world crisis watch n1 2013
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Osservatorio Aree di Crisi N° 1, 2 giugno 2013
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WORLD CRISIS WATCH N°1/2013 - Panorama
INFOGRAFICA DEL MESE: lo stato militare della crisi siriana
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CAUCASO - Doppio attentato nel giro di pochi giorni (20 e 25 maggio) a
Makhachkala, capitale del Daghestan, Repubblica federale russa nel
Caucaso settentrionale. Secondo il primo bilancio degli investigatori e
del Comitato d'inchiesta russo, vi sono stati 8 morti e oltre 50 persone
sono rimaste ferite. Gli attentati si sono verificati nei pressi della sede
degli uffici giudiziari locali riproponendo una dinamica comune per gli
atti terroristici in questa regione in quanto obiettivi sono spesso persone
o simboli del potere russo. Immediata la condanna delle autorità russe che hanno rivendicato la dura lotta
agli estremismi come “una condizione necessaria al perseguimento della pace nella regione”. Il Daghestan –
recentemente salito agli onori della cronaca per essere stata la patria di Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev (i
due attentatori di Boston) – insieme ad Inguscezia, Kabardino-Balkaria e Cecenia, è da anni teatro di un
conflitto a bassa intensità tra le autorità centrali moscovite e i gruppi indipendentisti e da oltre un decennio
anche un epicentro della ribellione islamista radicale. Come in Cecenia, dove si scontrano le autorità locali e
le milizie armate del Presidente filo-russo Ramzan Kadyrov con i guerriglieri indipendentisti ceceni e le
milizie salafite legate al network jihadista di al-Qaeda, così in Daghestan si è assistito ad una preoccupante
escalation di violenze da parte di gruppi islamisti rivali e bande criminali. Infatti, da un lato il mai sopito
attivismo nel Caucaso, dall'altro la guerra civile in Siria hanno portato Mosca a rilanciare la strategia
antiterrorismo soprattutto nei confronti delle cellule salafite nel timore che il Caucaso e l'Asia Centrale,
territori chiave per l'influenza russa nell'area, possano essere nuove mete di conquista del radicalismo
islamista. Così, facendo ricorso al counter-insurgency, le autorità locali, in accordo con il governo di Mosca e
il Comitato Nazionale contro il Terrorismo, hanno provato ad eliminare il problema alla radice arrestando e,
ove necessario, uccidendo gruppi di “terroristi islamisti” – questa è la definizione ufficiale data dagli inquirenti
russi. Nonostante la risposta ferrea, la situazione non accenna a stabilizzarsi, mentre si espande a macchia
d'olio in tutta la regione l'influenza dei gruppi salafiti radicali. Oltre a situazioni dettate da motivi di sicurezza
interna, i territori del Caucaso del Nord sono rilevanti anche da un punto di vista economico: queste sono
aree strategicamente vitali per Mosca in quanto da qui passano tutte le infrastrutture energetiche che
collegano la Russia con il Mar Caspio, la Turchia, l'Iran e l'Asia Centrale. Ricchezze controllate dalla
minoranza russofona legata a doppio filo con il governo centrale moscovita.
IRAQ - Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, sarebbero 1.045 i morti
e 2.397 i feriti degli oltre 500 attentati che si sono verificati nel Paese
nel solo mese di maggio, confermando così il rischio sempre più
concreto di un nuovo conflitto inter-confessionale generalizzato. La
provincia di Baghdad risulta la più colpita con 532 morti e 1.285 feriti.
Dallo scorso dicembre le province a maggioranza sunnita di al-Anbar e
Nineveh sono teatro di violente manifestazioni anti-governative a causa
dei mandati d’arresto richiesti dal Primo Ministro, lo sciita Nouri al-
WORLD CRISIS WATCH – in Focus
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Maliki, nei confronti dell’ex Ministro delle Finanze Rafi al-Issawi (membro della coalizione al-Iraqiya) e dell’ex
Vice Premier Tariq al-Hashemi, condannato a morte in contumacia lo scorso settembre e attualmente
rifugiato politico in Turchia. La spirale di violenze – causata dalle condizioni di discriminazione denunciate
dalle minoranze sunnite nei confronti delle autorità sciite e, in particolare, del Premier accusato di aver
monopolizzato i poteri e di aver polarizzato la scena politica nazionale con misure impopolari utili a tutelare
la comunità sciita – non si è arrestata nemmeno nel corso della campagna elettorale di questa primavera (lo
scorso 20 aprile si sono di fatti svolte le elezioni provinciali, le prime dal ritiro USA dal Paese), durante la
quale sono stati uccisi 14 candidati, costringendo pertanto il governo a rinviare il voto in 6 province su 18. In
tale contesto hanno assunto sempre più rilevanza l’Islamic State of Iraq (ISI) e Jabhat al-Nusra, cellule
islamiste accusate di legami con al-Qaeda, che tentano di sfruttare le tensioni settarie con l’obiettivo ultimo di
annettere la Siria al Paese e creare uno “Stato islamico di Iraq e Siria”. Cosa che evidentemente preoccupa
non poco i vicini Paesi mediorientali poiché un progressivo ampliamento del fronte siriano potrebbe
significare non solo una definitiva “regionalizzazione” della crisi ma anche che lo stesso Iraq possa divenire
un terreno di scontro tra le potenze regionali. Ad ogni modo, oltre allo scontro di matrice settaria, il tema della
sicurezza è da ricondursi ai problemi legati allo sfruttamento degli immensi giacimenti di petrolio nel
Kurdistan iracheno e alle rivendicazioni curde di maggiore autonomia in termini politici. Con molta probabilità
tensioni e violenze si riproporranno a settembre nel voto provinciale nei distretti curdo-iracheni di Dohuk,
Erbil, Suleimaniya e di Kirkuk.
MYANMAR - Dopo l'ennesima ondata di violenze (29 maggio) tra
musulmani e buddisti a Lashio, nello Stato di Shan, nel Myanmar nord-
orientale, in cui una persona è morta e altre quattro sono rimaste ferite,
le autorità locali – compreso il Presidente Thein Sein – sono tornate a
lanciare un appello alla calma e alla fine delle violenze, sostenendo che
"non vi è posto per gli scontri confessionali nella società democratica”
birmana che si sta tentando di costruire. Fra i principali artefici di questa
fronda anti-islamica vi sarebbe il celebre monaco Wirathu, conosciuto
anche con il soprannome di “Bin Laden birmano”, che agirebbe in nome
di un feroce nazionalismo religioso il cui messaggio è "buddisti uniti
contro la minaccia islamica". Il conflitto ha raggiunto dati allarmanti nello Stato di Rakhine contro la
minoranza Rohingya, tanto da spingere il governo centrale a promuovere nuovi programmi di cosiddetta
“pianificazione familiare”, ossia vietando agli appartenenti a tale gruppo etnico di fare più di due figli. Aung
San Suu Kyi, leader del National League for Democracy (NLD) – il principale partito di opposizione del
Paese –, si è duramente espressa contro il rafforzamento di tale norma discriminatoria (che di fatto è in
vigore nel Paese già dal 1994), che andrebbe a ledere ulteriormente una comunità che nel corso dell’ultimo
anno ha subito oltre un centinaio di morti e almeno 140mila profughi interni al Paese. La presa di posizione
del premio Nobel per la Pace 1991 acquista oggi un significato importante se si considera che essa stessa in
passato non si era mai apertamente schierata né a favore né contro le politiche estremiste e razziste delle
elites buddiste e militari del Paese, forse anche per una ragione di opportunità politica visto che nel 2015 si
terranno le elezioni parlamentari. Un recente rapporto di Human Rights Watch ha accusato le autorità locali e
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il governo di non aver fatto abbastanza e in alcuni casi di aver fomentato una campagna di “pulizia etnica”
contro la minoranza musulmana, dietro la quale non si muoverebbero solo ragioni di natura confessionale
ma anche di carattere geo-strategico data la posizione e la rilevanza della regione di Rakhine. Da diversi
anni, infatti, il porto di Sittwe – situato nella parte orientale della regione – attrae investimenti commerciali
indiani e cinesi utili a radicare la presenza dei due Paesi asiatici nell’area e a mettere in sicurezza le
rispettive rotte marittime e commerciali nel Sud Est asiatico. Tale porto, di fatto, si sta configurando come
un’alternativa strategica commerciale sia al più inflazionato porto di Chittagong in Bangladesh e hub
commerciale di India e Cina, sia allo Stretto di Malacca considerato ad alto rischio per la forte
concentrazione di fenomeni pirateschi. L’importanza di Sittwe è data dal fatto che India e Cina si stanno
contendendo il porto a suon di progetti miliardari. Pechino vorrebbe costruire un oleodotto (il China-Myanmar
Crude Pipeline) che colleghi il Rakhine con lo Yunnan e il Guanxi – le due province meridionali cinesi
interessate anche da fenomeni migratori illegali – fornendo un approvvigionamento sicuro degli idrocarburi: il
condotto, che dovrebbe avere una capacità annuale di 12 milioni di metri cubi e che dovrebbe essere
pienamente operativo dal 2015, verrebbe collegato con il porto birmano diventando così un terminal cinese
del commercio internazionale di gas e petrolio da e per la Cina verso l’Africa orientale (Sudan in primis), il
Golfo e l’Asia-Pacifico. New Delhi, dal canto suo, ha stretto nel 2011 un accordo con il governo birmano per
fare della città e dell’area portuale di Sittwe un sito strategicamente rilevante all’interno dell’area di libero
scambio dell’ASEAN, garantendo in tal modo non solo la sicurezza delle rotte commerciali da e verso
l’Oceano Indiano e Pacifico, ma anche una possibile rottura della strategia cinese del “filo di perle”. Ad ogni
modo, la condizione del popolo Rohingya non è un caso isolato poiché anche le altre minoranze etniche
nazionali come i Kachin, i Karen o gli Shan sono da anni perseguitate e sottoposte a durissime misure
discriminatorie dalle autorità centrali di Naypyidaw.
NIGERIA - Il Presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha dichiarato lo
scorso 15 maggio lo stato d’emergenza per le province di Borno,
Yobe e Adawama, nel Nord-Est del Paese, già teatri di ripetuti
attacchi terroristici lanciati dal gruppo integralista islamico Boko
Haram contro i cristiani che vivono nel Sud della nazione. Il governo
di Abuja, confermando il proprio impegno contro la setta, ha
dichiarato di voler “imporre l'integrità territoriale della Nazione e di
rafforzare la sicurezza dell'intero territorio all'interno dei confini
nigeriani, per liberarlo dalla presenza di basi terroristiche”. Infatti, il timore maggiore per le autorità centrali è
che Boko Haram possa godere di una rete di protezioni e affiliazioni regionali/internazionali islamiste in
grado di influenzarne le sue azioni sia all’interno del contesto nazionale sia di quello regionale. A tal
proposito suona come un grave campanello d’allarme la scoperta, il 31 maggio, da parte dei servizi segreti
nigeriani dell’esistenza di una base del movimento sciita libanese Hezbollah a Kano, una delle roccaforti del
gruppo fondamentalista africano nel Nord Est del Paese. Secondo le prime ricostruzioni dell’intelligence, la
cellula libanese programmava attacchi contro obiettivi israeliani e occidentali nell’area dell’Africa occidentale
sfruttando i canali militari e diplomatici del gruppo nigeriano. Tuttavia, secondo i militari non sono ancora
chiari né la ramificazione della rete di Hezbollah in quest’area del Paese né il tipo di rapporti che intercorrono
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tra la cellula sciita e i miliziani africani. Quest’ultimo episodio ad ogni modo ha spinto le autorità di Abuja ad
intervenire subito rafforzando la propria presenza sul territorio e inviando truppe e rinforzi militari in questa
parte della nazione per contrastare, debellare e sradicare le reti, i contatti e le protezioni su cui può contare
Boko Haram. Parallelamente alla risposta militare, il governo centrale ha provato anche a dare un segnale
politico di distensione, decidendo di scarcerare lo scorso 21 maggio diversi sospettati di “attività
terroristiche”, tra cui alcune donne, nella speranza che il gesto possa essere un preludio ad un tentativo di
dialogo e di riconciliazione nazionale. Boko Haram è un movimento integralista fondato nel 2002 a
Maiduguri, capitale del Borno, dall'imam Mohammed Yusuf. Dopo aver subito nel 2009 la decapitazione dei
suoi vertici, la setta ha dichiarato nello stesso anno una “guerra santa” contro il governo cristiano reo di
impedire l'islamizzazione della società e procurando nell’ultimo quadriennio oltre tremila vittime sul campo.
Anche allora la risposta del Presidente Jonathan fu la dichiarazione dello stato d’emergenza nel Nord e il
lancio di un’importante campagna di counter-insurgency senza tuttavia ottenere grandi risultati. Piuttosto le
violenze e alcuni crimini commessi dall’esercito nigeriano nella lotta contro i Boko Haram hanno indotto le
popolazioni musulmane del Nord a “simpatizzare” con le istanze radicali degli islamisti.
PAKISTAN - Il 1 giugno hanno prestato giuramento i 272 membri della
nuova Assemblea nazionale del Pakistan, portando così a termine la
prima transizione democratica di un Paese che fin dalla sua
indipendenza (1947) ha alternato tra governi civili e militari. Eppure
anche il percorso che ha portato alle elezioni parlamentari e provinciali
(queste ultime relative al Punjab, al Sindh, al Baluchistan e al Khyber-
Pakhtunkhwa) dello scorso 11 maggio – e alla vittoria del Pakistan
Muslim League–Nawaz (PML-N) del conservatore Nawaz Sharif nei
confronti del Pakistan Tehrik-i-Insaaf (PTI) dell’ex-giocatore di cricket Imran Khan – non è stato ugualmente
una passeggiata, segnato com’è stato da una scia di attentati che hanno causato più di cento morti e oltre
trecento feriti, in particolare nella città di Karachi (la città portuale più importante del Paese), dove l’ennesimo
attacco presumibilmente organizzato dal gruppo terroristico di Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) ha causato
proprio nel giorno delle consultazioni la morte di 10 persone e il ferimento di altre 30. Per tutto il mese di
aprile attacchi di matrice non solo settaria, ma anche e soprattutto politica, alimentati (soprattutto per quanto
riguarda le regioni settentrionali nordoccidentali come il Waziristan) dall’instabilità derivante dalla porosità dei
confini con il vicino Afghanistan (e dove in questo senso sono particolarmente attivi anche gli Stati Uniti
attraverso numerosi raid di droni), si sono verificati in tutto il Paese e sono stati innanzitutto diretti nei
confronti degli uffici governativi e delle sedi dei partiti laici: il 16 aprile un attacco suicida a Peshawar contro
un leader dell'Awami National Party (ANP) ha causato 16 morti; il 6 maggio un’autobomba nella Kurram
Agency (Federally Administered Tribal Areas) contro il partito Jamiat Ulema-e-Islam ha provocato 15 vittime
e oltre 70 feriti e sempre i candidati di tale partito sono stati oggetto di un altro agguato nell'area di Doaba,
del distretto di Hangu (Khyber Pakhtunkhwa). Così anche a poche ore dall’apertura dei seggi è stato rapito
Ali Haider Gilani, figlio dell'ex Premier e leader del Pakistan People's Party (PPP) al Governo, Yousuf Raza
Gilani. A pagare il prezzo più alto in termini di vite umane è stato l’Awami National Party (ANP), la forza
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politica che ospita al suo interno le voci più progressiste del Paese, che ha peraltro subito la perdita del
proprio leader, Saddiq Zaman Khattak. L’esito elettorale – che peraltro dovrebbe aver messo una volta per
tutte da parte l’ex Presidente Pervez Musharraf, estromesso dalla corsa elettorale per la quale aveva
presentato candidatura ed arrestato con numerosi capi d’accusa, tra cui quello di non aver preso adeguate
misure di sicurezza per impedire l’uccisione dell’ex Premier Benazir Bhutto nel 2007 – non ha tuttavia
placato la scia di sangue: il 18 marzo è stata assassinata Zahra Shahid Hussain, vicepresidente del PTI di
Khan. Ecco dunque che il momentaneo arretramento dei militari dalla vita politica (che non è tuttavia escluso
che possano ripresentarsi come già accaduto proprio ai danni di Sharif nel 2008) potrebbe lasciare spazio al
rafforzamento delle formazioni islamiste radicali, ancor più se si considera che, nonostante il completamento
della legislatura, non vi è stato un adeguato rafforzamento delle istituzioni civili (in particolare di un sistema
giudiziario indipendente) né una sostanziale diminuzione della corruzione, del sistema clientelare e delle
spinte separatiste che caratterizzano alcune regioni, ad iniziare dal Baluchistan dove proseguono
insurrezioni e rivolte. E sullo sfondo di una crisi economica dilagante, restano problematiche non solo la
presenza e il ruolo dell’Inter-Service Intelligence (ISI) - l’agenzia di servizi segreti legata a doppio filo ai
movimenti islamisti -, ma anche la necessità di rivedere il proprio ruolo a livello regionale, sia cercando
finalmente un accordo con l’India sulle aree di confine che nel corso degli ultimi mesi sono tornate ad essere
teatro di scontri (Kashmir in primis), sia ridefinendo una volta per tutte la natura della partnership con gli Stati
Uniti (specialmente in vista del ritiro delle forze ISAF nel 2014) chiaramente messa in discussione
all’indomani dell’uccisione di Osama bin Laden proprio in territorio pakistano e dell’avvio da parte americana
di un largo uso di droni.
SIRIA - In attesa della prossima Conferenza di Pace a Ginevra, continuano le battaglie sul campo siriano: a
Idlib, verso la frontiera turca, lo scorso 30 maggio sono stati uccisi tre cittadini occidentali (due inglesi e uno
statunitense) di religione musulmana probabilmente convertiti alla causa jihadista; a Qusayr, lungo il confine
siro-libanese, dal 19 maggio si fronteggiano i ribelli al regime e le forze congiunte di lealisti e Hezbollah,
riconoscendo definitivamente il ruolo centrale del movimento sciita e filo-iraniano nella guerra civile siriana.
Tra l’altro proprio in Libano, a Tripoli – punto nevralgico per il flusso di armi e di combattenti da e per la Siria
–, imperversano gli scontri tra le forze pro e contro il regime di Assad e nelle giornate dell’1 e del 2 giugno
sono sorti i primi focolai di guerra tra Hezbollah e i ribelli nella valle di Bekaa, dove hanno perso la vita 15
persone. Una situazione incandescente, insomma, che ha costretto il neo Primo Ministro libanese Salam
Tamam a rinviare di almeno 16 mesi le elezioni parlamentari inizialmente previste per il prossimo mese di
luglio. Qusayr rappresenta certamente un nodo strategico non solo per lo stato attuale del conflitto, ma
anche per gli esiti a cui si assisterà in futuro poiché essa si trova sulla direttrice verticale di collegamento che
va da Aleppo – altra città martire – a Damasco passando per Homs. Dunque una totale riconquista della città
siriana permetterebbe ai lealisti di controllare una regione che va dalla capitale fino all’area costiera di
Latakia, roccaforte degli Assad. La battaglia in corso a Qusayr dimostra per l'ennesima volta come la guerra
civile siriana si stia trasformando in un conflitto settario con schieramenti ben definiti: da un lato il fronte
lealista (Iran, Hezbollah e Russia) attivo e fortemente intenzionato a sostenere Assad, dall'altro un gruppo di
attori che si muovono in ordine sparso e senza alcun coordinamento sebbene finanziati e armati da Arabia
Saudita, Qatar, Libia, e Turchia. Ad ogni modo, il diretto intervento a favore del regime di Damasco da parte
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del movimento di Hassan Nasrallah ha implicato un sempre maggior coinvolgimento di Israele che
attualmente sembra essere un attore ben più strategico di quella Turchia che, dopo l’episodio dell’F4
abbattuto lo scorso giugno e dei colpi di mortaio avvenuti nelle aree di confine nello scorso mese di
settembre, sembrava aver assunto negli scorsi mesi un ruolo determinante grazie al dispiegamento sui
propri confini di batterie di missili Patriot su base NATO. Batterie che, peraltro, anche la Giordania starebbe
pensando di dislocare sul fronte meridionale. Proprio il ruolo di Hezbollah, la ripresa delle tensioni – per ora
ancora a basso livello nel Golan –, il rischio di una diffusione di armi chimiche nella regione (aspetto, questo,
su cui non è stata fatta tuttavia sufficiente chiarezza), la possibilità che queste possano essere usate a fini
terroristici e, infine, l'invio di armi strategiche e tattiche da parte della Russia al regime di Assad potrebbero
spingere Tel Aviv ad assumere un ruolo sempre più attivo nel conflitto militarizzando il confine del Golan e a
prendere contromisure per cercare di limitare il coinvolgimento delle milizie libanesi, com’era avvenuto con i
raid a Jamraya e con l'abbattimento di un drone al largo di Haifa. Pochi giorni fa il Ministro della Difesa
israeliano Moshe Yaalon ha dichiarato che Israele starebbe valutando con attenzione lo sviluppo della
vicenda dei missili russi e, in caso di necessità, “sarebbe pronto a rispondere in modo adeguato per
scongiurare una possibile minaccia alla propria sicurezza”. Anche il Segretario di Stato John Kerry ha
criticato la vendita a Damasco degli S-300, sottolineando come tale scelta possa far saltare i già precari
equilibri diplomatici in previsione di Ginevra II che a questo punto potrebbe slittare in luglio, se non anche in
agosto.
Photo credits: Stratfor, BBC, AFP.
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Coordinamento editoriale a cura di
Maria Serra e Giuseppe Dentice