proporzionalità”71
.
Il tema diviene assai delicato in relazione alla chiamata di correo ex art. 192 comma 3 e 4
c.p.p.
Sul punto, un ricco dibattito dottrinale e giurisprudenziale si è sviluppato fino a tutti gli anni
‟90 del secolo scorso.
70
Corte eur. dir. umani, 24 novembre 1993, I. c. Svizzera, § 36; cfr. G. Ubertis, Sistema di procedura penale, Principi generali, Torino, 2002, 20. 71
Ibidem.
45
Di particolare rilevanza, in questo confronto, sono state le conclusioni a cui è giunta la
sentenza Costantino72
.
Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione la chiamata di correo, perché potesse
assurgere a grave indizio di colpevolezza, doveva essere suffragata da riscontri “che non
dovevano riferirsi necessariamente alla posizione soggettiva dell'accusato e al reato
attribuitogli, bensì dovevano tradursi solamente nella conferma delle modalità oggettive del
fatto, in modo da dissipare il sospetto di mendacio del chiamante”73
. Il giudice della misura
cautelare, dopo avere verificato l'intrinseca attendibilità del chiamante, “doveva appurare solo
se esistevano circostanze di fatto di smentita e se la stessa potesse considerarsi confermata, in
relazione all'imputazione, da riscontri esterni di qualsiasi natura, sia rappresentativi sia
logici”74
.
I dubbi vengono fugati dalla L. 1 marzo 2001, n.63 , cosiddetta legge del “Giusto processo”.
Tale novella legislativa ha introdotto, all‟art. 273 c.p.p., il nuovo comma 1bis secondo il quale
“nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articoli
192, comma 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1”.
72
Cass., Sez. Un., 21 aprile 1995, C., in Cass. pen., 1995, 2837, 1681. 73
Cass., Sez. Un., 21 aprile 1995, C., in Cass. pen., 1995, 2837, 1681, con nota di S. Buzzelli, Chiamata in correità ed indizi di colpevolezza ai fini delle misure cautelari nell'insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; e, ivi, 1996, 467, 211, con nota di Bonini, Chiamata di correo, riscontri esterni e sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza; inoltre, in Foro it., 1996, I, 6; in questa Rivista, 1996, III, 343, con nota di Caselli Lupeschi, Quando la chiamata in correità può portare in carcere?; in Giust. pen., 1996, III, 321, con nota di F. Puleio, Gravi indizi di colpevolezza in materia di misure cautelari e dichiarazioni accusatorie del coimputato; in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 1141, con nota di P. Molinari, Sui rapporti tra gravi indizi di colpevolezza e chiamata in correità ai fini della applicazione delle misure cautelari; in Riv. pen., 1995, II, 1147. 74
Ibidem.
46
In tal modo viene estesa anche alla fase cautelare la metodologia di valutazione della fase di
merito, ossia la verifica della credibilità del dichiarante, dell‟intrinseca consistenza e delle
caratteristiche delle sue dichiarazioni e degli ulteriori riscontri esterni75
.
Il riscontro individualizzante richiesto in fase cautelare dalla novella legislativa del 2001 porta
ad un superamento di quanto espresso dalla sentenza Costantino.
Il riscontro alla chiamata in correità ora « non consiste semplicemente nell'oggettiva conferma
del fatto riferito dal chiamante, ma offre elementi che collegano il fatto stesso alla persona del
chiamato, fornendo un preciso contributo dimostrativo dell'attribuzione a quest'ultimo del
reato contestato»76
. Ed ancora, «si deve ritenere che gli elementi che confermano
l'attendibilità delle dichiarazioni devono riguardare non soltanto il fatto storico che costituisce
oggetto dell'imputazione, ma anche la sua riferibilità all'imputato»77
.
Ecco che la sussistenza del riscontro individualizzante rafforza e completa lo statuto del
giusto processo cautelare, che già includeva l'obbligo della motivazione ed i rimedi
impugnatori delle ordinanze applicative delle misure cautelari.
75
Giordano Francesco Paolo, Chiamata di correo e necessità di riscontri individualizzanti, Cass. pen. Sez. Unite, 30 maggio 2006, n. 36267. Dir. Pen. e Processo, 2007, 7, 875. 76
Cass., Sez. I, 13 aprile 1992, T., C.E.D. Cass., n. 190581. 77
Cfr. Cass., Sez. I, 21 marzo 1995, n. 1743, L., C.E.D. Cass., n. 201176; Cass., Sez. I, 13 settembre 1994, n. 3124, M., ivi, n. 199446; Cass., Sez. V, 18 agosto 1991, n. 811, M., ivi, n. 188144.
47
Nell‟applicazione delle misure cautelari intervengono, inoltre, i criteri di scelta delle misure
cosi come individuati all‟art. 275 c.p.p.
Di particolare rilevanza, in riferimento all‟associazione criminale di stampo mafioso, è il
comma 3 del predetto articolo, secondo il quale “la custodia cautelare in carcere può essere
disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata. Quando sussistono gravi indizi
di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, […] del
codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi
dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari”.
Tale norma esprime una presunzione di pericolosità in riferimento ai soggetti che hanno
commesso determinati gravi reati di stampo mafioso, caratterizzati dall‟elemento e dal
vincolo associativo.
Questo orientamento normativo sembra aver trovato una importante sponda anche in ambito
comunitario.
Al riguardo, la Raccomandazione R (80) 11 del Comitato dei Ministri degli Stati membri del
Consiglio d'Europa sul tema della carcerazione provvisoria ha emesso un serio monito,
affermando che quest'ultima "deve [...] essere considerata come una misura eccezionale e non
essere mai obbligatoria né utilizzata a fini punitivi", per poi sottolineare che "non può essere
disposta se non quando l'interessato è legittimamente sospettato d'aver commesso il reato
addebitatogli e se vi sono serie ragioni per ritenere che esistano uno o più dei pericoli
seguenti": fuga, ostruzione del corso della giustizia, commissione di un grave reato.
48
Precisando, subito dopo, che: "anche se non si potesse ritenere l'esistenza dei pericoli di cui
sopra, la carcerazione provvisoria può tuttavia eccezionalmente giustificarsi in certi casi di
reati particolarmente gravi”.
A posizioni molto vicine è giunta anche la Corte europea dei diritti dell‟uomo.
Nella sentenza Pantano del 6 novembre 2003 la Corte riconosce le peculiarità tipiche del
fenomeno mafioso, in primis nel rapporto personale che lega l‟associato al sinodo criminale.
Ecco che allora la disposizione di cui all‟art. 275 comma 3 c.p.p., secondo i giudici di
Strasburgo, trova la propria ragion d‟essere nella tutela dell‟ordine e della sicurezza pubblica
rispetto al pericolo espresso dalla criminalità organizzata di stampo mafioso.
Le riserve, allora, non riguardano “tanto l'opportunità di un regime cautelare differenziato per
i reati di mafia, né la presunzione di pericolosità iuris tantum, quanto piuttosto l'impossibilità
di provare, nel caso concreto, un'attenuazione delle esigenze cautelari tale da permettere
l'adozione di una misura meno afflittiva della carcerazione”78
.
Difatti, secondo la disciplina attualmente in vigore, nel momento della decisione
sull'applicazione o meno di un provvedimento restrittivo nei procedimenti di mafia,
l'alternativa è fra il carcere e la libertà.
78
Giulia Mantovani, Dalla Corte europea una "legittimazione" alla presunzione relativa di pericolosità degli indiziati per mafia. c.p.p. art. 275 Corte europea diritti dell'uomo, 06 novembre 2003, Legislazione penale, 2004.
49
In tal modo, per evitare la carcerazione è necessario dimostrare l'azzeramento di ogni esigenza
cautelare, mentre anche in presenza di un periculum libertatis effettivamente blando è
disposta e mantenuta la più gravosa delle misure ante iudicium79
.
Secondo larga parte della giurisprudenza, il provvedimento di applicazione o conferma della
custodia in carcere può invece limitarsi a dare atto dell'inesistenza di elementi idonei a vincere
la presunzione di cui all'art. 275 comma 3 c.p.p., senza dover specificamente motivare sul
punto: soltanto là dove la difesa alleghi specifiche circostanze dirette a provare positivamente
l'assenza di esigenze cautelari nel caso concreto, l'obbligo di motivazione del provvedimento
applicativo o confermativo della misura carceraria diventerà allora più oneroso, dovendosi
giustificare l'inidoneità dei fatti appositamente allegati a vincere la presunzione80
.
Per ritenere conseguita una tale prova, in giurisprudenza si è ripetutamente richiesta la
dimostrazione dell'avvenuta rescissione definitiva di ogni legame con l'organizzazione
mafiosa81
.
Là dove poi la prova della stabile fuoriuscita dall'associazione venga desunta dall'avvio di
una collaborazione con la giustizia82
, la permanenza in libertà nel corso del procedimento
79
Ivi, pag. 48. 80
Cass. (S.U.) 5.10.1994, Demitry, in CP 1995, 842. 81
Cass. 18.8.1992, Galatolo, in ANPP 1993, 467, e Cass. 8.2.1995, Bonventre, in CP 1996, 2301. 82
Cfr. Cass. 10.1.2000, Galliano, CED 215677, che individua nell'attività di collaborazione, riconosciuta proficua in sede di cognizione, un elemento idoneo a vincere la presunzione di pericolosità, purché non sussistano elementi che inducano ad escludere l'assenza delle esigenze cautelari.
50
“finisce per configurarsi sostanzialmente come un beneficio ulteriore rispetto a quelli
espressamente collegati a tale scelta dalla legge”83
.
3.3. L’udienza preliminare ed i procedimenti speciali
La fase dell‟udienza preliminare, nell‟ambito dei reati di criminalità organizzata di stampo
mafioso, presenta una sostanziale uniformità con il procedimento ordinario.
Sul punto, le maggiori criticità si sviluppano allora in riferimento ai procedimenti speciali; in
particolar modo sul giudizio abbreviato ex art. 438 c.p.p. e ss.
Questo rito, come gli altri inclusi nel libro sesto del codice di procedura penale, ha “chiare
funzioni di economia processuale”84
, volto a “semplificare i meccanismi processuali o ad
abbreviare la durata del processo mediante forme di definizione anticipata rispetto alle forme
del giudizio dibattimentale”85
.
Il giudizio abbreviato, nello specifico, ha una funzione deflattiva del dibattimento. Tale rito ha
come obiettivo, nelle intenzioni del legislatore, quello di escludere la fase dibattimentale a
favore della celerità della decisione; decisione sul merito anticipata in sede di udienza
preliminare. A favorire le parti ad accettare tali forme di conclusione del processo sono diretti
i congegni premiali individuati all‟art. 442 comma 2 c.p.p.: riduzione della pena di un terzo,
83
Giulia Mantovani, op. cit., 2004. 84
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 237. 85
Cfr. dalla Relazione preliminare al codice di procedura penale in D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 237.
51
sostituzione dell‟ergastolo con pena reclusiva di anni trenta, sostituzione della pena
dell‟ergastolo con isolamento diurno con quella dell‟ergastolo.86
Proprio questi elementi, caratterizzanti il giudizio abbreviato, fanno sorgere le maggiori
perplessità nell‟ambito della dottrina processual-penalistica.
In quest‟analisi, bisogna avere come punto fermo la consapevolezza che “il processo penale
non è per nulla „neutro‟ rispetto alle finalità di cui si fa strumento applicativo”.87
Le strutture processuali attraverso le quali il diritto penale prende forma nella realtà, cioè,
“perseguono finalità politico-criminali necessariamente comuni”.88
Ecco che allora, in questi procedimenti, la prassi applicativa rientri in una logica di „scambio‟
a favore dei c.d. collaboratori di giustizia. Questo, se da un lato rientra nella logica premiale
che ispira questi strumenti deflattivi, dall‟altro “presenta dei margini molto ristretti di
compatibilità con le ragioni che nel nostro sistema costituiscono il fondamento dell‟intervento
punitivo”.89
Difatti, ogni modifica dei criteri che presiedono all‟irrogazione di una sanzione penale implica
necessariamente una presa di posizione sulla funzione che la pena da applicare e poi chiamata
a svolgere nella realtà, e su una ulteriore verifica di legittimità deducibile dalle norme
costituzionali.
86
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 239. 87
Stefano Fiore, Modelli di intervento sanzionatorio. Criminalità organizzata e risposte ordinamentali, AA.VV., 1999, pagg. 273-277. 88
Ibidem. 89
Ibidem.
52
La disciplina attuale, da questo punto di vista, risulta fortemente inadeguata.90
Per quel che riguarda i procedimenti speciali, ed il giudizio abbreviato in particolare, i
benefici che derivano dalla loro applicazione “dovrebbero inserirsi in un quadro di non
contraddizione con le funzioni legittimamente perseguibili attraverso l‟esercizio della potestà
punitiva”.91
Con la sentenza n. 313 del 1990 anche la Corte Costituzionale dimostra di condividere questo
orientamento. Secondo la Corte, infatti, “le diminuzioni di pena e gli altri benefici connessi ai
riti alternativi rappresentano una scelta praticabile solo a condizione che la pena in concreto
irrogata sia comunque idonea a perseguire lo scopo di cui all‟art. 27 comma 3 Cost.”92
, ossia
tenda alla rieducazione del condannato.
Ecco che allora l‟applicazione di tali procedimenti, con “valore di scambio” per i collaboratori
di giustizia, non soddisfa esigenze di prevenzione ne speciale ne generale.
La collaborazione, difatti, “non è di per sé significativo di una riacquisizione dei valori
fondamentali, muovendosi su un piano distinto e non necessariamente collegato, […] nei
confronti di soggetti che non sono affatto „deboli‟ o „cedevoli‟”.93
Il sistema si dimostra, cosi, incapace di fornire risposte organiche, sistematiche e diffuse;
tanto dal punto di vista sociale che dal punto di vista processuale.
90
Stefano Fiore, op. cit., pag. 51. 91
Ibidem. 92
Dolcini, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, Riv. It. Dir. Proc. pen. 1990, Pagg. 810 ss. 93
Stefano Fiore, op. cit., pag. 51.
53
L‟immagine, secondo alcuni autori, è quella di una vera e propria “dichiarazione di resa”
dello Stato che, per ottenere risultati anche assai validi, “scende a patti sull‟uso della più
penetrante espressione di sovranità sui consociati, vale a dire l‟esercizio della potestà
punitiva”.94
3.4. Le prove e la loro acquisizione
Le prove, all‟interno della dinamica processuale, rivestono un ruolo primario.
Queste sono “il mezzo di cui si avvalgono le parti ed il giudice per verificare il fatto […]
ricostruito in vario modo nel corso delle indagini preliminari”95
.
Il codice disciplina l‟intero procedimento probatorio: dall‟ammissione all‟utilizzazione della
prova, dalla distinzione tra i “fatti principali”, enunciati nell‟imputazione, ai “fatti secondari”
relativi all‟attendibilità della persona sottoposta ad esame, fino all‟acquisizione processuale
dei risultati dell‟elaborazione probatoria.96
Questo sistema poggia su due principi fondamentali, di matrice costituzionale: uno è il diritto
alla prova, l‟altro è il contraddittorio per la prova. Proprio in riferimento ai reati di criminalità
organizzata di stampo mafioso individuiamo però, all‟interno del nostro codice di procedura,
rilevanti limitazioni ed esclusioni dei principi summenzionati.
94
Stefano Fiore, Op. cit., pag. 51. 95
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 329. 96
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 330.
54
3.4.1. Il diritto alla prova
Il diritto alla prova viene individuato come “limite al potere discrezionale del giudice
nell‟ammissione della prova”.97
L‟origine costituzionale di tale diritto è rinvenibile agli articoli 24 comma 2 e 111 comma 4
della Costituzione, alla luce dei quali, rispettivamente, “la difesa è diritto inviolabile in ogni
stato e grado del procedimento” ed “il processo è regolato dal principio del contraddittorio
nella formazione della prova”. Diritto al quale si richiama, in termini simili, anche la
Convenzione europea dei diritti dell‟uomo all‟art. 6 n.3 lett. d.98
Nei procedimenti per gravi delitti di criminalità organizzata questo diritto subisce una
rilevante limitazione all‟art. 190 bis c.p.p.
La norma, la cui applicazione è stata estesa ad ulteriori gravi delitti individuati al comma 1 bis
cosi aggiunto dalla L. 3 agosto 1998, n. 269, prevede che “per taluno dei delitti indicati all‟art.
51, comma 3bis, quando è richiesto l‟esame di un testimone o di una delle persone indicate
nell‟art. 210 e queste hanno già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in
dibattimento nel contradditorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime
verranno utilizzate ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell‟art. 238,
l‟esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle
97
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 339. 98
Ibidem.
55
precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla
base di specifiche esigenze”.
La necessità di una simile impostazione processuale sorge all‟indomani delle gravi stragi di
mafia del 1992, “ritenendosi inadeguata la normativa ordinaria rispetto alle esigenze
conoscitive tipiche dei processi di mafia o comunque inerenti fatti di criminalità
organizzata”.99
La norma mira ad evitare “ „l‟erosione‟ di una prova, già elaborata in contraddittorio, e da
rielaborare in nuove esperienze processuali, attraverso sempre più complicati esami e
controesami”.100
Rispetto alle associazioni di stampo mafioso, l‟esempio è dato dalle deposizioni del
collaboratore di giustizia. Il rischio per la prova, derivante da numerose e susseguenti sue
ripetizioni ed istruzioni dibattimentali, può esser quello di “smagliarne l‟originario tessuto,
nella continua ricerca di maggiori specificazioni ed ulteriori dettagli: con le intuibili
conseguenze in ordine all‟attendibilità di un teste, „non costante‟ nelle sue dichiarazioni”.101
L‟attuale versione dell‟art.190 bis c.p.p. è frutto della riforma apportata dall‟art. 63 della L. 1
marzo 2001, n. 63, cosiddetta “legge sul Giusto processo”.
99
C. Santoriello, La nuova modalità di formazione della prova nei procedimenti per fatti di criminalità organizzata: la modifica dell'art. 190-bis con la legge n. 63 del 2001, Codici d’Italia, Agosto 2002. 100
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 344. 101
Ibidem.
56
La versione precedente dell‟articolo in oggetto, difatti, riconosceva solo al giudice la facoltà
di richiedere l‟esame di testimonianze o dichiarazioni già raccolte in altre fasi processuali,
rendendolo “arbitro” unico circa l‟assunzione della prova nei processi di mafia.102
Tale formulazione, introdotta dal d.l. 8 giugno 1992, n.306 convertito in L. 7 agosto 1992,
n.356, ribaltava però i principi fondamentali del processo penale ed andava incontro a
numerose critiche103
: l‟art.190 bis c.p.p., cosi redatto, contrastava con il summenzionato art. 6
n.3 lettera d della Convenzione europea dei diritti dell‟uomo.104
Il quadro normativo divenne ancora più complesso con l‟entrata in vigore della L. Cost. 23
novembre 1999, n.2, la quale modificò sostanzialmente l‟art. 111 Cost. Questa norma ha,
infatti, “elevato a rango costituzionale il principio del contraddittorio”105
, con la relativa
“impossibilità giuridica di utilizzare nei confronti di un soggetto una dichiarazione verbale
rese senza che l'accusato abbia potuto partecipare all'esame del suo accusatore e provvedere a
porre allo stesso proprie domande”.106
Con la nuova disciplina, il legislatore garantisce un livello minimo di diritto di difesa e di
contraddittorio fra le parti interessate.107
102
C. Santoriello, op. cit., pag.55. 103
Ibidem. 104
Chiavario, "Considerazioni sul diritto alla prova nel processo penale", in "Cass. Pen.", 1996, 2009. 105
C. Santoriello, op. cit., pag.55. 106
Ibidem. 107
Ibidem.
57
In particolare, la prova può essere assunta nell'ambito del medesimo procedimento, in sede di
incidente probatorio, o anche nel medesimo dibattimento, o in altro procedimento, mediante
acquisizione dei relativi verbali ai sensi dell'art. 238 c.p.p.108
In ordine alle dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio, nello stesso procedimento o in
altro giudizio, la norma precisa “che le dichiarazioni rese dal teste o da soggetto rientrante
nella previsione di cui all'art. 210 c.p.p. possono essere utilizzate nei confronti degli imputati
del procedimento considerato solo se i relativi difensori hanno partecipato all'assunzione della
prova”109
: solo in tale ipotesi, dunque, “il nuovo esame in dibattimento della fonte già escussa
in sede di incidente probatorio sarà subordinato alla circostanza che la stessa debba essere
interrogata su fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni
ovvero se ricorrano specifiche esigenze che la facciano ritenere necessario”.110
Le condizioni in presenza delle quali è possibile, per la parte chiedere o per il giudice
disporre, la ripetizione di persona già esaminata in contraddittorio sono o quelle in cui
“l'esame del teste debba riguardare fatti o circostanze diverse da quelle oggetto delle
precedenti dichiarazioni ovvero che ricorrano specifiche esigenze che facciano ritenere
necessaria la rinnovazione della assunzione della prova”111
; cosi come richiesto dall‟art.190
bis comma 1 c.p.p.
108
C. Santoriello, op. cit., pag. 55. 109
Ibidem. 110
Ibidem. 111
Ibidem.
58
3.4.2. Il contraddittorio per la prova
Con l‟entrata in vigore della L. Cost. 23 novembre 1999, n.2, i principi del giusto processo
sono stati inseriti all‟interno dell‟art. 111 Cost.
Tra questi, assorto a rango costituzionale, vi è il principio del contraddittorio. Nello specifico,
all‟art. 111 comma 4 Cost. è statuito che “il processo penale è regolato dal principio del
contraddittorio nella formazione della prova”.
Ecco che, allora, “la portata processuale del tema di prova e la dimensione ugualmente
processuale dei mezzi di prova spianano la via ad un nuovo discorso sul
contraddittorio”112
:ora la partecipazione delle parti avviene nel momento in cui deve
procedersi alla verifica del tema di prova, durante l‟incidente probatorio, l‟udienza
preliminare e la fase dibattimentale, diventando “un modello infungibile di elaborazione
probatoria”.113
Ciò che si delinea, in tal guisa, è la fisionomia del contraddittorio „per una prova‟, “che deve
essere formata attraverso i contrapposti interventi delle parti con un giudice che,
nell‟immediato rapporto con le fonti di prova, è in grado di controllare le forme del
contraddittorio e di apprezzarne a pieno i contenuti”.114
Il principio del contraddittorio può subire talune limitazioni e deroghe, da parte del
legislatore, seguendo le tassative indicazioni fornite dall‟art. 111 comma 5 Cost.
112
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 341. 113
Ibidem. 114
Ibidem.
59
La riforma del 1999 ha riconosciuto difatti alla legge di regolare “i casi in cui la formazione
della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell‟imputato o per accertata
impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.
All‟interno del codice di procedura penale i limiti al contraddittorio per la prova sono
individuabili agli artt. 238 e 238 bis, con importanti riflessi per i procedimenti di criminalità
organizzata di stampo mafioso.
L‟art. 238 c.p.p. disciplina l‟acquisizione delle prove formatesi in altri procedimenti penali.
La sua attuale impostazione è figlia della modifica apportata dal d.l. 8 giugno 1992, n.306 e
convertito in L. 7 agosto 1992, n.356 , intitolata in modo assai eloquente “Modifiche urgenti
al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”.
La precedente versione dell‟art.238 c.p.p. richiedeva il consenso delle parti per acquisire le
prove formate in altri procedimenti penali, non bastando la richiesta di una sola parte ne un
eventuale intervento ex officio del giudice.115
L‟attuale formulazione dell‟art. 238 consente l‟acquisizione della prova senza alcun vincolo
di subordinazione al consenso delle parti quando questa è elaborata nell‟incidente probatorio
o nel dibattimento di altro procedimento penale, nell‟acquisizione di prove assunte in un
giudizio civile passato in giudicato, nell‟acquisizione di documenti di atti non ripetibili per
loro natura o per circostanze imprevedibili.
115
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 344.
60
Per garantire il contraddittorio per la prova, senza ripristinare la disciplina originaria, “basta
circoscrivere l‟utilizzabilità contro l‟imputato dei verbali di dichiarazioni (rese in altro
procedimento) ai soli casi in cui l‟imputato (o il suo difensore) hanno partecipato
all‟assunzione della prova”.116
In tal senso si spinge il comma 2 bis dell‟art.238 c.p.p., cosi
modificato dall‟art. 9 c della L. 1 marzo 2001, n.63 (legge c.d. del Giusto processo).
Quanto detto per l‟art. 238 può applicarsi anche all‟art.238 bis c.p.p.117
, che disciplina
l‟acquisizione delle sentenze penali irrevocabili “ai fini della prova di fatto in esse accertato”.
Questa disciplina, inserita ex novo dalla riforma apportata al codice nel 1992 e già menzionata
a proposito dell‟art.238 c.p.p., permette di acquisire la rappresentazione del fatto che riescono
ad offrire le sentenze passate in giudicato: ad esempio, l‟organizzazione di un‟associazione di
stampo mafioso o la credibilità del testimone o del “collaborante.118
Risultati ai quali mira anche l‟art.238 c.p.p. e che giustificano la limitazione al principio del
contradditorio in riferimento all‟accertamento dei reati di criminalità organizzata di stampo
mafioso, stante le peculiarità tipiche di queste strutture criminali e le conseguenti difficoltà
tanto sul versante investigativo che su quello dell‟accertamento della verità processuale.
116
Ivi, pag.59. 117
Ibidem. 118
Ibidem.
61
3.4.3. La testimonianza nei processi di mafia
Le prove vengono suddivise, da parte del codice di procedura penale, in due grandi categorie:
i mezzi di prova ed i mezzi di ricerca della prova, rispettivamente Titolo II e Titolo III del
Libro III del codice (“Prove”).
I mezzi di prova (es. testimonianza) servono alla verifica, positiva o negativa, del tema di
prova. Tale verifica opera “attraverso „modalità di assunzione‟ prestabilite in maniera rigorosa
dalla legge, […] esclusivamente nel processo (o nel corso dell‟incidente probatorio), davanti
ad un giudice, nell‟immediato rapporto fra il giudice e la prova”.119
I mezzi di ricerca della prova (es. intercettazioni) servono, invece, solo indirettamente alla
verifica del tema di prova, e “nei limitati casi in cui vengano impiegati per la ricerca di „cose
materiali, tracce o dichiarazioni‟”.120
Sull‟impianto normativo in esame può essere utile la lettura di un passo della Relazione al
progetto preliminare del codice, secondo la quale “i mezzi di prova si caratterizzano per
l‟attitudine ad offrire al giudice risultanze probatorie direttamente utilizzabili in sede di
decisone. Al contrario, i mezzi di ricerca della prova non sono di per sé fonte di
convincimento, ma rendono possibile acquisire cose materiali, tracce o dichiarazioni dotate di
attitudine probatoria.”121
119
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. primo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 334. 120
Ibidem. 121
Ibidem.
62
Esemplificando: mentre l‟esame dei testimoni, della parte o del perito crea un rapporto
immediato fra il giudice e la fonte di prova per la verifica del thema probandum;
l‟intercettazione non riesce a creare questo rapporto immediato, in quanto “la conoscenza del
giudice non promana dall‟intercettazione ma dalla dichiarazione intercettata e
processualizzata con le forme della perizia (art.268 comma 7 c.p.p.). […] è la perizia la sola
prova utilizzabile ai fini della decisione”.122
Un approfondimento particolare merita il tema della testimonianza, in riferimento ai processi
penali di criminalità organizzata di stampo mafioso.
In questo ambito, usando un linguaggio atecnico, possiamo parlare di testimoni (anche se il
termine più corretto sarebbe quello di collaboratori) “forti”.123
La testimonianza di questi soggetti è,infatti, “caratterizzata da un surplus conoscitivo in
relazione alle caratteristiche dei fatti oggetto di accertamento processuale”124
; facendo
emergere la “ „professionalità‟ del ruolo assunto dal dichiarante”125
.
Questi soggetti, avendo una conoscenza diretta della dinamica del delitto, riversano nel
processo una mole d‟informazioni di una cosi alta “qualità” da divenire “ la chiave di volta
della verifica processuale”.126
122
Ivi, pag.61. 123
Militello, Collaborazione e normativa premiale in ambito internazionale, in Atti del Convegno "Cosa nostra e le mafie del nuovo millennio", a cura del Centro La Torre-Università di Palermo. 124
Maggio Paola, Il testimone “forte”: specificità ed anomalie della prova dichiarativa nei processi di criminalità organizzata, Dir. Pen. e Processo, 2006, 2, 225. 125
Ibidem. 126
Ibidem.
63
Sulle fattispecie associative i colpi inferti dalle testimonianze “forti” si ripercuotono con
particolare durezza.
La tipologia di questo illecito è retta e costruita su elementi consolidati quali l‟omertà, la forza
d‟intimidazione, l‟assoggettamento. Ecco che le notizie fornite da chi ha instaurato un legame
con l‟associazione possono avere un vero e proprio effetto “deflagrante” nei confronti della
struttura criminale e dei summenzionati elementi costitutivi.127
Senza considerare poi che, in contesti di questo tipo, la " „forza‟ del testimone esplica i suoi
effetti anche nella descrizione della materialità della condotta, influenzandone i livelli di
tipizzazione”.128
I racconti dei dichiaranti influenzano direttamente l‟interpretazione delle fattispecie
associative, per una categoria di illeciti che “impongono la ricostruzione della storia
dell‟associazione e delle sue caratteristiche”129
: si tratta di un'anomalia congenita della
fattispecie penale, destinata a ripercuotersi tanto sul thema probandum130
quanto sul legame
strutturale tra le fattispecie di diritto sostanziale e il momento dell'accertamento
processuale.131
Nella verifica dei reati associativi, infatti, “assumono significato non solo gli scopi e il
programma dell'associazione, ma anche le regole interne e i ruoli assegnati all'associato, ed
127
Maggio Paola, op. cit., pag.62. 128
Insolera, La nozione normativa di "criminalità organizzata" e di "mafiosità": il delitto associativo, le fattispecie aggravanti e quelle di rilevanza processuale, in Ind. pen., 2001, 19. 129
Maggio Paola, op. cit., pag.62. 130
Orlandi, Inchieste preparatorie nei procedimenti di criminalità organizzata: una riedizione dell'inquisitio generalis? in Riv. it. dir. e proc. pen., 1996, 569, 570. 131
Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 3ª ed., 1996, 862.
64
ancor di più le violente modalità concrete di cui il comportamento criminale si
caratterizza”.132
Un esempio su tutti può essere dato dal rituale d‟affiliazione, ossia “l'inserimento formale
dell'associato in un organismo collettivo con la conseguente totale soggezione alle sue regole
e ai suoi comandi”.133
La cerimonia d'investitura, in alcune decisioni, “ha implicato la prova
del contributo causale che sarebbe immanente nell'obbligo solenne di garantire la propria
disponibilità al servizio della cosca, accrescendone la potenzialità operativa e la capacità di
inserimento subdolo e violento nel tessuto sociale, anche grazie all'aumento numerico dei suoi
membri”134
; ed in altre pronunce, invece, “non è stata ritenuta egualmente conducente, per
cui, pur in assenza di formali adesioni, il vincolo associativo è stato riscontrato ex factis,
attraverso la verifica di contributi diretti a fornire efficacia al mantenimento in vita della
struttura o al perseguimento degli scopi della stessa”135
.
Il vero pericolo è, allora, li dove alla prova dichiarativa venga negato “il ricorso alla disciplina
della testimonianza indiretta ex art. 195 c.p.p. per utilizzare l'accezione di fatto notorio al fine
di prescindere da una puntuale verifica della narrazione”136
.
Detto in altri termini, pure se è inevitabile che la storia dell'associazione e dalle sue regole
interne induca ad "attribuire valore probatorio a fatti o comportamenti che, in contesti diversi,
132
Paola Maggio, op. cit., pag. 62. 133
Ibidem. 134
Cass., Sez. IV, 18 novembre 1996, Brusca, in Riv. pen., 1997, 418; analogamente, Cass., Sez. I, 1° marzo 2002, Vento, in Giur. it., 2004, 1481. 135
Cass., Sez. I, 26 maggio 1999, Mammoliti, in Foro it., 2000, II, 90. 136
Paola Maggio, op. cit., pag. 62.
65
avrebbero tutt'altro significato"137
, dovrebbero respingersi tutte quelle interpretazioni miranti
a far declinare il convincimento lungo le pericolose chine del pregiudizio138
.
Le tendenze interpretative più recenti registrano atteggiamenti protesi ad impiegare
restrittivamente argomentazioni di questo tipo, assicurata mediante un più rigoroso vaglio
degli elementi di prova, “che tenga conto della valenza specifica di determinate condotte in
contesti culturali mafiosi e dei collegamenti probatori tra vicende apparentemente autonome,
senza per questo pregiudicare la concretezza e la puntualità dell'analisi”139
.
Si registra la tendenza degli organi inquirenti e giudicanti “di pretendere dal loquens racconti
e descrizioni sempre più puntuali delle condotte partecipative concorsuali, che vadano al di là
delle caratteristiche e della struttura delle stesse associazioni delinquenziali e rendano
motivabile il contributo prestato da parte di ciascun imputato al mantenimento in vita ed al
rafforzamento delle congerie mafiose”140
.
Tuttavia, in alcuni contesti processuali ci si trova costretti a sfruttare con “avidità il sapere di
questi soggetti, […]ciò spiega l'esigenza manifestata dalla prassi di fruire di criteri
interpretativi consolidati che guidino le singole valutazioni”141
.
Ci si riferisce, in particolare, alla scelta nell‟interpretazione e nell‟applicazione dell‟art. 192
c.p.p., che imporrebbe “la verifica dell'attendibilità intrinseca del chiamante sotto il profilo
137
Cass., Sez. II, 16 settembre 2003, Caruso, in C.E.D. Cass., n. 227200. 138
Paola Maggio, op. cit., pag.62. 139
Ibidem. 140
Ibidem. 141
Ibidem.
66
duplice della affidabilità del collaboratore e della attendibilità del racconto e, solo
successivamente all'esito positivo di questa prima fase, consentirebbe la c.d. corroboration,
attraverso il controllo degli altri elementi di eventuale conferma esterna della chiamata”142
.
Questo iter ha portato, talvolta, a risultanti fuorvianti: in alcune circostanze, valutata
l‟attendibilità intrinseca del racconto, nel prosieguo della verifica è venuta meno la
ricostruzione del collaborante per mancanza di attendibilità estrinseca.143
La domanda che ci si deve porre è, a questo punto: l‟imputato di associazione mafiosa, che
riferisce in procedimenti a carico di terzi in riferimento a delitti programmati nell‟ambito del
medesimo sodalizio criminale, in che veste deve deporre?144
La risposta, per quanto visto finora, non è scontata. “Il tema di fondo va affrontato ogni
qualvolta la prova delle varie attività della societas scelerum poggi su testimonianze di ex
affiliati. È condizionato da vincoli connettivi, tra regiudicande, di natura sostanziale e
processuale. Coinvolge diritti di difesa del potenziale narrante e spessore dimostrativo di
indicazioni fornite da persona non indifferente al thema decidendum. Sottende, insomma, nodi
ermeneutici relativi a finalità e garanzie del processo penale, su cui si dibatte da tempo”.145
142
Cass., Sez. Un., 21 ottobre 1992, Marino, in Cass. pen., 1993, 1139, 1125; Iacoviello; Cass., Sez. I, 26 gennaio 2004, n. 8415, E., in Guida dir., 2004, 19, 83. 143
Cass., Sez. I, 27 ottobre 1994, Marino ed altri, in Foro it., 1996, II, 307 ss. 144
Morosini Piergiorgio, Associazione di stampo mafioso e “testimonianza” dell’imputato aliunde. Ass. Palermo Sez. II, 20 marzo 2002, Dir. Pen. e Processo, 2003, 4, 479. 145
P. Tonini, L'alchimia del nuovo sistema accusatorio: una attuazione del giusto processo, in AA.VV., Giusto processo, a cura di P. Tonini, Padova, 2001, 4.
67
Delle risposte possono desumersi dall‟analisi degli artt.12 e 210 c.p.p., cosi come modificati
dalla L. 1 marzo 2001, n.63 (cd. Legge sul “Giusto processo”), in riferimento ai casi di
connessione e all‟esame di persona imputata in un procedimento connesso.
L‟ordinamento, in materia di reati collegati o procedimenti connessi, fissa taluni principi
essenziali in relazione alla testimonianza.
Ex art. 64 comma 3 lett. c), la persona deve essere avvertita che “se renderà dichiarazioni che
concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l‟ufficio di testimone”.
Tale avvertimento è “condicio sine qua non per la successiva utilizzazione della dichiarazione
sul fatto altrui”.146
A questo avviso, si accompagna il diritto al silenzio a favore della persona interrogata, ovvero
il diritto di rendere dichiarazioni senza alcun obbligo di verità.147
Nel dettaglio, per le ipotesi
di connessione ex art. 12 lett. a) vige un pieno diritto al silenzio, mentre nell‟ipotesi di
connessione teleologica ex art. 12 lett. c) il diritto al silenzio è limitato al fatto proprio e non
anche al fatto altrui.148
L‟obbligo di deporre “secondo verità” discende, ex art. 197 bis c.p.p., dalla definitività
dell‟accertamento149
. Il primo comma del summenzionato articolo prevede che “l‟imputato in
un procedimento connesso […] può essere sempre sentito come testimone quando nei suoi
146
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, 121 ss. 147
Ibidem. 148
Ibidem. 149
Ibidem.
68
confronti è stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di
applicazione della pena ai sensi dell‟art. 444”.
Ulteriormente, l‟art. 197 bis comma 4 esclude qualsiasi obbligo di deposizione per il
testimone “sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi
confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria responsabilità ovvero non aveva
reso alcuna dichiarazione”.
Infine, come ulteriore forma di garanzia ex post150
, il comma 5 dell‟art 197 bis c.p.p.
predispone che “in ogni caso le dichiarazioni non possono essere utilizzate contro la persona
che le ha rese nel procedimento a suo carico, nel procedimento di revisione della sentenza di
condanna ed in qualsiasi giudizio civile o amministrativo, relativo al fatto oggetto del
procedimento delle sentenze suddette”.
Nel momento in cui il soggetto viene citato in giudizio, scatteranno gli appositi meccanismi
processuali, quali l‟accompagnamento coattivo, l‟esame a distanza delle persone che
collaborano con la giustizia, l‟assistenza di un difensore (di fiducia o d‟ufficio) ex art. 210
comma 3 c.p.p.151
Partiamo dalla connessione in senso “stretto”, che all‟art.12 lett. a) c.p.p. individua la
connessione di procedimenti “se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in
150
Ivi, pag.67. 151
Ibidem.
69
concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno
determinato l‟evento”.
La lettura dell‟articolo pone un serio interrogativo circa la “connessione forte” tra le “persone
in concorso”, con importanti riflessi sulla definizione relativa di testimone “forte”.152
Un precedente orientamento giurisprudenziale riteneva che “solo le condotte che promuovono
la costituzione della nuova entità, e che di fatto ne assicurano la vita, l'efficienza e la
disciplina interna (promotori, organizzatori e capi), rappresentano ipotesi di concorso
necessario”153
. Questa interpretazione escludeva, quindi, la partecipazione semplice.154
Ma una più recente prospettiva si è fatta strada. Secondo questo orientamento, “ad assicurare
efficienza e vitalità dell‟associazione criminale sono la struttura di regole, servizi e uomini.
Dunque, la partecipazione semplice non è un fatto secondario e individuale; o indipendente
dal fatto complesso e plurisoggettivo. La sua essenzialità non si misura in rapporto alla
costituzione della associazione, ma alla stabilità e alla funzionalità dell'organismo
criminale”155
.
In altri termini, la connessione forte ex art. 12 lett. a) c.p.p. unisce la posizione di tutti i
partecipanti. Con la conseguenza che, “sino a quando la posizione processuale di Tizio non
sarà definita con sentenza irrevocabile, opererà l'incompatibilità a testimoniare di quest'ultimo
152
Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 153
Cass., Sez. I, 13 febbraio 1990, Aglieri, in Cass. pen., 1992, 1294 ss. 154
Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 155
G. Fiandaca-F. Albeggiani, Nota a Cass. 23 novembre 1988, Farinella e altri, in Foro it., 1989, 77 ss.; G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, ivi, 1995, 21 ss.
70
(art. 197 comma 1 lett. a). Lo ius tacendi, nella sua massima estensione (art. 210 comma 1
c.p.p.), verrà riconosciuto a prescindere dall'avere reso (o dal rendere) informazioni sulla
posizione altrui”156
.
Anche la connessione cosiddetta “teleologica” può essere da spunto per approfondimenti. Alla
luce del dettato normativo ex art. 12 lett. c) c.p.p., si ha connessione dei procedimenti “se dei
reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri”.
Giurisprudenza e dottrina maggioritaria “non concepiscono la fattispecie associativa come
una sorta di attività preparatoria dei delitti-scopo”157
. Le condotte delittuose di omicidio ex
art. 575 c.p., ad esempio, “pur essendo certamente episodi non inconsueti nel panorama
dell'attività criminosa della struttura delinquenziale, non rappresentano la finalità
«istituzionale» per cui l'associazione è stata costituita. Vengono intesi, nella maggior parte dei
casi (e ciò vale ancora di più per le c.d. «mafie storiche», radicate da tempo sul territorio), una
evenienza imprevista ed imprevedibile al momento dell'affiliazione al sodalizio, idonea ad
integrare gli estremi della partecipazione nell'associazione, penalmente rilevante”158
.
Ma sul punto, altri orientamenti ribaltano quanto detto sopra. Secondo lo stesso giudice di
legittimità, difatti, il delitto (prendendo ad esempio ancora l‟omicidio) può essere funzionale
alla sopravvivenza della societas scelerum, in quanto “l'anteriorità dell'inizio del delitto
associativo rispetto ad altro reato non è sufficiente ad escludere che quest'ultimo abbia quale
156
Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 157
Ibidem. 158
Cass., Sez. V, 25 gennaio 2000, Battaglia, in Cass. pen., 2001, 1467.
71
finalità il primo, dovendosi verificare se il reato in questione sia commesso affinché la
permanenza considerata sia assicurata»159
.
L‟ovvia conclusione è che “il giudice sarà tenuto, prima della escussione del collaboratore, a
verificare (sulla base del capo di imputazione e di altri elementi indicati dalle parti) il
processo volitivo dei membri dell'associazione relativo alla commissione del reato per cui si
procede”.160
Quanto detto va completato dalla disposizione dell‟art. 16-quater del d.l. 15 gennaio 1991, n.8
convertito in L. 15 marzo 1991, n.8, introdotto dalla L. 13 febbraio 2001, n.45.161
Il
summenzionato articolo prevede, al primo comma, che “ai fini della concessione delle
speciali misure di protezione di cui al Capo II, nonché per gli effetti di cui agli articoli 16-
quinquies e 16-nonies, la persona che ha manifestato la volontà di collaborare rende al
procuratore della Repubblica, entro il termine di centottanta giorni dalla suddetta
manifestazione di volontà, tutte le notizie in suo possesso utili alla ricostruzione dei fatti e
delle circostanze sui quali è interrogato nonché degli altri fatti di maggiore gravità ed allarme
sociale di cui è a conoscenza oltre che alla individuazione e alla cattura dei loro autori ed
altresì le informazioni necessarie perché possa procedersi alla individuazione, al sequestro e
alla confisca del denaro, dei beni e di ogni altra utilità dei quali essa stessa o, con riferimento
159
Cass., Sez. I, 8 novembre 1999, Schettini, in Cass. pen., 2001, 583, 288. 160
Morosini Piergiorgio, op. cit., pag. 66. 161
Vedi sopra par. 1.2.1.
72
ai dati a sua conoscenza, altri appartenenti a gruppi criminali dispongono direttamente o
indirettamente”. Le dichiarazioni rese dal c.d. collaboratore di giustizia, oltre il termine dei
180 giorni, secondo il comma 9 “non possono essere valutate ai fini della prova dei fatti in
esse affermati contro le persone diverse dal dichiarante, salvo i casi di irripetibilità”.
Sul limite temporale posto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, e sul contrasto
giurisprudenziale esistente in materia, sono intervenute di recente le Sezioni unite della Corte
di Cassazione.162
In prima battuta, le Sezioni unite escludono che l‟inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive
dei collaboratori possa essere qualificata come assoluta. La decisione si pone in contrasto con
la giurisprudenza precedente163
che valutava le dichiarazioni rese dopo il decorso dei 180
giorni come “radicalmente e funzionalmente inidonee sotto l‟aspetto probatorio”.164
In
particolare, le Sezioni unite ritengono le dichiarazioni tardive non afferenti alle inutilizzabilità
assolute in quanto la loro acquisizione, seppur fuori “tempo massimo”, non determinerebbe
una violazione dei principi fondamentali dell‟ordinamento se realizzata “nelle forme e con le
modalità prescritte per la loro formazione nella fase delle indagini preliminari”.165
Senza
contare che nessun limite può essere posto all‟acquisizione delle conoscenze del collaboratore
162
Ruggiero Rosa Anna, I discutibili confini dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive dei “collaboratori di giustizia”, Cass. Pen. 2009, 6, 2287. 163
Sez. I, 15 ottobre 2003, Abruzzese, in Foro.it, 2004, II, c.65. 164
Ruggiero Rosa Anna, Op. Cit. 165
Ibidem.
73
in fase dibattimentale, ne alla possibilità che queste fungano da input per lo svolgimento di
ulteriori indagini.166
E‟ il legislatore, ex art. 16-quater comma 9, individua espressamente le situazioni in cui le
dichiarazioni tardive rilevano o meno. Proprio alla luce di questa scelta normativa che
possiamo definire l‟inutilizzabilità delle dichiarazioni tardive come relativa. Il già citato
comma 9, nell‟utilizzare la locuzione “prova dei fatti”, non fa altro che escludere dal
panorama conoscitivo del giudice del dibattimento quegli atti propri dell‟indagine preliminare
già di per sé inutilizzabili in giudizio. Questa norma ad hoc risulta essere non necessaria, vista
la presenza (ricordata dalle stesse Sezioni unite) degli artt. 350, comma 7, e 360, comma 5
c.p.p., che stabiliscono, rispettivamente, l‟inutilizzabilità in dibattimento delle dichiarazioni
spontanee dell‟indagato alla polizia giudiziaria e degli accertamenti tecnici irripetibili
nell‟ipotesi di riserva di incidente probatorio.167
166
Sez. I, 13 giugno 2007, D’Arma, in C.E.D. Cass., n.237616. 167
Ruggiero Rosa Anna, Op. cit.
74
3.5 Il giudizio
La fase del giudizio, cosi come disciplinata al libro settimo del codice di procedura penale, è
quel momento del processo “in cui le parti ed il giudice mirano a verificare i fatti oggetto
d‟imputazione”168
, retto sui principi di “pubblicità (art.471 c.p.p.), contraddittorio (artt. 466,
486, 493, 498, 516, 546 c.p.p.), immediatezza (artt. 498, 525 c.p.p.), concentrazione (artt. 477,
544 c.p.p.) ed oralità (artt. 499, 500, 514, 526 c.p.p.)”169
.
Il legislatore ha, però, previsto deroghe importanti rispetto a quanto sopra indicato. Talune di
queste deroghe, in particolar modo, rientrano nell‟alveo dei delitti di criminalità organizzata
di stampo mafioso.
L‟art. 471 comma 1 c.p.p., in riferimento alla pubblicità dell‟udienza, è categorico: “l‟udienza
è pubblica a pena di nullità”. La regola in esame “garantisce l‟amministrazione della giustizia
ed i terzi. […] E‟ volta, quindi, ad assicurare la pubblicità esterna”170
. Difatti, grazie a questa
norma, “i terzi sono garantiti dalla pubblicità, in quanto il dibattimento coram populo
consente il diretto controllo delle attività poste in essere da tutti i protagonisti della vicenda e
168
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 280. 169
Ibidem. 170
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 281-282.
75
permette la divulgazione delle relative notizie, mediante i mezzi di informazione
collettiva”171
.
I limiti posti dalla normativa al principio di pubblicità tendono a “bilanciare le avvertite
esigenze di garanzia con la salvaguardia di interessi di primaria importanza”172
. Tra questi
rientra, come previsto all‟art. 472 comma 3 c.p.p., la riservatezza dei testimoni e degli
imputati “in ordine ai fatti che non costituiscano oggetto dell‟imputazione”173
.
Si comprende la rilevanza di questa disposizione in riferimento alle testimonianze e
collaborazioni nei procedimenti di mafia, nei quali la segretezza delle generalità ed identità di
chi è “disposto a parlare” può essere di fondamentale importanza per l‟esito dei processi
stessi174
.
In questi casi, ex art. 473 comma 1 c.p.p., “il giudice, sentite le parti, dispone, con ordinanza
pronunciata in pubblica udienza, che il dibattimento o alcuni atti di esso si svolgano a porte
chiuse”.
171
Ivi, pag. 74. 172
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 282-283. 173
Ibidem. 174
Maggio Paola, Il testimone “forte”: specificità ed anomalie della prova dichiarativa nei processi di criminalità organizzata, Dir. Pen. e Processo, 2006, 2, 225.
76
Il principio del contraddittorio “evoca l‟idea di una partecipazione contemporanea e
contrapposta di tutte le parti” al giudizio175
. La sua attuazione è garantita dalla disciplina
relativa alla contestazione dell‟accusa ed alla vocatio in jus.176
La vocatio in jus, disciplinata dalle norme relative alla notifica del decreto di giudizio
immediato (art.456 comma 3 c.p.p.), giudizio direttissimo (art. 450 commi 1, 2, 5 c.p.p.) e
decreto emesso nell‟udienza preliminare (art. 429 comma 4 c.p.p.) “mira a consentire la
partecipazione al giudizio dell‟imputato e della sua difesa […] riduce, se non elimina
addirittura, i rischi di assenze involontarie o imposte da qualche impedimento”.177
L‟impegno del legislatore non può in alcun modo assicurare l‟immancabile presenza della
parte, “neppure in un processo che fa del contraddittorio, e quindi della partecipazione
contrapposta e contemporanea delle parti, la struttura portante del giudizio”.178
Tant‟è che lo stesso legislatore ha previsto un‟importante deroga alla vocatio in jus con la L. 7
gennaio 1998, n.11. Tale innovazione normativa, scaturita da “esigenze di economia
processuale, volta a ridurre le traduzioni dei detenuti ed i tempi del dibattimento, ed a
garantire la sicurezza processuale del dichiarante”179
, ha regolato la partecipazione a distanza,
attivata attraverso un collegamento audiovisivo tra l‟aula dell‟udienza ed il luogo della
custodia.
175
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 283 ss. 176
Ibidem. 177
Ibidem. 178
Ibidem. 179
Ibidem.
77
La partecipazione a distanza è prevista dall‟art. 2 della summenzionata legge “quando si
procede per taluno dei delitti indicati nell'articolo 51, comma 3-bis, del codice, nei confronti
di persona che si trova, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere, la partecipazione al
dibattimento avviene a distanza nei seguenti casi:
a) qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico;
b) qualora il dibattimento sia di particolari complessità e la partecipazione a distanza risulti
necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento. L'esigenza di evitare ritardi nello
svolgimento del dibattimento è valutata anche in relazione al fatto che nei confronti dello
stesso imputato siano contemporaneamente in corso distinti processi presso diverse sedi
giudiziarie;
c) qualora si tratti di detenuto nei cui confronti è stata disposta l'applicazione delle misure di
cui all'articolo 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni ed
integrazioni.”
L‟esame a distanza del collaboratore viene attuato con apposito collegamento audiovisivo,
“che assicuri la contestuale visibilità delle persone presenti nel luogo dove la persona
sottoposta ad esame si trova” e quando non è “assolutamente necessaria la presenza della
persona da esaminare” (art. 3).
78
La normativa, riconoscendo le garanzie proprie della persona sottoposta ad esame, “non altera
il processo di acquisizione della prova”180
, in quanto “la funzionalità della partecipazione o la
genuinità dell‟esame non sono realtà necessariamente legate alla presenza fisica dell‟imputato
o del dichiarante, e possono essere comunque garantiti dalle condizioni, volte ad assicurare
l‟effettività dell‟oralità e del contraddittorio […] ed appagano, inoltre, le esigenze di
ragionevolezza e di tutela da pericolose sovraesposizioni”.181
Il giudizio, retto dai principi summenzionati, è composto da tre momenti distinti, rilevanti per
la specificità delle funzioni assegnate ad ognuno di essi.
Nel predibattimento (artt. 465-491 c.p.p.) “importa disegnare le linee del futuro dibattimento,
importa predisporne il corretto (ed utile) svolgimento, al fine di rendere effettiva l‟oralità e
reale il contraddittorio, specie nell‟elaborazione della prova”.182
Nel dibattimento (artt. 492-524 c.p.p.) “occorre garantire queste forme, occorre organizzarle
in atti ed operazioni coram populo, attraverso un immediato rapporto fra il giudice e la fonte
di prova e secondo i tempi di una tendenziale concentrazione”.183
180
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 289-290. 181
Ibidem. 182
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 280. 183
Ibidem.
79
Nel periodo degli atti successivi al dibattimento (artt. 525-548 c.p.p.) “vanno riscontrati e
salvaguardati i risultati del dibattimento, a condizione che siano state osservate le forme
imposte dal codice in punto di prova”.184
Si badi bene: il giudizio non coincide né con il processo, né con il dibattimento. I due termini
hanno accezioni diverse, in quanto il giudizio ha un significato più ampio, includente il
dibattimento.185
Il giudizio, inoltre, è una fase possibile, eventuale ma non indispensabile del processo. Il
procedimento, infatti, può concludersi davanti al giudice delle indagini preliminari o davanti
al giudice dell‟udienza preliminare.186
3.5.1. Il predibattimento
Il predibattimento “ha la funzione di preparare il dibattimento”.187
Questa fase non comporta
più, come prevedeva il codice abrogato, un controllo sugli atti compiuti nella fase precedente.
La preparazione del dibattimento avviene, cioè, senza attingere elementi rilevanti dalla fase
delle indagini preliminari. In tal modo le operazioni del predibattimento, senza essere
184
Ivi, pag. 78. 185
Ibidem. 186
Ibidem. 187
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 323.
80
condizionate dalle acquisizioni precedenti, “tendono a garantire l‟ordinato ed utile
svolgimento della fase successiva”.188
In questa fase processuale, relativamente ai delitti di criminalità organizzata di stampo
mafioso, la prima disposizione d‟interesse incontrata è quella ex art. 467 c.p.p.
Tale norma, rubricata come “Atti urgenti”, fa riferimento all‟assunzione delle prove non
rinviabili già nel corso del predibattimento, “osservando le forme previste per il dibattimento”
e nei casi previsti all‟art. 392 (art. 467 comma 1 c.p.p.). Il legislatore richiama, cosi, la
disciplina dell‟ incidente probatorio, strumento utilizzabile nel corso delle indagini preliminari
e dell‟udienza preliminare per acquisire prove ed atti non rinviabili.189
Tra le ipotesi che giustificano la richiesta di incidente probatorio da parte del pubblico
ministero e della persona sottoposta ad indagini hanno particolare rilievo, con riferimento
all‟ipotesi delittuosa ex art. 416 bis c.p., le disposizioni ex art. 392 lett. b), c), d), e) c.p.p.
Nello specifico (e nell‟ordine proposto dal codice stesso):
- “Assunzione di una testimonianza quando, per elementi concreti e specifici, vi è
fondato motivo di ritenere che la persona sia esposta a violenza, minaccia, offerta o
promessa di denaro o di altra utilità affinché non deponga o deponga il falso”;
188
Ivi, pag. 79. 189
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pag. 325.
81
- “Esame della persona sottoposta alle indagini su fatti concernenti la responsabilità di
altri”;
- “Esame delle persone indicate all‟articolo 210”;
- “Confronto tra le persone che in altro incidente probatorio o al pubblico ministero
hanno reso dichiarazioni discordanti, quando ricorre una delle circostanze previste
dalle lettere a) e b)”.
L‟art. 467 c.p.p. non è disposizione speculare, tanto nella sostanza quanto nella forma, all‟art.
392 c.p.p. Basti ricordare che, a differenza di quanto avviene nella procedura incidentale,
nella fase predibattimentale le parti intervengono alla formazione della prova con il controllo
del fascicolo per il dibattimento.190
Inoltre, il patrimonio di conoscenze del giudice del
predibattimento è più ampio di quello del giudice dell‟indagine preliminare o dell‟udienza
preliminare, con importanti ricadute sul contraddittorio e sul potere integrativo del giudice
predibattimentale rispetto a quello della fase precedente.191
Senza dimenticare che la prova, in fase predibattimentale, potrà essere formata a data del
dibattimento già fissata. Data che, inevitabilmente, influisce sull‟iniziativa della parte: “un
dibattimento a tempi brevi affievolisce l‟interesse del richiedente perché consente una
tempestiva acquisizione della prova; un dibattimento a tempi lunghi accentua il significato
della richiesta ex art.467 c.p.p. perché allontana il momento dell‟istruzione dibattimentale”.192
190
Ivi, pag. 80. 191
Ibidem. 192
Ibidem.
82
Rimanendo nella fase predibattimentale, altra disposizione di sicuro interessante in
riferimento all‟associazione mafiosa è data dall‟art. 468 c.p.p., rubricata “Citazione di
testimoni, periti, e consulenti tecnici”.
Partendo dal primo comma del summenzionato articolo, “le parti che intendono chiedere
l‟esame dei testimoni, periti o consulenti tecnici, nonché degli imputati in un procedimento
connesso o di un reato collegato devono, a pena di inammissibilità, depositare in cancelleria,
almeno sette giorni prima della data fissata per il dibattimento, la lista con l‟indicazione delle
circostanze su cui deve vertere l‟esame”.
La rilevanza dei testimoni e degli imputati in procedimenti connessi, nell‟ambito dei processi
di mafia (come è stato approfondito in precedenza), può far ben comprendere la valenza del
deposito della lista testimoniale. Il deposito ha, infatti, una funzione di discovery “volta ad
evitare l‟introduzione, ad opera di qualsiasi parte, di prove a sorpresa” e con l‟obiettivo di
informare la controparte entro termini precisi, assicurando il corretto uso del
contraddittorio.193
Se, ad esempio, si potesse chiedere la citazione del testimone in ordine a temi di prova del
tutto generici, questo farebbe saltare la “par condicio processuale” perché “una delle parti del
193
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 326-329.
83
contraddittorio sarebbe costretta ad affrontare la cross-examination senza una adeguata
preparazione”.194
Il legislatore, proprio al fine di garantire la discovery ed una effettiva par condicio tra le parti,
ha messo a punto appositi meccanismi normativi.195
Questi sono indicati al comma 4 dell‟art.
468 c.p.p., secondo il quale “in relazione alle circostanze indicate nelle liste, ciascuna parte
può chiedere la citazione a prova contraria di testimoni, periti e consulenti tecnici non
compresi nella propria lista, ovvero presentarli al dibattimento”.
A quanto detto, deve aggiungersi la rilevante disposizione del comma 4 bis introdotto dal d.l.
8 giugno 1992, n. 306 convertito in L. 7 agosto 1992, n. 356. La novella prevede che “la parte
che intende chiedere l‟acquisizione di verbali di prova di altro procedimento penale deve
farne espressa richiesta unitamente al deposito delle liste. Se si tratta di verbali di
dichiarazioni di persone delle quali la stessa o altra parte chiede la citazione, questa è
autorizzata dal presidente solo dopo che in dibattimento il giudice ha ammesso l‟esame a
norma dell‟articolo 495”. La richiesta della parte non deve necessariamente ricadere su
verbali di prove di procedimenti definiti con sentenza irrevocabile.196
Ancora, la richiesta
della parte “non assorbe l‟ulteriore possibile richiesta volta all‟esame delle persone che hanno
effettuato le dichiarazioni nell‟altro procedimento”.197
L‟autorizzazione alla citazione delle
194
Ivi, pag. 82. 195
Ibidem. 196
Ibidem. 197
Ibidem.
84
persone che hanno reso dichiarazioni nell‟altro procedimento saranno, però, differite in
dibattimento.198
A questo punto la richiesta delle parti dovrà passare al vaglio del presidente del tribunale o
della corte di assise. Questi, come previsto all‟art. 468 comma 2 c.p.p., “[…] autorizza con
decreto la citazione dei testimoni, periti o consulenti tecnici nonché delle persone indicate
nell‟articolo 210, escludendo le testimonianze vietate dalla legge e quelle manifestamente
sovrabbondanti”. Il provvedimento “presidenziale” emanato svolge una duplice funzione: da
un lato autorizza la citazione di testimoni, consulenti tecnici e imputati in procedimenti
connessi; dall‟altro fornisce uno strumento coercitivo a favore di chi intende presentare
testimoni, consulenti o imputati in procedimenti connessi, salvo che la parte ritenga che i
soggetti indicati nella lista non diserteranno il dibattimento.199
Senza dimenticare che il citato provvedimento “non pregiudica la decisione sull‟ammissibilità
della prova, in esito alla „richiesta di prova‟”.200
3.5.2. Il dibattimento
L‟avvio al dibattimento è dato dalla lettura dell‟imputazione e dalle richieste di prova che,
cosi come regolate dall‟art. 493 c.p.p. Nell‟ordine, pubblico ministero, difensori della parte
civile, del responsabile civile, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria e
198
Ivi, pag. 82. 199
Ibidem. 200
Ibidem.
85
dell‟imputato presenteranno i fatti oggetto dell‟imputazione e comunque rilevanti ai fini della
prova. In tal modo pubblico ministero e difensori “ „argomentano‟ in merito ai fatti oggetto
d‟imputazione […] e „spiegano‟ la pertinenza delle prove di cui chiedono
l‟ammissione”201
(art. 493 commi 1, 2, 3).
Si badi bene: mentre nel predibattimento, ex art. 468 c.p.p., le richieste di prova “debbono
essere corredate soltanto dall‟indicazione delle circostanze su cui deve vertere l‟esame del
testimone, del perito o del consulente tecnico […] puntando, quindi, su una ristretta porzione
della realtà processuale”, nel dibattimento le richieste di prova sono volte ad argomentare in
modo articolato tutta la realtà processuale, svelando contraddizioni e percorsi nella
formazione progressiva del fatto.202
Il passaggio successivo è dato dall‟ordinanza del giudice che, ex art. 495 c.p.p., potrà
dichiarare l‟ammissibilità o l‟inammissibilità della prova richiesta. Di particolare importanza,
nei processi per associazione mafiosa, è la statuizione del primo comma del summenzionato
articolo:” Il giudice, sentite le parti, provvede con ordinanza all‟ammissione delle prove a
norma degli articoli 190 e 190 bis.203
Quando è stata ammessa l‟acquisizione di verbali di
prove di altri procedimenti, il giudice provvede in ordine alla richiesta di nuova assunzione
della stessa solo dopo l‟acquisizione della documentazione relativa alla prova dell‟altro
201
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 337-339. 202
Ibidem. 203
Si Veda sopra, par. 2.4.1.
86
procedimento” (comma cosi modificato dal solito d.l. 8 giugno 1992, n. 306 e convertito in L.
7 agosto 1992, n. 356).
Questa fase si pone in posizione autonoma ed indipendente rispetto al predibattimento. Si
possono avere casi, ad esempio, di autorizzazioni all‟ammissione della prova in
predibattimento superate dall‟ordinanza successiva di inammissibilità della prova. Può darsi
che, al contrario, l‟ordinanza dibattimentale d‟ammissione non sia preceduta da alcun
provvedimento predibattimentale.204
Infine, come indicato all‟art. 495 comma secondo c.p.p., “l‟imputato ha diritto all‟ammissione
delle prove indicate a discarico sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico; lo stesso
diritto spetta al pubblico ministero in ordine alle prove a carico dell‟imputato sui fatti
costituenti oggetto delle prove a discarico”. In una simile situazione l‟ordinanza
dibattimentale d‟ammissione punta sul thema indicato da una delle parti, a prescindere dalle
esperienze del predibattimento.205
L‟analisi del dibattimento prosegue, arrivando al Capo III rubricato “Istruzione
dibattimentale”. Questo termine non sta ad indicare un momento separato e distinto dal
dibattimento in senso stretto. Questa visione del processo penale, propria del codice
204
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 339-341. 205
Ibidem.
87
previgente, attualmente è profondamente mutata. Istruzione e dibattimento sono da intendersi
come “un‟unica esperienza, che è l‟esperienza del dibattimento, effettivamente aperto
all‟istruzione probatoria”. Il codice, cioè, indica con il termine “istruzione dibattimentale” il
momento dell‟istruzione probatoria.206
Le operazioni in oggetto, e non poteva essere diversamente, sono disciplinate dalla legge
secondo una precisa scansione, a partire dall‟ordine nell‟assunzione delle prove. Ex art. 496
c.p.p. comma 1 “l‟istruzione dibattimentale inizia con l‟assunzione delle prove richieste dal
pubblico ministero e prosegue con l‟assunzione di quelle richieste da altre parti, nell‟ordine
previsto dall‟articolo 493 comma 1”; sempreché le parti non concordino un diverso ordine di
assunzione delle prove, deroga concessa dal secondo comma dell‟art. 496 che è
“perfettamente in linea con il „modello accusatorio‟ e fa anche salve le contingenti esigenze
delle parti”.207
A seguire, il codice prevede la regolamentazione normativa dell‟esame testimoniale. In
primis, con uno sguardo rivolto meramente all‟aspetto organizzativo, l‟art. 498 c.p.p. regola
l‟esame ed il controesame dei testimoni. Le domande saranno rivolte dal pubblico ministero,
dal difensore che ha chiesto l‟esame del testimone ed infine da tutte le altre parti che non
206
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 341-343. 207
Ibidem.
88
hanno chiesto l‟esame, seguendo l‟ordine indicato dall‟art. 496 c.p.p. Particolari tutele sono
previste nel caso di esame testimoniale del minorenne.
L‟art. 499 regola, in modo specifico, le modalità nelle quali deve avvenire l‟esame
testimoniale. La norma ha un forte impatto e rilievo rispetto alla legislazione sui collaboratori
di giustizia, tant‟è che importanti riferimenti in tal senso possono rintracciarsi ex art. 16 sexies
del d.l. 8/1991, convertito in L. 82/1991 ed inserito ex art. 12 della L. 13 febbraio 2001, n. 45.
Questo prevede che “quando si deve procedere all'interrogatorio o all'esame del collaboratore
quale testimone o persona imputata in un procedimento connesso o di un reato collegato a
quello per cui si procede nel caso previsto dall'articolo 371, comma 2, lettera b), del codice di
procedura penale il giudice, su richiesta di parte, dispone che sia acquisito al fascicolo del
pubblico ministero il verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione di cui all'articolo
16-quater limitatamente alle parti di esso che concernono la responsabilità degli imputati nel
procedimento”. Ad ulteriore garanzia, il secondo comma del summenzionato articolo prevede
che, sempre su richiesta di parte, il giudice dispone “l'acquisizione di copia per estratto del
registro tenuto dal direttore del carcere in cui sono annotati il nominativo del detenuto o
internato, il nominativo di chi ha svolto il colloquio a fini investigativi, la data e l'ora di inizio
e di fine dello stesso, nonché di copia per estratto del registro di cui al comma 3 dell'articolo
18-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, per la parte relativa ai
colloqui a fini investigativi intervenuti con il collaboratore“.
89
Ritornando all‟art. 499 c.p.p., il primo comma recita testualmente:” L‟esame testimoniale si
svolge mediante domande su fatti specifici”. L‟obiettivo è quello di evitare narrazioni che
porterebbero ad esaurire con un'unica risposta il thema probandum, compromettendo la lealtà
dell‟esame.208
“Nell‟esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha
un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte”. Ecco che il
terzo comma, vietando le leading questions nella direct examination, “mira ad evitare le
dichiarazioni pilotate dell‟esaminato”.209
Ancora, il quinto comma dell‟art. 499 c.p.p. prevede che “il testimone può essere autorizzato
dal presidente a consultare, in aiuto della memoria, documenti da lui redatti”, con un rinvio a
quanto previsto dall‟art. 501 secondo comma e 514 secondo comma c.p.p. in riferimento alla
consultazione di atti e documenti da parte di periti, consulenti tecnici, ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria.210
Durante l‟esame il presidente “cura che l‟esame del testimone sia condotto senza ledere il
rispetto della persona” ed “anche d‟ufficio, interviene per assicurare la pertinenza delle
domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell‟esame e la correttezza delle contestazioni,
ordinando, se occorre, l‟esibizione del verbale nella parte in cui le dichiarazioni sono state
utilizzate per le contestazioni”. Ecco che l‟art. 499 c.p.p., ai commi quarto e sesto, affida al
208
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 343-347. 209
Ibidem. 210
Ibidem.
90
presidente un ruolo di “arbitro” e di attento osservatore dell‟esame testimoniale, per impedire
alle parti di violare impunemente le regole poste dal codice di procedure.211
Quanto deposto nel corso dell‟esame testimoniale potrà essere contestato dalle parti ex art.
500 c.p.p., nelle ipotesi di “constatata divergenza fra le dichiarazioni rese dal teste”.212
La
contestazione dell‟esame muove, cioè, dalle letture delle dichiarazioni. Il primo comma
dell‟art. 500 c.p.p. recita, infatti, che “fermi i divieti di lettura e di allegazione, le parti, per
contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle
dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico
ministero. Tale facoltà può essere esercitata solo se sui fatti o sulle circostanze da contestare il
testimone abbia già deposto”. Il limite che la legge riconosce alla facoltà di contestare è data
dall‟utilizzabilità, ai fini della contestazione, dei soli atti inclusi nel fascicolo del pubblico
ministero e rese dal teste allo stesso pubblico ministero o alla polizia giudiziaria.213
La ragione che ha spinto il legislatore verso questa direzione è desumibile da un passaggio
della relazione al progetto preliminare del codice: “Con questa scelta si è inteso far fronte a
due esigenze: da un lato circoscrivere le deroghe al principio di oralità, definendo in modo
rigoroso l‟area delle possibili contestazioni; dall‟altro rendere più scorrevole l‟esame
211
Ivi, pag. 89. 212
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 347-349. 213
Ibidem.
91
incrociato, limitando inevitabili incidenti sull‟allegabilità al fascicolo d‟ufficio degli atti
adoperati per le contestazioni”.214
Ma l‟ipotesi di divergenza tra le dichiarazioni rese dal teste prima del dibattimento e nel corso
del dibattimento, che ha maggior peso e rilievo nell‟ambito dei procedimenti per
associazionismo mafioso, è data dai commi 4 e 5 dell‟art. 500 c.p.p. Secondo i punti indicati
“quando, anche per le circostanze emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per
ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro
o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel
fascicolo del pubblico ministero precedentemente rese dal testimone sono acquisite al
fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate.
Sull‟acquisizione di cui al comma 4 il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli
accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi
concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o
promessa di denaro o di altra utilità”. La norma, cosi come modificata dall‟art. 16 della L. 63/
2001 (cd. Legge sul Giusto processo), è diretta emanazione del principio costituzionale di cui
all‟art. 111 comma 5 della Carta fondamentale, secondo il quale “la legge regola i casi in cui
la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell‟imputato o per
accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita”.215
214
Ivi, pag. 90. 215
Scaglione, Dichiarazioni procedimentali e giusto processo, Torino, 2005, pag. 112 ss.
92
La verifica dei fattori di adulterazione della prova, entro i margini degli “elementi concreti”
emersi in dibattimento e che inducono a ritenere la prova inquinata, pone alcuni quesiti in
ordine allo statuto probatorio vigente.216
Ci si chiede, anzitutto, se questa fase debba essere
governata dalle norme procedurali in materia probatoria ex artt. 187 comma 2, 190, 191 e 238
c.p.p.217
Questo accertamento, caratterizzato dall‟essere libero ed informale, pone l‟incognita
sull‟utilizzabilità delle prove illecite e sugli effetti di questa valutazione sul giudizio finale di
merito.218
A livello interpretativo si ritiene che, ai fini dell‟acquisizione del verbale, non rilevi la
provenienza della condotta illecita. Tale condotta, tanto che promani dall‟imputato che da
altro autore, deve configurare un fatto illecito posto in essere sul dichiarante e non realizzate
dal dichiarante.219
Condotta illecita che si potrà desumere da elementi di prova emergenti
anche al di fuori del dibattimento, in quanto la dichiarazione “inquinata” potrà rilevarsi anche
in fasi precedenti il dibattimento e senza con ciò venir meno al principio del contraddittorio ex
art. 111 Cost.220
216
Maggio Paola, Il testimone “forte”: specificità ed anomalie della prova dichiarativa nei processi di criminalità organizzata, Dir. Pen. e Processo, 2006, 2, 225. 217
Ferrua, la regola d’oro del processo accusatorio, in AA.VV. Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di Kostoris, Torino, 2002, 20. 218
Maggio Paola, op. cit. 219
Ibidem. 220
Nobili, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, Dir. Pen. E processo, 2001.
93
Inoltre, per interpretare in modo costituzionalmente orientato i commi 4 e 5 dell‟art. 500
c.p.p., le dichiarazioni acquisite non dovrebbero soffermarsi su argomenti meramente
sociologici e culturali.221
L‟inquinamento probatorio e l‟intimidazione del teste dovrebbe valutarsi, quindi, su elementi
differenti da quelli richiesti per adottare una sentenza di condanna.222
Nell‟ambito dell‟art.
500 c.p.p. è sufficiente “che il complesso delle circostanze emerse e/o accertate al
dibattimento delinei un quadro concreto atto a suffragare un ragionevole convincimento
sull‟incidenza di una condotta esterna illecita che abbia condizionato negativamente il
testimone, o perché sottoposto a minaccia o intimidazione, o perché subornato”.223
Nell‟alveo di questo “microaccertamento” probatorio ci si muove, in definitiva, tra l‟utilizzo
di massime d‟esperienza relative all‟ambiente culturale mafioso ed il timore di azzardati
condizionamenti culturali slegati da situazioni effettivamente emergenti nel caso concreto.224
Un ulteriore profilo derogatorio dei principi di oralità e contradditorio emerge, in riferimento
al dibattimento, trattando il tema delle letture consentite. Queste sono disciplinate, in primis,
dall‟art. 511 c.p.p., il cui primo comma prevede che “il giudice, anche di ufficio, dispone che
sia data lettura, integrale o parziale, degli atti contenuti nel fascicolo per il dibattimento”. Le
letture, quindi, sono disposte a conclusione dell‟istruzione dibattimentale, salvo i casi in cui
221
Maggio Paola, op. cit. pag. 92. 222
Trib. Palermo, 29 ottobre 2002, Di Pisa, in Giur. Merito, 2003, 499. 223
Maggio Paola, op. cit. pag. 92. 224
Ibidem.
94
queste sostituiscano l‟esame perché è divenuto “oggettivamente impossibile la ripetizione al
dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte o dal testimone”.225
In altri casi l‟esame della persona deve obbligatoriamente precedere la lettura.226
Tale ipotesti
è indicata all‟art.511 comma 2 e 3 c.p.p. :” la lettura di verbali di dichiarazioni è disposta solo
dopo l‟esame della persona che le ha rese, a meno che l‟esame non abbia luogo. La lettura
della relazione peritale è disposta solo dopo l‟esame del perito”.
L‟art. 511 c.p.p. menziona, al comma 5, una forma equipollente delle letture.227
In tal punto si
indica che “in luogo della lettura, il giudice, anche di ufficio, può indicare specificamente gli
atti utilizzabili ai fini della decisione. L‟indicazione degli atti equivale alla loro lettura. Il
giudice dispone tuttavia la lettura, integrale o parziale, quando si tratta di verbali di
dichiarazioni e una parte ne fa richiesta. Se si tratta di altri atti, il giudice è vincolato alla
richiesta di lettura solo nel caso di un serio disaccordo sul contenuto di essi”.
L‟indicazione degli atti da parte del giudice risponde ad ovvie esigenze di economia
processuale, già introdotte nel nostro ordinamento con la L. 13 febbraio 1987, n. 29.228
La distinzione tra lettura ed indicazione sta in questo: “mentre la lettura abbina la
dichiarazione dell‟utilizzabilità dell‟atto (del fascicolo per il dibattimento) al controllo coram
225
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 350-351. 226
Ibidem. 227
Ibidem. 228
Ibidem.
95
populo del contenuto di esso, l‟indicazione coordina questa dichiarazione al controllo da
esercitare in camera di consiglio; al momento, quindi, dell‟effettiva utilizzazione dell‟atto”.229
Questa facoltà di indicazione da parte del giudice incontra due limiti, previsti dal
summenzionato comma. Il primo è quello relativo alla lettura, integrale o parziale, dei verbali
di dichiarazioni su richiesta della parte interessata ad una verificale corale degli stessi.230
Il secondo limite individuato è nel caso di “serio disaccordo” sul contenuto di atti diversi dalle
dichiarazioni. “Serio disaccordo” riferibile ad atto, inserito nel fascicolo per il dibattimento,
posto in discussione solo pro parte o di cui se ne contesta solo parte del contenuto.231
Il tema delle letture consentite non è affatto neutrale per i procedimenti penali in materia di
criminalità organizzata di stampo mafioso, a partire dall‟art. 511 bis c.p.p. secondo cui “il
giudice, anche di ufficio, dispone che sia data lettura dei verbali degli atti indicati nell‟articolo
238. Si applica il comma 2 dell‟articolo 511”. Si tratta di una norma assai rilevante in materia,
introdotto dal più volte citato d.l. 8 giugno 1992 n. 306 e convertito in L. 7 agosto 1992 n.
356, che riconosce un potere integrativo ex officio del giudice per la lettura di verbali di
prove di altri procedimenti successivi all‟esame della persona che ha reso dichiarazione.232
Le citate norme del 1992 hanno introdotto, nel codice di procedura penale, l‟art. 512 bis
rubricato “Lettura di dichiarazioni rese da persona residente all'estero”. L‟articolo, sostituito
dall'art. 43 L. 16 dicembre 1999 n. 479, statuisce che “il giudice, a richiesta di parte, può
229
Ivi, pag. 94. 230
Ibidem. 231
Ibidem. 232
Ibidem.
96
disporre, tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, che sia data lettura dei verbali di
dichiarazioni rese da persona residente all'estero anche a seguito di rogatoria internazionale se
essa, essendo stata citata, non è comparsa e solo nel caso in cui non ne sia assolutamente
possibile l'esame dibattimentale”. Cosi come delineata dalla novella del 1999, la norma è
applicabile a tutti i soggetti residenti all‟estero, a prescindere dalla loro nazionalità233
; mentre
nella precedente versione dell‟art. 512 bis si faceva riferimento alla “lettura dei verbali di
dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all'estero”. Nell‟ipotesi in commento
rientrano, cosi, anche le dichiarazioni rilasciate da un cittadino italiano al di fuori dei confini
nazionali.234
La norma in esame, successivamente alla riforma del 1999, è assai più rispettosa
della previsione di cui all‟art. 111 comma 5 Cost. L‟acquisizione dei verbali di dichiarazioni
rese fuori dall‟aula dibattimentale sarà esperibile li dove risulti in maniera assoluta
l‟impossibilità di ripetizione in dibattimento, mediante esame in contraddittorio del
dichiarante (mentre,nella versione successivamente “emendata”, si faceva riferimento alla
persona non citata o, se citata, non comparsa) .235
Impossibilità assoluta data dal ricorrere di
circostanze oggettive, quali morte o infermità psico-fisica del teste, o da una irreperibilità
dello stesso teste che sia provata in modo irrefutabile.236
Sulla impossibilità di ripetizione
dell'atto decide il giudice, emettendo un‟ordinanza nella quale dovrà motivare la propria
233
Ciro Santoriello. La nuova versione dell'art. 512-bis c.p.p. dopo la novella legislativa, legge n. 479 del 1999 (cosiddetta legge Carotti), 23 Febbraio 2001. 234
Ibidem. 235
Ibidem. 236
Ibidem.
97
valutazione. L'ordinanza che dispone la lettura dell'atto non è impugnabile autonomamente,
“ma l'eventuale vizio dell'ordinanza ridonderà in vizio della sentenza di merito, che risulterà
fondata su prove inutilizzabili perché assunte illegittimamente, in violazione del principio del
contraddittorio”.237
La nuova previsione in tema di letture di dichiarazioni rese da persone residente all'estero, va
coordinata con la previsione dell'art. 431 c.p.p., lett. f), parimenti modificata dalla legge n.
479 del 1999, art. 26.238
Questa riforma prevede, infatti, che nel fascicolo del dibattimento
possono essere inserite solo le dichiarazioni assunte a seguito di rogatoria, a cui "i difensori
sono stati posti in grado di assistere o di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge
italiana". L'utilizzabilità dibattimentale dei verbali di atti assunti all'estero non dipenderà,
quindi, “solo dalla conformità degli stessi alla legge del luogo in cui la rogatoria ha avuto
luogo, secondo la previsione di cui all'art. 729 c.p.p., occorrendo anche che venga rispettato il
principio sopra accennato, in aderenza al valore del contraddittorio quale metodo principale
per la formazione della prova”.239
Rimanendo sempre nell‟ambito delle letture consentite in fase dibattimentale, guardando alle
letture rilevanti nei processi di mafia, l‟analisi passa alla disposizione di cui all‟art. 513 c.p.p.
rubricato “Lettura delle dichiarazioni rese dall`imputato nel corso delle indagini preliminari o
nell`udienza preliminare”. La norma, inserita nel nostro sistema processualpenalistico dalla L.
237
Ivi, pag. 96. 238
Ibidem. 239
Ibidem.
98
7 agosto 1997 n. 267 e modificata dalla L. 1 marzo 2001 n. 63 (cd. Legge sul giusto
processo), al comma 1 recita che “il giudice, se l‟imputato è contumace o assente ovvero
rifiuta di sottoporsi all‟esame, dispone, a richiesta di parte, che sia data lettura dei verbali
delle dichiarazioni rese dall‟imputato al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria su delega
del pubblico ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari o dell‟udienza
preliminare, ma tali dichiarazioni non possono essere utilizzate nei confronti di altri senza il
loro consenso salvo che ricorrano i presupposti di cui all‟articolo 500, comma 4”. La regola,
che differisce le letture nel corso dell‟istruzione dibattimentale240
, comporta maggiori
discussioni ed approfondimenti al comma 2 :”se le dichiarazioni sono state rese dalle persone
indicate nell‟articolo 210, comma 1 il giudice, a richiesta di parte, dispone, secondo i casi,
l‟accompagnamento coattivo del dichiarante o l‟esame a domicilio o la rogatoria
internazionale ovvero l‟esame in altro modo previsto dalla legge con le garanzie del
contraddittorio. Se non è possibile ottenere la presenza del dichiarante, ovvero procedere
all‟esame in uno dei modi suddetti, si applica la disposizione dell‟articolo 512 qualora
l‟impossibilità dipenda da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni,
Qualora il dichiarante si avvalga della facoltà di non rispondere, il giudice dispone la lettura
dei verbali contenenti le suddette dichiarazioni soltanto con l‟accordo delle parti”.
240
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 350-351.
99
La seconda parte di questo comma era stata colpita, nella versione precedente alla novella del
2001, da una sentenza di illegittimità costituzionale ( sent. 2 novembre 1998, n. 361) che
innanzitutto, con una previsione di carattere puramente additivo241
, aveva indicato come
“qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta in tutto o in parte di rispondere su fatti
concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in
mancanza dell'accordo delle parti alla lettura si applica l'art. 500 commi 2-bis e 4 del codice di
procedura penale”.
La summenzionata sentenza della Corte Costituzionale non ha avuto solamente effetti di
natura additiva: nella parte in cui questa aveva stabilito che l'art. 210 c.p.p., e con esso l'art.
513 comma 2 c.p.p., sono applicabili all'esame dell'imputato quando quest'atto verte su fatti
concernenti la responsabilità di altri, già oggetto di precedenti dichiarazioni., si ottiene una
parificazione tra imputato esaminato sul fatto altrui e imputati in separati procedimenti
connessi o collegati.242
In tal modo i giudici delle leggi hanno raggiunto la sostituzione di una regolamentazione
preesistente, quella che disciplinava l'esame dell'imputato nel medesimo procedimento e le
eventuali letture (art. 513 comma 1 c.p.p.) a prescindere dal tenore delle dichiarazioni, con
una diversa, quella sancita, appunto, dagli odierni art. 210 e 513 comma 2 c.p.p. Ecco che, in
questa accezione, la sentenza corrisponde allo schema tipico delle pronunce manipolatrici
241
Mazza Oliviero, Illegittimità costituzionale dell’art. 513 C.P.P. e processi pendenti, Dir. Pen. e Processo, 1999, 1, 100. 242
Ibidem.
100
sostitutive.243
Sentenza che ha aperto il viatico alle modifiche apportate alla norma in esame
dalla L. 63 del 2001 sopra menzionata, emendando in maniera costituzionalmente orientata
l‟art. 513 c.p.p.
3.5.3. Gli atti successivi al dibattimento.
La terza fase del giudizio è costituita dal postdibattimento; fase che prende avvio nel
momento in cui l‟ufficio della decisione si ritira in camera di consiglio per deliberare (art. 525
c.p.p.) e si conclude con il deposito della sentenza, che fa cessare qualsiasi rapporto tra il
giudice ed il procedimento (art. 548 c.p.p.).244
Di grande utilità, per comprendere le dinamiche
relative a questa terza fase dibattimentale, sono le parole di Foschini: ”il contraddittorio non
termina ed ancor meno esaurisce la sua funzione con il chiudersi del dibattimento, ma
prosegue anche nel postdibattimento. In questo non vi è solo un atto di decisione del giudice,
libero ed autonomo, ma un complesso di atti conclusivi del contraddittorio”.245
Quanto detto emerge distintamente dalla lettura degli artt. 525 e 526 c.p.p. Il primo enuncia
che “la sentenza è deliberata subito dopo la chiusura del dibattimento”, deliberazione alla
quale concorrono “gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”. L‟immediatezza
della deliberazione “esalta il nesso di consequenzialità intercorrente fra il dibattimento e la
243
Ivi, pag. 99. 244
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 363-365. 245
Ibidem.
101
deliberazione stessa, perché consente di valorizzare nella migliore maniera possibile i ricordi
e le impressioni riportate nel corso dell‟istruzione dibattimentale”.246
Immediatezza e stretta connessione tra fase dibattimentale e postdibattimentale che emerge
quale ratio fondante dell‟art. 526 c.p.p.247
, secondo il quale “il giudice non può utilizzare ai
fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento. La
colpevolezza dell‟imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per
libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all‟esame da parte dell‟imputato o del suo
difensore”.
Una apposita disciplina viene individuata, ex art. 527 c.p.p., per le deliberazioni collegiali (ex
art. 33 bis lettera c) c.p.p. il tribunale in composizione collegiale si vede attribuiti i delitti di
cui all‟art. 416 bis c.p.); disciplina basata sulla collegialità della discussione, sulla priorità
logica delle questioni processuali rispetto alle questioni di merito e sul favor rei.248
Partendo dalla collegialità della discussione, l‟art. 527 comma 2 c.p.p. enuncia che “tutti i
giudici enunciano le ragioni della loro opinione e votano su ciascuna questione qualunque sia
stato il voto espresso sulle altre”. Sarà il presidente a raccoglierne i voti, iniziando dal giudice
con minore anzianità di servizio (stesso criterio per i giudici popolari in corte d‟assise).
246
Ivi, pag. 100. 247
Ibidem. 248
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 365-366.
102
La priorità logica delle questioni processuali sulle questioni di merito è materia dell‟art. 527
comma 1 c.p.p., secondo il quale “il collegio, sotto la direzione del presidente, decide
separatamente le questioni preliminari non ancora risolte e ogni altra questione relativa al
processo. Qualora l‟esame del merito non risulti precluso dall‟esito della votazione, sono
poste in decisione le questioni di fatto e di diritto concernenti l‟imputazione e, se occorre,
quelle relative all‟applicazione delle pene e delle misure di sicurezza nonché quelle relative
alla responsabilità civile”.
Infine, riguardo al favor rei, il comma 3 del summenzionato articolo prevede che “se nella
votazione sull‟entità della pena o della misura di sicurezza si manifestano più di due opinioni,
i voti espressi per la pena o la misura di maggiore gravità si riuniscono a quelli per la pena o
la misura gradatamente inferiore, fino a che venga a risultare la maggioranza. In ogni altro
caso, qualora vi sia parità di voti, prevale la soluzione più favorevole all‟imputato”.
Il risultato a cui mira il dibattimento è la sentenza. La trattazione delle sentenze può
efficacemente realizzarsi con una suddivisione delle stesse in tre categorie: sentenze di non
doversi procedere, sentenze di assoluzione e sentenze di condanna.
La sentenza di non doversi procedere è pronunziata dal giudice, ex art. 529 c.p.p., nel caso in
cui “l‟azione penale non doveva essere iniziata o non doveva essere proseguita” o “quando la
prova dell‟esistenza di una condizione di procedibilità è insufficiente o contraddittoria”. In
questa ipotesi normativa, come si può evincere da un passaggio della relazione al progetto
103
preliminare del codice, “confluiscono non solo le situazioni di difetto di una delle condizioni
di procedibilità propriamente dette (querela, istanza, richiesta e autorizzazione, oltre
naturalmente a quelle disciplinate fuori dal codice), ma anche quelle situazioni che
costituiscono, in modi diversi, altrettante cause d‟improcedibilità, come ad esempio l‟errore di
persona”.249
La sentenza di non doversi procedere si avrà anche, ex art. 531 c.p.p., nel caso di estinzione
del reato o di dubbia esistenza di una causa di estinzione del reato. In questa ipotesi si tratta di
sentenze di merito, in quanto “il giudice non nega il processo, ma il dovere di punire, sia pure
sul presupposto ipotetico che esista il reato del quale dichiara l‟estinzione”.250
Gli effetti di questa prima categoria di sentenze sono indicati all‟art. 532 c.p.p., ossia “la
liberazione dell‟imputato in stato di custodia cautelare” e “la cessazione delle altre misure
cautelari personali eventualmente disposte”; nonché la falsità, accertata nel corso del
processo, di un atto o di un documento (art. 537 comma 4 c.p.p.).251
La sentenza di assoluzione è disciplinata all‟art. 530 c.p.p. Seguendo l‟ordine della norma, il
primo comma prevede che si avrà sentenza d‟assoluzione “se il fatto non sussiste, se
l‟imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge
come reato ovvero se il reato è stato commesso da persona non imputabile o non punibile per
249
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 372-375. 250
Ibidem. 251
Ibidem.
104
un‟altra ragione, il giudice pronuncia sentenza d‟assoluzione indicandone la causa nel
dispositivo”. Le questione relative all‟assoluzione sopra indicate sono di merito, intervenendo
nell‟ordine prima le quaestiones facti e poi le quaestiones juris: risolta negativamente la
questione circa la sussistenza del fatto e la commissione dello stesso da parte dell‟imputato,
non vi è spazio per le questioni relative alla liceità penalistica del fatto.252
Le cause dell‟assoluzione sono ulteriormente distinguibili in due categorie o “formule”:
assoluzione in factum conceptae ed assoluzione in jus conceptae.253
Le prime intervengono
quando è stata la soluzione di una questione di fatto a definire il processo. In riferimento
all‟art. 530 comma 1 c.p.p. si tratta delle ipotesi di assoluzione perché il fatto non sussiste,
perché l‟imputato non ha commesso il fatto, perché l‟imputato non è imputabile o punibile.
Le seconde intervengono, invece, nei casi di fatto che non costituisce reato e di fatto che non è
previsto dalla legge come reato (la prima ipotesi esprime un fatto materiale corrispondente ad
una fattispecie astratta di reato, mancando però qualche elemento; la seconda ipotesi fa invece
riferimento a fatti materiali privi di alcuna rilevanza penale).254
La sentenza di assoluzione verrà pronunciata dal giudice, ex art. 530 comma 2 e 3 c.p.p.,
“anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che
l‟imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da
persona imputabile.
252
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 375-379. 253
Ibidem. 254
Ibidem.
105
Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di
una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull‟esistenza delle stesse, il giudice
pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1”. Le prove qui menzionate potranno
essere positive o negative, in ordine all‟innocenza o responsabilità dell‟imputato.255
Ancora, si
parla di prove insufficienti quando queste sono incomplete, e di prove contraddittorie quando
risulta insanabile il contrasto tra le acquisizioni “a favore” e “contro” l‟imputato.256
Infine, ex art. 530 comma 4 c.p.p., “con la sentenza di assoluzione il giudice applica, nei casi
previsti dalla legge, le misure di sicurezza”. Solitamente ciò comporta la liberazione
dell‟imputato in stato di custodia cautelare e la cessazione delle ulteriori ed eventuali misure
di sicurezza, con la relativa condanna di querelante e/o parte civile alla rifusione delle spese
processuali ed al risarcimento dei danni a favore dell‟imputato (nei casi in cui l‟assoluzione
intervenga perché il fatto non sussiste o perché l‟imputato non lo ha commesso).257
La terza ed ultima categoria di sentenze, disciplinata dall‟art. 533 c.p.p., è quella di condanna.
Con questa sentenza il giudice afferma la responsabilità dell‟imputato e, contestualmente,
applica la pena.258
In tal senso, il comma 1 del summenzionato articolo è perentorio: “Il
giudice pronuncia sentenza di condanna se l‟imputato risulta colpevole del reato contestatogli
255
Ivi, pag. 104. 256
Ibidem. 257
Ibidem. 258
D. Siracusano, A. Galati, G. Tranchina, E. Zappalà. Diritto processuale penale, Vol. secondo, Giuffrè Editore, 2006, pagg. 379-381.
106
al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali
misure di sicurezza”. La piattaforma probatoria su cui si basa la scelta del giudice, al fine di
arrivare ad una condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”, è data dai temi di prova circa
“i fatti che si riferiscono all‟imputazione ed alla punibilità” (art. 187 comma 1 c.p.p.) ed alla
loro verifica che porta alla prova positiva di responsabilità. In questo procedimento si vuole
evitare la formazione di lacune e di incertezze colmabili “dall‟intimo convincimento del
giudice”, per arrivare ad uno standard di valutazione della responsabilità penale.259
Procedimento che, conseguentemente, sia rispettoso delle garanzie proprie del processo
penale quali la presunzione d‟innocenza, l‟onere della prova a carico dell‟accusa, la
colpevolezza espressa in termini di “alto grado di credibilità razionale” e di “probabilità
prossima o confinante con la certezza”.260
Senza dimenticare che, in riferimento ai procedimenti penali per i delitti di cui all‟art. 416 bis
c.p., il comma 3 bis dell‟art. 533 c.p.p. prevede che “quando la condanna riguarda
procedimenti per i delitti di cui all‟articolo 407, comma 2, lettera a), anche se connessi ad altri
reati, il giudice può disporre, nel pronunciare la sentenza, la separazione dei procedimenti
anche con riferimento allo stesso condannato quando taluno dei condannati si trova in stato di
custodia cautelare e, per la scadenza dei termini e la mancanza di altri titoli, sarebbe rimesso
in libertà”.
259
Ivi, pag. 105. 260
Ibidem.
107
BIBLIOGRAFIA (IN ORDINE ALFABETICO)
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