visioni di confine

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A partire dal dopoguerra, la presenza della frontiera ha fortemente determinato l’identità del territorio di Gorizia e dei suoi abitanti. Un’identità che oggi, dopo la “caduta del confine”, cerca nuove definizioni nel confronto con lo straniero “vicino di casa”, ma anche con quello che arriva da lontano per cercare un lavoro o un rifugio da persecuzioni e guerre. Dal 2006 un nuovo confine, il Centro per migranti senza documenti e per richiedenti asilo di Gradisca d’Isonzo, separa fisicamente e idealmente, lungo le direttrici dello status socioeconomico e dell’appartenenza etnica, la popolazione locale dall’Altro, il “diverso”. E, come ogni confine, allo stesso tempo divide due gruppi umani e ne fa due termini relativi, che si misurano l’uno con l’altro costruendo, anche attraverso il confronto, le rappresentazioni sociali che danno forma alle proprie proiezioni identitarie.

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VISIONI DI CONFINE

a cura di Giorgia Serughetti

Interazioni e conflitti tra comunità locale e centri per stranieri in un territorio di frontiera

SVILUPPOLOCALE EDIZIONI

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No copyright – sviluppolocale edizioni promuove la libera circolazione del-le idee e della produzione editoriale indipendente per favorire la massima diffusione e condivisione possibile di culture, testi scientifici, saperi. È con-cessa la riproduzione parziale o totale del testo da parte di organizzazioni non profit, istituzioni e persone che non abbiano fini commerciali o di lucro, purché vengano citate, per correttezza, le fonti (casa editrice ed autori).

sviluppolocale edizioniCasa Editrice di Parsec ConsortiumPiazza Vittorio Emanuele II, 2 - 00185 Romatel. 06 446 34 21

Progetto grafico:Maria Azzurra Rossi

www.sviluppolocaleedizioni.org

Illustrazione in copertina:Adattamento grafico di “Concetto Spaziale” di Lucio Fontana

ISBN 978-88-561-0009-9

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INDICE

Prefazionedi Connecting People

Introduzione metodologicadi Pier Paolo Inserra

Immigrati e richiedenti asilo in Friuli Venezia Giulia e nella provincia di Goriziadi Giulia Rellini

IntroduzioneL’immigrazione in Friuli Venezia GiuliaI richiedenti asilo e i percorsi di accoglienza

Il Cie e il Cara: storia e aspetti normatividi Giorgia Serughetti

Dalla caserma al Cara: l’evolizione del Centro di GradiscaL’orientamento normativo sui centri

Il Cie: tra apparato contenitivo e servizio alla personadi Giorgia Serughetti

La struttura e il personaleGli stranieri trattenuti nel CieLa giornata degli “ospiti”Il servizio alla persona, tra assistenza, contenimento e controllo

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19

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45

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1.

1.11.21.3

2.

2.12.2

3.

3.13.23.33.4

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Il Cara: il lavoro d’accoglienza e i percorsi d’integrazionedi Giorgia Serughetti

La struttura e l’organizzazioneLe caratteristiche e i bisogni degli ospitiLa giornata nel CaraIl servizio di accoglienza e di assistenza legaleI percorsi di integrazione sociale e le reti territoriali

Rappresentazioni sociali degli immigrati e dei richiedenti asilo di Giorgia Serughetti

Fuori dal Centro: un’indagine tra la popolazioneLe rappresentazioni dello stranieroQuqndo gli stranieri eravamo noi: emigrazione e immigrazioneGorizia, terra di frontieraComunità locale e stranieri: accoglienza o esclusione?Il territorio nelle rappresentazioni dei richiedenti asilo

Il centro e il territorio: conflitti, rappresentazioni e prospettive sul futurodi Giorgia Serughetti

Il Cie, il Cara e le comunità localiLa percezione dell’impatto sul territorioIl Cie: rappresentazioni e valutazioniIl Cara: rappresentazioni e valutazioniFuturi possibili

Conclusionidi Giorgia Serughetti

Zone di confine: il principio di territorialità e i movimenti globali delle popolazioniIl Cie, il diritto e i paradigmi securitariLa permeabilità del confine: il Cara, la comunità locale e gli obblighi internazionali in materia di accogleinzaComunità locali e immigrazione: tra realtà e pregiudizio-Pratiche di confinamento e prospettive di interazione

Bibliografia

Elenco degli intervistati

Autori

4.

4.14.2 4.34.44.5

5.

5.15.25.35.45.55.6

6.

6.16.26.36.46.5

7.

7.1

7.27.3

7.47.5

56

5758616367

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PREFAZIONEdi Connecting People

Quando, ormai più di un anno fa, il Consorzio Connecting People si ag-giudicò l’appalto per la gestione del Centro di Identificazione ed Espul-sione di Gradisca d’Isonzo, tra di noi si sviluppò un sentimento misto di orgoglio e gratificazione, paura e smarrimento. Orgoglio e gratificazione perché erano state riconosciute le nostre com-petenze ed esperienze in materia di immigrazione, paura e smarrimento perché eravamo chiamati a confrontarci con un territorio e una comunità che non conoscevamo e perché eravamo certi che ci saremmo trovati in mezzo a uno scontro tra coloro che considerano i centri per migranti un crimine contro l’umanità e chi li considera una violenza perpetrata a danno delle comunità locali.Avevamo anche una consapevolezza: aver intrapreso un cammino che cambiava la nostra giovane storia. E così è stato. Un anno intenso, non facile ma che ci ha arricchito e fatto crescere.L’immigrazione in Italia, oggi, pone interrogativi importanti. Quattro mi-lioni di soggiornanti, un fenomeno che negli ultimi dieci anni è cresciuto a ritmi vertiginosi e che tende a diventare permanente, le scuole che continuano a riempirsi di studenti stranieri, il contributo fondamentale dei cittadini extracomunitari per evitare che il saldo demografico del no-stro paese sia negativo, sono elementi che testimoniano che siamo già una società multiculturale, alla quale mancano ancora consapevolezza e strumenti per governare in maniera matura ed efficace questi cambia-menti. Purtroppo la rappresentazione pubblica del fenomeno alimenta,

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soprattutto, paura e insicurezza, banalizzando sia la complessità del fenomeno sia l’importanza di promuovere integrazione e inclusione so-ciale. Per Connecting People il cuore del problema è l’integrazione non la clan-destinità. Una società che vive sulle paure è una società che si chiude, noi siamo per una società aperta, che non vuol dire senza regole, anzi. Anche per questo, nei mesi scorsi il Consorzio decise di non limitar-si, unicamente, alla gestione dei centri per migranti, ma di approfittare dell’enorme opportunità che la stessa ci offriva, per conoscere, analiz-zare, interpretare un fenomeno, l’immigrazione, che riscrive indelebil-mente i destini e la storia mondiale del Terzo Millennio. Indubbiamente obiettivo assai ambizioso, ma tuttavia obbligato e necessario, per chi come noi non vuole assistere passivamente alle profonde trasformazioni della società contemporanea ma si sforza di interpretare un ruolo attivo e partecipante. Così è nata l’idea di promuovere questa ricerca sul terri-torio di Gradisca d’Isonzo, da questo nostro bisogno di capire e confron-tarci, di superare le barriere delle differenze e della paura, di costruire ponti piuttosto che innalzare muri, dal desiderio di creare legami sociali. Tutto questo non è facile, non lo è mai stato e mai lo sarà, ma è una sfida che noi abbiamo raccolto e che vogliamo giocare fino in fondo. Lavorare per l’integrazione è un cammino lungo e faticoso ma è la nostra scelta di campo. Infine, desideriamo ringraziare Natale Losi, direttore dell’Unità Psico-sociale e di Integrazione Culturale dell’Oim, che ci ha seguito in questa attività, l’associazione Parsec che ha realizzato la ricerca, la Prefettura di Gorizia, la Questura di Gorizia, e tutta la comunità di Gorizia e di Gra-disca d’Isonzo per la disponibilità mostrata.

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INTRODUZIONE METODOLOGICAdi Pier Paolo Inserra

Ci è stato chiesto di partecipare a questa ricerca, sollecitati in parte da Nova – un consorzio nazionale, contattato in fase iniziale, di cui siamo sostenitori – e dallo stesso committente, Connecting People. All’inizio eravamo abbastanza perplessi. Ci sembrava, più che rischioso, “inutile” provare ad approfondire alcune tematiche per noi importanti (accoglien-za, interazione tra popolazione immigrata e territorio, difficoltà cultura-li, inclusione, ecc.), in contesti tendenzialmente imbavagliati e ad alto rischio di autoreferenzialtà. Parlare, infatti, di un Centro di Identificazione ed Espulsione (Cie) o di un Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) vuol dire fare i conti con modelli e approcci societari che sono figli della cultura securitaria del nostro tempo. Quest’ultima di certo a fatica si concilia con la parti-ta più complessiva sulla tutela dei diritti globali, pur trovando una sua ragion d’essere – ermeneutica, non ontologica – nella necessità, per un sistema sociale, di definire (appunto: interpretare) un insieme di politi-che normative e regolative. Se ci fossimo focalizzati sull’idea che declinare un’esperienza di sicu-rezza sociale ad alto impatto simbolico e funzionale avesse voluto dire fare i conti con dei fatti sociali definiti, imperscrutabili, già dati, non solo avremmo avallato una logica neopositivista che poco ci appartiene. Ma, cosa ben peggiore, avremmo giustificato il tendenziale “immobilismo euristico e conoscitivo” che accompagna ormai da anni tutto il dibattito attorno ai Cpt prima, e attorno ai Cie e Cara oggi.

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Siamo partiti dalla riflessione appena riportata per porci alcune doman-de: è il caso di andare oltre questa fase di immobilismo euristico co-minciando a studiare in maniera organica la tematica? Una struttura di ricerca come la nostra può considerare una possibile indagine su Cie e Cara come un’occasione per contribuire ad approfondire un argomento che è ai primi posti nell’agenda setting collettiva? Oppure deve assumere un atteggiamento quasi ideologico di chiusura e diffidenza?

Alcune questioni epistemologicheAlla luce delle questioni appena poste, riportiamo gli orientamenti che progressivamente abbiamo fatto nostri. Prima di tutto, se vale l’ipotesi che non stiamo descrivendo fatti sociali già dati ma fenomeni sociali in mutamento – al di là di alcune evidenze che hanno ripercussioni concre-te sulle scelte politiche locali, il clima di una comunità, gli stereotipi e le opinioni, le tipologie di servizi da mettere in campo – è bene dotarsi degli strumenti adeguati per stimolare e cogliere il dinamismo che li contraddistingue. Sarebbe quantomeno paradossale pensare alla ten-denziale immobilità di certi fenomeni e poi praticare l’impossibilità di studiarli e comprenderli. Anche un Cie è un costrutto sociologico, cultu-rale, psicosociale, politico: non dimentichiamolo. Osservare il modo in cui si struttura il sistema di accoglienza basale riservato ad immigrati senza permesso di soggiorno e a potenziali rifugiati – sia pure a partire da uno studio quasi etnografico, da uno studio di caso – non vuol dire avallare meccanicisticamente approcci e metodi di un certo tipo. Può volere dire, altresì, utilizzare al meglio quella apertura dialettica che si crea quando si intrecciano punti di vista e tesi diverse; un’apertura utile ad evidenziare contraddizioni, a decostruire il senso prevalente, a ridefinirlo. Qualunque attore istituzionale, laddove interpreti il proprio mandato in maniera limpida e rigorosa, dovrebbe fare propria tale op-portunità.Seconda questione da non sottovalutare: il territorio. La necessità di indagare il rapporto tra centri e territorio costringe di suo a ridefinire in parte il concetto stesso di Cara o di Cie. Perlomeno nella misura in cui questi ultimi si concepiscono non solo come ambienti più o meno chiusi, ma come sottosistemi agenti all’interno di un habitat più ampio, di un macrosistema, rappresentato dagli attori locali e dalle interazioni che essi producono. Il mandato esplicito della committenza, in questo caso,

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ci ha aiutato a definire il ruolo che avremmo giocato nel processo.C’è un terzo ed ultimo presupposto da cui siamo partiti per sciogliere alcuni nodi e per provare a dare delle prime risposte alle domande che ci siamo fatti e che abbiamo riportato nella sezione precedente. Quello di cercare di ridefinire e di smascherare un’antropologia della sicurezza locale che ha preso piede negli ultimi tempi e che sta attecchendo con troppa facilità. Essa è fondata su tre presupposti impliciti:

a. A prevalere negli interventi sulla sicurezza reale e percepita dei cittadini deve essere la logica immediatamente comprensibile del dispositivo e non quella articolata e complessa del servizio;b. L’efficacia reale, la sostenibilità e le esigenze di attivare inter-venti di inclusione e/o sicurezza non sono mai preceduti dall’espli-citazione di una visione societaria, da una individuazione delle strategie, dei piani, dei programmi, dei progetti, dei meccanismi di monitoraggio e valutazione che riguardano qualsiasi scelta am-ministrativa e di buon governo;c. Così come esistono politiche pubbliche normative, redistribu-tive, distributive, regolative, ecc., esiste una politica pubblica di sicurezza.

In tutta franchezza, tenere insieme dal punto di vista scientifico tali pre-supposti “pre-scientifici” e poi considerarli la piazzaforte franchigena da cui fare partire la costruzione di processi di sviluppo di sicurezza locale integrata ci pare davvero troppo. Per tale motivo di fondo, ci siamo con-vinti che fosse arrivato il momento di studiare meglio il fenomeno della prima accoglienza per immigrati non regolari e rifugiati, valorizzando quale presupposto metodologico fondante quello della ricerca-azione e, non ultima, l’esigenza di Connecting People di avviare un confronto più sistematico con la cittadinanza locale di Gradisca d’Isonzo.L’indagine che abbiamo concordato con il committente ha avuto un ta-glio descrittivo-esplorativo ed è consistita nella somministrazione di una trentina di interviste a domande aperte che hanno coinvolto gli attori sociali strategici, sia nei centri che nel territorio. Oltre a ciò, è stato effettuato un lavoro di osservazione partecipante che ha permesso di cogliere sfumature e “pesi” di tutta una serie di informazioni raccolte, anche a livello desk. Che il lavoro abbia sufficiente validità esterna per generalizzarne i risultati sarebbe forzato sostenerlo. Che, invece, sia ca-ratterizzato da un buon livello di significatività utile a definire qualitati-

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vamente il fenomeno è, invece, indubbio.Il periodo in cui si è svolta la ricerca, dall’indagine sul campo alla reda-zione di questo volume, è stato tra l’altro fortemente segnato – a livello politico – dalla discussione, dall’approvazione e dall’entrata in vigore del provvedimento noto come “Pacchetto sicurezza”. Un provvedimento in cui l’antropologia della sicurezza sopra descritta ha assunto forme paradigmatiche e che, al momento in cui scriviamo questa introduzione, ha già mostrato alcuni dei suo effetti più perversi. I prossimi paragrafi ci aiutano ad andare oltre i tre presupposti impliciti descritti, per fissare meglio un ensamble di aspetti epistemologici e metodologici che hanno contraddistinto un approccio costruttivista allo studio del fenomeno.

Oltre la cultura del dispositivoQuante volte sentiamo parlare di cancellate automatiche, di delimita-zioni sempre più esasperate del proprio spazio privato, di telecamere in città, di allarmi sofisticati, di filtri antispamming e antiphishing, di ca-mionette della polizia che controllano l’ingresso di parchi pubblici in una metropoli? Quante agenzie, service, esercizi commerciali specializzati sono nati nell’ultimo decennio, a fronte di un’emergenza sicurezza che sembra sempre più montare e che, a detta degli esperti che studiano davvero il fenomeno, invece ha delle manifestazioni circoscritte? Che strumenti e tecnologie servano a difendere spazi a rischio, personali e collettivi, può anche essere concepibile. Che però a prevalere sia la cultura del dispositivo su quella più complessa ed indicata del servizio è alquanto pericoloso e riduttivo.Uno stesso Cie o Cara, laddove considerati prevalentemente come spa-zi definiti di controllo, spazi fisici di contenimento in cui primeggi una logica esclusivamente normativa e procedurale, spazi chiusi e poco pre-disposti per uno scambio con il setting territoriale di riferimento, pos-sono essere considerati dei veri e propri dispositivi. Che, diciamocela tutta, innescano effetti parossistici nel momento in cui vengono percepiti come strutture che occupano il territorio (non lo abitano) contribuendo a trasformare le comunità locali di riferimento in un pre-dispositivo che ha caratteristiche simili: chiusura, diffidenza, scarso capitale sociale, autoreferenzialità.La prima scommessa culturale da portare avanti, anche valorizzando lo sforzo di chi decide navigando controcorrente di investire su tale livello,

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è quella di leggere e comprendere in una fase iniziale caratteristiche e peculiarità che assumono tali dispositivi (o pre-dispositivi), che non sono rappresentati a livello fenomenologico da uno strumento, da un oggetto sofisticato, da un panel di attrezzature elettroniche, bensì da spazi reali e simbolici abitati da persone. Per poi, in una seconda fase, capire at-traverso quali proposte progettuali rafforzare e favorire il passaggio da una cultura del dispositivo a una cultura del servizio. Perché il passaggio si compia, al di là delle esigenze di controllo ed eventuale repressio-ne (legittime, specie in un momento storico in cui risaltano, come già detto, certe antropologie sulla sicurezza), in un Cie o in un Cara vanno comunque esplorate e agite le dimensioni di accoglienza, inclusione, comunicazione, interazionalità, rapporto tra sistemi e sottosistemi, sus-sidiarietà circolare, affettività, ecc., per poi declinarle in progetti e azioni preventive, di riduzione dei rischi, di accountability, di sensibilizzazione e informazione, di responsiveness, di valutazione e monitoraggio, di ricer-ca, di ri-progettazione, di empowerment individuale e di gruppo.Il raccordo con Connecting People, l’idea di effettuare la ricerca ed en-trare maggiormente in relazione con il territorio di riferimento, la pubbli-cazione, le attività convegnistiche e di informazione sociale, rappresen-tano il tentativo lucido di legittimare la logica del servizio a discapito di quella del dispositivo.

Ricerca-azione e costruzione di politiche pubbliche dedicateUna cosa è stata certa sin dall’inizio: se andava effettuato un lavoro di studio e approfondimento sull’interazione tra il Cie/Cara di Gradisca d’Isonzo e la sua comunità locale, andava evitato qualsiasi approccio accademico. Non serviva una ricerca pura, serviva invece un’indagine che – sia pure se caratterizzabile come una prima esplorazione – desse indicazioni articolate su cosa fare, in quale direzione farlo e come prose-guire per migliorare ulteriormente le qualità del lavoro interno ai centri e i livelli di reciprocità tra sottosistema agente e territorio.La metodologia dell’action-research, la ricerca-intervento, ci ha permes-so di rispondere a tale esigenza. Certo, un lavoro di ricerca-azione è un lavoro che si protrae nel tempo, diventa metodo strutturale nell’organiz-zazione del servizio, si trasforma in obiettivo permanente e in competen-za professionale acquisita da un’équipe e dal territorio. Nel nostro caso, in maniera parziale, siamo comunque riusciti a rispondere a quelli che, a

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nostro avviso, sono i cinque requisiti che caratterizzano, sia pure se non del tutto a regime e con pesi differenti, un processo di ricerca-azione:Governance e partecipazione – L’indagine, sia pure se ancora in maniera involuta, ha rafforzato una logica di networking e di rete, finalizzata a con-dividere istanze, problematiche e possibili progettualità, anche in tema di rapporto tra i centri e il territorio. I contenuti della ricerca, le relazioni stabilite nel periodo di raccolta delle informazioni e dei dati, le capa-cità interazionali dei ricercatori coinvolti, la disponibilità a contribuire all’indagine da parte degli attori locali istituzionali ed extraistituzionali interessati, hanno contribuito a mettere in relazione varie soggettività locali con cui in un futuro prossimo si dovrà necessariamente avviare un percorso condiviso.Efficacia delle proposte – Le proposte scaturite dal lavoro di analisi rap-presentano livelli differenziati di azione e cambiamento: alcune di esse sono proposte di policy, altre attengono a nuove ipotesi progettuali spe-rimentali o integrative, altre ancora ai processi di organizzazione del la-voro (metodologie, formazione, comunicazione, ecc.). In ogni caso, sono fortemente collegate a quanto osservato e compreso del fenomeno, e anche laddove rappresentino dei suggerimenti di buon senso, hanno la consistenza euristica della proposta vincolata all’analisi. E, pertanto, possono produrre, se ben sviluppate, probabili cambiamenti migliora-tivi.Sostenibilità delle proposte – Ogni proposta di attivazione suggerita, oltre ad essere collegata a quanto emerso in fase di analisi, ha caratteristiche di sostenibilità. Può, cioè, essere implementata a partire dalle possibi-lità strutturali, umane ed economiche dell’organizzazione interessata, oppure utilizzando risorse integrative esterne vincolate a fondi pubblici dedicati.Attivazione del continuum visione-azione – La ricerca-azione, come meto-dologia e “strumento” ha una sua trasversalità che può essere giocata sia in senso diacronico (quando si attiva un’indagine dopo avere sviluppato un progetto, o per capire da quali domande sociali partire per costruirne uno), che sincronico. In questo caso, parliamo più complessivamente di atteggiamento euristico-partecipativo da parte di tutti gli attori deputati a sviluppare – con una logica di governance multilivello – la filiera: visio-ne, strategie, politiche, piani, programmi, progetti, azioni, valutazione.Comunicazione sociale – Il lavoro di restituzione, comunicazione e in-

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formazione è fondamentale in un processo di ricerca-azione. Abbiamo cercato di praticarlo sia durante la fase di studio e approfondimento sia durante quella di mainstreaming e sensibilizzazione. Oggi avere accesso a informazioni strategiche vuol dire definire il proprio peso individuale, gruppale od organizzativo in sistemi complessi. Ma vuol dire soprattutto avere la possibilità di essere un protagonista attivo nel percorso di co-programmazione e co-progettazione. Gli attori che abbiamo coinvolto, anche a partire dall’esperienza specifica sviluppata, dovranno essere stimolati in maniera permanente dal punto di vista comunicativo, per rimanere soggetti aggiornati e pronti a orientare suggerimenti, risposte e proposte.

Verso una nuova idea di sicurezza locale partecipataPer finire, un breve accenno a cosa intendiamo per sicurezza locale, visto che ormai le presunte conflittualità, gli effetti che derivano da rap-presentazioni sociali collettive, gli stereotipi e le pregiudiziali verso un tema o un fenomeno, le opinioni che si formano attorno ad una difficoltà sembrano collocarsi all’interno del continuum sicurezza-insicurezza reali e percepite. Partiamo da quello che non è, a nostro modo di vedere (ci riferiamo ad un dibattito teorico in corso nella comunità scientifica), la sicurezza: essa non è una politica pubblica vera e propria. Al massimo – pur trat-tando dimensioni archetipiche come quelle della paura, del rischio, della diffidenza nei confronti della diversità – può essere una chiave di lettu-ra concettuale e fenomenica per interpretare la qualità dell’interazione tra politiche pubbliche strutturali differenti (che, a seconda dei criteri di classificazione, possiamo definire come distributive, redistributive, normative, ecc.; o, ad un livello più empirico, politiche del lavoro, della formazione, per l’ambiente, sociali, sanitarie, urbanistiche, ecc.). Sicu-rezza e insicurezza, in questa accezione, raffigurano l’output (il prodotto) dell’interazione tra più politiche, della loro efficacia, del loro impatto reale e simbolico sulla cittadinanza. L’insicurezza non è frutto esclusivamente – o in prima battuta – dell’inte-razione specifica tra contesti, azioni e persone (“io , giovane immigrato irregolare, quando vado in piazza la sera, faccio uso di alcol e rischio una colluttazione con altri immigrati o autoctoni…”), ma è soprattutto – rimaniamo all’esempio in parentesi – il risultato integrato di un modo si

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sviluppare politiche di prevenzione, accoglienza, mediazione dei conflit-ti, controllo, socializzazione per giovani, sensibilizzazione, ecc.È con tale consapevolezza che ci siamo mossi, durante l’indagine. Ap-profondire il rapporto tra i centri per immigrati di Gradisca d’Isonzo, le problematiche che da tale rapporto scaturiscono e i limiti strutturali di un modello di “accoglienza” che mostra il fianco, ha a nostro modesto avviso un unico significato. Favorire cioè – sui piani della sostenibilità, dell’efficacia, del rapporto con il territorio – il superamento di logiche da dispositivo basate su frames securitaristici di vecchia concezione, per lasciare spazio ad un’idea di servizio storicizzabile e più articolata. Idea che, ad oggi, contempla la necessaria rivisitazione di un approccio in senso più aperto e trasversale.

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1.1 Introduzione

Il territorio della provincia di Gorizia è storicamente un crocevia di po-poli e di culture, un luogo di incontro e convivenza tra il mondo medi-terraneo, il mondo slavo e balcanico e il mondo tedesco. È però anche uno spazio a lungo diviso da un confine artificiale, frutto delle guerre e dei nazionalismi della prima metà del ’900 e trasformato in “cortina di ferro” dagli opposti ideologismi della guerra fredda. Gorizia è divenu-ta, dapprima ad opera del fascismo e in seguito a causa dell’ideologia dei blocchi, un avamposto militare punteggiato di caserme e postazioni armate, che solo dal 2004, con l’ingresso della Slovenia nell’Unione Eu-ropea e nell’area di libera circolazione di Schengen, hanno cominciato a essere definitivamente abbandonate.La storia di questa terra di confine, che è stata percorsa da guerre ed eccidi della popolazione civile, deportazioni e migrazioni forzate, ma che costituisce anche un laboratorio secolare di confronto con la diver-sità e di identità meticce, è di particolare interesse alla luce della nuova presenza di immigrati del sud del mondo, prevalentemente condotti qui dalle istituzioni centrali per trovare una prima accoglienza nel Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (Cara) in seguito a una richiesta di asilo politico o per essere trattenuti nel Centro di Identificazione ed Espulzione (Cie) di Gradisca d’Isonzo. Mentre la barriera che separava Gorizia e Nova Gorica, l’Italia dalla Slo-

1. Immigrati e richiedenti asilo in Friuli Venezia Giulia e nella provincia di Goriziadi Giulia Rellini

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venia, si fa sempre più fragile e porosa, nuovi confini, quelli di uno dei più grandi Cie d’Italia e dell’adiacente Cara, separano migranti irregolari e richiedenti asilo dalla popolazione locale. Confini che vengono attra-versati ogni giorno dagli operatori sociali e dalle figure professionali che operano all’interno del Centro, dalle Forze dell’ordine addette al control-lo e alla custodia, e dai richiedenti asilo che godono di libertà di movi-mento in orario diurno; mentre gli stranieri trattenuti nel Cie li varcano per essere condotti alla frontiera ed espulsi dal territorio italiano oppure rilasciati con “foglio di via”. L’insieme delle rappresentazioni sociali, delle relazioni, delle opinioni e valutazioni sulle presenza degli immigrati e dei due centri costitui-sce l’oggetto principale della ricerca-azione confluita in questo volume e sarà oggetto dei capitoli successivi; nel presente capitolo viene invece presentato un quadro del fenomeno migratorio e delle politiche locali sull’immigrazione nel contesto regionale del Friuli Venezia Giulia e in quello della provincia di Gorizia.

1.2 L’immigrazione in Friuli Venezia Giulia

1.2.1 La presenza degli stranieri nella regione

Dagli inizi degli anni Novanta ad oggi, la presenza straniera in Friuli Venezia Giulia si è più che triplicata. Nel 1994, gli stranieri residenti e temporaneamente presenti nella regione erano 29.400; tra questi, i cittadini non comunitari rappresentavano la grande maggioranza, circa il 90%1. L’ultimo Dossier statistico sull’immigrazione, curato da Caritas e Migrantes, stima la presenza straniera nella regione tra le 95.300 e le 100.400 unità al 31 dicembre 2007, con un’incidenza sulla popolazione regionale che varia dal 7,8% all’8,2%2. Il Friuli Venezia Giulia viene così confermata come una delle regioni italiane a più alta presenza di immi-grati; circostanza curiosa, data la rilevanza dei movimenti emigratori

1 C. Marra, Il monitoraggio dei fenomeni migratori nel Friuli-Venezia Giulia. Una rassegna bibliografica, in «Studi Emigrazione/Migration Studies», XXXIX, n. 147, 2002, pp. 702-711.

2 Caritas/Migrantes, Dossier statistico immigrazione 2008, Idos, Roma 2008. Nel rapporto si sottolinea la complessità del calcolo degli stranieri regolarmente presenti, data la mancanza di un archivio sta-tistico integrato. Per ovviare a questa carenza, il Dossier completa i dati dell’Istat con l’analisi di altre fonti, al fine di fornire una stima verosimile della presenza straniera sul territorio, che comprenda, tra l’altro, i nuovi nati, le pratiche di soggiorno arretrate, i ricongiungimenti familiari e altre categorie.

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Capitolo 1

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nella storia della popolazione friulana. Questa stima, tuttavia, non coincide con il bilancio demografico della popolazione straniera fornito dall’Istat, secondo cui i residenti con na-zionalità estera in Friuli Venezia Giulia al 31 dicembre 2007 sarebbero 83.306, con un’incidenza sulla popolazione regionale del 6,8%. Lo scar-to è determinato dal fatto che l’Istat, che gestisce in collaborazione con le anagrafi dei comuni l’archivio dei residenti con cittadinanza straniera, non solo non registra le presenze irregolari, ma non tiene in considera-zione nemmeno chi, regolarmente presente, è in attesa della definizione della pratica di primo rilascio del permesso di soggiorno o chi ancora non risponde ai requisiti formali per la registrazione come residente.Quindici anni fa la presenza straniera nell’estrema regione nord-orienta-le dell’Italia aveva un carattere drammaticamente contingente, connessa ai conflitti scoppiati all’inizio degli anni Novanta nella ex Jugoslavia e ad una massiccia migrazione della popolazione albanese. A riguardo non si reperiscono però dati utili nell’ultimo Dossier Caritas/Migrantes, che non rende conto delle nazionalità degli stranieri a livello regionale: queste informazioni possono essere invece reperite nell’ultimo Annua-rio statistico dell’immigrazione in Friuli Venezia Giulia, relativo al 2006. Nell’Annuario viene confermata – a distanza di diversi anni da quei flussi migratori forzati – l’alta incidenza di migranti provenienti dall’Europa Orientale (il 59% del totale), anche se emergono nuove realtà migrato-rie (in percentuale crescono notevolmente, ad esempio, le presenze sul territorio regionale di persone provenienti dal Bangladesh, dall’India o dalla Turchia)3. Secondo una stima dello stesso Annuario – proiettata nel medio periodo e basata sul trend di crescita registrato dal 1996 al 2006 – nel 2012 gli stranieri residenti in Friuli Venezia Giulia saranno 113.300. Indubbiamente, il livello di sviluppo economico mantenuto negli ultimi anni dalla regione ha inciso in modo considerevole sull’aumento della presenza straniera; è innegabile, infatti, che le opportunità lavorative ed un tessuto sociale in grado di offrire buone premesse per un inserimento stabile nel territorio siano forti condizioni attrattive. Nel 2007, secondo i dati dell’INAIL, gli occupati in Friuli Venezia Giulia nati all’estero erano 71.676. Tra loro, il 71,7% è nato nel continente europeo (compresi i

3 Struttura Stabile per gli Immigrati-Regione Friuli Venezia Giulia, Ires FVG, Annuario statistico dell’immi-grazione in Friuli Venezia Giulia 2006, Trieste, 2008.

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paesi dell’Europa orientale e i paesi di nuovo ingresso nell’UE), il 12% in un paese africano, l’8,3% è nato in America e il 6,3% in Asia4. La Regione Autonoma, inoltre, è tra le prime 10 in Italia per il tasso di imprenditorialità straniera, con le sue 3.710 aziende con titolare di nazionalità estera attive al 30 giugno 2008. Molto alta è la percentuale di imprese artigiane (il 64,7% del totale) e significativa la presenza di donne straniere imprenditrici (il 15,5%)5. La realtà del lavoro straniero in Friuli Venezia Giulia ha prodotto, secondo i dati della Banca d’Italia relativi al 2007, 55 milioni di euro di rimesse, destinate in via prioritaria all’Europa (46,4% del totale), e in particolare alla Romania, che con il 18,2% risulta essere il primo paese destinatario6. Un dato interessante, in considerazione della costante diminuzione re-gistrata ormai da almeno un decennio della popolazione italiana, desti-nata a un crescente invecchiamento, è la percentuale di minori stranieri residenti sul territorio regionale. Il 21,4% della popolazione straniera, infatti, è composta di minori, che, in valore assoluto, raggiungono la ci-fra di 17.836 unità. Questa informazione derivata dai dati dell’Istat risul-ta particolarmente significativa in relazione al fatto che il Friuli Venezia Giulia è una delle regioni italiane con il più elevato indice di vecchiaia7. L’anno scolastico 2007/2008 ha registrato, secondo le informazioni for-nite dal Ministero dell’Istruzione al Dossier statistico Caritas/Migrantes, 13.860 iscrizioni di alunni stranieri, con un’incidenza pari all’8,9% sul totale degli alunni, quindi con ben 2,5 punti percentuali in più rispetto alla media italiana. Questa percentuale ci offre un’indicazione significa-tiva del processo di stabilizzazione della popolazione straniera residente in Friuli Venezia Giulia, e in particolare del percorso di stabilizzazione avviato nel territorio da molte famiglie migranti.

1.2.2 I dati della provincia di Gorizia e del comune di Gradisca d’Isonzo

I cittadini stranieri presenti nella provincia di Gorizia sono 9.900 secon-do la stima minima derivata dal Dossier Caritas/Migrantes, mentre la

4 Cfr. Caritas/Migrantes, Dossier statistico immigrazione 2008.

5 Fondazione Ethnoland, Sintesi del rapporto Immigrati imprenditori in Italia. Dinamiche del fenomeno. Ana-lisi, storie e prospetti, Edizioni Idos, Roma 2009.

6 Cfr. Caritas/Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione 2008.

7 Ibidem

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stima massima è di 10.400 unità. Secondo l’Istat, invece, che, lo ricor-diamo, registra solo i residenti sul territorio, vivono qui 8.360 cittadini di nazionalità estera su un totale di 141.948 residenti, con un’inciden-za sulla popolazione del 5,9%, un punto in meno rispetto alla media regionale. E in effetti Gorizia risulta essere la provincia meno abitata dagli stranieri, con il 10,4% delle presenze sul totale della popolazione migrante residente nella regione (mentre Udine è al primo posto, con il 37,2). Anche la presenza femminile è percentualmente ridotta rispetto alla media regionale, rappresentando solo il 43,2% degli stranieri re-sidenti in provincia, mentre ad Udine sono il 50,5% della popolazione immigrata, e a Trieste e a Pordenone il 48,7%. Per ottenere dati relativi ai singoli comuni della provincia di Gorizia, dob-biamo risalire al 2006, appoggiandoci all’Annuario statistico sull’immi-grazione realizzato all’Ires FVG (Tab.1). Per quanto riguarda il territorio in cui si è svolta la ricerca confluita in questo volume, i servizi demografici dei comuni di Gorizia, Gradisca d’Isonzo, Sagrado e Villesse hanno messo a disposizione dati aggiornati al 31 dicembre del 2008. A Gradisca questi dati indicano una crescita della popolazione straniera residente, che passa da 231 a 248 unità, a fronte di una diminuzione della popolazione totale (6.603 residenti con-tro i 6.616 al primo gennaio 2007). Questo incremento interessa anche i comuni limitrofi; a Gorizia, infatti, i cittadini stranieri residenti sul ter-ritorio comunale sono aumentati di 432 unità tra il primo gennaio 2007 ed il 31 dicembre 2008, raggiungendo le 2.955 presenze. Lo stesso ac-cade, ovviamente con numeri proporzionali alla dimensione dei comuni coinvolti, a Sagrado e a Vilesse. Nel primo caso gli stranieri registrati dai servizi demografici del Comune sono 71 (erano 51 all’inizio del 2007), mentre a Villesse la popolazione straniera residente è passata da 24 a 43 unità. L’Annuario statistico sull’immigrazione, che, lo ricordiamo, è aggiorna-to al 31 dicembre 2006, fornisce alcuni interessanti dati sulle aree ed i paesi di provenienza degli stranieri residenti nella provincia isontina. Partendo da una suddivisione per macroaree, nel corso del 2006 a Go-rizia si è mantenuta la crescita delle presenze dall’Asia centro-orientale, che hanno raggiunto l’incidenza del 15,5%. Crescono anche, ed in modo significativo, le provenienze dall’Africa centro-meridionale, anche se tale sviluppo corrisponde a numeri molto contenuti (nel 2006 si registravano

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236 presenze su un totale di 7.451 unità, con un’incidenza sul comples-so della popolazione straniera del 3,2%).

Tab. 1 Bilancio anagrafico 2006 - Provincia di Gorizia

ComuneStranieri residenti

Incidenza stranieri su

popolaz. residente

% Donne straniere

resiudenti

% Minori stranieri residenti

Capriva del Friuli 48 2,8 56,3 25,0

Cormons 290 3,8 46,2 23,1Doberdò del Lago 31 2,1 19,4 -Dolegna del Collio 6 1,5 66.7 -Farra d’Isonzo 38 2,2 60,5 23,6Fogliano Redipuglia 87 2,9 50,6 17,2Gorizia 2.523 7,0 42,7 20,3Gradisca d’Isonzo 223 3,4 51,6 24,2Grado 336 3,9 45,5 14,9Mariano del Friuli 51 3,2 51,0 29,4Medea 18 1,9 44,4 16,7Monfalcone 2.613 9,4 36,3 20,6Moraro 30 4,0 50,0 43,3Mossa 35 2,1 42,9 17.1Romans d’Isonzo 58 1,6 56,9 13,8Ronchi dei Legionari 419 3,5 46,1 19,3Sagrado 58 2,6 48,3 20,7San Canzian d’Isonzo 166 2,6 51,8 19,9San Floriano del Collio 8 1,0 37,5 -San Lorenzo Isontino 19 1,3 52,6 -San Pier d’Isonzo 52 2,7 53,8 15,4Savogna d’Isonzo 38 2,2 31,6 18,4Staranzano 217 3,2 48,4 17,5Turriaco 63 2,4 36,5 20,6Villesse 24 1,5 66,7 8,3

TOTALE 7.451 5,3 42,0 20,1Fonte: elaborazione Ires FVG su dati delle anagrafi comunali

Se scendiamo nel dettaglio delle singole nazionalità (Tab. 2), il primo

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dato significativo è la costante crescita, nel Goriziano, della comunità bengalese, che nel 2006 era al secondo posto per numero di residenti stranieri. Al primo posto, invece, si trovano i cittadini croati, per via del fenomeno del lavoro transfrontaliero. Data questa specificità, oltre che per la vicinanza che non induce allo spostamento di intere famiglie, la presenza femminile nel gruppo immigrato croato è pari a solo il 27,2% del totale, e un fenomeno analogo si osserva nella comunità slovena. Rispetto alle comunità presenti sull’intero territorio regionale, è sensibil-mente meno accentuata la presenza, a Gorizia e provincia, di rumeni e albanesi – rispettivamente la settima e l’ottava nazionalità – mentre nella regione rappresentano complessivamente il 27% degli stranieri residenti. Riportiamo di seguito – nella tabella 2 – le principali nazionalità presenti sul territorio isontino.

Tab. 2 Residenti stranieri in provincia di Gorizia 2005-2006 (prime 10 nazionalità)

Paese di provenienza

Residenti 2005

Residenti 2006

% Donne 2006

% Sul totale degli

stranieri residenti

2006

%Variazione 2005-2006

Croazia 887 905 27,2 12,1 2,0Bangladesh 758 864 31,7 11,6 14,0Bosnia Erzegovina 753 848 38,4 11,4 12,6Serbia Montenegro 805 837 38,9 11,2 4,0Macedonia 439 587 29,5 7,9 33,7Slovenia 448 456 33,6 6,1 1,8Romania 299 372 57,8 5,0 24,4Albania 305 316 43,0 4,2 3,6Ucraina 178 228 79,8 3,1 28,1Marocco 201 221 46,2 3,0 10,0Cina 187 208 50,5 2,8 11,2Algeria 130 142 37,3 1,9 9,2Senegal 100 104 21,2 1,4 -Polonia 71 99 66,7 1,3 39,4Germania 79 78 64,1 1,0 -1,3Moldova 56 75 68,0 1,0 33,9

Fonte: elaborazione Ires FVG su dati Istat e delle anagrafi comunali

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1.2.3 Le politiche regionali sull’immigrazione

Il processo di integrazione degli immigrati residenti nel territorio friula-no viene messo in evidenza dai risultati del progetto di ricerca Migrants’ Integration Territorial Index (Miti), coordinato dalla cooperativa editoria-le Idos e finalizzato alla realizzazione di uno studio comparativo del gra-do di integrazione sociolavorativa dei migranti non comunitari in alcuni Paesi europei (Italia, Francia, Portogallo, Regno Unito e Spagna). L’inda-gine, che è stata condotta utilizzando una griglia comune di indicatori statistici opportunamente organizzati in indici in grado di misurare le potenzialità di inserimento proprie di ogni contesto territoriale analizza-to, ha indicato proprio il Friuli Venezia Giulia come la regione italiana in cui sono più favorevoli le condizioni di inserimento sociale e lavorativo delle popolazioni migranti8. Il Friuli Venezia Giulia può vantare questo primato anche perché nel 2005, seconda regione in Italia dopo l’Emilia Romagna, si è dotato di una legge per l’accoglienza e l’integrazione sociale dei cittadini stranieri, la L.R. n. 5 del 20059. Lo scopo era quello di dare un quadro normativo agli interventi sull’accoglienza e l’integrazione, che il Testo Unico sull’immi-grazione attribuisce proprio alle Regioni10. La legge, nata a seguito di un percorso partecipativo che ha coinvolto istituzioni, mondo associativo,

8 Gli indicatori utilizzati dal progetto MITI sono:1. indice di capacità di assorbimento (indicatori: presenza, incidenza, incremento, lunga residenza);2. indice di stabilità sociale (indicatori: disagio abitativo, salute, nuzialità mista);3. indice di mercato lavorativo (indicatori: disoccupazione, popolazione attiva impiegata ad alto livello occupazionale, forza lavoro migrante per livello di istruzione, tasso di attività dei migranti, retribuzione dei migranti). Cfr. MITI, Misurare l’integrazione. Il caso dell’Italia. Indici territoriali di inserimento sociolavo-rativo degli immigrati non comunitari, Idos, Roma, 2008.

9 È di per sé evidente che l’adozione di questa legge non è l’unica ragione del buon livello di integrazio-ne raggiunto dai cittadini stranieri residenti in Friuli Venezia Giulia; eppure l’allora Governo regionale ha saputo costruire un modello normativo che altre regioni in Italia hanno poi assunto come riferimento, attenuando così le ripercussioni di una legge nazionale sull’immigrazione (la cosiddetta Bossi-Fini) che certamente non promuove processi integrativi. Il Testo Unico sull’immigrazione, infatti, non interviene nelle politiche di integrazione, che invece delega alle Autonomie locali. Eppure molte regioni italiane non hanno ancora colto questa opportunità e i processi di integrazione sono compromessi, ad oggi, da deficit e assenze: mancano leggi regionali di adeguamento al Testo Unico, oltre che percorsi di inseri-mento lavorativo, politiche rivolte all’autonomia abitativa, alla scuola o alla salute.

10 Le Regioni non hanno alcuna competenza relativa alla condizione giuridica dello straniero (la rego-lamentazione dell’ingresso e del soggiorno sul territorio della Repubblica è competenza esclusiva dello Stato). Tuttavia possono intervenire nella realizzazione delle politiche di accoglienza, integrazione so-ciale e tutela degli stranieri, anche operando sul piano normativo, con interventi nelle materie di propria competenza esclusiva o concorrente. Così è stato per l’Emilia Romagna, con la prima legge regionale nel 2005, e per il Friuli Venezia Giulia poco dopo.

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enti locali, aziende sanitarie, sindacati, patronati e associazioni di cate-goria, prevedeva la realizzazione di piani triennali elaborati in base alle indicazioni dei soggetti pubblici e privati che operano sul territorio, evi-tando così di operare con discrezionalità nella distribuzione dei fondi11.Tuttavia, è importante sottolineare come la realtà sin qui descritta sia destinata ad andare incontro a profonde trasformazioni. In primo luogo, lo sviluppo economico della Regione Autonoma ha subito, negli ultimi mesi, una brusca frenata. Secondo la Banca d’Italia, nei primi sei mesi del 2008 l’attività industriale in Friuli Venezia Giulia ha fortemente ral-lentato, a causa dell’evoluzione negativa della domanda rivolta alle im-prese regionali: la decelerazione delle vendite sui mercati esteri, iniziata nel secondo trimestre del 2007, è proseguita, ed è anzi stata accompa-gnata da una diminuzione delle vendite interne12.Sul versante politico poi, la legge regionale 5/2005 è stata abrogata nel luglio del 2008 dal nuovo Governo regionale, a pochi mesi dal suo insediamento. Come denuncia il presidente dell’Ics (Consorzio Italiano di Solidarietà), ciò ha prodotto un vuoto normativo, dal momento che ogni intervento è stato rinviato a misure future13. Il governo regionale, da

11 Nel biennio 2007-2008, ad esempio, le risorse più consistenti sono state assegnate per l’integra-zione nelle scuole: 1.050.000 euro per 158 progetti hanno interessato istituti di ogni ordine e grado, pubblici o parificati. Si è trattato di interventi legati soprattutto ad attività di mediazione interculturale, con ricadute su tutta la popolazione scolastica, italiana e straniera.

12 Banca d’Italia Eurosistema, Economie Regionali. L’economia del Friuli Venezia Giulia nel primo seme-stre del 2008, Trieste, 2008.

13 Sul sito www.stranierinitalia.it è riportata la seguente dichiarazione Giancarlo Schiavone:“In estrema sintesi penso di potere delineare nei seguenti punti gli aspetti più significativi di ciò che è stata la legge regionale sull’immigrazione. Essa ha permesso di:1. assicurare certezza di diritto, evitando che l’amministrazione regionale operasse con totale discre-zionalità nelle scelte sugli interventi da realizzare e nella scelta dei soggetti con cui operare;2. programmare gli interventi attraverso un Piano triennale, predisposto sulla base delle indicazioni provenienti da tutti i soggetti interessati, pubblici e privati, e tra esse l’Assemblea delle autonomie locali e la Consulta regionale per l’immigrazione (L.R. 5/05, art.5);3. rafforzare le competenze e le capacità di azione degli Enti Locali nella gestione dei servizi informativi, di orientamento e di tutela per gli stranieri; ciò nella consapevolezza che i servizi per gli stranieri sono appunto servizi per i (nuovi) cittadini che vivono sul territorio e non già interventi più o meno di carità da affidare alla benevolenza di enti privati cui elargire qualche contributo pubblico. Nel 2008 oltre il 60% dei fondi della legge regionale sono stati assegnati ai Comuni;4. dare maggiore spazio al protagonismo dei cittadini stranieri, supportando le associazioni di stranieri a divenire soggetti capaci di progettualità (un esempio particolarmente interessante, in questo senso, è stato il tavolo regionale immigrazione-cooperazione, che ha promosso la cooperazione nord-sud attra-verso le comunità degli stranieri);5. sostenere l’introduzione nelle scuole di percorsi curriculari interculturali;6. stabilizzare i servizi di mediazione linguistica e culturale in tutti i servizi pubblici ed in particolare nelle ASL. http://www.stranieriinitalia.it/briguglio/immigrazione-e-asilo/2008/agosto/schiavone-legge-fvg.html

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parte sua, si è impegnato ad approvare una nuova legge in materia di im-migrazione, volta a favorire la piena integrazione dei cittadini stranieri, ma alcune recenti iniziative legislative non sembrano andare in questa direzione. In particolare, tre norme hanno suscitato vivaci polemiche, tanto da co-stare un esposto dell’Asgi (Associazione di Studi Giuridici sull’Immigra-zione) alla Commissione Europea perché valuti la sussistenza dei pre-supposti per avviare un procedimento di infrazione nei confronti della Repubblica Italiana per violazione degli obblighi comunitari. Secondo l’Asgi, infatti, le tre norme licenziate dal Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia che vincolano l’accesso ad alcuni servizi sociali alla per-manenza anagrafica sul territorio regionale (i servizi in questione sono l’accesso all’edilizia popolare e la possibilità di usufruire di misure di contrasto alla povertà e di sostegno alla natalità), sarebbero in contrasto con i principi di parità di trattamento e di non discriminazione previste dal diritto comunitario14.

1.3 I richiedenti asilo e i percorsi d’accoglienza

La Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati fornisce per la prima volta una definizione universalmente riconosciuta di “rifugiato”, ovvero di colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese”. In poche righe, emerge tutta la distanza che intercorre tra i cosiddetti migranti economici, che consapevolmente intraprendono un viaggio alla ricerca di condizioni lavorative e di vita migliori, e chi è costretto a lasciare il proprio paese a causa di persecu-

14 L’articolo 38 della legge regionale 16/2008, che definisce i requisiti per l’assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, prevede la condizione della residenza anagrafica decennale sul terri-torio italiano, di cui almeno cinque nel territorio regionale. Inoltre, stabilisce una previsione di progres-sività nell’attribuzione dei punteggi in base agli anni di residenza anagrafica in Friuli Venezia Giulia. L’articolo 9 della legge regionale n. 9/2008, invece, definisce i requisiti per l’accesso alle prestazioni sociali volte a contrastare la povertà ed il disagio sociale. Quest’ultima normativa riserva le prestazioni assistenziali unicamente ai cittadini italiani e comunitari residenti sul territorio regionale da almeno 36 mesi. Sono esclusi completamente invece i cittadini di paesi terzi non appartenenti all’Unione Europea.Infine, la legge finanziaria 2009 ha introdotto l’assegno per il sostegno alla natalità (articolo 10 comma 25 della L.R. n. 17/2008), ma nel contempo ha limitato i destinatari ai nuclei familiari di cui almeno un genitore sia residente o abbia svolto attività lavorativa da almeno dieci anni nel territorio nazionale, di cui almeno cinque nel territorio regionale.

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zioni, spesso in conseguenza di violazioni di diritti fondamentali.L’Italia è l’unico Paese dell’Unione Europea che non si è ancora dota-to, nel proprio ordinamento giuridico, di una legge organica sull’asilo, nonostante questo rappresenti un diritto costituzionalmente riconosciu-to15. L’unica normativa di riferimento relativa all’asilo e alla protezione umanitaria è, ad oggi, il Testo Unico sull’immigrazione, in seguito alle modifiche introdotte dalle legge n. 189 del 200216, meglio nota come legge Bossi-Fini. La legge istituisce 10 Commissioni Territoriali preposte a esaminare le richieste di riconoscimento dello status di rifugiato, che hanno sede a Gorizia, Milano, Roma, Foggia, Siracusa, Crotone, Trapani, Torino, Bari e Caserta.La normativa prevede poi per la Commissione Nazionale per il Dirit-to d’Asilo compiti di indirizzo e coordinamento delle Commissioni Ter-ritoriali, di formazione e aggiornamento dei componenti delle stesse, nonché di raccolta di dati statistici. La stessa Commissione Nazionale ha poteri decisionali in tema di revoche e cessazione delle protezioni concesse.

1.3.1 I dati della Commissione Territoriale di Gorizia

Non esiste un dato che quantifichi la presenza di richiedenti asilo e rifu-giati in Friuli Venezia Giulia. È possibile tuttavia, per quanto insufficiente, avviare una riflessione sulla presenza di chi fa richiesta di protezione in-ternazionale a partire dai dati forniti dalla Commissione Territoriale per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato di Gorizia. I dati sono reperi-bili nella sezione “Asilo” del sito del Ministero dell’Interno (www.interno.it). La Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di ri-fugiato di Gorizia, insediatasi nell’aprile 2005 a seguito del regolamento di attuazione della legge Bossi-Fini (dpr n. 303/2004), è competente per le domande presentate in tutto il Triveneto (Friuli Venezia Giulia, Ve-neto e Trentino Alto Adige). Per questa ragione, i dati ci possono fornire un’immagine del transito che interessa il capoluogo isontino, ma certo sono inadeguati a definire la presenza di richiedenti asilo e rifugiati sul territorio regionale.

15 “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche ga-rantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge” (articolo 10 comma 3 della Costituzione Italiana).

16 Legge 189/2002, “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, al capo II “Dispo-sizioni in materia di asilo”.

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Le istanze d’asilo pervenute alla Commissione Territoriale di Gorizia nel corso del 2008 sono state 2.006, in crescita rispetto all’anno preceden-te di circa il 14% (nel 2007 le richieste di protezione internazionale sono state 1.733). Questo incremento è tuttavia risibile rispetto all’aumento di domande d’asilo pervenute a livello nazionale. In un anno, infatti, in Italia sono aumentate del 55% le richieste di protezione, passando dalle 14.053 del 2007 alle 31.097 del 2008. Analizzando i dati delle singole Commissioni Territoriali, solo quella di Foggia registra un incremento minore rispetto alla Commissione di Gorizia. Se nell’ultimo anno la Com-missione Territoriale isontina non ha visto crescere in modo consistente le istanze d’asilo a lei rivolte, comunque, lo stesso non si può dire per il biennio 2006-2007. Nel 2007, infatti, le domande d’asilo presentate a Gorizia sono state 1.733, il 72% in più rispetto alle istanze pervenute nel 200617. Tab. 3 Il lavoro della Commissione Territoriale di Gorizia (anni 2006-2008)

Anno 2006 Anno 2007 Anno 2008 Totale*

Domande pervenute 487 1733 2006 4226Riconosciuti rifugiati 145 169 72 386Altra protezione (umanitaria o sussidiaria) 105 336 359 800

Non riconosciuti 182 378 1543 2103Altro esito (rinuncia, Dublino, irreperibili) 37 332 653 1022

* La sommatoria del dato degli esiti dell’istanza d’asilo non sempre coincide con quello delle domande pervenute, in quanto alcune domande non sono ancora state esaminate, mentre altre sono relative all’anno precedente. Fonte: Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Gorizia

1.3.2 Le politiche regionali sull’asilo politico

Già da una decina d’anni in Friuli Venezia Giulia sono nate e si sono con-solidate esperienze locali di accoglienza e assistenza a richiedenti asilo e rifugiati, co-gestite dal terzo settore e dagli enti locali. Nel 1998, ad esempio, l’amministrazione comunale di Trieste ha promosso l’apertu-ra di una struttura di accoglienza per i profughi del Kosovo, gestita dal Consorzio Italiano di Solidarietà – Ufficio Rifugiati. Il progetto è presto

17 Questo aumento è da attribuire, in parte, anche al fatto che, in base a una disposizione del Presiden-te della Commissione Nazionale, adottata ai sensi dell’Ord. Prot. Civ. 29/03/2007, le istanze pervenute alla Commissione Territoriale di Milano nel periodo dal 01/06/2007 al 30/11/2007 sono state esami-nate dalla Commissione di Roma e da quella di Gorizia.

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diventato modello per una nuova idea di accoglienza, che vede coinvolti gli enti locali e che risponde alla logica dell’accoglienza decentrata. Dopo un anno di sperimentazione della struttura, infatti, ha cominciato a risultare evidente agli esperti del settore che attraverso l’accoglienza di numeri contenuti di richiedenti asilo in centri inseriti nel tessuto sociale del territorio si ottengono migliori risultati d’integrazione rispetto ai cen-tri di accoglienza gestiti dallo Stato. Caratteristiche di questi ultimi sono infatti al contrario le grandi dimensioni e la difficile gestione, elementi che rendono molto più complessi i percorsi di integrazione, poiché strut-ture così sovradimensionate, spesso isolate dai contesti urbani, ospitate in spazi in passato destinati a usi militari, faticano a radicarsi nel terri-torio, e provocano, spesso, l’ostilità della popolazione18.Da questa consapevolezza nel 2001 nasce il Piano Nazionale Asilo (Pna), sviluppatosi l’anno seguente nello Sprar, il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, istituito dalla legge 189/2002 quale siste-ma nazionale pubblico di accoglienza coordinato dall’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani).Il modello di accoglienza decentrata adottato dallo Sprar, per quanto presenti carenze e criticità19, si basa su alcuni principi interessanti e, per così dire, fecondi:

• l’accoglienza va realizzata dagli enti locali, in maniera diffusa sul territorio;• i progetti vanno gestiti in collaborazione con le associazioni di tutela dei rifugiati;• gli utenti vanno inseriti subito nel tessuto sociale locale;• l’accoglienza è un percorso di presa in carico complesso, che ha inizio con la prima accoglienza, al momento della presentazione della richiesta d’asilo, e che termina con l’acquisizione dell’autonomia, la-vorativa e abitativa20.

18 È nota, ad esempio, la protesta dei cittadini avianesi che nell’estate 2008 hanno visto istituire in emergenza dal Ministero dell’Interno e dall’Ente Friulano di Solidarietà una struttura di accoglienza residenziale che doveva ospitare, secondo le intenzioni dei firmatari della convenzione, 250 richiedenti asilo. Per quanto in quell’occasione si siano verificati episodi razzisti, è importante sottolineare come la cittadinanza non avesse mai dimostrato un atteggiamento pregiudiziale nei confronti dei rifugiati; anzi, nel 2001 il Comune di Aviano si era impegnato in progetti di accoglienza, aderendo al Piano Nazionale Asilo.

19 Una criticità rilevante è il numero di posti disponibili. Solo per dare un dato, lo Sprar nel 2007 ha garantito accoglienza a 6.344 richiedenti asilo e rifugiati, a fronte delle 14.053 istanze di protezione internazionale pervenute.

20 Cfr. Servizio Centrale Sprar, Rapporto annuale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, Roma, 2008.

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Anche la legge regionale 05/2005 aveva fatto tesoro dell’esperienza di accoglienza integrata nata a Trieste e poi promossa a livello nazionale attraverso lo Sprar. La legge, infatti, aveva previsto interventi specifici per richiedenti asilo e rifugiati, disponendo che:

“La Regione, nell’ambito delle proprie competenze, concorre alla tutela del di-

ritto d’asilo promuovendo interventi specifici per l’accoglienza, consulenza le-

gale e integrazione sociale dei richiedenti asilo, rifugiati, vittime e beneficiari

di forme di protezione per motivi umanitari presenti sul territorio regionale, con

particolare attenzione alle situazioni maggiormente vulnerabili quali minori,

donne, vittime di tortura. Gli interventi regionali sono prioritariamente mirati al

supporto di interventi territoriali di protezione per richiedenti asilo e rifugiati po-

sti in essere dai Comuni, anche in attuazione di programmi finanziati dallo Stato

o dall’Unione Europea. L’Amministrazione regionale è autorizzata a concedere

ad associazioni ed enti iscritti all’Albo regionale finanziamenti per l’attuazione

degli interventi [summenzionati]”21.

Con l’emanazione del Piano regionale integrato per l’immigrazione, lo strumento di attuazione della L.R. 05/2005, era stata prevista l’ado-zione di un Protocollo tra la Regione, gli enti locali e le associazioni finalizzato alla promozione di un sistema di accoglienza e protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati il più possibile diffuso sull’intero territo-rio regionale, che assicurasse livelli omogenei di intervento per ciò che attiene l’erogazione dell’accoglienza, dell’informazione e dell’assistenza legale, oltre che dei percorsi di integrazione abitativa e lavorativa rivolti ai beneficiari dei programmi di protezione. Il Protocollo, inoltre, poneva l’obiettivo prioritario di promuovere iniziative di sensibilizzazione e infor-mazione sul tema del diritto d’asilo.

A tal fine, attraverso un’attività di concertazione tra l’amministrazione regionale, gli enti locali e gli enti gestori dei progetti di accoglienza attivi sul territorio, il Protocollo si proponeva di:• rafforzare gli interventi di accoglienza ed integrazione sociale dei richiedenti asilo e dei rifugiati;• monitorare le presenze e le condizioni di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati presenti sul territorio regionale;• sostenere iniziative di formazione, orientamento e tutela legale verso

21 Legge Regionale 4 marzo 2005, n. 5, Norme per l’accoglienza e l’integrazione sociale delle citta-dine e dei cittadini stranieri immigrati, art.14: Programmi di protezione a favore di richiedenti asilo e rifugiati.

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i beneficiari dei progetti di protezione, e di formazione degli operatori pubblici e privati;• sostenere azioni di sensibilizzazione verso la popolazione relativa-mente al diritto d’asilo.

A seguito dell’abrogazione della legge, il Protocollo regionale sul diritto d’asilo è stato, nei fatti, annullato.

1.3.3 I progetti d’accoglienza decentrata: lo Sprar in Friuli Venezia Giulia

Nonostante le trasformazioni a cui stanno andando incontro le politiche regionali in materia di accoglienza e assistenza, gli enti locali hanno recentemente confermato il loro impegno a favore di richiedenti asilo e rifugiati. Nel 2008 la regione ha infatti partecipato al sistema Sprar mettendo a disposizione complessivamente 133 posti, distribuiti tra i progetti promossi dai Comuni di Trieste (45), Udine (45), Pordenone (25) e Codroipo (18). Considerando il turnover previsto dai progetti terri-toriali, gli enti locali della regione nel 2008 hanno accolto 241 persone. Per il biennio 2009-2010 le cifre sono destinate ad aumentare; infatti, i progetti già attivi e riconfermati dalla nuova programmazione del Servi-zio Centrale sono stati affiancati da due neonate realtà: si tratta di due progetti, entrambi inaugurati nell’aprile del 2009, che mettono a dispo-sizione complessivamente 30 posti e che sono stati promossi dalla Pro-vincia di Gorizia e dal Comune di Sacile. Il Friuli Venezia Giulia, quindi, partecipa al Servizio di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati con un totale di 178 posti per il biennio 2009-201022.I progetti Sprar realizzati negli scorsi anni in Friuli Venezia Giulia hanno visto gli enti gestori del terzo settore coinvolti nell’erogazione di servizi di accoglienza, integrazione e tutela. Ad esempio, l’Associazione Nuo-vi Cittadini, ente attuatore del progetto Codroi/PO_lis (Codroipo), ha strutturato un sistema territoriale che prevede un intervento integrato che copre i tre settori individuati come prioritari del Servizio Centrale. Così, per quanto concerne l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, il progetto prevede, oltre alla possibilità di soggiornare in alloggi autoge-stiti, il sostegno alla fruizione dei servizi scolastici, di alfabetizzazione e approfondimento della lingua italiana e dei diritti/doveri di cittadinan-za, e l’accompagnamento all’assistenza medico-sanitaria. Per quanto

22 I progetti vengono finanziati attraverso il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell’Asilo (FNP-SA) e prevedono un co-finanziamento da parte dell’ente locale promotore che incide sul costo totale del progetto con una percentuale che va dal 20% al 30%.

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riguarda gli interventi rivolti all’integrazione sociale, invece, il progetto Codroi/PO_lis garantisce un servizio di segretariato sociale, il sostegno alla formazione e riqualificazione professionale, il supporto all’integra-zione lavorativa, oltre che servizi di accompagnamento all’integrazio-ne abitativa. Infine, la tutela: l’Associazione Nuovi Cittadini fornisce un servizio di informazione e di assistenza di tipo giuridico-amministrativo in merito alla domanda di asilo, il sostegno nei percorsi di rimpatrio assistito e la promozione di programmi d’accompagnamento e di rein-serimento nei paesi d’origine.

Tab. 4 I progetti Sprar in Friuli Venezia Giulia nel biennio 2009-2010

Sede Posti assegnati Costo del progetto Contributo

assegnato Cofinanziamento

Trieste 50 € 580.711,00 € 462.375,00 € 118.336,00Udine 55 € 591.300,00 € 473.040,00 € 118.260,00Pordenone 25 € 256.100,00 € 204.400,00 € 51.700,00Codroipo 18 € 170.820,00 € 136.656,00 € 34.164,00Gorizia 15 € 200.005,75 € 159.476,80 € 40.258,95Sacile 15 € 153.300,00 € 122.640,00 € 30.660,00

Fonte: Servizio Centrale Sprar

Quanto alla situazione specifica di Gorizia, i tempi non sono ancora ma-turi per fare valutazioni sulle modalità di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati da parte del progetto territoriale Sprar. Le attività, infatti, pro-mosse grazie all’interesse dimostrato dalla Provincia di Gorizia, capofila dell’intervento, sono state inaugurate nell’aprile 2009. Gli enti gestori del progetto – che, in linea con l’esperienza maturata dagli enti locali friulani, si configura come progetto di accoglienza, integrazione e tutela – sono la Caritas Diocesana, che si occupa specificamente dei servizi di accoglienza, e la sede goriziana del Cir (Consiglio Italiano per i Rifugia-ti), che fornisce, invece, i servizi di tutela legale. Entrambe le struttu-re, inoltre, collaborano alla realizzazione di servizi ed attività finalizzati all’integrazione dei beneficiari nel tessuto sociale isontino. Questo pro-getto, che si concretizza nell’accoglienza di 15 persone tra richiedenti asilo e rifugiati (3 donne e 12 uomini) in 4 appartamenti situati nella cit-tà di Gorizia, prevede anche una collaborazione del Cir con la Prefettura per un intervento di orientamento legale e di sostegno socio-psicologico all’interno del Cara di Gradisca d’Isonzo.

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Capitolo 1

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Tutti i progetti realizzati in Friuli Venezia Giulia, in accordo con il princi-pio ispiratore del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, l’accoglienza decentrata, prevedono l’accoglienza dei beneficiari in strut-ture alloggiative private, privilegiando la dimensione dell’appartamento rispetto ai centri di accoglienza di grandi dimensioni. A dimostrazione dell’interesse per una questione, quella dell’autonomia abitativa, fonda-mentale all’interno del percorso di integrazione di cittadini stranieri, ri-cordiamo anche il progetto promosso dal Comune di Pordenone e gesti-to dall’Associazione Nuovi Vicini nel 2003. Grazie a questo intervento è stata creata un’Agenzia Sociale Immobiliare finalizzata alla mediazione tra cittadini stranieri e proprietari, con l’obiettivo di facilitare l’accesso all’alloggio ponendo particolare attenzione agli aspetti economici e so-ciali connessi alla ricerca della casa.

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2. Il Cie e il Cara: storia e aspetti normativi di Giorgia Serughetti

2.1 Dalla caserma al Cara: l’ evoluzione del Centro di Gradisca

A partire dal 2000 il sito dell’ex caserma “Ugo Polonio”, a Gradisca d’Isonzo, è stato indicato dal Ministero dell’Interno, presieduto dall’al-lora ministro Enzo Bianco, quale luogo idoneo alla realizzazione di un Centro di Permanenza Temporanea ed Assistenza (Cpta) per migranti destinatari di provvedimenti d’espulsione. I Cpta, istituiti nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano1, erano già sorti a partire dal 1999 in numero-si punti del territorio nazionale allo scopo di garantire l’identificazione degli stranieri irregolarmente presenti e l’allontanamento dal paese con accompagnamento coatto alla frontiera.Nel 2003 un’ordinanza del Presidente del Consiglio di Ministri – Misure d’urgenza per l’apertura di centri di permanenza temporanea – avvia la costruzione di nuovi centri, vista la necessità

“di fronteggiare la grave situazione derivante dagli arrivi di clandestini sul terri-

torio nazionale e di rendere sempre più efficaci le misure di espulsione, anche

attraverso una più organica dislocazione territoriale dei centri di permanenza

temporanea e di assistenza”.

Nella mappa dei nuovi centri è compreso quello di Gradisca e nel 2004

1 Art. 12 della legge 6 marzo 1998, n. 40.

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prendono il via i lavori di ristrutturazione e adeguamento dell’ex caser-ma alla finalità stabilita dal Governo. Gli enti locali, dal Comune alla Re-gione, esprimono a più riprese la loro contrarietà all’apertura del Cpta e si recano a Roma per manifestare la propria posizione all’allora Ministro dell’Interno Pisanu, mentre sul territorio cominciano a tenersi manife-stazioni della cittadinanza, dei partiti politici e dei gruppi organizzati contro l’apertura del Centro, con episodi di sabotaggio dei cantieri e assalti alle sedi degli enti candidati alla gestione.La decisione del Governo tuttavia prevale e nel 2005 il Centro viene ul-timato. La cooperativa goriziana Minerva vince l’appalto per la gestione del Cpta, che conta 250 posti, a cui dovrà essere affiancato un Centro di Identificazione per richiedenti asilo (Cid), per una capienza prevista di 248 persone. Il Centro entra in attività a marzo del 2006, mentre conti-nuano le manifestazioni di protesta. Dal febbraio 2007 una parte della struttura viene trasformata in Centro di Prima Accoglienza (Cpa), una struttura destinata a garantire un primo soccorso agli stranieri irregolari rintracciati sul territorio nazionale. Fino al febbraio del 2009, quando viene disposta dal Ministero la chiusura del Cpa e la sua riconversione per ampliare la capienza del Cie, il Centro contava quindi 136 posti per il trattenimento di stranieri senza documenti nel Cpta e 112 – in preva-lenza destinati a richiedenti asilo – nel Cpa. Nell’inverno del 2008 la Prefettura effettua un nuovo invito per la gara d’appalto di gestione del Centro. Partecipa, oltre alla cooperativa Miner-va, il consorzio nazionale Connecting People2, che si aggiudica la gara a febbraio. Le decisioni della Prefettura sull’assegnazione delle gare d’ap-palto suscitano, in entrambe le occasioni, reazioni di contrarietà e richie-ste di revisione dei procedimenti da parte degli enti esclusi. Nel 2006 viene presentato ricorso dalla Croce Verde contro l’assegnazione alla cooperativa Minerva, nel 2008 da quest’ultima contro l’assegnazione a Connecting People. I ricorsi al Tar hanno entrambi un esito negativo, ma provocano una notevole esposizione mediatica della vicenda relativa alla gestione, con pubblicazione delle offerte economiche e dei costi giorna-lieri in capo a ogni ospite e conseguente inasprimento delle posizioni critiche di gruppi e rappresentanti della cittadinanza locale.

2 Connecting People viene costituito nella primavera del 2005 dai consorzi Solidalia (TP), Il Nodo (CT), Kairòs (TO) e Polis (PI), aderenti alla rete CGM - Welfare Italia per occuparsi di migranti e migrazioni attraverso la gestione di progetti di accoglienza e inclusione sociale e la realizzazione di iniziative for-mative e culturali.

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In seguito al decreto legge n. 92 del 23 maggio 2008, il Ctpa viene rinominato Centro di Identificazione ed espulsione (Cie), mentre nei pri-mi mesi dello stesso anno il Ministero decreta l’apertura, nell’edificio adiacente, di una struttura deputata ad accogliere i richiedenti asilo con il nuovo nome di Cara (Centro d’Accoglienza per Richiedenti Asilo) che sostituisce la precedenza dicitura Cid (Centro d’Identificazione). Il Cara viene affidato in gestione temporanea a Connecting People, in attesa del bando di gara della Prefettura, che viene pubblicato nell’inverno dello stesso anno. Nel marzo del 2009 si svolge la procedura per l’attribuzio-ne dell’appalto, che vede nuovamente concorrere la cooperativa Minerva e Connecting People e si conclude con l’assegnazione di un punteggio superiore per quest’ultimo.

2.2 L’orientamento normativo sui centri

2.2.1 La normativa nazionale: dal Testo Unico al “Pacchetto sicurezza”

La legge che istituisce i Centri di Permanenza Temporanea ed Assisten-za (l. 40/1998 – Testo Unico sull’immigrazione) contiene all’art. 14 la seguente previsione normativa:

“Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante ac-

compagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, perché occorre proce-

dere al soccorso dello straniero, accertamenti supplementari in ordine alla sua

identità o nazionalità, ovvero all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero

per l’indisponibilità di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo, il questore dispo-

ne che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il

centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino”.

Entro 48 ore dalla disposizione del provvedimento la Questura deve tra-smettere gli atti relativi al Giudice di pace per la convalida. L’udienza deve avvenire alla presenza dell’interessato e di un difensore e la conva-lida pervenire entro le 48 ore successive. Il trattenimento viene disposto per un tempo massimo di 30 giorni, durante i quali “lo straniero è tratte-nuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità”.

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Nel 1999 viene emanato il regolamento attuativo del Testo Unico3, in cui sono stabilite le norme e le modalità operative per il trattenimento degli stranieri nei Cpta. Innanzitutto è stabilito che lo straniero, all’ingresso nel Centro, debba essere informato del diritto di essere assistito, nel procedimento di convalida del decreto di trattenimento, da un difenso-re di fiducia o, in mancanza di quest’ultimo, da un difensore d’ufficio, nonché della possibilità, se vi sono le condizioni, di accedere al gratuito patrocinio a spese dello Stato. Inoltre, che in caso di allontanamento non autorizzato dal Centro, lo straniero vi sarà ricondotto con l’uso del-la forza, che il trattenimento non potrà essere protratto oltre il limite stabilito dalla legge, e che dovrà cessare qualora il provvedimento del Questore non sia convalidato da un giudice4. Quanto alle modalità del trattenimento, il regolamento afferma l’obbligo di garantire, oltre al mantenimento, all’assistenza e ai servizi sanitari essenziali,

“la libertà di colloquio all’interno del centro e con visitatori provenienti dall’ester-

no, in particolare con il difensore che assiste lo straniero, e con i ministri di cul-

to, la libertà di corrispondenza, anche telefonica, ed i diritti fondamentali della

persona, fermo restando l’assoluto divieto per lo straniero di allontanarsi dal

centro”5.

Ai centri possono inoltre accedere i familiari conviventi delle persone trattenute, gli avvocati, i ministri di culto, il personale delle rappresen-tanze diplomatiche e gli appartenenti ad enti, associazioni del volonta-riato e cooperative di solidarietà sociale. Nel caso in cui debba essere ricoverato in luogo di cura, recarsi nell’ufficio giudiziario o presso la rappresentanza diplomatica del proprio paese, il questore provvederà all’accompagnamento da parte delle forze dell’ordine. Potranno inoltre essere autorizzati allontanamenti (accompagnati) in caso di “imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente residente in Italia, o per altri

3 Decreto del Presidente della Repubblica n. 394 del 31 agosto 1999, n. 394 “Regolamento recante nor-me di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’art. 1, comma 6, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286”.

4 Art. 20

5 Art. 21

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gravi motivi di carattere eccezionale”6.Nonostante la presenza di norme comuni, il regolamento attuativo del TU, poiché attribuisce al Prefetto, d’accordo con il Questore, la decisione ultima sulle migliori disposizioni per regolare la convivenza all’interno di ogni Centro e garantire la sicurezza, nonché sulle modalità di erogazione dei servizi di cura e assistenza7, lascia un ampio margine di discrezio-nalità e dà luogo a notevoli disomogeneità nella gestione delle differenti realtà che sorgono in quegli anni con il nome di Cpta. Vengono inoltre segnalati da più parti casi di violazioni dei diritti umani nei Centri8. Per questo l’anno successivo, il 30 agosto del 2000, il Ministero dell’Interno emana una circolare che intende “assicurare la rispondenza delle modalità di trattenimento nei Centri in oggetto alle finalità di necessaria assistenza ed al pieno rispetto della dignità degli stranieri trattenuti”9, fissando alcune norme comuni sia per la predisposizione delle strutture sia per le attività di gestione. Viene resa obbligatoria la redazione di un regolamento inter-no a ogni Centro, in cui siano definite preliminarmente le modalità del trattenimento, dell’assistenza sanitaria e dei servizi alla persona, e una Carta dei diritti e dei doveri, da consegnare allo straniero al momento del suo ingresso nel Centro. Nel 2002 la legge n. 189 – detta Bossi-Fini – apporta numerose modifi-che, in senso restrittivo, al Testo Unico sull’immigrazione. Rispetto alle norme sull’esecuzione dell’espulsione, la nuova legge prevede che il trat-tenimento nei Cpta possa essere prorogato di 30 giorni, oltre i 30 stabi-liti, “qualora l’accertamento dell’identità e della nazionalità, ovvero l’acqui-

6 Ibidem

7 Art. 21 comma 8: “Le disposizioni occorrenti per la regolare convivenza all’interno del centro, comprese le misure strettamente indispensabili per garantire l’incolumità delle persone, nonché quelle occorrenti per disciplinare le modalità di erogazione dei servizi predisposti per le esigenze fondamentali di cura, assistenza, promozione umana e sociale e le modalità di svolgimento delle visite, sono adottate dal prefetto, sentito il questore, in attuazione delle disposizioni recate nel decreto di costituzione del centro e delle direttive impar-tite dal Ministro dell’interno per assicurare la rispondenza delle modalità di trattenimento alle finalità di cui all’articolo 14, comma 9, del testo unico”. Comma 9: “Il questore adotta ogni altro provvedimento e le misure occorrenti per la sicurezza e l’ordine pubblico nel centro, comprese quelle per l’identificazione delle persone e di sicurezza all’ingresso del centro, nonché quelle per impedire l’indebito allontanamento delle persone trat-tenute e per ripristinare la misura nel caso che questa venga violata. Il questore, anche a mezzo degli ufficiali di pubblica sicurezza, richiede la necessaria collaborazione da parte del gestore e del personale del centro che sono tenuti a fornirla”.

8 Denunce di maltrattamenti e violazioni di diritti fondamentali provengono , per esempio, da Ong alta-mente accreditate come Medici Senza Frontiere, Save the Children, Amnesty International

9 Direttiva generale in materia di Centri di Permanenza Temporanea ed assistenza ai sensi dell’articolo 22, comma i del D.P.R. 31 agosto 1999, n. 394.

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Capitolo 2

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sizione di documenti per il viaggio presenti gravi difficoltà”10. Allo scadere dei termini di permanenza, quando non sia stato possibile rimpatriare lo straniero trattenuto, questo viene rilasciato con l’obbligo di lasciare il paese entro 5 giorni, trascorsi i quali può incorrere in una pena detentiva da 6 mesi a un anno. Si procede quindi a una nuova espulsione, dopo la quale, in caso di violazione dell’ordine di allontanamento, la pena in cui può incorrere lo straniero è la reclusione da 1 a 4 anni. L’ultimo atto nel processo di normazione dei Centri e delle disposizioni relative al trattenimento si è compiuto con il decreto-legge n.11 del 23 febbraio 2009, in cui viene disposto che

“in caso di mancata cooperazione al rimpatrio del cittadino del Paese terzo inte-

ressato o di ritardi nell’ottenimento della necessaria documentazione dai Paesi

terzi, il questore può chiedere al giudice di pace la proroga del trattenimento per

un periodo ulteriore di sessanta giorni. Qualora persistano le condizioni di cui al

periodo precedente, il questore può chiedere al giudice una ulteriore proroga di

sessanta giorni. Il periodo massimo complessivo di trattenimento non può esse-

re superiore a centottanta giorni”11.

Il provvedimento, al momento dell’entrata in vigore, è stato applicato anche, retroattivamente, alle persone già trattenute nei centri. L’articolo n. 5, che contiene la previsione citata, è stato abrogato nella legge di conversione12, ma la disposizione relativa al prolungamento del trattenimento è stata inserita nel disegno di legge n. 733, più noto con il nome di “Pacchetto sicurezza”, che è stato approvato definitivamente dal Parlamento il 2 luglio del 2009. La norma avrà importanti conse-guenze sul trattenimento nei centri, comportando un inasprimento della misura detentiva che può produrre negli stranieri l’acuirsi di disagi fisici e psicologici e di sentimenti di esasperazione, oltre a costringere Prefet-ture ed enti gestori a un ripensamento delle misure di contenimento e del servizio di assistenza.

10 Art. 13 legge 189/2002

11 Decreto-legge 23 febbraio 2009 , n. 11 – “ Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di con-trasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori” – art. 5.

12 Legge 23 aprile 2009, n. 38.

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2.2.2 I centri per richiedenti asilo: dall’emergenza al decreto sulle procedure

I centri di accoglienza (Cda) o centri di prima accoglienza (Cpa) per stranieri irregolari e richiedenti asilo vengono istituiti nel 1995 con la cosiddetta “legge Puglia” (L. n. 563/95) per fronteggiare l’“emergenza” dei flussi migratori verso l’Italia. Il provvedimento stabiliva l’apertura “tre centri dislocati lungo la frontiera marittima delle coste pugliesi per le esigenze di prima assistenza” (art. 2 comma 1). I centri nascono dunque per esigenze di soccorso umanitario e negli anni aumentano di numero sul territorio nazionale, ma non divengono oggetto né allora né in seguito di una vera regolamentazione giuridica. Ne deriva un vuoto normativo che dà origine, fino all’emanazione ella legge Bossi-Fini, a un universo differenziato di soluzioni di accoglienza e modalità di gestione della per-manenza degli ospiti13.Il decreto del Presidente della Repubblica n. 303 del 16 settembre 200414, che attua gli articoli 31 e 32 – sulla procedura d’asilo – della legge Bossi-Fini, introduce, insieme ad altre novità in materia d’asilo, l’istituzione di centri, denominati inizialmente centri di Identificazione (Cid), nei quali dovranno essere coattivamente trattenuti i richiedenti asilo in attesa dell’esito dell’esame della domanda. I Cid vengono tra-sformati nella direzione di un maggiore rispetto delle garanzie connesse al diritto d’asilo nel gennaio del 2008 quando, con il decreto legislativo n. 25, viene recepita la direttiva europea in materia di procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato15: i Cid vengono sostituiti dai Cara (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo), di cui viene messa in

13 I 9 CDA attualmente operativi sono:1. Agrigento, Lampedusa – 804 posti (Centro di primo soccorso e accoglienza)2. Bari Palese, area areoportuale – 744 posti3. Brindisi, Restinco– 180 posti4. Cagliari, Elmas – 200 posti (Centro di primo soccorso e accoglienza)5. Caltanissetta, Contrada Pian del Lago – 360 posti6. Crotone, località Sant’Anna – 1202 posti7. Foggia, Borgo Mezzanone – 342 posti8. Siracusa, Cassibile – 200 posti9. Trapani, Pantelleria – 25 posti (Centro di primo soccorso e accoglienza)

14 “Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato”.

15 Direttiva 2005/85/CE “Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”.

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rilievo la finalità d’accoglienza e non di trattenimento16.Il periodo di permanenza dei richiedenti asilo nel Cara viene inizialmen-te stabilito per un massimo di 20 giorni, ai fini di identificazione, o di 35 giorni, nei casi in cui lo straniero abbia eluso, o tentato di eludere, i controlli di frontiera, o sia stato fermato in condizioni di soggiorno irre-golare, o quando la domanda di asilo sia stata presentata dopo l’espul-sione o il respingimento. Viene garantita al richiedente asilo la libertà di uscire dal Centro nelle ore diurne e la possibilità di ottenere permessi di allontanamento per periodi superiori, “per rilevanti motivi personali o per motivi attinenti all’esame della domanda”. L’accesso alle strutture deve essere inoltre consentito “ai rappresentanti dell’Acnur, agli avvocati ed agli organismi ed enti di tutela dei rifugiati con esperienza consolidata nel set-tore, autorizzati dal Ministero dell’Interno”17. L’accoglienza viene distinta dal trattenimento, che riguarda i richiedenti asilo destinatari di prov-vedimenti d’espulsione che abbiano riportato condanne penali, i quali vengono invece inviati ai Cie18.Tuttavia, il decreto legislativo del 3 ottobre 2008, n. 159, modifica il de-creto sulle procedure introducendo novità rilevanti. In particolare, viene annullata la differenza tra chi ha subito espulsioni di tipo amministrativo e chi di altro tipo, prevedendo il trattenimento nei Cie di tutti coloro che hanno ricevuto un provvedimento di espulsione. La norma riguarda, quindi, anche chi in seguito a uno sbarco sia stato destinatario di un provvedimento di respingimento. Per quanto riguarda i richiedenti asilo inviati ai Cara, in base alla circolare del Ministero dell’Interno n. 10 del 5 novembre 2008, potranno usufruire della misura d’accoglienza oltre i 20-35 giorni previsti, fino alla risposta della Commissione e all’eventuale decisione sul ricorso, ma non oltre il tempo massimo fissato a 6 mesi, dopo i quali, anche qualora non si fosse ancora conclusa la procedura di riconoscimento dello status di rifugiato, possono ottenere un permesso

16 I CARA attualmente operativi sono:1. Caltanissetta, Contrada Pian del Lago – 96 posti2. Crotone, località Sant’Anna – 256 posti3. Foggia, Borgo Mezzanone – 198 posti4. Gorizia, Gradisca d’Isonzo – 150 posti5. Milano, via Corelli - 20 posti6. Trapani, Salina Grande - 260 postiVengono utilizzati per le finalità dei Centri di accoglienza per richiedenti asilo anche i CDA di Bari e Siracusa.

17 Art. 20

18 Art. 21.

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temporaneo per lavoro, e decade il diritto all’accoglienza19.

19 “Il ricorrente può continuare ad essere ospitato nelle strutture per richiedenti asilo fino alla decisione del ricorso e comunque non oltre il periodo massimo fissato dalla legge (sei mesi decorrenti dalla presentazione della domanda)”.

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3. Il Cie: tra apparato contenitivo e servizio alla personadi Giorgia Serughetti

Quella che segue è la descrizione del Centro di Identificazione ed Espul-sione (Cie) di Gradisca derivata dall’attività di ricerca sul campo, che si è avvalsa di interviste semistrutturate a testimoni qualificati1, ma anche dell’osservazione diretta degli spazi, della gestione quotidiana della atti-vità e delle procedure previste per ingresso, “fine trattamento” e trasfe-rimenti occasionali all’esterno.Con la guida di un membro del personale è stata effettuata una visita delle zone in cui alloggiano gli “ospiti”2 e si svolgono le attività a loro destinate, mentre per tutta la durata dell’indagine Connecting People ha messo a disposizione una stanza nell’ala dell’edificio in cui si trovano gli uffici e l’ambulatorio. Da questa posizione è stato possibile osservare il quotidiano svolgimento delle attività che coinvolgono gli stranieri trattenuti: colloqui con l’équipe psicosociale, visite mediche, colloqui con avvocati e rappresentanti del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) di Gorizia, accompagnamenti in entrata e in uscita dal Centro. Nel tempo trascorso all’interno del Cie

1 Sono stati intervistati: il direttore del Centro, il coordinatore, l’assistente sociale, lo psicologo, il medico responsabile dell’ambulatorio, i due impiegati amministrativi, nonché il dirigente della Area im-migrazione della Prefettura, il dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Gorizia e la coordi-natrice del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) di Gorizia, che svolge assistenza legale per i richiedenti asilo. Molte informazioni sono state inoltre fornite da operatori, mediatori culturali e personale medico e infermieristico nel corso di colloqui informali durante i giorni in cui è stata svolta l’osservazione.

2 Il termine “ospiti”, che mal si attaglia alla condizione dello straniero trattenuto in condizione para-carceraria, viene impiegato correntemente dal personale del Cie e ricorre nei documenti interni. Nel presente capitolo si è scelto quindi di utilizzarlo tra virgolette, a indicare come si tratti di una dicitura interna.

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si sono inoltre svolte le procedure di ingresso e “fine trattamento” degli stranieri, rispetto alle quali il personale di Connecting People si è reso di-sponibile a descrivere nel dettaglio lo svolgimento dei singoli passaggi.

3.1 La struttura e il personale

Il Cie sorge, insieme al Cara e all’ex Cpa a poca distanza dal centro di Gradisca d’Isonzo e dal comune limitrofo di Sagrado. Lo spazio in cui vengono trattenuti gli stranieri privi di documenti è organizzato in funzio-ne degli scopi contenitivi, con rigida separazione e chiusura delle porte di comunicazione tra i locali adibiti alle diverse attività. Le camerate e il cortile all’aperto possono essere tenuti costantemente sotto control-lo grazie all’impiego di pareti trasparenti e grate, ma i contatti diretti tra il personale e gli “ospiti” si riduce nel corso della giornata al breve tempo dei colloqui e dei servizi quotidiani dei pasti, della “barberia” o dei trasferimenti all’esterno, in cui gli operatori entrano nel perimetro degli spazi alloggiativi o gli “ospiti” vengono prelevati e scortati fuori dal perimetro degli spazi alloggiativi. Tuttavia, nei limiti consentiti dal regolamento interno e dalle misure di sicurezza, gli operatori, come i mediatori e l’assistente sociale, affermano di avere con gli stranieri un rapporto costante di ascolto e individuazione dei bisogni. Un intervista-to afferma: “cerchiamo di ascoltare quello che dicono, di avere un dialogo. Quando vedi che qui è tutto così tranquillo significa che c’è un grande lavoro sotto” (Int. 9).Il personale del Cie conta le seguenti figure professionali:

• direttore;• coordinatore;• équipe psicosociale: psicologo e assistente sociale;• mediatori culturali: tre mediatori full time e uno part time per la lin gua araba, inglese, francese, farsi e urdu;• due impiegati amministrativi, di cui uno preposto alla contabilità, l’altro ai servizi per gli “ospiti” (distribuzione di carte telefoniche, si-garette, acquisti...);• operatori, che a turnazione sono presenti in numero di 10 di giorno e 4 di notte;• addetti alla sanificazione;• personale medico e infermieristico: 1 medico e 1 infermiere sono

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presenti, a turnazione, 24 ore su 24.Sono inoltre attive delle collaborazioni con enti esterni: con la Croce Verde per il servizio d’ambulanza e con il Cir per l’assistenza legale dei richiedenti asilo presenti nel Cie.Il direttore del Cie è un militare in pensione, fino al 2007 vice comandan-te della missione italiana di pace in Libano, e si preoccupa della supervi-sione generale sui servizi alla persona e dei rapporti con la Prefettura, gli enti locali, l’Ufficio immigrazione, la Magistratura e le Forze dell’ordine che operano nel Centro. Di importanza centrale per la gestione quotidia-na delle attività in capo a Connecting People risulta il lavoro del coordi-natore, che definisce i turni del personale, garantisce il funzionamento dei servizi, vigila sul rispetto del regolamento e della Carta dei diritti e gestisce le relazioni con le organizzazioni esterne che svolgono attività assistenziali nel Centro. Si preoccupa inoltre di favorire il confronto e la discussione tra i professionisti dei diversi settori (équipe psicosociale, area della mediazione linguistico-culturale, area medica, équipe ope-ratori) mediante riunioni periodiche, al fine di ottimizzare il lavoro sui singoli, favorire la segnalazione reciproca di situazioni problematiche e l’inserimento tempestivo nei programmi sociali e sanitari.Per le persone trattenute nel Centro, oltre agli operatori e ai mediatori che si preoccupano di garantire un’assistenza continuativa per tutte le esigenze connesse alla vita quotidiana, le figure di riferimento princi-pale sono l’assistente sociale, lo psicologo e il medico. L’assistente so-ciale prende in carico le situazioni degli “ospiti” sia dal punto di vista dell’ascolto dei bisogni, sia – soprattutto – per la gestione dei rapporti con gli avvocati e con l’Ufficio immigrazione della Questura in tutte le procedure connesse con l’identificazione e – quando l’identificazione av-viene entro il tempo massimo di trattenimento – nella predisposizione dei rimpatri con accompagnamento alla frontiera. Lo psicologo effettua colloqui individuali per affrontare eventuali fragilità connesse al tratte-nimento nel Centro e cerca di svolgere un lavoro di preparazione alla prospettiva del rientro nel proprio paese. Il medico, infine, risponde alle principali richieste di salute avanzate dagli stranieri. L’ambulatorio è organizzato come un pronto soccorso, “con tutte le stru-mentazioni necessarie”, dichiara il medico responsabile, che sottolinea come tutte le Commissioni che hanno visitato il Centro siano rimaste “molto colpite” (Int. 5) per l’efficienza in questo ambito. All’ingresso nel-

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la struttura, i nuovi arrivati devono essere sottoposti a un esame sani-tario immediato che prevede: la compilazione della cartella medica in cui sono segnalati lo stato psichico, eventuali patologie, dipendenza da alcol, sostanze o farmaci3; il consenso informato; la dichiarazione di indigenza per l’ottenimento della tessera Stp4. Il giorno successivo viene effettuata una seconda visita e, ove necessario, la prescrizione di visite ed esami specialistici presso l’Asl e le aziende ospedaliere del territorio, di cui il medico sottolinea “l’ampia disponibilità a un buon lavoro di rete”.

3.2 Gli stranieri trattenuti nel Cie

Nel Cie vengono trattenute persone provenienti da numerose località d’Italia, di varie nazionalità e con trascorsi spesso molto differenti ri-spetto al tempo di permanenza e alle esperienze vissute nel nostro pae-se. Possiamo dividere l’utenza in tre gruppi principali:

a. il primo gruppo è quello degli stranieri provenienti dai Centri di Pri-mo Soccorso e Accoglienza (Cpsa)5, centri in cui sono inseriti imme-diatamente dopo l’ingresso irregolare sul territorio via mare. I Cpsa sono strutture destinate alla sistemazione dei migranti e richiedenti asilo appena sbarcati nelle prime 72 ore successive all’arrivo sul terri-torio. Se questi hanno ricevuto un foglio d’espulsione, vengono inviati ai Cie anche qualora dichiarino di voler fare domanda d’asilo, con la possibilità di avviare la procedura nel corso del trattenimento6. Le persone che provengono da questi Centri presentano spesso esigenze

3 Il Cie di Gradisca non accetta persone sotto terapia metadonica, a meno che non siano già in cura presso il Sert locale. Se la dipendenza emerge nel corso della prima visita, gli stranieri trattenuti non vengono inseriti nel Centro ma trasferiti dalle Forze dell’ordine in altri centri d’Italia in cui è possibile effettuare la terapia di disintossicazione.

4 In Italia l’assistenza sanitaria agli stranieri senza permesso di soggiorno viene garantita attraverso il rilascio di un tesserino Stp (Straniero Temporaneamente Presente), che assicura l’erogazione delle cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti, i programmi di medicina preventiva, la tutela della gravidanza, della maternità e della salute dei minori, le vaccinazionii, la profilassi, diagnosi e cura delle malattie infettive, la cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza.

5 I Cpsa sul territorio italiano sono attualmente due: uno a Lampedusa, con 804 posti, e uno a Elmas (Cagliari), con 200 posti.

6 Vedi par. 2.2.2. Le modifiche alla normativa sull’asilo introdotte dal decreto legislativo n. 159 del 3 ottobre 2008 hanno comportato misure di trattenimento più restrittive per gli stranieri destinatari di provvedimenti d’espulsione che intendono presentare domanda d’asilo. Costoro vengono da allora inviati ai Cie, in cui sono trattenuti per l’intera durata della procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato.

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di cura molto pressanti, sia sul versante sanitario sia su quello psico-sociale. L’esperienza del viaggio può risultare molto traumatica, a causa delle condizioni di grave privazione in cui si svolge e, in molti casi, alle perdite subite (non è rara la morte di amici e parenti nel cor-so della traversata). Come afferma il coordinatore, inoltre, dalle storie raccolte tra gli “ospiti” del Cie emerge una doppia esperienza di de-tenzione, prima della partenza (in Libia o in Tunisia) e all’arrivo: “in attesa dell’imbarco vengono chiusi in case controllate da uomini armati, senza poter uscire, anche per un mese, raccontano di pistole puntate... Poi quando sbarcano in Italia e vengono chiusi in un Centro torna il trauma di quell’esperienza” (Int. 2)7;b. il secondo gruppo è quello degli stranieri rinvenuti in condizione irregolare (senza documenti e senza permesso di soggiorno o con permesso scaduto) sul territorio nazionale. Questa rappresenta una categoria d’utenza con caratteristiche molto variabili rispetto ai bi-sogni e alle richieste d’assistenza. Alcuni possono trovarsi in Italia da molti anni, altri da pochi mesi, così come possono vivere in con-dizione di irregolarità da più o meno tempo e aver avuto o meno esperienze precedenti di trattenimento nei Centri. Infatti, poiché a causa delle difficoltà di identificazione e organizzazione del rimpatrio il trattenimento si conclude frequentemente con la messa in libertà e l’intimazione a lasciare il territorio (entro 5 giorni), alcuni, qualora non adempiano all’espulsione nei tempi prescritti, possono essere fermati e trattenuti in un Cie per la seconda volta. Da questo può dipendere – secondo le testimonianze degli operatori del Cie – a se-conda delle condizioni personali, tanto una maggiore “resistenza” e capacità di adattamento al Centro rispetto agli stranieri appena arri-vati, quanto, al contrario, una più spiccata fragilità psichica, legata a sentimenti di oppressione ed esasperazione;c. Il terzo gruppo, infine, è quello degli ex detenuti in attesa di iden-tificazione e rimpatrio. Il Cie rappresenta un passaggio obbligato dopo la detenzione in carcere per gli stranieri privi di documenti, dal momento che l’identificazione attraverso le autorità diplomatiche e

7 Le testimonianze di migranti e richiedenti asilo che hanno attraversato il Mediterraneo partendo dalla Libia hanno consentito negli ultimi anni, grazie all’impegno di giornalisti e attivisti per i diritti umani, l’emersione di esperienze drammatiche di detenzione illegale sia ad opera della Polizia libica sia delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico. Si veda per esempio il rapporto “Libia 2007” del progetto Fortress Europe (http://fortresseurope.blogspot.com).

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consolari non viene effettuato all’interno del sistema penale8. Può trattarsi di stranieri arrestati per la violazione dell’ordine di lasciare il territorio e puniti con la detenzione9, o di persone arrestate per altri generi di reati. Per molti di loro, come spiega il coordinatore, risulta difficile capire la differenza tra il carcere e il Cie: “il Tribunale convalida la scarcerazione, il giudice monocratico dichiara la persona libera e lui non si aspetta di essere messo in un Cie. Invece appena uscito dal Tribu-nale è una persona senza documenti e le Forze dell’ordine lo portano al Centro: non può capirlo ed è difficile da spiegare. Peggio ancora in caso di assoluzione: ma come? Sono stato dichiarato innocente e mi mettete in carcere!” (Int. 2). Dalla comprensibile sensazione di subire un sopru-so possono dunque derivare atteggiamenti e comportamenti ostili nei confronti della struttura e del sistema di gestione.

La condizione psicologica è spesso critica tra gli “ospiti”, che risentono dell’ambiguità che caratterizza la struttura in se stessa. “Vivere qui è un’esperienza pesante”, spiega lo psicologo, “le proteste sono spesso figlie dell’esasperazione [...]. È utopico credere che un adulto accetti senza proble-mi la reclusione in assenza di reato. Gli esiti più frequenti sono la depressione e le manifestazioni di aggressività” (Int. 4). Una delle manifestazioni più drammatiche del disagio sono gli episodi di autolesionismo, che secon-do le testimonianze sono tuttavia diminuiti con il passaggio alla nuova gestione, grazie al potenziamento del servizio d’ascolto e assistenza. Racconta il responsabile dell’ambulatorio, “ho assistito a episodi molto negativi: ragazzi che avevano ingoiato le batterie del walkman o di altri dispo-sitivi elettronici, che si sono tagliati le vene con pezzi di telefoni cellulari, che avevano ingoiato schegge dei pezzi da gioco del domino...” (Int. 5). La si-tuazione di fragilità psichica dei singoli rischia ovviamente di acuirsi con il prolungamento del limite di trattenimento a 180 giorni disposto dal “Pacchetto sicurezza”, così come diventerà più problematico, da parte dell’equipe psicosociale, garantire il necessario sostegno psicologico al

8 Ad oggi non è mai stato stretto alcun accordo di collaborazione tra il Ministero dell’Interno e il Ministero della Giustizia per l’identificazione degli stranieri trattenuti in carcere e destinatari di prov-vedimento d’espulsione. Ne deriva la necessità di un ulteriore trattenimento nel Cie, con privazione di libertà personale, dopo la scadenza della misura penale.

9 Dopo la prima espulsione in genere la pena detentiva (da 1 a 6 mesi) non viene comminata. L’im-putato viene trasferito direttamente al Cie per essere identificato e rimpatriato. Se elude nuovamente l’intimazione di lasciare il territorio nazionale o rientra irregolarmente (violando il divieto di reingresso per 10 anni), la pena è invece la detenzione da 1 a 4 anni, dopo la quale viene nuovamente disposto il trattenimento nel Cie

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gran numero di stranieri con una lunga detenzione nel centro.Per quanto riguarda coloro che decidono avviare la procedura di richie-sta di asilo, uno dei bisogni prioritari è quello di ricevere l’assistenza legale di un esperto. A Gradisca questa viene assicurata dal Cir di Go-rizia, “l’unico Cir in Italia ad avere accesso a un Cie” (Int. 23) secondo la coordinatrice della sede friulana.Nei casi in cui gli “ospiti” cooperano alla propria identificazione, la per-manenza può venire ridotta al tempo strettamente necessario all’ac-quisto dei documenti di viaggio e all’organizzazione del rimpatrio. Non mancano casi di erroneo trattenimento, quali quelli che vedono coinvolti stranieri coniugati con cittadine italiane. Il periodo di trattenimento, so-prattutto “per chi ha un buon avvocato” (Int. 5), può allora essere limitato a quello impiegato per l’accertamento della condizione giuridica. Chi è impossibilitato o si rifiuta di produrre i propri documenti di riconosci-mento viene invece trattenuto generalmente fino al termine stabilito per legge e in seguito rilasciato con foglio di espulsione o accompagnato alla frontiera e rimpatriato. Il primo caso si verifica ogni volta che l’Ufficio immigrazione non riesce a concludere l’iter dell’identificazione o l’orga-nizzazione del rimpatrio entro il limite di giorni di trattenimento. In base ai dati forniti dalla Questura di Gorizia, la percentuale di stranie-ri trattenuti che vengono espulsi con accompagnamento coatto si è atte-stato nel 2008 intorno al 50% (in diminuzione nel 2009 a causa dell’im-provviso ampliamento del Cie). Le difficoltà di dare esecuzione effettiva agli ordini di espulsione, secondo il dirigente dell’Ufficio Immigrazione, derivano prevalentemente da due fattori: “la mancata collaborazione di alcune autorità consolari e la frequente indisponibilità di fondi per gli accom-pagnamenti” (Int. 14). Ulteriori ostacoli, prosegue l’intervistato, possono verificarsi in fase di esecuzione coatta del provvedimento: gli stranieri manifestano talvolta atteggiamenti e comportamenti di energica resi-stenza al rimpatrio che “determinano sovente l’esercizio della potestà di ri-fiutare l’imbarco da parte dei comandanti degli aeromobili, con conseguente riaccompagnamento al Centro”.

3.3 La giornata degli “ospiti”

Nel periodo in cui la ricerca è stata condotta (marzo 2009), l’organizza-zione interna degli spazi e delle attività risentiva di interventi restrittivi

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disposti dalla Questura in seguito a episodi di agitazione e a una vera e propria rivolta avvenuta a novembre del 2008, in cui gli “ospiti” hanno causato diversi danni alla struttura (in particolare, è stata incendiata la sala mensa e distrutto il quadro elettrico). La descrizione che è stata fornita dal personale del Centro comprende quindi sia la situazione pre-cedente, che si prevedeva sarebbe stata ripristinata a breve, sia quella conseguente alla rivolta. La giornata degli stranieri trattenuti si articola intorno ai tre pasti quo-tidiani e alla scansione oraria dei servizi di assistenza e dei momenti di socializzazione. Gli spazi di vita per gli “ospiti” si limitano alle camere, al cortile antistante e al campo da gioco che occupa un lato della strut-tura rettangolare del Centro. In seguito alle rivolte l’accesso a entrambi questi spazi comuni è stato tuttavia ridotto, per alcuni mesi, solo a de-terminati orari della giornata.Secondo la visione dell’assistente sociale, le misure restrittive della li-bertà personale hanno costituito non solo una misura punitiva, ma an-che una strategia di difesa per gli operatori del centro, nel contesto di un’istituzione caratterizzata fin dalla sua nascita da un’indeterminatez-za giuridica. In mancanza di deterrenti analoghi a quelli del carcere, nota anche lo psicologo, non si può produrre conformità alle regole di comportamento richieste. E poiché l’ente gestore deve svolgere un ruolo di assistenza e risposta ai bisogni, nascono situazioni contraddittorie che inducono a reazioni non conformi alla mission del servizio: “gli unici strumenti che abbiamo sono le negazioni di servizi, la sottrazione di qualcosa di importante: la libertà di uscire nel cortile, il caffè eccetera. È una tutela per gli operatori, si è provato a dare tutto per sedare gli animi, ma ogni favore si è trasformato in dovere: se non lo dai, per loro diventi un razzista...” (Int. 3). Anche prescindendo dalla condizione temporaneamente prodotta da queste restrizioni, dalle interviste emerge l’assenza di attività organizza-te che caratterizza le giornate degli “ospiti”: “C’è la colazione, la terapia medica, il caffè, le sigarette, l’ora d’aria...”, afferma l’assistente sociale, “ma le giornate sono vuote!” (Int. 3). Gli unici appuntamenti quotidiani sono dettati dai colloqui con l’équipe psico-sociale, dalle visite ambula-toriali e dagli incontri con gli avvocati. Nonché dai trasferimenti all’ester-no per le udienze in tribunale o per le visite specialistiche presso l’Asl o i presidi ospedalieri del territorio. Nel Cie, oltre agli avvocati e al Cir per l’assistenza legale, possono en-

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trare ogni settimana un sacerdote cattolico e un membro della chiesa protestante per l’assistenza spirituale. Per i musulmani è invece stato predisposto un locale per le preghiere, di cui però non è ancora stata au-torizzata l’apertura. Nell’orario compreso dalle ore 15.00 alle 18.00, dal lunedì al venerdì, possono inoltre presentarsi – secondo il Regolamento – visite di familiari o altre visite autorizzate dalla Prefettura, che devono svolgersi presso i locali dell’Ufficio Immigrazione.

3.4 Il servizio alla persona, tra assistenza, contenimento e controllo

Connecting People ha assunto l’incarico di gestione del Cie il 10 marzo del 2008. “Fin dal principio”, afferma il direttore, “ci siamo chiesti: come possiamo essere d’aiuto? Il nostro sforzo è sempre stato mirato a soddisfare le esigenze quotidiane degli ospiti, parlare con loro, porsi in modo che la loro permanenza fosse il meno difficile possibile. Capirne la storia, i problemi, la famiglia, fornire frequenti informazioni sul loro status chiedendole all’Uf-ficio immigrazione...” (Int. 1). La filosofia d’intervento che ha definito le modalità organizzative e la strutturazione del servizio ha inteso quindi ispirarsi a una logica di prossimità e d’aiuto che il personale intervistato rileva come una nota distintiva rispetto alla gestione precedente. Il consorzio aveva inizialmente il proposito di ispirarsi al modello di ac-coglienza e assistenza realizzato nel Cara di Salina Grande (Trapani) da uno dei membri fondatori, la cooperativa sociale Insieme (Consorzio Solidalia), da cui sono stati trasferiti personale e competenze a Gradisca d’Isonzo. Tuttavia, spiega il coordinatore, che ha maturato un’esperienza pluriennale di servizio proprio nel Centro della città siciliana, “il progetto si è rivelato più difficile del previsto da realizzare” (Int. 2). Innanzitutto, la struttura in sé, a partire dall’architettura e dagli scopi di tipo detentivo, ha condizionato fin dal principio le modalità di gestione. “Connecting Pe-ople ha sempre avuto un’attenzione particolare per l’accoglienza, l’ascolto e la prossimità, che sono molto più difficili da realizzare in un Cie che non in un Cara”, prosegue l’intervistato. Inoltre, il diverso contesto locale in cui il lavoro dell’ente andava a inserirsi ha imposto l’adattamento a differenti modalità organizzative e un progressivo lavoro di costruzione di relazioni e modus operandi condivisi.

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La nuova gestione del Cie ha dunque assunto una conformazione in par-te differente rispetto ai propositi iniziali, ma ha apportato cambiamenti che gli intervistati ritengono significativi nella direzione del potenzia-mento del servizio alla persona. Innanzitutto si è cercata una migliore divisione delle competenze tra gli operatori di Connecting People e le Forze dell’ordine che operano nel Centro: “Per esempio, prima gli opera-tori facevano la perquisizione dei nuovi ingressi, ma noi l’abbiamo vietato; se gli ospiti devono essere perquisiti devono farlo le Forze dell’ordine. È molto importante che gli ospiti percepiscano che il nostro ruolo è di assistenza, d’ascolto, non di polizia” (Int. 2). Gli stessi membri dello staff avvertono l’importanza di mantenere distinto il loro ruolo sociale dall’intervento repressivo esercitato in caso di necessità da Polizia e Carabinieri. Come afferma un’infermiera, “lavorando qui all’interno ci si imbatte in un proble-ma di ruoli: questa giuridicamente non è una struttura detentiva, quindi gli operatori non sono dei secondini, non si può chiedergli di sedare una rissa... Tutti noi abbiamo un ruolo sanitario o sociale, che dobbiamo salvaguardare” (colloquio informale).Per potenziare il lavoro d’assistenza è stata introdotta, a partire da apri-le 2008, una nuova figura d’aiuto, che non era prevista nell’organico precedente: l’assistente sociale. Quest’ultima viene descritta come una figura necessaria per costruire una relazione di vicinanza, conoscenza diretta e fiducia con gli “ospiti”. Una visione confermata dall’interessa-ta, che fa però rilevare alcune difficoltà a svolgere il proprio incarico: in primo luogo a causa del numero sproporzionato di utenti (200 persone), ma anche per la dimensione di imprevedibilità che deriva dalla distanza tra il proprio lavoro e quello della gestione degli ingressi e delle uscite degli “ospiti”, imprevedibilità che costringe a risposte di carattere emer-genziale e limita la capacità dello staff di organizzare il lavoro. Nello sforzo di trasformare il lavoro di semplice risposta ai bisogni prima-ri in un servizio di accoglienza ed assistenza, vengono inoltre evidenzia-te, oltre alle difficoltà di carattere organizzativo, criticità che pertengono in modo più strutturale alla natura e agli scopi del Centro. Lo psicologo parla di un “contesto ambiguo”, non solo perché sospeso tra le finalità di tipo detentivo e l’assenza di norme penali, ma anche perché manca nella ratio stessa dell’istituzione Cie, orientata allo scopo dell’espulsione dal territorio, lo spazio per un lavoro sul singolo che miri alla sua reintegra-zione sociale. “Nel Cie gli immigrati si trovano alla fine di un percorso, è il

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fallimento di un progetto” (Int. 2), afferma il coordinatore. Difficile dunque progettare attività di tipo educativo o formativo, come ad esempio dei corsi di lingua italiana o dei corsi di formazione professionale. L’unica linea di lavoro sulla reintegrazione sociale che si può profilare, secondo gli intervistati, è quella che opera sulla prospettiva del rim-patrio. Un’attività possibile che viene menzionata, specialmente nelle condizioni di prolungamento della permanenza fino a 6 mesi che già si profilava al momento della ricerca, è la formazione professionale finaliz-zata all’inserimento lavorativo nelle aziende italiane che operano nei pa-esi d’origine. Racconta il coordinatore che, grazie a una rete informale, è stato possibile in un caso effettuare un matching di questo tipo, met-tendo in contatto uno straniero in attesa di espulsione con un’impresa italiana che aveva una filiale nel suo paese. Inoltre, l’équipe psicosociale era riuscita, prima delle agitazioni dell’autunno, a creare un gruppo di discussione con un piccolo numero di “ospiti” che lavorava sull’elabo-razione della propria storia individuale e sull’idea del ritorno. “C’è stato un gruppo molto motivato”, racconta l’assistente sociale, “ma poi tutto è diventato più difficile, il gruppo si è sfilacciato” (Int. 3), innanzitutto per-ché, con le nuove entrate e uscite dal Cie, sono cambiate alcune delle persone che vi partecipavano e non si è ricreato lo stesso affiatamento; inoltre, gli episodi di protesta e di fuga hanno prodotto un inasprimento delle norme di trattenimento che hanno limitato le possibilità di lavoro sociale: “spostare le persone per questo tipo di attività è stato sempre meno agevole” (Int. 3).La speranza degli operatori intervistati è che con il progressivo allenta-mento delle misure di sicurezza adottate in seguito alle rivolte, special-mente in vista di un trattenimento di più lungo periodo, si creino nuovi spazi per un lavoro mirato alla reintegrazione sociale nei paesi d’origine e di sostegno psicologico nella prospettiva del ritorno.

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La ricerca all’interno del Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Gradisca è stata svolta parallelamente a quella nel Centro di Identificazione ed Espulsione, con la medesima metodologia. Sono state effettuate interviste semistrutturate a testimoni qualificati1 e raccolte informazioni mediante conversazioni informali e l’osservazione partecipante delle attività quotidiane. L’assenza di divieti per i richiedenti asilo rispetto alla fruizione degli spazi e all’entrata/uscita dal Centro in orario diurno ha comportato tuttavia, rispetto al Cie, condizioni differenti per l’attività d’osservazione quali la possibilità di trascorrere parti della giornata nella struttura, condividere i pasti con gli ospiti nella mensa comune, assistere ai colloqui con il mediatore e raccogliere testimonianze dirette dei richiedenti asilo2.

1 Alcuni degli intervistati sono unicamente parte dello staff del Cara (l’assistente sociale e due media-tori linguistico-culturali), mentre gli altri sono testimoni già coinvolti nell’indagine sul Cie, in quanto le figure direttive (direttore, coordinatore) e alcune figure professionali (psicologo, équipe medica) opera-no parallelamente in entrambi i Centri. Lo stesso vale per il Cir di Gorizia, che svolge la propria attività di assistenza legale prevalentemente nel Cara, e per il dirigente Area immigrazione della Prefettura. È stato inoltre intervistato un esponente della Chiesa metodista di Gorizia, che espleta l’ufficio spirituale per gli ospiti di fede protestante. Tra gli ospiti, sono stati coinvolti nella ricerca due richiedenti asilo nigeriani, un curdo della Turchia, un ivoriano e un ghanese. Per quanto riguarda gli enti del territorio che operano nei percorsi di seconda accoglienza e di integrazione, sono stati intervistati: il presidente della Caritas di Gorizia, due insegnanti del Centro Territoriale Permanente di Staranzano (GO) e il presidente della società sportiva Itala San Marco di Gradisca. Partecipando a una riunione dedicata ai percorsi di integrazione per gli ospiti del Cara, promossa dal sindaco di Sagrado (GO), sono inoltre state raccolte le posizioni di altri attori territoriali: lo stesso sindaco di Sagrado, il referente della par-rocchia di Sagrado, i Carabinieri di stanza a Gradisca, un referente dell’Istituto di Avviamento al Lavoro (Ial) di Monfalcone.

2 Con la guida di un mediatore, che comunica correntemente in inglese, francese, tedesco, arabo e tur-

4. Il Cara: il lavoro d’accoglienza e i percorsi d’integrazionedi Giorgia Serughetti

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4.1 La struttura e l’organizzazione

L’edificio adibito a centro d’accoglienza sorge nello stesso perimetro che comprende il Cie e l’ex Cpa, che al momento della ricerca era vuoto, in attesa di una riconversione funzionale3. Al Cara si accede da un ingresso autonomo attraverso un cortile che contiene una vasta aiuola verde e un piccolo campo da pallavolo. Per quanto imponenti siano alla vista le cancellate metalliche che lo separano dal Cie e il muro perimetrale che circonda l’intero complesso, l’impressione che si deriva dal primo approccio con l’edificio del Cara è molto diversa da quella che ispira il contatto con il Cie. La presenza di un piccolo campo da gioco, di alberi ed erba nello spazio antistante l’ingresso, nonché la visione degli ospiti che circolano liberamente nello spazio, entrano ed escono attraverso il cancello o siedono all’aperto, comunica un allentamento della tensione rispetto alla sensazione di rigida vigilanza che proviene dalla vista della struttura confinante.L’edificio del Cara è suddiviso internamente in tre aree funzionali principali: la prima è quella che ospita gli uffici del personale (sala colloqui, ufficio dei mediatori, stanza dell’assistente sociale), la biblioteca a disposizione degli utenti e l’ambulatorio medico; la seconda comprende gli alloggi per gli ospiti, organizzati in camerate; l’ultima è quella dei locali comuni che comprendono la mensa, uno spazio ricreativo utilizzato anche per le funzioni religiose, la moschea, e il cortile all’aperto. Della gestione quotidiana del servizio – dalla distribuzione dei pasti all’assegnazione delle carte telefoniche e delle sigarette – si occupano gli operatori, che sono presenti a rotazione: 5 in orario diurno e 2 durante l’orario notturno. Il personale del Cara comprende inoltre due mediatori linguistico-culturali (di cui una italiana e uno camerunense), un’interprete di origine egiziana, un’assistente sociale e un animatore socio-culturale. Per le questioni di carattere organizzativo e per la supervisione del lavoro degli operatori, dell’équipe psicosociale e dei mediatori, il punto

co, le ricercatrici sono state condotte anche all’interno delle camerate e presentate a tutti i residenti.

3 Nel Cpa, fino al 2 marzo del 2009 (data della chiusura), venivano collocati i richiedenti asilo in attesa di risposta dalla Commissione Territoriale alla scadenza del periodo di permanenza previsto per legge nel Cara. Secondo i piani ministeriali, gli spazi del Cpa dovranno accogliere una nuova “zona” del Cie, da destinare forse all’utenza femminile. Al momento della ricerca, tuttavia, non era ancora stata decisa la destinazione d’uso definitiva dell’edificio, anche a causa della carenza strutturale di barriere di con-tenimento che ne rendono difficile la conversione immediata in struttura di tipo detentivo.

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di riferimento è il coordinatore, che opera parallelamente nel Cie e nel Cara e una volta al mese presiede le riunioni dello staff. Un medico e un infermiere, tra quelli che presiedono a turno l’ambulatorio medico del Cie, si recano inoltre nei locali del Cara tutti i giorni per un’ora per rispondere alle necessità più urgenti di carattere sanitario. Per quanto riguarda le collaborazioni con enti esterni, da marzo 2009, grazie a un finanziamento ottenuto all’interno di un progetto della rete Sprar, il Cir di Gorizia ha firmato un protocollo d’intesa con la Prefettura per l’autorizzazione all’uso dei locali per l’assistenza legale e il sostegno socio-psicologico. Il progetto prevede 30 ore alla settimana di assistenza legale e 15 ore di sostegno socio-psicologico, distribuite su 3 giorni. Due volte alla settimana entra inoltre nel Centro un rappresentante della chiesa metodista per l’assistenza spirituale agli ospiti e la celebrazione della messa, una sera in inglese per gli anglofoni e una in francese per i francofoni.

4.2 Le caratteristiche e i bisogni degli ospiti

Il CARA può ospitare fino a 138 richiedenti asilo, che presentano notevole varietà di provenienze nazionali, di percorsi di fuga e di arrivo in Italia, nonché di esperienze sul territorio precedenti l’ingresso in accoglienza. Le modalità con cui accedono al servizio sono essenzialmente tre:

a. l’invio dai Centri di Primo Soccorso e Accoglienza (Cpsa) di Lampedusa e Cagliari, che forniscono – nel tempo immediatamente seguente all’arrivo via mare – una prima assistenza per il tempo strettamente necessario al trasferimento in altri centri (entro 72 ore), durante il quale viene effettuata una rapida rilevazione dei bisogni (ad esempio cure mediche urgenti) e verificata l’intenzione di presentare domanda d’asilo;b. l’invio da parte delle Questure in cui viene presentata la domanda d’asilo, che può riguardare persone appena entrate in territorio italiano (spesso attraverso le frontiere terrestri) o che invece hanno vissuto per mesi, o anni, in condizione di “clandestinità”, in Italia o in altri paesi europei, senza conoscere la possibilità di accedere alla protezione internazionale;c. l’invio da parte di altri paesi europei dell’area Schengen in base al

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Regolamento Dublino II4, che prevede che lo stato competente per la domanda d’asilo sia il primo stato europeo dove il richiedente faccia ingresso.

Dalle modalità di accesso al Centro, e quindi dall’esperienza individuale di arrivo in Italia e di prima permanenza sul territorio, può dipendere, secondo gli operatori intervistati, il livello di adattamento e apprezzamento del servizio d’accoglienza. Nel tipo di relazione che viene a instaurarsi tra utenti e servizio assume infatti grande importanza l’insieme di desideri, bisogni, rappresentazioni e ambizioni di cui i richiedenti asilo sono portatori, e che possono variare anche significativamente in relazione al tempo e alle condizioni di permanenza sul territorio italiano. Può allora darsi la situazione in cui – come sostiene il mediatore – chi è arrivato da poco in Italia e si confronta con desideri e ambizioni più elevate, che non ha ancora ridimensionato, mostri un grado minore di adattamento al Centro e una maggiore disposizione alla critica rispetto a chi, invece, è passato attraverso una prima permanenza più o meno prolungata sul territorio, in condizioni di grave precarietà e privazione. L’intervistato, che ha sperimentato personalmente le difficoltà dei primi tempi successivi all’arrivo in Italia, esprime la convinzione che l’offerta di accoglienza rappresentata dal Cara sia di grande valore, sia come struttura alloggiativa, sia soprattutto per le possibilità d’assistenza offerte da un’équipe di specialisti. “Io stesso”, racconta, “ho dormito in case abbandonate, ho mangiato e dormito all’ostello della Caritas a Roma, con i matti... non riuscivo a dormire... questo per loro è molto di più: c’è lo psicologo, il mediatore, l’assistente sociale; chi è dovuto scappare, chi ha sofferto se ne accorge” (Int. 6).Le testimonianze dei richiedenti asilo confermano in parte questa rappresentazione. I due nigeriani intervistati, che attraverso percorsi differenti sono arrivati a Torino e hanno vissuto diversi giorni in strada o in sistemazioni molto precarie prima di presentare domanda d’asilo ed essere inviati al Cara, valutano il servizio – nel complesso – positivamente, evidenziando la disponibilità e la capacità di risposta del personale. Uno di loro afferma: “È bello che si incontrano persone da altre parti del mondo, ti fai dei nuovi amici… Poi gli operatori sono perfetti, sono

4 Il Regolamento n. 343/2003 del Consiglio Europeo del 18 febbraio 2003 (Dublino II) stabilisce criteri e meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo. Secondo il Regolamento, lo Stato membro responsabile è il primo dell’Unione Europea in cui il richiedente ha fatto ingresso.

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amichevoli… Lo staff fa un gran lavoro, perché è difficile accogliere persone che non conosci…” (Int. 32). Visioni simili emergono dall’intervista a un ghanese arrivato in Italia nel 2006 poi emigrato in Svezia e tornato successivamente come “caso Dublino”. Diversa invece la valutazione che proviene dall’intervistato curdo, accolto immediatamente dopo l’arrivo in un centro di Bolzano e poi trasferito al Cara di Gradisca. Nelle sue parole sono presenti valutazioni positive del servizio di assistenza, ma anche rilievi critici rispetto alle condizioni di accoglienza: “i bagni sono aperti e a noi questo dà fastidio. Nella stanza poi non c’è un armadio, c’è una specie di magazzino aperto…” (Int. 31). Più in generale, per quanto complessivamente benevole rispetto all’offerta di accoglienza, le valutazioni espresse dagli ospiti risentono della condizione di precarietà esistenziale e di sospensione in cui questi versano, legata alla procedura d’asilo, alla mancanza di mezzi di sostentamento e alla normativa sui tempi massimi di permanenza nei centri. Il desiderio di stabilità, la solitudine, la lontananza degli affetti li portano a criticare il Cara in quanto struttura, indipendentemente dalla validità del servizio quotidiano d’assistenza. “A me non piace il centro perché non è come una casa, è solo un posto per dormire…” (Int. 31), afferma un intervistato, mentre un altro esprime la difficoltà di vivere “tra quattro mura” (Int. 30), quindi in un luogo di pura permanenza, privo delle caratteristiche fisiche e affettive di un’abitazione. Nel Cara sono presenti, oltre a uomini singoli, che sono la maggioranza, anche donne singole e famiglie mono- o biparentali. Le nazionalità variano continuamente in corrispondenza ai nuovi ingressi e alle uscite. I gruppi più rappresentati, al momento della ricerca, erano quello pakistano e quello nigeriano. Vi erano inoltre richiedenti asilo del Bangladesh, dell’Afghanistan, dell’Armenia e di diversi paesi africani: Guinea Bissau, Ghana, Costa d’Avorio, Senegal, Sudan, Etiopia, Eritrea, Somalia. I bisogni espressi sono, secondo le testimonianze degli operatori, piuttosto simili nei diversi gruppi nazionali e riguardano prevalentemente l’assistenza socio-psicologica, quella legale e quella sanitaria. Il sostegno dell’assistente sociale e dello psicologo risulta di grande importanza nel percorso di elaborazione della storia da presentare alla Commissione, di preparazione al colloquio e, successivamente, di attesa della decisione. Sia il momento precedente la convocazione presso la Prefettura sia la fase successiva possono infatti generare nei richiedenti asilo forti stati

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ansiosi che richiedono attenzione da parte dell’équipe. I casi per i quali la decisione della Commissione risulta positiva sono una minoranza, circa il 30% secondo il dirigente dell’Area immigrazione Prefettura, ancor meno nella percezione dei richiedenti asilo intervistati. Per coloro che ricevono il diniego comincia una fase di ulteriore difficoltà: se intenzionati a proseguire nella procedura d’asilo devono presentare l’istanza sospensiva dell’espulsione e, se la ottengono, avviare le pratiche per il ricorso contro la decisione negativa. In questa fase diventa indispensabile l’assistenza legale, che viene attualmente assicurata dal Cir internamente e, esternamente, da avvocati che esercitano a Gorizia, scelti dalla lista del gratuito patrocinio.Per quanto riguarda le cure mediche, le richieste di cura più pressanti derivano dallo stress del viaggio, che nelle condizioni critiche in cui si svolge risulta gravemente debilitante. Le donne possono inoltre portare esigenze più specifiche connesse a problemi di tipo ostetrico-ginecologico, dovuti allo stato di gravidanza, o a violenze sessuali subite durante il viaggio. Come sarà meglio illustrato nel seguito, la risposta ai bisogni di salute è strutturata attraverso la collaborazione tra il Cara e i servizi dell’Asl territoriale.

4.3 La giornata nel Cara

La giornata degli ospiti del Cara comincia con la colazione servita in mensa, dopo la quale possono restare nel Centro o uscire. Dalle 8 alle 20 hanno infatti libertà di lasciare l’edificio senza altro obbligo che quello di segnalare il proprio allontanamento al centralino e alle Forze dell’ordine che controllano l’ingresso dell’intero complesso, mostrando il tesserino blu con numero di riconoscimento che serve loro per ogni attività quotidiana5.Nel Centro, spiega l’assistente sociale, “hanno a disposizione la sala lettura, il biliardino... o giocano a calcio, studiano, pregano... Non ci sono vere e proprie attività organizzate all’interno” (Int. 7). Tutti gli intervistati rilevano criticamente l’eccesso di tempo libero nel corso della giornata,

5 Chiedendo preventivamente l’autorizzazione alla Prefettura, l’allontanamento dal Centro può protrar-si fino a 24 ore, dopo le quali il mancato rientro causa la revoca della misura d’accoglienza. Può tuttavia essere richiesto l’allontanamento temporaneo per un massimo di 20 giorni, dopo i quali l’ospite viene reintegrato nella struttura senza variazioni.

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in cui possono insorgere negli ospiti stati d’ansia, paranoia, senso di persecuzione. “C’è stato un ragazzo somalo”, spiega una mediatrice, “che poi è stato spostato perché non si trovava un interprete, che sosteneva che tutti ce l’avevano con lui perché era somalo... era ossessionato dalle notizie dalla Somalia... Non fa bene a queste persone stare tutto il giorno buttati senza far niente, a dormire...” (Int. 8).Dall’esigenza di dare forma a delle attività internamente al centro è nata l’idea di introdurre la figura dell’animatore socio-culturale, che attualmente si occupa dell’organizzazione quotidiana di momenti aggregativi per gli ospiti, soprattutto di tipo sportivo. Secondo il coordinatore, il suo ruolo sarà valorizzato soprattutto nei mesi a venire, dopo l’assegnazione ufficiale dell’appalto avvenuta a marzo del 2009. Una prima attività destinata a rispondere, almeno in parte, alle richieste di maggiore organizzazione del tempo libero, è quella calcistica, che sarà meglio descritta nel seguito del capitolo e che vede impegnato un gruppo di ospiti in due allenamenti settimanali in un campo situato nei pressi della struttura. Un’altra attività prevista è l’apertura di una ludoteca nei locali interni, per i figli dei nuclei familiari ospitati, con una figura professionale dedicata all’animazione infantile. Nel corso delle interviste non è stata invece rilevata l’intenzione di avviare iniziative ricreative specifiche per le donne, che non partecipano di norma alle attività sportive.Molti ospiti dedicano parte della giornata alla preghiera. Per i musulmani è disponibile una sala apposita, mentre i cristiani di fede protestante (metodisti, pentecostali...) usano il locale destinato alla ricreazione per momenti di spiritualità collettiva, per lo più in presenta di un officiante della chiesa metodista di Gorizia. Quest’ultimo afferma di aver avuto nel 2008 il permesso per entrare nel Centro, perché “anche se molti vengono in chiesa, altri dicono che non hanno soldi per venire” (Int. 19). Dall’iniziativa congiunta della chiesa metodista e della parrocchia di Sagrado è nata inoltre l’iniziativa dell’insegnamento dell’italiano ai richiedenti asilo come strumento di integrazione; un corso che è stato dapprima gestito in forma volontaria da membri delle due istituzioni, in seguito trasformato in senso professionale, con il coinvolgimento di insegnanti del Centro Territoriale Permanente di Staranzano (GO). Il corso si svolge nel comune di Sagrado, a pochi chilometri di distanza, due volte alla settimana. Gli ospiti vi si recano a piedi, da soli o in piccoli gruppi, percorrendo la

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strada provinciale che conduce al ponte sull’Isonzo. Lunghi percorsi a piedi caratterizzano, in generale, le giornate dei richiedenti asilo fuori dal Cara. I loro itinerari comprendono, a Gradisca: l’area del centro commerciale di via Udine, a poca distanza, dove si trova un supermercato discount; la strada che conduce al paese; la piazza principale, che con le sue aiuole verdi e le panchine consente lunghe soste per leggere, chiacchierare o osservare il passaggio degli abitanti; il giardino pubblico adiacente. Molti si spingono fino a Gorizia, a Monfalcone o a Udine, con il treno e la corriera per lo più, ma anche in bicicletta o, almeno a Gorizia, che è la città più vicina, a piedi. “Vanno per il mercato o per incontrare l’avvocato, o solo per passare il tempo”, racconta l’assistente sociale, “alcuni a piedi perché non hanno i soldi per il treno e hanno paura delle multe”6 (Int. 7). Altri, meno timorosi, prendono i mezzi pubblici senza biglietto e vanno incontro al rischio di una multa, che talvolta viene comminata e recapitata al Cara. Chi esce per primo al mattino, può trovare una bicicletta disponibile tra quelle che sono depositate nello spiazzo antistante il Centro, che gli ospiti si sono procurati nel tempo e hanno abbandonato lasciando la struttura. A Monfalcone, dove si trova l’Agenzia delle Entrate, si recano per l’assegnazione del codice fiscale, mentre a Udine, come racconta un intervistato, si spingono talvolta per trascorrere alcune ore in un internet point.

4.4 Il servizio d’accoglienza e di assistenza legale

Secondo la visione dei responsabili della gestione congiunta del Cie e del Cara, il servizio offerto all’utenza, pur partendo da una medesima filosofia d’aiuto, trova esplicazioni molto differenti nei due contesti, per la natura medesima e gli scopi delle due istituzioni. Nelle parole del coordinatore, “c’è molta differenza tra i due Centri: nel primo ci si trova alla fine di un percorso, è il fallimento di un progetto; nel secondo si vive un nuovo inizio” (Int. 2). Le testimonianze dello staff del Cara confermano questa rappresentazione, per cui la diversa tipologia di ospiti implica una

6 Gli ospiti del Cara non dispongono di pocket money. Ricevono all’interno del Centro tutto l’occorrente per la pulizia personale, una scheda telefonica e le sigarette. Il fatto di non disporre di denaro proprio induce alcuni a chiedere l’elemosina fuori dal centro commerciale o per le vie di Gradisca. In passato è successo che qualcuno rivendesse le sigarette fornite in accoglienza, motivo per cui i pacchetti ven-gono ora distribuiti già aperti. Chi ha risorse proprie le riceve generalmente dalla famiglia attraverso le agenzie di money transfer.

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diversa modalità di relazione: “Con questi qui [del Cara] ci puoi lavorare, puoi costruire dei rapporti, dei progetti...”, chiarisce la mediatrice: “invece, che vuoi dire a uno che ha finito il suo percorso migratorio?” (Int. 8). Dati tali presupposti, il servizio può perseguire con maggiore coerenza e continuità temporale, rispetto al Cie, l’obiettivo dell’aiuto inteso come ascolto, rilevazione dei bisogni, risposta alle esigenze dei singoli. Innanzitutto viene messa in evidenza la necessità di orientare gli ospiti arrivati da poco in Italia al nuovo contesto, sia quello più ristretto del Centro sia quello più ampio del sistema-paese, attraverso un sostegno sia informativo sia sociale e psicologico: “Sono spaesati”, spiega l’assistente sociale, “vengono da paesi molto diversi dal nostro... devono innanzitutto essere orientati. Non hanno risorse, né economiche, né di altro genere. Hanno bisogno di un grande sostegno, anche psicologico” (Int. 7). Per questo l’assistenza sociopsicologica rappresenta una delle principali aree di intervento all’interno del servizio. Al momento della ricerca lo psicologo del Cie svolgeva un’attività di 24 ore settimanali nel Cara, ma l’intenzione dell’ente gestore, con l’avvio del nuovo appalto, è di integrare una seconda figura che si dedichi esclusivamente ai richiedenti asilo. L’assistente sociale è invece presente nel Centro sei giorni alla settimana e svolge un ruolo chiave per la presa in carico dei percorsi individuali degli ospiti.“Al principio”, racconta quest’ultima, “ho trovato un ambiente molto diverso. Lavoravo sia al Cara che al Cpa e c’erano persone che si trovavano in accoglienza anche da 8-9 mesi, in attesa dell’esito del ricorso o dell’appello” (Int. 7). A settembre e ottobre del 2008, nei primi mesi in cui l’intervistata è entrata in servizio, erano quindi superiori sia il numero degli utenti presi in carico, con la conseguente difficoltà di rispondere ai bisogni di tutti, sia i tempi medi di permanenza nelle strutture. Da novembre il servizio si è rinnovato con l’introduzione del limite massimo di permanenza a 6 mesi7, che, sebbene abbia comportato criticità importanti nel percorso di prima e seconda accoglienza dei richiedenti asilo8, l’assistente sociale valuta positivamente: “Gli ospiti ora sono meno stanchi, è possibile svolgere

7 Decreto legislativo n. 159 del 5 novembre 2008 (vedi capitolo 2).

8 Come si evidenzierà nel paragrafo successivo, il decadere della misura d’accoglienza alla fine dei 6 mesi previsti per legge, nelle condizioni di attesa prolungata in cui si svolge la procedura d’asilo, com-porta frequentemente l’abbandono della struttura prima della comunicazione dell’esito della domanda o del ricorso e, in tutti i casi, una grave precarietà abitativa ed economica dovuta alla difficoltà di arri-vare alla fine dei 6 mesi con un contratto di lavoro, soprattutto in presenza di un permesso temporaneo per richiesta d’asilo che può essere revocato in caso di diniego.

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un buon lavoro nei tempi previsti” (Int. 7). Il lavoro dell’assistente sociale consiste nell’effettuare colloqui (alla presenza di un mediatore) con i richiedenti asilo per conoscerne il percorso di fuga, la storia individuale e le eventuali esigenze specifiche rispetto all’accoglienza. È quindi sua cura predisporre interventi di sostegno specifico, in collaborazione con lo psicologo, nonché orientare alla fruizione dei servizi territoriali, in particolare di quelli sanitari. I richiedenti asilo possono infatti effettuare l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale e usufruire delle cure del medico di base. Ma, come conferma anche la mediatrice, non sempre l’orientamento ai servizi esterni risulta immediato, sia a causa di una distanza culturale dal “concetto stesso del medico di base”, sia per difficoltà pratiche: “alcuni faticano a trovare il posto, oppure non capiscono il perché si deve fare la fila...” (Int. 8). Per questo l’ambulatorio interno, che dovrebbe funzionare per le sole emergenze, nei fatti raccoglie una pluralità di richieste di cura. Secondo il medico responsabile, il dolore che lamentano è spesso frutto del disagio psicologico, un generico body pain, “che è più una richiesta di conforto”, a cui il medico di base non sa dare risposta anche a causa della carente conoscenza di una lingua veicolare: “Spesso i medici esterni chiamano il Centro per parlare con l’ambulatorio, perché non riescono a comunicare; di conseguenza alla fine il 99% li visito anch’io” (Int. 5).Un compito di cardinale importanza per l’assistente sociale è il coordinamento dell’assistenza legale con l’attività del Cir, che opera internamente, e con gli avvocati esterni. Con le operatrici del Cir viene effettuata la raccolta ed elaborazione delle storie degli ospiti in vista del colloquio con la Commissione Territoriale. “Fino ad oggi”, spiega la coordinatrice dell’ente goriziano, “prima che potessimo avviare questo servizio più frequente, 3 giorni alla settimana, nel Cara, prendevamo nota dei richiedenti asilo già ascoltati e ci confrontavamo con l’assistente sociale. Era importante per evitare la sovrapposizione di competenze. Lei riceveva i nominativi delle persone di cui avevamo già raccolto la storia, in modo che potesse ascoltare quelle mancanti” (Int. 23). A partire dall’avvio del progetto Sprar (gestito da Provincia di Gorizia, Cir e Caritas) l’assistenza legale sarà assicurata interamente dal Cir. Il contatto con gli avvocati del gratuito patrocinio diventa invece indispensabile nella fase successiva alla risposta della Commissione, nei numerosi casi in cui, in seguito alla risposta negativa, viene presentato ricorso al tribunale ordinario. Nei

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rapporti con i legali, come in quello con i medici, la scarsa conoscenza di lingue veicolari da parte dei professionisti rappresenta un problema per i richiedenti asilo. Per questo, come afferma la mediatrice, “c’è un filo diretto con l’assistente sociale” (Int. 8). Dalle interviste emergono, oltre alle visioni positive dei membri dello staff rispetto al servizio di accoglienza e assistenza, anche importanti criticità che riguardano, in massima parte, variabili difficilmente controllabili nel lavoro interno di gestione, su cui tuttavia spetta all’organizzazione garantire una costante capacità di risposta. Vi è, innanzitutto, una dimensione di lavoro sull’emergenza rispetto a cui la programmazione degli interventi risulta sempre insufficiente. Non solo ogni ospite può portare al servizio problematiche diverse e inaspettate, ma le situazioni critiche possono richiedere reazioni rapide e, per molti versi, estemporanee. “Lavorando sempre sull’emergenza perdi la percezione dell’irrisolvibilità”, afferma la mediatrice, “tutto si può risolvere. Succede che a una donna appena arrivata si rompano le acque davanti a te, allora ti chiedi: cosa mi dice il buon senso? E agisci” (Int. 8). Il rischio è che si sviluppi un’abitudine all’improvvisazione, una dimensione su cui si rende necessaria un’azione di costante supervisione del servizio e della relativa flessibilità delle risposte. La criticità più frequentemente rilevata, sia dal personale del Centro sia dagli ospiti, è tuttavia quella dei tempi d’esame delle domande da parte della Commissione. A Gorizia pervengono tutte le domande del Triveneto: “un numero esagerato” (Int. 13) secondo il dirigente dell’Area immigrazione della Prefettura. Vengono effettuati 15 colloqui al giorno, per un totale di 420 domande esaminate al mese. Dal colloquio alla decisione passano 15 giorni, ma quest’ultima dev’essere successivamente notificata alla Questura e quindi al richiedente. I due mesi che in media richiede l’esame della domanda si estendono quindi ulteriormente nella fase di notifica e, in caso di esito negativo e presentazione del ricorso,

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nell’attesa del pronunciamento del Tribunale9. Non sono rari, quindi, i casi in cui il diritto alla misura d’accoglienza decade, per gli ospiti, prima della conclusione dell’iter della domanda.

4.5 I percorsi di integrazione sociale e le reti territoriali

Il limite massimo di permanenza dei richiedenti asilo nel Cara – come abbiamo già visto – è stabilito per legge a 6 mesi, dopo i quali, qualora la procedura d’esame della domanda o del ricorso sia ancora in atto, ottengono l’autorizzazione al lavoro. Il legislatore assume quindi che, a partire dallo scadere della misura d’accoglienza, il richiedente possa mantenersi autonomamente. La ricerca svolta all’interno del Cara, sul territorio della provincia di Gorizia e all’interno delle reti territoriali degli enti che svolgono attività di integrazione e seconda accoglienza, rivela tuttavia una realtà distante da simili previsioni. La prima difficoltà è infatti data dal reperimento di una sistemazione alloggiativa in mancanza di disponibilità finanziarie, e la seconda dall’inserimento in un mercato del lavoro già di per sé contratto, secondo le testimonianze, e comunque difficilmente accessibile a stranieri con un permesso temporaneo che potrebbe decadere con la notifica dell’intimazione a lasciare il territorio qualora la procedura si concludesse con esito negativo.Gli operatori del Cara intervistati vedono, in queste condizioni, la necessità di lavorare sull’integrazione potenziando la sinergia con gli altri attori territoriali. Come spiega il coordinatore, “bisogna innanzitutto attivarsi per trovare strutture in cui si possa proseguire l’accoglienza dopo i 6 mesi. Gli altri attori locali devono imparare a vedere in Connecting People un interlocutore. La soluzione migliore sarebbe l’accoglienza in piccoli numeri. Un’associazione di donne, per esempio, ha accolto una nostra ragazza” (Int. 2). Quello che viene quindi auspicato è il potenziamento del “modello

9 Secondo il dirigente dell’Ufficio Immigrazione di Gorizia, “normalmente i richiedenti asilo politico pre-sentano ricorso avverso il provvedimento negativo” (Int. 14) e il processo presso il tribunale distrettuale può durare dai 6 ai 12 mesi. A fronte dell’avvio della procedura di ricorso, continua l’intervistato, “solo in una esigua percentuale di casi il tribunale dispone la [...] sospensiva cautelare del provvedimento impugna-to, garantendo allo straniero l’ulteriore protrazione della permanenza sul territorio nazionale”. Ciò significa che nel lungo arco di tempo che intercorre tra la notifica del diniego con presentazione del ricorso e la conclusione dell’iter giuridico, i richiedenti asilo, sia quelli che provengono dal Cara sia quelli che risie-dono in al di fuori dei centri d’accoglienza, dovrebbero per legge ottemperare all’ordine d’espulsione e attendere l’esito al di fuori del territorio nazionale; se restano sul territorio, scaduto il permesso per richiesta d’asilo, subentra per loro la condizione di irregolarità.

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Sprar”, con la messa a disposizione di alcuni posti per la seconda accoglienza da parte dei Comuni del territorio. Attualmente invece la Caritas locale rappresenta l’unico riferimento per i richiedenti asilo che escono dal Cara.Un edificio dell’organizzazione religiosa è infatti stato adibito, a partire dal 2001, all’accoglienza dei richiedenti asilo provenienti, per lo più, dall’Asia e il Medioriente. Allora si trattava di invii effettuati dalla Questura che riceveva le domande d’asilo: tra il 2001 e il 2005 sono state accolte 14.000 persone, in transito verso altre città d’Italia. In seguito la struttura è stata chiusa, per essere riaperta nell’estate del 2007, su invito del Prefetto, per accogliere i numeri crescenti di richiedenti asilo presenti sul territorio. A partire dall’apertura del Cara sono stati tentati alcuni trasferimenti a Gradisca, ma non essendoci priorità nell’inserimento sulla base di criteri territoriali questi sono risultati sempre difficili. Al contrario – come racconta il presidente della Caritas goriziana – a partire dal novembre del 2008, con l’introduzione del limite di 6 mesi, è stata la Caritas a dover far fronte all’emergenza abitativa dei richiedenti asilo privi di risorse provenienti dal Cara. Attualmente la struttura goriziana ospita più di 100 persone, pur contando una disponibilità di soli 42 posti. Un numero di posti molto inferiore (19) sarà quello offerto dal progetto Sprar della Provincia di Gorizia, avviato nel 2009, che vede partner il Cir per i servizi legali e la Caritas per l’accoglienza. Sul territorio regionale lo Sprar finanzia inoltre i progetti di Codroipo (Udine), con 18 posti, Pordenone, 25 posti, Trieste, 45 posti, e Udine, 45 posti10. Complessivamente si tratta di un’offerta d’accoglienza non solo numericamente insufficiente rispetto alla domanda, ma, come sottolinea la coordinatrice del Cir di Gorizia, anche difficilmente accessibile sulla base di criteri territoriali. Per la prosecuzione dell’accoglienza sarebbe opportuno infatti il trasferimento di ospiti del Cara di Gradisca a strutture ubicate nella provincia di Gorizia o in quelle confinanti, ma un simile processo è ostacolato dal fatto che i centri Sprar rispondono a una gestione centralizzata a livello nazionale.La seconda questione che richiede l’attivazione di risorse e di reti è, come anticipato, l’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo, dai quali l’attuale sistema si attende il raggiungimento di un’autonomia economica

10 Vedi capitolo 1

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a partire dal sesto mese dalla presentazione della domanda, anche in assenza di una risposta sull’esito. Come afferma l’officiante della chiesa metodista che assiste gli ospiti: “il fatto che il periodo di attesa della risposta si allunghi ha un aspetto negativo, che è appunto il fatto che restino a lungo in attesa, ma di positivo ha che, potendo chiedere una proroga fino a 6 mesi nel centro possono fare più cose. Ed è un’occasione che dev’essere colta per cercare dei percorsi di formazione e integrazione” (Int. 19).Per quanto riguarda la formazione, oltre all’alfabetizzazione in lingua italiana, su cui il Comune di Sagrado – grazie all’iniziativa della parrocchia e della chiesa metodista di Gorizia – ha avviato un progetto in convenzione con Connecting People e il Centro Territoriale Permanente di Staranzano, che prevede 4 ore di insegnamento settimanale, sono stati attivati contatti e iniziative con le agenzie di formazione e orientamento del territorio per la predisposizione di corsi ad hoc o l’inserimento degli ospiti del Cara in percorsi professionali già esistenti. Il mediatore del Centro ha raccontato l’esperienza di un corso d’informatica organizzato dallo Ial di Monfalcone, a cui è stato inviato un gruppo di richiedenti asilo, con il sostegno dell’Anolf-Cisl. L’iniziativa si è rivelata difficile da riprodurre per la mancanza di fondi, necessari a coprire le spese di 70 euro ad allievo più i soldi per il trasporto. Inoltre i corsi sono spesso organizzati in 100 ore distribuite su due appuntamenti alla settimana, per una durata complessiva di circa 4 mesi, comportando il rischio, per alcuni allievi, di interrompere la formazione per lo scadere del periodo d’accoglienza o per altri imprevisti. “Dovrebbero essere corsi ad hoc, concentrati in un tempo breve”, conclude il mediatore (int. 6). I trasporti costituiscono, secondo le testimonianze, un limite concreto nell’inserimento degli ospiti in percorsi professionali a Gorizia, Udine o Monfalcone. Non solo si tratta di una spesa che non è attualmente prevista nel bilancio del Centro, ma anche a livello logistico si avverte la necessità di favorire la mobilità attraverso l’avvicinamento dei percorsi delle corriere. Il coordinatore del Centro, che mette in evidenza la stessa problematica anche rispetto all’organizzazione di nuovi corsi di italiano con lo Ial, mediante finanziamenti del Fondo Sociale Europeo, dichiara l’intenzione da parte di Connecting People di pervenire a un accordo con l’agenzia dei trasporti locale, attraverso la Prefettura, per far dislocare una fermata dell’autobus in prossimità del Cara. Al momento della ricerca le proposte d’avvio di nuove attività formative erano quindi

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ancora in discussione.Un ultimo settore d’intervento, rispetto a cui si è rivelata strategica l’esistenza di una rete di soggetti esterni disponibili a forme di collaborazione, è l’integrazione sociale nel territorio. Singoli individui e organizzazioni della cittadinanza (di Gradisca, Sagrado e Gorizia) hanno saputo cogliere l’esigenza, espressa sia dall’ente gestore sia dagli enti locali, di creare al di fuori dagli spazi del Cara dei momenti di socializzazione. L’iniziativa più importante in questa direzione è quella promossa dal Comune di Gradisca e il Coni provinciale, in collaborazione con la società calcistica Itala San Marco, per la formazione di una squadra di calcio di richiedenti asilo, seguiti settimanalmente da allenatori professionisti. L’attività è cominciata nel mese di marzo del 2009. Prima di allora l’Itala San Marco aveva già intrapreso iniziative a favore degli ospiti, mettendo a disposizione un mezzo di trasporto per portarli ad assistere alle partite della squadra, nonché agli allenamenti della nazionale di calcio nell’estate del 2008. Altre idee, che provengono dalla giunta e dal parroco di Sagrado, riguardano l’inserimento dei richiedenti asilo nelle attività giovanili organizzate dal Comune, a contatto con i loro coetanei italiani, per favorire la reciproca conoscenza.

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5.1 Fuori dal Centro: un’indagine tra la popolazione

Al di fuori del perimetro del Cie e del Cara, la ricerca ha esplorato le rap-presentazioni sociali e le diverse valutazioni che informano le relazioni tra le comunità locali e “gli stranieri”, attraverso interviste semi-strut-turate con testimoni chiave quali referenti delle istituzioni, del mondo associativo, commerciale, dei mass media1.Per la sociologia e la psicologia sociale, le rappresentazioni e gli stereoti-pi sono risorse cognitive che si formano all’interno della comunicazione interpersonale e sociale, e che vengono utilizzate dagli individui, spesso involontariamente, per orientarsi nel mondo circostante. Costituiscono delle risposte, individuali o sociali, alla complessità del reale, in cui viene avvertita la necessità di mettere ordine con classificazioni e categorie. Nella ricerca-azione svolta, l’interesse era quello di indagare le forme di rappresentazione relative ai gruppi sociali che si differenziano per caratteristiche somatiche, linguistiche, religiose e culturali: appunto, i migranti e i richiedenti asilo che vivono sul territorio. L’altro elemento cardine dell’indagine è stata l’osservazione delle autorappresentazioni del collettivo intervistato rispetto agli atteggiamenti rivolti all’accoglien-za o all’esclusione dello straniero.Nella prima parte dell’intervista è stato chiesto ai testimoni di offrire, a

1 La lista degli intervistati è in allegato con indicazione dei nomi, ruoli ed enti di riferimento. Le inter-viste sono state effettuate in numero quasi pari a Gradisca e nei comuni limitrofi (9 interviste), ovvero l’area più direttamente interessata dalla presenza del Cie/Cara, e a Gorizia (10 interviste).

5. Rappresentazioni sociali degli immigrati e dei richiedenti asilo di Giorgia Serughetti

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partire dalle proprie conoscenze e percezioni, un quadro del fenomeno migratorio sul territorio in cui vivono, esprimendo le proprie opinioni in merito alla presenza di migranti e richiedenti asilo e alle prospettive dell’accoglienza e dell’integrazione. Gli stessi sono stati inoltre sollecita-ti a ripercorrere le vicende dell’emigrazione che ha coinvolto gli abitanti del Friuli Venezia Giulia – e in particolare della provincia di Gorizia – po-nendole in relazione con il presente immigratorio che investe lo stesso territorio, e con gli atteggiamenti di apertura o chiusura verso gli stra-nieri della comunità locale. Parallelamente, sugli stessi temi sono stati intervistati alcuni degli ospiti del Cara, dei quali interessava conoscere le impressioni derivate dalle loro personali esperienze sul territorio di Gradisca rispetto a questi stessi temi. Nel capitolo presente vengono quindi illustrate rappresentazioni, posi-zioni e atteggiamenti espressi dai testimoni chiave – rispettivamente di Gradisca e di Gorizia – sull’immigrazione nel territorio, per poi presen-tare un confronto con le visioni rispetto al territorio e alla popolazione che emergono dalle interviste con quegli stranieri che popolano non solo i luoghi ma anche l’immaginario delle collettività che ospitano il Cara e il Cie.

5.2 Le rappresentazioni dello straniero

La ricerca muove dalla consapevolezza, da un lato, della generale caren-za di informazioni di qualità sui fenomeni migratori e sull’asilo politico al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, dall’altro della forza delle immagini mediatiche dell’immigrato, frequentemente schiacciate sulla figura del “clandestino”, e del richiedente asilo, di norma sovrapposte a quelle del migrante economico. Per questo è bene valutare adeguata-mente la relazione tra le rappresentazioni e valutazioni del fenomeno mi-gratorio e i ruoli sociali degli intervistati, i quali solo in alcuni casi sono appunto “addetti ai lavori” mentre in molti altri riferiscono impressioni raramente derivanti da esperienze dirette. I testimoni possono essere ricondotti a quattro categorie:

a. referenti politico-istituzionali;b. rappresentanti di enti e associazioni che si occupano di immigra-zione e asilo;

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c. rappresentanti di enti e associazioni culturali e ricreative locali;d. rappresentanti del tessuto commerciale e imprenditoriale locale.

Un’altra distinzione necessaria nell’analizzare le testimonianze raccolte riguarda i territori in cui è stata effettuata la rilevazione, ovvero a Gorizia, da una parte, e a Gradisca e i comuni limitrofi dall’altra. Il Friuli Vene-zia Giulia è una regione fortemente differenziata al suo interno rispetto alle caratteristiche socio-economiche e culturali dei vari territori. Anche all’interno della stessa provincia vengono infatti colte dagli intervistati importanti peculiarità locali che derivano dalla storia convulsa di guerre e spostamenti delle popolazioni che ha segnato per secoli questa terra di confine. Come afferma un intervistato: “la differenza si coglie anche tra una sponda e l’altra dell’Isonzo. Al di là dell’Isonzo (da Sagrado verso Monfal-cone e Ronchi dei Legionari) si trova la Bisiacaria, una regione dove si parla il dialetto bisiaco, che tende a gravitare più su Trieste. Mentre la zona di qua dall’Isonzo, Cormons ecc., è per molti versi più vicina a Udine, è una zona più friulana” (Int. 26). Molto differenziate appaiono anche le capacità produttive e di assorbimento di manodopera, come risulterà dal seguito del capitolo. Si tratta, secondo le testimonianze, di un territorio fram-mentato culturalmente e linguisticamente, che in quanto tale richiede un particolare riguardo per le appartenenze locali.

5.2.1 L’immigrazione sul territorio

Gradisca: immigrati “storici” e nuove presenze Dalle risposte degli intervistati emergono, da un lato, rappresentazioni che possono essere ricondotte al vissuto peculiare della comunità locale, dall’altro immagini stereotipate dello straniero che derivano talvolta più genericamente dalle modalità di raffigurazione dell’immigrato nei mezzi di comunicazione di massa.Nelle testimonianze si legge la percezione di una netta distinzione tra un “prima” e un “dopo”, in cui lo spartiacque è costituito dalla creazio-ne del Cpta. Il periodo precedente all’apertura del Centro viene rappre-sentato mediante connotazioni positive, come una fase di convivenza pacifica in cui l’immigrazione, data la dimensione numericamente con-tenuta del fenomeno, non presenta caratteri di problematicità. Nel rac-conto dell’assistente sociale del Comune, le prime famiglie sono arrivate all’inizio degli anni ’90 dall’Africa e dall’ex Yugoslavia, inserendosi senza

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conflitti nel tessuto sociale del paese. Un rappresentante dell’associa-zione culturale Mattatoio Scenico sintetizza l’immigrazione passata con le figure di “Mimmo-Mohammed, il marocchino del paese”, capofamiglia di uno dei primi nuclei di origine africana arrivati a Gradisca, e degli slavi, che definisce i “vicini di casa” (Int. 24), da sempre considerati parte del tessuto sociale e lavorativo locale. Di questi “vecchi immigrati” vengono messi in rilievo da diversi intervistati il livello elevato di integrazione lin-guistica e l’assimilazione ai modelli comportamentali locali: i figli vanno a scuola e parlano con l’accento isontino, ma anche gli adulti, secondo una commerciante, “non si distinguono granché dagli italiani: si vestono bene, parlano bene l’italiano, neanche te ne accorgi che sono stranieri se non te lo dicono!” (Int. 28). Questo ovviamente vale, in particolare, per gli stranieri che non si differenziano molto dai locali per il colore della pelle. E sebbene siano menzionati tra i primi migranti anche nuclei familiari della Mauritania, viene per lo più rimossa, dagli intervistati, l’esistenza di una componente “nera” dell’immigrazione precedente all’apertura del Centro, in particolare del Cara. Dalla prima lettura delle testimonianze emerge chiaramente la tenden-za, indotta dagli avvenimenti successivi che hanno interessato il terri-torio, a ripensare il passato sotto l’egida della tranquillità. Il sindaco in particolare, in base a una rappresentazione molto personale della storia migratoria del territorio, descrive con rimpianto una cittadina “comple-tamente priva di immigrazione, a differenza di altri territori della provincia, dove erano arrivati da tempo gli immigrati dell’Est” (Int. 10); un territorio tranquillo, ricco di bellezze paesaggistiche e di storia, rimasto ai margini dei flussi delle popolazioni dell’Est e del Sud del mondo che hanno inte-ressato invece in maniera significativa le regioni del Nord Est negli ultimi decenni. Ma anche chi ricorda l’arrivo dei primi migranti, come l’assi-stente sociale e i rappresentanti del mondo delle associazioni e del com-mercio, rileva la cesura intervenuta a partire dalla decisione ministeriale di stabilire nel piccolo comune il Centro per migranti e richiedenti asilo. “Il primo, vero contatto con l’immigrazione”, afferma il presidente della società sportiva gradiscana, “è avvenuto con il Centro” (Int. 25). Da allora la componente straniera sul territorio è cresciuta di numero e, secondo gli intervistati, ha cambiato pelle. Nelle testimonianze raccolte, infatti, la trasformazione ha la pelle nera. “Fino a 1-2 anni fa non si vedeva un nero in giro” (Int. 29), afferma un

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commerciante. I tratti somatici dei nuovi stranieri li rendono, secondo gli intervistati, portatori di una diversità più profonda, diversa da quella considerata “naturale” degli immigrati del passato rispetto alla popo-lazione locale. Una commerciante sottolinea, per esempio, la distanza nei costumi: “Gli africani con le ‘tende’ addosso fanno un effetto strano, le mamme con la fascia e il bambino al collo…” (Int. 28). Una diversità che dà luogo anche a imbarazzi linguistici: gli stranieri di pelle nera vengono de-finiti “negri”, “negretti”, “di colore”, “neretti”, “neri”, attingendo al vasto arsenale di forme che ripercorre la storia del politically correct. Risulta chiaro l’effetto indotto dal numero: l’arrivo improvviso sul territorio di un gruppo consistente produce una sensazione di invasione e proces-si di stereotipizzazione come forma di ordinamento del reale. D’altro canto, tuttavia, non va sottovalutata l’influenza delle immagini televisive sugli sbarchi a Lampedusa, delle imbarcazioni cariche di “clandestini” di pelle nera, che spingono a vedere nei gruppi ospitati nei Cara una pro-paggine di fenomeni più vasti e inquietanti, incluse le connessioni con la criminalità organizzata. Nella descrizione dello scenario migratorio non viene effettuata dagli intervistati una chiara distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo; lo stesso Centro viene compreso come un’entità unica, sebbene le modalità di relazione del Cie e del Cara con il territorio varino am-piamente, come si è visto nei capitoli precedenti. Il “nero” del Cara, so-prattutto dagli intervistati meno informati, viene così posto, in posizione preponderante, accanto a una pluralità di gruppi di immigrati percepiti come sempre più numerosi e invadenti. “Ci sono molte altre provenienze: albanesi, rumeni, nord africani...” (Int. 27), spiega un commerciante; e un altro, in toni più allarmati, “È pieno, vengono da tutto il mondo!” (Int. 29). Tuttavia, i contatti diretti tra gli intervistati e questi gruppi risultano piuttosto scarsi, se è vero che, come tutti loro mettono in luce, non è a Gradisca che gli immigrati cercano e trovano lavoro, ma nella vicina Villesse, dove hanno sede alcune medie imprese della provincia, o più lontano, soprattutto nei comuni di Manzano e San Giovanni al Natisone, denominati (insieme a Corno di Rosazzo) il “Triangolo della sedia” per l’elevata densità di industrie del mobile. Emerge, dunque, la sovrapposizione di dimensioni diverse: l’impatto del Centro; la trasformazione più generale della demografia del territorio, che vede aumentare, come in tutta Italia, la popolazione migrante; l’in-

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fluenza delle rappresentazioni televisive, che portato a colorare di toni allarmistici la presenza degli stranieri. È tuttavia da notare – a fronte del binomio immigrazione-sicurezza che domina da anni il discorso pubblico – lo scarso riferimento che fanno gli intervistati, sia i rappresentati delle istituzioni, sia gli attori locali che esprimono visioni “dal basso”, a problematiche connesse alla sicurezza sul territorio, quindi a episodi di microcriminalità. Ciò proprio in virtù del fatto che il territorio, anche per la presenza massiccia di Forze dell’or-dine che ruotano intorno al Cie, non è toccato in generale da frequenti episodi di furti, rapine o aggressioni. I rilievi critici sugli immigrati sono soprattutto legati al fatto che alcuni “non vogliano lavorare” (Int. 30), e sono, non a caso, riferiti ai rumeni, che hanno subito negli anni più recenti un processo di forte stigmatizzazione mediatica. Mentre, come vedremo, i “neri” vengono additati soprattutto per comportamenti pub-blici ritenuti oltraggiosi del decoro urbano. Infine, per quanto riguarda la componente femminile, è interessante ri-levare il riproporsi, nelle interviste ai testimoni gradiscani, di una du-plice rappresentazione, che ricorre di frequente nella caratterizzazione comune delle donne migranti. Da una parte le ucraine, le rumene e le polacche che fanno le “banconiere” o le “badanti”, vengono rappresen-tate come una forza lavoro importante, se non indispensabile, “nel nostro che è il paese dei pensionati” (Int. 29), e come donne intraprendenti che suppliscono talvolta alla carenza di personale, per esempio “facendo so-stituzioni per ferie nella casa di riposo” (Int. 16). Dall’altra parte le africane vengono percepite come sottomesse al volere del marito e ridotte al ruolo di madri: “In alcune culture la donna non è che sia molto rispettata... fanno un sacco di figli, anche se vivono qui e acquisiscono i nostri costumi… fanno minimo quattro figli” (Int. 16).La difficoltà che alcune testimonianze esprimono rispetto all’accettazio-ne della diversità si estende fino a comprendere l’antica ostilità verso i “meridionali”, attualmente rappresentati dai napoletani e dai siciliani che si trasferiscono nella vicina Monfalcone al seguito delle imprese che vincono gli appalti dei cantieri navali. Questi sono talvolta dipinti come persone “maleducate, che mancano di rispetto” (Int. 30), secondo sche-mi rappresentativi che provengono anche dal passato e che peraltro, a Gradisca e nella provincia di Gorizia, hanno caratterizzato lungamente i rapporti della popolazione locale con i numerosi gruppi di militari del

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Sud di stanza nelle caserme sul confine. “Prima c’erano 1500 militari a Gradisca e anche allora nascevano problemi”, racconta un intervistato: “durante la libera uscita si riversavano un migliaio di ragazzi sulla piazza e… c’è sempre il cretino… io so cosa vuol dire, l’ho fatto anch’io il militare!” (Int. 27).

Gorizia: dal transito all’integrazioneIl gruppo degli intervistati di Gorizia, diversamente da quello di Gradisca, si compone in gran parte di attori locali che, per il ruolo professionale rivestito, o per l’esperienza personale sviluppata nell’associazionismo e nel lavoro sociale, mostrano una conoscenza approfondita dell’universo migratorio locale2. Secondo le testimonianze, Gorizia, transfrontaliera da sempre, vive la doppia identità di storica città di transito e città multiet-nica in formazione. A differenza del piccolo comune di Gradisca, vissuto lungamente al riparo dalle trasformazioni più rilevanti della demografia del territorio, nonché dal transito quotidiano di stranieri attraverso il confine, Gorizia ha assistito alle fughe di popolazioni dai Balcani, all’at-traversamento quotidiano della frontiera da parte di gruppi provenienti da ogni parte del mondo, nonché alle trasformazioni derivanti dall’in-gresso della Slovenia nell’Unione Europea e alla “caduta del confine”. Anche tra i testimoni goriziani è quindi presente la percezione di un “pri-ma” e di un “dopo”, che non coincide tuttavia con la creazione dell’ex Cpta, ma con l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea e nell’area di libera circolazione di Schengen.La visione dell’evoluzione del fenomeno migratorio a Gorizia è, per molti aspetti, antitetica rispetto a quella di Gradisca. Nelle interviste viene infatti rappresentato un passato della città in cui, come racconta un membro di Radio Gorizia 1, “l’attraversamento del confine era sotto gli occhi di tutti” (Int. 21), in cui ogni giorno uomini e donne, provati da lunghi viaggi, percorrevano la via che conduce dal confine alla stazio-ne dei treni. Questo transito viene descritto, dallo stesso intervistato, come un “commercio di carne umana, per le pulizie o per il lavoro edilizio”,

2 Sono stati intervistati: un consigliere comunale con esperienza di coordinamento di una struttura d’accoglienza per stranieri; l’ex assessore regionale all’istruzione, cultura, sport e pace che è stato pro-motore della legge regionale sull’immigrazione n. 5 del 2005; il dirigente dell’Area immigrazione della Prefettura; il dirigente dell’Ufficio immigrazione della Questura; la rappresentante dell’associazione di donne immigrate Rosa dei Venti; il direttore della Caritas locale; la coordinatrice del Cir; due giorna-listi dell’emittente locale Radio Gorizia 1; il vicepresidente della sezione provinciale dell’Associazione Commercianti (Ascom).

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con un’espressione che richiama, forse involontariamente, le attività di import-export illegali che si svolgevano attraverso il confine ai tempi della “cortina di ferro”. Tuttavia Gorizia, sebbene fino al 2004 abbia conosciuto i flussi migratori come una parte integrante dello scenario urbano, non si è trasformata in una città d’immigrazione in misura analoga ad altre città del Triveneto. Come spiega un consigliere comunale, l’immigrazione c’è ma “non c’è paragone rispetto, per esempio, a Verona: non ci sono grandi comunità, solo piccoli numeri di stranieri” (Int. 12). Le testimonianze concordano sulla rappresentazione di una popolazione immigrata numericamente conte-nuta, in massima parte regolare e ben integrata nel sistema territoriale. In particolare, da parte di chi da anni è impegnato nella promozione culturale degli stranieri, vengono valorizzate anche la ricchezza di saperi e talenti delle componenti immigrate “tantissime risorse provengono dagli stranieri: ci sono scrittori, artisti… Ci sono laureati che fanno i camerieri… Abbiamo anche donne talentuose tra le straniere” (Int. 22). Per quanto riguarda invece il movimento di transito delle persone at-traverso la città, la “scomparsa” della frontiera ha causato, secondo gli intervistati, la riduzione del flusso visibile di stranieri. L’area del confine non è più molto frequentata, forse perché, come suggerisce un testi-mone, “la grande presenza di polizia ed esercito scoraggia gli irregolari a fermarsi” (Int. 11). Inoltre, dalle rappresentazioni del fenomeno emerge un senso di impoverimento della capacità attrattiva della città, che, se nel passato ha costituito più un luogo di passaggio che di permanen-za, attualmente pare aver perso sia il ruolo di confine sia quello, che è sempre stato secondario, di centro economico: secondo il direttore della Caritas goriziana, “qui non restano perché non trovano lavoro, perché non c’è un’effettiva domanda di manodopera” (Int. 15). La rilevazione di problematiche connesse alla presenza di migranti eco-nomici viene trasferita dagli intervistati su altri territori della provincia, in primo luogo Monfalcone, polo d’attrazione dell’operaiato migrante dove vengono indicate incidenze elevate della popolazione straniera e relative difficoltà di gestione della diversità culturale e dei rischi di esclu-sione sociale. Un responsabile dell’emittente radiofonica locale indica apertamente l’idea che esistano “limiti“ nella capacità di assorbimento della presenza migratoria da parte di un territorio: “Ci sono comuni che secondo me hanno ormai oltre il 10% di immigrati, è una soglia critica. È

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difficile l’integrazione se non ci sono servizi!” (Int. 21). È da notare tuttavia che anche a Gorizia, come a Gradisca, gli inter-vistati tendano a negare o minimizzare, per quanto riguarda l’intero territorio della provincia, l’esistenza di problemi di sicurezza connessi all’immigrazione. La direttrice di Radio Gorizia 1 mostra una chiara con-sapevolezza, anche per la sua conoscenza dall’interno dei meccanismi dell’informazione, dell’esagerazione prodotta dai media locali dei rari episodi di criminalità che coinvolgono gli immigrati, cui non fa riscontro un effettivo problema di sicurezza della popolazione locale: “Il territorio non ha grandi problemi in questo senso. È chiaro che fa notizia sempre il fatto negativo, le evasioni dal Cie per esempio. Ma fondamentalmente se c’è paura è solo perché non c’è conoscenza” (Int. 20). Un altro intervistato nota come la percezione dell’insicurezza vada disgiunta dalla presenza degli immigrati e connessa alla crisi economica o ai “ben altri problemi” comportati dall’apertura del confine, come il rafforzamento delle reti della malavita organizzata: “Gli immigrati rischiano di diventare il capro espiatorio di problemi ben più grandi!” (Int. 26).

5.2.2 La presenza dei richiedenti asilo

Gradisca: ospite, nero o immigrato?A Gradisca d’Isonzo la presenza di richiedenti asilo provenienti da paesi dell’Africa e dell’Asia viene rappresentata come un fenomeno univoca-mente connesso alla creazione del Cara e, come si è visto nel paragrafo precedente, fatta coincidere con una nuova fase migratoria, caratterizza-ta dalla presenza di stranieri di pelle nera, seguita alla serena convivenza della popolazione locale con piccoli gruppi di immigrati ben integrati socialmente e culturalmente. Tra gli intervistati di Gradisca emerge tut-tavia raramente la conoscenza delle problematiche specifiche connesse alla condizione di chi chiede asilo. Il discorso che circoscrive la figura del richiedente asilo si muove, per lo più, tra l’immagine dell’ospite del Cara, quella del “nero” e quella dell’immigrato tout court. Il sindaco, per esempio, rappresenta i richiedenti asilo che si muovono sul territorio di Gradisca negli stessi termini problematici con cui dipin-ge l’esistenza del Cie e del Cara. Nella sua testimonianza emerge una netta contrarietà al Centro che finisce per convergere con una descrizio-ne allarmistica della presenza degli ospiti nei luoghi della città: assem-

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bramenti di stranieri, specialmente uomini, che provocano inquietudine tra la popolazione.Inoltre, questa ed altre testimonianze, insistono sulla diversità di costu-mi e atteggiamenti, riproducendo uno stigma dei comportamenti degli ospiti che, come si vedrà più diffusamente nel capitolo 6, è alla base dell’avversione di molti intervistati alla presenza del Cara sul territorio. “Hanno comportamenti inaccettabili”, afferma il sindaco, “lasciano rifiuti, fanno i loro bisogni in giro…” (Int. 10). E un’altra intervistata, commer-ciante, aggiunge: “Non fanno la fila, spingono, escono dal supermercato e non pagano. La gente si prende paura perché si ubriacano davanti al di-scount…” (Int. 28).Come si può notare si tratta di osservazioni genericamente riconducibili alla rappresentazione della “maleducazione” degli stranieri, su cui si incentrano i rilievi critici degli intervistati anche a causa della visibilità che uomini e donne di pelle nera acquisiscono in un contesto di dimen-sioni ridotte qual è quello del piccolo comune isontino. In questo senso risulta evidente la sovrapposizione dell’immagine del richiedente asilo con quella del “nero”, portatore di una diversità impattante e, per alcuni, fastidiosa. Altri intervistati tendono a ridimensionare quelle poche situazioni che appaiono critiche: “Non c’è mai stato nessun incidente rilevante”, racconta un commerciante, “solo piccoli casi, dovuti a differenze nei costumi… Sem-plicemente noi ad alcune cose non siamo più abituati: i bisogni all’aperto ecc.” (Int. 27). Il presidente dell’Itala San Marco, che nega particolari difficoltà di convivenza tra la cittadinanza e i richiedenti asilo, ricorda “il tifo molto colorito di questi ragazzi alle partite della squadra… magari an-ziché ‘Itala’ dicevano ‘Italia’! Ma è stato un momento di grande calore, e di educazione, di rispetto” (Int. 25). In alcuni casi, anche chi punta il dito contro comportamenti che provocano paura o fastidio tra gli abitanti si mostra pronto a offrire un’attenuante: “Alcune cose non le fanno perché sono cattivi, ma perché non sanno, non capiscono la norma” (Int. 28). Si può notare tuttavia, tanto nelle descrizioni che minimizzano il conflitto, quanto in queste forme di giustificazione culturale delle incomprensio-ni, un meccanismo, per quanto involontario e inconsapevole, di inferio-rizzazione, venato di paternalismo, che è il prodotto di una più ampia rappresentazione del mondo come diviso in un Nord economicamente e culturalmente dominante e un Sud arretrato, di cui l’africano di pelle

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nera è l’immagine più familiare. Di questa visione minorizzante fa parte la necessità, espressa in diverse testimonianze, di “educare alla nostra cultura”, perché “fa paura una cultura troppo diversa” (Int. 28). La diversi-tà, rileva la stessa intervistata, può infatti comportare una significazione differente dei comportamenti e degli atteggiamenti: “quando chiedono l’elemosina sono insistenti e sembrano prepotenti: le cose fatte come un pia-cere così diventano come un dovere”. La soluzione viene tuttavia individua-ta in un avvicinamento unilaterale dell’Altro a Noi. Una rappresentazione in cui confluiscono immagini genericamente ne-gative dell’immigrazione, effetti evocativi del colore della pelle e preoc-cupazioni connesse ai gruppi provenienti dal Cara è visibile negli accen-ni che vengono fatti alla prostituzione delle donne. Diversi intervistati riportano voci, dicerie, sulla presenza di ragazze nere, che presumono essere ospiti del Centro, che si prostituiscono per le strade o “in pieno giorno nel parco, dentro le macchine” (Int. 16). Tuttavia, nessuno degli in-tervistati si è dichiarato in grado di dire se le donne in questione fossero effettivamente richiedenti asilo del Cara. Inoltre, in una testimonianza si descrivono scene in cui una donna nera si presenta nel paese ac-compagnata da alcuni uomini, anche loro neri, e la prostituzione viene immediatamente immaginata come possibile lettura della situazione. In queste rappresentazioni si riconosce in azione l’influenza dell’immagine della nera-prostituta. Mentre il collegamento con il Centro è effettuato per l’abitudine ad assumere il binomio nero-Cara, come peraltro ammet-te una testimone: “Potrebbero non c’entrare i richiedenti asilo, ma in genere i neri sono loro” (Int. 16).

Gorizia: un fenomeno in crescitaA Gorizia la connessione tra richiedenti asilo e CARA appare, nelle te-stimonianze, meno univoca che a Gradisca. La città ospita d’altronde una delle sette Commissioni Territoriali per il diritto d’asilo presenti sul territorio italiano, e costituisce quindi un riferimento obbligato per tutti coloro che presentano domanda d’asilo nelle questure delle regioni di competenza della Commissione. Per questo motivo la visione degli inter-vistati non è percorsa da una sensazione di “invasione” seguita all’aper-tura del Centro, come a Gradisca, ma si caratterizza per la sensazione di una crescita progressiva del numero di stranieri visibili sullo scenario urbano che appartengono a questa categoria. Secondo il presidente del-

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la Caritas, i numeri dei richiedenti asilo erano elevati anche tra il 2001 e il 2005, ben prima dell’apertura del Cara di Gradisca; e già nel 2007 l’aumento delle domande presentate alla Questura da parte di richie-denti afghani, kurdi e iracheni che varcavano il confine aveva indotto la Prefettura a chiedere la riapertura del centro d’accoglienza Caritas. Il movimento sul territorio degli ospiti del Cpa e del Cara si è dunque som-mato a un fenomeno esistente. Lo stesso intervistato sottolinea però, al contempo, come l’atteggiamen-to della popolazione locale, nello stesso periodo, si sia inasprito, come effetto di un “clima politico nazionale” (Int. 15). Una parte importante della cittadinanza che, secondo le valutazioni degli intervistati, manca di conoscenze adeguate e quindi non distingue tra “clandestino” e ri-chiedente asilo, viene rappresentata come incline a visioni che descri-vono quest’ultimo prevalentemente mediante i tratti della miseria e del bisogno. L’immagine più diffusa e verso cui si è sviluppata una più forte insofferenza è quella del mendicante, del richiedente asilo che chiede l’elemosina. “Al Comune”, racconta ancora il direttore della Caritas, “è stato proposto un decreto anti-accattonaggio perché i richiedenti asilo che non possono lavorare chiedono l’elemosina, e da un sondaggio risultava che il 98% della popolazione era a favore: vadano a lavorare dicevano!” (Int. 15). Ma anche tra alcuni intervistati che riconoscono la distinzione tra immi-grato economico e richiedente asilo è da rilevare la tendenza a conno-tare i secondi prevalentemente come profughi che rientrerebbero nella categoria umanitaria, e soprattutto per la dimensione di povertà da cui scappano: “Hanno fame” (Int. 21), afferma un testimone; “C’è una fuga dalla povertà che richiede un’assunzione di responsabilità” (Int. 26), secon-do un altro. Si tratta di un discorso che, da un lato, apre a una com-prensione più ampia dei motivi dell’arrivo in Italia e delle difficoltà non solo politiche, ma anche economiche, in cui versano i paesi di origine. Dall’altro lato, tuttavia, è una retorica che può prestare il fianco a molte critiche derivanti dalla percezione di un impoverimento generale della popolazione italiana: “Che questi chiedano l’elemosina dà un po’ fastidio ai cittadini in questo momento di crisi economica” (Int. 26). Viene inoltre rilevata una mancanza di attenzione e iniziativa pubblica verso il problema, da voci che associano sia coloro che operano in fa-vore degli immigrati, e sia da chi al contrario vede con preoccupazione

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la loro presenza in funzione della sicurezza degli abitanti. In entrambi i casi, si identifica il problema dell’assenza di una seconda accoglienza che secondo alcuni si sostanzia in un impossibile inserimento legale nel tessuto sociale: “Quelli che devono andare via dal Cara se non li prende la Caritas vanno a rubare” (Int. 21). Questa visione è associata ad altre su una necessaria integrazione in direzione unilaterale, visioni espresse da più di un testimone: spetta all’amministrazione anche educare lo stra-niero, insegnare le leggi e le abitudini italiane, perché hanno abitudini: “come l’infibulazione ecc., che si devono tenere a casa loro se no un calcio e a casa”. Sebbene queste prospettive non siano le più comuni tra gli intervistati, questi riferiscono come esse siano sempre più diffuse tra gli abitanti, tra i quali registrano un clima di ostilità crescente anche tra i più giovani, tra gli alunni delle scuole: “un’insegnante mi raccontava che i ragazzini a scuola quando si parla di immigrati fanno il gesto di imbracciare il fucile” (Int. 15).

5.3. Quando gli stranieri eravamo noi: emigrazione e immigrazione

Per avviare un ragionamento comparativo e stimolare un avvicinamento di tipo empatico alle difficoltà di chi vive un’esperienza migratoria, è stato chiesto ai testimoni di ripercorrere l’esperienza dell’emigrazione all’estero degli italiani, del passato e del presente, dal territorio della provincia di Gorizia, e di valutare la possibilità di leggere la presenza straniera sul territorio attraverso questa chiave di comprensione. Ne emerge un quadro vivace di percorsi ed esperienze, che vengono acco-stati allo scenario immigratorio del presente attraverso gradi differenti di comparabilità.L’emigrazione è un passato che vive allo stesso modo nella memoria di una città come Gorizia e di un piccolo comune come Gradisca d’Ison-zo. Come racconta il sindaco di Gradisca, “anche se non tantissimo da noi, perché non è stato come per esempio in Carnia, il fenomeno c’è sta-to” (Int. 10). I gradiscani si sono mossi lungo le principali traiettorie dell’emigrazione transalpina e transoceanica, “dove pensavano di ‘trovare l’America’”, ma anche, in tanti, attraverso il confine più vicino, nella ex Yugoslavia, “perché là”, spiega ancora l’intervistato, “sembrava che fosse

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l’Eden”. I testimoni di Gorizia, a loro volta, riconoscono un peso indub-bio al retaggio storico dell’emigrazione nella memoria collettiva della comunità. Il responsabile dell’Area immigrazione della Prefettura spiega che “quella di Gorizia è stata una zona molto povera fino agli anni ’50 e ’60, una zona che è rimasta ai margini del grande sviluppo economico del Nord Est e della regione” (Int. 13). Viene ricordata dagli intervistati l’esistenza di enclave friulane a Toronto, dove vivono, secondo un consigliere regio-nale, 40mila friulani, e in Argentina, a Santa Fe, dove, secondo un altro testimone, l’emigrazione “risale a prima della guerra, e ormai ha raggiunto la quarta generazione” (Int. 21).Tutti gli intervistati vedono elementi di continuità o comparabilità tra l’emigrazione nostrana e l’immigrazione degli stranieri, ma le testimo-nianze si distinguono per quanto concerne la valutazione delle differenze tra i due fenomeni e il rapporto tra la memoria collettiva e gli atteggia-menti di apertura e accoglienza. Alcuni testimoni non colgono diversità rilevanti tra le due esperienze, non solo per la commensurabilità delle situazioni socioeconomiche di partenza e di arrivo, ma soprattutto per le difficoltà incontrate dagli emigranti italiani nell’integrazione nei nuovi contesti, che a loro avviso erano analoghe a quelle sperimentate dagli immigrati stranieri in Italia: “Quando nel dopoguerra andavano in Australia o in America gli emigranti non è che fossero trattati bene”, afferma un com-merciante di Gradisca, “posso immaginare le reazioni quando arrivavano gli italiani!” (Int. 29). Un problema che, d’altronde, ha riguardato anche le migrazioni interne, dal Sud al Nord: “anche a Torino – io sono di Torino – mi ricordo i cartelli che dicevano ‘non si affitta ai meridionali’”, aggiunge lo stesso intervistato. Altri, pur rilevando grandi elementi di somiglianza tra emigrazione e im-migrazione, pongono in rilievo le differenti condizioni socioeconomiche in cui i due fenomeni si inseriscono, trovando in queste ultime la motiva-zione per una restrizione delle possibilità di comparazione, secondo una retorica piuttosto diffusa nei discorsi di una parte della rappresentanza politica italiana e nei media. Il sindaco di Gradisca, per esempio, ritiene che “il succo di tutto rimane il rapporto paese ricco/paese povero” (Int. 10), con i corollari di speranze che portano a investire in un progetto di vita migliore; tuttavia, la “grande differenza” risiede nel fatto che l’emigra-zione di allora rispondeva a una domanda di lavoro, mentre il territorio di Gradisca, essendo privo di attività industriali e vivendo per lo più di

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turismo e commercio, non presenta né la necessità né la possibilità di assorbire manodopera straniera: “Possiamo capire quando si richiede la manodopera per le industrie di un certo tipo, ma a noi non serve!”. Si tratta naturalmente di un punto di vista che dimentica le grandi trasfor-mazioni che ha subito, in generale, l’economia post-industriale, nonché i dati sull’occupazione degli immigrati, che mostrano la loro capacità di inserimento, in prevalenza, nel settore terziario.Vi è inoltre chi, pur ricordando ed enfatizzando le criticità dei percorsi migratori degli italiani, utilizza alcuni argomenti cari ai sostenitori della lotta all’immigrazione per negare il dovere d’accoglienza che deriverebbe da questa memoria collettiva. Le condizioni in cui i conterranei venivano accolti nei paesi di destinazione, ricorda un intervistato, erano tutt’altro che favorevoli – “C’era la quarantena per i nuovi arrivati, erano trattati come schiavi…” (Int. 21) – ma questo non deve indurci a facili comparazioni. Infatti, nella rappresentazione dello stesso intervistato gli immigrati di oggi “sono accolti a braccia aperte!”. Ma non mancano quelli che ritengono importante un ragionamento com-parativo: la visione dell’emigrazione passata è ormai edulcorata da una narrazione “debole”, che ha posto l’accento sulle sofferenze degli emi-grati dovute alla capacità di regolamentazione da parte dei paesi ricetto-ri, nonché sulle capacità di riuscita dell’emigrazione italiana. Poco spa-zio viene concesso invece alla narrazione delle difficoltà di integrazione, di costruzione di relazioni, alla solitudine, al razzismo comune. Alcuni testimoni riconoscono in queste dimensioni gli elementi che possono portare a sviluppare una capacità di empatia con chi oggi è migrante: “sono molti quelli che sono emigrati e ritornati, che oggi possono capire me-glio la condizione degli immigrati e sviluppare atteggiamenti tolleranti” (Int. 13). La memoria dell’emigrazione è indicata quindi da qualcuno come una chiave importante per l’“educazione all’accoglienza” (Int. 27), perché l’emigrazione è esperienza che appare ormai lontana e: “quando uno ha la pancia piena a certe cose non ci pensa più” (Int. 29). Comprensione e disponibilità verso il diverso sono quindi, da una parte, il frutto di una memoria che ancora vive nella comunità, dall’altra un obiettivo da rag-giungere mediante la valorizzazione dello stesso patrimonio d’esperien-za, che si sta smarrendo: “Questa memoria deve aiutare a capire e favorire un clima di disponibilità e apertura agli stranieri”, afferma un intervistato (Int. 26).

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5.4 Gorizia, terra di frontiera

In risposta alle sollecitazioni dell’intervista sulle propensioni della popo-lazione locale all’accoglienza o all’esclusione, emergono dalle testimo-nianze frequenti riferimenti alla storia dell’ultimo secolo, che segna in profondità la memoria collettiva degli abitanti di Gorizia e del territorio provinciale. “Provincia levata”, decurtata del suo entroterra mediante divisioni artificiali e violenza politica, Gorizia è vissuta e rappresentata primariamente mediante l’immagine del confine. “Qui si trovava il confine più facile”, spiega un intervistato, “attraverso la famosa ‘soglia’ di Gorizia sono passati tutti gli eserciti, a partire da quelli dei barbari: la caduta dell’im-pero romano è passata da qui!” (Int. 21). Per questo lo “straniero”, storica-mente, è rappresentato come l’“invasore”. Tra gli intervistati emerge la consapevolezza di un passato segnato dall’incrocio tra culture diverse, ma questo passato è al contempo rappresentato come il frutto di impo-sizioni violente. Anche perché, prima che linea di confine tra blocco occidentale e blocco socialista, e avamposto della “cortina di ferro”, la provincia è stata per secoli “terra di conquista”, che ha subito occupazioni militari, decima-zioni di civili e sfruttamento delle risorse. “Prima i barbari, poi i veneziani, poi i francesi, poi gli austriaci...”, racconta il rappresentante dell’associa-zione culturale Mattatoio Scenico, “chi si è fermato qui ha imposto le sue forme di sfruttamento, e quindi gli autoctoni hanno sempre subito” (Int. 24). Lo stesso è avvenuto con le guerre mondiali: la prima che, continua l’in-tervistato, ha fatto del Carso un “territorio di sangue”, la seconda che ha visto “una violenza politica anche interna: la resistenza, la violenza dell’uo-mo sull’uomo, slavi contro italiani, comunisti contro fascisti”. Alle due guer-re mondiali e al nazifascismo si legano memorie dolorose ancora vive nella coscienza dei singoli, specialmente delle generazioni più anziane: i nazionalismi, le battaglie, le deportazioni, le foibe. Da tutto questo, secondo alcuni intervistati, deriva “una diffidenza di fon-do, una diffidenza storica”, che nasce da “odi inveterati, per cui di fronte a qualcuno che viene dal di fuori c’è sempre come un pregiudiziale momento di distacco, di attesa, prima di potere darsi o accogliere” (Int. 11). L’immagi-nario legato alla guerra, all’uso delle armi, ricorre d’altronde di frequen-te nelle parole degli intervistati, come alternativa estrema all’opzione dell’accoglienza e dell’integrazione dello straniero. Le guerra stessa è

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presentata come parte di un patrimonio culturale del territorio. Quella di Gorizia, spiega un testimone, “è stata a lungo una provincia altamente mi-litarizzata, c’erano 10mila soldati sul confine. Questo è un corridoio naturale per i Carpazi, la Pannoia e oltre... è l’unico posto in tutte le Alpi che si può passare a livello zero. I militari quindi si concentravano qui perché temevano da qua l’invasione proveniente dall’Est” (Int. 21). La caserme, ormai di-smesse, costituiscono ancora parte dello scenario urbano del capoluogo e del territorio provinciale.Con la “caduta del confine” e l’ingresso della Slovenia nell’Unione Euro-pea, infatti, i militari hanno abbandonato il territorio, mentre la circola-zione e gli scambi tra i due lati del confine si sono liberalizzati e intensi-ficati. Da allora, “è come se Gorizia fosse raddoppiata” (Int. 16). Tuttavia, passato l’entusiasmo iniziale, l’apertura della frontiera, che è ormai par-te dell’esperienza quotidiana dei goriziani, nelle visioni degli intervistati viene associata all’inizio di un declino della provincia. Non solo quella che era una “zona franca” e che godeva di una serie di agevolazioni su generi di consumo e materie prime ha visto abolire i privilegi di cui gode-va, ma anche i vantaggi derivanti dall’import-export oltre confine hanno lasciato il posto a una competizione impari con un paese nuovo, in pieno sviluppo, capace di mettere in ombra le capacità produttive e commer-ciali della sponda italiana della regione. “Con la caduta del confine Gorizia economicamente ha perso molto, mentre la Slovenia si è modernizzata”, rac-conta un’intervistata, “andiamo là a fare acquisti perché costa meno, ma anche per gli asili, che sono ottimi e costano la metà, per le visite mediche... là hanno medici specialisti che noi non abbiamo!” (Int. 16).Da questa nuova competizione con i vicini sloveni, che si aggiunge alla memoria storica della lunga contrapposizione politica e culturale, nasce la sensazione che restino vivi e visibili, tra i goriziani, dei “muri mentali” che sostituiscono il vecchio confine. Non mancano però segni d’apertu-ra, che alcuni intervistati individuano, per esempio, nell’insegnamento nelle scuole goriziane dello sloveno, che “apre le porte alle lingue slave” (Int. 15, 20). Infatti, secondo un’altra testimonianza, i semi del dialogo e della convivenza sono germogliati nel lungo inverno della cortina di ferro: “si è imparato a convivere, pur con momenti di grande criticità. Gli episodi di crescita culturale sono molto più numerosi di quelli contrari ma, come si dice, fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce” (Int. 26).

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5.5 Comunità locale e stranieri: accoglienza o esclusione?

Come si è visto, la particolare storia e collocazione geopolitica del terri-torio viene richiamata a sostegno tanto di una storica diffidenza verso lo straniero quanto di una vocazione al meticciato. La seconda posizione viene espressa tuttavia più raramente, in quanto prevalgono opinioni che chiamano in causa le più comuni giustificazioni della paura e della chiu-sura verso i nuovi arrivati: crisi economica, soglie di tolleranza, diversità culturale e così via. Le testimonianze più ottimiste rispetto all’integrazione sono come si è detto quelle che si riferiscono alle potenzialità culturali della zona: “la nostra provincia ha la bellezza di una zona meticcia, al centro dell’Europa, un crocevia che unisce il mondo balcanico, quello tedesco e quello medi-terraneo. Potrebbe essere una terra molto accogliente” (Int. 24). Un altro intervistato dichiara che la convivenza pacifica con la diversità è nelle tradizioni locali: “il confronto con il diverso qui c’è sempre stato, un diverso più vicino o più lontano. C’è sempre stata un’ottica di rispetto, il tentativo di comprendere le difficoltà, le esigenze e le aspettative dell’altro” (Int. 26). Né diffidenza né razzismo dunque, secondo questa visione, ma solo “rabbia contro il sistema-paese, contro la modalità in cui il fenomeno immigrazione viene affrontato e gestito, in particolare rispetto alle risorse”. Facendosi in-terprete della collettività, l’intervistato, che lavorando dietro al bancone di un bar si considera “un po’ un confessore”, attribuisce ai suoi concitta-dini la capacità di percepire il dramma di immigrati e richiedenti asilo e un senso di responsabilità verso la condizione di bisogno e le difficoltà in cui versano. Per quanto riguarda i richiedenti asilo ritiene sia diffusa la consapevolezza delle criticità che derivano dalla procedura legale: “tanti di loro non raggiungeranno mai lo status di rifugiato, perché non lo po-tranno dimostrare, anche se magari ne hanno diritto”. Mentre rispetto al più ampio gruppo degli immigrati pone in rilievo la sensibilità per le difficoltà economiche. Questa visione positiva degli atteggiamenti della comunità locale verso gli stranieri viene confermata anche da un rappresentante dell’ammini-strazione comunale goriziana, ma con una correzione rilevante. Secondo l’intervistato, infatti, “la pena e la comprensione per queste persone e la loro sofferenza” (Int. 11) hanno sempre prevalso sugli atteggiamenti di chiusura e di rifiuto; ma, aggiunge, “in realtà l’immigrazione come proble-

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ma qui non c’è mai stata”. Torna quindi l’idea che il grado di accoglienza da parte della popolazione dipenda da una presenza effettivamente mi-nima di immigrati sul territorio.La “crisi” viene menzionata da più parti come una variabile capace di spiegare l’inasprimento degli atteggiamenti dei locali nei confronti degli stranieri. La percezione di una nuova scarsità delle risorse induce, se-condo il direttore della Caritas goriziana, un abbassamento generale del livello di solidarietà: “in chiesa qualcuno succede che mi fermi per criticare il nostro lavoro con i richiedenti asilo, dicendo: la Caritas aiuta gli stranieri ma gli italiani non li aiuta più nessuno!” (Int. 15). All’aggravarsi della preca-rietà della condizione socioeconomica in cui versano alcune fasce della popolazione può sommarsi, secondo un’altra intervistata, una difficoltà di lettura del fenomeno: segni di benessere esteriore come un capo d’ab-bigliamento possono provocare la sensazione di una competizione per le risorse, per cui gli stranieri sarebbero beneficiari di maggiori servizi di assistenza rispetto agli italiani. “Il vecchietto che prende la minima”, afferma, “e che vede questi ragazzi vestiti bene… è naturale che provi del risentimento” (Int. 28). La maggior parte degli intervistati, a differenza delle prime posizioni menzionate, rappresenta gli atteggiamenti della popolazione locale me-diante connotazioni di segno negativo: chiusura, individualismo, diffi-denza. Non di rado i testimoni si associano a queste stesse posizioni, cercando tuttavia di giustificarle come posizioni non razziste: “la mia opinione è che ci saranno sempre gli immigrati, il problema è che ora sono troppi! Non siamo in grado di gestirli, non è razzismo, è che non siamo una società multietnica, non c’è proprio la cultura necessaria da noi” (Int. 21). In quest’ottica sono quindi le condizioni strutturali, quelle della man-canza di “cultura”, di “servizi”, o di “risorse”, a fare dello straniero un problema “oggettivo”. Anche il “risentimento” per lo straniero vestito bene, menzionato nella testimonianza precedente, viene distinto dalle forme di razzismo vero e proprio, che vengono invece additate negli at-teggiamenti apertamente ostili di una parte della popolazione: “razzista è il signore benestante che non si siede più al tavolo del nostro ristorante perché ci sono stati i neri!” (Int. 28), afferma la stessa intervistata, una commerciante che lamenta la perdita subita dal proprio hotel-ristorante in seguito all’ospitalità provvisoria offerta a un gruppo di richiedenti asi-lo destinati al Cara. “Una volta”, racconta ancora, “un nostro cliente aveva

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organizzato qui il compleanno della figlia e aspettavano che arrivassero gli ospiti, ma i genitori non hanno mandato i bambini perché qui c’erano stati i neretti”.Il razzismo dunque è identificato quasi esclusivamente con atteggiamen-ti di esplicito rifiuto e ostilità: altre forme di relazione o di non-relazione con gli immigrati vengono descritte e giustificate dalla mancanza di co-noscenze relative alle diversità culturali e ai vissuti degli stranieri. “Non c’è conoscenza”, afferma un’intervistata, “perciò non c’è integrazione, al massimo rispetto civile per lo straniero” (Int. 18). Secondo l’assistente sociale di Gradisca che opera nell’assistenza agli anziani, “gli anziani pensano che i richiedenti asilo vengano pagati e che stiano lì a non fare nien-te quando invece potrebbero fare dei lavori utili per la comunità” (Int. 16): manca la cognizione delle reali condizioni di permanenza degli ospiti nel Cara, che non ricevono denaro ma solo beni di prima necessità, e dell’iter della domanda d’asilo, che rende impossibile lo svolgimento di attività lavorative di alcun genere prima dello scadere dei 6 mesi d’ac-coglienza. Tra quelli che vedono negli atteggiamenti di esclusione un portato recen-te, che ha modificato una tradizionale capacità di accogliere la diversità, viene invocato il ruolo dei media che, a fronte di un’oggettiva crescita numerica del fenomeno migratorio, rappresentano una fonte di cattiva informazione e di amplificazione degli episodi negativi. Si fa riferimento, per esempio, al fenomeno degli sbarchi via mare, che tendono a ridurre in un’immagine di grande impatto le molteplici dimensioni dei percorsi migratori, suscitando sentimenti ambivalenti, di pena e di paura. Altre voci attribuiscono le modalità più ostili di confronto con il fenomeno migratorio a un clima nazionale derivante dalle posizioni politiche dei partiti al governo. Il riferimento è, chiaramente, al lungamente dibattu-to “Pacchetto sicurezza”, che – tra le numerose altre misure restrittive della libertà personale degli stranieri – introduce il reato di ingresso e soggiorno irregolare, trasformando lo stigma che segna da anni il “clan-destino” in un crimine perseguibile o con una sanzione pecuniaria (da 5 a 10mila euro), difficilmente esigibile, o con la carcerazione. Per quan-to riguarda il Friuli Venezia Giulia, “il governo regionale rispecchia questo indirizzo” (Int. 15), spiega il direttore della Caritas, facendo riferimento ai recenti provvedimenti che, per esempio, restringono solo ai cittadini comunitari che risiedano in Friuli da più di 3 anni la possibilità di acce-

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dere ai sussidi, con esclusione non solo gli stranieri extracomunitari, ma anche degli italiani che provengono da altre regioni. Una visione confer-mata dalla testimonianza di un consigliere regionale, che vede penetrare in fasce sempre più ampie della cittadinanza un “leghismo” riassumibile nella massima: “prima noi poi gli altri” (Int. 12). Due delle testimonianze raccolte sottolineano più radicalmente la chiu-sura degli abitanti di questa provincia rispetto ai nuovi arrivati. Si tratta, non casualmente, di intervistate che hanno vissuto in prima persona forme di esclusione, una in quanto straniera, l’altra in quanto immigrata dal Meridione. La rappresentante dell’associazione femminile Rosa dei Venti, di origine albanese, ricorda come un tempo fossero i suoi conna-zionali ad essere oggetto di avversione e discriminazione, osservando il riproporsi dei medesimi atteggiamenti nei confronti di gruppi di recente immigrazione. D’altronde, commenta, “qui hanno un atteggiamento ne-gativo anche verso lo sloveno vicino di casa, figuriamoci verso lo straniero che viene da lontano! Alcuni dicono che gli sloveni dovrebbero lavorare qui e andarsene a casa, ma cosa significa a casa se il confine è qui, o meglio se il confine non c’è più?” (Int. 22). L’altra intervistata, una commerciante di Gradisca immigrata 35 anni fa dalla Campania, legge i fenomeni attuali in una linea di continuità con gli orientamenti razzisti che fino ad alcuni decenni fa colpivano i meridionali.

5.6 Il territorio nelle rappresentazioni dei richiedenti asilo

Mentre i rappresentanti delle realtà istituzionali, associative e commer-ciali del territorio si interrogano sulle capacità di accoglienza della co-munità locale e le possibilità di convivenza delle diversità, mettendo in luce antiche diffidenze e nuove retoriche dell’esclusione, i richiedenti asilo del Cara coinvolti nelle interviste presentano un’immagine del loro rapporto con gli abitanti di Gradisca e di Gorizia priva di criticità rile-vanti. Gli ospiti del Centro tendono a minimizzare gli episodi di conflitto e le loro aspettative sulla propensione dei locali all’accettazione del-la diversità e all’accoglienza paiono nel complesso piuttosto limitate. Come afferma sorridendo un richiedente ivoriano: “io per strada saluto, se mi salutano bene, sennò pazienza, tiro dritto!” (Int. 30). Nelle interviste vengono evidenziate le preoccupazioni relative alla procedura d’asilo e al

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permesso di soggiorno, alla ricerca di un lavoro e di una casa. A fronte della precarietà esistenziale in cui versano e su cui si concentrano i loro discorsi, la relazione con la popolazione locale viene posta dagli intervi-stati, nel complesso, in secondo piano. Una distinzione di rilievo viene tuttavia stabilita tra i responsabili di isti-tuzioni e servizi, compresi gli operatori del Centro, e il resto della po-polazione. Gli operatori, con cui intrattengono un rapporto quotidiano, vengono rappresentati come “perfetti”, “amichevoli”, “gentili”, “sensi-bili”. E giudizi positivi ricorrono anche sul personale dei servizi sanitari e degli uffici amministrativi: il medico di base, il responsabile dell’uffi-cio dell’Asl per l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, i funzionari dell’agenzia delle entrate di Monfalcone in cui viene rilasciato il codice fiscale. Più ambivalente pare invece il giudizio sugli abitanti di Gradisca e di Gorizia, di cui vengono evidenziati gli atteggiamenti di diffidenza e indifferenza. “La gente anziana in generale è molto diffidente” afferma un intervistato, “hanno paura che la città venga sporcata ecc.” (Int. 33). Un altro racconta che talvolta le persone “quando vedono un nero cambiano strada” (Int. 30) e un altro ancora che spesso non ricambiano il saluto. Gli intervistati rilevano quindi i segni di una indisponibilità alla relazione tra la popolazione locale, ma contemporaneamente si mostrano pronti a evidenziare gli elementi positivi. Uno, per esempio, descrive le donne anziane come “più amichevoli”, quantomeno se paragonate ai giovani, che “non degnano di uno sguardo” (Int. 32); un altro si affretta ad aggiun-gere che per quanto “non particolarmente amichevoli” gli abitanti sono “tranquilli e pacifici” (Int. 33).Le rappresentazioni dei singoli sono ovviamente fortemente influenzate dalla casualità degli incontri. Si è visto per esempio come gli anziani siano descritti da una parte come soggetti diffidenti, dall’altra come la componente più amichevole – almeno le donne – della popolazione. Un ospite del Cara racconta un episodio positivo e uno negativo di relazione con i locali, avvenuti nello stesso giorno, che mostrano appunto la va-rietà di relazioni che inducono a formulare i giudizi positivi o negativi. Il primo episodio coinvolge le Forze dell’ordine, di cui viene descritto l’atteggiamento invadente e la mancanza di sensibilità per le condizioni dei richiedenti asilo: “Ieri io e un amico stavamo facendo un giro in bici”, racconta, “ci siamo fermati a riposarci lungo la strada e i carabinieri ci hanno accostato. Ci hanno chiesto: ‘Che fate?’ ‘Un giro, ci riposiamo’. ‘Siete del

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Centro?’ ‘Sì’. ‘Mi raccomando non andate in giro a chiedere l’elemosina!’”. (Int. 30). L’intervistato afferma di essersi sentito offeso, di aver sentito il bisogno di mettere in chiaro il proprio vissuto e i propri obiettivi: “Gli ho spiegato che ho un dignità, che non vado in giro a chiedere l’elemosina, che sono qui perché sono fuggito dal mio paese e voglio solo vivere e lavo-rare”. Nella stessa giornata un altro incontro viene narrato in positivo, quello con un uomo anziano che ha voluto farsi raccontare la loro storia, dilungandosi a sua volta nella narrazione delle sue vicende familiari, del dramma dei campi di concentramento nazisti in cui sono stati deportati i genitori. Emerge, in questo racconto, la dimensione dell’empatia tra vittime di storie dolorose di violenza politica. Chi ha avuto esperienze di soggiorni più o meno lunghi in altre città italiane è stato in grado, nel corso dell’intervista, di effettuare un para-gone tra contesti diversi: i due testimoni nigeriani, per esempio, avendo trascorso alcuni giorni a Torino prima dell’invio al Centro, percepiscono la distanza tra gli atteggiamenti delle persone che vivono in una città a forte presenza migratoria e un territorio come Gradisca, di piccole di-mensioni e poco avvezzo alla presenza dello straniero di pelle nera: “Là è molto diverso, ci sono molti neri, la gente è più abituata, qui invece vedi che si fermano a osservarti quando ti incontrano” (Int. 32). Un ghanese rappre-senta positivamente gli abitanti di Pordenone, dove ha soggiornato per un periodo e dove la componente straniera è più importante: “Sono molto gentili, non c’è razzismo là” (Int. 34). Nel complesso, tuttavia, il territorio gradiscano e goriziano viene rappre-sentato come un luogo possibile di vita futura, una provincia in cui “si sta bene, anche se non sono proprio accoglienti” (Int. 31), ma in cui un’even-tuale permanenza è necessariamente condizionata dalle eventuali op-portunità di lavoro, che gli intervistati percepiscono come scarse. La disponibilità della popolazione locale all’accoglienza e all’integrazione viene vissuta come secondaria rispetto alle potenzialità occupazionali del territorio. “Ovunque va bene, dove ci sia lavoro” (Int. 33), afferma un ospite. E quella di Gorizia è rappresentata come una provincia “difficile” da questo punto di vista: “Nessuno che conosco ha trovato lavoro qui a Gra-disca o a Gorizia”, racconta lo stesso intervistato. Permesso di soggiorno e lavoro sono due obiettivi che ricorrono con frequenza ossessiva nelle testimonianze. Da questo, afferma un altro ospite, “la gente dovrebbe capire che siamo delle brave persone” (Int. 30).

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6.1 Il Cie, il Cara e le comunità locali

A partire dai disegni preparatori del 2000, l’ex Cpta di Gradisca d’Isonzo è stato oggetto di un intenso dibattito tra i diversi livelli di governance del territorio e tra le istituzioni e le organizzazioni della cittadinanza at-tiva. Nuove dimensioni di confronto, amplificate dai media locali, si sono aperte, inoltre, con la creazione di un settore destinato ai richiedenti asi-lo politico, che ha comportato un crescente impatto della presenza del Centro sulla popolazione locale, dovuta alla nuova visibilità degli ospiti che godono di libertà di movimento sul territorio durante le ore del gior-no. In questo capitolo, a partire dalle interviste effettuate con i testimoni chiave del territorio di Gradisca e della provincia di Gorizia e con le figure professionali che operano all’interno del Centro1, vengono analizzate:

• le rappresentazioni relative all’impatto dell’ex Cpta e del Cara sul ter-ritorio, nei momenti corrispondenti alla loro creazione e in seguito;• le rappresentazioni del Cie e del Cara e le valutazioni sulla loro ade-guatezza nel rispondere agli scopi per cui sono sorti;• le visioni sui cambiamenti possibili e le eventuali soluzioni alternative ai fenomeni dell’immigrazione irregolare e dell’accoglienza dei richie-denti asilo politico.

Nell’analisi delle rappresentazioni relative all’impatto del Centro, le te-stimonianze sono suddivise in base al territorio d’appartenenza degli

1 La lista dei testimoni, già citati nel capitolo 3 e 5, è in allegato.

6. Il Centro e il territorio: conflitti, rappresentazioni e prospettive sul futurodi Giorgia Serughetti

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intervistati – Gradisca d’Isonzo e comuni limitrofi da una parte, Gorizia dall’altra – per evidenziare le differenze di prospettiva che emergono dalla prossimità/lontananza e dalla collocazione in un piccolo comune come Gradisca o in una città di medie dimensioni come Gorizia. Un’ul-teriore distinzione viene effettuata, di volta in volta, rispetto alle visioni espresse dai membri dello staff del Cie e del Cara – direttore e coordi-natore, psicologo, assistenti sociali, personale medico e infermieristico, mediatori, operatori e collaboratori esterni – che sono stati sollecitati a rispondere riguardo la rappresentazione dell’impatto e la valutazioni degli scopi e dell’adeguatezza delle due istituzioni.

6.2 La percezione dell’impatto sul territorio

6.2.1 A Gradisca: dai “No Global” ai richiedenti asilo

Sull’impatto del Centro sul territorio di Gradisca le rappresentazioni degli attori locali mostrano una notevole convergenza, dietro cui si na-sconde però la focalizzazione di dimensioni, almeno in parte, differen-ti. È infatti condivisa dagli intervistati la percezione di un’imposizione dall’alto, mediante un processo che non ha visto partecipi le comunità locali, di una realtà estranea e sproporzionata rispetto al contesto, che ha portato sul territorio di un piccolo comune una conflittualità nuova e sconosciuta. Tuttavia la tensione con il Centro viene letta a partire da diverse angolazioni, che inducono a leggere la dimensione problematica nelle sue varie sfaccettature. La posizione che ha dominato il dibattito politico e mediatico sull’aper-tura del Cpta di Gradisca è stata quella dell’amministrazione comunale, che fin dal 2004, quando sono stati resi noti dal Ministero i disegni pre-paratori, ha espresso una posizione di aperta contrarietà al Centro. Per il sindaco, il Cpta “è stato accollato al territorio senza pensare all’impatto che avrebbe avuto” (Int. 10), e la prima conseguenza per la cittadinanza, che è in gran parte composta di persone anziane, è stato lo shock delle manifestazioni degli “Invisibili” e dei “No global” davanti all’ex caserma di via Udine. L’assistente sociale del Comune, che dirige anche la casa di riposo, rappresenta a sua volta una situazione di inquietudine tra gli anziani di fronte alla presenza dei manifestanti e al dispiegamento mas-

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siccio di Forze dell’ordine. Una prima dimensione critica di relazione del Centro con il territorio è quindi individuata nella contestazione stessa, nelle forme di espressione del dissenso che, sebbene trovassero il soste-gno della comunità locale, la ponevano al contempo di fronte a espres-sioni politiche in parte sconosciute.La seconda dimensione rilevata è quella che è venuta delineandosi dopo pochi mesi dall’apertura del Centro e che riguarda la presenza dell’ex Cpa e del Cara. Il movimento dei richiedenti asilo sul territorio ha co-stituito, secondo alcuni intervistati, un ulteriore elemento d’impatto, ri-spetto a cui tuttavia le preoccupazioni che vengono riportate focalizzano aspetti differenti. Il primo cittadino mette in rilievo quelli che descrive come problemi derivanti dagli atteggiamenti e i comportamenti degli ospiti, interpretati come disturbanti rispetto alle abitudini locali per il solo fatto di essere lì: “Non è che questi siano portati a compiere reati ma hanno causato disagio, paura, perché oziano in giro, creano assembramenti, spaventano i clienti degli esercizi commerciali...” (Int. 10). La preoccupa-zione dell’amministrazione è legata, soprattutto, all’immagine della cit-tà, che sarebbe stata compromessa da queste trasformazioni: “le nostre grandi bellezze, le manifestazioni culturali – tutto passa in secondo piano rispetto al Cpt”. Alla posizione dei referenti istituzionali fanno eco le testi-monianze del mondo commerciale e imprenditoriale. Un commerciante del centro definisce la gente “furibonda”: “Non lo voleva il centro, perché portava tutti questi sbandati... stanno tutto il giorni in giro, non fanno niente, chiacchierano...” (Int. 29). E un’altra intervistata mette in luce le conse-guenze sull’economia locale, basata sul turismo, dell’apertura del Cara: “da quando c’è il Centro hanno tolto il cartello che diceva ‘Gradisca – uno dei borghi più belli d’Italia’” (Int. 28). Alle preoccupazioni di carattere economico sono riconducibili altri due ordini di considerazioni: una che riguarda la perdita di valore delle abita-zioni, soprattutto nell’area antistante il Centro, sia a causa del passaggio di gruppi di stranieri, sia per la presenza deturpante dell’alto muro che circonda la struttura; l’altra legata più in generale al carico che, secondo una rappresentazione basata su una distorsione dell’informazione, la comunità locale dovrebbe sostenere per garantire il funzionamento del Cara e del Cie. Un rappresentante dell’associazione Mattatoio Scenico articola la de-scrizione dell’impatto del Centro sulla popolazione in un “fastidio este-

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tico”, dovuto alla costruzione del muro di quattro metri che circonda l’edificio; un “fastidio economico”, generato dalle voci sui costi quotidiani che la comunità deve affrontare per assicurare agli stranieri “il telefono, la pasta al sugo e sky”; e un “fastidio fisico”, nato dalla presenza di perso-ne di pelle nera che circolano per le strade (Int. 24).Alcuni intervistati tuttavia, soprattutto i rappresentanti di enti e asso-ciazioni culturali e ricreative, guardando retrospettivamente ai tre anni trascorsi dall’apertura del Centro, tendono a ridimensionare gli effettivi danni d’immagine e le conseguenze negative sul piano sociale, e attribu-iscono alle istituzioni e ai media un’enfatizzazione dell’impatto non cor-rispondente alla realtà della quotidiana interazione della struttura con il territorio. Come afferma un’insegnante, “Non c’è mai stato nessun epi-sodio negativo o criminale sul territorio, al massimo notizie di rivolte interne” (Int. 18). L’impatto del Centro, secondo queste testimonianze, sarebbe quindi “più retorico che effettivo” , dal momento che le presunte “masse” di stranieri che circolano per la città si riducono nella realtà a gruppetti di “6-7 persone sedute in piazza” (Int. 24). Anche i comportamenti degli ospiti del Cara, su cui si basano molte posizioni ostili alla presenza del Centro, vengono descritti come nient’altro che episodi di “maleducazio-ne”, in nulla diversi da quelli di cui sono responsabili i locali. Secondo l’assistente sociale del comune, l’insistenza della giunta comunale su questi temi rappresenta un irrigidimento su posizioni critiche che, da un lato, hanno soprattutto un valore politico-elettorale, dall’altro costitu-iscono un ostacolo alla predisposizione di interventi per migliorare l’in-tegrazione sociale degli ospiti nella comunità: “In realtà non lo vogliono ammettere ma il Centro ha fatto meno danni di quanto si pensasse. [...] E sic-come sostengono questa posizione devono dimostrare alla popolazione che non hanno fatto nulla per favorire il Centro. Non è stata fatta nessuna azione rilevante per bloccarlo ma neanche nulla per favorirlo” (Int. 16).Quel che pare assente nella maggioranza delle testimonianze raccolte, sia che enfatizzino sia che ridimensionino le trasformazioni comportate dalla creazione del Centro, è l’espressione di valutazioni che tengano in conto argomenti di tipo umanitaristico. Si può notare anzi come le rappresentazioni tendano a misurare l’impatto su parametri di carattere economico o di decoro urbano, in base ai quali il Cie, come struttura chiusa, è da considerarsi meno disturbante del Cara. Per esempio, cer-cando di minimizzare gli episodi di conflittualità derivanti dalla presenza

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del Centro, un intervistato afferma: “Non è difficile trovare chi si lamenti, si lamentano di tutto, ma la realtà è che il Cie come istituzione va per la sua strada, non crea problemi, è un mondo chiuso” (Int. 25). Un commerciante nota proprio l’affievolirsi, dopo le contestazioni del primo periodo, di una contrarietà ispirata dalla preoccupazione per i diritti umani o da motivazioni solidaristiche: “È una piccolissima frangia quella che sente il problema dal punto di vista umano ed è contraria per questo motivo, gli altri se ne fregano finché gli ospiti non arrivano nel loro giardino” (Int. 27). Per questo, secondo lo stesso intervistato, l’amministrazione ha accolto con favore la notizia che con la chiusura del Cpa sarebbero stati destinati più posti al Cie e meno alla struttura d’accoglienza: aumentando la capacità di contenimento e restringendo gli spazi di libertà si riduce l’impatto derivante dalla circolazione degli stranieri fuori dalla struttura, mentre, conclude, “del fatto che quella sia una struttura semicarceraria non importa a nessuno”.

6.2.2 A Gorizia: il Centro visto da lontano

A Gorizia un consigliere comunale, ex sacerdote e responsabile di una casa di accoglienza per migranti, racconta la propria partecipazione in prima persona nelle manifestazioni di protesta contro l’apertura del Cpta e contro il vecchio ente gestore: “Noi sostenevamo che non dovessero gestirlo perché rifiutavamo l’istituzione stessa e ritenevamo che comunque le modalità fossero sbagliate” (Int. 11). L’impatto del Centro è quindi sta-to forte, in questa prospettiva, soprattutto dal punto di vista politico e ideologico. Inoltre, secondo l’intervistato, l’incapacità del primo ente gestore, la cooperativa Minerva, di dialogare e coinvolgere il territorio ha irrigidito le posizioni delle parti in conflitto. Ma per quanto riguarda l’in-terazione degli abitanti di Gorizia con gli ospiti della struttura, afferma, “non c’è mai stato nessun problema serio, nessun episodio spiacevole. Loro hanno interesse a comportarsi bene. Non ci risultano problemi convivenza” (Int. 13).Sia che riconoscano le criticità comportate dall’impatto del Centro, sia che le neghino, ciò che accomuna le testimonianze degli intervistati go-riziani è la visione del Centro da una media distanza. I goriziani, secon-do gli intervistati, non hanno vissuto l’apertura del Cpta con la stessa partecipazione degli abitanti di Gradisca. L’ex Cpta, ora Cie, viene anzi rappresentato come totalmente estraneo all’esperienza quotidiana di

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relazione dei cittadini con il territorio, come un’“isola a sé”. Il Cara ha invece acquisito visibilità attraverso i piccoli gruppi di richiedenti asilo, molti dei quali di pelle nera, che si recano a Gorizia per i colloqui presso la Commissione o per trascorrervi la giornata. Anche in questo caso, tut-tavia, l’impatto del Centro viene ridotto a dimensioni non molto rilevanti: “I richiedenti non si notano molto a Gorizia”, nota un’intervistata, “c’è molta più immigrazione qui”. (Int. 22)Nelle parole di alcuni testimoni si trova poi un riscontro dei tentativi di interagire mossi da Connecting People: “Forse perché venivano da fuori e avevano bisogno di farsi conoscere, di fare rete”, commenta un intervi-stato, “hanno espresso da subito sensibilità per le esigenze del territorio e una grande apertura al dialogo” (Int. 26). Ci sono stati quindi contatti informali e momenti ufficiali di confronto che hanno facilitato la condi-visione di conoscenze sulle problematiche degli ospiti e degli operatori delle strutture. Lo stesso intervistato, rappresentante dell’Ascom, espri-me soddisfazione anche per il coinvolgimento del “tessuto commerciale e imprenditoriale” della città, che “trae benefici” da questi buoni rapporti.

6.2.3 All’interno del Centro: la visione degli operatori

Tra le figure professionali che operano all’interno dei Cie e del Cara è diffusa la consapevolezza del forte impatto che il Centro ha avuto sul territorio di Gradisca e dell’intera provincia, in particolare a partire dall’apertura della struttura destinata ai richiedenti asilo. “Gradisca è piccola e i cambiamenti portati da questi gruppi si vedono molto”, afferma lo psicologo (Int. 4). Le cause della difficile convivenza tra Centro e terri-torio vengono tuttavia rinvenute, più che nella dimensione della struttura e nella mancanza di un processo partecipativo di decisione sulla sua creazione – temi che emergono, come si è visto, nelle testimonianze dei referenti istituzionali e degli altri attori territoriali gradiscani – nella quotidiana mancanza di confronto paritario tra cittadinanza e ospiti del Cara.La mancanza di informazioni sul Centro e sulle sue diverse funzioni, nonché sulla distinzione tra immigrati senza documenti e richiedenti asilo, è da imputarsi, secondo gli intervistati, alla riluttanza dei cittadini a confrontarsi con il fenomeno in maniera consapevole: “ignorano quel che succede nel Centro ma neanche vogliono sapere”, afferma il medico

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responsabile, “hanno delle rappresentazioni preconcette. Non conoscono la differenza tra Cie e Cara… Per loro sono tutti dei delinquenti” (Int. 5). Ancora una volta si sottolinea il ruolo dell’informazione televisiva: “C’è una re-sponsabilità dei media”, afferma lo psicologo, “che creano generalizzazioni e paure” (Int. 4). Anche la stampa locale, secondo alcuni intervistati, tende a dare particolare rilievo alle notizie di disordini e fughe dal Cen-tro, seminando una sensazione di disagio tra gli abitanti dei dintorni, che temono che gli stranieri possano nascondersi nei giardini delle case per sfuggire alle Forze dell’ordine, rubare o aggredire. Un membro dello staff del Cie mette in evidenza la contraddizione tra l’enfasi giornalistica sulle fughe dal Centro e la realtà della gestione ordinaria in cui, parados-salmente, “le persone da qui fuggono – per modo di dire – continuamente! Perché vengono messi fuori con un foglio di via e restano sul territorio” (col-loquio informale). Se queste rappresentazioni dei timori diffusi tra la popolazione segnano una presa di distanza critica dalla disinformazione o malainformazione delle persone che vedono il Centro dall’esterno, le visioni sui compor-tamenti degli ospiti al di fuori del perimetro del Cara e sui conflitti con i locali vengono sostenute, almeno in parte, da un sentimento di com-prensione. Un intervistato, per esempio, afferma che quando trascor-rono le giornate a Gradisca, nei comuni limitrofi o a Gorizia, gli ospiti, “non avendo niente da fare, chiaramente, con la loro presenza intimoriscono la gente, anche perché sono tanti e sono neri” (Int. 19). Lo psicologo parla di “un problema che riguarda il loro comportamento” (Int. 4). I membri dello staff del Cara, d’altronde, si sono trovati in diverse occasioni a rac-cogliere e mediare le lamentele della gente che “fermava gli operatori per strada per dirgli di fare qualcosa” (Int. 8). I comportamenti che secondo gli operatori tendono a suscitare fastidio sono i medesimi rappresentati dagli intervistati al di fuori del Centro: gli ospiti chiedono l’elemosina, ef-fettuano piccoli furti, espletano funzioni fisiologiche all’aperto, lasciano rifiuti nella piazza o davanti ai supermercati. Sembra dunque che questi testimoni accolgano in parte le visioni più diffuse nel contesto territoria-le in cui operano, tuttavia mostrano una maggiore comprensione delle condizioni e delle contingenze vissute dai richiedenti asilo.Ancora da “dentro” il centro, il direttore della chiesa metodista riferisce un clima esterno molto ostile verso questi ultimi: “La gente è seccata, parlare con loro è come parlare con un muro. Vorrebbero i sommergibili per

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sparare e affondare le barche con cui arrivano gli immigrati” (Int. 19). Ed è lo psicologo ad esplicitare il concetto di inclusione alla base della pos-sibilità di una reciproca comprensione e un reciproco riconoscimento: “l’integrazione richiede che entrambi, gli ospiti e la cittadinanza, facciano un passo” (Int. 4). Il passo da fare per la comunità territoriale può trovare ostacoli rilevanti negli atteggiamenti negativi indotti da una retorica osti-le agli stranieri, diffusa dal discorso politico e dai mezzi di informazione. Viene tuttavia valorizzato l’importante lavoro svolto, anche nella direzio-ne della sensibilizzazione della cittadinanza, da enti come la Caritas e da alcuni progetti Sprar come quello di Codroipo, e in generale messe in luce positivamente le risorse del territorio con cui viene effettuato uno “sforzo comune per risolvere la situazione” (Int. 4).

6.3 Il Cie: rappresentazioni e valutazioni

Nel corso delle interviste è stato chiesto agli esponenti delle istituzio-ni, delle organizzazioni della cittadinanza e del mondo commerciale di esprimere le proprie rappresentazioni sul Cie non solo in relazione all’impatto territoriale ma anche in sé, in quanto struttura destinata al contenimento e al controllo dei migranti senza documenti, e in relazione all’efficacia nel perseguire gli scopi definiti. Ne emergono visioni che possono essere raccolte sotto due posizioni principali:

• il Cie non è una soluzione, sia in quanto lede diritti umani fondamen-tali come l’uguaglianza di fronte alla legge e la libertà di movimento in assenza di reato, sia in quanto fallisce anche nel perseguire gli scopi di tipo repressivo per i quali è istituito; • il Cie, per quanto criticabile sotto svariati aspetti, è l’unica soluzione possibile di fronte al fenomeno delle migrazioni clandestine.

6.3.1 Un’istituzione inutile e dannosa

La prima visione è quella espressa dalla maggioranza degli intervistati, e in particolare da: rappresentanti delle istituzioni, organizzazioni che lavorano con i migranti e i richiedenti asilo, esponenti dell’associazio-nismo culturale e gran parte degli operatori del Centro coinvolti nella rilevazione. Secondo questa posizione, il Cie è un’istituzione che affronta

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il problema dell’immigrazione irregolare da un’angolatura inadeguata, come una questione di ordine pubblico, e si rivela fallimentare anche nel perseguire le finalità per cui nasce. Secondo un consigliere regionale, il Cie si basa su una “doppia lega-lità, per cui un reato amministrativo, come la mancanza di documenti, se commesso da un italiano viene punito con una multa, se commesso da uno straniero con la reclusione” (Int. 12). È quindi in se stessa un’istituzione che manca di legittimità, fondata su una violazione dell’uguaglianza di fronte alla legge e su una logica “poliziesca”. In base a queste conside-razioni si sono mosse fin dal principio le contestazioni politiche, come ricordano gli intervistati. Ma dopo alcuni anni dall’apertura un elemento ulteriore induce a considerare il Cie una struttura non solo dannosa, ma anche inutile, il fatto cioè che non riesca nel suo intento di garantire l’espulsione degli irregolari: “non ha nessuna efficacia, neanche ponendosi dal loro punto di vista, di chi lo sostiene. Ha un’efficacia unicamente eletto-rale” (Int. 11). Altre problematiche evidenziate nelle interviste sostanziano queste po-sizioni critiche. Una riguarda il caos giuridico in cui versa l’istituzione Cie, da cui deriva la mancanza di strutturazione della misura di tratteni-mento. Nelle testimonianze delle organizzazioni che si occupano di im-migrazione il Cie viene rappresentato come un luogo detentivo analogo al carcere, in cui però, a causa della condizione di perenne sospensione e incertezza sui tempi dei provvedimenti, la detenzione non è in alcun modo organizzata. Infatti, mentre nelle carceri sono previste attività la-vorative e ricreative, spiega il direttore della Caritas, “nel Cie non c’è niente da fare: questo va contro la dignità dell’uomo, diventa un inferno sulla terra” (Int. 15). Per questa sua ambiguità costitutiva secondo la coordi-natrice del Cir “non ha senso d’esistere” (Int. 23). La stessa intervistata sottolinea come gli stranieri scontino dal punto di vista psicologico que-sta mancanza di senso: “le persone impazziscono: perché devo stare qui? Qual è lo scopo?”. Un’altra prospettiva critica ricorrente, specialmente tra gli esponenti del mondo commerciale ma anche tra i rappresentanti di associazioni ed enti culturali, è quella che vede nel Cie un business, un giro d’affari. “C’è un’intera economia che marcia sui Cpt” (Int. 21), secondo un intervistato. E questo spiega, secondo un’altra testimone, la mancanza di una reale volontà politica di lavorare a una soluzione del problema dell’irregolari-

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tà: “finché ci sono interessi, qualcuno che ci mangia, non ci sarà volontà di risolvere diversamente la situazione” (Int. 28). L’aspetto economico della questione rafforza inoltre i rilievi critici sulla mancanza d’efficacia del Cie: “una spesa enorme che non serve neanche a portare queste persone fuori dall’Italia, perché loro dopo breve tempo ritornano” (Int. 23).Su una posizione critica verso il Cie come istituzione e verso la sua ineffi-cacia si allinea inoltre la maggioranza delle testimonianze dei professio-nisti che operano all’interno del Centro medesimo o nel contiguo Cara. Un’intervistata contesta lo strumento della detenzione: “l’identificazione è importante ma non sono d’accordo con il sistema di reclusione, è comun-que un carcere” (Int. 7); mentre un altro ne evidenzia le contraddizioni operative: “li metti fuori con foglio di via e poi questi dovrebbero tirare fuori una cifra che non hanno per rientrare nel loro paese!” (Int. 9). Nel comples-so, tuttavia, le posizioni espresse dai, membri dello staff del Centro mo-strano la volontà di comprendere le molteplici dimensioni del fenomeno e le sue possibili soluzioni, perché il Cie rappresenta l’estrema difficoltà di dare una risposta a un quesito complesso, un fenomeno che, come afferma lo psicologo, “gli esponenti politici non cercano di conoscere e va-lutano solo su idee preconcette” (Int. 4).

6.3.2 Un’istituzione necessaria

L’altra visione è quella che rappresenta il Cie come l’unica soluzione possibile nelle circostanze presenti, perché “non ci sono molti altri modi possibili di rispondere a queste moltitudini di persone, con le emergenze quo-tidiane, gli arrivi non pianificati...” (Int. 26). Il Centro viene rappresentato come una necessità, in quanto, come afferma un’intervistata, “qualcosa per regolare l’immigrazione clandestina ci vuole” (Int. 25). È evidente come in queste affermazioni siano in azione sia l’influenza di rappresentazioni allarmistiche dell’immigrazione, veicolate dai rappresentanti del mondo politico e dai media, sia la mancanza di informazioni che possano co-stituire la base di una riflessione alternativa alle opinioni precostituite. I pericoli collegati alla presenza degli stranieri senza documenti, su cui la retorica del discorso pubblico ha fondato molti degli assiomi vigenti sulla necessità dell’intervento repressivo, costituiscono per esempio lo sfondo delle posizioni che vedono, nelle condizioni in cui si svolge il per-corso migratorio e la permanenza sul territorio degli irregolari, l’esisten-

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za di rischi sociali di fronte a cui è necessario predisporre delle strutture come il Cie. “Non riesco a suggerire un’alternativa”, afferma un’intervi-stata, “forse intervenire alla fonte, perché non vengano qui senza una base d’appoggio, dalla Libia, sui barconi, pronti a tutto… Così ci colgono impre-parati. Si può anche sostenere che il mondo è di tutti e che tutti devono avere un’opportunità, ma è vero che loro non hanno nulla da perdere” (Int. 16). A partire dall’assunzione della necessità dell’istituzione-Cie vengono quindi formulati giudizi positivi sul Centro di Gradisca e sui servizi of-ferti. Un intervistato, che ha avuto accesso alla struttura al momento dell’apertura, la descrive come “un posto buono, vivibile, ben gestito, in cui ci sono i presupposti per vivere decentemente” (Int. 25); mentre i problemi sorti internamente – rivolte, fughe, episodi di autolesionismo – vengono attribuiti alla “troppa libertà” di cui godono gli stranieri: “in carcere non si possono fare rivolte”. La logica repressiva che sottosta a una simile posizione risente quindi della forza dell’assunto iniziale, che si mostra in azione anche nella testimonianza di un mediatore del Cara. Nelle sue parole il Cie è rappresentato come un’istituzione “importante e necessa-ria” (Int. 6) e le forme di contestazione dall’esterno vengono criticate in quanto non sono sostenute da un’effettiva conoscenza della struttura e degli “ospiti”. “Se uno non è mai entrato”, afferma, “si basa su uno stereoti-po, anche positivo. Ma qui il 90% sono spacciatori, ladri, sono pericolosi. Bi-sogna avere un motivo per stare in Italia, se uno non ce l’ha è logico mandarlo in un Cie, è una questione di sicurezza sua e della popolazione. Ed è logico che venga espulso” (Int. 6). L’intervistato, che gode di un permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari, vede inoltre nel Centro, in alcuni casi, un’opportunità d’assistenza sociale e legale per gli stranieri appena giunti sul territorio, che possono scoprire di avere il diritto a pre-sentare domanda d’asilo. È qui da notare come la logica che vede nello straniero un ospite temporaneo, che deve avere determinati requisiti per guadagnarsi il diritto di restare in Italia, si congiunga con la retorica della sicurezza in un discorso di tipo dissuasivo-repressivo che viene solo parzialmente attenuato dalla valorizzazione del ruolo assistenziale del Cie.Il discorso sul controllo, che si riflette nell’idea che sia “inevitabile che queste persone debbano tornare indietro, dal momento che non possono ri-manere qui irregolari” (Int. 18), evidenzia la penetrazione di una visione che non considera possibilità di regolarizzazione, per la quale l’irrego-

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larità di soggiorno più che una condizione amministrativa è ormai uno stigma sociale. Eppure, la stessa intervistata fa rilevare delle questioni delicate: la prima è la preoccupazione per il modo in cui vengono trat-tati gli stranieri nei Centri, dal momento che “non sappiamo come si vive lì, se c’è rispetto dei diritti umani”; la seconda chiama in causa gli uffici di polizia, che l’intervistata dubita abbiano una sufficiente conoscenza dei paesi di origine e che quindi rischiano di commettere abusi nel di-sporre i rimpatri: “La situazione magari figura come pacifica ma non è così. In generale occorre più disponibilità a conoscere le situazioni dei singoli”. In quest’ultima considerazione, che chiaramente vede sullo sfondo la problematica delle espulsioni dei richiedenti asilo, si evidenzia una ten-denza alla sovrapposizione delle istituzioni del Cie e del Cara, parallela a quella, già messa in rilievo nel capitolo 6, alla confusione tra richiedente asilo e migrante economico.

6.4 Il Cara: rappresentazioni e valutazioni

Per quanto riguarda il Cara, le risposte degli intervistati offrono un qua-dro relativamente omogeneo di rappresentazioni e opinioni. La maggio-ranza dei testimoni lo considera un’istituzione necessaria, per quanto passibile di miglioramenti, soprattutto di tipo gestionale. Un rappresen-tante dall’amministrazione comunale di Gorizia, per esempio, che di-chiara la sua netta contrarietà al Cie, esprime invece il suo consenso per il Cara, “indispensabile con tutti i richiedenti asilo che arrivano”; l’errore, a suo parere, “è stato quello di mettere insieme le due istituzioni” (Int. 11). La creazione di un centro d’accoglienza, secondo un consigliere regionale, era essenziale sul territorio, dove l’assistenza era affidata in precedenza solo “all’iniziativa privata o a soluzioni di tipo emergenziale” (Int. 12).Anche i rappresentanti delle organizzazioni che operano a contatto con l’utenza dei richiedenti asilo, pur dichiarandosi più favorevoli a soluzio-ni d’accoglienza di tipo decentrato, vedono il Cara come una risposta “indispensabile” nella situazione contingente in cui aumentano gli arrivi e i centri dello Sprar sono in grado di garantire accoglienza a numeri troppo esigui. La coordinatrice del Cir di Gorizia suggerisce anzi di dif-ferenziare meglio le finalità dei Cara e dei centri di accoglienza dello Sprar, riservando questi ultimi “alle persone che hanno già avuto lo status,

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dal momento che oggi l’80% degli ospiti dello Sprar sono richiedenti asilo” (Int. 23). Importante è però assicurare all’interno del Centro una serie di servizi e di attività, perché gli ospiti possano trascorrervi un periodo che non sia di vuota sospensione. A questo proposito, alcuni intervistati di Gradisca mettono in rilievo le difficoltà pratiche cui vanno incontro le proposte di intensificazione delle attività quotidiane degli ospiti: “Ci sono tante posizioni tra la popolazione: farli lavorare, offrire occasioni di istru-zione o formazione, inserirli nel tessuto umano locale”, spiega il presidente dell’Itala San Marco, “ma c’è un problema di risorse economiche e, soprat-tutto, di responsabilità” (Int. 25). Gli enti e le persone che intendessero mettere a disposizione mezzi e strutture per organizzare delle attività si dovrebbero infatti confrontare con la situazione di protezione di cui go-dono gli ospiti, per cui si trovano sotto la responsabilità di un’istituzione pubblica. Questa difficoltà, che potrebbe tuttavia essere superata me-diante accordi e protocolli d’intesa con l’ente gestore del Centro, viene vissuta da molti attori locali come un fattore limitante delle possibilità di intervento.I testimoni che considerano il Cara un’istituzione necessaria per far fron-te ai flussi di richiedenti asilo e che hanno visitato il Cara offrono, nel complesso, una valutazione positiva anche del servizio offerto all’inter-no, per quando bisognoso di correttivi e di un potenziamento delle atti-vità educative e ricreative. Il Centro, secondo diversi testimoni, rappre-senta “un posto in cui i richiedenti asilo ricevono quel sostegno grazie a cui possono trovare nuove strade” (Int. 25). In particolare, risultano positive le visioni interne degli operatori e dello staff, che sebbene non nascondano le criticità e le possibilità di miglioramento, ritengono che la struttura offra una buona risposta alla categoria d’utenza a cui è destinata. La qualità del servizio è valutata come elevata in termini di gestione inter-na: l’assistenza sociale e psicologica, le attività sportive, la possibilità di uscire durante l’orario diurno. Viene inoltre rilevata “una buona capa-cità d’ascolto e di risposta ai bisogni” (Int. 19). Un mediatore del Centro, infine, insiste sulla dimensione della sicurezza di cui i richiedenti asilo beneficiano all’interno. Le testimonianze di alcuni attori locali che, non conoscendo direttamen-te la struttura, la valutano soprattutto in base a considerazioni relative al senso dell’accoglienza, esprimono invece una rappresentazione nega-tiva del Cara, troppo simile a una struttura di contenimento e control-

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lo, anche a causa della contiguità con il Cie. L’accoglienza, secondo un intervistato, “è sbagliata se assomiglia a una gabbia. Ci vogliono comunità in cui siano accuditi, non rinchiusi” (Int. 24). Secondo un altro, si tratta di una sistemazione “infelice” perché gestita mediante il “filtro della polizia” (Int. 26). La questione qui rilevata non concerne pertanto la capacità di risposta interna ai bisogni, ma la conformità dell’istituzione a una cultura dei diritti umani e dell’asilo che dovrebbe dare forma a soluzioni politiche più adeguate a questa particolare componente dell’universo migratorio. Inoltre, tanto le voci a favore quanto quelle critiche mettono tuttavia in evidenza problematiche di sistema che possono compromettere l’effica-cia del servizio ed esigono pertanto attenzione. Si tratta, per la maggior parte, di rilievi indirizzati al più vasto processo che regola il riconosci-mento dello status di rifugiato. La criticità maggiore è data dai tempi d’esame delle domande d’asilo e dei ricorsi, che causano situazioni di incertezza prolungata e, per gli operatori del Cara, disagi nella relazio-ne con l’utenza. Alcuni intervistati mostrano invece preoccupazione per la mancanza di un accompagnamento degli ospiti nell’acquisizione di un’autonomia: “Dopo il centro, scaduti i termini, vengono buttati in mez-zo alla strada”, con rischi rilevanti di caduta nelle reti di organizzazioni criminali o in forme di sfruttamento, in particolare per le ragazze che “rischiano di finire nella prostituzione” (Int. 28).

6.5 Futuri possibili

Le interviste hanno portato alla luce, oltre alle rappresentazioni relative ai due centri, anche visioni e proposte inerenti la trasformazione o il potenziamento delle due strutture e le più vaste strategie politiche, so-ciali ed economiche che potrebbero e dovrebbero essere adottate dalle istituzioni per risolvere le problematiche relative all’immigrazione “clan-destina” e all’accoglienza dei richiedenti asilo.In risposta alle sollecitazioni della ricerca sulle alternative possibili alla situazione esistente, si possono individuare quattro posizioni principali assunte dagli intervistati, che indirizzano la questione secondo prospet-tive e con gradi di radicalità differenti, dal miglioramento delle istituzioni esistenti alla riforma dell’intero sistema politico-normativo:

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• migliorare la qualità del servizio offerto all’interno del Cie e del Cara attraverso la valorizzazione delle risorse e delle relazioni del territo-rio;• favorire, per i richiedenti asilo, strutture d’accoglienza per piccoli numeri meglio integrate con il tessuto sociale;• potenziare la cooperazione con i paesi d’origine per prevenire le im-migrazioni “clandestine”;• riformare l’intero sistema politico-normativo che regola i flussi mi-gratori.

6.5.1 Valorizzare le risorse del territorio

La prima posizione, che guarda a un incremento della qualità del servi-zio offerto nel Centro, si articolare in una serie di proposte che hanno come denominatore comune la rappresentazione della necessità di una più efficace collaborazione tra il Centro e il territorio. Secondo alcuni intervistati, un primo obiettivo che potrebbe essere realizzato “a costo zero” è “valorizzare le risorse esistenti: c’è la disponibilità da parte della as-sociazioni, del volontariato, a gestire programmi ricreativi ed educativi per gli ospiti” (Int. 11). Soprattutto per il Cara, come si è visto, la necessi-tà di migliorare le condizioni di vita attraverso l’offerta di attività utili all’integrazione viene posta come necessità principale in un processo di ristrutturazione del servizio; il lavoro di rete con il territorio rappresenta in questa direzione una condizione essenziale. Affinché questi propositi si trasformino in progettualità reali, gli enti pubblici, le aziende dei tra-sporti, le agenzie formative, le organizzazioni del volontariato devono essere chiamate a firmare accordi di collaborazione con l’ente gestore del Centro. In questa prospettiva, l’ente gestore è chiamato a curare i rapporti con il territorio, che significa in primo luogo informare e sensibilizzare; secon-do un consigliere comunale di Gorizia: “Bisogna far capire alla popolazio-ne che la presenza dei richiedenti asilo dipende da un diritto costituzionale, occorrono attività culturali, eventi di informazione diretti in questo senso... In questo modo la presenza del Centro diventerebbe un’occasione, non un peso, per il territorio, un’occasione straordinaria che sarebbe molto apprez-zata” (Int. 11). Il lavoro svolto fino ad ora da Connecting People viene va-

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lutato positivamente, dallo stesso intervistato, per la capacità di creare ponti con gli attori locali.Gli enti locali, da parte loro, devono dare il proprio sostegno in questa direzione, perché, come rileva un intervistato, se “manca la norma” (Int. 27) diventa difficile organizzare attività utili per gli ospiti e per per il territorio. Per esempio, diventa complicato, per ragioni di responsabilità formale, impiegarli in attività lavorative socialmente utili, in quanto si dovrebbe provvedere a un’apposita copertura assicurativa. Un terzo livello di intervento riguarda i decisori nazionali, che secondo alcuni intervistati dovrebbero farsi carico delle difficoltà che possono sorgere a livello locale in seguito alla creazione di strutture impattanti come il Cie e il Cara: “Lo Stato”, afferma un testimone di Gradisca, “do-vrebbe avere un occhio di riguardo per le città in cui si trovano questi centri, innanzitutto garantendo un sostegno economico” (Int. 25). Quest’ultima considerazione segue naturalmente alle percezioni negative dell’impatto messe in evidenza nei paragrafi precedenti, con particolare riguardo ai danni, veri o presunti, causati all’economia locale.

6.5.2 Favorire l’accoglienza decentrata

Per quanto riguarda, nello specifico, il Cara, un’opinione espressa da più parti riguarda la necessità di affiancare o sostituire le strutture di grandi dimensioni, come quella di Gradisca, con una rete di progetti di acco-glienza ideati e gestiti secondo il “metodo Sprar”. La delocalizzazione di piccoli numeri di richiedenti asilo in strutture nuove o già esistenti, da un lato, garantirebbe “una maggiore integrazione con il territorio” (Int. 15), dall’altro lato costituirebbe un’alternativa alla grande concentrazio-ne, che tende a provocare “un forte impatto” e “un problema sociale” (Int. 12).L’assistente sociale del comune di Gradisca, che si occupa dell’assegna-zione delle case popolari, suggerisce anche una modalità di implemen-tazione concreta di una simile prospettiva: se i comuni si mettessero in rete potrebbero essere usate le case dell’edilizia residenziale pubblica, che sono sfitte a causa di piccoli lavori di ristrutturazione che bisogne-rebbe fare, e metterle a disposizione per l’accoglienza. Per quanto ri-guarda i costi di un sistema simile, un’intervistato non ha dubbi: “Le risorse ci sono – ad esempio per allungare i tempi di permanenza nei

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CIE, come hanno proposto – quindi dipende solo da cosa ci si vuole fare” (Int. 15).

6.5.3 Cooperare allo sviluppo dei paesi di origine

Nell’affrontare la questione dei centri per migranti e richiedenti asilo al-cuni intervistati spostano la soluzione più a monte, all’intervento nei pa-esi di origine mediante progetti di cooperazione internazionale. Si tratta di una retorica antica, diffusa nel discorso pubblico e quindi capace di influire sulle opinioni dei singoli, che tende a eludere le questioni relative all’accoglienza e all’integrazione sociale mediante uno slittamento del focus sulle condizioni di partenza. Anche in questo caso un ruolo impor-tante è svolto dalla mancanza di informazione sui fenomeni migratori e l’asilo politico, che porta a sovrapporre la questione del sottosviluppo a quella delle persecuzioni che spingono alla fuga e alla richiesta d’asilo. L’intervento di cooperazione si profila infatti soprattutto come un aiuto di tipo economico, ma viene indicato come strategia anche per prevenire il movimento verso l’Occidente dei richiedenti asilo.Si tratta di proposte che provengono da soggetti che mancano di espe-rienze dirette di lavoro nelle aree del mondo in via di sviluppo o nei servizi di assistenza ai migranti, e che pertanto non declinano la pro-posta in forme più precise. Gli obiettivi da perseguire, tuttavia, sono chiari: “prevenire l’emigrazione e fermare gli emigranti alla partenza” (Int. 10), risolvendo le problematiche che stanno dietro all’immigrazione “clandestina”. Secondo un intervistato, considerando la spesa pubblica investita nella costruzione e nella conduzione dei centri per gli stranieri, “costerebbe di meno mantenerli nel loro paese, e tra l’altro loro sarebbero più contenti” (Int. 29). Si perde, in questa visione, la cognizione della dimensione involontaria, forzata, delle migrazioni causate da guerre e violazioni dei diritti fondamentali.

6.5.4 Aprire le frontiere

Le visioni più audaci sulle modalità alternative di gestione dei flussi di migranti e richiedenti asilo provengono da testimoni che, per esperienza personale o professionale, muovono da una più o meno approfondita conoscenza del fenomeno. Queste posizioni, che richiamano riflessioni

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politiche che – sebbene minoritarie – si affacciano sulla scena italiana, esprimono la necessità di ripensare e riformare l’intero sistema di con-trollo dell’immigrazione, sulla base di valutazioni economiche e politiche che concernono l’inefficacia delle attuali restrizioni delle possibilità di ingresso legale sul territorio italiano.Secondo il coordinatore del Cie e del Cara, la soluzione potrebbe essere trovata in una liberalizzazione dei visti per la ricerca di lavoro, con ac-quisizione dei dati anagrafici di tutti gli stranieri che facciano ingresso nel territorio: “In questo modo i dati di ogni persona che entra sarebbero registrati all’Ambasciata italiana, che avrebbe così traccia di tutte le identità” (Int. 2). Grazie a un sistema informativo unico, che renderebbe super-fluo il ricorso alle rappresentanze consolari dei paesi di origine, il rico-noscimento degli immigrati, quando occorresse attivare una procedura d’espulsione, potrebbe avvenire mediante il ricorso a uno strumento ra-pido di identificazione. Secondo l’intervistato, con un simile sistema si favorirebbe non solo il controllo, ma anche la mobilità dei migranti, che potrebbero in ogni momento decidere di fare ritorno al paese d’origine, in mancanza di opportunità lavorative, “dal momento che non ci sarebbero i grandi investimenti di denaro dell’immigrazione clandestina, che poi vinco-lano lo straniero al progetto migratorio”.Dello stesso avviso è l’esponente di un’associazione di donne immigrate di Gorizia, secondo cui l’Italia risolverebbe il problema dell’immigrazio-ne facilmente se aprisse i confini e registrasse tutti gli ingressi con visti regolari. Come nella testimonianza precedente, la soluzione proposta viene sostenuta con argomentazioni di tipo pragmatico che rifiutano la retorica dominante su immigrazione e sicurezza ma al contempo pro-vano ad assumerne la prospettiva per condurre il ragionamento in una direzione opposta. Se gli obiettivi sono il controllo e la limitazione delle presenze, i mezzi con cui perseguirli devono essere rinvenuti attraverso una riflessione che riesca coraggiosamente a prescindere dalla popo-larità elettorale della logica dissuasivo-repressiva. Secondo la visione dell’intervistata, è l’irregolarità a causare molti dei fenomeni di margi-nalità a devianza su cui fa perno l’opinione pubblica contraria all’immi-grazione: “Molte infrazioni avvengono per il fatto che gli stranieri non hanno documenti, un permesso, e quindi non possono lavorare” (Int. 22). Questa posizione è rafforzata anche dall’analisi offerta dall’ex asses-sore regionale che fu autore della legge n. 5 del 2005 – recentemen-

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te cancellata – sull’accoglienza e l’integrazione dei cittadini stranieri. L’intervistato muove dalla considerazione dell’impossibilità di fermare l’immigrazione e della necessità di affidare alle dinamiche della doman-da e offerta di lavoro la regolamentazione dei flussi, liberalizzando la circolazione delle persone come si è fatto con le merci: “Finché il mercato assorbe il fenomeno non si fermerà. È il mercato il regolatore. Ora infatti stan-no cominciando i rientri spontanei, perché con la recessione sono gli stranieri i primi a perdere il posto” (Int.12). La crisi, secondo lo stesso testimone, può costituire un’opportunità importante per ripensare l’inclusione e le forme dell’esistenza collettiva: “Prevedo fenomeni durissimi per gli stra-nieri, una vera e propria caccia all’immigrato, ma anche una ripresa di chi concepisce la società come un organismo che vive”.Alla base di qualsiasi ripensamento politico del sistema di gestione dell’immigrazione va posto tuttavia uno sforzo di informazione e sensi-bilizzazione che possa incidere sugli immaginari negativi connessi alla presenza degli stranieri e favorire l’apertura al diverso delle comunità locali. Secondo un’insegnante bisogna “lavorare sulla conoscenza: creare occasioni informative in cui coinvolgere la cittadinanza, ma anche incontri e iniziative culturali” (Int. 17). Inoltre, affermano diversi testimoni, è im-portante far conoscere le storie individuali degli stranieri, soprattutto ai giovani, che hanno spesso giudizi molto duri perché sono disinformati: “Se capiscono le storie che ci sono dietro la realtà politica ed economica di chi arriva nel nostro paese, questo forse può servire a modificare i loro atteggiamenti” (Int. 18). Parallelamente, le istituzioni devono tornare a investire nell’integrazione: “Basterebbe a livello nazionale 1 milione di euro investito nell’integrazione, contro i 14 investiti nella sicurezza” (Int. 15) per poter sostenere le attività gestite dal volontariato, dal privato sociale e dagli enti pubblici e garantire un servizio “efficace ed umano” (Int. 11).

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7. Conclusionidi Giorgia Serughetti

7.1 Zone di confine: il principio di territorialità e i movimenti globali delle popolazioni

Nell’epoca dell’intensificazione dei movimenti e degli scambi planetari di merci, capitali, persone e servizi, l’epoca che è stata definita della “globalizzazione”, l’idea del confine, sulla quale è stato edificato lo sta-to moderno, pare destinata a scomparire. La progressiva erosione del concetto di territorialità e di sovranità, a livello economico, militare e culturale, ha portato infatti molti critici dei processi globali a parlare di “crisi” dello stato-nazione1 e, conseguentemente, dell’idea tradizionale di confine. Più che un tramonto dei confini, tuttavia, quel che va attuan-dosi è una ridefinizione, una trasformazione, nonché una rigenerazione di questi ultimi. Se le vecchie frontiere territoriali perdono di importanza strategica e di visibilità simbolica, come con la caduta della “cortina di ferro” e con l’ingresso di nuovi paesi nell’area di libera circolazione di Schengen, gli spazi politici e sociali si riconfigurano e vengono riposizio-nati lungo nuove linee di demarcazione. “Mentre confini fissi e lineari (come quelli della sovranità territoriale) vedono i propri tratti sfumare, e si scompongono e si ricompongono lontano dai loro tracciati canonici, altri confini, essenzialmente sovraterritoriali e immateriali

1 Si vedano, tra gli altri: Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Later-za, Roma-Bari 2001; Ulrich Beck, Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999; David Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano 1993.

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(come quelli, che possiamo definire di status, che contraddistinguono diverse condizioni personali – individuali o collettive), assumono forme sempre più nette e definite”2. Così, mentre i confini tradizionali perdono la propria rigidità spaziale, estroflettendosi e delocalizzandosi oltre il territorio sta-tale (per esempio fino alle frontiere esterne della ”Fortezza Europa”), i confini di status, che comprendono la cittadinanza e i diritti di cui ogni individuo o gruppo è titolare, “finiscono – in alcuni casi – per cristallizzarsi nello spazio, per coincidere con supporti materiali, immobili e lineari, come – per esempio – le mura dei centri di detenzione per stranieri”3.L’idea di territorio e quella di confine rappresentano, a Gorizia e a Gra-disca d’Isonzo, lo sfondo e il riferimento delle rappresentazioni su cui si è costruita la ricerca confluita in questo volume. Come si è visto, la pre-senza della frontiera, ma anche gli incessanti movimenti transfrontalieri di persone e di beni, hanno lungamente determinato l’identità di questa regione e dei suoi abitanti. E anche in seguito alla “caduta” del confine, con l’ingresso della Slovenia nell’acquis di Schengen, la relazione con l’alterità è dominata dalla percezione di “muri mentali”, confini imma-teriali, che pongono distanze tra una comunità locale che si percepisce come omogenea e, da una parte, lo straniero vicino di casa, dall’altra lo straniero che arriva da lontano, portatore di una diversità fisionomica più evidente e collegata, nell’immaginario collettivo, a dimensioni di in-quietudine e pericolo.Il Centro per migranti privi di documenti e per richiedenti asilo di Gradi-sca rappresenta allo stesso tempo un confine materiale e immateriale, una linea che divide – fisicamente, con l’alto muro in cemento armato che circonda la struttura, e idealmente, lungo le direttrici dello status socioeconomico e dell’appartenenza etnica – la popolazione isontina “originaria” dall’Altro, lo straniero. Ma, come ogni confine, quello del Centro allo stesso tempo separa due gruppi umani e ne fa due termini relativi, che si misurano l’uno con l’altro costruendo, anche attraverso il confronto, gli elementi delle proprie proiezioni identitarie. Il “muro” è quindi al contempo la linea di demarcazione e il luogo di riqualificazio-ne dei rapporti tra la minoranza straniera e la maggioranza autoctona. Rapporti che sono per lo più mediati, come si è visto, da rappresenta-

2 Paolo Cuttitta, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera, Edizioni Mimesis, Milano 2007, p. 8.

3 Ibidem

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zioni veicolate dai media, che producono ansie securitarie e paura della diversità, ma anche da più consapevoli atteggiamenti di comprensione e di apertura all’accoglienza.

7.2 Il Cie, il diritto e i paradigmi securitari

Il Cie, che rispetto al suo predecessore, il Cpta, ha meglio esplicitato anche nel nome (Centro di Identificazione ed Espulsione) le finalità per cui è istituito, rappresenta la materializzazione di una concezione delle politiche migratorie fondata sulle esigenze della regolazione, del con-trollo e del contenimento. La sua presenza su un territorio, come quello gradiscano, veicola un messaggio di estrema separazione tra gli abitanti e l’“umanità in eccesso”4 che viene confinata entro muri invalicabili, pro-vocando tra le comunità locali reazioni diverse e talvolta antitetiche: dal rifiuto fondato sulla paura del diverso all’indifferenza, dalla contrarietà basata su argomenti etico-solidali all’approvazione. Nelle testimonianze raccolte nel corso della ricerca di campo, realizzata attraverso il contri-buto di diversi attori sociali dei territori che ospitano i Centri, emergono discorsi o frammenti di ragionamenti intorno all’istituzione-Cie che in queste pagine conclusive si possono riprendere brevemente, conside-rando due dimensioni principali: quella giuridica e quella relative alle politiche sull’immigrazione.Sul versante del diritto, è possibile prendere in considerazione un rilievo mosso da numerosi giuristi ed esperti, a partire dal 2000, che riguarda l’incostituzionalità dei centri di trattenimento per i migranti irregolari, in quanto impongono restrizioni alla libertà personale per i soli cittadini stranieri e in assenza di reato, istituendo quindi un doppio diritto per ita-liani e stranieri, in violazione del principio dell’uguaglianza di fronte alla legge. Le organizzazioni attive nella difesa dei diritti umani denuncia-no l’incompatibilità dei centri con gli articoli sulla non-discriminazione e sulla libertà di movimento contenuti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del ‘48 e nella Convenzione Europea per la Sal-vaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (CEDU)5.

4 F. Rahola, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Ombre Corte, Verona 2003

5 Si veda, ad esempio, il Libro bianco sui Cpta redatto dal Comitato per la promozione e la protezione dei

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Infine, diversi studiosi di fenomeni migratori hanno messo in luce come nelle politiche italiane sull’immigrazione e in particolare nell’istituzio-ne del Cie prenda corpo un uso esclusivo ed escludente del concetto di cittadinanza che, contro la pretesa delle convenzioni internazionali di proteggere i diritti dell’uomo in quanto essere umano, produce una moltitudine di “non persone”, ai margini del diritto. “Il diritto si arresta di fronte agli stranieri, nel senso che li esclude dal proprio ambito. Gli stranieri vengono fatti sparire legalmente dall’ambito della legge in nome di una ne-cessità superiore (‘la loro pericolosità’, l’allarme sociale). Oppure, il diritto ne decreta la non esistenza quando decide che non possono vivere tra noi in quanto ‘clandestini’”6.La tendenza all’esclusione dei migranti dalla titolarità delle libertà fon-damentali e dei diritti socio-economici mostra segni di rafforzamento nelle recenti iniziative legislative del Governo di centro-destra. Il prov-vedimento noto come “Pacchetto Sicurezza”, approvato definitivamente dal Parlamento il 2 luglio del 2009, ha posto l’obiettivo di un’ulteriore erosione dei diritti degli stranieri privi di permesso di soggiorno: l’isti-tuzione del reato di immigrazione “clandestina”; il divieto di contrarre matrimonio, di accedere all’anagrafe per l’iscrizione dei figli, di certifi-care la morte; la preclusione di molti servizi pubblici, sotto la costante minaccia della denuncia alle autorità7. Non ultimo, l’allungamento del periodo di permanenza dei Cie, da un massimo di 60 giorni a un mas-simo di 180 giorni, che non soltanto muove in una direzione contraria rispetto alle indicazioni della Commissione De Mistura – che nel 2007 aveva decretato la necessità di superare i centri attraverso il loro pro-

diritti umani, un’organizzazione ombrello che raccoglie tutte le maggiori realtà attive in Italia nel campo dei diritti umani: www.comitatodirittiumani.org

6 A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999, p. 223.

7 Il Consiglio Superiore della Magistratura ha evidenziato a più riprese le problematicità del provvedi-mento. I punti sollevati sono, in sintesi, i seguenti:

• il rischio, connesso al reato di “clandestinità”, di una vera e propria paralisi giudiziaria a causa della carenza di organico, della lentezza della macchina della giustizia e del sovraffollamento nelle carceri;• l’anomalia dell’attribuzione dei casi di “immigrazione clandestina” al Giudice di pace;• il rischio di erosione del diritto alla salute, dovuto all’obbligo di denuncia dello straniero senza docu-menti di soggiorno da parte di un pubblico ufficiale, incluso il personale medico-sanitario;• la violazione della Convenzione di New York sui diritti dell’infanzia (l. n. 176/91 ) per quanto riguarda l’obbligatorietà per lo straniero dell’esibizione del permesso di soggiorno per il riconoscimento di un figlio.

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gressivo svuotamento8 – ma mostra di non tenere in nessun conto il disagio fisico e psicologico degli stranieri trattenuti né le difficoltà che ne deriveranno nel garantire, all’interno dei centri, un trattamento che garantisca il rispetto dei diritti umani.Volgendoci a trattare l’istituzione-Cie nell’ottica delle politiche pubbliche per la gestione del fenomeno migratorio, bisogna rilevare innanzitutto come la creazione dei centri e il loro rafforzamento abbia avuto lo scopo, fin dalla prima normativa che li contempla (la legge n. 40 del 1998), di rispondere alle paure dell’opinione pubblica, troppo spesso influenzate e amplificate da media irresponsabili, mediante misure repressive per il contenimento e il controllo dei flussi. Per questo, riflettere in questa pro-spettiva sui Centri di Identificazione ed Espulsione richiede soprattutto una riflessione sul tema della sicurezza, che domina da anni il dibattito pubblico sull’immigrazione, e sulle diverse declinazioni che può assu-mere. Possiamo chiederci, pragmaticamente, se i Cie, come gli ex Cpta, as-solvono alla funzione per cui sono stati creati, sia dal punto di vista della rassicurazione di un’opinione pubblica inquieta, sia rispetto allo scopo dichiarato di contrastare l’immigrazione clandestina e garantire l’espulsione degli irregolari. Secondo il Libro Bianco sui Cpta prodotto dal Comitato per la promozione e la protezione dei diritti umani, i dati sulle espulsioni effettuate rispetto alla popolazione straniera trattenuta nei centri deve suscitare notevoli perplessità sull’efficacia di un simile istituto. “Considerando gli anni dal 1999 al 2005 le persone trattenute nei CPTA […] sono state 98.266, quelle effettivamente rimpatriate 43.648. La percentuale delle persone effettivamente espulse su quelle trattenute è del 44,42%”9. Una percentuale di poco inferiore a quella dichiarata dall’Uf-

8 La Commissione per la verifica dei centri di trattenimento per stranieri, presieduta dall’Ambasciatore Steffan De Mistura, presenta nel rapporto conclusivo alcune indicazioni operative dirette al progressivo superamento delle misure di trattenimento amministrativo per gli stranieri privi di documenti. Tra queste, si possono menzionare: l’esclusione di alcune categorie dal novero degli stranieri che posso-no incorrere in un provvedimento di detenzione amministrativa (ex detenuti/e, persone bisognose di protezione sociale, assistenti familiari/colf irregolari); l’abolizione della misura di trattenimento per gli overstayers e gli stranieri extracomunitari identificati o che collaborano fattivamente alla propria identificazione; il mantenimento dell’operatività dei centri per la sola categoria degli stranieri non iden-tificati che resistono all’identificazione, con la raccomandazione di una riduzione dei tempi di tratte-nimento a un massimo di 20 giorni. http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/1/2007131181826.pdf

9 Dentico N.-Gressi M. (a cura di), Libro bianco: I Centri di Permanenza temporanea e Assistenza in Italia. Un’indagine promossa dal Gruppo di Lavoro sui CPTA in Italia, http://www.comitatodirittiumani.org. I dati a cui fa riferimento il Libro bianco provengono dai tre rapporti redatti dalla Corte dei Conti per gli anni 2002, 2003 e 2004 (Corte dei Conti, Programma di controllo. Gestione delle risorse previste in con-

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ficio Immigrazione di Gorizia: circa il 50%. Inoltre, già il rapporto della Commissione De Mistura metteva in rilievo l’insufficienza del sistema dei centri rispetto alle stime della componente irregolare dell’immigra-zione: una situazione che permane e in cui, anzi, pare doversi acuire la sproporzione10. Il fine, dichiarato con l’istituzione dei centri, di garantire l’identificazione degli stranieri irregolarmente presenti e l’allontanamen-to dal paese con accompagnamento alla frontiera non sembra dunque essere perseguito in misura sufficiente. Letti in questa prospettiva, i Cie possono essere compresi come sino-nimo di investimento sulla “sicurezza” solo all’interno di una strategia retorico-persuasiva che parla alle emozioni più che alla ragione. E che prescinde da una comprensione dell’idea di sicurezza che tenga con-to, quantomeno accanto agli aspetti dissuasivo-repressivi, anche di una politica di inclusione e di riconoscimento agli individui dei diritti sociali di cui sono titolari. “Quando parliamo di sicurezza e insicurezza […] non possiamo più pensare solo ai reati contro la persona, ma anche al rapporto tra globale e locale, al tema dell’ambiente, ai reati contro il patrimonio, ai mercati finanziari, all’incertezza economica, alla mani-polazione strumentale dell’informazione”11. Un approccio riduzionista che tenga conto solo degli aspetti connessi alla legalità e al controllo rischia di produrre capri espiatori senza favorire la ricerca di soluzioni e risposte. Nell’ambito delle politiche migratorie, la tendenza dei gover-ni all’investimento crescente sui centri, a detrimento dell’investimento

nessione al fenomeno dell’immigrazione, reperibili sul sito www.corteconti.it). Nel corso della presente ricerca non è stato possibile, per gli anni successivi, reperire dati analoghi, dal momento che i rapporti della Corte dei Conti si fermano al 2004 e si è rivelato difficile accedere ai dati ministeriali.

10 Basandosi su una stima di 300.000 migranti irregolari sul territorio italiano (nel 2006), il rapporto De Mistura evidenziava una “situazione paradossale”: a fronte di una capienza totale dei centri (Cpta) di 1.940 posti, bisognava ipotizzare che, nell’arco di un anno, potessero essere trattenute 11.742 persone, una percentuale irrisoria (intorno al 3,6%) della presenza stimata, con un tasso di identifica-zione e rimpatrio “ben lungi dall’essere al 100%” (Rapporto Commissione De Mistura, p. 5: http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/1/2007131181826.pdf). Oggi, in base alle stime sui migranti irregolarmente presenti sul territorio italiano, come quelle del’Ocse (tra 500 e 750 mila stranieri senza documenti) e dell’Ismu (650 mila), possiamo rilevare un aggravarsi della sproporzione: il numero dei posti disponibili nei Cie si aggira infatti intorno a 1.800 (variabile però in conseguenza di riconversioni funzionali, come è avvenuto a Gradisca), e il numero di persone che pos-sono essere trattenute nel corso di un anno potrebbe orientarsi, con il trattenimento fino a 180 giorni, intorno ai 3.600. Senza considerare il tasso di espulsioni effettivamente operate dai Cie, che come si è visto, almeno per quanto riguarda la situazione precedente l’entrata in vigore del Pacchetto Sicurezza, a Gradisca si attestava intorno al 50%.

11 P.P. Inserra, Una finestra su sicurezza, welfare locale e servizi, in P.P. Inserra (a cura di), Costruire la sicurezza locale, Sviluppo Locale Edizioni, Roma 2009.

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pubblico sulle misure per l’integrazione12, sembra incorrere in questo genere di rischio.

7.3 La permeabilità del confine: il Cara, la comunità locale e gli obblighi internazionali in materia di accoglienza

L’altra faccia del Centro di Gradisca è il Cara, destinato all’accoglienza dei richiedenti asilo, che per le sue modalità organizzative rappresenta la dimensione permeabile di quel confine materiale e immateriale che separa lo spazio interno al Centro dal mondo esterno. Il Cara come isti-tuzione solleva due ordini di riflessioni: uno riguarda la sua idoneità a rispondere agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia in materia di asilo; l’altro la sua capacità di fungere da ponte per l’integrazione dei richiedenti asilo nella comunità locale.I Cara, come si è visto nel capitolo 2, vengono istituiti dal decreto legi-slativo n.25/2008, detto “decreto procedure”, che recepisce la direttiva europea n. 85 del 200513 e segna un passo avanti rispetto alla Bossi-Fini, in quanto nei centri viene abolito il trattenimento per i richiedenti asilo, che era invece previsto nei Cid. Lo stesso decreto ha introdotto novità di rilievo nella direzione della semplificazione della procedura e della garanzia del diritto d’asilo, con l’eliminazione del doppio binario introdotto dalla Bossi-Fini14, l’aumento del numero delle Commissioni Territoriali e l’introduzione dell’effetto sospensivo dell’espulsione conse-guente alla presentazione del ricorso. Insieme alle direttive n. 9 del 2003 sull’accoglienza dei richiedenti asilo15 e n. 83 del 2004 sull’attribuzione

12 Come ha dichiarato Franco Pittau nella relazione introduttiva alla presentazione del Dossier stati-stico 2008 Caritas/Migrantes, “lascia perplessi sentir dire che in Italia si fa troppo per l’integrazione degli immigrati, non tenendo conto che questo impegno si può misurare. Rispetto ai 5 milioni di euro, con cui attualmente è finanziato il fondo per l’integrazione in Italia (in precedenza erano 100 milioni), riscontriamo che la Spagna di milioni ne spende annualmente 300 e la Germania 750”, http://www.caritasitaliana.it/materiali/Pubblicazioni/libri_2008/Dossier_immigrazione2008/Materiale/Pittau.pdf.

13 “Norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato”.

14 In attuazione degli articoli 31 e 32 della legge n. 189 del 2002, il D.P.R. 303/2004 introduceva una doppia procedura: semplificata, per i richiedenti asilo trattenuti nei centri di identificazione, ordinaria per tutti gli altri.

15 “Norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri”.

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della qualifica di rifugiato16 (recepite rispettivamente con il decreto legi-slativo n. 140 del 30 maggio 2005 e con il decreto legislativo n. 251 del 19 novembre 2007) il “decreto procedure” va nella direzione di una più organica regolamentazione del diritto d’asilo in Italia, con una migliore definizione e articolazione del sistema di riconoscimento delle qualifi-che, e il chiarimento degli strumenti e delle forme di attuazione delle garanzie procedurali. Tuttavia, forti preoccupazioni sono state espresse dalle organizzazioni attive nella difesa dei diritti di rifugiati e richiedenti asilo, soprattutto in seguito all’emanazione del decreto legislativo n. 159 del 3 ottobre 2008 che, come si è visto nel capitolo 2, apporta modifiche al decreto di gennaio, introducendo delle eccezioni all’effetto sospensivo del ricorso contro la decisione della Commissione e inasprendo le norme di tratta-mento per i richiedenti asilo destinatari di provvedimenti di espulsione, che vengono inviati ai Cie anziché ai Cara17. Sui Cara, inoltre, diverse perplessità erano state sollevate da parte delle associazioni del “Tavolo nazionale asilo” già a partire dalla loro istituzione: la nuova disciplina avrebbe di fatto lasciato invariata la situazione precedente, che preve-deva il trattenimento nei Centri di Identificazione, sia perché i casi per i quali è prevista l’accoglienza in un Cara sono i medesimi per i quali era previsto il trattenimento nel Cid, sia perché le nuove strutture in gran parte coincidono con le vecchie, sia infine perché la facoltà di uscire soltanto durante le ore diurne di fatto era riconosciuta in molti dei pre-cedenti Cid18. Secondo il Cir l’accoglienza nei Cara, su cui il Governo ha stanziato risorse crescenti, ha pressoché sostituito, nella prassi, la misura di accoglienza nei centri dello Sprar19, da sempre sottodimen-sionati rispetto alla domanda ma per i quali nel 2009 sono stati previsti tagli di spesa, fino all’azzeramento nel 2011 del Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo, con cui sono finanziati i centri del Sistema

16 “Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta”.

17 Si veda, per esempio, il comunicato della Caritas: http://www.caritas.it/Documents/24/3388.pdf

18 http://www.programmaintegra.it/modules/smartsection/item.php?itemid=446

19 Editoriale di Christopher Hein, direttore del Cir: http://www.cir-onlus.org/Editoriale%20Hein%202008.pdf

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di protezione20.I Cara e il sistema Sprar rappresentano, come emerge anche dalle te-stimonianze raccolte (in particolare quelle dei rappresentanti delle istituzioni e delle organizzazioni che offrono servizi di orientamento e integrazione per richiedenti asilo e rifugiati), due termini alternati-vi, rappresentativi di concezioni differenti del processo di accoglienza e integrazione dei richiedenti asilo. Pertanto l’investimento sulla prima tipologia di centro e la riduzione delle risorse per la seconda sono prov-vedimenti che rispecchiano una precisa visione delle politiche sull’asilo, intese, come quelle più generali sull’immigrazione, più a contenere e controllare gli ingressi che a implementare misure concrete di protezio-ne. Per quanto riguarda in particolare i percorsi di integrazione sociale degli ospiti, il Cara rivela una difficoltà congenita nella creazione di ponti effettivi con la comunità locale, soprattutto a causa dei numeri rilevanti di persone che vi risiedono. Centri progettati per ospitare centinaia di stranieri rischiano di trasformarsi in ghetti che, anziché includere, esclu-dono, rafforzando i muri che ostacolano gli scambi e la comunicazione tra l’interno e l’esterno. Inoltre, le disposizioni legislative che impongono il termine della misura d’accoglienza allo scadere dei 6 mesi rappresen-tano un limite per le iniziative, messe in atto dagli enti gestori,di socia-lizzazione e di inserimento sociale, lavorativo e culturale, come emerge dallo studio del caso di Gradisca.È invece comprovato il maggiore successo conseguito sul versante dell’integrazione da chi gestisce strutture di dimensioni minori, destina-te ad accogliere numeri ridotti di richiedenti asilo. I progetti territoriali dello Sprar sono infatti tenuti a seguire linee guida di intervento che mi-rano alla realizzazione di una accoglienza integrata, comprensiva di una serie di servizi di assistenza, orientamento e accompagnamento della persona. Tra questi, anche servizi per l’inserimento lavorativo, abitativo e – per i minori – scolastico. Secondo il Rapporto Sprar 2007/2008, nel 2008 sono stati quasi la metà, il 47,51%, i beneficiari che hanno lascia-to i centri avendo intrapreso un percorso di integrazione21. È quindi da ritenersi preziosa, nel contesto di una progressiva sistematizzazione di una politica italiana sull’asilo, l’indicazione che proviene da alcuni inter-

20 Si veda il testo dell’audizione dalla Camera del delegato dell’Anci alle politiche migratorie, Flavio Sturani: http://www.camera.it/_dati/leg16/lavori/stenbic/36/2008/1211/s020.htm

21 Anci, Rapporto annuale del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Anno 2007/2008

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vistati che hanno contribuito a questa ricerca, inclusi i rappresentanti delle organizzazioni che si occupano di richiedenti asilo e rifugiati, quel-la cioè di favorire l’accoglienza diffusa sul territorio nazionale in progetti di piccole dimensioni rispetto a quella concentrata in grandi strutture.

7.4 Comunità locali e immigrazione: tra realtà e pregiudizio

Fuori dai confini del Centro, l’altro termine relazionale che è stato og-getto della ricerca è la comunità locale, di cui si intendevano indagare rappresentazioni e atteggiamenti relativi all’immigrazione straniera e alla presenza del Centro sul territorio. Come è emerso a più riprese nei capitoli precedenti, nella produzione di discorsi relativi alla presenza di gruppi di stranieri si rileva l’azione combinata di retoriche politiche, produzione di insicurezza da parte dei mezzi di informazione e diffusioni di immagini stereotipate dello straniero, che vanno da quella miserabili-stica che ritrae il migrante come povero e proveniente da una realtà pre-moderna, quindi dai costumi “arretrati”, a quella criminalizzante che appiattisce la figura del migrante su quella del delinquente. Si può qui riprendere il filo delle considerazioni svolte nell’analisi delle interviste. Innanzitutto, il tema della paura: in un territorio che viene rappresentato dagli stessi intervistati come esente da gravi problemi di criminalità lo straniero viene tuttavia facilmente compreso nel binomio immigrazione-sicurezza/insicurezza, che da oltre 15 anni dà forma alle inquietudini dell’opinione pubblica e alle misure politiche che intendono porvi rimedio. Come mostrano gli studi di sociologi come Dal Lago e Palidda, la criminalizzazione dello straniero risponde a una logica anti-ca ma attualissima, ovvero quella della produzione sociale del “nemico pubblico”22 attraverso la “criminalizzazione degli esclusi”23. Un ruolo essenziale in questo processo è svolto dai media: l’immigrazione, nei suoi rilievi essenzialmente negativi, domina i palinsesti televisivi e le pagine dei quotidiani, soprattutto attraverso i meccanismi del sensazio-nalismo e dell’allarmismo, legati a episodi di cronaca o alle cosiddette “emergenze” degli sbarchi che si ripropongono ogni primavera-estate e

22 A. Dal Lago, Non persone, cit.

23 S. Palidda, Ossessione sicuritaria e criminalizzazione degli esclusi, in A. Margara, S. Migliori, A. Scan-durra, N. Solimano, a cura di, Ordine & Disordine, suppl. a “La Nuova città”, 2007, pp. 67-78.

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si rivelano tali soprattutto per la cronica impreparazione delle istituzioni a farvi fronte. Secondo il Rapporto 2008 del Censis sulla situazione sociale del paese, gli italiani percepiscono un aumento dell’insicurezza da riferire all’effet-to di una informazione che tende ad alimentare ansie e angosce, con il ricorso a linguaggi e retoriche volte a colpire l’immaginazione e a su-scitare reazioni emotive. Il 20,4% degli intervistati, nell’indagine cam-pionaria effettuata dal Censis, ritiene che i media cavalchino le paure, attraverso la presentazione selettiva delle notizie. Al primo posto, però, vengono i politici (29,6%), che si ritiene fomentino le paure per distoglie-re l’attenzione dai problemi reali, favorire il consenso, legittimare il pro-prio ruolo24. si tratta di dati che fanno riflettere, considerato l’accento posto dall’attuale governo sulla “sicurezza”, intesa primariamente come repressione e controllo. L’effetto che si delinea è infatti, al contrario, una diffusa percezione di insicurezza, con il conseguente innesco di un circolo vizioso che induce l’opinione pubblica a premere per un energico intervento della politica. Accanto alla questione della sovraesposizione mediatica (negativa) del migrante si pone quella, per molti versi speculare, della diffusa disinfor-mazione sui fenomeni migratori e sull’asilo politico. Come si è visto an-che nell’analisi delle interviste agli attori sociali dei territori di indagine, la difficoltà, se non vera e propria incapacità, di distinguere tra migrate economico e richiedente asilo – con un appiattimento della seconda fi-gura sulla prima – ostacola l’elaborazione e la ricezione di ragionamenti più approfonditi sulle ragioni dell’arrivo e sugli obblighi internazionali in materia di accoglienza. Ancora una volta, parte della responsabilità per la produzione di informazioni e discorsi insufficienti o fuorvianti è da attribuire ai mezzi di informazione e alla retorica politica, come è risul-tato evidente anche in occasione dei recenti episodi di respingimenti di “barconi” di migranti e richiedenti asilo provenienti dalla Libia25. Più in generale, l’effetto combinato di disinformazione e distorsione dell’infor-mazione ostacola il rafforzamento e la diffusione tra la popolazione di una cultura dei diritti umani che possa costituire un antidoto verso forme

24 Censis, Rapporto sulla situazione sociale del paese 2008, http://www.censis.it/files/Rapporto_annuale/2008/8_Comunicazione.pdf

25 I respingimenti sono avvenuti a maggio e hanno suscitato un notevole clamore mediatico, anche a causa della decisa contrapposizione tra le posizioni del Governo e i richiami dell’Acnur al rispetto delle convenzioni internazionali sull’asilo.

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di inferiorizzazione, emarginazione, esclusione sociale dello straniero ed etnicizzazione della devianza. Al di là delle visioni che si pongono genericamente in linea con i luoghi comuni più diffusi sugli stranieri, nella rilevazione condotta tra la popo-lazione di Gorizia e Gradisca emergono tuttavia anche dati significativi, come la percezione diffusa di un forte impatto del Centro, specialmente del Cara, sul territorio. Si tratta di un tema che chiama in causa l’intero sistema nazionale di gestione dell’accoglienza. Il disagio espresso dalla popolazione, infatti, così come la preferenza accordata – non solo dagli specialisti del settore, ma anche da rappresentanti del mondo culturale e del tessuto commerciale e imprenditoriale – ad un modello di accoglien-za decentrata (modello Sprar), mostrano quanto sia sentita localmente la sproporzione tra le dimensioni del Centro di Gradisca e la comunità in cui si inserisce. Non si possono certo ignorare le paure più o meno irrazionali della diversità che danno forma a queste posizioni, ma d’altra parte va rilevato come si tratti, in molti casi, di considerazioni più com-plesse rispetto alle potenzialità di integrazione territoriale delle strutture destinate ai richiedenti asilo: appare diffusa infatti la convinzione che le accoglienze di piccoli numeri, oltre a ridurre l’impatto, possano favorire le relazioni e gli scambi con le reti territoriali e la popolazione locale.

7.5 Pratiche di confinamento e prospettive di interazione

In conclusione si può tentare di avanzare alcune raccomandazioni opera-tive che derivano da una lettura delle criticità rilevate dagli attori locali e da valutazioni sui possibili interventi istituzionali e di governance locale che possano rispondere alle questioni oggetto della ricerca. Mantenendo una distinzione ideale tra un “dentro” e un “fuori” separati dal confine del Centro, vengono qui esplorate le pratiche di interazione che possono essere implementate sia nella relazione, tutta interna alla struttura, tra gli operatori e gli “ospiti”, sia nella relazione tra gli “ospiti” e la popola-zione locale. Su entrambi i versanti saranno indicati gli interventi che è possibile disporre a diversi livelli, con una valutazione della sostenibilità in termini di attori e risorse.

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Il servizio alla persona nel Cie e nel CaraCome è emerso dall’analisi delle strutture e del servizio condotta nei capitoli 3 e 4, il lavoro degli operatori nel Cie e nel Cara incontra alcune criticità derivanti da due ordini di problemi:

a. problemi di tipo sistemico, relativi alle procedure di identificazio-ne e di esame delle domande d’asilo, che dipendono solo in parte dall’organizzazione a livello locale degli uffici preposti, essendo in larga misura riconducibili alle disposizioni ministeriali; b. problemi di carattere gestionale, che derivano invece dalla difficol-tà strutturale di far coesistere una logica di controllo poliziesco con una filosofia d’aiuto.

Per quanto riguarda il Cie, i tempi impiegati dall’Ufficio immigrazione della Questura per l’espletamento delle procedure d’identificazione e l’organizzazione del rimpatrio rappresentano una delle principali pro-blematiche con cui la gestione quotidiana delle attività è costretta a con-frontarsi. Il trattenimento degli “ospiti” difficilmente si conclude prima del limite di 60 giorni stabilito per legge (limite che a partire dall’en-trata in vigore del “Pacchetto sicurezza” sarà esteso a un massimo di 180 giorni), con conseguenze rilevanti sulle modalità di erogazione dei servizi alla persona. L’équipe psicosociale del centro, in particolare, sot-tolinea i fenomeni di disagio ed esasperazione che tendono a volgersi in forme di aggressività, obbligando il personale a ricorrere a misure di tipo repressivo che ostacolano la costruzione di rapporti di fiducia e collaborazione con gli stranieri trattenuti. Parallelamente, nel Cara una serie di difficoltà derivano dai tempi d’esame delle domande d’asilo da parte della Commissione Territoriale di Gorizia. La sospensione dell’at-tesa provoca negli ospiti l’acuirsi di disagi psicofisici e, di conseguenza, l’aumento delle problematiche a cui l’équipe psicosociale e gli altri ope-ratori dell’accoglienza sono tenuti a far fronte. Rispetto all’organizzazione interna e le criticità gestionali, viene rilevata dagli operatori del Cie la necessità di delimitare il campo d’azione dei membri dello staff, distinguendolo dagli interventi di controllo e repres-sione esercitati dalle Forze dell’ordine che operano nello stesso spazio. Come si è visto, si tratta di un’esigenza che l’ente gestore ha colto fin dal principio e su cui lavora giorno per giorno. Tuttavia, episodi critici come le rivolte avvenute in autunno, cui sono seguite misure restrittive dispo-ste da Prefettura e Questura, possono compromettere il ruolo d’aiuto

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esercitato dagli operatori, riducendone la libertà d’azione. Sia nel Cie sia nel Cara, infine, viene evidenziata la necessità di riempire il “vuoto” delle giornate degli “ospiti”, strutturando attività di tipo sia ricreativo, sia educativo-formativo. Per quanto riguarda il primo ordine di criticità, gli interventi richiesti pertengono prevalentemente alla gestione ministeriale degli uffici pre-posti all’identificazione/rimpatrio e all’esame delle domande d’asilo. Un incremento dell’efficienza esigerebbe un intervento di carattere innanzi-tutto finanziario, ma anche organizzativo, con un’adeguata riallocazione di risorse, se – come affermano gli intervistati – le tempistiche prolun-gate dipendono, da una parte, dagli organici ridotti impiegati nelle pra-tiche presso l’Ufficio immigrazione, e dall’altra dalla difficoltà di una sola Commissione Territoriale di esaminare il numero sproporzionato di domande che pervengono. Per quanto riguarda la procedura d’asilo, inoltre, la pressione numerica delle domande rispetto alle possibilità operative della Commissione contiene in sé il rischio – evidenziato anche dai rappresentanti delle organizzazioni che si occupano di richiedenti asilo – di un esame frettoloso delle storie, con possibili esiti arbitrari e difficoltà di discernimento soprattutto nei casi di persecuzione indivi-duale che possono valere l’ottenimento dello status di rifugiato. Come si evince anche dai dati presentati nel capitolo 1, il numero di rifugiati riconosciuti dalla Commissione ha subito un andamento inversamente proporzionale al numero delle domande pervenute. Si tratta quindi di una situazione che richiede attenzione da parte degli organismi governa-tivi, perché gli strumenti di protezione internazionale che garantiscono il diritto fondamentale all’asilo politico non rischino di essere vanificati.Per quanto riguarda la gestione interna del Cie e del Cara, si possono indicare due direzioni di intervento, una rivolta agli operatori l’altra agli utenti. Per gli operatori, che esprimono l’esigenza di rafforzare il proprio ruolo d’aiuto e distinguerlo da forme di controllo e repressione, potrebbe essere utile predisporre dei percorsi formativi orientati a:

a. fornire un’adeguata conoscenza dei temi delle migrazioni e dell’asi-lo politico nella loro complessità;b. costruire una relazione di aiuto improntata ai principi della media-zione sociale e culturale;c. confrontarsi con esperienze di lavoro realizzate in altri contesti italiani ed europei.

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Guardando all’utenza, un potenziamento del servizio alla persona che passi attraverso l’offerta di attività quotidiane, potrebbe essere orienta-ta, nelle due strutture, in due sensi differenti conformi alla loro diversa finalità. Per quanto riguarda il Cie, data la funzione a cui è preposto, un’ottica di intervento possibile è quella del ritorno, sulla quale lavo-rano da anni istituzioni e Ong italiane ed europee mediante progetti di sostegno alla migrazione circolare e a processi di reinvestimento profes-sionale nei paesi d’origine26. Possono quindi essere organizzati, paralle-lamente:

a. interventi formativi sui temi della creazione d’impresa e del reinse-rimento lavorativo, in forma di seminari e gruppi di discussione alla presenza di esperti del mondo delle Ong e delle agenzie formative;b. gruppi di sostegno psico-sociale in cui far emergere e affrontare timori, rischi e difficoltà legati alla prospettiva del ritorno.

Entrambe le iniziative potrebbero avvalersi di forme di collaborazione con la rete dei soggetti locali che si occupano di immigrazione, sviluppo e formazione, anche mediante la partecipazione a bandi europei per finanziamenti ad hoc.Nel Cara invece, in cui ha inizio per i richiedenti asilo il percorso verso un auspicato riconoscimento della protezione umanitaria o dello status di rifugiato, le attività vanno orientate nella direzione dell’integrazione sociale in Italia, comprendendo dunque quanto già previsto dalle Linee Guida per l’accoglienza dello Sprar in tal senso, come la garanzia di corsi di alfabetizzazione in lingua italiana e dei percorsi individuali di orientamento al lavoro, inserimento in attività formative o lavorative, op-portunità di tirocini o borse lavoro.Su questi aspetti sono già attive iniziative locali – di cui si è trattato nei capitoli precedenti –, che possono essere valorizzate e ampliate median-te il rafforzamento della rete territoriale.

Le reti territoriali Come mostra la trattazione precedente, le iniziative per l’integrazione sociale degli ospiti del Cara sono state avviate grazie alla sensibilità

26 Un esempio è il progetto “Migrazione e ritorni” ideato e gestito dal Cerfe (Roma) e l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (ufficio di Roma), in partnernariato con il Centre d’Etudes et de Recher-ches Démographiques (Cered) di Rabat: www.migrationretours.org. Progetti sul ritorno reale o virtuale sono sostenuti da programmi specifici delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, come l’iniziativa congiunta “Migration for development”: www.migration4development.org

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e alla disponibilità di alcuni enti locali, organizzazioni e istituzioni del territorio. Lo sviluppo e il potenziamento delle reti territoriali rappre-sentano la direzione primaria in cui dovrà muoversi, anche in futuro, la costruzione di percorsi di integrazione sociale. I due grandi temi da affrontare riguardano la sistemazione abitativa dei richiedenti asilo, al decadere della misura d’accoglienza, e la ricerca di un’occupazione me-diante percorsi di formazione e avviamento al lavoro.L’ente gestore del Centro – affermano gli intervistati – ha mostrato fin dall’inizio del suo mandato la volontà di creare ponti con il territorio e valorizzare le risorse locali; da parte loro associazionismo ed enti locali hanno colto questo atteggiamento di apertura e manifestato la propria disponibilità a collaborare a progetti per l’integrazione. Basandosi quin-di sulle dichiarazioni di intenti e sulle disponibilità rilevate presso gli attori territoriali nel corso della ricerca, sulle attività già intraprese, ma anche su considerazioni più generali, si possono raccomandare le se-guenti iniziative:

a. ampliamento dell’offerta di corsi di alfabetizzazione in lingua ita-liana, sia in termini di ore di frequenza sia di numero di classi, attra-verso convenzioni con le agenzie formative e la richiesta di finanzia-menti tramite i fondi POR FSE;b. predisposizione di percorsi di formazione professionale (anche in questo caso attraverso convenzioni con le agenzie formative e i fondi POR FSE), sul modello di quelli già intrapresi in passato (es. informa-tica), adeguandoli alla domanda locale e organizzandoli in blocchi di frequenza concentrati e di breve durata, date le difficoltà che incon-trano gli ospiti negli spostamenti e i limiti temporali di permanenza nel Centro; c. facilitazione degli spostamenti mediante la collaborazione tra Pre-fettura e agenzia locale dei trasporti (Apt Gorizia), che può implicare la creazione di nuove linee o la deviazione di quelle attuali affinché possano fermare in prossimità del Centro.

Per quanto concerne la prosecuzione dell’accoglienza per i richiedenti asilo oltre i sei mesi, la messa in rete delle risorse territoriali potrebbe favorire soluzioni alloggiative di piccola dimensione per una sistemazio-ne più stabile di quegli ospiti che vedono riconosciuto il diritto all’asilo o alla protezione umanitaria. Fondamentale, in questa direzione, è la col-laborazione delle amministrazioni comunali e delle agenzie per l’edilizia

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residenziale pubblica. Iniziative di questo tipo, sostenute direttamente dagli enti locali, andrebbero a garantire ai richiedenti asilo quell’accesso preferenziale su base territoriale che il sistema Sprar, essendo gestito centralmente, non è in grado di offrire.

La popolazione locale e il Centro di GradiscaPer quanto riguarda l’interazione tra gli stranieri che risiedono nel Cen-tro, in particolare i richiedenti asilo del Cara, e la comunità locale, ri-prendendo le riflessioni svolte qui sopra sulle distorsioni causate dalla disinformazione e dalla cattiva informazione, si possono ipotizzare, nel contesto locale in cui si è svolta a ricerca, due linee, convergenti, di in-tervento:

a. una strategia di comunicazione e informazione rivolta alla comuni-tà locale su migrazioni e asilo politico; b. un’opera di sensibilizzazione, in particolare, sulla condizione di richiedenti asilo, rifugiati e beneficiari di protezione sussidiaria.

Entrambe queste linee possono essere percorse sia dagli enti locali sia dalle organizzazioni che si occupano di immigrazione e asilo, compreso l’ente gestore del Centro, attraverso la promozione di eventi culturali sia di carattere informativo sia di tipo ricreativo-culturale, che possano: offri-re contribuiti teorici alla comprensione dei fenomeni e stimolare, anche grazie alle testimonianze dirette di richiedenti asilo, un atteggiamento sensibile ai diritti umani fondamentali e volto all’accoglienza; favorire la reciproca conoscenza tra italiani e comunità migranti e un crescente ap-prezzamento delle rispettive tradizioni, costumi e produzioni artistiche. Durante il percorso della ricerca è stato possibile attivare, seppure nel numero limitato di intervistati coinvolti, l’interesse per un processo di maggiore conoscenza del fenomeno migratorio e della diversità cultura-le, che si ritiene possa costituire una base promettente per l’attivazione della comunità locale e la risposta favorevole alle eventuali iniziative pro-mosse dagli enti locali e dall’associazionismo.Rispetto, più in specifico, alle due strutture presenti nel Centro, si rileva l’opportunità di favorire l’apertura al territorio attraverso un’opera di informazione che miri anche a dissipare confusioni e sovrapposizioni, molto diffuse al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori e dei rappre-sentanti delle istituzioni. Dalla confusione tra il Cie e il Cara deriva infatti spesso, come si è visto, una sovrapposizione di rappresentazioni che

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spinge ad attribuire agli ospiti del Cara caratteristiche, acquisite per lo più attraverso i media, che riguardano invece i trascorsi penali di alcuni irregolari trattenuti nel Cie, e a produrre associazioni tra il fenomeno dei richiedenti asilo e forme di micro e macrocriminalità. Sono inoltre presenti tra la popolazione false informazioni rispetto al trattamento economico dei richiedenti asilo che, oltre a fomentare una generica con-trarietà di alcuni rappresentanti della comunità locale per una forma di eccessivo “assistenzialismo” in questi “tempi di crisi”, producono atteg-giamenti di ostilità verso i comportamenti degli ospiti, come la richiesta di elemosina. Per quanto riguarda quindi i processi informativi può essere avviata, ad opera dell’ente gestore del Centro, ma anche degli enti locali, una strategia di diffusione di conoscenze sulla natura delle strutture, sulle forme di gestione e sulla destinazione delle risorse. Le modalità possono comprendere la distribuzione di materiali informativi, l’organizzazione di seminari e conferenze o la creazione di eventi per favorire l’incontro e lo scambio tra Centro e territorio.

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BIBLIOGRAFIA

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ELENCO DEGLI INTERVISTATI

Personale del Cie e del Cara:1. Vittorio Isoldi - Direttore CIE/CARA2. Mourad Aissa - Coordinatore CIE/CARA 3. Laura Di Biaggio - Assistente sociale CIE 4. Francesco Spazzali - Psicologo CIE/CARA5. Carmelo Gerace - Responsabile ambulatorio CIE/CARA6. Blaise Ndamnsah - Mediatore linguistico-culturale CARA7. Maria Gallizia - Assistente sociale CARA8. Daniela Megdevic - Mediatrice linguistic-culturale CARA 9. Luca Del Negro - Amministrativo addetto gli ospiti CIE

Rappresentanti della comunità locale:10. Franco Tommasini - Sindaco Comune di Gradisca11. Andrea Bellavite - Consigliere comunale Comune di Gorizia 12. Roberto Antonaz - Consigliere regionale Regione Friuli Venezia Giulia13. Giuseppe Donadio - Dirigente area IV (Immigrazione) Prefettura di Gorizia14. Alessio Camporese - Dirigente Ufficio Immigrazione Questura di Gorizia15. Don Paolo Zuttion - Direttore Caritas di Gorizia 16. Manuela Pillon - Assistente sociale Comune di Gradisca17. Gessica Zof - Insegnante di italiano per stranieri ITC Einaudi/CTP di Staranzano 18. Lorena Andrean - Insegnante di italiano per stranieri ITC Einaudi CTP di Staranzano 19. Mario Colaianni - Direttore Chiesa metodista di Gorizia (assistenza spirituale nel CARA)20. Patrizia Zampi - Direttore responsabile Radio Gorizia 121. Alessandro Bonfanti - Responsabile palinsesto Radio Gorizia 1 22. Aida Dizdari - Associazione Rosa dei Venti (Gorizia)23. Manushaqe Zefi - Coordinatrice CIR di Gorizia (assistenza legale nel CARA)24. Rodolfo De Gasperi - Associazione culturale Mattatoio Scenico (Gradisca)25. Franco Bonanno - Presidente società sportiva Itala S. Marco (Gradisca)

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26. Gianfranco Zotter - Vice-presidente Ascom provinciale di Gorizia27. Maurizio Skocaj - Hotel Franz (Gradisca)28. Serafina Celentano - Hotel Al Pellegrino (Gradisca)29. Giuseppe Cerutti - Tabaccheria (Gradisca)

Ospiti del Cara:30. Adam - Costa d’Avorio 31. Huseyin - Kurdistan turco 32. Paul - Nigeria 33. Maxis - Nigeria 34. Sadik - Ghana

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GLI AUTORI

Pier Paolo Inserra, esperto di pianificazione sociale territoriale e di progettazione partecipata, ricercatore e formatore, si occupa di po-litiche sociali, non profit, governance e sicurezza locale. È presidente dell’Associazione Parsec - ricerca e interventi sociali. È autore di diver-si contributi scientifici riguardanti le scienze sociali. Di recente ha pub-blicato “Costruire la sicurezza locale”, sviluppolocale edizioni (2008).

Giulia Rellini, laureata in Filosofia e Studi Teorico-Critici, dal 2006 la-vora nel settore dell’immigrazione e dell’asilo, in particolare in progetti di accoglienza rivolti a richiedenti asilo e rifugiati, vittime di persecu-zioni e di trattamenti inumani e degradanti. Dal 2008 collabora con l’Associazione Parsec in attività di ricerca e progettazione di interventi di promozione sociale.

Giorgia Serughetti, ricercatrice presso l’Associazione Parsec, dotto-randa in Studi Culturali all’Università di Palermo e collaboratrice del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano-Bicocca. I suoi am-biti di studio includono: i fenomeni migratori e il diritto d’asilo (minori stranieri, integrazione sociale e lavorativa degli immigrati e dei richie-denti asilo, detenzione amministrativa degli stranieri), la protezione internazionale dei diritti umani, la tratta di donne e la prostituzione.

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Stampato da Beniamini Group Srlottobre 2009