vipassana tutti o quasi i tipi di vipassana e link

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Vipassana (pali , in sanscrito : vipaśyana) una delle due principali forme della meditazione buddhista , detta anche meditazione di visione penetrativa (in inglese insight meditation). A differenza della meditazione samatha , questa forma di meditazione non è finalizzata al raggiungimento di stati di assorbimento meditativo e non ha un carattere astrattivo. Al contrario, la meditazione vipassana intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione. Il corpo e la mente sono il campo nel quale è possibile scoprire, con una visione attenta, la verità del mondo fenomenico e quella che porta alla sua estinzione. La tecnica della meditazione vipassana è insegnata dal Buddha nel Discorso sui fondamenti della presenza mentale (Satipatthanasutta), e prevede i seguenti momenti: Contemplazione del corpo Consapevolezza del respiro Consapevolezza delle posizioni del corpo Consapevolezza delle azioni del corpo Consapevolezza delle parti del corpo Consapevolezza degli elementi Nove contemplazioni del cimitero Contemplazione delle sensazioni Contemplazione della mente Contemplazione degli oggetti mentali In riferimento ai cinque ostacoli (desiderio sessuale, malizia, indolenza, ansia e dubbio) In riferimento ai cinque aggregati dell'appropriazione (aggregato della materia, delle sensazioni, delle formazioni mentali, delle forze istintive e della coscienza) In riferimento alla sei basi interne e alle sei basi esterne dei sensi (occhi, orecchie, naso, lingua, corpo e mente, e le realtà esterne corrispondenti) In riferimento ai sette fattori del risveglio (presenza mentale, investigazione dei fenomeni, risveglio dell'energia, gioia, serenità, concentrazione ed equanimità). La consapevolezza di sé e del proprio corpo non dev'essere limitata al momento della giornata riservato alla pratica. In qualunque momento della sua giornata, colui che pratica questa forma di meditazione deve sforzarsi di essere consapevole di quel che sta facendo, delle sensazioni che prova e della propria attività mentale. Questa forma di meditazione si è rivelata più adatta della meditazione samatha per la diffusione presso i laici, perché non ha bisogno della quiete di un

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Vipassana

(pali, in sanscrito: vipaśyana) una delle due principali forme della meditazione buddhista, detta anche meditazione di visione penetrativa (in inglese insight meditation). A differenza della meditazione samatha, questa forma di meditazione non è finalizzata al raggiungimento di stati di assorbimento meditativo e non ha un carattere astrattivo. Al contrario, la meditazione vipassana intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione. Il corpo e la mente sono il campo nel quale è possibile scoprire, con una visione attenta, la verità del mondo fenomenico e quella che porta alla sua estinzione.La tecnica della meditazione vipassana è insegnata dal Buddha nel Discorso sui fondamenti della presenza mentale (Satipatthanasutta), e prevede i seguenti momenti:

Contemplazione del corpo Consapevolezza del respiro Consapevolezza delle posizioni del corpo Consapevolezza delle azioni del corpo Consapevolezza delle parti del corpo Consapevolezza degli elementi Nove contemplazioni del cimitero

Contemplazione delle sensazioni Contemplazione della mente Contemplazione degli oggetti mentali

In riferimento ai cinque ostacoli (desiderio sessuale, malizia, indolenza, ansia e dubbio) In riferimento ai cinque aggregati dell'appropriazione (aggregato della materia, delle

sensazioni, delle formazioni mentali, delle forze istintive e della coscienza) In riferimento alla sei basi interne e alle sei basi esterne dei sensi (occhi, orecchie, naso,

lingua, corpo e mente, e le realtà esterne corrispondenti) In riferimento ai sette fattori del risveglio (presenza mentale, investigazione dei

fenomeni, risveglio dell'energia, gioia, serenità, concentrazione ed equanimità). La consapevolezza di sé e del proprio corpo non dev'essere limitata al momento della giornata riservato alla pratica. In qualunque momento della sua giornata, colui che pratica questa forma di meditazione deve sforzarsi di essere consapevole di quel che sta facendo, delle sensazioni che prova e della propria attività mentale. Questa forma di meditazione si è rivelata più adatta della meditazione samatha per la diffusione presso i laici, perché non ha bisogno della quiete di un monastero né di tempi di pratica particolarmente intensi per raggiungere risultati soddisfacenti. Per queste sue caratteristiche, ha raggiunto una apprezzabile diffusione anche in Occidente. Si fa tuttavia presente come il Buddha indicasse in una sinergia tra queste pratiche un cammino credibile in quanto la tecnica della Vipassana senza un preventivo esercizio di concentrazione - Samatha - risulta futile, e pericoloso, quanto andare in battaglia con una spada non affilata.Tra coloro che in tempi recenti hanno fatto progredire la tecnica della meditazione vipassana, occorre ricordare il monaco Mahasi Sayadaw (1904-1982) ed il laico U Ba Khin (1899-1971), entrambi birmani.

Corrado Pensa è insegnante di Vipassana presso l'Associazione per la meditazione di consapevolezza (Ameco) di Roma e Senior Teacher all'Insight Meditation Society di Barre, Massachusetts, USA. È stato ordinario di Religioni e Filosofie dell'India presso l'Università "La Sapienza" di Roma e ha esercitato la psicoterapia in ambito junghiano

Come definirebbe Vipassana?

La meditazione di Vipassana, o ³chiara visione², è parte cruciale dell¹insegnamento del Buddha, ove essa è considerata lo strumento principe per raggiungere la liberazione dalla sofferenza. Tale meditazione si propone

anzitutto di coltivare un¹attenzione intenzionale che si rivolge momento per momento a ciò che sorge nel presente: sensazioni fisiche, moti di avversione e di attaccamento, emozioni, immagini, fantasticherie, frequenti ruminazioni mentali. Dunque un¹attenzione intenzionale e attiva in contrasto con l¹attenzione comunemente intesa che si accende per scopi specifici (fare un lavoro, capire un discorso, seguire un film). Questo tipo di attenzione intenzionale, o consapevolezza, viene esercitata sia nella meditazione formale, sia nella meditazione in azione. Essa si prefigge una graduale depurazione della mente da quel capillare inquinamento prodotto daavversione, attaccamento e confusione mentale, ossia dalle cause fondamentali del disagio esistenziale. In questo modo diventa possibile sviluppare, altrettanto gradualmente, la chiarezza mentale e il calore delcuore.

Che differenza c'è fra concentrazione e attenzione dunque?

La concentrazione è attenzione focalizzata e serve a costituire un fondamento di maggior stabilità e calma mentale. Una volta costruito tale fondamento, l¹attenzione, o consapevolezza, deve farsi più diffusa, piùflessibile e, soprattutto, più penetrante. In modo da sfociare in una comprensione via via più rilassata e compassionevole dei disagi grandi, piccoli e minimi del nostro quotidiano. Comprensione senza la quale ilconseguimento di un bene irreversibile o liberazione non è ritenuto possibile.

Quali sono le differenze con il pranaya-ma, visto che anche nella Vipassana la respirazione è un elemento fondamentale?

Nel pranayama, come la stessa parola sanscrita dice, si controlla il respiro. Nella modalità più diffusa della Vipassana il respiro, invece, si segue così com¹è. Inoltre il respiro è solo uno dei supporti meditativipossibili: parti del corpo, reattività emotiva, suoni, etc., sono per esempio alcuni dei molti altri.

Quali sono le modalità pratiche della meditazione Vipassana?

Nella maggior parte degli stili di Vipassana i modi formali di praticare sono due: seduti con la schiena eretta e gli occhi chiusi o socchiusi oppure in camminata lenta e consapevole, con gli occhi aperti. Poco coltivata inOccidente ma diffusa, invece, nel sudest asiatico, la meditazione in piedi da fermi.

Non occorre essere buddhisti per praticare la Vipassana?

Sono d'accordo, però è necessario entrare un minimo nella questione. "Essere buddhisti", nel senso di essere dogmaticamente sicuri della superiorità del buddhismo, è una forma di ciò che il Buddha chiamava "attaccamento alle opinioni e ai punti di vista". Quindi mi pare che, fino a quando non abbiamo deposto questa presunzione, non siamo nemmeno entrati nel cammino del Buddha. Se, viceversa, si segue appassionatamente il cammino interiore indicato dal Buddha, fondato su etica, meditazione e saggezzacompassionevole, allora il fatto che ci si dica buddhisti o meno mi sembra irrilevante. Ci sono oggi in Occidente cristiani che percorrono la via del Buddha con molta più serietà di un buddhista "ideologico" e appagato dalle sue credenze. Così come si vedono cristiani ironici o critici verso il buddhismo pur essendo privi di qualsiasi conoscenza in merito. In realtà la questione di fondo è da sempre un¹altra: fino a che punto vogliamo dare priorità assoluta al cammino interiore lasciando così che esso riorienti radicalmente la nostra vita?

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La Vipassana viene intesa diversa-mente a seconda di tutta una serie di fattori che sostanzialmente marcano la differenza di metodologia tra le tre diverse correnti del Buddismo (Hinayana, Mahayana e Vajrayana):

A seguire link di cosa detto:

Questa e' la Vipassana del piccolo veicolo (Hinayana o Theravadha) Vipassana

Vipassana di Corrado Pensa (se ben ricordo allievo di Goenka)

Osservazioni sulla pratica

Vipassana nello Zen (Zazen) Roland Yuno Rech

Vipassana (Laktong) nel Vajrayana

Kaguypa (il ignaggio di Milarepa)

Vipassana nello Dzoghchen

http://www.lameditazionecomevia.it/tilopa.htm Mahamudra di Tilopa __________________

«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te.[...]Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero».

Matteo 11,25-30.

Osservazioni sulla pratica CORRADO PENSA LA FASCINAZIONE DEL PENSARE

Ovvero la tendenza ad attribuire il massimo valore possibile al pensare in sé e per sé. Non ci riferiamo, perciò, all’apprezzamento della riflessione saggia o di altre forme costruttive di pensiero, bensì, appunto, a una fascinazione indiscriminata per l’attività mentale. Due aspetti salienti di tale orientamento sembrano questi.

1) Ci sentiamo ‘a posto’ e in regola solo quando la mente pensa molto, non importa a cosa e non importa come. Quello che conta, invece, è il discorrere mentale: e discorrere viene dal latino discurrere, che significa ‘correre di qua e di là’.

2) Ci aspettiamo tutto e la soluzione di tutto in primo luogo dal pensare e poi anche dal leggere e dal parlare. È come se una parte di noi dicesse: se soltanto riesco a pensare abbastanza e abbastanza ripetutamente alla tale questione, se solo rivedo il film mentale di quell’avvenimento tantissime volte, se ce la faccio a leggere in abbondanza sulla meditazione... allora sì, allora succederà sicuramente qualcosa di buono. È una specie di fede cieca, di abbandono a un presunto potere magico del pensare e del ripensare, della cogitazione compulsiva o proliferazione mentale.

In realtà - e questa è una delle lezioni più preziose della pratica - siamo davanti a uno degli attaccamenti più forti e radicati, l’attaccamento al pensare per pensare, l’attaccamento alla concettualizzazione e alla verbalizzazione, la dipendenza

dall’incessante discorrere mentale, con la conseguente e inevitabile diffidenza nei confronti di tutto ciò che esula dalla discorsività.

Ed è proprio l’attaccamento alla proliferazione che ci rende ciechi a fondamentali capacità della mente diverse dal pensare, in particolare sati (consapevolezza) e metta (benevolenza incondizionata).Ossia da una parte la capacità di ascolto attento, di intimità non giudicante con ciò che i sensi e la mente via via ci presentano e, dall’altra, la capacità di investire i medesimi oggetti di una tenerezza altrettanto non giudicante e silenziosa (fatte salve, s’intende, le frasi-supporto per la metta).

E ugualmente silenziosa - in quanto più intuitiva che discorsiva - è poi la saggezza compassionevole che nasce come frutto dell’esercizio di sati e di metta.La difficoltà principale circa questo attaccamento è che il continuo discorrere mentale ci sembra una cosa normale o, addirittura, appetibile. Diversamente da quanto può accadere in altre forme di dipendenza, delle quali, pur continuando a coltivarle, conosciamo il carattere nocivo.E perché la proliferazione mentale e l’attaccamento nei suoi confronti è un impedimento alla crescita interiore? Per molte ragioni. Vogliamo ricordarne una particolarmente importante. La discorsività mentale compulsiva è uno schermo, una barriera alla chiara percezione. Se, per esempio, ci troviamo di fronte a una nostra esperienza dolorosa, il pensarvi in modo ossessivo, in realtà, ci separerà da essa, rendendoci progressivamente più impotenti e più appesantiti. Mentre, al contrario, se impariamo a collocare questa esperienza nel raggio di un’osservazione attenta e affettuosa - il che comporta subito più silenzio mentale - entreremo finalmente in contatto con essa. E a misura che ci apriamo all’esperienza, si rafforzerà la nostra capacità di comprenderla e di lasciarla andare delicatamente, ossia di ampliare il potere liberante della saggezza compassionevole.Una sequenza crucialeÈ la sequenza phassa (contatto tra i sensi, che includono la mente, e i loro rispettivi oggetti) - vedana (sensazione piacevole, spiacevole o neutra) conseguente a tale contatto - tanha (attrazione, repulsione, confusione o distrazione rispettivamente davanti al piacevole, allo spiacevole o al neutro).

Questa sequenza è chiamata anche l’‘anello debole’ nella catena della ‘produzione condizionata’ (paticca-samuppada), che è il cuore dell’insegnamento del Buddha circa la sofferenza e le sue cause. Perché anello debole? Perché l’area di phassa-vedana-tanha è quella in cui è possibile intervenire con la pratica, applicando una precisa consapevolezza su tutta la sequenza. Ciò avrà per effetto un progressivo indebolimento dell’attaccamento (upadana, il fattore immediatamente successivo a tanha) e dunque della causa fondamentale, insieme con l’ignoranza, della sofferenza.Diciamo, dunque, che se la coltivazione della presenza mentale o consapevolezza (sati) è sempre auspicabile, la sequenza suddetta è uno dei suoi campi d’elezione, uno di quei campi dove emerge il carattere intrinsecamente saggio della vera consapevolezza, che non a caso è chiamata ayoniso-manasikara, attenzione saggia.

È bene ricordare, in proposito, che è possibile essere meditanti disciplinati e, tuttavia, lavorare poco o nulla in questa zona del contatto-sensazione-reazione. Addirittura, è possibile fare ritiri lunghi, acquisire una buona capacità di pacificazione interiore e però, anche per mancanza di guida, rimanere piuttosto crudi in questo lavoro crucialissimo di investigazione della sequenza fondamentale.

Perciò io credo che sia molto utile prefiggersi deliberatamente di praticare sulla sequenza, sia durante la pratica formale, sia durante la pratica in azione. Altrimenti, se ci limitiamo all’intento generale di attenzione, si corre il rischio, da un certo momento in poi, di girare in tondo, senza entrare mai con pienezza nell’attenzione-investigazione circa le cause del dolore. E dunque, per usare la famosa immagine del Buddha, rischiamo di non mettere mai in acqua la zattera del Dharma per farne l’uso specifico cui essa è adibita, che è quello di portarci al di là delle acque della sofferenza.I piccoli momenti di reattività che capitano nel quotidiano sono ottimo materiale di lavoro. Ottimo perché, essendo minimi, sono episodi che non ci annebbiano e dunque non spengono il nostro intento di pratica che, soprattutto agli inizi (ma non soltanto), può essere cosa fragile. Immaginiamo, ad esempio, di trovarci di fronte a qualcuno che si comporta in modo lievemente irritante o magari davanti a uno spot televisivo che non ci piace. Se prestiamo la retta consapevolezza (né tesa, né, d’altra parte, vaga e superficiale) sia al fuori (ciò che vediamo e ascoltiamo), sia al dentro (il nostro reagire), percepiremo come il gonfiarsi di una piccola onda di avversione. Questa onda sarà comunque - dato che si tratta di un evento minimo - effimera e di breve durata. Ma se viene fermamente illuminata dalla consapevolezza è ben possibile che l’onda si dissolva all’istante. Quasi un subitaneo rinvenire a una nostra pace di fondo che si indovina, promettente, al di là del piccolo turbamento.Lavorando sulla sequenza (sempre davanti a minime cause di fastidio) può anche succedere questo, se l’attenzione è specialmente stabile, viva e accurata: percepiamo suoni, forme, colori, sensazioni fisiche, pensieri che si avvicendano in un movimento continuo. Niente altro. Non c’è spiacevolezza né avversione. E ciò con nostra sorpresa, dato che ci saremmo aspettati - sulla base dell’esperienza passata - una nostra piccola reazione avversiva, come al solito.

Evidentemente quella spiacevolezza che abitualmente emergeva in noi vedendo la tal cosa è diversa dalla spiacevolezza, che potremmo chiamare oggettiva, di un ginocchio sbucciato. Si trattava, piuttosto, di una spiacevolezza mentale ‘confezionata’ in base a condizionamenti passati. Ma se, in virtù dell’attenzione, siamo radicati nel presente vivo, allora quei frammenti semiconsci di ricordi, mescolati a ‘cariche’ reattive ancora in circolo, non hanno potere e non si manifestano.Ci ritroviamo, invece, con una intuizione, piccola ma molto istruttiva, del continuo avvicendarsi di suoni, colori, forme eccetera (anicca) che caratterizza la realtà ma che la nostra reattività e la nostra distrazione ci impediscono di vedere. Attenzione: quello che sto cercando di dire è che, nell’attimo di chiara visione, questo avvicendarsi, questo continuo processo, ci colpisce come più immediato, più evidente, più rilevante, più vero che non le nostre reazioni o interpretazioni. Dunque, se la sequenza di cui parliamo non è ‘lavorata’ con lo strumento della pratica, essa porta al costante rafforzarsi dell’attaccamento (upadana) che va a potenziare, altrettanto costantemente, la nostra sofferenza.Al contrario, se la sequenza è resa oggetto di una giusta osservazione (ossia precisa e, insieme, duttile e tenera) ciò favorirà una progressiva attenuazione dell’attaccamento e dunque della stessa predisposizione alla sofferenza mentale: infatti tale predisposizione è fatta di quell’ansia di sicurezza, di possesso, di identificazione che è la trama medesima dell’attaccamento. E questo perché sati, tipicamente, illumina quello che non vediamo, e cioè tanto il carattere in vario grado nocivo e doloroso (dukkha) dell’attaccamento, quanto le altre caratteristiche dell’esistenza (cambiamento e non-solidità, anicca e anatta) che l’attaccamento, per sua natura, ci occulta.

A scanso di fraintendimenti da parte di meditanti principianti: sati, la consapevolezza saggia, non è un analgesico. In effetto il suo potere è complesso e si mostra, inoltre, gradualmente. Se in quei casi di reattività minima tale potere agisce facendo dissolvere il minuscolo disagio, allorché invece abbiamo a che fare con disagi più grandi, allora il potere di sati - ovvero l’esplicazione della sua saggezza intrinseca - si manifesta secondo modalità più indirette, nelle quali predomina un insieme di accettazione-discernimento. Il che, senza dissolvere la sofferenza, modifica tuttavia in profondità il nostro rapporto con essa.

E poiché all’origine della parte più tossica della sofferenza, che è quella mentale, c’è, appunto, il nostro rapporto sbagliato con le cose, vediamo che - pur non scomparendo la sofferenza - sati, di fatto, opera per la guarigione dalla sofferenza. E questo non già sospendendola, come fa un analgesico, bensì, piuttosto, curandola nelle cause, come fa un farmaco specifico.Dunque i piccoli disagi quotidiani, che conviene proficuamente usare per la nostra pratica, ci servono per uno scopo tanto semplice quanto importante: toccare con mano, spesso e immediatamente, il potere benefico (kusala) di sati nell’intervenire sul potere non benefico (akusala) dell’attaccamento.

LA PRATICA FORMALE

La figura dell’aspirante meditante curvo sotto il peso della colpa e della frustrazione perché non riesce ad avviare una regolare disciplina quotidiana di pratica seduta non è un incontro raro in ambiti di Dharma. Ora dietro questa insoddisfazione c’è spesso una equiparazione arbitraria, l’equiparazione della pratica del Dharma - che nella scuola antica è pratica dell’ottuplice sentiero (retta comprensione, retta motivazione, retta parola, retta azione, retto modo di vita, retto sforzo, retta consapevolezza, retta calma concentrata), con la pratica dei tre ultimi fattori soltanto e, per giunta, intesi solo come aspetti della meditazione formale. Laddove retto sforzo, retta consapevolezza e retta calma concentrata sono concepiti per essere praticati sia nella pratica formale sia nella pratica in azione.Tale equiparazione tra una parte e il tutto, oltre a essere indebita, è prevedibilmente fallimentare, dato che il sentiero è un insieme unitario e bilanciato, una unità organica. Perciò, se ne ritagliamo una parte, questa parte è destinata ad appassire o a vivere di una vita fittizia, dato che non riceve la linfa proveniente dal resto della pianta, ossia dagli altri cinque fattori.Ci sono tanti interrogativi fondamentali che fanno capo all’ottuplice cammino nella sua interezza, interrogativi che però noi mettiamo a tacere se siamo ossessionati da quell’unico interrogativo ("Perché non riesco a sedermi" oppure "Mi voglio sedere oppure no"), che è spesso la nuova edizione di una nostra vecchia ambivalenza e indecisione. Interrogativi come: quanta contentezza e serenità c’è nelle nostre vite e cosa facciamo perché ci sia? In che rapporto siamo con gli altri: distratto o rispettoso? Etica è una parola morta o viva per noi? Quanta sofferenza non necessaria siamo consapevoli di fabbricare dentro e fuori di noi? Quanta capacità abbiamo di abbandonare ciò che nuoce e di scegliere ciò che giova e quanto ci anima un progetto siffatto? Concepiamo la possibilità di una visione della vita e della morte che trascenda la visione angusta e confusa che ci portiamo dentro? Intendiamo esplorare questa possibilità?Lavorare a questi interrogativi significa lavorare a tutto l’ottuplice sentiero, a cominciare dal fattore chiave della retta comprensione. E se ci interroghiamo sul modo giusto di essere nel mondo, sulla possibilità di una comprensione delle cose più ampia e profonda, prima o poi capiremo che abbiamo bisogno di emigrare dall’abitudinario e dal meccanico, che abbiamo necessità di una energia di pace e di una intelligenza amorosa nutrita da questa energia. Insomma se coltiviamo davvero un cammino la necessità di una pratica formale emerge con una certa naturalezza.

Tutte le grandi tradizioni interiori sottolineano con vigore la necessità di regolari tempi protetti, di recinti di quiete. Questi tempi, questi recinti servono ad alimentare quell’energia di pace che è indispensabile per sostenere l’impegno radicale del lavoro interiore.Allora praticando il cammino nella sua interezza, vedremo che, se la pratica formale stenta e si inaridisce qualora sia disgiunta dal resto del cammino, allo stesso modo succede che l’etica (ossia i tre fattori morali) e la comprensione (i primi due fattori) crescono e fioriscono se hanno le radici immerse nell’humus della contemplazione.Uno dei contributi più lucidi dell’insegnamento del Buddha riguarda l’universale interdipendere e intercondizionarsi delle cose. L’ottuplice sentiero non fa eccezione: i suoi vari fattori sono in rapporto di mutua dipendenza e di mutuo sostegno. Cogliere al vivo questa realtà significa cominciare a capire in profondità il sentiero e quindi, in ultima analisi, la pratica formale.

VIPASSANA NELLO ZAZEN

Maestro Roland Yuno RechVenerdì 27 febbraio 2004, kusen delle 7:00

Durante zazen riportate costantemente la vostra attenzione alla postura del corpo, non lasciate che il vostro spirito sfugga dalla postura. Inclinate il bacino in avanti, prendendo appoggio con le ginocchia al suolo, rilassate il ventre, lasciate che il peso del corpo prema sullo zafu. Il bacino deve essere inclinato in avanti in modo che l’ano non tocchi lo zafu, questo consente di radicarsi bene al suolo. L’inclinazione del bacino in avanti non deve tuttavia essere troppo accentuata, il plesso solare e il ventre devono essere rilassati. A partire dalla vita si estende la colonna vertebrale e la nuca per spingere il cielo con la sommità del capo, si abbandonano le tensioni della schiena, delle spalle, della nuca, il mento è rientrato e lo sguardo posato davanti a sé verso il suolo. Il viso è rilassato, così come la fronte e le mascelle. Gli occhi sono semichiusi e non fissano un punto particolare. Si vede tutto ciò che è davanti, senza attaccarci ad esso, ma senza nemmeno volersene separare. Ad esempio, non si dovrebbero chiudere gli occhi in zazen. Se lo sguardo non si attacca a nulla di particolare può diventare vasto. Questo modo di guardare influenza anche lo stato d’animo. In zazen lo spirito non fissa nulla di speciale, non si attacca ad un pensiero, ma viene accolto tutto ciò che sorge, comprese le sensazioni, senza attaccarci alle sensazioni piacevoli, senza respingere quelle spiacevoli. Si accolgono le sensazioni che sorgono allo stesso modo, senza respingere nulla e dal momento che non ci attacchiamo in modo particolare, esse non ci invadono. Avviene la stessa cosa per le percezioni, si riconoscono i suoni intorno, ma non ci si attacca ad essi in modo particolare, e la stessa cosa avviene per l’assenza di suono, il silenzio. Il silenzio autentico è quello interiore, quello dello spirito, che non è in movimento, che non è agitato dai suoni sia che ci si attacchi ad esso o che ci si opponga. Si percepisce semplicemente ciò che è nel momento in cui sorge e si ritorna rapidamente alla concentrazione sulla postura e sulla respirazione. Questa concentrazione ci impedisce di andare alla deriva con il flusso dei fenomeni che si susseguono in zazen, consentendoci di rimanere stabili anche nel movimento, facendo la stessa cosa con le emozioni che talvolta appaiono durante zazen. La pratica diventa un vasto specchio nel quale si riflettono le nostre attività mentali. Talvolta si è tristi, talvolta gioiosi, quando sorge una emozione la accogliamo così come una sensazione o una percezione, ma non la intratteniamo né la tratteniamo. Una volta riconosciuta ci si concentra nuovamente sulla respirazione e si lascia passare. Avviene la stessa cosa con i pensieri. Durante zazen non si pensa volontariamente a qualcosa di speciale, ma, poiché i

pensieri continuano ad apparire spontaneamente, li si osserva e li si lascia passare senza cercare di trattenere i pensieri buoni o di reprimere quelli che riteniamo siano i cattivi. Il Maestro Wanshi, al quale mi ispirerò durante questa sesshin diceva: “Separatevi da tutti i turbamenti, da tutte le agitazioni, confrontatevi con ciò che appare davanti a voi.”Nulla filtra o giunge dall’esterno. Separarsi dalle agitazioni vuol dire abbandonare le reazioni dell’ego, è l’atteggiamento che descrivevo prima, accogliere ciò che è presente, confrontarsi con esso, solo far fronte, vedere, senza aggiungere nulla. Nulla penetra dall’esterno, questo non significa che si è separati dal mondo, ma piuttosto che non ce ne impadroniamo. In questo modo lo spirito resta costantemente libero e disponibile, anche circondato da ogni sorta di fenomeni. Il metodo migliore è tornare costantemente alla respirazione, non solo durante zazen, cosa che ci permette di essere ‘uno’ con ogni cosa, con ogni pratica della vita quotidiana, rimanendo in contatto con gli altri senza essere attaccati ai propri pensieri, incontrando gli altri, accogliendoli, così come sono, così come appaiono. Venerdì 27 febbraio 2004, kusen delle 11:00Durante zazen diventate intimi con il vostro corpo, invece di rimuginare i vostri pensieri siate attenti a come è il vostro corpo nella postura. Se sentite tensioni eccessive nelle reni, nella schiena, nelle spalle, cercate di allentarle. Se invece la vostra postura è troppo rilassata, mettete energia nella zona delle reni e spingete il cielo con la sommità del capo. Si tratta di aggiustare il tono del vostro corpo di istante in istante, per tornare a un equilibrio senza tensioni e senza eccessivo rilassamento. Il Maestro Wanshi diceva: “Le due forme, cioè lo yin e lo yang hanno la stessa radice. Le diecimila immagini hanno la stessa sostanza.”I cinesi hanno l’abitudine di osservare questi fenomeni attraverso le polarità dello yin e dello yang. Anche se non si adotta la loro visione, è evidente che in noi esistono tutta una serie di polarità che in zazen è importante riconoscere ed equilibrare. Esiste ad esempio la polarità per la quale si è ben radicati nella materia, nella terra, ma anche quella che ci consente di elevarci verso il cielo. La postura di zazen realizza e riunisce queste due polarità. Quando si è ben radicati nel suolo la postura può trovare il suo slancio e possiamo così spingere bene il cielo con la sommità del capo. Una difficoltà nel voler estendere il nostro corpo tra cielo e terra può indicare un certo squilibrio, un blocco del quale è importante prendere coscienza, percependolo ed abbandonando queste tensioni. Un’altra polarità è quella del controllo e dell’abbandono della presa. Durante zazen esercitiamo entrambi gli aspetti. La pratica della concentrazione conduce a controllare il corpo, in particolare limitandone i movimenti, ad esempio quelli troppo ampi. Ci si concentra sull’immobilità, tuttavia lo si fa senza rigidità. Facciamo costantemente dei micro-movimenti per aggiustare il tono del corpo. E’ importante non essere bloccati nella postura. Allo stesso modo si controlla lo spirito non lasciando che sia invaso dai pensieri, riportandolo in contatto con le sensazioni del corpo, come quando si tira il cordino dell’aquilone. Se si tira troppo la cordicella dell’aquilone lo si fa cadere, bisogna costantemente dosare tra il tirare e il lasciare andare. E’ la stessa cosa con se stessi. Ci si tira da soli per andare alla pratica, si seguono gli orari, si seguono le regole del dôjô. Ci si concentra sull’immobilità rafforzando l’aspetto legato al self-control. Se la pratica si riduce solo al controllo e la seduta di zazen a pura volontà non può esistere autentica liberazione. E’ il motivo per il quale occorre volgersi verso l’altra polarità della pratica. Osservare se stessi, accettare ciò che è presente, proprio perché si è radicati nella concentrazione sulla postura, consente di accogliere tutto ciò che sorge in zazen senza avere paura, senza dover reprimere nulla. Si può abbandonare la presa rispetto alle proprie paure, i propri giudizi, diventando intimi con la realtà, ad ogni istante. Molte persone hanno paura di agire in questo modo, temendo di venire trascinati da qualcosa che sarebbe difficile da controllare. Questo è il motivo per cui è importante associare i due poli della pratica, concentrarsi sul corpo, sulla respirazione, permettendo l’abbandono della presa. E’ un self control che permette la libertà.E’ ciò che esprime il Maestro Wanshi quando dice: “Sposando il cambiamento”.Procedendo insieme ai cambiamenti, seguendo le trasformazioni, non si è offuscati né bloccati dalle condizioni passate, dai nostri condizionamenti. Possiamo in questo modo realizzare la

grande libertà, che consiste nell’essere sempre in contatto con ciò che è attuale, per trovare costantemente uno spirito nuovo, attraverso la concentrazione sul corpo e sulla respirazione. Non si tratta dunque di un’idea o di una immagine del corpo, ma delle sensazioni concrete del corpo. Ad esempio, quando respirate, quando inspirate profondamente potete sentire la freschezza dell’aria che entra nei polmoni, passando attraverso le narici. Oppure, quando siete molto concentrati sul contatto dei pollici, potete sentire letteralmente la pulsazione del polso nei pollici. Si tratta di eccellenti punti di concentrazione. Il Maestro Deshimaru diceva spesso: “Ponete il vostro spirito, la vostra concentrazione nel contatto tra i pollici.”In quel momento potete letteralmente pensare con tutto il corpo, non solo con il mentale, con la testa, senza continuare a girare in tondo nei vecchi condizionamenti. Lo spirito diventa aperto, accogliente rispetto all’attualità, alla novità di ogni istante.Venerdì 27 febbraio 2004, kusen delle 16:30Durante zazen continuate a sentirvi radicati al suolo, lasciate che la vostra energia scenda verso la terra e al tempo stesso spingete il cielo con la sommità del capo. Senza un buon radicamento, una stabilità della postura, non è possibile spingere il cielo con la sommità del capo, proprio come un albero non può elevarsi verso la luce se non spinge radici profonde nella terra. L’alto e il basso, il cielo e la terra non esistono l’uno senza l’altro, così come l’ispirazione non esiste senza l’espirazione. Possiamo così sperimentare l’interdipendenza in noi. Se l’espirazione è poco profonda non è possibile inspirare profondamente, ma al tempo stesso l’inspirazione è solo l’inspirazione, l’espirazione solo l’espirazione, dipendono l’una dall’altra ma sono completamente differenti, ognuna ha la sua funzione. Sono come l’alto e il basso che non esistono l’uno senza l’altro, ma l’alto è l’alto e il basso il basso, proprio come io non esisto senza te, ma io sono io e tu sei tu. Nel dôjô siamo interdipendenti, collegati gli uni agli altri dalla nostra pratica, ma al tempo stesso ognuno di noi è solitario, completamente se stesso, collegato agli altri ma non confuso con essi. Il Maestro Wanshi diceva: “Il vento soffia, la luna brilla e gli esseri non creano ostacolo gli uni agli altri.” Non è possibile dire che il vento brilla e la luna soffia. Il naso sente gli odori, gli occhi percepiscono le forme, non è possibile percepire gli odori con gli occhi, né vedere le forme o i colori con il naso, tuttavia gli organi dei sensi cooperano insieme per collegarci con il nostro ambiente. Vi è cooperazione, interdipendenza con tutti gli esseri, così come c’è cooperazione ed interdipendenza con le nostre polarità, ma esse non creano ostacolo. Non esiste vacuità senza i fenomeni, ma la vacuità è la vacuità e i fenomeni sono i fenomeni. E’ un punto molto importante per agire con saggezza ella nostra vita. Si tratta di comprendere che non siamo soli, che siamo costantemente in relazione con gli altri, percependo ciò, sperimentandolo intimamente, senza però entrare in confusione. Essere veramente intimi con se stessi significa assumersi la responsabilità di essere ciò che siamo, prendere la propria posizione. Venerdì 27 febbraio 2004, mondo- Il Buddha ha avuto l’illuminazione, che ha dato origine al suo insegnamento, che è stato impartito ai suoi discepoli, che a loro volta lo hanno trasmesso sino a noi. Qualche mese fa ho comprato un libro sulla sua vita nel quale si parla della sua illuminazione, con i quattro stadi di conoscenza, di concentrazione differenti, un percorso che è durato tutta una notte. Se paragono la sua esperienza con quello che facciamo noi, mi dico che forse non si tratta della stessa cosa. Mi chiedo se il Buddha facesse veramente zazen, se non facesse invece una specie di yoga con una condizione straordinaria di samâdhi, così come se ne sente regolarmente parlare nello yoga. Come possiamo collegarci a questa esperienza?

- Ho avuto la tua stessa impressione leggendo alcuni sûtra, ma riflettendo bene su quanto spiegava il Buddha a proposito delle quattro tappe del Dhyâna nella sua meditazione, mi sono reso conto di quanto in fondo non fossero diverse da zazen. Le quattro tappe del Dhyâna sono in definitiva quattro abbandoni della presa e, in fondo, è quello che facciamo in zazen con la differenza che le quattro tappe erano adattate alla forma di comprensioni degli yogi che erano i primi discepoli a praticare con lui.

Buddha si è dunque espresso in un linguaggio comprensibile per loro, e sappiamo quanto gli indiani amino le cose ben classificate e ordinate. Vengono distinte le diverse tappe, le diverse condizioni di spirito per cercare di rendere le cose più chiare nella loro espressione. Ma si tratta unicamente della forma, mentre l’essenza è molto vicina a ciò che pratichiamo. Se ci si sofferma su queste famose tappe, si può vedere come ad ogni tappa si lascino cadere una serie di attaccamenti, una categoria di attaccamenti. Nella prima tappa si lasciano cadere tutte le preoccupazioni legate al mondo esterno. E’ come quando entriamo nel dôjô, anche se siamo preoccupati per il lavoro, la famiglia, le apprensioni della vita quotidiana, normalmente lasciamo cadere tutto. Sono queste le prime raccomandazioni di Dôgen nel Fukanzazengi, diceva proprio la stessa cosa: abbandonate ogni relazione, ogni connessione del vostro spirito con gli attaccamenti della vita quotidiana, lasciate cadere tutto. Questo non significa che si riesca a fare questo del tutto, ma in ogni caso si va in quella direzione, il nostro modo di praticare consiste nel lasciare cadere, nel non attaccarsi.Poi, seconda tappa, si lasciano cadere tutti i processi intellettuali, il pensiero cosciente che cerca di afferrare la realtà attraverso i suoi concetti.Nella terza tappa si lascia cadere il lato emozionale. Evidentemente, avendo già superato le prime due tappe, si percepisce una grande felicità, una grande gioia, una liberazione. Spesso anche in zazen viviamo stati di benessere, non si ha sempre solo male alle ginocchia, non si lotta continuamente contro le proprie ossessioni, le proprie preoccupazioni, vi sono momenti di benessere e spesso si confonde la gioia provata nella pratica con un’idea che ci si fa del satori. Buddha ha conosciuto questa gioia, ma ha detto: “Non fermatevi qui, lasciate cadere, abbandonate.” E certo lui è riuscito a lasciar cadere, a non attaccarsi. La quarta tappa è quella dell’equanimità. E’ ciò che nello zen si raccomanda sempre dicendo: “Né amore, né odio, né scelta né rifiuto.”

Diciamo ‘né amore’ riferendoci all’attaccamento, al voler mantenere una buona condizione di spirito respingendo quella negativa, al voler trattenere la gioia respingendo la tristezza.

D’un tratto ci sembra di avere capito qualcosa e si vuole assolutamente trattenere quel pensiero, alcuni all’inizio prendono addirittura appunti, sempre con questo spirito, che permane in modo sottile anche a un livello elevato di pratica, manifestandosi nel voler scegliere, nel preferire, nell’attaccarsi a ciò che si ama, respingendo ciò che non si ama. Questo atteggiamento giunge sino all’attaccamento al satori, al nirvâna, respingendo le illusioni, il samsâra. Ci si attacca al satori, si respinge l’illusione, ci si attacca al nirvâna, respingendo il samsâra. Permangono dunque trappole sottili nella quali si rischia di rimanere prigionieri quando si superano le prime tappe e si lasciano cadere le preoccupazioni quotidiane, il pensiero logico che si attacca ai concetti, le emozioni di gioia o di tristezza, ma per realizzare l’equanimità bisogna lasciar cadere tutto. Nell’insegnamento di zazen non ci sono differenze, l’esperienza della pratica ci mostra che, benché sia logico esporre in questo modo l’argomento, in realtà tutti gli aspetti sono mescolati. Non avviene tutto secondo un ordine preciso. In zazen siamo concentrati sulla postura del corpo, sulla respirazione,i fenomeni sorgono, che si tratti di pensieri, di stati emozionali, di sensazioni, ed assomigliano a bolle che risalgono. Talvolta si tratta di una preoccupazione della vita quotidiana, o altro, voglio dire che si passa molto rapidamente da una tappa all’altra del Dhyâna, in un senso o nell’altro. La consegna fondamentale di zazen è non ristagnare su nulla, su nessuno stato, questa è l’essenza stessa della pratica del Dhyâna, del Buddha, questo movimento di superamento costante della tendenza dello spirito a volersi sempre arroccare su qualcosa. Dunque, in fondo, credo si tratti della stessa cosa. - C’é poi un’altra parte, nei libri, nella quale è detto: “Quando il mio mentale è stato del tutto padroneggiato, ho diretto la mia concentrazione sul fatto che gli esseri tornano alla vita, nascono, muoiono e rinascono e poi sulle vite anteriori.” - Sì, questa è stata la meditazione del Buddha. Effettivamente nella pratica di zazen non ci si concentra sulle vite anteriori. Occorre però precisare che all’epoca, si tratta anche di una questione d’epoca, liberarsi del ciclo delle trasmigrazioni era l’ossessione di tutti, e del resto si

tratta di una ossessione tipicamente indiana. I cinesi, i giapponesi non si sono preoccupati allo stesso modo delle vite anteriori, non fa parte del loro spirito, è il motivo per cui lo Zen si sviluppato in modo diverso in Cina. L’insegnamento, il risveglio fondamentale del Buddha è il risveglio allo spirito completamente libero, che percepisce la vacuità di tutti i nostri oggetti di attaccamento, che abbandona, che va al di là, liberandosi dello spirito di attaccamento, la causa fondamentale della sofferenza. Poi, in base alle epoche, alle culture e anche alle persone di fronte alle quali ci si trova, l’insegnamento varia, perché per aiutare gli esseri si deve partire da dove sono gli attaccamenti, lavorando a partire da quel punto. E’ il motivo per cui la Via del Buddha ha assunto forme molto differenti secondo le epoche, le culture. Ma credo che l’essenza della pratica, della meditazione del Buddha, sia rimasta la stessa, anche nel Buddhismo Theravâda si pratica Vipassanâ, Samatha Vipassanâ. In effetti si tratta di Samatha e di Vipassanâ, di una pratica di concentrazione e di osservazione. Presso i Tibetani vi è la pratica di shin laktong, non solo shin, ma entrambi, shin/concentrazione, laktong/osservazione. Anche zazen ha queste due polarità, come dicevo questa mattina, possiamo dire che sia davvero la base della pratica, del risveglio del Buddha. L’insegnamento si modifica anche in funzione delle preoccupazioni delle persone. Quando rileggete i kusen del Maestro Deshimaru, anche se commentava l’insegnamento di Dôgen, non parlava come lui, e Dôgen non parlava come il Buddha. Dobbiamo vedere il filo conduttore, lo spirito profondo che collega questi insegnamenti. La pratica fondamentale è la stessa, lo spirito fondamentale lo stesso, ma le forme, le espressioni sono differenti, così come la pedagogia. Per coloro che amano le idee chiare, la logica, come gli indiani, occorre esprimersi in questo senso. Ma se parlate allo stesso modo ai cinesi li annoiate e, in ogni caso, non comprendono nulla. C’è una visione del tutto differente che i maestri cinesi hanno adottato per trasmettere lo stesso insegnamento.

Qual è il senso dell’ordinazione a bodhisattvâ e dei quattro voti? Bisogna aver praticato molti anni prima di chiedere questa ordinazione?

- Questa domanda è giustificata dal fatto che quando si cantano i voti del bodhisattvâ alla fine di zazen e si riflette sul loro significato, si ha veramente l’impressione che si tratti di un ideale inaccessibile. Si fa il voto di salvare tutti gli esseri dalla loro sofferenza, di risolvere le cause di sofferenza, i bonno, gli attaccamenti, di recidere tutto, risolvere tutto, realizzando tutti gli insegnamenti e, per quanto profondo ed elevato sia il risveglio, si fa il voto di raggiungerlo. Se si guarda onestamente al punto in cui ci si trova, ci si rende conto di essere ben lontani dal realizzare ciò, quindi si potrebbe pensare che è meglio aspettare a chiedere l’ordinazione, ma questo atteggiamento nasce dall’aver mal compreso il senso dei voti. Un grande viaggio comincia da un passo, ricevere l’ordinazione a bodhisattvâ è proprio fare un primo passo nella direzione di questa Via che è infinita. La Via è infinita, certo, ma questo non significa che non ci si possa impegnare in quella direzione, anzi, proprio il fatto che è infinita è un invito ad andare in quella direzione. Che senso avrebbe impegnarsi in un vicolo cieco, in una via limitata? Nella realizzazione di questa Via infinita dobbiamo capire che ogni giorno è l’occasione di fare un passo in più nella giusta direzione e al tempo stesso di cercare di capire i voti in maniera concreta, meno assoluta. Ad esempio, quando si dice: “Per numerosi che siano gli esseri viventi, faccio il voto di salvarli tutti” potrebbe sembrare un po’ delirante, è folle voler salvare tutti gli esseri! Ma cosa vuol dire veramente questo voto? E’ un invito a non impegnarsi in una pratica egoistica, una pratica solo per sé, significa comprendere che fondamentalmente non siamo separati dagli altri. Se non ci si vuole impegnare in una pratica egoistica, solo per sé, non è perché è male, ma è perché è falso, è contrario alla realtà spirituale, poiché dal momento in cui si comincia ad impegnarsi nella pratica, se si pratica sinceramente, profondamente, è possibile percepire la nostra solidarietà con gli altri, lasciando spazio allo sviluppo dello spirito di simpatia, di compassione, in modo tale che non si può più fare a meno di preoccuparsi sul modo migliore per venire in aiuto degli altri. Diventa un processo naturale. Ma quando si tratta di aiutare tutti gli esseri, di salvarli tutti, ‘tutti’ diventa molto importante.

Cosa significa? Non vuol dire salvare sei miliardi di esseri umani, senza contare gli animali, né fare discriminazioni tra gli esseri che amiamo e quelli che non amiamo, ‘tutti’ significa non fare selezioni. Lo spirito ordinario dice: “Sì, questa persona è simpatica, voglio aiutarla!” Oppure: “Quella persona non mi piace per nulla! Che crepi! O almeno che si arrangi! Questa specie di barbone ubriacone....se si tratta di aiutare chi fa degli sforzi nella vita va bene, ma un ubriacone..no, non voglio aiutarlo!” Sono esempi un po’ caricaturali, ma è vero che siamo portati ad aiutare le persone che ci sono simpatiche lasciando da parte gli altri. A questo proposito c’è una pratica insegnata proprio dal Buddha, la famosa ‘pratica degli incommensurabili’! Cosa significa ‘incommensurabili’? Per ciò che riguarda la compassione significa non limitare la nostra compassione a coloro che amiamo, estendendola progressivamente. Questa pratica può diventare molto concreta nella vita di tutti i giorni, se cominciamo a soccorrere, ad aiutare le persone che ci sono indifferenti, più lontane per poi chiederci se non potremmo avere il desiderio di aiutare e di provare compassione anche nei confronti di coloro che detestiamo, che non ci piacciono, che ci hanno fatto del male e che percepiamo come nemici. Si tratta di allargare il cerchio, è questa la pratica degli ‘incommensurabili’, senza limitarci a ciò che preferisce il nostro ego. Questa è la vera pratica della Via. Al tempo stesso occorre essere realistici proprio come lo era il Buddha nel suo insegnamento. Non siamo capaci di passare direttamente a una pratica di compassione illimitata, dunque occorre praticare ciò che è praticabile, chiedendosi ogni volta quale passo sia possibile fare in avanti, in quella direzione. In quel momento tutta la vita quotidiana, gli incontri, tutte le circostanze della nostra vita di ogni giorno sono altrettante occasioni di fare un passo in più in quella direzione, senza colpevolizzarsi perché non si è capaci, qui ed ora, di avere una compassione illimitata. E’ molto importante rendersi conto che si è limitati, avere compassione per i propri limiti. Non si tratta di compiacenza, ma semplicemente di vedere chiaramente a che punto siamo ad esempio con una data persona, in quelle determinate circostanze. Questo atteggiamento non toglie nulla al fatto che tutto cambia costantemente, che anche noi cambiamo e che la volta successiva, forse, saremo capaci di fare un passo in più. L’argomento sarebbe infinito, ma avviene la stessa cosa con gli altri voti. Ad esempio, per quanto riguarda il voto di abbandonare i bonno, gli attaccamenti, le cause di sofferenza, sembrerebbe un voto impossibile. A volte alcuni credono addirittura che i bonno siano il satori, ma si tratta di un’interpretazione del tutto falsa. In realtà si deve abbandonare solo ciò che si può abbandonare ad ogni momento e non è sempre la stessa cosa. Dobbiamo comprendere che la nostra pratica è veramente una pratica nella quale si abbandona la presa e vedere quali sono le occasioni nelle quali è possibile lasciare qualcosa, non come un sacrificio, o qualcosa che cerchiamo di imporci con la forza della volontà, ma piuttosto grazie alla sensibilità, alla comprensione, rendendosi conto che quando si abbandona un attaccamento si abbandona qualcosa che fa soffrire. In questo senso non si tratta di un abbandono, né di una perdita. Il Maestro Nyojo diceva: “Ogni volta che lasciate cadere un piccolo bonno, un piccolo attaccamento, incontrate il Buddha faccia a faccia e siete simili a lui.”E’ una Via immensa, infinita, che comincia con un passo dopo il quale seguono altri passi, ogni volta si fa il passo che si può fare nel momento in cui ci si trova. E, al tempo stesso, non ci si ferma da qualche parte, è questa la Via del bodhisattvâ, non fermarsi mai, nemmeno al nirvanâ, al di là del nirvanâ.Quando si chiede l’ordinazione non lo si fa perché si ritiene di aver raggiunto una grande perfezione spirituale, o si pensa di esserne degni, ma perché si sente profondamente che praticare zazen con i suoi voti come fonte d’ispirazione della nostra vita è ciò che le conferisce un senso autentico. Si desidera seguire questo percorso. L’ordinazione è là non tanto per consacrarci come bodhisattvâ compiuti, quanto piuttosto per incoraggiarci, sostenerci, aiutarci attraverso il legame che si crea durante l’ordinazione con tutta la trasmissione, dal Buddha sino a noi attraverso il godo. Dovete percepire l’ordinazione come un appoggio che ci coglie là dove siamo, per aiutarci ad andare più lontano. E’ l’espressione della nostra fede. Per chiedere l’ordinazione occorre avere

fede, fiducia in questa direzione e per questo è necessario comprendere, è il motivo per cui mi sono dilungato un po’.Ecco. Ci sarà un altro mondô domani pomeriggio. Sabato 28 febbraio 2004, kusen delle 7:00Quando ci si concentra sulla pratica di zazen, sia in zazen che nella vita quotidiana, il nostro potere di concentrazione aumenta, apprendiamo a lasciare che l’agitazione si calmi e ad essere presenti nell’istante, in unità con ciò che abbiamo fatto, concentrati sulla postura seduta quando siamo seduti in zazen, sulla camminata quando camminiamo, con le prosternazioni quando facciamo sanpaï, con il canto quando cantiamo, con il cibo quando mangiamo, con il lavoro quando facciamo samu, senza pensare al passato o al futuro. Ci si concentra totalmente sull’azione presente, in questo modo ogni azione, ogni pratica diviene completa in se stessa, come un’opera d’arte. Si diviene più disponibili, più aperti agli altri, dal momento che non si è più ossessionati dai pensieri, dalle preoccupazioni. Poiché ci si è avvicinati alle nostre cause di sofferenza, si ha maggiore facilità a comprendere la sofferenza degli altri, lasciando aumentare lo spirito di compassione, imparando a conoscerci, non solo per ciò che riguarda il carattere, la personalità o l’ego, ma anche per ciò che costituisce l’essenza della nostra vita, la vita di relazione. In questo modo si è meno attaccati all’immagine, all’idea che ci facciamo di noi, meno sensibili verso ciò che riguarda la perdita, lasciando così svanire molte preoccupazioni ed ansietà. Questi sono meriti della pratica di zazen. Esiste nell’insegnamento del Buddhismo una teoria per la quale è necessario accumulare molti meriti per divenire un Buddha completo, compiuto. In questo modo la pratica nel corso della vita e di numerose rinascite diviene uno sforzo costante per accumulare meriti. Ogni azione possiede meriti più o meno grandi: ad esempio aiutare chi amiamo costituisce un piccolo merito, aiutare chi ci è indifferente rappresenta un merito più grande, ma aiutare qualcuno che ci vuole del male è un merito superiore. Vi è una scala anche nei meriti. La via delle pâramitâ è spesso concepita come una via nella quale si superano differenti tappe di accumulazione dei meriti. Si comincia con l’accumulare i meriti del fuse, del dono, poi dell’azione giusta della pratica dei precetti, ci si esercita poi nella pratica della pazienza che è famosa per garantire grandi meriti. Certo, gli sforzi fatti per questo sono meritori e in questo modo la nostra capacità di meditare, di concentrarci aumenta permettendoci di realizzare in ultimo la saggezza. Occorrono evidentemente numerose vite, poiché nel settore della quantità non si ha mai abbastanza e lo sanno bene coloro che si vogliono arricchire! Nella pratica dello zen invece è essenziale lasciar cadere tutti i meriti. La ricerca dei meriti può eventualmente condurci sino alla porta del dôjô, ma nell’istante in cui si oltrepassa la soglia, si dimenticano tutti i meriti passati, presenti e futuri, in questo modo è possibile abbandonare l’infanzia, cioè lo spirito che attende la ricompensa, i riconoscimenti, raggiungendo la maturità. E’ quanto ci dice il Maestro Wanshi: “Quando dimenticate ogni merito la vostra posizione è compiuta.”Potete cioè diventare autenticamente voi stessi, essere al di là dell’eccesso come della mancanza, poiché ciò che siamo non è una questione di quantità, non si tratta di avere una parte buona superiore alla cattiva, ma piuttosto di essere liberi da nozioni quali buono o cattivo, meriti o demeriti.Wanshi ci raccomanda di non cadere nell’attaccamento alle posizioni onorifiche, ma al contrario ci invita ad entrare nel mondo delle illusioni, immergendoci nel mondo senza preoccuparci della nostra posizione. Questo implica anche la posizione del monaco, alla quale non ci si deve attaccare, che non deve farci desiderare di diventare speciali, differenti, ma che deve aiutarci ad immergerci realmente nel mondo delle illusioni e delle sofferenze, aiutando come possiamo gli esseri a liberarsi. Per questo il modo migliore di agire consiste nell’aiutare ognuno a entrare nella pratica di zazen, entrando a sua volta in questa pratica che libera da ogni avidità, compresa naturalmente l’avidità di ottenere dei meriti. Anche se si decide di consacrare la propria vita alla pratica dello zen, il Maestro Wanshi ci ricorda che se trasmettere è un merito, il fatto di aver trasmesso la pratica non è un nostro merito, perché non si trasmette con il proprio ego, in definitiva è zazen che trasmette zazen, Buddha che trasmette Buddha. Sabato 28 febbraio 2004, kusen delle 11:00

Durante zazen, nella concentrazione sulla postura del corpo, si diventa sempre più coscienti, si percepisce con chiarezza la minima sensazione, il grado di tensione dei muscoli, dei tendini. La concentrazione sulla postura trasforma la postura in un autentico specchio. Poichè la postura ci permette di essere seduti in una condizione di grande equilibrio, di stabilità, le difficoltà che proviamo ci permettono di vedere i blocchi del nostro corpo, le tensioni, consentendoci così di rilassarle, di dissolverle. Tuttavia questa concentrazione non deve diventare un attaccamento al corpo, perchè questo significherebbe ridurre la pratica di zazen a un esercizio posturale, come chi considera la postura come l’alpha e l’omega della pratica dello zen. Allo stesso modo si passa il proprio tempo di fronte al muro osservando i pensieri, le sensazioni, le percezioni, in breve tutti i nostri processi mentali, e in questo modo si diventa intimi con i propri condizionamenti, sia del corpo che dello spirito. Ma la pratica di zazen non si limita ad una osservazione dei processi mentali. Il Maestro Wanshi diceva: “Spogliatevi completamente della vostra testa e della vostra pelle.” Smettete cioè di pensare esclusivamente con la vostra testa, abbandonate l’attaccamento al vostro corpo limitato, realizzando invece il vostro autentico corpo e spirito, che non sono rinchiusi nella vostra testa né nel vostro sacco di pelle. Pensare esclusivamente come facciamo la maggior parte del tempo con la nostra testa, in particolare con il cervello sinistro, quello del linguaggio, dei concetti, che favorisce il pensiero dualista, ci fa vedere ogni cosa in termini di separazione, di opposizione, cosa non sorprendente dal momento che l’attività mentale di base si fonda sulla discriminazione, che è necessaria alla sopravvivenza. Se non si è in grado di discernere ciò che è buono per sé da ciò che non lo è ci si avvelena ben presto. Tuttavia, se agiamo con un aspetto discriminatorio, perdiamo completamente di vista un altro aspetto della nostra esistenza, quello della vita che è al di là di ogni separazione. La vita stessa è riunificazione, riunione di tutti gli elementi che compongono il nostro corpo e il nostro spirito, che non ci appartengono ma provengono dall’ordine cosmico e che prendiamo a prestito da tutto l’universo. Non siamo all’interno della natura per sfruttarla, siamo la natura stessa. Condividiamo la nostra vita con i nostri simili, non per dominarli o per sfruttarli, ma per cooperare e comunicare con quella parte di noi che abbiamo in comune con tutti gli esseri. Non si tratta di convincerci di questa realtà, ma di viverla intimamente attraverso tutte le cellule del nostro corpo, per trovare il nostro spazio autentico in questo mondo. Per questo dobbiamo abbandonare e lasciar cadere in noi tutto ciò che crea separazioni, cioè l’attaccamento alle nostre costruzioni mentali e l’attaccamento a questo sacco di pelle. E’ l’essenza stessa della pratica di zazen, shin jin datsu raku, corpo e mente totalmente spogliati. Per chiarire ulteriormente, Wanshi aggiunge: “Abbandonate ogni distinzione tra luce ed ombra.”Chiaramente questo non significa che non vi sia alcuna distinzione tra luce ed ombra, è piuttosto un invito a smettere di attaccarci alla luce respingendo l’ombra, perché l’una non esiste senza l’altra. E aggiunge: “Là dove non arrivano i diecimila cambiamenti, quello che i diecimila cambiamenti non possono raggiungere, c’è il fondamento che nemmeno i mille saggi possono trasmettere.” Nessuno può afferrare quello che nemmeno il Buddha ha potuto spiegare, ma che ciascuno di noi può realizzare, quello che Buddha ha trasmesso attraverso la sua pratica in silenzio, semplicemente facendo ruotare un fiore tra le dita. Sabato 28 febbraio 2004, mondo- Questa mattina abbiamo cantato una lista di cinquantasette patriarchi, tutti uomini. Nel corso di duemilacinquecento anni non è esistita una donna risvegliata? Dove sono le donne nella nostra tradizione? - Sono sicuramente esistite donne risvegliate, e se non sono entrate nella discendenza è per un buon motivo, legato al fatto che la discendenza è costituita da monaci ed i monasteri erano separati, esistevano monasteri per uomini e monasteri per donne. Quindi i monaci trasmettevano ai monaci. Ad esempio attualmente in Giappone esistono monasteri di monache e monache che sono persone risvegliate. Uno dei punti essenziali dell’insegnamento del Buddha è che tutti gli esseri hanno la natura del Buddha e quindi possiedono la capacità di risvegliarsi.

Questa capacità non è riservata a un sesso particolare, né a una categoria di persone. Il Maestro Dôgen ne parla molto nello Shôbôgenzô in particolare nel capitolo intitolato Raihai Tokuzui. Tokuzui significa ‘ottenere il midollo, l’essenza’ e Raihai ‘prosternandosi‘, nello spirito di rispetto e di venerazione. Racconta molte storie di donne, a volte si trattava di monache, a volte non si trattava di persone risvegliate, che hanno aiutato dei monaci a risvegliarsi. Perché queste donne non sono inserite nella discendenza? Penso sia dovuto a circostanze di ordine sociale legate all’organizzazione dei monasteri e alla trasmissione dell’insegnamento. Sarebbe interessante studiare a quando risalgono le discendenze dei maestri donna, perché sicuramente ne esistono. Si potrebbe eventualmente porre la domanda alla Sôtô Shu. Sicuramente esiste una genealogia della trasmissione delle donne, ma la cosa più importante è che tu e tutte le donne in questo dôjô abbiate fiducia nella vostra pratica. Non dovete sentirvi inferiori perché non ci sono donne nella discendenza. In ogni caso un patriarca si pone al di là delle differenze sessuali. Il Buddha stesso, anche se era un uomo, ha insegnato universalmente e la sua esperienza ha un valore universale. Non è qualcosa che è legato all’appartenenza a un sesso, del resto, molto rapidamente, le donne hanno cominciato a seguire il suo insegnamento. Hai dei dubbi a questo riguardo? - Mi mancano buoni esempi femminili da poter seguire nel nostro Sangha. - Sì, sì. Del resto il nostro Sangha è l’illustrazione di questo fenomeno. Vicino al Maestro Deshimaru c’erano tanto uomini che donne. Non era certo sessista, non faceva differenze. Dopo la sua morte ho notato che la maggior parte dei suoi discepoli tra cui io stesso, aveva tra i trenta ed i quarant’anni, e all’interno delle coppie la maggior parte delle donne era molto impegnata nell’educazione dei figli. Molte si sono concentrate su questo aspetto. Ed è vero che se pensiamo a Katia Robel, Evelyne de Smedt, o Laure Scemama ad esempio, si tratta di donne che non hanno avuto figli, che hanno continuato a concentrarsi completamente sullo zen. Altre, che avevano praticato assiduamente con il Maestro Deshimaru, dopo la sua morte si sono rivolte piuttosto alla vita di famiglia, mentre sono stati piuttosto gli uomini a concentrarsi sul Sangha. Non è una cosa che è stata voluta, non ci sono state decisioni, è avvenuto così. Forse per le donne è stato più essenziale trasmettere la vita. Un uomo spesso ha bisogno di altro, non gli è sufficiente avere dei figli. Forse invece alcune donne sono sufficientemente soddisfatte dall’avere bambini, in ogni caso i figli le impegnano al punto da non avere sufficienti energie per fare altro. Dico forse, la mia non è un’affermazione, è quanto ho osservato. Ho qualche esempio di donne che erano grandi monache ai tempi del Maestro Deshimaru e che poi, dopo la sua morte, ho visto totalmente concentrate sui loro figli, venendo meno al dôjô, alle sesshin. Non esiste alcuna ragione a priori perché non ci sia trasmissione del risveglio a partire dalle donne. Tocca a voi ora dimostrare che le cose possono cambiare. Se vuoi degli esempi, ti consiglio di procurarti il Raihai Tokuzui, perché Dôgen mostra veramente esempi di donne molto profonde e dotate di grande saggezza.* * * * * * * * * *- Ho finito da poco il libro di Bernie Glassman: “L’arte della pace”, sull’ordine zen dei costruttori di pace. Sono stata molto toccata in particolare da due capitoli intitolati rispettivamente: ‘Faccio il voto di aprirmi alla diversità’ e ‘Faccio il voto di aprirmi a ciò che non conosco’. Sono stata molto toccata anche dalla loro pratica nelle strade. Volevo chiederti se potevi condividere il tuo sguardo su questi fratelli. - Cioé?- Su questo gruppo.- Sì, non lo conosco molto bene, ma stimo molto il lavoro che fanno. E’ un modo come un altro, del tutto valido per contribuire a fare evolvere l’umanità proprio nel senso dell’accettazione dell’altro, contribuendo alla pace. Approvo completamente questo lavoro. E’ un modo per Bernie Glassman, il suo modo personale, di tradurre nella vita quanto ha realizzato nella pratica dello zen. Incoraggio ognuno nella vita a trovare il modo di esprimere ciò che ha realizzato attraverso la sua pratica. Vedo solo un inconveniente per ciò che riguarda Bernie Glassman, legato al fatto che ha investito talmente tante energie nell’organizzazione di questo ordine, che di colpo ha trascurato la pratica di zazen. E’ quello che mi sembra di sapere e trovo che sia un peccato. E’ il rischio sempre presente nelle correnti religiose, spirituali, nel cristianesimo si è verificato lo stesso fenomeno.

Personalmente vedo, in particolare nel protestantesimo, un tale desiderio di fare qualcosa nel sociale da correre il rischio di perdersi un po’ in una forma di attivismo, cosa che da un lato è positiva, perché implica la pratica del dono, la generosità, l’incontro con l’altro, qualità spirituali che si sviluppano attraverso questo genere di azioni, ma è un peccato che tutto questo prenda il sopravvento sul fatto di continuare una pratica quotidiana di meditazione e sul fatto che ci sia circolazione tra la dimensione interiore e l’azione verso l’esterno. Trovo che questo sia un rischio ed è la storia di Bernie Glassman stesso. Questo non significa che coloro che lo seguono facciano lo stesso. * * * * * * * * * *- Leggendo i testi del Maestro Hyakujô e di Ôbaku e in particolare i tuoi commenti, ho notato che lo spirito di zazen viene spesso descritto come quello che non dimora su nulla, lo spirito vasto. Queste sono descrizioni che mi aiutano, ma c’é anche un altro spirito, lo spirito eterno per cui non capisco e vedo che questo non mi aiuta. - In questo caso non ti occupare dello spirito eterno. Nemmeno io me ne occupo e, del resto, non mi sento molto interessato dallo spirito eterno. Se l’ ho menzionato è stato per essere fedele all’insegnamento del Maestro Hyakujô, per non eliminare una parte di quanto ha espresso. Tuttavia bisogna capire che con il termine ‘eterno’ si ha la tendenza a pensare a ciò che dura sempre. Personalmente intendo il concetto di ‘eterno’ come ciò che è qui ed ora, ciò che è al di là del prima e del dopo, perché questo riguarda la mia esperienza di zazen così come l’ ho vissuta, una forte esperienza del ‘qui ed ora’ come qualcosa di assoluto. Non qualcosa, ma una realtà che è al di là del prima e del dopo e nella quale, se si è veramente ‘uno’ con questo, non c’è bisogno di avere rimpianti legati al passato, né attese in rapporto al futuro. Se si rimane concentrati in questo modo, si può dire che si vive nell’eternità, non si è più in quello che possiamo definire il tempo ordinario, cioè la successione con il passato, il presente, il futuro, si è in una specie di eterno presente.Per quanto riguarda Hyakujô, penso che dovesse avere questa prospettiva. Certo, fa parte dell’insegnamento dello zen, per lui, come per il Buddha. Purtroppo non conosco il cinese, e si traduce con ‘eterno’, ma mi piacerebbe conoscere l’espressione cinese. Ciò che per lui era importante, così come per il Buddha, era la realizzazione della ‘non nascita’. Perché ciò che muore è ciò che è nato. E’ un kôan fondamentale del Buddha. Nel suo tentativo di risolvere le angosce legate all’impermanenza e alla morte, occorre risalire a quella che è l’origine della morte. L’origine della morte non è la vita, è la nascita. E’ diverso. E’ il nascere che porta alla morte, non il vivere ed essere nati. Il kôan diventa allora “Cosa significa essere nati?” “Chi nasce?” , “Che cosa nasce?” Se, come si fa abitualmente, ci si identifica con la propria carta d’identità, sono qualcuno che è nato in quella data, in quella famiglia, di quella nazionalità, di quel sesso, con gli occhi marroni o blu, con tutto l’accumulo delle caratteristiche dell’individuo che è nato in quel momento, allora certo tutto questo può morire. Ma se attraverso la pratica di zazen entriamo in contatto con una dimensione che si pone al di là di queste caratteristiche dell’ego, se cioè realizziamo la vacuità di tutte queste caratteristiche, realizziamo che al momento della nascita non c’é ego che è nato. Ciò che è apparso in quel momento è la trasformazione dell’energia cosmica e questo è senza nascita, senza inizio né fine. E’ questo che molto spesso viene tradotto con spirito eterno, spirito ‘non nato’.- Quello che mi infastidisce un po’ è che lo si chiami spirito. - Certo, perché si avrebbe la tendenza ad assimilare questo a un’anima, a un’entità. Ma quando un essere come Hyakujô parla di spirito, è un concetto talmente vasto, non può assimilarsi a un’entità. Ad esempio per Hyakujô come per i maestri di quell’epoca, parlare dello spirito equivale a parlare di tutto l’universo. Non è differente. Tutto l’universo è un solo spirito. Per me non c’è differenza, anche tra spirito e materia. Alla fine lo spirito è l’essenza di tutto ciò che esiste. In più, per la mentalità cinese,il kanji usato per il termine spirito induce talmente tanti significati da includere tutto. In giapponese ad esempio lo si traduce con shin, ma il kanji shin che Hyakujô usava significa al tempo stesso non solo spirito, ma anche il midollo, l’essenza, l’energia, il soffio. E’ molto vasto. E’ il primo aspetto della tua domanda, quando dici che parla dello spirito vasto, e lì sono d’accordo, ma quando parla dello spirito eterno, questo mi sembra bizzarro. E’ proprio perché avevano realizzato lo spirito vasto che per loro lo spirito vasto era anche non-nato, quindi

eterno. E’ il non-spirito. Non è nemmeno lo spirito. Non rientra nelle categorie che immaginiamo quando si pensa allo spirito. Non si tratta dunque di spirito nel senso di spirito opposto al corpo, ma lo si potrebbe tradurre con il senso della realtà che è a un tempo materia, spirito e al di là di entrambi. Questo non ha evidentemente nascita e fine ed è illimitato.- Dunque non è una espressione per indicare il funzionamento mentale cosmico? - No! Assolutamente! No, no. Lo spirito in questo caso non è lo spirito mentale, assolutamente no. Domenica 29 febbraio 2004, kusen delle 7:00Durante zazen riportate costantemente la vostra attenzione sulla postura e sulla respirazione, tendete le reni, la nuca e rientrate il mento. Mettete tutta la vostra energia nella postura senza fare economia. E’ importante donarsi completamente alla pratica di ogni istante, essere del tutto presenti alla respirazione penetrando così la realtà di ogni istante, corpo e spirito in unità. Non lasciate che il vostro spirito fugga dal dôjô verso il prima, il dopo o l’altrove, riportatelo costantemente nella pratica del qui ed ora. Quando ci si concentra così è possibile osservare l’impermanenza. Le sensazioni del corpo cambiano, i pensieri passano, gli stati emozionali si esauriscono. Quando si prende coscienza di questo e ci si armonizza con questa impermanenza, si ritrova uno spirito molto più fluido, flessibile, che non si fissa su nulla. Si evitano così le ruminazioni mentali, si può togliere drammaticità alle cause delle nostre sofferenze, ritornando solo al qui ed ora della nostra vita. Qui ed ora, seduti in questa postura di zazen in pace, non si deve aggiungere nulla, né togliere nulla. Questo significa che possiamo accettarci totalmente a partire da uno spirito che non giudica, che non paragona.E’ lo spirito vasto di zazen. Questo spirito vasto è al di là dell’impermanenza, perché è sempre qui ed ora. Il passato, il futuro, l’altrove si riflettono in esso, include tutti i tempi, tutto lo spazio e si manifesta sempre qui ed ora. E’ ciò che il Maestro Wanshi esprimeva dicendo: “Là dove i diecimila cambiamenti non pervengono, là è il fondamento che nemmeno mille saggi possono trasmettere.”E aggiungeva: “Illuminate, rischiarate questo, semplicemente, attraverso di voi, fatene l’esperienza, allora questa luce originaria brillerà attraverso la confusione.”Quando si è intimi con questo spirito, si abbandona ogni discriminazione, ogni opposizione, quali essere e non essere, sé e altri, questo istante presente ed il passato, ombra e luce. E’ possibile abbandonare ogni lotta, essere veramente in pace. Semplicemente presenti a ciò che è, giusto ora e questa presenza continua di istante in istante nel corso della vita quotidiana. Domenica 29 febbraio 2004, kusen delle 11:00Quando le campane risuonano come ora, il loro suono riempie lo spazio, c’è solo il suono delle campane. Tra qualche istante le campane smetteranno di suonare e avremo il ritorno del silenzio. Zazen è così. Quando si pratica zazen c’è solo zazen, anche se all’inizio ci si sforza di praticare, di concentrarsi, anche se si desidera comprendere, in fondo resta solo zazen. La concentrazione cosciente volontaria è abbandonata, così come è abbandonato quello che crediamo di avere compreso, noi stessi che stiamo praticando ci dimentichiamo completamente di noi nella pratica. Tutto lo spazio è occupato dalla pratica, non c’è più posto per l’illusione, nemmeno per il satori. Non c’è più nulla che sia separato da zazen. Questa vita che viviamo praticando è l’attualizzarsi del risveglio trasmesso dal Buddha in poi. Non abbiamo nemmeno bisogno di pensare a questo, perché si produce inconsciamente e naturalmente nella pratica stessa. Questa pratica non lascia tracce e può così continuare ad ogni istante.Il Maestro Wanshi diceva; “Allora potrete armonizzarvi con le condizioni dell’essere in accordo con il risveglio senza essere ostruiti dalle illusioni.”Lo spirito non dimora su nulla, anche le tracce dei vostri passi si cancellano diventando invisibili. Allora siete davvero chiamati a continuare la trasmissione del Buddha. E anche se comprendete, o credete di aver compreso, continuate fino a che tutto ciò diventi completamente intimo, familiare per voi, cioè non accontentatevi di una comprensione superficiale. Wanshi aggiunge; “Vuoto e senza desideri, semplice e sincero, autentico, in questo modo potrete abbattere i resti delle abitudini di numerose vite. Quando le impurità di queste vecchie abitudini saranno eliminate, la luce originaria apparirà attraverso il vostro cranio senza ammettere altro. Vasto come il cielo e l’acqua che si confondono in autunno, come la neve e la

luna dallo stesso colore, questo campo, questo ambito è senza limiti, perché è contraddistinto da una totalità magnifica, senza bordi, senza frontiere,”Anche se queste immagini poetiche del Maestro Wanshi colpiscono il vostro spirito, la cosa importante è comprendere il suo consiglio e anche se abbiamo compreso, praticare fino al momento in cui diventerà totalmente intimo, familiare, finché la pratica avrà completamente cancellato le nostre vecchie abitudini.Non è difficile da comprendere, ma è molto più difficile essere in armonia con ciò che si è compreso. Occorre essere costantemente vigili ed attenti, vedere quando le nostre vecchie abitudini mentali si manifestano nuovamente e lasciarle costantemente cadere l’una dopo l’altra, finché non ci sia più differenza o ostacolo tra lo spirito che si manifesta in zazen e lo spirito che ci anima nel corso della vita quotidiana.E’ il senso della sesshin, realizzare questa totale intimità senza separazioni. E’ quanto auguro di continuare a vivere e a praticare a ognuno di voi.

Traduzione: Maresa Myogen Di Noto

Vipassana intesa come Laktong (francese prova tradurre con software)

La Vision Pénétrante ( Lagtong ou vipasyana)

Tout dabors cette pratique s'appuit sur la pratique du calme mental (Shiné ou Samatha). Il faut tout dabors avoir une certaine stabilité dans l'esprit grace à Shiné.

Puis vient la méditation de la vision supérieure - vipasyana en sanscrit, lhagtong en tibétain - amenant l'esprit à reconnaître sa propre nature, à comprendre par l'expérience directe sa vacuité, sa luminosité et son intelligence illimitée. L'esprit se reconnaît alors lui-même et accède finalement à l'expérience de mahämudra, l'éveil.

La pratique de vipasyana permet de reconnaître la nature même de l'esprit. Le repos de l'esprit est comparable à celui de l'océan, et la vision de sa nature à la réflexion de la lune dans ses eaux . Sur l'océan agité par des vagues la lune ne peut être vue clairement, alors que si l'océan est étale, elle se reflète avec précision. Lorsque l'esprit arrive à un état de repos complet, sa nature profonde peut se révéler. Le repos de l'esprit correspond à samatha et l'expérience de sa nature à vipasyana. vipasyana , la "vision supérieure", se dit en tibétain "lhagtong ". Lhag, veut dire "clair" ou "supérieur" et "tong" signifie "voir clairement", avoir une vision supérieure qui nous permet de reconnaître la nature de l'esprit, de voir clairement son état fondamental.

Une fois que l'esprit est calme, quand une pensée survient, au lieu de la laisser tomber, on l'examine: quel en est sa couleur? d'ou vient elle? ou va elle? ou se trouve t'elle?... C'est la méditation de lagtong appliquée à une pensée.

Si des pensées ne surviennent pas, qu'on repose dans la nature de l'esprit, on eamine alors l'esprit lui même: ou est il? quel est sa couleur? ou s'arrete t'il? quel est sa taille?... C'est la méditation de lagtong appliquée à l'esprit.

Une fois que l'on a clairement établis les résultats de cette pratique, vient la pratique de l'union de Shiné et Lagtong. Si on l'a complètement réalisé, c'est l'expèrience du Mahamudra, de l'éveil.

Il est indispensable si l'on veux s'engager dans cette pratique (lagtong) de se faire suivre de façon régulière par un instructeur expérimenté dans cette pratique, cet échange de maître à disciple va permetre d'orienter notre examen intèrieur jusqu'a la réalisation sinon on s'égare vite et cela ne mêne à rien.

J'ai lu des livres sur shiné et Lagtong, certains très bon mais aucun ne m'as apporter une bonne compréhension de cette pratique et mon expèrience c'est résumé à rien, même en m'appliquant, alors que la relation de maître à disciple sur cette pratique, si elle ne m'as apporté aucune réalisation, (je suis trops paresseux pour ça) m'as apris en peu de temps ou commencer à chercher: le point de départ.

Donc n'attendez rien de ce texte pour pratiquer lagtong non plus ! Je l'ai juste écrit pour vous en donner une vague idée intellectuelle et peut être vous donnez l'idée et la motivation d'aller plus loing.

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par le Vénérable Mahasi Sayadaw ... "'Sabbadanam dhammadanam jinati' - Le don du Dhamma surpasse tous les autres dons"

Voici les instructions de base concernant la méditation satipatthâna/vipassana :

II y a trois sortes de pratiques : • 1. Méditation assise. • 2. Méditation en marchant. • 3. Méditation durant les activités journalières.

1. MEDITATION ASSISE. Allez dans un endroit paisible et tranquille. Choisissez la posture assise qui vous permettra de méditer durant un certain temps, sans inconfort. Vous pouvez vous asseoir à genoux ou bien les jambes croisées, mais vous devez choisir la posture qui vous permettra de rester assis pendant longtemps. Quand vous êtes satisfaits de votre position, gardez le dos et la tête bien droite. Fermez alors les yeux et concentrez votre attention sur l'abdomen et la respiration (facultativement, on peut observer le va et vient du souffle au niveau des narines, en utilisant alors la note mentale et l'observation appropriée). Lorsque vous inspirez, notez soigneusement que l'abdomen se soulève durant l'inspiration et se dilate. Lorsque vous expirez, notez soigneusement que l'abdomen s'abaisse durant l'expiration et se rétracte. Notez ainsi le soulèvement et rabaissement de l'abdomen durant l'inspiration et l'expiration. Mais n'observez pas uniquement l'abdomen, contemplez également votre esprit durant la respiration. Observez comment l'air inhalé effectue une pression vers le haut qui pousse de l'intérieur. Vous devez essayer de sentir et savoir, de réaliser ce qu'est cette pression de l'air venant de l'intérieur et non de l'abdomen, car Vipassana observe la vraie nature des choses et non le concept. La poussée de l'air venant de l'intérieur est " paramattha ": la réalité de ce qui se produit. Vous devez noter soigneusement que lorsque vous expirez, l'air qui avait été poussé vers le haut descend graduellement alors que l'abdomen revient à sa place en se contractant. Vous devez être attentifs aux mouvements qui se produisent durant l'inspiration et durant l'expiration. Vous comprendrez qu'à l'inspiration l'abdomen s'élève progressivement et qu'à l'expiration il s'abaisse progressivement. A ce moment, vous répéterez intérieurement: " monter…monter...monter... " et à l'expiration: " descendre...descendre...descendre...". En même temps, vous serez attentif à la force qui fait que l'abdomen se soulève et s'abaisse petit à petit durant la respiration. Si vous trouvez que ces deux mouvements ne sont pas suffisants pour maintenir votre concentration en alerte sans distractions, vous pouvez ajouter un troisième objet d'attention: le toucher. Vous vous concentrez alors sur la sensation du toucher à un point de contact du corps avec un objet qui apparaît le plus proéminent à l'esprit. Répétez alors la note mentale: " monter...monter..Descendre.descendre. toucher. toucher.... ". Ne vous laissez pas distraire par la forme des membres ou de l'objet en contact, mais restez fixé sur le contact..... Si ces trois points d'attention ne sont toujours pas suffisants, vous pouvez en ajouter un quatrième: le fait que vous êtes assis. Répétez alors: " monter...monter... descendre...descendre... Toucher... toucher........ assis... assis... " en étant assis, réalisez le fait que la partie supérieure du corps est dressée et tendue comme un arc. Ne pensez pas du

tout à la forme de la tête ou du corps ou des mains ou des jambes, mais réalisez que votre corps est tendu par la force de l'air qui vous maintient en position assise et à la sensation de dureté que vous avez en étant assis, que vous noterez: " toucher.... " Vous avez donc maintenant quatre choses à noter mentalement: monter, descendre, assis et toucher. En faisant cela, votre esprit deviendra calme. Quand l'esprit et le mental sont calmes, la concentration devient plus ferme. Quand la concentration est ferme, la vision pénétrante dans la réalité des phénomènes verra le jour. Si l'attention sur les quatre points: monter...descendre...assis...toucher... vous semble convenable, faites ainsi. Mais si votre mental est trop anxieux, recherchez par vous-même si vous devez noter seulement deux ou trois objets d'attention. L'esprit d'un débutant peut vagabonder ici ou là, soit dans le temple ou au monastère, au marché ou encore à la maison. Si le cas se produit, notez les pensées vagabondes en répétant: " parti...parti... Imagination... imagination..... projets... projets... ". Lorsque votre concentration est bonne, vos pensées vagabondes disparaîtront rapidement si vous notez en observant avec précision et attention. Cela peut prendre un certain temps au début pour observer les pensées vagabondes, mais avec une ferme détermination et une attention soutenue elles disparaîtront rapidement. Non seulement vos pensées vagabondes disparaîtront, mais également votre attention à ces pensées vagabondes.... Car rien ne dure, rien n'est permanent ! C'est cela anicca, l'impermanence.... " toutes choses composées sont impermanentes, transitoires.... ", toutes chosescomposées apparaissent et disparaissent en un clin d'œil. De toute évidence elles sont sujettes à la naissance et à la mort. Cette venue à l'existence et cette disparition n'est rien d'autre que dukkha - insatisfaction, souffrance.... Et cela ne peut être évité par rien ni personne, et on ne peut rien y faire et cela est anatta - incontrôlable. Peu à peu vous en viendrez à comprendre cette vérité que tout est transitoire, tout est insatisfaisant, tout est incontrôlable. En vous concentrant sans interruption sur " monter...descendre...assis...toucher... " pendant une demi-heure ou trois-quarts d'heure, vous verrez apparaître de la douleur, de l'inconfort ou de l'engourdissement. Lorsque cela se produit, vous devez observer la réalité de ce phénomène en abandonnant l'observation de " monter... descendre... ", et observer " douleur... " en laissant l'esprit pénétrer la douleur. Il y a trois manières d'observer la douleur : • En se concentrant sur la douleur afin de la faire disparaître. • En la chassant de manière agressive. • En la contemplant pour en pénétrer la réalité. La première manière est motivée par lobha, L'avidité. Le méditant recherche le plaisir dans la méditation. Le but de la méditation n'est pas de donner du plaisir, mais de déraciner le désir, cetasikas. Votre travail est de réaliser la véritable nature du désir. Vous ne devez pas méditer de cette manière. La seconde manière n'est pas bonne non plus car elle est motivée par dosa, la colère. La méditation attentive ne laisse pas la colère se développer. L'aversion face à la douleur n'est pas l'attitude juste. La troisième manière est l'attitude juste. Vous devez concentrer votre mental sur la douleur elle-même, comment elle se manifeste et comment elle évolue. Lorsque la douleur survient, le yogi a tendance à se contracter. Laissez votre corps et votre esprit détendu. Ne vous demandez pas avec anxiété : devrais-je rester ainsi pendant une heure ? " ou bien " est-ce que je vais souffrir ainsi tout le temps ? " La douleur viendra comme elle le veut et votre devoir est de l'observer. Vous devez garder un esprit calme et être patient. La patience est la chose principale, car c'est uniquement par la patience que vous pourrez atteindre le Nibbâna. Vous devez être calme et relaxé de corps et d'esprit. Ne soyez pas tendu, mais gardez votre esprit sur la douleur et cherchez à quel point exact elle se trouve et quelle est son intensité. Où est-elle la plus aiguë ? Dans la chair..... sur la peau....dans les veines.... dans les os ou dans la moelle...?...Concentrez-vous profondément sur l'endroit particulier où la douleur se produit et notez mentalement: douleur....douleur.....en recherchant exactement là où elle se trouve et quelle est son intensité. Une attention superficielle n'est pas autorisée. Si vous êtes très attentif à la douleur, à la démangeaison, à l'ankylose, au picotement ou à toute autre sensation, vous observerez qu'ils deviennent plus intenses et plus insupportables. De la même façon qu'elle augmente, elle diminuera et peut-être disparaîtra, mais ne diminuez pas votre concentration. Continuez à être attentif avec zèle et enthousiasme et répéter mentalement : douleur...douleur....jusqu'à ce qu'elle disparaisse ou change de place. Si vous êtes très énergique et enthousiaste, la vision pénétrante s'éveillera. A mesure que la concentration se renforce, les maux et les douleurs disparaîtrons dès qu'elles apparaissent. Vous constaterez que la douleur ne dure pas longtemps, ni votre méditation attentive, ni la conscience de la douleur. Rien ne dure, rien n'est permanent. Tout est impermanent, transitoire. Naissance et mort, apparition et disparition sont si rapides et pénibles que rien ne peut nous en protéger. Nous en venons donc à constater que : La douleur est impermanente, anicca. La douleur est insatisfaisante, dukkha. La douleur est incontrôlable, anatta. Lorsque vous méditez, vous entendrez des sons, verrez des choses et sentirez des odeurs tout autour de vous. Vous entendrez parfois des bruits de portes, de marteaux, de voitures, des chants d'oiseau etc....en entendant un son, vous devrez faire une note mentale et dire " entendre, entendre ", mais votre esprit ne doit pas suivre le son ni chercher à l'identifier. Ce serait une distraction. Si votre pouvoir de concentration est fort, ces sons que vous entendez deviendront indistincts et sembleront distants ou bien ils deviendrons forts et proches ou encore imprécis et diffus. Il peut se faire qu'en notant: "

entendre....entendre.... " ils disparaissent progressivement, ainsi que votre conscience d'entendre et votre attention contemplative du son. Les sons que vous entendez au début pourront disparaître un par un, ou ils seront déconnectés les uns des autres et perdront leur sens; par exemple le mot " vénérable " deviendra : " vé….né…..ra……ble…". De la même manière que le son disparaît, ainsi la conscience d'entendre et l'attention contemplative s'évanouira progressivement. C'est cela anicca, l'impermanence. L'apparition des sons et leur disparition et si rapide que c'est dukkha, insatisfaisant, pénible, inintéressant. Comme rien ne peut être fait pour empêcher cette situation, c'est anatta, incontrôlable, dénué d'un soi ayant un réel pouvoir. Petit à petit, vous en viendrez à comprendre que les sons ne durent pas toujours. La connaissance née de la méditation attentive ne dure pas non plus et vous ne pouvez rien faire pour empêcher les sons d'apparaître et de disparaître. C'est ainsi que vous réaliserez par votre propre expérience la contemplation attentive des sons. La méditation attentive en posture assise en notant mentalement: " monter.... descendre... assis.... toucher..... " concerne le corps; elle est appelée: kâyânupassana magga. La douleur, la démangeaison, l'ankylose etc....concerne les sensations et les sentiments qui y sont connectés. Cette contemplation s'appelle: vedanânupassana satipatthâna. La contemplation de l'esprit qui note: " distrait... distrait....... projet.. projet....... penser... penser.... " s'appelle: cittânupassana satipatthâna. La note mentale " voir...voir..... entendre.... entendre.... sentir....sentir.... " concerne le Dhamma et s'appelle: dhammânupassana satipatthâna. Ainsi les quatre établissements de l'attention satipatthâna sont inclus lorsqu'un yogi pratique la méditation attentive en posture assise.2. MEDITATION EN MARCHANT. Il y a quatre sortes de notes mentales pendant la méditation en marchant. Chaque pas est observé de très prés et avec attention comme étant un mouvement. On peut également de décomposer en deux, ou en trois mouvements ou encore en six mouvements.

2.1. Un mouvement : en marchant, on note: "pied droit…pied gauche...etc. " en gardant l'attention sur le mouvement en avant du pied et non pas sur le pied. L'esprit ne doit pas être attaché à la forme du pied, mais au mouvement progressif du pied vers l'avant. C'est très important.

2.2. Deux mouvements: on observe le pas décomposé en: lever...baisser..; lever... baisser.. Dans ce cas, il faut être conscient du mouvement progressif du pied se levant et s'abaissant. C'est la connaissance de ce mouvement tel qu'il est, du processus mental et corporel qui forme l'objet de l'attention.

2.3. Trois mouvements: en marchant, le yogi observe la décomposition du pas en trois parties: " lever.. ..déplacer.. ...poser... ". En levant le pied, vous devez noter attentivement le mouvement ascendant du pied. Puis vous avancez votre pied lentement vers l'avant en étant pleinement attentif a mouvement, et en le baissant vous notez le pied descendant lentement. Tous ces mouvements doivent être attentivement observés de très prés de manière à noter que lorsque le pied se soulève millimètres par millimètres vous devenez conscient de la légèreté, puis il se déplace lentement vers l'avant et enfin en s'abaissant, une sensation de lourdeur accompagne le mouvement. Lorsque vous obtenez cette perception, venus commencez à avoir une sorte de vision pénétrante dans la réalité des phénomènes. La légèreté vient de tejo, l'élément chaleur combinée avec l'élément air ou mouvement. La lourdeur est provoquée par pathavi, l'élément terre, dureté et âpo l'élément liquide. La connaissance et l'attention claire de ces phénomènes psychophysique est le commencement de la connaissance pénétrante dans In nature intime de la réalité telle qu'elle est.

2.4 Six mouvements: vous décomposez maintenant le pas en parties: intention de lever., lever.. .intention de déplacer..... déplacer..... intention de poser.... poser. " en commençant à lever le pied, le talon ses soulève d'abord; puis les orteils. En avançant le pied, vous savez qu'il va en avant et pas en arrière.... puis il est légèrement dévié à l'amorce de la descente. Ici aussi, il faut être attentif et clairement compréhensif concernant les phénomènes psychophysiques.

Une autre manière de noter est la suivante: "décoller.... lever..... avancer..... baisser.... toucher..... presser..... " en décollant, vous êtes attentif " au talon se soulevant, puis aux orteils. Enfin le pied se soulève progressivement puis s'avance lentement. Vous êtes attentif au moindre mouvement. Au moment de descendre vous observez le changement de direction puis la descente progressive jusqu'au contact avec le sol. " toucher... toucher... " puis afin de lever l'autre pied, vous notez la pression sur le sol : " presser...presser... " C'est ainsi que l'on réalise la décomposition d'un pas en six parties.

3. MEDITATION DURANT LES ACTIVITES JOURNALIERES. En tant que yogi, vous devrez pratiquer la méditation avec attention durant toutes les activités quotidiennes. C'est en

dehors de la méditation assise ou en marchant. Durant la routine journalière, vous serez attentif aux petites activités et aux mouvements que vous faites en retournant à votre chambre, en ouvrant ou en fermant une porte, en faisant le lit, en pliant les draps, en changeant de vêtements, en vous lavant, en préparant le repas, en mangeant, en buvant etc... Même aux toilettes, vous ne couperez pas le fil de votre attention....

Méditer en mangeant: en voyant le repas, vous notez " voir...voir... ". En étendant la main pour prendre la nourriture, vous notez: " étendre....étendre.... ". Lorsque vous la touchez, vous dites: " toucher....toucher... ". En la prenant, vous notez: " prendre...prendre.... ". En ouvrant la bouche, vous notez: " ouvrir...ouvrir... ". En mâchant, notez: " mâcher....mâcher.... ". En goûtant, " goûter...goûter.... ". En avalant, notez: " avaler...avaler... ". Soyez donc attentif et clairement compréhensif à chaque mouvement durant toutes vos activités de la journée. Pratiquez avec foi et enthousiasme. Les yogis obéissants et zélés souhaitant bien pratiquer, ne trouverons pas très facile d'être attentif à tous les mouvements en prenant une bouchée de nourriture. Au début ils oublieront quelques mouvements, mais ils ne doivent pas se décourager. Plus tard, le pouvoir de concentration sera plus fort et la connaissance pénétrante permettra d'être attentif à chaque mouvement. Au début de la pratique de l'attention sur les activités quotidiennes, vous devez être attentifs aux mouvements les plus proéminents. Par exemple, si étendre le bras est plus distinct, notez: " étendre.... étendre..... ". Si c'est pencher la tête, dites: " pencher....pencher... ". Si c'est mâcher notez: " mâcher....mâcher.... ". Vous devez être attentif à un seul mouvement à la fois. Si votre esprit est centré sur ce mouvement, il deviendra réellement concentré et alors vous pourrez pratiquer sur d'autres mouvements les uns après les autres jusqu'à ce que la concentration soit profonde. Ensuite vous obtiendrez la vision pénétrante. Le vénérable Mahâsi Sayâdaw disait que le mouvement le plus distinct à observer est la mastication. Seul la mâchoire inférieure est en mouvement. Si vous êtes attentif à ce mouvement, vous serez capable de noter: " mâcher... mâcher..... " facilement. Les instructions pratiques pour méditer en mangeant sont maintenant bien claires.

Lorsque l'idée de vous asseoir devient distincte pour vous, notez: " intention de s'asseoir... Intention de s'asseoir.... ". Quand vous êtes assis, notez: " assis...assis.... ". Détachez bien les mouvements de la tête, des bras, des jambes etc...ressentez le poids du corps en descendant vers le sol. C'est l'élément pathavi, terre. En vous relevant, notez également l'intention....le mental qui veut se lever est poussé par l'élément vayo, l'air, qui vous propulse vers le haut. Notez alors: " rassembler mes énergies....... supporter avec les mains.... pousser avec les jambes.... ". Ainsi vous vous trouverez debout.

Les mots utilisés pour noter ne sont qu'une aide. Ce ne sont pas la réalité. La réalité a observer c'est le mouvement lent et progressif, l'expérience intime que vous en avez. C'est cela paramattha, la réalité. En se levant, les yogis savent d'eux-mêmes qu'ils deviennent légers, ce sont les éléments tejo-vayo (feu-air)qui sont en action. Lorsqu'ils s'assoient, ils deviennent lourds. Il observent ainsi les activités des éléments pathavi-âpo (terre-eau). Lorsqu'un yogi a réalisé la vérité au sujet de la nature réelle des phénomènes mentaux et physiques, on dit qu'il a atteint l'éveil en ce qui concerne nâma/rupa. Le mouvement est impermanent, la concentration est impermanente, le mental et le physique sont impermanents.

Tout ce qui vient à l'existence est sujet à la disparition. C'est anicca. Cette apparition et cette disparition constante et rapide de tous les phénomènes est insatisfaisante, pénible, dukkha. Comment se protéger de dukkha ? On ne le peut pas, on ne le contrôle pas, c'est anatta.

Si vous percevez la réalité profonde d'anicca /dukkha /anatta, on dit que vous avez la sagesse de samanna lakkhana, les trois caractéristiques de l'existence. Vous êtes prêt à atteindre la vision pénétrante dans la réalité.

Vous avez maintenant entendu les trois principes de base de la méditation sur l'attention. Puissiez-vous tous pratiquer avec diligence et être bientôt capable d'atteindre l'extinction du désir passionné, l'extinction de la colère et l'extinction de l'illusion et de l'ignorance ! Puissiez-vous ainsi atteindre le nibbâna que vous recherchez depuis si longtemps !

MEDITAZIONESHAMATA E VIPASSANA

Del Venerabile KENCHEN THRANGU RIMPOCHEAbate del Monastero RUMTEK

Un Commentario del Settimo Capitolo del Testo

“IL TESORO DELLA CONOSCENZA”

di JAMGON KONGTRUL, il Grande

Tradotto da ALBERTO MENGONI (Aliberth)

per il CENTRO NIRVANA di ROMA

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KHENCHEN THRANGU RIMPOCHE -

Il VII Ghyalwa Karmapa fondò il Monastero Thrangu circa 500 anni fa e vi mise a capo, come Abate, uno dei suoi discepoli prescelti, il primo Thrangu Rimpoche. In tempi più recenti, le successive reincarnazioni di Thrangu Rimpoche hanno passato molti degli anni della loro vita in ritiri isolati. L'attuale nona incarnazione fu riconosciuta tale all'età di quattro anni, nel 1937, dal Ghyalwa Karmapa della nostra era, Palpung Situ Rimpoche, il quale ebbe la profezia del nome, della famiglia e del luogo di nascita di questa reincarnazione attuale.

Dall'età di sette fino a sedici anni, il piccolo Thrangu Rimpoche imparò a leggere ed a scrivere, a memorizzare le pratiche rituali (puja) e canoniche. Cominciò poi gli studi formali in Filosofia Buddista, Psicologia, Logica, Dialettica e le Sacre Scritture con il Lama Khenpo Lodro Rabsel. All'età di ventitré anni ricevette l'ordinazione monastica Gelong insieme con Garwang Rimpoche e Choghyam Trungpa Rimpoche, direttamente dal Ghyalwa Karmapa.

Successivamente, Thrangu Rimpoche si dedicò ad un periodo di pratica intensa in un ritiro di più tre anni, ricevendo ulteriori istruzioni dal suo Lama Khenpo Gyangasha Wangpo. All'età di 35 anni gli fu dato, con tutti gli onori, il titolo Gheshe Ramjam (un dottorato molto apprezzato) e fu dichiarato da S. S. il Karmapa, "Vice Cancelliere del Seggio Principale del Detentore Vajra Kaghyu delle Tre Discipline". Egli fu un grande sostenitore ed insegnante di tutti i lignaggi Kaghyu Vajrayana ed ebbe una speciale e assai diretta trasmissione della tradizione filosofica Shentong. Essendo così stato dotato, fu anche scelto per educare i quattro grandi Reggenti Kaghyu.

Thrangu Rimpoche ha viaggiato intensamente in Europa, Stati Uniti, Canada ed Estremo Oriente. Dirige un Centro di ritiri di 3-anni chiamato "Namo Buddha" in Nepal; è anche assistente nel Centro di lunghi ritiri al Monastero Samyé Ling, in Scozia; è Abate della Gampo Abbey in Canada e offre ogni anno seminari al 'Namo Buddha' per studenti principianti ed esperti di Buddhismo.

******************************************************************************** PARTE PRIMA: MEDITAZIONE SHAMATHA

CAPITOLO I°: INTRODUZIONE ALLA MEDITAZIONE

Questi Insegnamenti sulla Meditazione derivano da un Testo intitolato “Il Tesoro della Conoscenza”. Questo testo è chiamato “Tesoro” perché ha raccolto insieme informazioni dai Sutra e dai Tantra, presentandole in forma concisa. Esso contiene non soltanto i veri insegnamenti del Buddha, ma anche nozioni di grammatica, medicina, poesia, astrologia ed altro ancora. A causa della sua vasta mole di esposizioni, esso fu anche detto “Il Testo che copre ogni Conoscenza”.

L’autore del “Tesoro della Conoscenza” è stato Jamgon Kongtrul (1813-1899), che nacque da una famiglia molto povera. Appena nato, suo padre morì, quindi la sua famiglia rimase composta da lui stesso e da sua madre. A quel

tempo vi era un sovrano molto potente che regnava sul territorio di Der-gé in Tibet, ed egli dovette sottomettersi a lavorare per quel re. Sua madre era solita dirgli: “ Qui, non c’è modo di condurre un tipo di vita che non sia così dolorosa: è molto meglio se entri nel Dharma e diventi monaco. E’ molto meglio fare quello, che condurre una vita così”. Quindi, sua madre lo spedì ad un monastero, ove fu ordinato monaco e tanto studiò da diventare infine un grande studioso. Egli divenne allievo del 9° Tai Situpa, Pema Nyingje Wangpo e fu un ottimo studente ed un bravo scrittore. Il re di Dergé venne a sapere della sua bravura e gli propose di diventare suo segretario particolare, ma il suo maestro Pema Nyingje pensò: “Se egli è soltanto un semplice monaco, il re sarebbe capace di prenderlo con sé come segretario e gli farà perdere tempo dietro problemi materiali. Se invece è un Tulku dichiarato (cioè un Reincarnato speciale, n. d.T.), allora il re non potrà averlo come segretario”. Il problema era che egli doveva essere la reincarnazione di qualcuno, per essere un Tulku. Così, Pema Nyingje pensò che sarebbe stata una buona idea chiamarlo Tulku di Kongpo Pamden, che era stato un grande meditante. Perciò dette a Jamgon Kongtrul il nome di ‘Kongpo Pamden Tulku’, che fu poi accorciato in ‘Kongtrul’. Ecco come Jamgon Kongtrul ottenne il suo nome.

Così, Jamgon Kongtrul fu dichiarato un tulku e visse in una capanna su una grande rupe sopra Palpung. Questa rupe è chiamata ‘Tsadra Rinchen Drak’. Rinchen Drak significa ‘Rupe Preziosa’, o ‘Rupe Gioiello’ e Tsadra si riferisce al Monte Kailash, che è un luogo assai sacro in Tibet. Questo luogo fu riconosciuto come molto speciale dal Terton Chojyur Lingpa e, quando si guarda il lato nord di questa rupe, si può vedere sulla roccia la forma della divinità Dorje Phurba (in Sanscrito, Vajrakilaya). Jamgon Kongtrul aveva la sua piccola casetta nel punto del cuore di questa forma del Dorje Phurba ed egli vi stava in ritiro meditando costantemente. Nella storia della sua vita, egli dice di aver vissuto qui solitario in uno stato di povertà, mangiando soltanto una sporta di Tsampa (sorta di verdure arrostite) e una sola caraffa di tè.

A quel tempo vi erano molti lignaggi nel Tibet – alcuni con molti sostenitori ed altri con molti meno. Onde prevenire la loro scomparsa, Jamgon Kongtrul riunì gli insegnamenti di tutti questi lignaggi e li raccolse gradualmente in cinque testi, ‘I Cinque Tesori’, di cui ‘Il Tesoro della Conoscenza’ è uno di questi. Però, poi egli scoprì che in un Sutra è detto: “Verrà una guida, chiamata Lodro, che insegnerà i cinque tipi di conoscenza”. La parola Tibetana ‘Lodro’ significa ‘intelligenza’ e questo era il vero nome di Jamgon Kongtrul. I cinque tipi di conoscenza sono quindi riferiti ai ‘Cinque Tesori’. Così Jamgon Kongtrul compose questi Cinque Tesori ed i più grandi eruditi hanno riconosciuto nella profezia del Sutra, proprio l’opera di Jamgon Kongtrul.

Jamgon Kongtrul divenne l’insegnante del quindicesimo Karmapa, Khakhyab Dorje, che ebbe grandi onorificenze. Nel Tesoro della Conoscenza vi sono insegnamenti ad ogni livello, compresi Sutra, Tantra e così via. Vi sono anche insegnamenti su ciò che si deve fare a ciascun livello, come si deve sviluppare la propria meditazione a quei livelli, e così via.

Perché si dovrebbe praticare la Meditazione

Questo capitolo comincia col rispondere alla domanda del ‘perché si deve meditare’. In Sanscrito, ‘meditazione’ si dice ‘dhyana’, ma il momento topico della ‘dhyana’ è il ‘Samadhi’ che, in Tibetano è reso con ‘ting nge dzin’. La sillaba ‘dzin’ significa ‘mantenere’ e la sillaba ‘nge’ è un avverbio che rende tutto il significato con “mantenere qualcosa fermamente, stabilmente”, quindi “senza movimento”. Ciò significa che, durante la meditazione, la mente non deve cadere sotto il potere abitudinario dei pensieri, oscurazioni o negatività mentali (klesha). Al contrario, essa deve rimanere completamente stabile e non oscillante. Samadhi è anche tradotto ‘gom’ in Tibetano, che è simile al termine ‘khom’, che significa ‘diventare abituato a fare qualcosa’, in quanto diventa una parte di se stessi. E, infatti, la meditazione è molto simile ad una familiarizzazione, dato che si deve continuare a meditare anche quando c’è qualcosa che non va troppo bene. Si possono avere ostacoli e problemi, ma uno continua e abitua se stesso a meditare finché la propria meditazione diventa facile e naturale. Quindi, tramite l’abitudine si diventa capaci di restare sempre nello stato meditativo.

Generalmente, Samadhi include ‘Shamatha’ (in Tib. shinè, cioè calma mentale) e Vipashyana (in Tib. lhaktong, cioè visione profonda). Dopo aver ricevuto gli insegnamenti per questi due tipi di meditazione, bisogna analizzarli con la propria intelligenza così da ottenere una definita comprensione di essi. Dopo aver ottenuto la comprensione dei loro significati, bisogna praticare e meditare, cosicché ciò che si è imparato diventa assorbito nella propria mente. Anche se uno crede di sapere molto sul Dharma, tutto ciò non sarà di alcun aiuto se non si comprende bene la meditazione shamatha e vipassana. Ciò che è necessario fare è di meditare continuamente così che quello che si è compreso concettualmente diventi una effettiva parte di se stessi. Perciò ora andiamo prima ad esaminare la meditazione.

Vi sono diversi livelli di comprensione: con l’ascoltare gli insegnamenti Buddisti si sviluppa la ‘comprensione dell’ascolto’; riflettendo su questi insegnamenti si sviluppa la ‘comprensione della contemplazione’. Queste due comprensioni non sono sufficienti a sviluppare la piena comprensione, perché si deve rivolgere la propria mente all’interno per ottenere la comprensione che deriva dalla meditazione. Anziché focalizzare la propria mente all’esterno, come si fa quando si ascoltano gli insegnamenti, per sviluppare la ‘comprensione meditativa’ si deve focalizzare la propria attenzione rivolta all’interno della mente stessa. Non c’è molto beneficio nel focalizzare la propria mente all’esterno (come si è abituati a fare nello stato ordinario), perché la mente viene imprigionata dai klesha (abitudini mentali fuorvianti) ed il solo modo per liberarsi dalla schiavitù dei klesha, è di rivoltare la propria mente all’interno per mezzo della meditazione.

Jamgon Kongtrul porta due esempi che illustrano la necessità della meditazione. Nel passato non vi erano fabbriche in Tibet, perciò egli porta l’esempio di un agricoltore. Per essere felice e ben nutrito, un coltivatore deve seminare un campo, lavorare sodo e ricavare un buon raccolto. Ma, avere una buona messe nel campo non è sufficiente, egli deve raccoglierla e mangiarla. Similmente, solo ascoltare gli insegnamenti e rifletterci su non è sufficiente; uno deve meditare, così può disperdere la negatività della propria mente e sviluppare la saggezza interiore. Nel secondo esempio, tratto da Santideva, un dottore deve avere la conoscenza delle medicine e dell’appropriata applicazione di quelle medicine, ottenuta grazie allo studio di libri medici. Ma, solo leggendo i libri medici non si potranno eliminare le malattie, per farlo si dovranno prendere le medicine indicate nei testi. Allo stesso modo, solo leggere e contemplare il Dharma non è sufficiente, perché ciò non domerà i klesha né calmerà la mente. Per sviluppare le qualità della saggezza, si deve praticare la meditazione. Praticare la meditazione significa abituare se stessi alla meditazione. Se la propria mente è felice ed in pace, nella nostra vita ordinaria, tutte le cose esterne appaiono piacevoli ed attraenti; se la propria mente è disturbata ed infelice, tutte queste cose esterne sembrano spiacevoli e ingiuste. Bisogna rendere la mente pacificata e felice per sviluppare la saggezza interiore e questo avviene con la meditazione.

Abbiamo visto che in Tibetano, Samadhi (lo stato di meditazione profonda) si dice ‘ting nge dzin’, ed è composto da due elementi – shamatha e vipashyana. In effetti, vi sono un gran numero di meditazioni tecniche, ma tutte queste non sono incluse in queste due. Nel Sutra ‘Spiegazione Definitiva della Retta Visione’, il Buddha dice che vi è il samadhi degli Sravaka, cioè dei seguaci del Hinayana, vi è il samadhi dei Bodhisattva, cioè dei seguaci del Mahayana e vi è il samadhi dei Tathagata (tutti i Buddha), i quali hanno seguito la meditazione fino al suo completamento. Tutti questi possono essere inclusi nei due tipi di samadhi –cioè shamatha e vipashyana. Avendo compreso che ogni meditazione proviene da shamatha e vipassana, uno dovrebbe prepararsi ad eseguire queste meditazioni e dovrebbe anche cercare le istruzioni per poterle praticare. Lo scopo della pratica shamatha e vipashyana nell’Hinayana è quello di ottenere la felicità e svariate altre qualità speciali. Nel Mahayana lo scopo della meditazione è di beneficiare tutti gli esseri, perciò questa visione ha un più vasto punto di vista e richiede una più grande motivazione, ecco perché il Mahayana è chiamato ‘Il Grande Veicolo’. Nel Buddismo i risultati del Hinayana e del Mahayana arrivano dalla pratica di shamata e vipassana. Anche l’ottenimento della felicità di tutti i giorni è il risultato di queste due meditazioni. Thrangu Rimpoche ha viaggiato estesamente in Europa e Nord America e durante questi viaggi numerosi individui gli hanno riferito i loro problemi personali: problemi mentali, fisici ed affettivi, nonché l’infelicità dei loro rapporti sociali e di lavoro. La risposta, comunque, alla moltitudine di questi problemi è stata sempre la stessa: rendere la propria mente calma e pacificata e sviluppare le proprie comprensione e saggezza. Perciò, la felicità mondana ordinaria e la prosperità arriveranno sicuramente con la pratica di Shamatha e Vipashyana. Il Sutra che abbiamo nominato dice ancora che la radice del successo nei propositi di tutte le nostre attività mondane e spirituali è la meditazione di S. e V. Questo Sutra consiste nei dialoghi del Buddha e di Maitreya, sotto forma di domande e risposte. In esso, il Buddha dice a Maitreya che qualsiasi qualità mondana e spirituale posseduta dagli sravaka, dai bodhisattva e dai Tathagata – tutte sono la risultanza di S. e V. Questo spiega l’importanza di shamatha e vipassana, in quanto esse sono la radice di tutte le meditazioni. Sapendo questo, uno dovrebbe sviluppare un grande interesse nel praticare questi due tipi di meditazione.

La Natura essenziale di Shamatha e Vipashyana

Shamatha è in realtà la mente che rimane unidiretta su un oggetto, in modo che non sorgano troppi pensieri e la mente divenga ben stabile e calma. La mente resta in pace, perciò shamatha vuol dire ‘essere in pace’. Ma, mantenere semplicemente la mente univoca non è una meditazione completa perché, nel vero shamatha, l’oggetto che deve essere focalizzato dovrebbe essere qualcosa di positivo. Un oggetto negativo porterebbe sicuramente a creare pensieri passionali, aggressivi, ovvero l’ignoranza che sorgerebbe nella mente causerebbe l’incapacità della stessa mente a restare calma sullo stesso oggetto. Restando su qualcosa di genuinamente positivo, si permette alla mente di restare in pace. Shamatha è lo stato che previene il sorgere di così tanti pensieri, però non si dovrebbe

pensare che esso sia uno stato di non-pensiero – come se si fosse una pietra. La meditazione shamatha non è così. Nella meditazione shamatha la mente è davvero calma e stabile ed è anche assai chiara, cosicché può distinguere e discriminare tra tutti i fenomeni e vedere ogni cosa in modo molto distinto. Questa chiarezza è chiamata ‘vipashyana’ o ‘insight’- visione interna, e viene sviluppata grazie a shamatha.

La natura o identità di shamatha è descritta nel Sutra ‘Nuvole di Gioielli’. Esso dice che, se la propria mente ha troppi pensieri, non si è in grado di focalizzarla sull’oggetto della propria attenzione. Perciò, se la mente cerca di focalizzarsi su un oggetto positivo, questo non può essere trattenuto a causa della distrazione derivante dai pensieri. Se la mente può focalizzarsi univocamente senza il disturbo dei pensieri, allora si ha la meditazione shamatha. Il Sutra dice anche che vipashyana ha la chiarezza della comprensione in cui ogni cosa è vista chiaramente e distintamente; il relativo è visto come relativo, l’assoluto come assoluto. Quindi la vera natura delle cose è vista come è e questo è ciò che si intende con vipashyana. Un commentario su questo Sutra fu composto da Vasubandhu, che fu un grande maestro dell’Abhidharma. Vasubandhu disse che nel genuino shamatha la mente è capace di restare nella mente. La mente diventa così rilassata che è in grado di restare in se stessa, restando proprio come essa è nel modo non distratto dai pensieri. In Tibetano ‘distratto’ si dice ‘yeng wa’ che significa ‘essere spazzati via’. La parola ‘distratto’ contiene poi in questo contesto un esempio: come essere portati via senza alcun controllo, da un fiume in piena. Allo stesso modo, la propria mente che non può restare ferma, è proprio portata via dai pensieri. Se la mente resta stabile nella mente, essa resta proprio lì dov’è e rimane ferma, pacificata e rilassata. Il Sutra ‘Nuvole di Gioielli’ dice ancora, “ Shamatha è la mente uniforme” e il commentario di Vasubandhu spiega, “Shamatha è la mente che resta nella mente” e “Vipashyana è la discriminazione dei fenomeni”, intendendo dire che tutte le cose appaiono molto chiaramente distinte una dall’altra, e questa è la natura di Vipashyana. Quindi, con shamatha e vipashyana si ha il genuino stato di meditazione con la mente che resta nella mente e con la capacità di distinguere tutti i fenomeni. Senza shamatha e vipashyana non si può avere un genuino samadhi o stato meditativo.

Il terzo testo citato da Jamgon Kongtrul ci viene da Kamalasila con questa piccola storia: - Nell’ottavo secolo, Santaraksita arrivò in Tibet per insegnare gli stadi della meditazione. Grazie alla sua chiaroveggenza egli sapeva che sarebbe morto presto. Perciò, prima di morire, disse, “ Vi ho dato questi insegnamenti ma, in futuro, potranno esservi problemi e le cose potrebbero andar peggio. Quando ciò accadrà, invitate il mio allievo di nome Kamalasila dall’India. Egli sarà in grado di spiegarvi la meditazione e rimuovere ogni errore di interpretazione che dovesse sorgere”. Questo fu il suo ultimo desiderio, dopodiché egli lasciò il corpo.

Quindi, un monaco Cinese di nome Hashang-Mahayana, arrivando in Tibet dalla Cina, disse: “ Voi avete ricevuto questi insegnamenti da Santaraksita, ma essi sono adatti solo per il sentiero graduale. Questo non è un sentiero profondo, anzi è molto difficile da concludere e richiede tempi lunghi. I miei insegnamenti sono la Via Istantanea, che è più facile e rapida della Via graduale. Se un pensiero, buono o cattivo, si forma nella mente, ciò non fa nessuna differenza. Sia una nuvola bianca che una nuvola nera, entrambe oscurano il sole. Se si viene morsi da un cane bianco, si avrà il segno dei denti tanto quanto se si viene morsi da un cane nero. Se sorge un pensiero positivo, ciò non è il bene; e così, se sorge un pensiero negativo, non è il male. Piuttosto si deve restare in uno stato in cui non vi sia alcun qualsivoglia pensiero”. Quindi, egli dette questi insegnamenti e la gente del Tibet divenne confusa e non sapeva più quale era il giusto o l’errato modo di meditare. Allora essi ricordarono ciò che aveva detto Santaraksita e invitarono Kamalasila dall’India per chiarire ciò che non capivano.

In effetti, non vi era nulla di sbagliato negli insegnamenti di Hashang, salvo il fatto che questi insegnamenti non includevano, nelle sue spiegazioni, lo sviluppo di amore e compassione, nonché l’accumulazione di meriti grazie alle buone azioni. Nel suo sistema, si deve soltanto bloccare ogni pensiero e meditare. Quando Kamalasila arrivò in Tibet volle rendersi conto se Hashang era intelligente o meno perché, se non era intelligente, non ci sarebbero stati motivi per dibattere con lui. Alle spalle del monastero Samyé, in Tibet, vi è il grande fiume Tsangpo che, in realtà, è la parte superiore del Fiume Brahmaputra. Questo è un fiume davvero molto largo e Kamalasila si mise su una sponda del fiume mentre sull’altra si mise Hashang. Per determinare quanto fosse intelligente il suo avversario, Kamalasila prese il suo bastone e lo fece roteare tre volte sopra la sua testa. Questo, simbolicamente, voleva significare la domanda. – Da dove vengono i tre reami del samsara?-. Siccome Hashang Mahayana era intelligente, sollevò le sue due mani, che erano coperte dalle maniche del mantello. Ciò valeva come risposta per dire, - Essi provengono dall’ignoranza che si aggrappa al dualismo di percipiente e percezione -. Appena Kamalasila vide la sua risposta, programmò il dibattito che fu tenuto al monastero Samyé. Il re del Tibet presiedette al dibattito e portò delle ghirlande di fiori, che sarebbero state donate al vincitore. Il re disse che prima era arrivato il mahapandit Santaraksita per dare insegnamenti sulla meditazione; più tardi era venuto Hashang e aveva dato insegnamenti che non erano uguali a quelli di Santaraksita. Infine egli disse: “Io sono soltanto un essere ordinario e non posso dire quale dei due metodi è quello corretto, perciò avremo questo dibattito in cui voi vi farete domande l’un l’altro. Chi di voi perderà il dibattito, dovrà dare queste ghirlande all’altro che avrà vinto e quindi può garbatamente accettare la sconfitta e ritirarsi serenamente senza affanno o risentimento”. Dopodiché essi tennero il dibattito, facendosi domande l’un l’altro e dando le risposte che ritenevano valide; alla fine Hashang rinunciò al dibattito e presentò le

ghirlande a Kamalasila, riconoscendo così che il metodo di meditazione di Kamalasila era quello più corretto. Di conseguenza, Kamalasila dette i suoi insegnamenti sulla meditazione, che si possono trovare nel suo ‘Livelli di Meditazione del Madhyamika (la Via di Mezzo)’. Nel Tesoro della Conoscenza, la spiegazione di shamata e vipashyana segue gli insegnamenti di Kamalasila (1).

Il secondo volume sugli ‘Stadi della Meditazione’ di Kamalasila, descrive la natura della meditazione shamatha. In shamatha, la mente è costantemente focalizzata all’interno, quindi diventa assai pacifica e anche tutte le distrazioni esterne sono pacificate. L’ostacolo alla meditazione shamatha sono le distrazioni che provengono dall’esterno come oggetti visti, suoni, odori, ecc. Lo sviluppo di shamatha avviene quando la mente è costantemente rivolta all’interno e resta poi stabile in questo stato. Kamalasila dice che vi sono due caratteristiche che sorgono da shamatha; la prima è la gioia e l’attrazione per shamatha perché si sente che è importante e la si fa naturalmente a causa di uno stato di letizia; la seconda è un aspetto chiamato ‘attrazione totale’. Questo significa che non si è combattuti da pensieri e distrazioni, perché la propria mente resta stabile su ciò che si desidera, senza alcun conflitto. Kamalasila dice che queste sono le due qualità della meditazione shamatha.

In sintesi, quando si raggiunge shamatha, non si sperimentano più stati di offuscamento o stupidità. Quando shamatha è sviluppata, si elimina la distrazione dei pensieri e questo fatto spinge a vedere le cose più chiaramente e distintamente, di modo che si instauri vipashyana. Ecco come Kamalasila descrive la natura di shamatha e vipashyana.

Etimologia

La parola Sanscrita ‘Shamatha’ fu tradotta in Tibetano col termine ‘Shiné’, che è letteralmente la traduzione delle due sillabe ‘sha-ma’ in ‘shi-wa’ (cioè: pace) e la sillaba ‘tha’ in ‘né-pa’ (che significa stabilità, o stasi). Nel contesto, tutto ciò significa che quando la mente è sopraffatta dai pensieri di rabbia, tristezza, rincrescimento o brama, essa è totalmente distratta. Ma in shamatha la mente è molto rilassata e a suo agio, senza difficoltà o avversione. La mente è ferma e pertanto questo è uno stato di pace. Dunque la mente non è coinvolta in attività forzata o in disagi, ma è stabile in uno stato di pace spontanea. Vi sono diversi tipi di samadhi o stati meditativi, ma la meditazione shamatha è la base di tutti gli stati meditativi in cui la mente è uniformemente stabilizzata e rimane completamente focalizzata su un oggetto di meditazione.

La parola Sanscrita ‘Vipashyana’ è divisa anch’essa in due parti, di cui la prima parte ‘vi’ (riduzione di ‘vishesa’) significa ‘speciale’, ‘superiore’ o ‘particolare’; in Tibetano essa si rende con ‘lhag’ (speciale). La seconda parte della parola è ‘pashyana’ che significa ‘vedere’ o ‘guardare’ ed in Tibetano si traduce con ‘tong’. Pertanto l’intera parola ‘Vipashyana’ (‘Lhak-tong’ in Tibetano) significa guardare in profondità le cose, in un modo diretto, speciale, chiaro e particolare. Vuol dire anche ‘guardare con gli occhi della Saggezza’.

La necessità di utilizzare entrambi

Si potrebbe pensare di poter meditare solamente su shamatha o soltanto su vipashyana, senza utilizzarle insieme. Ma, di fatto, qualsiasi insegnamento Buddista si stia seguendo, si dovrà praticare insieme sia shamatha che vipashyana. Un esempio a ciò ci viene da una lampada a burro, che era usata in Tibet nell’antichità, per illuminare l’oscurità. La luce di una lampada a burro è assai chiara e luminosa, ma per poter offrire questa luminosità essa deve essere tenuta ferma e riparata, e non farla ondeggiare o farla spegnere dal vento. Perciò c’è bisogno di entrambe queste qualità – una fiamma vivida e una stabilità della fiamma, per illuminare il buio. Se la fiamma non splende o viene spenta dal vento, le cose non potranno essere viste nel buio. Allo stesso modo, per vedere la vera natura dei fenomeni, si deve avere una chiara comprensione o saggezza ed essere capaci di focalizzare la mente sull’oggetto esaminato, posizionando la propria attenzione su di esso per tanto tempo quanto ne occorre. Se anche una sola di queste due cose manca, allora la vera natura delle cose non sarà percepita. È necessario possedere sia shamatha (la luce non ondeggiante) che vipashyana (la fiamma luminosa), poiché con entrambe insieme si ha totale libertà di focalizzarsi su qualunque cosa e si sarà in grado di eliminare tutti i pensieri negativi (klesha) che devono essere eliminati onde poter sviluppare la saggezza che bisogna far sviluppare. Se si pratica shamatha senza vipashyana, non si sarà in grado di comprendere la vera natura dei fenomeni; si avrà soltanto una stabilità di mente mentre è posizionata su qualcosa. È come quando si è in vacanza, si può sperimentare pace nel rilassamento, ma non si otterranno risultati conclusivi da ciò. Se invece si pratica vipashyana senza shamatha, non si sarà in grado di eliminare tutte le negatività che devono essere eliminate, perché vipashyana senza shamatha è instabile. Se anche si

arrivasse alla comprensione di vipashyana, ciò potrebbe avvenire con una mente agitata e quindi quella sarebbe una ulteriore preoccupazione. Ecco perché è necessario praticare shamatha e vipashyana insieme; questo è stato affermato dal Buddha nei Sutra ed anche negli insegnamenti Vajrayana.

L’Ordine progressivo

La prossima questione è se si deve cominciare prima con shamatha o prima con vipashyana o partire con entrambe subito. La risposta è che si deve partire con shamatha e poi si farà la pratica vipashyana, poiché shamatha è la base della meditazione e vipashyana è basata sulla pace ottenuta con shamatha. Nell’esempio della lampada a burro, shamatha è come l’olio o il burro e vipashyana è come lo stoppino. Se non c’è l’olio o il burro per far ardere la fiamma, lo stoppino da solo non può durare a lungo; mentre se vi è l’olio, la lampada potrà essere stabilmente accesa con una bella fiamma. Allo stesso modo, c’è bisogno di stabilizzare prima la meditazione shamatha e poi sviluppare la meditazione vipashyana. Nella ‘Guida al Modo di Vita di un Bodhisattva’ (Bodhisattva-caryavatara), Santideva dice che bisogna sviluppare la meditazione vipashyana che è basata su shamatha – che è pacificante – dopo che ci si è completamente familiarizzati e abituati. Quando si possiede vipashyana, da una base di stabile shamatha, si sarà in grado di debellare e superare i klesha. Quindi, bisogna prima cominciare con la meditazione shamatha. Santideva fu un grande erudito e Siddha Indiano che, benedetto da Manjusri, compose la Guida del Bodhisattva. In quest’opera egli descrisse tutte le Sei Perfezioni delle Paramità e, nel capitolo della perfezione della meditazione, disse che l’essenza di vipashyana è il vedere tutte le cose senza distrazione e con piena chiarezza. Questa saggezza discriminante (Pratyaveksanaprajna) vede i fenomeni relativi come relativo e i fenomeni ultimi come assoluto e, in ciò, vede la vera natura di tutte le cose. Perciò, con questa saggezza discriminante si può vedere la reale, vera natura della mente, proprio così com’è. Ma prima di questo può avvenire che la nostra mente debba essere operabile. Ciò significa che, con la propria mente, si può fare ciò che si vuole – se si desidera mandarla in qualche posto, essa vi andrà; se si vuole farla rimanere in qualche punto, essa vi resterà. Così è possibile avere il completo controllo della propria mente. Come l’esperienza ci insegna, la nostra mente normalmente agisce come se appartenesse a qualcun altro - essa se ne va proprio girovagando qua e là da sola. Ecco perché dobbiamo avere il completo controllo sulla nostra mente, se vogliamo vedere la natura delle cose con la comprensione di vipashyana.

NOTA AL CAPITOLO I° =

(1) – Thrangu Rimpoche (a differenza di alcuni studiosi occidentali) non crede che gli insegnamenti di Hashang Mahayana fossero in qualche modo collegati al Buddismo Ch’an. Nei testi Tibetani non vi è descrizione di questi insegnamenti, ma alcuni Tibetani dicono che poteva trattarsi di nozioni della Tradizione Cinese che erano di moda in Cina, ma Rimpoche crede che essi fossero qualcosa di particolare del monaco Hashang. Questi era il nome di un individuo, mentre Hashang è il nome riconosciuto di un maestro della tradizione del Dharma. (La storia dei 16 Arhat in Tibet, dice che questi 16 Arhat erano arrivati tutti insieme per fare miracoli e che il loro Patrono fosse Hashang). Altri studiosi descrivono il termine “Hashang” come simbolo della coscienza di base o ‘Alaya’, raccontando che si hanno le sei coscienze paragonate a sei bambini che ci infastidiscono andando in giro qua e là per tutto il tempo. Poi c’è un vecchio saggio seduto ed i sei bambini gli saltano addosso non lasciandolo mai in pace. Quindi, questo ‘Hashang’ o coscienza di base, è il vecchio saggio con tutte le sei coscienze (i sei bambini) che saltano intorno a lui, ma egli se ne sta seduto sorridente ed in pace. Perciò, qui vi è un simbolo per la coscienza di base che è imperturbabile e non turbata dalle sei coscienze personali; e Hashang è questo simbolo.

Vi è inoltre, un altro Hashang, molto simile alla storia Tibetana narrata nel testo. Egli era chiamato Hashang ed è stato dipinto iconograficamente mentre porta un grande sacco con sé. Egli fu una persona storica, un insegnante ed una emanazione di Maitreya che fece espandere moltissimo il Dharma in Cina. Questo Hashang, sembra molto essere quello dei 16 Arhat e, ovviamente, è totalmente diverso da Hashang Mahayana, il monaco che venne in Tibet ad insegnare la meditazione.

(Nota del Traduttore Italiano = Han Shan , e non Hashang, fu il nome adottato dal Maestro Ch’an Tè Ch’ing, che visse in Cina dal 1546 al 1623- Non si sa se la leggenda abbia voluto confondere queste due figure; resta il fatto che il Ch’an, pur essendo della stessa tradizione Mahayana, è pur sempre una Via Istantanea, quindi non graduale, proprio come è stato postulato in questo testo. Ma la Tradizione Cinese racconta i fatti in un modo diverso. Sembra che il Maestro Han Shan, dopo aver tentato di spiegare ai Tibetani il metodo della Illuminazione Istantanea del Ch’an, avendo visto la difficoltà di comprensione dei seguaci della Scuola Graduale, abbia ritenuto più consono e compassionevole abbandonare la disputa e lasciare la vittoria (fenomenica) a Kamalasila. E questo, se vogliamo, è

una riprova ancor più valida della linea autentica, trascendente ma anche aderente al vero Dharma, del Ch’an Cinese.) =

CAPITOLO II° = SHAMATHA IN DETTAGLIO

PREREQUISITI DI SHAMATHA

Quando sono presenti condizioni favorevoli per la meditazione, allora shamatha si svilupperà; altrimenti, se queste sono assenti, shamatha non potrà svilupparsi.

Allorché inizialmente il Dharma fu introdotto in Tibet, nel settimo secolo, vi fu una buona comprensione e una assidua pratica, da parte dei Tibetani. In seguito, Langdarmà, un re del Tibet, a metà del nono secolo soppresse il Dharma e distrusse la maggior parte degli insegnamenti Buddisti. Dopo questa cancellazione, qualcosa del Dharma sopravvisse e fu preservato, ma alcuni di questi insegnamenti sopravvissuti furono praticati in modo scorretto. Come risultato, i Tibetani non furono più sicuri di chi stava dando il giusto insegnamento. Perciò, nel 1042 il nobile Atisha fu invitato in Tibet dall’India, in quanto fu ritenuto la persona più qualificata per insegnare il corretto modo di praticare. Lo stesso Atisha, ricevette una rivelazione come profezia da Tara, che egli sarebbe andato in Tibet e che questo sarebbe stato di gran beneficio per il Dharma. Quando giunse in Tibet, egli dette insegnamenti sui metodi di meditazione shamatha e vipashyana e questi metodi si trovano nel suo libro, ‘ La Luce sul sentiero dell’Illuminazione’. In questo testo egli dice che, per una buona meditazione shamatha devono essere presenti condizioni favorevoli. Anche se uno è diligente e si applica per molti anni alla meditazione shamatha, se queste condizioni favorevoli sono assenti, non si potrà sviluppare una reale meditazione shamatha. Atisha dice che se tutte le condizioni favorevoli sono presenti ed uno concentra la sua mente su qualcosa che sia buona e positiva, allora si sarà in grado di compiere la meditazione shamatha e si potranno sviluppare poteri di chiaroveggenza.

Nel suo secondo volume degli ‘Stadi della Meditazione’, Kamalasila dice che le condizioni favorevoli sono queste: 1) bisogna risiedere in un luogo favorevole in cui sono presenti gli strumenti necessari. 2) in termini mentali, non si dovrebbe avere un gran desiderio di pensare ‘Oh, devo avere una cosa su cui meditare, e non due o tre’, e così via. Questo tipo di pensieri, rappresenta un ostacolo. 3) si dovrebbe avere contentezza, il che significa che qualsiasi cosa si abbia è buona e adatta allo scopo. 4) si dovrebbero abbandonare le troppe attività commerciali e materiali, come gli affari oppure compravendita, ecc. 5) si dovrebbe avere una buona e pura condotta morale. 6) in questa condizione, si dovrebbe solo meditare in modo corretto. Infine, 7) si dovrebbe evitare ogni distrazione o desiderio che appare, come pure idee e concetti. Questa, dunque, è una lista delle sette condizioni necessarie per lo sviluppo di shamatha.

Nel ‘Ornamento dei Sutra Mahayana’, Maitreya dice che si dovrebbe praticare in un luogo in cui si può facilmente soddisfare bisogni e necessità come vestiti, cibo, e così via. Un luogo in cui si dovrebbe essere liberi dalle paure dei ladri e di qualsiasi pericolo per se stessi. Si dovrebbe stare in un luogo salutare che non sia né troppo freddo né troppo caldo e che non pregiudichi la propria salute. Si dovrebbe anche stare insieme a buoni compagni che abbiano la nostra stessa visione del modo di vivere e identico comportamento, poiché se essi si comportano in maniera diversa da noi, questo non ci permetterà di ottenere o mantenere una buona stabilità mentale. Inoltre, il luogo in cui stare dovrebbe anche essere privo di troppa confusione e attività e non dovrebbe essere abitato da molte persone. Queste sono le condizioni favorevoli esterne in cui si dovrebbe vivere. Questo sutra descrive anche le condizioni interne della mente, vale a dire, assenza di desideri passionali e materiali. Contentezza e diminuzione di coinvolgimenti in troppe attività. Infine, esso descrive il comportamento che si dovrebbe avere tra la propria mente e l’ambiente mondano esterno. Si dovrebbe avere una condotta pacifica e gentile in accordo ai voti Pratimoksha del Bodhisattva. I voti Pratimoksha sono proibizioni di cose come l’uccidere, rubare, l’adulterio e così via, cose che sono così di moda oggigiorno. L’idea principale, comunque, è che se uno cade in una di queste azioni negative, la propria mente non sarebbe in grado di rimanere in uno stato pacifico e naturale. In termini di voti del Bodhisattva, se uno ha rabbia, gelosia, brama o avversione, ecc. allora la propria mente sarà incapace di restare in uno stato di pace. Invece, si dovrebbero sviluppare sentimenti di amore e compassione per tutti gli esseri senzienti. Quindi, se questa interconnessione tra interno ed esterno è stabilita con l’intenzione di beneficiare gli altri esseri, allora le condizioni favorevoli per sviluppare shamata si svilupperanno di sicuro.

CATEGORIE DI SHAMATHA

Vi sono quattro tipi di meditazione shamatha. Il primo tipo è chiamato ‘Shamatha del Reame del Desiderio’, e si ha quando la propria mente è completamente rilassata e diventa totalmente stabile ed in pace. Poi, vi è ‘Shamatha del Dhyana’, o ‘Shamatha della stabilità mentale del Reame della Forma’. Qui si prova una intensa esperienza di gioia e beatitudine stabilizzata nella meditazione. Il terzo tipo è ‘Shamatha del Reame Senza Forma’, in cui tutte le cose spariscono. Il quarto tipo è ‘Shamatha della Cessazione’, che oggi come oggi non è molto praticata, ma in tempi passati alcuni sravaka dell’Hinayana usavano per raggiungere uno stato in cui la mente si blocca e la continuità dell’energia mentale si ferma.

Ancor più precisamente, vi sono nove livelli successivi di Shamatha. Prima, nel Reame del Desiderio vi è una shamatha unidiretta che significa che non si ha ancora completa stabilità mentale, ma se ne ha una certa quantità, tanto da non essere distratti dagli oggetti esterni. Poi, nel Reame della Forma, vi sono quattro successivi stati di meditazione shamatha. Il primo è l’esame e l’analisi shamatha. Il secondo è la gioia e la beatitudine shamatha. Il terzo è l’inalazione ed esalazione del respiro shamatha. Il quarto livello è shamatha libero dagli otto difetti. Questi difetti sono: 1) la sofferenza fisica del regno del desiderio, 2) la sofferenza mentale dello stesso regno; 3) il difetto dell’analisi del regno di forma; 4) il difetto dell’esame dello stesso regno; 5) il difetto della non-gioia; 6) il difetto della non-beatitudine; 7) il difetto della inalazione del respiro e 8) il difetto della esalazione del respiro. Questi ultimi due, stanno a significare la libertà dall’inspirazione ed espirazione, dato che in questo stato si è completamente immobili senza alcun respiro forzato. Perciò, questi sono i quattro livelli della meditazione shamatha del regno della forma.

Vi sono anche quattro livelli di meditazione che appartengono al regno senza forma, che è uno stato di vacuità, ma non la Vacuità (Sunyata) dei Madhyamika. È solo una condizione di vuoto o spazio vuoto in cui non si percepisce né si focalizza nulla. Questi quattro sono, ‘Shamatha dello Spazio Infinito’, ‘Shamatha della Coscienza Infinita’, ‘Shamatha senza esistenza né non-esistenza’ e ‘Shamatha del Nulla in ogni dove’. Quindi, tutti insieme vi sono questi nove livelli di meditazione shamatha, uno nel Reame del Desiderio, quattro nel Reame della Forma e quattro nel Reame della Non-Forma.

POSTURA NELLA MEDITAZIONE

Vi sono due modi per descrivere la postura che si deve tenere durante la meditazione; 1) i sette aspetti della postura di Vairocana e 2) i cinque aspetti della meditazione Dhyana. Ecco i sette aspetti di Vairocana. Vairocana significa “ciò che illumina”, “ciò che rende chiari”. Perciò, Vairocana è la tipica postura fisica della seduta, che sviluppa uno stato meditativo e rende la mente stabile e chiara. Se la mente non è stabile, dipende dalle ‘arie’ o ‘venti sottili’ (Skt. Vayu, Tib. lung). Vi è una grossa aria o vento energetico, che è il respiro che si inspira ed espira. Ma vi è anche un vento sottile o aria che è collegato ai movimenti del corpo ed ai movimenti del pensiero. Corpo e mente sono correlati, cosicché quando questi venti sottili diventano immobili nel corpo, anche la mente diventa immobile. Questi venti sottili si rendono stabili lavorando sui canali interni (Skt. Nadi, Tib. tsa) attraverso i quali i venti si muovono. Se questi canali sono liberi e stabili, allora le arie sottili diventano stabili e quindi anche la mente diventa stabile. Per rendere questi canali liberi e stabili, si deve mantenere una giusta postura durante la meditazione.

Vi sono diversi tipi di arie sottili. L’aria sottile che rende il corpo stabile e fermo è l’aria sottile della terra. Quella che mantiene caldo il corpo è l’aria sottile del fuoco. Quella che mantiene il corpo esente da inaridirsi è l’aria sottile dell’acqua. E quella che espande la vita ed il calore attraverso l’intero corpo e permette i movimenti fisici è lo stesso elemento aria, o aria dell’aria. Perciò vi è un vento sottile che proviene da ciascuno dei quattro elementi. Vi è anche un quinto vento sottile, discendente ed espellente, che trasforma il cibo nello stomaco e separa la materia di scarto del cibo espellendola attraverso l’orina e le feci.

Il primo aspetto della postura Vairocana è, avere la spina dorsale dritta, così il Canale Centrale dell’Energia è dritto. Il vento sottile della forza vitale è chiamato in Sanscrito Prana (Tib. sok lung) e scorre nel canale centrale. Il prana rende il corpo stabile e fermo ed è anche chiamato il vento di terra, perché dona stabilità e durata al corpo. Se, nella meditazione il corpo è proteso in avanti, o si inclina da un lato o all’indietro, allora questo canale centrale è anch’esso curvato e lo stesso prana che vi scorre all’interno è ricurvo. Quindi se si mantiene la spina eretta e dritta, l’aria della terra fluirà diritta e ne risulterà un beneficio in durata e stabilità.

Il vento dell’acqua permea il corpo e lo mantiene umido. Se questo vento (vayu) dell’acqua fluisce nel canale centrale, esso sarà stabile naturalmente. A causare questo suo fluire dentro il canale centrale sarà la posizione delle mani nella postura meditativa con i gomiti leggermente staccati dal tronco. Il vento del fuoco normalmente scorre

verso la testa, mentre i venti della terra e dell’acqua normalmente scorrono in giù. Per far entrare il vayu del fuoco nel canale centrale si deve tenere il mento leggermente piegato e ciò ha l’effetto di prevenire che il vento del fuoco salga all’insù.

Per introdurre il vento dell’aria nel canale centrale, si dovrebbero tenere gli occhi fermi e non ondeggianti. Il vayu dell’aria è collegato col movimento del corpo e gli occhi hanno spontaneamente un gran da fare nel muoversi insieme al corpo. Se gli occhi si muovono, ciò causa naturalmente anche il movimento della mente. Quindi si devono tenere gli occhi immobili, semichiusi e focalizzati sullo spazio alla punta del naso. Questo permetterà alla mente di immobilizzarsi e al vayu dell’aria di entrare nel canale centrale. Anche le labbra sono lasciate ferme naturalmente, con la lingua che si appoggia alla parte alta del palato. Infine, per immobilizzare il vayu discendente ed escretore, ci si deve sedere con le gambe nella posizione vajra.

I cinque aspetti della postura si riferiscono ai cinque vayu, ma il vayu dell’aria ha due aspetti, gli occhi e le labbra. Il vayu dell’acqua ha a sua volta due aspetti con le mani in posizione meditativa e la parte superiore delle braccia che sono distese con i gomiti un pò divaricati, e questo porta a sette gli aspetti della postura della meditazione. Molte istruzioni dicono che si dovrebbe espellere l’aria stagnante nel corpo per tre volte, prima di iniziare la meditazione. Il motivo è che con la respirazione normale, il proprio corpo accumula aria impura e negativa. Per sbarazzarsi di quest’ultima, si esala con un po’ più di forza del normale, ma non con troppa forza. Facendo questo, si deve pensare che tutte le negatività mentali, i klesha, vengono esalati col respiro e così si può inspirare in un modo più rilassato. Si deve farlo per tre volte: ciascuna volta con un po’ più di forza nell’esalazione. Dopodiché si respira normalmente, molto rilassati, pensando che si sono espulse tutte le negatività.

Le mani devono restare nella postura meditativa, oppure nella postura equilibrata; si mette la mano destra sulla mano sinistra rivolte verso l’alto, e questa è la postura meditativa. Invece quella equilibrata significa che le proprie mani stanno allo stesso livello, sicché se una è poggiata su un ginocchio, l’altra deve essere appoggiata all’altro ginocchio, allo stesso livello. Non vi è nessuna differenza tra i due modi; si usi quello che si trova più confortevole.

Nella tradizione Mahamudra del Vajrayana, di solito si è parlato comunemente dei sette aspetti della postura di Vairocana appena discussi. Ma Jamgon Kongtrul usa questi altri otto aspetti della postura, che furono spiegati da Kamalasila nel suo ‘Stadi della Meditazione’. Per cominciare, ci si dovrebbe sedere confortevolmente e seguire questi otto punti. Primo, le gambe devono essere incrociate nella postura vajra (meglio conosciuta come loto intero), oppure nella posizione semi-incrociata ( o mezzo loto). In Occidente, quasi nessuno siede in questa posizione a gambe incrociate; le persone siedono con i ginocchi distesi in alto, ma poi i ginocchi alla fine scendono giù. Questo è un raggiungimento successivo, quando il corpo sarà più flessibile. All’inizio è meglio sedere in maniera confortevole, piuttosto che sedere rigidamente con dolore. Secondo, gli occhi devono essere semichiusi, quindi non aperti a fissare davanti, ma nemmeno serrati altrimenti è tutto buio. Essi rimangono semichiusi senza sforzo o tensione, così possono completamente rilassarsi e non ci si pensa più. Terzo, la parte superiore del tronco deve essere ben diritta. Finché il corpo e la mente sono interconnessi, se il corpo è dritto, anche i canali sono dritti e le energie sottili fluiranno morbidamente in essi e la mente sarà ferma e stabile. Se il corpo è ricurvo, i canali saranno bloccati e la mente è sfavorevolmente disturbata, perché alcuni canali avranno meno energia che si muove al loro interno mentre altri avranno energie che si muovono troppo rapidamente, il che fa risultare una ridda di pensieri che sorgono nella mente. Quarto, le spalle devono essere a livello del corpo ritto e non si dovrebbe tenerle curvate né piegate da un lato o dall’altro. Quinto, gli occhi dovrebbero guardare in basso verso la punta del naso, con lo sguardo fisso, in maniera che si sia consapevoli del proprio naso. La descrizione classica è che lo sguardo è fisso quattro dita oltre il naso. Sesto, sia le labbra che i denti non devono essere tenuti serrati, ma leggermente socchiusi, per non creare tensioni. Settimo, la lingua dovrebbe essere tenuta appoggiata al palato, altrimenti la saliva si accumulerà in bocca e questo fatto può disturbare e distrarre, dovendola inghiottire continuamente. Infine, per ultimo, il respiro dovrebbe essere naturale e leggero. Si dovrebbe cercare di rendere il respiro quasi impercettibile, ma senza che venga soppresso o, peggio, sforzato. Ognuno di questi otto aspetti di postura, come il tenere gli occhi semichiusi, può sembrare alquanto poco importante, ma per sviluppare completa chiarezza e stabilità di mente, tutti questi aspetti di postura sono realmente importanti perché ciascuno ha uno speciale ruolo nell’essere la causa di questa stabilità e chiarezza.

OGGETTI DI MEDITAZIONE

Vi sono due spiegazioni di come mantenere la mente in meditazione. La prima è una descrizione generale e la seconda è una specifica serie di stati meditativi.

Nella spiegazione generale, il Buddha insegnò che vi erano quattro classi di oggetti di meditazione. Il primo è chiamato l’oggetto di meditazione ‘onnipervasivo’, in quanto sta ad indicare tutti i fenomeni. Esso può essere focalizzato senza l’analisi che la mente di solito esegue; ed anche con l’eventuale analisi, in cui si cerca tanto la vera natura dei fenomeni che la loro relativa molteplicità.

La seconda classe di oggetti di meditazione è chiamata ‘la pacificazione del comportamento’, ed è una meditazione che purifica i difetti mentali. Da dove provengono questi modelli negativi? Negli insegnamenti Buddisti, la propria vita attuale ha avuto origine da una precedente vita e quella vita ebbe origine da una ancora più anteriore, e così via. Durante questa vita di adesso si può sperimentare dolore fisico e sofferenza mentale, oppure si può sperimentare felicità e beatitudine. Queste esperienze derivano dalle nostre azioni fatte nella vita precedente. Esse sono il risultato del proprio karma personale. Alcune persone hanno grandi desideri o grandi stati di rabbia e ciò potrebbe provenire dal potere dell’abitudine a queste tendenze alimentate nelle vite precedenti e non essere un vero e proprio risultato del karma. In una certa vita si potrebbe diventare abituati al desiderio o alla rabbia e questi diventano sempre più forti, cosicché nella vita successiva vi sarà un gran desiderio o una grande rabbia, e così via, attraverso vari periodi di esistenza. Oppure in una certa vita, si può trovare un rimedio per questo desiderio o rabbia e ciò farà diminuire i propri difetti, i quali possono continuare a diminuire nelle successive esistenze.

Se eravamo avvezzi ad avere un mucchio di desideri nelle nostre vite precedenti, allora vi saranno moltissimi desideri anche nella nostra vita attuale. Se eravamo avvezzi ad avere una gran mole di rabbia o di superbia nelle vite precedenti, sperimenteremo grande rabbia e superbia anche in questa vita. Così, se avevamo tanti pensieri precedentemente, la nostra mente attuale non sarà capace di restare stabile e i pensieri riempiranno la nostra mente, la quale sarà impotente e soccomberà al loro potere. Infine, se avevamo una forte ignoranza nella vita precedente, ci saremo adattati ad essa e la nostra mente di adesso sarà completamente piena di ignoranza. Quindi questi modelli descrivono i cinque tipi di persone e di conseguenza c’è una meditazione per rimediare a ciascuno dei cinque tipi di mentalità.

Se si hanno forti desideri ed una facilità all’attaccamento verso il proprio corpo o verso le forme esterne, si può praticare la meditazione sulla caducità della bellezza e sugli aspetti della bruttezza. Di solito, si pensa che il proprio corpo sia solido, duraturo e importante; ma gli insegnamenti Buddisti dicono che si possiede la preziosa esistenza umana solo perché ci permette di praticare il dharma e fare il bene per gli altri esseri. L’esistenza umana è preziosa, ma il corpo in se stesso non è così tanto prezioso. Si deve meditare sugli oggetti del proprio attaccamento, vedendoli come vuoti, non belli, deperibili e morituri. Questo farà diminuire il proprio attaccamento.

Se uno ha una forte tendenza alla rabbia o all’odio, egli deve meditare sull’amore e la compassione. Questo farà diminuire la propria rabbia e l’avversione. L’avversione di solito è il desiderio di danneggiare qualcun altro. Invece si dovrebbe meditare col pensiero di prendere il proprio corpo come un esempio per tutti gli altri esseri. Normalmente, se si sperimenta il minimo accenno di dolore, esso non è desiderabile e se si sperimenta il più piccolo piacere o benessere, questa è una cosa che desideriamo. Perciò, in questa meditazione si dovrebbe pensare che tutti gli altri esseri sono come la nostra propria persona: anche a loro non piace la sofferenza mentre desiderano l’esperienza piacevole della felicità. Non vi è nessuno che gradisce l’esperienza di soffrire. Quindi, pensando alla uguaglianza degli altri esseri con la nostra persona, si svilupperà l’amore per tutti gli esseri e si abbandonerà il desiderio di causare danno o dolore agli altri. E questo diminuirà la nostra avversione e rabbia.

Vi sono due tipi di ignoranza: l’ignoranza distinguibile e quella indistinguibile. L’ignoranza indistinguibile è sempre presente ed unita agli altri eventi mentali. Essa accompagna il sorgere delle negatività della mente, come la rabbia, la superbia, l’attaccamento, ecc. A causa di questa ignoranza, non si è consapevoli di ciò che è positivo e ciò che è dannoso. Appena questi differenti veleni mentali sorgono, non si comprende la loro natura e non si può sapere se essi sono buoni o cattivi. Il risultato è che essi sono sempre presenti, ma non sono in se stessi distinguibili come ignoranza.

Il secondo tipo di ignoranza, l’ignoranza distinguibile, è un tipo di ignoranza isolata e occasionale, un’ignoranza risultante dal non aver ricevuto o contemplato gli insegnamenti Buddisti. Avendo imparato e riflettuto su questi insegnamenti, gradualmente questa ignoranza potrà essere rimossa. Se si ha una forte tendenza all’ignoranza (cioè se si dubita o non si comprendono gli insegnamenti del Dharma) allora il rimedio, in termini di meditazione shamatha, è la contemplazione dei dodici anelli dell’Originazione Interdipendente. Contemplando come le cose sorgono e dipendono una dall’altra, si comprende la concatenazione delle tendenze mentali. Cosicché, se ci si abitua a fare buone azioni e ad avere buoni pensieri, il potere della tendenza all’abitudine produrrà buoni pensieri e buone azioni da compiere. In modo simile, quando la mente si è abituata alla negatività ed alle cose malvagie, tramite il potere di tali abitudini negative, si produrranno pensieri ed azioni negative. Quindi essi sono dipendenti gli uni con le altre e la contemplazione su questa Originazione Interdipendente è il rimedio per questo tipo di ignoranza.

Il rimedio per la superbia è quello di meditare sugli elementi che formano un essere. Grazie alla superbia, noi pensiamo di noi stessi di essere speciali o superiori agli altri. Allora bisogna meditare sui cinque Aggregati (skandha), in quanto vedendo se stesso come speciale o superiore, uno si pensa solido e definito. Ma se si esaminano i propri aggregati, si scopre che le cose non sono solide, ma sono in continuo mutamento e cambiamento. Uno è soltanto un’aggregazione di elementi differenti. Per esempio, una persona è composta dai cinque aggregati riuniti insieme, quindi è solo una semplice aggregazione di diverse parti; così, essendo consapevole del suo essere composto dei cinque aggregati, essa diminuirà la propria superbia.

Il rimedio per coloro che hanno troppi pensieri è quello di meditare sul respiro. Meditando sul respiro, che è alquanto sottile e cambia costantemente col movimento di entrata e uscita del fiato, i propri pensieri diventano sempre meno potenti e impetuosi. Quindi, questo è il rimedio per i troppi pensieri.

La terza classe di oggetti che formano la meditazione, è chiamata “Oggetti di Meditazione di Ciò che si Impara””, ed è la comprensione della natura delle cose, la comprensione dei cinque aggregati. Per esempio, si medita che il corpo è una somma di parti ed è composto dagli aggregati di forma, sensazioni, percezioni identificative, attività mentale e coscienza (che comprende tutte le sei coscienze). Così ci si rende conto che la mente non è una singola unità indivisibile, ma un composto di varie funzioni. Vi sono 18 elementi che funzionano in questa organizzazione come, ad esempio, la vista che dipende dall’occhio del momento precedente; l’occhio di oggi deriva dall’occhio del giorno prima, ecc. Poi vi è la comprensione delle 12 Ayatana le quali sono implicate nell’organizzazione e sviluppo. Per esempio, si può constatare come avendo gli occhi e la coscienza visiva, questi si collegano con un oggetto esterno e, tramite ciò, avviene la percezione della coscienza visiva. Quindi, l’organo di senso, l’oggetto e la coscienza devono funzionare insieme per far avvenire la percezione. Poi si impara come operano le 12 fasi dell’interdipendenza. Infine, si apprende lo studio delle cose appropriate e di quelle inappropriate, che è una lista di cose che potrebbero o non potrebbero apparire in base a certe cause. Perciò la contemplazione di questi oggetti è chiamata “Contemplazione di ciò che si è imparato”.

La quarta classe di oggetti di meditazione è chiamata “Purificazione dei Klesha”. Si contempla shamatha, lo stato pacificante in cui è presente shamatha e lo stato opposto in cui shamatha non è presente. Tramite vipashyana vi è la comprensione delle cause di Samsara e delle cause di Nirvana. Questi, tutti insieme, sono i 16 aspetti collegati alle Quattro Nobili Verità.

Vi sono poi quattro tipi di pensieri che sono di ostacolo alla meditazione. Sono i pensieri maliziosi, quali il desiderio di danneggiare qualcuno, i pensieri di gelosia, i pensieri di dubbio e di incredulità e i pensieri di attaccamento e brama. Per esempio, se si presentano pensieri di aggressività, bisogna riconoscerli subito, altrimenti essi torneranno in continuità durante la meditazione. Si deve riconoscere che l’aggressività sta danneggiando la propria meditazione, specialmente quando vi si aderisce. La cosa principale è che non ci si attacchi né ci si coinvolga a questi nostri pensieri. Se ci si attacca, sarà molto difficile riuscire a sbarazzarsene, mentre se li si lascia andare senza adesione, allora sarà facile sbarazzarsi di loro, ritornando alla consapevolezza della meditazione.

Vi sono due diversi tipi di pensieri: grossolani e sottili. Quando in meditazione sorgono i pensieri grossolani, ci si dimentica di stare nella meditazione e si perde attenzione e consapevolezza. Allora bisogna ricordarsi che si sta meditando e si ritorna alla meditazione. Questi pensieri grossolani sono chiamati anche ‘pensieri distraenti’, ed il modo di prevenirli o superarli è di tenere a mente consapevolezza e attenzione sul fatto che si è in meditazione. Il secondo tipo sono i pensieri sottili che sono chiamati anche ‘pensieri che vengono dal basso’. Per superare questo tipo di pensieri, bisogna ricordarsi che si sta meditando e si deve contrattaccare con un pensiero opponente, del tipo: “Adesso questi piccoli pensieri se ne andranno”. Questi sono pensieri che sorgono dal profondo ed, essendo molto subdoli, si fa molta fatica a riconoscerli ed a sbarazzarsene. Comunque, essi non fanno molto danno alla meditazione; sono solo piccoli pensierini che arrivano nello spazio della consapevolezza e si lasciano essere per quelli che sono finché, alla fine, li si lascia andar via senza preoccupazioni di sorta. Questi piccoli pensieri, tuttavia, talvolta possono ingrandirsi e diventare gradualmente più invadenti, al punto che fanno perdere la nostra meditazione e, prima che si sia consapevoli della loro invasione, si diventa distratti da essi e la concentrazione sparisce. Perciò si dovrebbe cercare di evitare che appaiano, mantenendo una stabile e durevole concentrazione e consapevolezza, dato che la consapevolezza è necessaria in ciascun successivo momento temporale. Se ci si impegna a mantenere costante questa consapevolezza, allora non si cadrà nella distrazione.

GLI STADI SPECIFICI DELLA MEDITAZIONE

Vi sono tre tipi fondamentali di meditazione shamatha in relazione all’oggetto di meditazione. Il primo tipo è la meditazione con un oggetto esterno, il secondo meditazione senza un oggetto esterno ed il terzo è la meditazione sulla natura essenziale delle cose.

Si inizia la meditazione shamatha cercando di rendere stabile e chiara la propria mente e, se non ci si familiarizza con la meditazione, questa verrà presto abbandonata. Perciò all’inizio c’è bisogno di un oggetto su cui meditare. Così come un bambino ha bisogno di imparare l’alfabeto prima di poter leggere, così all’inizio si deve meditare col supporto di un oggetto e, successivamente, ci si può dedicare alla meditazione senza oggetto. Allora, come primo oggetto si prova a meditare focalizzandosi su un pezzo di legno o su una piccola pietra. Facendo questa meditazione, si dovrebbe mantenere una tensione adeguata che dimostrerebbe la forza della nostra concentrazione. La tensione non dovrebbe essere né troppo tesa né troppo allentata. Un esempio che ci viene da Saraha, dice che questa meditazione dovrebbe essere come un filo del Bramino, dato che in passato la casta dei Bramini fabbricava il filo come lavoro. Per filare lo spago in maniera appropriata, si doveva applicare la giusta tensione, perché se la tensione fosse stata troppa, la corda si sarebbe rotta e se fosse troppo lenta, si sarebbero formati dei nodi. Per sviluppare la stabilità mentale, si deve cominciare con l’attenzione verso un oggetto – prima un oggetto impuro e poi un oggetto puro, come una statua o un’immagine del Buddha o delle divinità, oppure su una sillaba sacra o uno speciale mantra, ecc. Lo scopo della meditazione su un oggetto puro non è quello di sviluppare devozione o compassione, ma solo di far restare la propria mente concentrata. Si dovrebbe anche non pensare ai difetti o alle buone qualità di quell’oggetto, su cui ci si sta focalizzando. All’inizio ci si focalizza su una pietra o un pezzo di legno perché essi non hanno alcuna raffigurazione, mentre un’immagine sacra, ad esempio, è piena di diverse raffigurazioni che ci distraggono, come gli occhi, le orecchie, i capelli , le mani, e così via.

Il secondo tipo di meditazione shamatha è la meditazione senza oggetti esterni. La mente si rivolge all’interno verso se stessa e ci si può focalizzare sulle immagini mentali del Buddha o d’altre divinità, come Avalokitesvara o Tara. In questo modo, queste immagini mentali assumono il nome di Yidam (che sta a significare proprio la vera natura di queste raffigurazioni, e cioè il potere della nostra mente di creare ed evocare le entità a cui rivolgerci per lo scopo spirituale. N. d. T.), che noi mentalmente posizioniamo sia come se stessero davanti nella nostra testa, oppure visualizzati di fronte a noi oppure visualizzando noi stessi in forma di quella divinità pensata. Poiché, all’inizio, non si è facilmente in grado di immaginare la forma intera di questi Yidam, cominciamo perciò a visualizzare prima le mani, poi i vestiti, poi gli occhi, e così via. Questo immaginare le parti della divinità è chiamata meditazione parziale senza oggetto. Abituandoci sempre di più a questa meditazione, alla fine essa ci diviene familiare e si arriva facilmente a visualizzare l’intera forma della divinità, finché si ha la completa visione dell’intero corpo, mantenuto stabile dentro di noi per tutto il tempo della meditazione. E questa è chiamata visualizzazione completa di un oggetto interno. Alcuni individui nella loro meditazione si aspettano di avere una chiarissima immagine della divinità e, quando ciò non accade, diventano delusi e dispiaciuti. L’occhio o la facoltà in sé della coscienza visiva può ‘vedere’ le cose in modo estremamente chiaro, ma nella meditazione si usa la Coscienza Mentale che riporta una impressione generale delle cose, una idea approssimata della conformazione generale delle cose, così spesso non si ha una percezione chiara come avviene con la coscienza visiva. Perciò non ci si dovrebbe aspettare di visualizzare una divinità tanto chiara come se la stessimo vedendo in un quadro o in realtà. Comunque, pur non restando avvinti alla chiarezza dell’immagine, perché lo scopo della meditazione non è quello di ricevere una immagine perfetta, bisogna focalizzare la mente sull’immagine stessa, così la mente diverrà ferma e stabile.

Il maestro Bodhibhadra dice che vi sono due tipi di shamatha: shamatha focalizzato esternamente e shamatha focalizzato internamente. Shamatha focalizzato esternamente è il modo ordinario di focalizzarsi su una pietra o altro oggetto, come una statua o immagine del Buddha o delle divinità. Shamatha focalizzato internamente, a sua volta, è ancora di due tipi: visualizzazione del corpo e visualizzazione basata sul corpo. La visualizzazione basata sul corpo è la focalizzazione di qualcosa del nostro corpo, come per esempio il respiro, o i canali sottili, o raggi di luce all’interno del nostro corpo, o anche il sentimento di beatitudine. Vi sono numerosi tipi di istruzioni sulla meditazione date dai maestri, ma alla fine si possono classificare in meditazione con oggetto esterno e meditazione senza oggetto esterno.

Il terzo tipo di meditazione shamatha è chiamato ‘rimanere nell’essenza’. Dopo aver meditato su un oggetto esterno, e poi su un oggetto interno, si può meditare restando solamente nell’essenza. La mente si focalizza sul nulla (o meglio, non è focalizzata su niente), ma rimane in uno stato completamente stabile e privo di ondeggiamenti. Quando diciamo ‘mente’, noi solitamente pensiamo che essa sia ‘una cosa’, ma il Buddha ha descritto la mente come l’unione di sei o otto differenti tipi di coscienza. In questa raccolta di facoltà della Coscienza, vi è la coscienza visiva, basata sull’occhio, che percepisce e sperimenta le forme visibili; quella auditiva che percepisce i suoni ed è basata sull’orecchio. La coscienza olfattiva, basata sul naso, che percepisce gli odori; la coscienza gustativa, basata sulla lingua; la coscienza tattile o corporea basata sul tatto e le sensazioni fisiche.

Queste ‘cinque coscienze’ si dice che siano non-concettuali, infatti esse proprio vedono, sentono, odorano, gustano e toccano e non sono coinvolte con pensieri del tipo “questo è buono o cattivo”, perché questo compito, o incombenza, spetta alle rimanenti coscienze. Il grande Mahasiddha Tilopa, nelle sue istruzioni a Naropa, disse che le apparenze non fanno danni, però il nostro attaccamento ad esse ci causa i problemi. Il reale vedere e sentire le cose, non danneggia in alcun modo la meditazione, perché queste coscienze sono non-concettuali. Ciò che causa problemi od ostacoli alla meditazione è sviluppare attaccamento (o repulsione) a forme, suoni, ecc. Perciò non c’è bisogno di impedire queste pure percezioni nella meditazione.

In India, prima della nascita del Buddha, veniva insegnato che vi era una sola coscienza. Veniva dato l’esempio per spiegare il funzionamento di questa coscienza unica, dicendo che era come una casa con cinque o sei finestre e con dentro di essa una scimmia. La scimmia talora guarda alla finestra, poi ascolta da un’altra, e così via, cosicché poteva sembrare da fuori che all’interno della casa vi fossero più scimmie alle diverse finestre. Ma, in fin dei conti, si trattava sempre e solo della stessa scimmia. I filosofi dicevano che la casa è come la mente e le finestre sono come le diverse coscienze sensoriali, ma vi era solo una coscienza così come in verità nella casa vi era una sola scimmia. Il Buddha, però, disse che non poteva esservi una sola coscienza, perché se così fosse, allora quando uno sta vedendo qualcosa, non sarebbe in grado di udire un suono, o se sta udendo un suono, non sarebbe in grado di sentire gli odori, e così via. Poiché, in effetti, noi possiamo vedere, udire, odorare, gustare e sentire le sensazioni fisiche nel medesimo tempo, ecco che allora le coscienze distinte sono cinque e non una.

Quando si medita, non si fa uso di alcuna delle cinque coscienze non-concettuali che vengono usate per sperimentare forme, suoni, odori, gusti o sensazioni corporee. Nella meditazione si usano due coscienze mentali, e cioè la coscienza mentale stabile e quella instabile. Nella coscienza mentale instabile (spesso ritenuta la sola coscienza mentale) sorgono ogni tipo di pensieri e, a volte si sperimentano attrazione e piacere, altre volte disappunto e dispiacere, e così via. Questa è la nostra coscienza ordinaria. Poi vi è la coscienza stabile che rimane completamente indenne dai pensieri belli o brutti, esperienze piacevoli o spiacevoli. La chiarezza della coscienza stabile rimane la stessa sia di giorno che di notte ed è perciò chiamata la Coscienza-Base (o Coscienza Alaya). Vi è una terza coscienza mentale (e così fanno otto), chiamata Coscienza Afflitta, che non ha chiarezza ed è costantemente nello stato di Illusione, in quanto risponde sempre al pensiero di sentirsi un “Io”. Questo pensiero di Ego è sempre presente, sia quando la mente è distratta e sia quando non lo è. Questa è la coscienza che si aggrappa al sé ed è qualcosa che tutti gli esseri possiedono. È un attaccamento al sé che è molto sottile, e lo si ha continuamente, che si sia consapevoli o meno, anche quando si è addormentati. Qualunque cosa si stia facendo, questo sottile aggrappamento al sé è sempre presente, questo pensiero di un ‘Io’ non ci lascia mai. Se uno ode un suono, vi è questa sottile reazione inconscia, “Oh, mi piace!”, oppure “Non mi piace!”. Perciò, questo “me” è sempre in campo e, finché non si raggiunge lo stato di illuminazione, o l’ottenimento della Buddità, tutti, ma proprio tutti abbiamo questo sottile e subdolo attaccamento all’ego. Dunque, questa è chiamata la coscienza duratura, perché le cinque coscienze sensoriali cambiano costantemente andando e venendo. Così, vi sono cinque coscienze sensoriali e tre coscienze mentali, che in tutto fanno otto.

La coscienza della meditazione, normalmente, è la sesta coscienza, chiamata coscienza mentale perché ha a che fare con la concettualità. Essa è coinvolta nel passato, presente e futuro; col bene e col male; con ogni tipo di disturbo mentale (klesha), e così via. La radice di tutte queste cose è la coscienza mentale, quindi la causa e l’origine di tutti i concetti ed i pensieri è questa coscienza mentale. Nella meditazione si presume di poter controllare questa coscienza che sperimenta i pensieri, le idee illusorie e le relative sensazioni. Nella meditazione si deve cogliere e controllare questa sesta coscienza, sì da farla restare ferma affinché questi pensieri non sorgano. Questa coscienza mentale ha due aspetti: conoscenza dell’altro e conoscenza di sé stessi. La conoscenza dell’altro avviene quando la mente si rivolge all’esterno verso le cose, e pensa, “Oh, questo è bello, oppure, questo è brutto. Voglio questa cosa, oppure, questa cosa non mi piace!”. La conoscenza orientata verso l’esterno è concettuale, mentre la conoscenza di se stessi è l’aspetto di essere consapevoli di ciò che si sta pensando. È una conoscenza molto diretta che conosce sempre qual è il pensiero che sorge nella mente. Questa auto-consapevolezza è non-concettuale e, senza questa auto-consapevolezza, non si potrebbe mai conoscere che cosa si sta pensando. È una coscientizzazione che è pura conoscenza che coglie appieno se si sta veramente meditando o no. Perciò, nella meditazione deve esservi questa coscienza consapevole che conosce immediatamente lo stato della nostra meditazione.

Quando si sta meditando, la mente o, in generale, la coscienza mentale deve essere assorbita nella coscienza di base. Per esempio, se uno pensa che i pensieri sono come onde e la coscienza di base come l’oceano, allora le onde originano dall’oceano ma poi sprofondano e spariscono nello stesso oceano. Allo stesso modo, i pensieri sorgono dall’incessante, inalterata chiarezza della coscienza di base, ma poi si immergono e svaniscono ancora dentro la coscienza di base. Perciò la forma ultima di shamatha è consapevolizzare la sparizione dei pensieri dentro la coscienza di base col risultato che la mente diventa stabile e assai rilassata. In altre parole, pur avendo un gran numero di pensieri che sorgono da questa coscienza di base, nella meditazione vi è l’aumento dello sforzo per far

tornare ad assorbire questi pensieri giù dentro l’immutabile e insondabile chiarezza della coscienza di base. Dopodiché si ha la immobilità ed il rilassamento della mente.

La sesta coscienza deve permanere e rilassarsi nella coscienza di base, perché è da qui che essa ha origine. Essa sgorga fuori dalla coscienza di base (o fondamentale) e quindi è necessario che torni a rilassarsi nella coscienza fondamentale. Nella meditazione c’è bisogno che la sesta coscienza diventi ferma e calma senza che sorgano pensieri, così si ha la condizione che essa è rientrata nella coscienza fondamentale. Ma la coscienza di base, in se stessa, non deve creare ostacoli alla meditazione. La settima coscienza (quella afflitta e caratterizzata dall’afferrarsi all’ego) è sempre qui e non è lei a creare ostacoli alla meditazione, ma può creare ostacoli alla liberazione. Perciò, quando si diventa più familiarizzati con la realizzazione dello stato di non-ego, questa coscienza afflitta, questo sottile attaccamento all’ego, gradualmente svanisce. Se la sesta coscienza, la coscienza mentale, si coinvolge nelle cinque coscienze sensoriali, allora sì che questo diventa un ostacolo per la meditazione. Ma se la mente resta calma e stabile in se stessa e non si fa coinvolgere nelle percezioni dei sensi, allora le percezioni sensoriali non creano ostacoli alla meditazione. Nei principianti, tuttavia, la mente è ancora abituata al coinvolgimento con le percezioni sensoriali e quindi è meglio praticare la meditazione in un luogo isolato e tranquillo.

NOTE AL CAPITOLO 2°

1) L’aria (vayu) dell’elemento fuoco provvede al calore corporeo ed alla sensazione di benessere. Il vayu dell’elemento acqua mantiene il corpo umido e pervade l’intero corpo ed ha la funzione di preservare i liquidi corporei nella giusta misura. Il vayu dell’elemento aria permette il movimento fisico degli arti e la flessibilità del corpo, ma assicura anche la mobilità della mente. Il vayu dell’elemento terra, infine, provvede alla stabilità del corpo e lo preserva dalla condizione di cambiamenti repentini, dandogli una certa solidità e stabilità.

In genere vi sono quattro elementi: terra, fuoco, aria ed acqua. La terra è il terreno sotto i nostri piedi; l’acqua è il materiale che fluisce verso il basso; il fuoco è ciò che brucia e l’aria (che, in Tibetano, è la stessa parola di ‘vento’) è ciò che si muove intorno a noi. Le loro qualità, solidità, calore, umidità e mobilità, sono anche ciò che intendiamo per i quattro elementi del corpo. Le funzioni di questi elementi sono che la terra rende qualcosa molto solida e durevole, mentre l’acqua procura la coesione e mantiene unite le cose. Per esempio, un dito non si disintegra e resta tutto di un pezzo, e questo grazie alla funzione dell’elemento acqua. La funzione del fuoco è di far maturare, provocando un cambiamento nelle cose. Per esempio, un fiore sboccia ed è l’aspetto di calore dell’elemento fuoco che permette ciò. Le cose si sviluppano, maturano, invecchiano e l’intero processo di cambiamento è dovuto all’attività dell’elemento fuoco.

2) Alcuni centri eseguono la meditazione camminata in mezzo a periodi di meditazione seduta. Durante questa meditazione camminata non vi sono particolari visualizzazioni. Si dovrebbe principalmente essere consapevoli dei propri piedi che stanno andando in avanti e poi che si poggiano per terra; si dovrebbe cogliere tutto il movimento. Si resta semplicemente consapevoli del movimento del camminare ed è lo stesso identico processo dell’attenzione posta sul respiro. Questo metodo è usato nella Tradizione Theravada ed è descritto nei testi ortodossi del Vinaya. In Tibet ed in Cina, tuttavia, la maggioranza dei metodi meditativi sono fatti stando seduti giù. Rimpoche pensa che la meditazione camminata può essere molto benefica perché è buona per la mente, buona per il corpo e non indolenzisce le ginocchia.

CAPITOLO 3°: IDENTIFICARE LE ESPERIENZE NELLA MEDITAZIONE SHAMATHA

Vi sono in realtà tre differenti stadi di meditazione shamatha. Per prima cosa, vi è la ‘meditazione con oggetto esterno’, che significa che, quando si medita, viene usato un qualche oggetto come punto di riferimento. Può essere un qualsiasi oggetto esterno come un ciottolo, un’immagine o una statua del Buddha, il proprio respiro, o una sillaba sacra. Meditare su un oggetto esterno aiuta la propria meditazione, ma non produce una particolare conoscenza o comprensione ben definita. Secondo, vi è la ‘meditazione senza oggetto esterno’, che è una meditazione in cui ci si immagina la forma della divinità o del Buddha, ma con una visualizzazione interna. Il terzo tipo è una meditazione chiamata ‘restare immobili nell’essenza’.

‘Meditazione del restare nell’essenza’, è stata descritta facendo uso dell’esempio di un oceano. Allorché soffia un forte vento, le onde sull’oceano si ingrossano; quando invece l’oceano è calmo, le onde si abbassano e l’oceano

diventa piatto e stabile. Allo stesso modo, i pensieri appaiono nella mente spinti dal vento dell’ignoranza che parte dalla coscienza di base. Ciò causa il movimento della mente sotto forma di pensieri. Quindi, se questo vento che soffia dalla coscienza di base si attenua e si ritrae in se stesso, i pensieri diminuiscono e la mente diventa immobile. Questo è descritto da Milarepa in un suo canto in cui parla della manifestazione della mente simile alle onde del mare. Queste onde si stagliano sul mare proprio come i pensieri si stagliano sulla mente. Perciò, i pensieri sono proprio la funzione o la manifestazione della mente, quindi essi sorgono dalla mente, proprio perché essi provengono dalla mente. Di conseguenza, quando il vento dell’ignoranza che soffia dalla coscienza di base è fermato, la mente diventa immobile.

Nel “Tesoro della Conoscenza”, la pratica meditativa è descritta in termini della tradizione testuale ed anche in termini delle istruzioni orali dei grandi meditanti. Sono entrambi importanti, poiché i testi descrivono e spiegano il significato degli insegnamenti del Buddha e le istruzioni sono pure importanti poiché provengono dalla vera esperienza di meditazione. Ad ogni modo, cominciamo con la tradizione testuale che descrive la meditazione in termini delle cinque cose che possono stravolgere e far sbagliare la meditazione e degli otto modi per eliminare questi difetti.

I CINQUE DIFETTI

Quando si medita, si deve riconoscere l’esperienza che deriva da questa meditazione e si deve saper eliminare i difetti che possono ostacolarne la pratica. Vi sono cinque difetti che devono essere eliminati tramite otto diversi tipi di azioni e antidoti. Questi cinque difetti o errori impediscono lo sviluppo della meditazione e sono stati descritti da Maitreya nel testo “Differenziazione della Via di Mezzo dagli Estremi”. Questo testo afferma che se la mente può restare ferma su un oggetto, diventa allora manovrabile e assai stabile, al punto che si può fare ciò che si vuole con la propria mente. Per contrasto, la nostra mente ordinaria è come se si trovasse a cavalcare un cavallo selvaggio e, quando si sta su un cavallo selvaggio, non ci si può fermare in un dato posto né si può andare dove si vuole. Ma se la mente diventa addomesticata e disponibile, allora ci si può fare quello che si vuole; si può usare la propria mente per accrescere la nostra saggezza e comprensione oppure se servono poteri miracolosi e chiaroveggenza, allora si può facilmente svilupparli. Il modo per ottenere una mente disponibile passa attraverso l’eliminazione dei cinque difetti alla meditazione.

Il primo difetto è la pigrizia. La pigrizia impedisce l’applicazione della meditazione perché non si arriva nemmeno ad ascoltare attentamente le istruzioni per meditare. In realtà vi sono tre tipi di pigrizia: 1) una sorta di stato letargico in cui non ci si sente interessati a fare alcunché e sembra quasi di dormire. 2) un pervicace attaccamento all’attività mondana che fa risultare alcun desiderio per la pratica del Dharma e per la meditazione. Ci si sente portati alle attività mondane, come gli affari o andare a caccia, mentire o ingannare gli altri e così via. Queste attività in cui uno si crogiola, oppure è abituato, alla fine formano il proprio pensare. In un certo senso, si avrebbe voglia di applicarsi alla meditazione, ma quel tipo di mente mondana risulta un ostacolo alla pratica. Questa è chiamata “attaccamento all’attività negativa”. 3) scoraggiamento e autoaccusa che deriva da pensieri del tipo, “Gli altri possono meditare, ma io non ci riesco; gli altri comprendono il Dharma, ma io non posso”. In verità, tutti sono in grado di meditare e lavorare sul sentiero, ma se si ha una sorta di sottovalutazione delle proprie capacità, certamente non si sarà in grado di applicare la meditazione. Questa è anche chiamata “auto-riprovazione”.

Il secondo difetto è il “Dimenticare le istruzioni”, cioè una sorta di carenza di attenzione su come meditare in modo appropriato. Mentre si medita, si dovrebbe aver chiaro ciò che si sta facendo, quali errori bisogna eliminare e quali rimedi si devono applicare. Perciò è necessario ricordare le istruzioni per la meditazione.

Il terzo difetto è l’ostacolo del torpore o dell’agitazione, che sono classificati come un unico difetto. Nel torpore la mente è offuscata e ottusa e, ovviamente, in questo stato vi è un’assenza di chiarezza. In una forma sottile, può anche esservi un certo grado di chiarezza, ma è molto debole, cosicché vi sono due tipi di torpore. Cosippure vi sono due tipi di agitazione: un tipo evidente in cui ci si trova a pensare che cosa si stia facendo o se la cosa possa piacerci o no, ecc. in maniera che si è incapaci di controllare o fermare la mente su una specifica cosa. Nella sua forma sottile, si ha una stabilità apparente ma vi sono pensieri sottili che vagano costantemente per la mente. Quindi vi sono due tipi di torpore e due tipi di agitazione che causano un ostacolo durante la meditazione, e obbligano la mente a perdere la sua chiarezza e stabilità.

Il quarto difetto è una diminuzione dell’applicazione dovuta al torpore ed all’agitazione che si scoprono essere intervenuti nella meditazione. Benché questi pensieri siano riconosciuti, non ci si impegna ad applicare i rimedi e senza applicazione dei rimedi, la meditazione non può svilupparsi.

Il quinto difetto è una sovreccitabilità nell’applicazione. Per esempio, il torpore e l’agitazione possono essere apparsi nella meditazione, il rimedio può essere stato applicato ed il difetto sparito, ma si continua ad applicare il rimedio anche quando non è più necessario. Questo è il difetto della sovrapplicazione. I rimedi dovrebbero essere usati solo quando torpore ed agitazione si presentano e, quando essi sono stati eliminati, si dovrebbe ritornare nell’equanimità.

Sebbene torpore ed agitazione abbiano le loro proprie caratteristiche, i loro effetti come ostacolo alla meditazione sono identici, perciò essi possono essere valutati come un solo unico difetto. Questi cinque difetti, in questo sistema che li considera separatamente, diventano sei nel sistema usato negli “Stadi della Meditazione” di Kamalasila, il quale considera torpore e agitazione, nonché i loro effetti separati, come quattro singoli difetti.

GLI OTTO ANTIDOTI

Per sviluppare bene la propria meditazione, si devono eliminare questi cinque difetti, dopo averli prima riconosciuti. Dopodiché è necessario applicare i rimedi che li eliminano e questi sono chiamati gli otto rimedi, o antidoti, che eliminano i cinque difetti che ostacolano la meditazione.

Come descritto in precedenza, vi sono otto coscienze che formano ciò che è chiamata la mente principale. All’interno di queste otto coscienze avvengono normalmente trasformazioni e cambiamenti. Questi cambiamenti sono chiamati eventi mentali, che possono essere talvolta positivi e talvolta negativi, in riferimento ai loro effetti e che sono anche riferiti come i cinque aggregati. Vi sono gli aggregati della forma, delle sensazioni, delle percezioni, delle emozioni o eventi mentali e della coscienza. Tutti questi sono sottoposti a cambiamenti e trasformazioni più o meno conseguenziali ed essi avvengono tutti all’interno della mente principale. Nell’analisi dell’aggregato degli eventi mentali, vi sono 51 tipi diversi di eventi mentali, come la pigrizia, la dimenticanza, il torpore, l’agitazione e così via. Perciò, questi cinque difetti sono eventi mentali e i loro rimedi o antidoti sono altrettanto compresi nella lista degli eventi mentali.

Il primo difetto era la pigrizia e questo è un potentissimo e particolare ostacolo per la meditazione. Vi sono quattro eventi mentali che rimediano a questa pigrizia. Il primo rimedio è la motivazione, o aspirazione. Ciò significa che si considera che la meditazione è molto importante e benefica e senza meditazione non vi è benessere; quindi, l’aspirazione è il primo rimedio contro la pigrizia.

Dunque, il primo di questi rimedi è quello di avere motivazione e interesse, volendo significare che meditare è bello e ci piace. Si potrebbe pensare che ciò voglia dire essere attaccati alla meditazione, ma questo attaccamento è positivo e non arreca danni, perciò usiamo la parola ‘aspirazione’, dato che l’attaccamento a qualcosa di negativo è dannoso. In Tibetano, vi sono due parole per ‘attaccamento’ – chag-pa che è attaccamento negativo solitamente tradotto con ‘attaccamento’ e mo-pa che è un attaccamento positivo di solito tradotto con ‘aspirazione’. Se a qualcuno piace rubare, allora egli è ‘attaccato’ all’ottenimento di cose trafugate, e questo è chag-pa – attaccamento negativo. Se invece, qualcuno vuole aiutare qualcun altro o vuole praticare il dharma ed è attaccato a questi fatti, allora questo è mo-pa, poiché è di beneficio a se stessi ed agli altri. Il significato di queste parole sembra essere lo stesso di quando si pensa, “Devo fare questa cosa”, ma mentre una di esse vale per quando si vuole aiutare qualcuno, l’altra ha valore quando invece si vuole danneggiarlo. La parola chag-pa (attaccamento negativo) ha anche il significato di “aderire, essere attaccato”, sicché si rimane dove si è e non si può salire più in alto; quindi, questa parola ha anche il valore di un blocco nel proprio sviluppo. Se questo attaccamento o interesse fosse qualcosa di positivo come la meditazione, allora arrecherebbe un risultato positivo. Se qualcuno desidera meditare o ha un vero interesse verso la meditazione, allora costui mediterà naturalmente e naturalmente avrà eliminato l’ostacolo della pigrizia. Ciò che è necessario è un attaccamento a qualcosa di benefico, ed allora la chiamiamo ‘aspirazione’.

Il secondo rimedio è lo zelo; se si ha interesse e motivazione alla pratica, allora non si ha bisogno di sforzarsi per praticare la meditazione, vi sarà uno zelo naturale. Il terzo rimedio per la pigrizia è la fede. Benché questa sia simile al primo rimedio, l’aspirazione significa che si ha qualcosa a cui aspirare, nel caso della fede vi è qualcosa in cui credere che è molto valutata. Il quarto rimedio è chiamato letteralmente “buon addestramento”, ed è anche tradotto con “flessibilità” o “arrendevolezza” e significa che la propria mente è pronta a meditare in qualsiasi momento. Non si dovrebbe pensare, “Oh, non sono ancora pronto per meditare, è troppo difficile”. Senza una buona dose di flessibilità, senza una mente ed un corpo “ben addestrati”, non si può avere una vera shamatha, ma solo una mente con una qualità uniforme. Possiamo anche sforzarci per uniformare la nostra mente con determinazione, ma se abbiamo anche una buona flessibilità di meditazione, la mente resta da se stessa spontaneamente unidiretta senza alcun sforzo. Questi quattro rimedi saranno in grado di eliminare il difetto della pigrizia.

Il quinto rimedio è la consapevolezza, che rimedia alla dimenticanza delle istruzioni sulla meditazione. Con essa si ha uno stato meditativo continuo in cui non si dimenticano le istruzioni. La consapevolezza ha tre caratteristiche; primo, si ha una chiarezza ed acutezza mentale che permettono di ricordare sempre le istruzioni. Secondo, dato che la mente è acuta e focalizzata, non vi saranno mai troppi pensieri insorgenti, buoni o cattivi che siano, poiché la meditazione è non-concettuale. La mente è spontaneamente focalizzata e unidiretta su un oggetto. Terzo, dato che vi è fiducia e fede e vi è la flessibilità, essendo diventati ben addestrati, la meditazione si fa piacevole con un senso di contentezza e conforto. Queste tre qualità permettono alla mente di non dimenticare le giuste istruzioni.

Per il quarto difetto, torpore e agitazione, il rimedio è formato da tre metodi per eliminarlo. Primo, quando si sperimenta il torpore, si può visualizzare nel proprio cuore un loto bianco con quattro petali con una sfera bianca al centro, si può immaginare poi di sollevare questa figura al di sopra della testa, a quattro dita di distanza. Quando vi è agitazione, o troppi pensieri, visualizzate invece un loto nero con quattro petali ed una sfera nera al centro e fategli fare un percorso opposto: dal cuore fino al basso, posizionandolo quattro dita sotto il terreno su cui stiamo sedendo. Un secondo metodo per il torpore è di tenere gli occhi spalancati, guardando verso l’alto e tendendo tutti i muscoli del corpo; mentre per l’agitazione, si devono tenere gli occhi socchiusi e, guardando verso il basso, ci si rilassa completamente con tutto il corpo. Il terzo metodo per il torpore è quello di aprire tutte le finestre o tutte le luci, lasciando entrare aria fresca e grande chiarore, indossando inoltre vestiti leggeri. Per l’agitazione, invece, la stanza deve essere calda e oscura e si dovrebbero indossare vestiti pesanti.

Per il difetto dell’inattività, si deve riconoscere sia il torpore che l’agitazione nella propria meditazione e non far altro. Quando ciò avviene e si cade sotto il loro potere, ovviamente non si è in grado di sviluppare lucidità. Quando si riconosce che vi è torpore o agitazione durante la meditazione, ci si dovrebbe ricordare di applicare i rimedi con diligenza. Perciò adattando questi rimedi appropriati si eliminerà anche il difetto dell’inattività.

Per il difetto della iperattività, in cui si sta meditando senza nessuno dei cinque difetti, non si dovrebbe fare nulla se non restare in questo stato meditativo. Facendo questo si eliminerà il difetto dell’iperattività. Concludendo, vi sono otto eventi mentali come rimedio o antidoto per eliminare i cinque difetti.

I SEI POTERI, I NOVE LIVELLI ED I QUATTRO IMPEGNI

Nel “Tesoro della Conoscenza” vengono dati due diversi tipi di insegnamenti, derivanti da due diverse tradizioni. Il primo è l’istruzione shamatha della tradizione testuale e proviene dai grandi eruditi e ‘siddha’ del passato, che composero i testi sulle istruzioni per meditare, in termini abbastanza facili da capire. Il secondo tipo, è l’istruzione shamatha che proviene dalla tradizione pratica, derivante direttamente dalle esperienze maturate nella meditazione al fine di eliminare i difetti e sviluppare le buone qualità. Quella che segue è la meditazione proveniente dalla tradizione testuale.

Vi sono sei poteri (siddhi) che eliminano i difetti nella meditazione shamatha e producono nove livelli di stabilità mentale. Questi nove livelli di stabilità mentale sono generati dai sei poteri e dai quattro tipi di impegno mentale.

Il primo dei sei poteri è la forza del potere di ascoltare, o udire, o ricevere gli insegnamenti. Ciò sviluppa il primo livello di stabilità mentale, ovvero la shamatha chiamata “stabilizzata, che resta fissa nella mente”. Di solito la mente è continuamente distratta dai pensieri, perciò bisogna stabilizzare un po’ la mente, di modo che non venga troppo distratta dalle cose esterne. Bisogna far rimanere la mente in meditazione, anche se all’inizio, ciò non è facile. Poiché non si è ancora in grado di fermare la mente, quando si è sotto il potere di queste distrazioni, allora bisogna aumentare il potere dell’ascolto. Ascoltando gli insegnamenti dei Buddha, i commentari e le spiegazioni date dai maestri, alla fine si comprende cos’è la meditazione; cioè creare le qualità positive derivanti dalla meditazione ed evitare i difetti derivanti dalla difficoltà di meditare, e così via. Ascoltando attentamente, si sarà quindi in grado di comprendere, di imparare a meditare ed a stabilizzare la mente. Il grande Marpa disse che ascoltare e contemplare gli insegnamenti è come illuminare il buio con una torcia luminosa, perché se uno ha questo lampo, allora potrà vedere dove sta andando, che cosa c’è e che cosa accadrà, evitando così il rischio di fare danno a sé ed agli altri. In Tibet vi è un detto, “Se uno non ha una lampada e va in giro col buio, rischia facilmente di sbattere la testa contro un palo”. Quando si cammina nel buio, non si può vedere dov’è il palo, o qualunque altro ostacolo; se invece, si usa una lampada, allora si è al sicuro di non andare a sbattere contro qualcosa. Ecco perché ascoltare e contemplare gli insegnamenti è come usare la lampada, la lampada della conoscenza che disperde il buio dell’ignoranza, così si sa dove andare e che cosa fare.

Il secondo potere è il potere della contemplazione, ovvero la riflessione di ciò che significano le ragioni e la logica degli insegnamenti, di modo che si possa dare continuità agli insegnamenti stessi. Con questo potere si sviluppa il

secondo livello della stabilità mentale, che è il restare immobili in continuità nella propria mente. (Nel primo livello si può far riposare la mente per un po’ di tempo, cinque minuti, mentre nel secondo livello, si può farlo per più tempo, circa dieci minuti). Questi due primi livelli dell’ascolto degli insegnamenti e la continua contemplazione di essi, creati dai primi due poteri, formano il primo tipo di impegni, chiamato ‘la disciplina’, oppure ‘l’impegno fermamente focalizzato’. Questo primo impegno, implica il ricevimento del potere di ascoltare e contemplare gli insegnamenti ed il risultato è una mente fermamente controllata e focalizzata con la disciplina.

Il terzo potere è chiamato ‘il potere della consapevolezza’, ed è simile al rimedio per non dimenticare le istruzioni alla meditazione già discusso prima. Questo potere della consapevolezza sviluppa il terzo livello della stabilità mentale, che è lo stadio di riportare la mente nella stabilità, ovvero di stabilizzarla con continuità. Ciò vuol dire che quando si sta meditando, sorgeranno dei pensieri e si diventa distratti a causa di questi pensieri. Allora ci si riporta allo stato di meditazione e, riapplicandosi ad essa, si ristabilisce questa stabilità di meditazione. Allorché vi è una distrazione che ci distoglie dall’essere stabilizzati nella meditazione, si è in grado di ritornare ripetutamente nello stato meditativo. Questo è il riapplicare lo stato di restare nella mente, dovuto al potere della memoria in quanto si possiede questa consapevolezza, così si è consapevoli che la mente è stata distratta da qualche pensiero. Essendo consapevoli, si pensa, “Non devo cadere preda dei pensieri distraenti”, e mentalmente si ritorna a ciò che si stava facendo. Questo potere della memoria o consapevolezza, sviluppa anche il quarto livello della stabilità mentale, chiamato “intensamente stabilizzato”, che significa che la mente, prima solo perifericamente focalizzata, diventa ora più circoscritta e più intensamente focalizzata. Ad esempio, su un pezzo di legno, o altro. Lo scopo di questo tipo di meditazione è che la mente ora può focalizzarsi su qualcosa di molto sottile.

Cosa si può fare per prevenire questo continuo sorgere di pensieri? I testi dicono che la mente è assai vasta ed i pensieri sorgono continuamente e vanno dappertutto. La mente deve essere trattenuta all’interno e costretta a rimanere più intimamente interessata a se stessa. Questo è lo stato chiamato “ lo stato concentrato della mente ferma su di sé”, che è il quarto stato di shamatha. Il potere necessario è il terzo potere, quello della consapevolezza e della memoria di sé. Ci si deve ricordare delle istruzioni, gli insegnamenti dati dal Buddha, i commentari e le istruzioni per la vera meditazione. Bisogna essere consapevoli dello stato di fermezza nella meditazione ed essere consapevoli dell’eventuale fase di distrazione. Quando si diventa distratti a causa dei pensieri, si è immediatamente consapevoli della distrazione grazie alla consapevolezza. Si sa di essere distratti a causa dei propri pensieri e, sapendo questo, si è in grado di non restarvi attaccato o coinvolto, ma si è pronti a lasciarli andare e ritornare a stabilizzare la mente nella meditazione. Questo è quindi, la riapplicazione o ripetizione del fermare la mente. Talvolta, quando si sta meditando e arriva un pensiero, si pensa “Oh, questo è un pensiero importante, questo è uno di quelli a cui devo prestare attenzione!”. Finché noi passiamo così poco tempo in meditazione, si dovrebbe dire a noi stessi che possiamo dedicarci a questi pensieri per tutto il resto della giornata, quando abbiamo finito la sessione meditativa. Quindi, se facciamo così, possiamo spezzare l’attaccamento a quel pensiero. Grazie a questo continuo stato di consapevolezza, si crea lo stato di concentrazione o di mente calma. Il terzo e il quarto livello sono sviluppati col potere della consapevolezza. Santideva ci dà un esempio del perché è necessario avere consapevolezza. Egli dice che i pensieri ed i klesha sono come dei ladri o malviventi, perché un ladro osserverà sempre la persona per vedere se questa persona è forte o debole. Se concluderà che essa non è forte e potente, cercherà di derubare quella persona. Se, invece, un ladro crede che qualcuno è forte ed armato e molte persone lo proteggono, rinuncerà a derubarlo. Allo stesso modo, se qualcuno non ha consapevolezza e autocoscienza, allora i pensieri ed i klesha arriveranno e deruberanno la meditazione, distruggendo così la pratica e le buone motivazioni. Il rimedio che previene l'attacco dei pensieri e dei veleni mentali è avere consapevolezza e restare autocoscienti. La mente è come una porta, qualunque cosa vi entri dentro, sia un ladro che una gran dose di ricchezza, deve entrare per quella porta. Allo stesso modo, se arrivano qualità negative o positive che siano, esse entrano attraverso la mente. Perciò la mente è come una porta e, se uno deve andare in banca, per esempio, deve lasciare alla porta un guardiano con una pistola per impedire ai ladri di entrare. Similmente, dato che la mente è la porta, è necessaria la consapevolezza sempre presente come guardiano, ma è necessario anche che sia armata, non basta che stia lì a guardia. Deve esservi una consapevolezza armata di autocoscienza. Se consapevolezza ed autocoscienza sono lì presenti per tutto il tempo, allora i pensieri ed i klesha non saranno in grado di entrare e depredare la qualità positiva. Per portare un altro esempio, possiamo usare la Banca dell’India (Indian Bank) che mette un guardiano con la pistola a guardia della porta. Ma sarebbe assai triste non poter far nulla per impedire al guardiano di rubare proprio alla banca, perciò si risolve di incatenare il guardiano ad una colonna all’esterno. Così la Banca Indiana ha un guardiano con un fucile, incatenato ad una colonna, che dovrebbe impedire ai ladri di poter entrare e al guardiano di poter rubare in banca. Allo stesso modo, si dovrebbe avere la consapevolezza che guarda la porta della mente e, per evitare che la consapevolezza perda il controllo, la si dovrebbe incatenare lì con l’autocoscienza; allora sì che si può proteggere la nostra meditazione.

Il quarto potere è il potere dell’autocoscienza, che significa che si conosce esattamente sempre ciò che sta accadendo e ciò che si sta facendo. Di solito, si è inconsapevoli di ciò che accade ma questo potere di autocoscienza sviluppa due livelli di stabilità mentale, chiamati il quinto livello del domare o disciplinare la mente ed il sesto livello della pacificazione. Normalmente la nostra mente non può essere motivata a meditare e quindi la meditazione

è molto difficile. Col potere dell’addomesticamento, tuttavia, si riescono ad intuire le qualità ed i benefici, per se stessi e per gli altri, della meditazione, che questa meditazione può aiutarci a sviluppare chiaroveggenza e poteri miracolosi ed accrescere la propria comprensione e saggezza. Essendo consci di tutte le qualità che derivano dalla meditazione, si causerà di essere attratti dalla meditazione e di venir incoraggiati a meditare e perciò la propria mente diventa addomesticata. Quindi, questo potere dell’autocoscienza che sviluppa il livello dell’addomesticamento ci porta al sesto livello della stabilità mentale chiamato pacificazione. Ciò che è importante, nello stato post-meditativo dopo la meditazione shamatha, è la consapevolezza e l’autocoscienza. Con la consapevolezza non si dimentica la condizione della propria mente e con l’autocoscienza si ha perfetta chiarezza di ciò che ci sta accadendo, in qualsiasi momento. A coloro che cercano il controllo della loro mente, Santideva disse, “ Vi chiedo a mani giunte di rendere sempre assai importanti consapevolezza ed autocoscienza”. Durante le sessioni di meditazione, consapevolezza ed autocoscienza sono importanti, ma anche al di fuori di esse si dovrebbe mantenere consapevolezza ed autocoscienza, quanto più è possibile.

In Tibetano vi è ‘dren-pa’ che è consapevolezza e ‘she-she’ che è autocoscienza. Dren-pa significa anche ‘memoria’, il che vuol dire che si è consapevoli di ciò che si sta facendo, si ricorda ciò che si deve fare e si è consapevoli della meditazione, se si sta meditando, se si è perso il potere e la forza, e così via. La consapevolezza è come la causa e autocoscienza è come il risultato o l’effetto. Se si è consapevoli, all’inizio si sarà molto concentrati e si vedrà sul posto ciò che sta accadendo, poi appena i pensieri sorgono, questo fatto porterà autocoscienza, cioè si conosce sul posto ciò che sta accadendo. Normalmente, nessuno sa cosa sta pensando o ciò che accade nella propria mente, se non ha autocoscienza. Ma, con la consapevolezza, è detto che a misura che essa aumenta la stabilità mentale, tanto più avrà autocoscienza. Perciò quando si ha consapevolezza, è tramite questa che si ha autocoscienza di ciò che ci sta accadendo.

A questo livello di pacificazione, si diventa coscienti delle negative qualità della distrazione. Santideva spiega questo dicendo che quando la mente è distratta, si è tra le zanne del feroce animale dei klesha e dalla distrazione mentale sorgono tutte le difficoltà e avversità mentali di questa vita e di quelle future. Essere in uno stato di distrazione farà aumentare le qualità negative della mente, sempre di più. Essere coscienti delle qualità negative della distrazione ci renderà motivati a meditare.

Il quinto potere è il potere della diligenza. Questo potere crea il settimo livello della stabilità mentale, che è ‘pacificazione totale’. Nel precedente livello di pacificazione, si contemplano le qualità della meditazione ed i difetti della distrazione, eliminando quest’ultimi; ma talora quando vi sono forti ostacoli, come l’infelicità, rincrescimenti o aggressività, il solo pensare alle buone qualità della meditazione non eliminerà questi ostacoli del tutto. Si ha allora bisogno del potere della diligenza, cosicché è possibile eliminare tutti i forti ostacoli come passioni, aggressività e ignoranza, creando così il settimo livello della stabilità mentale della completa pacificazione.

Il potere della diligenza crea anche l’ottavo livello della stabilità mentale, che è conosciuto come ‘l’unidirezionalità’, perché tutte queste potenti distrazioni della mente sono state eliminate e la mente può restare unidiretta su se stessa. A questo livello di unidirezionalità si può meditare senza troppi sforzi e questo potere della diligenza è usato per mantenere questo stato unidiretto.

Il primo impegno mentale, chiamato ‘ impegno strettamente controllato’, è associato coi primi due livelli di stabilità mentale. Il secondo impegno, chiamato ‘il sospeso’, è associato col terzo e fino al sesto livello compreso, di stabilità mentale. Impegno sospeso, significa che uno sospende la propria mente in uno stato di stabilità, che però può venir interrotto da qualche difetto e perciò poi si applica il rimedio. Indi, si continua in questo modo ripetutamente, e questo fatto rende la propria stabilità continuamente interrotta. Al livello dell’ottava stabilità mentale dell’unidirezionalità, si sviluppa il terzo impegno mentale chiamato ‘l’ininterrotto’. A questo punto, la mente si focalizza in un solo punto e vi rimane continuamente ed ecco perché non vi è più interruzione di questo stato.

Il sesto potere è il potere della familiarizzazione. A questo livello, la mente è naturalmente stabilizzata senza che siano più necessari sforzo o disciplina. Il quarto impegno mentale associato con questo potere è detto ‘impegno mentale spontaneamente presente’. Il nono livello di stabilità mentale è chiamato ‘immobilità nell’equanimità’. Quindi, al nono livello di stabilità mentale, col sesto potere ed il quarto impegno mentale, la mente rimane proprio in equanimità, rilassata totalmente senza sforzo. Questo è lo stadio finale della stabilità mentale.

I cinque difetti e gli otto rimedi sono spiegati nel “Differenziazione della Via di Mezzo e gli Estremi”, che è una delle cinque opere di Maitreya. Gli insegnamenti del Buddha sono divisi in Sutra, Vinaya e Abhidharma. La ‘Differenziazione’ è un commentario all’Abhidharma. I nove livelli della stabilità mentale sono insegnati nel testo “Ornamento dei Sutra Mahayana” sempre di Maitreya. Questo testo spiega e chiarifica gli insegnamenti dei Sutra. I

sei poteri ed i quattro impegni mentali si trovano in uno dei cinque trattati di Asangha, chiamato “Livelli degli Sravaka”.

Per concludere, quando meditiamo, spesso sorgono difetti che ci impediscono di sviluppare la nostra meditazione. Se possiamo identificare questi difetti, riusciremo ad eliminarli. Perciò, ci colleghiamo con gli insegnamenti del Buddha dati nella sua onniscienza e dei Bodhisattva nella loro esperienza. Quando i Bodhisattva meditavano, essi videro i difetti che sorgevano e quindi li identificarono e furono in grado di trovarvi rimedio, così poterono eliminarli. Tuttavia, se non riconosciamo questi difetti quando meditiamo, non potremo progredire oltre verso la Buddhità. Ma, grazie a questi insegnamenti possiamo identificare questi difetti e conoscere come applicare i rispettivi rimedi. Questo insegnamento particolare dovrebbe essere sperimentato direttamente, non solo studiato intellettualmente. Appena i cinque difetti sorgono nella meditazione, dovremmo applicare prontamente gli otto rimedi, usare i sei poteri ed i quattro impegni mentali nella nostra meditazione. Ancora, grazie alla meditazione, dovremmo essere in grado di identificare a quale livello di stabilità mentale siamo arrivati. È necessario essere in grado di usare realmente questo insegnamento, ecco perché queste istruzioni sulla meditazione sono così importanti e noi dobbiamo comprenderli completamente.

TABELLA N.1

SOMMARIO DEI SEI POTERI, NOVE LIVELLI E QUATTRO IMPEGNI

= I SEI POTERI = I NOVE LIVELLI = I QUATTRO IMPEGNI 1)Ascoltare gli Insegnamenti

2)Contemplare gli Insegnamenti 1) Fermare la mente

2) Fermarsi più a lungo

nella mente 1) Impegno strettamente

Controllato e focalizzato 3) Memoria o

Consapevolezza

_________________

4) Potere della

Autocoscienza 3)Ristabilizzare continuamente la mente

4)Mente intensamente

stabilizzata

--------------------

5) Addomesticamento

6) Pacificazione

2) Impegno mentale

Sospeso

5) Potere della Diligenza

7) Completa Pacificazione

8) Unidirezionalità 3) Impegno mentale

Ininterrotto 6)Potere della

Familiarizzazione 9) Immobilità nella

Equanimità 4) Impegno

Spontaneamente

Stabilizzato

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TRADIZIONE DELLE ISTRUZIONI ORALI

L’istruzione di shamatha è stata trasmessa anche oralmente da un individuo all’altro. In primo luogo si riceve l’istruzione orale su shamatha, che è molto meglio che leggerla in un libro. Il primo stadio è chiamato “esperienza di instabilità”. Poi, si comincia a meditare e la prima cosa sperimentata è una grande instabilità della mente – un’esperienza della propria mente che è assai instabile con moltissimi pensieri che sorgono. Sono pensieri buoni e pensieri negativi che arrivano alternativamente e ciò è paragonato ad una cascata impetuosa che sprizza da una rupe. Quando l’acqua colpisce il fondo, schizza e spruzza facendo molti turbini e onde con vorticosa agitazione. Nella meditazione si crede di non aver mai avuto così tanti pensieri, perciò si pensa, “Forse sto peggiorando, a causa della meditazione”. Ma, in effetti, non è che si stiano sviluppando più pensieri del solito, soltanto che prima di aver iniziato a meditare, non si pensava di poter avere tanti pensieri così. Siccome non li si analizzava, non si poteva essere consapevoli della quantità di pensieri. In realtà, la meditazione è l’inizio della constatazione, dato che si diventa consapevoli dei propri pensieri.

Sicché, quando si comincia e si continua a meditare costantemente, si comincia ad avere una seconda esperienza chiamata “l’esperienza del conseguimento”. Con questa esperienza, si inizia a percepire che si è raggiunto qualcosa, che si ha una buona meditazione. Questa esperienza è paragonata ad un torrente di montagna, o ad un fiume in una gola, che sono ancora impetuosi con molte onde, ma non più così potenti e terribili come la cascata.

Il successivo livello di meditazione si ha quando la meditazione è diventata più facile ed è paragonata ad un fiume lento e fluente. La meditazione è più facile, ma non fino al punto di essere un costante stato meditativo stabile e senza pensieri insorgenti. Non è più, comunque, irruento e sconnesso come il secondo stadio di conseguimento. Anzi, ora vi è un tipo di vellutata gentilezza morbida, poiché il potere dei pensieri è fortemente diminuito. Questo terzo livello è chiamato “esperienza della familiarizzazione”.

Il quarto livello è chiamato “esperienza della stabilità”, poiché vi è un continuo stato di stabilità senza flussi di pensieri disturbanti. A questo stadio si è raggiunto il grado di stabilità in cui si ha il controllo della propria mente. Questo è paragonato ad un mare calmo e senza onde.

Il quinto livello è chiamato “esperienza della completa e totale stabilità” ed è lo stadio finale in cui uno non è più disturbato da nessun tipo di esperienza. Le esperienze che si presentano e si formano in questo quinto livello sono beatitudine, chiarezza e totale assenza di pensieri autonomi. Per esempio, uno mentre medita potrebbe sperimentare una grande sensazione di felicità e beatitudine, ma più tardi quando non sta più meditando, questa beatitudine scompare. Oppure, un certo giorno all’improvviso una grande chiarezza sorge nella nostra meditazione e si potrebbe pensare, “Cos’è questa chiarezza che sto sperimentando?”. O anche si potrebbe sperimentare uno stato vuoto privo di pensieri concettuali. Questi sono tre tipi di esperienza che possono presentarsi nella meditazione shamatha. In questo quinto livello, qualunque cosa sorge non inquina e non ha effetto sulla nostra stabilità mentale e questo stato è immune da condizioni che creano rabbia o attaccamento o anche amore e compassione. Come risultato si sviluppa grande chiarezza e luminosità di mente che è vuota e quindi priva di torpore o stupidità. L’esempio per questo quinto livello di esperienza è una fiamma di candela che brucia in un’aria quieta e calma; essa è estremamente brillante e provoca intensa luminosità ma, non appena l’aria si muove solo un po’, subito manda una illuminazione intermittente. Una volta che la mente è stabile è diventa immune dai pensieri, allora si è capaci di avere una chiara comprensione delle cose. Vi sono due aspetti di questa perfetta comprensione, l’aspetto di chiarezza e l’aspetto di purezza. Chiarezza è quando tutto è visto con una visione acuta e tagliente, tutto è compreso molto chiaramente, vividamente ed in dettaglio. L’aspetto di purezza è quando la mente non è macchiata da incertezze e non vi è fluttuazione di quella chiarezza. Essa è completamente pura e incontaminata comprensione.

Solitamente, quando uno sviluppa una certa stabilità mentale ed ha buone esperienze meditative, può pensare, “E’ meraviglioso, sono diventato un illuminato!”. D’altro canto, poi, quando la stessa persona sperimenta esperienze negative, pensa, “ E’ terribile, sicuramente ho fatto qualcosa di sbagliato!”. Ma qualunque esperienza si faccia – buona o cattiva – si dovrebbe soltanto continuare a meditare. Se arrivano esperienze positive, non ci si dovrebbe sentire migliori di qualcun altro ed avere sensazioni di orgoglio, ma solo continuare a meditare. Se arriva una brutta esperienza, non ci si dovrebbe sentire depressi perché potrebbe accadere di subire un’esistenza più misera, ma si dovrebbe soltanto continuare a meditare e mantenere costantemente la pratica di consapevolezza ed autocoscienza. Quando Gampopa ebbe l’esperienza di veder apparire il mandala di Hevajra davanti a sé nella sua meditazione, o quando vide l’intero mandala di Chakrasamvara, o quando incontrò la sua divinità Yidam, egli andò dal suo maestro Milarepa e gli chiese cosa significassero queste esperienze. Milarepa gli rispondeva sempre che erano cose di nessun conto e che non vi era nulla di buono o cattivo in ciò e di ritornare senza indugi alla meditazione. Talvolta Gampopa aveva avuto davvero brutte esperienze mentre meditava: una volta il mondo intero cominciò a girare vorticosamente

fino a che dovette alzarsi; un’altra volta tutto divenne completamente oscuro tanto che Gampopa dovette trovare la strada a tentoni sulle mani e sulle ginocchia e pensò che questo fatto doveva essere stato causato da un demone. Un’altra volta ancora udì un urlo proveniente dal nulla e pensò di essere diventato pazzo. Quando andò a chiedere a Milarepa spiegazioni su ciò, Milarepa gli disse soltanto che non era niente di importante, né buono ne cattivo, solo doveva continuare a meditare. Quindi, noi dovremmo solo insistere con la nostra meditazione imperturbabile, sia avendo buone esperienze che con esperienze negative.

COMPLETAMENTO DI SHAMATHA

Finora è stata discussa la natura della meditazione in relazione alla tradizione orale. Ora discuteremo il risultato della meditazione, cioè i segni che caratterizzano il completamento della meditazione. Il risultato della meditazione è l’esperienza di beatitudine della mente e del corpo, chiamata “buon addestramento”. In Tibetano dicesi ‘shin jang’ che è in realtà una descrizione di causa ed effetto. Il nome della causa “essere ben addestrati”, è invece usato per l’effetto. Perciò, in realtà, questo è il nome della causa e, in Tibetano, ‘shin-tu’ significa “molto” e ‘jang-pa’ significa “istruito, addestrato”. Perciò, ‘shin jang’ significa che si è “ben istruiti in qualcosa”. Il testo dice che se uno non ha ottenuto questo stato di essere ben addestrato nel corpo e nella mente, non ha raggiunto il pieno conseguimento della meditazione shamatha. Anche se egli ha raggiunto il quarto (più elevato) impegno mentale ed il nono (finale) stadio di stabilità mentale, se non ha un corpo ed una mente ben addestrati, uno non ha ottenuto il completamento della meditazione shamatha. Ciò è spiegato in un Sutra, “La Spiegazione definitiva della Visione”, in cui Maitreya chiede al Buddha a cosa equivale la meditazione di un Bodhisattva che abbia sviluppato tutti gli impegni mentali ma non ha un corpo ed una mente ben addestrati. Maitreya inoltre domanda se uno, non avendo sviluppato questo addestramento completo di corpo e mente, può aver ottenuto il completamento di shamatha. Il Buddha allora risponde, “No!”. Quindi, per avere una valida meditazione shamatha, bisogna essere ben addestrati in modo che il corpo e la mente siano completamente maneggevoli e si abbia il livello mentale unidiretto della stabilità mentale del Reame del Desiderio. Una descrizione di questo stato è data anche da Asangha nel suo “Compendio dell’Abhidharma”. Egli afferma che bisogna raggiungere questa condizione di corpo e mente ben addestrati, la quale elimina la continuità (continuum) dei fattori che portano agli stati negativi. Se uno riesce a rimuovere queste propensioni negative, allora la mente diventa maneggevole e usabile. Con la meditazione e questa manovrabilità della mente si possono eliminare tutte le oscurazioni dei klesha. Asangha poi va avanti descrivendo queste negative propensioni del corpo e della mente. Quelle del corpo sono il rifiuto di coinvolgersi nella meditazione e nelle buone azioni, cosicché ci vuole una buona dose di sforzo per fare queste cose. Le propensioni negative della mente rendono difficile la meditazione, perché non può, o non vuole, restare spontaneamente e facilmente in meditazione. Ancora, le propensioni negative del corpo risultano in una debole resistenza ed uno si sente fisicamente molto pesante e insofferente nel fare buone azioni e nel meditare. Prima si deve sviluppare flessibilità mentale con cui la mente diventa stabile, rilassata e confortevole. Poi si deve sviluppare flessibilità fisica poiché quando la mente diventa ferma e confortevole, allora l’aria vitale (prana) diventa indisturbata e non più ostruita e può permeare tutto il corpo. Con questo flusso di aria vitale il corpo si sente più leggero e confortato e le negative propensioni del corpo saranno eliminate. Questa sensazione non è soltanto mentale, ma proprio vera sensazione fisica.

In che modo avvengono queste sensazioni mentali e fisiche di shamatha? La domanda ha una risposta da parte di Asangha, nel suo “Livelli degli Sravaka”. Primo, si sperimenta una sensazione molto sottile e non si sa se questa è nel corpo o nella mente. Si prova soltanto una sensazione sottile e piacevole. Più tardi si diventa più forti e più chiari e si sa che è una sensazione piacevole ben definita. Ancora più tardi si diventa assai più forti e si sperimenta beatitudine e agio, a questo punto diventando più fiduciosi nella propria meditazione; ma non si dovrebbe diventare attaccati od orgogliosi di questa sensazione pensando che sia qualcosa di speciale. Al contrario, si dovrebbe rimanere in uno stato di equanimità e pensare, “Questa sensazione può venire o anche andarsene, ma a me non deve interessare”. Se si può rimanere equanimi in quel momento, allora si può raggiungere uno stato di pace davvero profondo e intenso. Questa beatitudine viene paragonata ad un’ombra, perché, proprio come un’ombra che può apparire e sembrare esistente, pure non ha vera sostanza. Allo stesso modo, quando è presente questa esperienza di beatitudine, pur essendo indubitabilmente sperimentata, essa non ha vera sostanza e non ci si dovrebbe attaccare a questa sensazione di piacere, altrimenti si cadrà sotto il potere di questo attaccamento.

Quando uno ha raggiunto pienamente corpo e mente ben addestrati, non vi sono più distrazioni esterne o interne o disturbi e la mente è totalmente stabile. A questo livello, tutti i klesha più evidenti sono eliminati e pacificati e la propria meditazione sarà una continua esperienza di beatitudine. Se questo stato ‘ben addestrato’ è forte, questa sensazione è sperimentata prima, durante e dopo la meditazione. Il potere di questo stato crea una grande chiarezza di percezione, al punto che ogni cosa è vista fin nel suo minimo dettaglio, fin nei più piccoli particolari. Infatti, vi sono tre particolari qualità nello stato ben addestrato di mente e corpo – la sensazione di beatitudine, grande chiarezza di percezione e la scomparsa della sensazione delle dieci caratteristiche. Le Dieci Caratteristiche sono le

sensazioni sensoriali di vista, suono, odore, gusto e contatto corporeo, nonché la percezione di presente, passato e futuro e, infine la percezione dei generi maschile o femminile. Quando si resta in meditazione, è come se ci si è mescolati allo spazio e qui non vi sono concezioni di queste dieci caratteristiche, quasi come se ogni cosa fosse scomparsa. Poi, dopo la sessione meditativa, è come se il corpo all’improvviso riapparisse dal nulla.

LO SCOPO DEL COMPLETAMENTO SHAMATHA

Nei Sutra e nei Tantra è detto che shamatha è la base di ogni meditazione. Tutti gli stati meditativi, incluso vipashyana provengono e dipendono dallo sviluppo di shamatha. Per esempio, se vogliamo piantare un grosso albero, dobbiamo prima avere un buon terreno, così non è necessario fare troppi sforzi nel giardinaggio, dato che la pianta crescerà facilmente e rapidamente da sola se messa in un buon terreno. E comunque, in un terreno arido, non importa quanti sforzi si facciano per coltivarlo, uno non potrà veder crescere buone piante. Allo stesso modo, se prima si ha una buona meditazione shamatha, poi si può facilmente sviluppare chiaroveggenza e poteri miracolosi, nonché la prosecuzione meditativa vipashyana e la conseguente saggezza. Una buona meditazione shamatha diminuirà anche tutte le negatività della mente creando uno stato di pace. Quindi, non ha importanza che avvengano dolori fisici, avversità, ostacoli e confusione mentale; tutti questi tipi di sofferenza non recheranno danno a quella persona che sa praticare shamatha, perché tutte quelle cose sono diminuite o addirittura soppresse dalla stabilità mentale.

Kamalasila nel suo primo degli “Stadi della Meditazione” dice che se uno è in grado di restare nello stato di equanimità, è anche capace di ottenere una comprensione della vera natura delle cose. Anche il Buddha ottenne i suoi risultati assoluti restando in questo stato di equanimità. Se uno non è capace di restare nell’equanimità, non potrà ottenere la comprensione della vera natura dei fenomeni. La mente sarà come una piccola penna di uccello che vola nel vento, incapace di stare ferma in un posto.

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PARTE SECONDA: MEDITAZIONE VIPASHYANA

CAPITOLO 4°: TIPI E CONDIZIONI DELLA MEDITAZIONE VIPASHYANA

La spiegazione della meditazione di Vipashyana (Insight = Visione profonda) è divisa in cinque parti. Esse sono, 1) condizioni indispensabili per vipashyana, 2) le diverse forme di vipashyana, 3) categorie della natura di vipashyana, 4) metodi di meditazione e 5) valutazione o segni del completamento. La prima sezione tratta delle condizioni necessarie per la meditazione vipashyana. Kamalasila, nel secondo dei suoi “Stadi di Meditazione” descrive tre condizioni necessarie per lo sviluppo di vipashyana.

CONDIZIONI INDISPENSABILI PER VIPASHYANA

Prima di tutto bisogna imparare come sviluppare la meditazione vipashyana, poiché spontaneamente non si ha l’esperienza della saggezza sviluppata tramite vipashyana. Per cui bisogna per forza dipendere da un insegnante. Bisogna relazionarsi con un Essere Puro che offre gli insegnamenti di Dharma e, quest’Essere, dovrebbe aver ben studiato e imparato e compreso i testi ed i commentari sugli insegnamenti del Buddha. Dovrebbe essere qualcuno con una vera esperienza degli insegnamenti, qualcuno con una compassione tale da voler avere cura dei suoi discepoli. In quest’epoca, vi sono molti libri di Dharma e molte persone li leggono e meditano basandosi su ciò che hanno letto. Questo comporta varie difficoltà mentali, come indebolimenti del corpo, oppure un duro lavoro fisico senza ricevere vantaggi reali dalla propria meditazione. In realtà, bisogna dipendere da un insegnante speciale e istruito, perché un libro non può far adattare le istruzioni alla propria natura ed alle capacità personali. Perciò bisogna collegarsi con un essere speciale che è in grado di insegnare secondo le specifiche capacità di ognuno.

Vi sono diversi tipi di istruttori; alcuni sono veramente eruditi e danno ovunque spiegazioni basate su commenti ai vari testi. Altri possono essere meno dotti ma danno istruzioni basate sulla loro grande esperienza personale di meditazione, cosicché possono spiegare agli altri, cosa potrebbe accadere durante le loro meditazioni. C’è anche chi è chiamato “L’Anziano (o anziana) che mostra l’istruzione”, volendo indicare un signore (o signora) con molta esperienza personale che, forse non conosce veramente tutto, ma è in grado di indicare le istruzioni-chiave da osservare. I commenti sulla meditazione non danno punti di riferimento sulla esperienza diretta della loro meditazione o su queste istruzioni indicate. In ogni caso, è tuttavia molto importante per chi vuole imparare a meditare, ricevere istruzioni dirette da un insegnante esperto.

I benefici di un istruttore genuino non vengono tanto dallo stare insieme e avere conversazioni con l’insegnante, ma soprattutto dal ricevere quelle istruzioni che sono positive e benefiche per il proprio progresso. Un sincero insegnante elargisce soprattutto i veri insegnamenti del Buddha, o le esperienze dei Bodhisattva e dei grandi Siddha e, le sue istruzioni e insegnamenti, non sono una sua personale creazione. Gli insegnamenti più benefici sono quelli che vengono da un puro e genuino testo, come gli autentici Insegnamenti (Sutra) del Buddha o i Commentari (Sastra) dei grandi Bodhisattva e Mahasiddha. L’insegnante dovrebbe essere abile nel leggere e capire questi insegnamenti ed essere in grado di trasmetterli ai suoi discepoli, assicurandosi che anch’essi possano comprenderli. Quindi, il secondo punto è che si debba ricevere gli insegnamenti da un insegnante.

In generale, si può dire che la pratica Buddista implica la corretta visione, meditazione e adeguata condotta. Quindi, con la corretta visione si è in grado di meditare e grazie alla meditazione, si sviluppa una condotta morale appropriata. Perciò, la radice di tutti questi è la giusta visione. Per sviluppare una corretta visione, non si deve soltanto ricevere questi insegnamenti, ma bisogna analizzarli ed esaminarli continuamente. Non è corretto accettare gli insegnamenti con cieca fiducia, ma l’analisi e l’esame che uno deve fare, servono per eliminare i propri dubbi e le incertezze circa la correttezza del proprio insegnante nel dare gli insegnamenti, che guidano nel sentiero spirituale. Da ciò si sviluppa una visione ben definita sul fatto che le istruzioni dell’insegnante sono genuine e questo corrisponde alla visione corretta e definitiva. Questa visione corretta e definitiva è la causa principale del vipashyana e questi tre aspetti, cioè dipendere dall’insegnante, ricevere gli insegnamenti e analizzarli, sviluppano la corretta visione di vipashyana.

Per sviluppare il corretto punto di vista, non ci si deve correlare ai Significati Relativi o Provvisori, ma ai Significati Assoluti o Definitivi. Significati relativi o provvisori, sono gli insegnamenti dati dal Buddha per le persone di più bassa capacità, che non erano in grado di afferrare o credere nei veri insegnamenti. Significati assoluti o definitivi sono quelli che descrivono la verità delle cose così come sono nella loro natura. Per avere una visione genuina bisogna dipendere sul significato definitivo; uno deve riconoscere direttamente ciò che è il vero significato dei fenomeni e distinguerlo dal significato provvisorio. Quando gli insegnamenti del Vajrayana furono trasmessi in Tibet, ivi si sviluppò la pratica di contemplare gli insegnamenti, collegandosi ai commentari. Alcuni studiosi Cinesi e Occidentali dichiarano che quello fu un difetto nella tradizione Buddista Tibetana, perché essa si correlò così fortemente sui commentari, piuttosto che correlarsi sulle vere parole del Buddha. L’affidamento ai commentari, comunque, ha uno scopo veramente speciale perché, quando il Buddha dette gli insegnamenti, egli li dette in maniera particolare a svariati individui secondo la loro particolare natura; quindi, alcuni di quegli insegnamenti erano verità provvisorie ed altre erano verità definitive. Se si esaminano attentamente gli insegnamenti del Buddha con una logica analisi, decidendo quali insegnamenti sono relativi e quali quelli assoluti, si potrebbero fare molti errori. Ma il Buddha profetizzò che vari Maestri sarebbero venuti in futuro e avrebbero scritto commentari sui suoi insegnamenti proprio per mostrare quali insegnamenti erano provvisori e quali erano reali o definitivi. In particolare, il “Tesoro della Conoscenza” menziona due tradizioni veramente pure: la tradizione di Nagarjuna che fondò la Tradizione della Visione Profonda e la tradizione di Asangha che fondò la Tradizione della Grande Disciplina. Questi due grandi Maestri furono capaci di distinguere chiaramente le verità provvisorie e definitive degli insegnamenti del Buddha con i loro commentari. Perciò, ci si dovrebbe correlare sui commentari di questi due grandi maestri, non solo per capire le differenze tra questi due significati, ma anche per il loro vasto contenuto. Gli insegnamenti sulla PrajnaParamita, per esempio, contengono dodici volumi e sarebbe difficile esaminarli, con la decisione di cogliere il significato provvisorio o definitivo di ciascun passaggio. Quindi, questi commentari compendiano i vasti insegnamenti del Buddha, dando loro i veri significati. Per esempio, Asangha nell’Ornamento della Chiara Realizzazione di Maitreya, condensò la PrajnaParamita in solo 20 pagine! Vi sono anche insegnamenti del Buddha che hanno significati oscuri e nascosti o altri che sono davvero corti e concisi. Perciò, vi sono commentari che delucidano ed espandono in dettaglio il significato di questi insegnamenti. Per questa ragione, i commentari sono molto importanti e la loro comprensione è una necessaria condizione per lo sviluppo di vipashyana.

LE DIVERSE FORME DI VIPASHYANA

Vi sono quattro principali forme di vipashyana. Il primo tipo è il vipashyana delle tradizioni Tirthika (non-Buddiste) ed è applicato quasi esclusivamente in India. Queste tradizioni non-Buddiste praticano la meditazione shamatha per essere in grado di pacificare la mente ed eliminare molti dei klesha evidenti. Il secondo tipo è il vipashyana che il Buddha insegnò agli Sravaka (uditori) e Pratyeka (praticanti solitari), che non potevano comprendere il vero e profondo significato più vasto degli insegnamenti. Il terzo tipo è il vipashyana dei Bodhisattva, adatto a coloro che seguono la Via delle sei Paramita. Questi insegnamenti sono molto più vasti e profondi. Il quarto tipo è il vipashyana che usa particolari metodi (Mantrayana e Vajrayana) di beatitudine per ottenere rapidamente la realizzazione.

Nel vipashyana delle tradizioni Tirthika, si contemplano gli aspetti nudi e crudi della “pacificazione”. Per esempio, nella meditazione si può contemplare il mero klesha della rabbia e si può realizzare che la rabbia è dannosa a se stessi ed agli altri e che, senza la rabbia, la propria mente sarebbe pacifica e felice. Perciò, si può vedere come una emozione grossolana, in questo caso la rabbia, alteri la propria mente e come, in sua assenza, vi sia pace e tranquillità. Quindi, poiché con questa meditazione poi si può superare la rabbia, c’è da chiedersi che cosa vi sia di sbagliato in questa forma di vipashyana non-Buddista. In realtà, non vi è niente di sbagliato in questa meditazione chiamata la “tradizione comune”, perché è usata comunemente da Buddisti e non-Buddisti. Nella tradizione Buddista questa vipashyana è chiamata ‘livello mondano della vipashyana’, perché si possono riconoscere i veleni mentali e i difetti della mente, e si può lavorare per eliminare il potere delle loro manifestazioni evidenti. Il meditante pratica per rendere la mente stabile e ferma. La pratica stessa, è eseguita per il raggiungimento di uno stato di pace ed il soggiogamento di questi veleni della mente e non tanto per comprendere la vacuità e la mancanza reale di un sé. Essa elimina i difetti a livello del Reame del Desiderio, così che si possa ottenere il primo livello della stabilità mentale che è nel Reame della Forma.

Il Vipashyana degli Sravaka e Pratyeka è per coloro che non possiedono la necessaria forza per raggiungere lo Stato di Buddha, quindi essi si sistemano in un luogo isolato e praticano il sentiero dei Buddha solitari. Questi due tipi di Esseri realizzati, Sravaka e Pratyeka, sono ancora all’interno della tradizione Hinayana e la differenza tra queste due categorie è l’accumulazione di meriti; con poca accumulazione di meriti si è Sravaka e con grande accumulazione di meriti si è Pratyeka ( questi ultimi, infatti, possono già conseguire il Nirvana personale). Tuttavia, in termini di meditazione shamatha e vipashyana, vi è solo una lieve differenza tra di essi, perché entrambi meditano sulle Quattro Nobili Verità del Buddha. La loro pratica è basata su queste verità ed esse vengono divise in sedici aspetti (vedi Tabella 2), che determinano la meditazione vipashyana di pace, basata sulla descrizione di samsara e nirvana. La prima Nobile Verità è una descrizione del samsara come verità della sofferenza. La seconda è la verità dell’originazione che guarda alle cause del samsara, il quale ha origine dal karma e dai klesha. La terza è la verità della cessazione e avviene quando il karma ed i klesha sono eliminati e ciò risulta come nirvana. Infine la quarta verità del sentiero è quella di seguire e praticare il sentiero della cessazione. Nel vipashyana degli sravaka e pratyeka la vera natura di queste quattro verità deve essere compresa insieme alle sue sottocategorie. La verità della sofferenza è divisa in impermanenza, sofferenza, assenza del sé e vacuità. La verità dell’originazione, anch’essa è divisa in quattro parti. Anche la verità della cessazione, come pure la verità del sentiero, sono divise rispettivamente in quattro parti, facendo così un totale di 16 suddivisioni.

Quali sono le Quattro Nobili Verità? Vi è il samsara, da cui bisogna ottenere la liberazione e vi è il nirvana, che è ciò che si vuole ottenere. Uno desidera ottenere la liberazione dal samsara, la cui natura è sofferenza, così la prima verità è che uno vuole ottenere la liberazione dalle sofferenze del samsara. Poi, uno vuole ottenere il nirvana e questa è la terza verità della cessazione (del samsara). Comunque, non si può semplicemente dire che uno vuole ottenere la liberazione e la ottiene. Questo perché tutti i fenomeni sorgono da cause e quindi, samsara e nirvana, pure, sorgono da una causa. Questa causa è la seconda verità dell’originazione, che fa sorgere le cause del karma e dei klesha. Quindi bisogna eliminare la causa del samsara, che è il karma e i veleni mentali e, quando questi sono eliminati, si ottiene la libertà dalla sofferenza, cioè dal samsara. Per essere in grado di ottenere la libertà dalle sofferenze del samsara, uno deve essere in grado di eliminare l’origine della sofferenza. Non si può eliminare il karma ed i klesha direttamente, perché la loro sorgente è l’attaccamento al proprio ego, ed è questo che deve essere eliminato. Il modo di eliminare l’ego è la meditazione sulla non esistenza dell’ego, cioè il meditare sui cinque aggregati che formano l’ego e analizzarli come un’associazione dell’idea di “Io” e “Mio” a questi cinque aggregati. Attraverso la realizzazione della non esistenza intrinseca dell’Io, si eliminerà l’attaccamento al sé e tutti i veleni mentali (klesha) saranno naturalmente sottomessi e superati. Allorché questi veleni della mente saranno superati, si diventerà capaci di praticare serenamente il sentiero che è la quarta verità e finalmente si potrà ottenere la verità della cessazione.

TABELLA N.2

I 16 ATTRIBUTI DELLE QUATTRO NOBILI VERITA’

1) VERITA’ DELLA SOFFERENZA (Duhkhasatya)

Impermanenza (anitya); Infelicità (duhkha);

Vacuità (sunyata); Assenza del sé (anatmaka);

2) VERITA’ DELL’ORIGINAZIONE (Samudayasatya)

Causa (hetu); Origine (samudaya);

Forte produzione (prabhava); Condizionamento (pratyaya);

3) VERITA’ DELLA CESSAZIONE (Nirodhasatya)

Cessazione (nirodha); Pacificazione (shanta)

Eccellenza (pranita); Emergenza Definitiva (nihsarana);

4) VERITA’ DEL SENTIERO DELLA LIBERAZIONE (Margasatya)

Sentiero (marga); Opportunità (nyaya);

Raggiungimento (pratipad); Liberazione Finale (nairyanika);

Nel vipashyana dei Tirthika vi è solo una parziale eliminazione delle evidenti negatività mentali, perciò esse non saranno mai completamente eliminate e i praticanti di questa forma di vipashyana non potranno ancora dirsi liberati. Nel vipashyana degli sravaka, la causa dei klesha è identificata come l’aggrapparsi all’idea del sé, ovvero all’Io e Mio. Credere nel sé è un’illusione delusiva perché in realtà non vi è un sé o cose che appartengano al sé. Quando uno è capace di realizzare la mancanza del sé nella meditazione vipashyana, allora lo spontaneo attaccamento al sé di fatto svanisce. Quindi, la principale meditazione degli sravaka è la meditazione sulla mancanza del sé. Un esempio di questo aggrappamento all’ego è accaduto quando, l’altro giorno Thrangu Rimpoche ci informò che una fibbia di metallo del suo orologio si era rotta. Quando ci disse questo, egli pensò, “Oh, no! Si è rotta la cinghia e così ho perso il mio orologio!” Egli era dispiaciuto, anche se in fondo, si era rotto soltanto un piccolo pezzo di metallo. Quando uno esamina l’orologio, non può trovare un qualcosa di “mio” associato con l’orologio stesso – questo è stato fatto in una fabbrica ed è soltanto un pezzo di metallo che non ha avuto assolutamente origine da Rimpoche. Se Rimpoche fosse stato senza l’illusione di “mio” associato con l’orologio, egli non avrebbe sperimentato lo sconforto e la sofferenza di vedere la rottura della cinghietta. Nella tradizione sravaka, questa assenza del sé è ciò su cui si medita nel contesto di vipashyana.

Un mucchio di persone pensano che il Buddhismo sia una pratica antipatica perché renderebbe infelici. Nel Buddhismo, la natura della sofferenza, la mancanza del sé e l’impermanenza, sono solo insegnate. Uno può pensare che meditare su ciò, possa far diventare infelici e sconfortati e possa far perdere il proprio sentimento di fiducia, e così via. Il Buddhismo insegna sì queste cose, ma viene insegnato perché si ha bisogno di queste informazioni per ottenere la liberazione dalla sofferenza. Una volta che si comprende la natura della sofferenza, si può venire liberati

proprio da questo. Grazie alla propria comprensione della natura della sofferenza, la propria saggezza si svilupperà ed aumenterà di conseguenza.

Gli esseri ordinari hanno un innato senso di auto-attaccamento al proprio ego. Questo attaccamento al sé avviene spontaneamente nel bambino e non c’è bisogno di insegnarglielo. Anche gli animali hanno questo attaccamento al sé, ma poi cos’è questo attaccamento? In realtà, non vi è un oggetto stabile per questo attaccamento, è soltanto una mera illusione. Talvolta uno pensa che questo sé sia il proprio corpo; ma quando poi esamina in maniera più ravvicinata il sé, scopre che non sta nei capelli, né nelle ossa, negli occhi, nel naso, nel cervello, insomma non lo trova in nessun posto. Si scopre che queste sono solo parti del corpo senza nessun sé che può essere identificato in esse. Il proprio corpo è solo un aggregato fisico di forma ed il sé non è in nessun modo reperibile nel corpo. Quindi, col percepire che il corpo non può essere il sé, uno può pensare che il sé sia la mente. Ma la mente è solo una successione di momenti, come il fluire di un fiume, con ciascun momento che è un nuovo momento di mente. Vi sono pensieri che uno ha avuto ieri, pensieri che si hanno ora e pensieri che saranno presenti nel futuro. Uno può chiedersi se un pensiero precedente potrà mai tornare ancora. Non potrà mai ritornare; quando uno era un bambino, aveva la mente da bambino, quando è cresciuto ed è diventato vecchio, la sua mente è totalmente cambiata ed è differente da prima. La mente ha diverse caratteristiche, diversi pensieri, un diverso processo nel modo di pensare e una diversa somma di comprensioni. Perfino la mente di ieri è diversa da quella di oggi. Vi è una continua successione di diversi tipi di pensieri e stati mentali. Perciò uno si chiede, “La mente di ieri, è il sé di adesso?”. No, quella è andata. -“Allora è la mente di oggi, il sé di adesso?”. No, nemmeno! Perché la mente di adesso sta per sparire, perciò entrambi non possono essere il proprio sé. In una successiva analisi vi è una coscienza visiva, coscienza uditiva, coscienza mentale e così via. Anche la coscienza mentale è una mescolanza di cose differenti. Vi è l’attaccamento a qualcosa di rosso, una concezione che qualcosa è bianca, ecc. sicché la coscienza mentale è un cumulo di diverse parti e perciò non è una unità singola in cui poter riconoscere il proprio sé. Avendo compreso la mancanza di un sé, uno medita sulla non-esistenza intrinseca del sé e ottiene la comprensione delle quattro nobili verità. Tramite questo, si ottiene la vipashyana degli sravaka e dei pratyekabuddha (nota 4).

La meditazione vipashyana dei Bodhisattva del sentiero Mahayana è la meditazione sull’assenza del sé dei fenomeni (cioè anche delle cose esterne). Un Bodhisattva pratica la meditazione basata sulle sei Paramita, in cui è chiarita sia la mancanza del sé individuale, già discussa, come pure del sé dei fenomeni. Questo secondo tipo di mancanza del sé è la realizzazione che la coscienza interiore e i fenomeni esterni sono vuoti e pacificati naturalmente in se stessi. Quindi, il meditante mahayana crede che la radice del samsara siano i klesha e che la radice dei klesha sia l'attaccamento all’ego. Eliminare l’attaccamento al sé è il metodo per essere liberati dal samsara.

Per il Mahayana, l’eliminazione delle oscurazioni mentali (klesha) equivale allo sviluppo del credere che il conoscitore interno e gli oggetti conosciuti esterni non hanno una loro vera sostanzialità perché credere nella loro solidità è la causa del sorgere dei klesha. Per eliminare i klesha, i Bodhisattva meditano in dettaglio sulla natura dei fenomeni interni ed esterni, per scoprire che, in realtà, essi sono completamente insostanziali, come bolle d’acqua e sapone. Appena avuta questa realizzazione, i klesha scompaiono. Il credere alla realtà dei fenomeni esterni è chiamato ‘oscurazioni alla conoscenza’ (klesha). Quando queste oscurazioni alla conoscenza sono eliminate con la realizzazione dell’assenza di realtà sia dei fenomeni esterni che interni, la presenza dei klesha arriverà naturalmente al capolinea. Con la sparizione dei klesha, vi sarà la liberazione dal samsara. I Bodhisattva meditano quindi sulla vacuità (sunyata). Nel Sutra del Cuore, il Buddha dice che “non vi sono occhi, né orecchie, né naso, né lingua, ecc.” e che “non vi è la forma, né suono, né odore, né gusto, ecc.”. Qualcuno potrebbe interpretare ciò come se il Buddha avesse detto che letteralmente non vi sono occhi, e tutto il resto. Quando il Buddha dette questo profondissimo insegnamento, tuttavia, stava solo spiegando che ciò è quello che si sperimenta quando si rimane nello stato della meditazione samadhi. Questo non è chiarito nel Sutra, perché i suoi discepoli erano in quel momento proprio nello stato meditativo e quindi erano in grado di comprendere l’insegnamento senza spiegazioni. Il Buddha insegnò in questo modo, nel Sutra del Cuore e nelle altre PrajnaParamita e questi insegnamenti sono stati ben spiegati nei commentari, quali “Entrata nella Via di Mezzo” di Chandrakirti. Esaminando la legge di causa ed effetto egli dimostrò la natura della vacuità, esaminando la natura delle cause, mentre Jnanagarbha , nel suo “Le Due Verità della Via di Mezzo”, mostra la natura della vacuità tramite l’analisi dell’effetto. Poi vi fu Nagarjuna che, nella “Conoscenza della Via di Mezzo”, dimostrò la vacuità di tutti i fenomeni.

In Tibet, vi furono un gran numero di grandi commentari sulla vacuità, come quello di Lama Mipham che descrisse come il maestro Indiano Santaraksita arrivò in Tibet e scrisse “L’Ornamento della Via di Mezzo”, il quale spiega la vacuità in termini di cose che “non sono né una cosa né molte cose”. Mipham descrive questo approccio come molto potente e anche facile da capire. Per esempio, una cosa per essere reale, deve essere una semplice cosa; diciamo che una ‘mano’, per esistere, deve essere una cosa, cioè una mano. Se la si guarda, si vede una mano; se la si mostra ad altri, tutti concordano che è una mano. Tuttavia, esaminandola più da vicino, uno vede che vi è un pollice, altre dita, pelle, carne e ossa, e così via. Perciò essa non è più ‘una mano’ ma, come disse il Buddha, essa è

un’aggregazione di ogni sorta di parti che sono tenute insieme. Quindi, ciò che realmente vi è, è un’apparenza che sorge fuori da una interdipendenza di parti, che noi chiamiamo mano, ma in realtà, non vi è nessuna mano lì. Ed è così per tutte le cose, perciò usando questa logica si ottiene la certezza della natura di vacuità.

La meditazione vipashyana del Mahayana è basata sulla realizzazione della vacuità, chiamata anche “originazione interdipendente”. Questo significa che tutti i fenomeni che sorgono hanno una reciproca dipendenza con altri fenomeni e quindi non hanno una vera esistenza di per se stessi. Ancora un esempio, nel riflesso della luna sull’acqua, non vi è una vera luna nell’acqua, ma a causa dell’interdipendenza della luna nel cielo e dell’acqua nel terreno, può apparire il riflesso. Anche quando si esamina l’acqua per vedere dov’è la luna, non vi è un luogo in cui vi sia il riflesso della luna. Allo stesso modo, tutti i fenomeni originano attraverso la dipendenza su qualcos’altro e non hanno vera esistenza in se stessi. La realizzazione di questo è la realizzazione della vacuità e, con questa realizzazione, i klesha cessano e il samsara scompare. Quindi, per portare alla fine i klesha, si deve meditare sulla vacuità.

Portando un altro esempio, se uno prende un pezzo di carta e lo strappa, quest’atto non sconvolge nessuno. Ma quando uno prende un pezzo di carta che però, appare essere una banconota da 10 dollari e fa per strapparla, l’atto diventa immediatamente qualcosa di più importante. Perché questo è improvvisamente importante? È importante perché tutti concordano che una banconota da 10 dollari è importante, ma nel fatto reale, è solo un pezzo di carta. Perché allora per le persone essa è qualcosa di importante? Non vi è una particolare ragione, solo succede che tutti pensano che sia importante. Quindi, questa è originazione interdipendente – il valore delle varie cose dipende da quello che pensano tutti. Questo non è soltanto vero per la carta moneta; tutti pensano che l’oro abbia più valore del ferro. Perché l’oro ha più valore? Semplicemente perché tutti lo pensano. L’oro in se stesso non ha l’amrita che fluisce fuori da esso, in fondo l’oro è solo un metallo. È proprio in questo modo che la mente si aggrappa e si attacca alle cose; essa percepisce alcune cose come preziose ed altre come spregevoli, ma nessuna cosa in sé è veramente buona o cattiva. È solo una percezione mentale, perché la natura delle cose è vacuità.

Ogni cosa viene ad essere tramite l’interdipendenza. Per esempio, se si hanno due pezzi di carta, uno piccolo ed uno un po’ più grande, essi sono piccolo e grande perché dipendono uno dall’altro. Se si mette un pezzo di carta più largo vicino ad essi, allora il pezzo più grande diventa il medio, ecc. in se stessi non vi è un pezzo di carta piccolo o un pezzo di carta grande. Piccolo e grande, buono e cattivo, bello e brutto sono tutte creazioni della mente, percezioni e interpretazioni della mente che non hanno reale esistenza.

Per illustrare questo punto vi è una storiella. C’era una volta un coniglio che se ne stava all’ombra di un albero presso un lago. Il vento ruppe uno dei rami dell’albero, che cadde nell’acqua facendo un grande tonfo con spruzzi. Questo rumore spaventò il coniglio, il quale senza pensare, scappò via. Mentre scappava, egli incontrò due topi che gli chiesero perché correva così, ed il coniglio rispose, “C’era un grosso rumore, là sotto”. Ciò spaventò i due topi che cominciarono a correre per scappare anch’essi. Così succede a noi; non ci chiediamo perché una banconota abbia quel valore, ma semplicemente ne conveniamo rispondendo, “Beh, tutti pensano così”. Le cose non hanno una naturale esistenza di per se stesse, ma la mente però vi si attacca. Così la storia continua, mentre tutti gli animali si misero a correre, si imbatterono in un leone che chiese loro perché stavano scappando. Essi risposero che vi era stato un terribile rumore nel lago, al che il leone disse, “Bene, ma era solo un rumore. Forse avreste dovuto investigare che razza di rumore era, prima di scappare via”. Allora essi tornarono al lago e videro il ramo che galleggiava sull’acqua. Allo stesso modo, tutti noi pensiamo sempre, “questo è buono, questo è cattivo” e così via. Se analizzassimo questi nostri pensieri e vedessimo che tutte queste cose non hanno una loro vera esistenza in se stesse, la nostra mente potrebbe finalmente diventare pacificata senza i klesha, e così si otterrebbe la libertà dalle illusioni e potremmo realizzare la vera natura delle cose.

Come esempio di originazione interdipendente, potremmo pensare, “Mi sento molto felice in questo ambiente. In altri posti, invece mi sento depresso e nostalgico”. Per mezzo dell’originazione interdipendente, vediamo che sperimentiamo i luoghi come piacevoli o spiacevoli. Quando si medita, tuttavia, non vi sono pensieri di piacevole o spiacevole, e non si hanno pensieri di voler andare in luoghi piacevoli o meno. Al contrario, si ha la realizzazione che tutti i luoghi sono la stessa cosa e così si ha uno stato di pace, senza la sofferenza derivante dai pensieri di voler stare in un posto più o meno desiderabile. Vi è un’altra storia da raccontare. Il Buddha aveva un fratello più giovane di nome Nanda (non Ananda, che era suo cugino), il quale aveva una moglie di nome Pundarika a cui era molto legato. Il Buddha gli propose di venire ad ascoltare gli insegnamenti, ma Nanda non volle andare perché aveva paura che questi insegnamenti gli imponessero di diventare un monaco e quindi avrebbe dovuto lasciare la sua bellissima moglie. Un giorno il Buddha andò a casa sua per dirgli, “Tu devi venire con me!”. Grazie ai suoi miracolosi poteri, il Buddha portò Nanda in una giungla piena di scimmie senza occhi. Il Buddha chiese a Nanda, “Cosa pensi che sia più gradevole, queste scimmie o tua moglie?”. Nanda rispose, “Non c’è nessun paragone, mia moglie Pundarika è 100.000 volte più gradevole di queste scimmie”. Allora il Buddha, con i suoi miracolosi poteri, portò Nanda al reame del Paradiso degli dei, pieno di bellissime dee, e gli chiese, “Chi è più bella, Pundarika o queste dee?” e

Nanda rispose, “Beh, adesso che vedo queste dee, Pundarika e le scimmie sembrano più uguali”. Questo è il modo in cui l’interdipendenza fa sembrare alcune cose piacevoli ed altre sgradevoli. Gli oggetti sono mere creazioni della mente e dimostrano come le cose, in fondo, siano solo concetti mentali.

L’approccio Vajrayana ci dice che se uno esamina i fenomeni con una logica stringente e stabilisce che essi sono vuoti, potrà ottenere la comprensione della vacuità, ma non otterrà la diretta esperienza di vacuità, perché questo metodo logico richiede tempi lunghi. Nell’approccio Vajrayana i fenomeni esterni sono ragionati come vuoti, ma la vera pratica è di osservare la mente. La mente è la fonte di ogni felicità e di tutte le sofferenze; la sorgente di ogni desiderio e di tutte le rabbie; l’origine di tutto l’amore e la compassione; qualunque cosa succeda proviene direttamente dalla mente. Quando prima di tutto, si esamina la mente, si arriva a pensare che essa deve essere ben potente per poter creare tutto questo. Tuttavia, guardando all’interno, siamo del tutto incapaci di trovare la mente; essa non è all’esterno del corpo, né all’interno e nemmeno in mezzo, tra dentro e fuori. Quindi la mente è vuota, la mente E’ VACUITA’.

Purtuttavia, quando si dice che la mente è vuota, non significa che la mente NON esiste, come nel caso delle “corna della lepre” che, ovviamente, non esistono per davvero. La vacuità della mente non è come il vuoto dello spazio che non ha niente in esso. Piuttosto, la natura della mente è una spontanea chiarezza. Quando cerchiamo di trovare direttamente la vera natura della mente, non ci riusciamo, perché essa è insieme chiarezza e vacuità. Quando esaminiamo la mente, essa non è esattamente insensibile o inconsapevole come una pietra, ma vi è un ininterrotto “continuum” di intelligente chiarezza. La mente di solito è piena di pensieri e problemi, ma quando uno ha compreso la vacuità e la chiarezza della mente, allora tutto diventa molto pacificato e pieno di benevolenza. Perciò i testi dicono che il vipashyana, nel Vajrayana, ha la natura della beatitudine.

Lo studio della vacuità nei Sutra è lo studio della PrajnaParamita, e così via. Negli insegnamenti del Tantra o del Vajrayana, la realizzazione della vacuità è completata dall’osservarsi la mente stessa. Solitamente uno pensa che la mente sia molto forte e potente, specialmente quando sorgono tutti i pensieri e le emozioni disturbanti (klesha). Ma, quando la si esamina per vedere dov’è realmente la mente, si trova che lì, ove si cerca, non vi è nulla, solo uno stato di pace. Questo è chiamato lo stato di grande beatitudine, perché vi è un’assenza di klesha e sofferenza. Quando si medita, si potrebbe pensare, “Non posso meditare bene perché stanno arrivando un sacco di pensieri”. Ma quando uno esamina da dove stanno venendo questi pensieri e che cosa sono in realtà, si trova che essi proprio non esistono, sono come aria impalpabile. E’ proprio questo, lo stato naturale di pace.

Quando Thrangu Rimpoche era un bambino, il suo insegnante gli disse che tutti i fenomeni erano vuoti, ma Rimpoche pensò che ciò fosse impossibile e che non era esatto. Anni più tardi, quando cominciò a studiare i testi, egli realizzò che i fenomeni dopo tutto erano veramente vuoti, però la mente non poteva essere vuota. Vi sono così tanti pensieri e vi è un potere in tutti questi pensieri e sensazioni, per cui è impossibile che la mente possa essere vuota. Ma, dopo aver ricevuto le istruzioni per meditare e analizzare la mente, egli la realizzò, “Oh, è vero, la mente è proprio vuota!”. Quindi, prima uno scopre che i fenomeni sono vuoti, poi analizza la mente e trova che anch’essa è vuota. Con questa analisi è facile comprendere la vacuità della mente, ciò che è difficile è abituarsi e familiarizzarsi con questa comprensione. Solo analizzare la mente per vedere che la sua natura è vuota, non è di molto beneficio; anzi quando si soffre non è molto di aiuto semplicemente pensare, “La natura della sofferenza è la vacuità”. Ma se uno abitua nel profondo la propria mente alla comprensione della vacuità, allora i veleni pensanti della mente saranno eliminati e la sofferenza sarà pacificata.

Perciò, in questa vita, diversi klesha, come la rabbia ed altri, sono ormai già comparsi e sono stati presi per reali. Talvolta la rabbia diventa così forte, che ci fa cadere sotto il suo potere e ci fa dire cose tremende o perfino ci fa colpire o uccidere qualcuno. Nel Vajrayana, se sorge la rabbia, si pensa, “Prima io cadevo sempre sotto il suo potere, ma stavolta mi metterò a vedere la rabbia per determinare che cos’è, da dove viene e dove è collocata adesso”. Quando si esamina la natura della rabbia in questo modo, si scopre che la rabbia non può essere trovata; si crede di poter dire, “Ecco, questa è la rabbia”, oppure “Questa è ciò che appare come rabbia”, “Vedi, la rabbia sorge da qui” o anche “La rabbia è creata da questo…”. Però, veramente, è come vedere qualcuno in un film – vi è l’apparizione di una persona, ma in realtà non vi è nessuno lì. Nello stesso modo, vi è l’apparizione della rabbia, ma in realtà essa lì non c’è. Per realizzare questo, circa la rabbia, non si deve cercare di analizzarlo logicamente, ma bisogna proprio esaminare direttamente la natura della rabbia in se stessa.

Vi sono sei klesha o veleni mentali fondamentali. Il primo è la rabbia, così uno deve cercare prima dove e in che modo la rabbia appare, da dove proviene, dove si trova adesso, e così via. Si deve fare la stessa cosa per il secondo klesha, che è il desiderio o la brama per gli oggetti esterni. Il terzo klesha è l’ignoranza (cioè la non-conoscenza) ed il quarto è la superbia. Il quinto klesha è il dubbio, o incertezza, il quale ha una forma positiva ed una negativa. Il sesto è la visione, ovvero la credenza, di un sé, cioè l’attaccamento al sé. Queste sono le sei radici dei veleni mentali, così come descritte nei commentari. Perciò per ciascuna di esse, si deve cercare prima da dove fuoriescono, dove si

stabiliscono e dove alla fine se ne vanno. Questa meditazione analitica è ciò che permette di realizzare la natura dei veleni mentali. Quando si è ottenuta questa realizzazione, si deve restare con la propria mente in questa realizzazione. In questo modo si otterrà la realizzazione della vacuità delle cose, descritta spesso come unione di saggezza e vacuità (Vidyaprajna e Sunyata). A questa unione (vidyasunyasambheda) si deve unire la chiarezza (bhasvara), un’attività che anch’essa non ha una reale vera natura, poiché è essa stessa vacuità. La chiarezza che permette la conoscenza è proprio una funzione, non una cosa reale; è come una qualità, un attributo e non vi è una base reale per questa qualità. Vi è un processo di conoscenza, ma non vi è un conoscitore che conosce. Oltre a questa sua natura, vi è solo vacuità; perciò si ha questa unione di chiarezza e vacuità, o questa unione di conoscenza e vacuità. Atisha, nelle sue istruzioni alla meditazione, dice che normalmente noi pensiamo che la mente sia una combinazione di pensieri prodotti nel passato, nel presente e nel futuro. Noi accorpiamo questi pensieri in un insieme e pensiamo che questo insieme sia la mente. Se analizziamo questo, però, troviamo che i pensieri del passato non esistono più, se ne sono andati e non sono più presenti e quindi, essi sono ovviamente non più esistenti. I pensieri del futuro non sono ancora stati creati e perciò essi sono naturalmente vuoti. Quindi ciò che si ha, è soltanto il presente che è comunque un brevissimo periodo di tempo. Esaminare la mente presente è una cosa difficilissima da fare, perché non si trova nulla con qualche colore, peso, forma o natura quale che sia, quindi si scopre che la mente del presente ha la natura della vacuità. Quando si osserva la mente, si può vedere che non vi è nulla realmente in essa. Avendo compreso la natura della vacuità grazie alla meditazione analitica, cerchiamo adesso di vedere chi è che sta conoscendo, chi è che ha questa comprensione e, nello stesso modo, si potrà vedere che il conoscitore non esiste. Quindi si ha una indivisibilità di conoscenza e vacuità. Ciò è chiamato “discernere o discriminare saggezza e vacuità, discriminare prajna e sunyata (nota 5).

Vi sono delle persone speciali (Siddha), vale a dire compiuti Maestri Vajrayana, che hanno detto che quando si osserva direttamente la rabbia, la rabbia scompare. Anche la rabbia ha la sua propria vacuità e consegue il suo naturale stato vuoto. Precedentemente, era stato detto che non c’è un rimedio diretto che possa essere applicato alla rabbia e ciò è esatto solo nel contesto della meditazione Hinayana e Mahayana. Ma nella meditazione Vajrayana questo rimedio c’è ed è l’osservare direttamente nella natura della rabbia.

NOTE AL CAPITOLO 4°4) Vi è una differenza nella comprensione della vacuità, che dipende dall’uso del punto di vista Hinayana o Mahayana. Secondo Chandrakirti, la sola differenza tra queste due visioni è il grado di realizzazione ed il maggior numero di pratiche che si eseguono nel Mahayana. Ma la qualità della comprensione della vacuità è identica. All’inizio del testo Madhyamakavatara, Chandrakirti scrisse però che una sia pur minima differenza vi era. Verso la fine del testo egli riferisce dei due tipi di “mancanza del sé”: la mancanza del sé individuale come viene realizzato dagli sravaka e la mancanza del sé dei fenomeni del Mahayana. Quindi vi sono due diversi punti di vista tra i Tibetani su questo significato. Alcuni dicono che, secondo Chandrakirti, gli sravaka realizzano la vacuità dei fenomeni. Altri interpreti dicono di no, che essi non realizzano la mancanza del sé dei fenomeni, ma solo quella del sé individuale. Perciò, vi è una differenza su questo punto tra gli studiosi Tibetani. Thrangu Rimpoche crede che gli sravaka non realizzino la mancanza del sé dei fenomeni. Egli asserisce questo in base ai suoi studi del Madhyamakavatara, usando il commentario di Lama Mipham che è della sua stessa opinione. D’altra parte, Lama Tzongkhapa non è d’accordo con questa visione, mentre l’ottavo Karmapa, Mikyo Dorje, per esempio, dice che gli sravaka non realizzano la mancanza del sé dei fenomeni.

5) Una volta che una persona abbia raggiunto lo Stato di Buddha, avrà chiarezza, proprio nel sapere che tutto è vacuità. Non si può realmente cercare e trovare questa saggezza, questa chiarezza, ma il potere della mente è ancora lì presente. Questa saggezza è chiamata ‘Jnana’ in Sanscrito, o ‘Ye-she’ in Tibetano. Perciò, vi è questo ‘jnana’, ‘perfetta saggezza’, e poi vi è amore compassionevole, e questo è il potere. L’amore ha il potere, perché è amore unito al potere, non l’amore come quello di una madre inerme che sta cercando di salvare il proprio bambino.

6) Ci si potrebbe chiedere se anche il Dharma stesso è vuoto. La risposta è che gli insegnamenti del Dharma non hanno, in se stessi, la natura della vera esistenza. Quando si ricevono gli insegnamenti di Dharma, si hanno benefici da essi, solo se si mettono in pratica. Ascoltare gli insegnamenti, senza metterli in pratica, ha solo il mero valore di ascoltare parole, oppure se essi sono scritti in qualche libro, sono solo segni di inchiostro nero sulla carta bianca. Perciò essi, in se stessi, non hanno valore. Prendendo un altro esempio, cos’è che rende di valore la preziosa esistenza umana? Il corpo umano, in se stesso, ha ben poco valore, ma quando è messo in uso può avere un grande valore. I commentari dicono che gli insegnamenti sono come un battello. Anticamente i battelli erano fatti esternamente con pelli di cuoio che però non erano di grande valore. Ma il valore del battello era che si poteva attraversare un fiume da una riva all’altra. Allo stesso modo, il Dharma e la preziosa esistenza umana sono di valore – pur non avendo valore in se stessi, si possono ottenere grandi vantaggi con essi se vengono usati, e perciò possiedono un grande valore.

CAPITOLO 5: CATEGORIE E METODI DELLA MEDITAZIONE VIPASHYANA

CATEGORIE DI VIPASHYANA

Vi sono tre categorie principali di vipashyana: vipashyana delle quattro nature, vipashyana delle tre porte e vipashyana delle sei investigazioni.

Le quattro nature o essenze di vipashyana sono descritte nel Sutra “Spiegazione della Visione” e nel “Compendio dell’Abhidharma” di Asangha. In queste analisi vi sono due categorie di vipashyana – Differenziazione e Differenziazione Totale. Ciascuna di queste categorie ha due aspetti – Esame e Analisi – pertanto le categorie in tutto sono quattro. La Differenziazione implica la comprensione, ossia la Prajna, che è in grado di distinguere e discriminare tra tutti i vari tipi di fenomeni. Differenziazione Totale è la comprensione, o Prajna, che distingue la reale natura di tutti i fenomeni. Esame significa ottenere la comprensione di qualcosa ad un livello di evidenza e Analisi significa ottenere la comprensione ad un livello più sottile.

Quindi le quattro nature di questo vipashyana sono: 1) Differenziazione tramite Esame; 2) Differenziazione tramite Analisi; 3) Completa Differenziazione tramite Esame, e 4) Completa Differenziazione tramite Analisi. Nel Sutra “Spiegazione della Visione” , ciascuna di queste categorie è suddivisa ancora per quattro, così da fare 16 categorie totali. La prima categoria (differenziazione tramite esame) è divisa in quattro gradi di esame chiamati a) perfetto esame, cioè fatto molto bene; b) esame definitivo, in cui risulta una più completa comprensione; c) perfetta valutazione, cioè comprensione ancora più completa, e d) valutazione dell’essenza, che è la comprensione finale. Questi quattro gradi sono poi applicati a tutte e quattro le essenze di vipashyana, portando quindi il totale a 16.

Nel “Compendio dell’Abhidharma”, Asangha dà una descrizione del vipashyana con quattro essenze, in termini dei loro effetti, vale a dire, in termini delle loro attività. Asangha descrive le prime due essenze di vipashyana, differenziazione e completa differenziazione, come rimedi per le tendenze negative della mente (dausthulya) verso la concettualizzazione dei fenomeni. Le altre due essenze di vipashyana, tramite esame e tramite analisi, eliminano ciò che va eliminato, cioè le errate convinzioni circa i fenomeni, cosicché eliminate queste, si è in grado di restare in una comprensione senza errori.

Nel Sutra “Spiegazione della Visione” vi è poi la descrizione del vipashyana delle Tre Porte o Vie di Accesso. In questo Sutra, Maitreya chiede al Buddha, “Quanti tipi di meditazione vipashyana vi sono?” Il Buddha replica che ve ne sono tre tipi. Primo, il vipashyana che sorge dalle caratteristiche concettuali. Per esempio, se uno medita sulla mancanza del sé, non può semplicemente pensare all’argomento, ma deve contemplare le ragioni, le prove e le caratteristiche della mancanza del sé. Penetrando queste particolarità e riflettendoci su, si sarà in grado di sviluppare una certa conoscenza della non esistenza di questo sé. Si svilupperà l’insight o visione profonda, che sorge dal contemplare le caratteristiche concettuali di qualcosa. Il secondo vipashyana delle tre porte è l’insight o visione profonda, che sorge dall’investigazione. Una volta che uno ha sviluppato la certezza della prima porta, arresta poi la propria mente in questa certezza e questa è la seconda porta. La terza porta sorge dall’analisi. Grazie alla familiarizzazione ed abitudine nei riguardi della certezza, ci si ferma direttamente all’interno della comprensione della mancanza del sé.

Successivamente vi è vipashyana delle sei investigazioni nelle caratteristiche delle cose. Da queste sei investigazioni sorgono tre tipi di comprensione. La prima è “l’investigazione del significato” delle parole del Dharma, in cui si scopre il significato che c’è oltre le parole. La seconda è “l’investigazione delle cose”, cioè dei fenomeni esterni ed interni, riferiti alla mente ed agli eventi mentali. La comprensione della mente avviene tramite la comprensione delle otto coscienze. La comprensione degli eventi mentali è la comprensione dei klesha, cioè delle negatività della mente. L’investigazione degli oggetti esterni è la comprensione delle esperienze sensoriali esterne, quali visione, suono, odore, gusto e sensazioni fisiche. Cosicché questa è la comprensione dei cinque aggregati di forma, sensazione, percezione, eventi mentali e coscienza, le dodici ayatana (porte dei sensi) che sono le sorgenti della percezione, e così via. La terza è “l’investigazione delle caratteristiche”, in cui si esamina l’oggetto più in dettaglio, per esempio scoprendo che la coscienza visiva percepisce un oggetto visibile, la coscienza uditiva percepisce un suono, ecc. si esaminano le vere caratteristiche di tutti i diversi aspetti con maggiore precisione. Per esempio, si investiga sulla forma visibile e la si identifica come oggetto della coscienza visiva. Generalmente, vi

sono due tipi di saggezza – la saggezza della vera natura delle cose e la saggezza della varietà delle cose. Prima si deve esaminare ogni oggetto esterno ed interno per arrivare alla comprensione delle loro qualità. Quando si ha questa comprensione, poi si può comprendere la loro vera natura.

I prossimi tre tipi di realizzazione vertono sulla realizzazione della reale natura delle cose. Essi sono “investigazione della direzione”, “investigazione del tempo” e “investigazione tramite il ragionamento”. Noi possiamo comprendere facilmente la vacuità con le investigazioni di direzione e di tempo. Di solito, noi pensiamo che vi è il nord, il sud, l’est e l’ovest e crediamo che le direzioni abbiano una reale esistenza. Ancora, parliamo di “qui e là”, come se vi fosse realmente un “qui” ed un “là”. Ma possiamo fare un esame più ravvicinato prendendo, per esempio, questo tavolo di legno che sta davanti a Rimpoche. Si potrebbe dire che il tavolino sta sul lato ad est della sedia. Ma se muoviamo un po’ questo tavolo, allora potremmo dire che ora si trova a nord. Benché queste siano idee consolidate di direzionalità, in effetti, la direzione non ha una realtà solida. Così l’investigazione della direzione porta ad una comprensione della vacuità.

La seconda investigazione della natura delle cose è l’investigazione del tempo. Di solito si pensa che vi sia il passato, il presente ed il futuro, oppure si pensa in termini di un giorno, un mese, un anno e così via. Ma quando si esamina tutto ciò un po’ più da vicino, si scopre che, oltre ad essere una proiezione concettuale sulle cose, il tempo in se stesso non ha una sua propria realtà.

La terza investigazione della natura delle cose è quella tramite il ragionamento. Il Buddha disse che i suoi insegnamenti dovevano essere esaminati e non presi per cieca fiducia. Per esempio, se una persona compra dell’oro, non sarebbe buona cosa accettare semplicemente la parola del venditore che garantisce l’oro. Si dovrebbe testarlo da se stessi, scaldandolo con la fiamma, per vedere se cambia colore. L’oro può avere dentro un metallo diverso, così si dovrà estrarlo tagliandolo e, infine, potrebbero esservi alcune piccole particelle non di oro nella mescola. Quindi, si dovrebbe sfregarlo contro una pietra per vedere se è oro puro. Allo stesso modo, il Buddha disse che i suoi insegnamenti non avrebbero dovuto essere presi semplicemente sulla fiducia, ma ci si dovrebbe impegnare in un processo di indagine al fine di ottenere una comprensione della reale natura delle cose. Una volta ottenuta questa comprensione, allora la si deve mettere in pratica.

Vi sono quattro tipi di investigazione con l’uso del ragionamento. I primi due tipi sono correlati a qualcosa che sorge a causa dell’attività. Il primo è il “ragionamento di dipendenza” e riguarda la legge di causa ed effetto. Usando questo ragionamento si evince che la propria vita attuale è dovuta agli eventi della vita precedente. Siccome questo è duro da provare e da comprendere, il Buddha insegnò la legge di causa ed effetto, in cui si ragiona che se qualcosa esiste, essa è dipendente, e ciò significa che deve essere derivata da una causa o condizione precedente. Per esempio, un fiore non appare da se stesso; esso è dipendente sulle precedenti condizioni di un seme, dal terreno, aria o acqua, e così via. Molte cose devono mettersi insieme perché il fiore possa venire ad esistere. Qualunque cosa esiste, è un effetto dipendente da precedenti cause e condizioni. Ciò è vero sia per il nostro corpo che per la mente, che sono gli effetti di precedenti cause e condizioni nelle nostre vite precedenti.

Il secondo tipo è il “ragionamento di funzione”. Questo è il ragionamento di effetto dipendente e significa che un effetto dipende da una particolare causa. Dal conoscere questo ed il primo tipo di ragionamento, si può essere in grado di essere felici ed evitare la sofferenza comprendendo che ogni causa ha un effetto ed ogni effetto ha una causa. Negli insegnamenti del Buddha si trova l’esempio in cui Guru Rimpoche pratica il mantra OM YE DHARMA HETU TRABOWA, che può essere tradotto con, “Tutti i fenomeni sorgono da una causa”. Il Buddha insegnò che ogni fenomeno è un effetto che è dovuto sorgere a motivo di una certa causa. Il mantra continua dicendo, “tutte le cause sono state spiegate dal Buddha”. Questa è la seconda frase del mantra. Se si desidera ottenere una perfetta felicità, bisogna essere in grado di scoprire la causa corretta di questa felicità. Per fermare la sofferenza che, a sua volta, è un effetto di cause, bisogna bloccare la causa della sofferenza. Quindi, negli insegnamenti del Buddha, si può scoprire come eliminare la sofferenza ed ottenere la felicità e questo va fatto grazie ai due tipi di ragionamento – il ragionamento della causa che ha un effetto ed il ragionamento di un effetto che è dipendente da una causa. Ciò significa che qualunque cosa che esiste creerà un risultato o una funzione. Perciò, tutti gli oggetti esterni, o interni come la mente, dovranno creare risultati nel futuro ed il primo ragionamento delle condizioni precedenti è la prova delle vite precedenti, mentre il secondo ragionamento delle funzioni, è la prova delle vite future.

Il terzo tipo di ragionamento è il ragionamento di validità, ovvero come si riconosce se qualcosa è reale. Vi sono tre sottotipi di questo terzo ragionamento: a) Si può sperimentare qualcosa direttamente tramite il vedere, l’udire o uno degli altri sensi, e ciò è chiamato “validità direttamente percepita”; b) Vi sono cose che non si possono sperimentare direttamente con i sensi, ma si comprendono tramite una deduzione logica e ciò è chiamato “validità dedotta”. Esempi di questo tipo di validità sono la comprensione della vacuità dei fenomeni, o il fatto che debba essere esistita una vita precedente. c) Il terzo tipo di ragionamento è chiamato “validità basata sull’autenticità

scritturale”, perché si ottiene la comprensione studiando gli insegnamenti del Buddha e di maestri realizzati ed eruditi. In Sanscrito vi è il termine “pramana” che significa “conoscenza valida”. A tal riguardo vi erano due grandi Maestri in India –Dighnaga e Dharmakirti. Dighnaga diceva che vi erano tre tipi di conoscenza valida – quella che è percepita direttamente, quella che è ottenuta tramite ragionamento deduttivo e quella che è ricevuta tramite l’autorità delle Scritture. Poi, l’altro grande Maestro Dharmakirti disse però che vi erano solo due tipi di conoscenza valida – la conoscenza diretta e la conoscenza con analisi deduttiva, poiché l’autorità scritturale è una comprensione tramite esame ed analisi che, di fatto, è un effetto dell’esperienza diretta. Perciò, l’autorità scritturale è compresa in entrambi i primi due tipi di conoscenza e non è una terza categoria separata.

Il quarto tipo di ragionamento è la ragione di natura intrinseca. Vi sono due tipi di questa ragione: natura intrinseca relativa e natura intrinseca assoluta. Un esempio dell’aspetto relativo è il fatto che il fuoco è rovente e brucia. Ci si potrebbe chiedere, “qual’è la ragione per cui il fuoco scotta e brucia?” Non vi è alcuna altra ragione se non che questa è la natura intrinseca del fuoco. In modo simile, ci si potrebbe chiedere, “Perché l’acqua è bagnata?”; il fatto che l’acqua è proprio bagnata è dovuto alla natura intrinseca dell’acqua. E così è per tutti i fenomeni, poiché la natura di tutti i fenomeni è vuota, la vacuità è la natura intrinseca di tutti i fenomeni. Non vi è una particolare ragione del perché ciò è vero, ma è solo qualcosa che deve essere realizzato.

Per esempio, all’inizio non si ha una definita conoscenza dell’assenza del sé o della vacuità. Grazie al processo del ragionamento, si può sviluppare una comprensione definitiva dell’impermanenza e dell’assenza del sé. Questo è un processo di logica per ottenere la comprensione di tutto ciò. Quindi c’è un ragionamento che porta a provare l’autenticità di qualcosa tramite lo stabilire le corrette ragioni, e così via. Col penetrare questi quattro ragionamenti, si sviluppa la certezza e questa è una meditazione analitica. Tramite questa meditazione analitica si ottiene la chiarezza. Talvolta, però, esagerando troppo con questa meditazione analitica, diminuisce la propria stabilità mentale. Se ciò dovesse accadere, si dovrebbe eseguire più meditazione non-analitica (cioè sintetica) in cui si arresta la mente senza fare analisi concettuali e, questo porterà subito maggior stabilità nella mente.

Dunque, vi sono sei tipi di investigazioni – investigazione del significato, delle cose, delle caratteristiche, delle direzioni, del tempo e del ragionamento - che possono essere usati per ottenere una comprensione dei fenomeni relativi e assoluti. Il vipashyana può anche essere riassunto in due tipi – vipashyana preparatorio e vipashyana reale. Il vipashyana preparatorio, chiamato anche vipashyana discriminante, è una fase di preparazione in cui si investiga e si analizza con la logica e tramite questo ragionamento si sviluppa una comprensione ben definita. Nel vipashyana reale, chiamato anche samadhi imperturbabile, si ottiene la comprensione e la mente è disponibile a dimorare in questa definitiva comprensione.

Il vipashyana delle quattro essenze o nature, quello delle tre porte e quello delle sei investigazioni sono meditazioni analitiche. In generale, vi sono due tipi di meditazione – vi è la meditazione analitica dei Sapienti Pandit e la meditazione sintetica (non-analitica), che è la meditazione diretta dei Kusala, ovvero puri Yogi. La meditazione analitica dei Pandit si genera quando uno esamina e analizza una certa cosa finché si sviluppa una chiara comprensione di essa. Ciò facendo si ottiene una adeguata e duratura comprensione in modo che non vi sia pericolo di commettere errori. Tuttavia, il sentiero dei Pandit richiede un tempo assai lungo. La meditazione diretta dei Kusala si sviluppa dal sapere come meditare e quindi si medita in maniera intensiva. Quest’altro metodo è assai più veloce, ma vi è il pericolo di commettere errori e di andare fuori strada. Perciò normalmente si comincia con l’analisi e l’esaminazione delle ragioni e delle prove, finché non si sviluppa una definita comprensione. Poi ci si familiarizza con questa comprensione e su queste basi si da inizio alla meditazione diretta.

Tanto per fare un esempio, nella meditazione analitica si medita sulla mancanza del sé e, cercando di “individuare” il sé, si arriva ad intuire che esso non esiste né all’interno, né all’esterno e nemmeno in mezzo a queste posizioni. Ciò è simile alla meditazione shamatha, in cui si focalizza la mente su un oggetto, oppure si arresta la mente sul flusso interno ed esterno del respiro. In modo simile, quando ci si ferma sulla assenza del sé, la mente è mantenuta focalizzata e unidiretta su questo, quindi la mente si arresta in se stessa e si sviluppa l’esperienza e la certezza della mancanza del sé. Ecco perché è chiamata meditazione analitica.

Meditazione analitica, inoltre, non vuol dire soltanto ascoltare, ricevere e contemplare gli insegnamenti. Anzi, essa è una definitiva visione interiore fusa insieme con la meditazione shamatha, in cui si focalizza la mente sul respiro e su nessun oggetto in particolare. Qui accade che si ha una ben definita conoscenza ottenuta grazie alla deduzione analitica. Questa conoscenza è unita insieme con la stabilità mentale di shamatha e si medita sull’unione di queste due, e questo è ciò che si intende con meditazione analitica.

La meditazione diretta, non-analitica, è chiamata in Sanscrito “Kusulu-dhyana”, ed in Tibetano “tro-mè”, e significa “senza complicazioni”; ciò sta ad indicare che è assai semplice, senza analisi e insegnamenti particolari. In questo caso, la mente è completamente rilassata e senza alcuna necessità di analizzare, riflettere o comprendere

qualcosa; di conseguenza la mente resta in pace nella sua propria natura. Nella tradizione dei Sutra, vi è tanto la meditazione non-analitica quanto quella diretta e non-analitica.

METODI DI MEDITAZIONE

La base della meditazione vipashyana è uno stato di samadhi, uno stato meditativo senza concetti e pensieri. La sua qualità principale è che essa estirpa tutte le incomprensioni, i malintesi, errori ed omissioni che si possono avere. Nei testi si dice che bisogna avere la visione dell’assenza del sé e, senza questa visione, non si può sviluppare una genuina meditazione vipashyana. Quindi si deve sviluppare questa comprensione della mancanza del sé. I testi dichiarano che se non si ha questa comprensione di come dovrebbe essere diretta la meditazione, si è totalmente inermi di fronte ad un precipizio e si cadrà inevitabilmente di sotto. Perciò la base della meditazione è la definitiva comprensione dell’assenza del sé. Bisogna prima riconoscere questo, poi contemplarlo finché non si ha la definitiva convinzione dell’assenza del sé. Quando si è sviluppata questa comprensione, la mente sarà in grado di arrestarsi su questa convinzione – completamente rilassata e calma. Se si ha questa convinzione, ma si hanno pensieri concettuali circa questa visione, non si sarà in grado di ottenere segni o risultati di completamento della meditazione, in quanto non si è capaci di eliminare le oscurazioni (klesha). Perciò i testi dicono anche che se uno è istruito ed ha studiato e compreso la visione dell’assenza del sé, ma non vi ha meditato nel giusto modo, allora è come un miserabile che, pur avendo enormi ricchezze, a causa della sua avarizia, non ne fa alcun uso. Un miserabile che ha tutto questo denaro, ma non ne ha nessun vantaggio è come se non ne avesse per niente. Non solo egli non usa tutta quella ricchezza, ma non ne fa godere neanche gli altri perché non dona niente a nessuno. Allo stesso modo, se uno ha la comprensione e la visione dell’assenza del sé, però senza la meditazione non gliene deriva nessun beneficio da ciò e non sarà in grado di sviluppare la saggezza che elimina i klesha. Oltretutto non può nemmeno beneficiare gli altri perché non è capace di seguire il sentiero e ottenere l’illuminazione.

In sintesi, per sviluppare la visione dell’assenza del sé, si deve meditare. Prima bisogna studiare gli insegnamenti sulla mancanza del sé, poi analizzare e contemplarli finché si sviluppa una precisa comprensione di questa visione. Poi si deve rimanere con la mente focalizzata su questa visione, ma in uno stato completamente rilassato. Questo fermarsi della mente è come una unione di stabilità e visione interiore, l’unione di shamatha e vipashyana. Bisogna bilanciare la meditazione analitica che sviluppa chiarezza e stabilità di mente. Troppa meditazione analitica tende a ridurre la stabilità, perciò bisogna rilassare la mente con uno stato meditativo non-analitico. D’altro canto, troppa meditazione statica e non-analitica tende a diminuire la chiarezza e perciò si rischia di sprofondare nel torpore. Quindi, bisogna trovare un equilibrio tra meditazione analitica e meditazione statica, per sviluppare sia chiarezza che stabilità, e questo farà diventare la mente assai potente. In generale, la pratica principale di tutte le scuole del Tibet era prima di analizzare ripetutamente gli insegnamenti per sviluppare una comprensione della visione e poi di arrestare la mente nella meditazione di stabilità.

La vacuità è l’essenza degli insegnamenti di Dharma perché è il mezzo col quale si eliminano tutti i difetti ed i veleni mentali. Quindi, la mancanza del sé e la vacuità sono estremamente importanti. È anche probabile che si commettano errori che diventano ostacoli nella propria comprensione della legge del karma e nella pratica delle buone azioni, perché si potrebbe pensare, “Tanto, tutto è vacuità e niente esiste, quindi a che serve praticare il Dharma”. Invece, avere questo tipo di convinzione è un grosso pericolo, perché significa che non si è per nulla compreso la vacuità e l’assenza del sé. Nagarjuna disse che la vacuità deve essere compresa correttamente, altrimenti se ne avranno effetti assai negativi. In India, i Siddha solevano afferrare con le mani serpenti velenosi e grazie al potere dei loro mantra erano in grado, tenendo in mano il serpente, di fare miracoli e di apportare prosperità. Senza il potere della meditazione e dei mantra, chiunque avrebbe tenuto in mano uno di quei serpenti velenosi, sarebbe stato morso. Allo stesso modo, se si comprende bene la vacuità si avrà uno sviluppo ottimale della meditazione e della saggezza, ma se uno ne ha una comprensione sbagliata, il serpente velenoso della non-comprensione con i conseguenti pensieri, lo morderà e ciò sarà molto pericoloso per la sua mente e per la corretta pratica del Dharma.

Perciò, nella pratica di Dharma, si hanno accumulazione di meriti e accumulazione di saggezza. La prima si ottiene con la pura motivazione e la seconda con la pratica di shamatha e vipashyana. Avendo una motivazione speciale come oggetto della propria pratica, si sviluppa la fede e si pronunciano mantra di preghiera e di offerta. Questo creerà condizioni favorevoli per la meditazione, che potrà diventare molto chiara e si svilupperà verso la corretta comprensione della mancanza del sé e della vacuità. Altrimenti la meditazione non potrà essere buona e non si potrà fare nessun progresso. Ecco perché per avere una buona accumulazione di saggezza, occorre prima una buona accumulazione di meriti e, per guadagnare meriti occorre avere un buon pensiero, una buona motivazione e una disponibilità a fare buone azioni. Per la legge di causa ed effetto, ogni buona azione e buon pensiero verso gli

esseri, si trasformerà in buoni meriti e buon karma, da poter utilizzare in buone meditazioni, onde ottenere una corretta comprensione e saggezza.

Nella tradizione Gelugpa del monastero Ganden, vi è un approccio nel restare in meditazione, in cui si pensa che la conoscenza acquisita nella meditazione sulla mancanza di un ego, debba essere mantenuta mentalmente, ripetendo continuamente la frase, “questo è come questo e quello è come quello”. Ciò serve a mantenere mentalmente l’insegnamento anche quando la meditazione si dirige verso lo stato di calma e di rilassamento. Come già accennato precedentemente, quando si è sviluppata la meditazione shamatha, diversi e numerosi pensieri e immagini di eventi interni ed esterni appaiono nella mente. Questi sono chiamati “immagini non-esaminate” e ciò significa che esse non sono vere immagini esterne, ma solo apparenze di cose, immagini che sorgono nella mente. Nella meditazione vipashyana si fermano queste immagini e le si analizza onde sviluppare la certezza che esse non hanno vera esistenza in se stesse. Perciò, in questo metodo, la mente è rivoltata verso l’interno. Per esempio, se nella propria mente arriva l’immagine di una colonna, si deve pensare, “Ok, questa è una colonna, ma questa colonna non ha realtà in se stessa”, e così via, per tutto ciò che appare. Tutto ciò che appare si esamina e si vede che non ha esistenza per suo proprio potere. Bisogna che nella meditazione vi sia una conoscenza discriminante così che tutte le cose sono viste come distinte una dall’altra. Occorre questa conoscenza discriminante perché si deve essere in grado di focalizzarsi su particolari oggetti nella meditazione. Nessuna cosa viene mescolata o sovrapposta, per cui le cose non ritornano ad essere vaghe, indistinte o non chiare.

Possono esservi eventi mentali positivi ed eventi mentali negativi e, inoltre, vi sono eventi sempre presenti nella mente ed altri che sono transitori. Vi sono 51 diversi eventi mentali (vedi Tabella 3), di cui Samadhi e Prajna sono due di questi. Ciò significa che chiunque quindi può avere samadhi e prajna nella propria mente, ma ciò che differisce tra individuo ed individuo è la potenza e la durata di questi due eventi. Si può aumentare il potere del proprio samadhi, di modo che la propria mente divenga più stabile. Anche il fattore mentale di Prajna, cioè Conoscenza Superiore, si trova nella mente di ogni persona, ma deve essere sviluppato ed accresciuto col samadhi, così si può ottenere una chiara e precisa comprensione. Bisogna avere entrambi questi fattori per sviluppare vipashyana, col samadhi che porta stabilità e prajna che porta la capacità di analizzare i dettagli e di sviluppare una completa comprensione di qualunque cosa si manifesti.

Nel “Compendio dell’Abhidharma” di Asangha, è detto che vipashyana possiede insieme samadhi e prajna. In quanto ai fenomeni, ve ne sono di due tipi: quelli percepiti (come ad esempio un suono) e quelli che percepiscono (come ad esempio l’orecchio). La sesta coscienza contiene le cose che sono percepite. Perciò, tutto ciò che è percepito nella e dalla mente è anche classificato come un “percetto”. Vi sono sei tipi di “percetti” (visione, suono, odore, gusto, sensazioni corporee e oggetti della sesta coscienza). All’interno si ha la Coscienza che è il percipiente e quindi, per esempio, un oggetto visibile è visto dalla Coscienza mentale tramite la coscienza visiva e l’organo di senso della vista. Dunque, vi sono cinque coscienze sensoriali e la coscienza mentale che identifica e seleziona ciò che è buono e ciò che è cattivo, ricorda ciò che ha visto, e così via. Talvolta la mente si focalizza sugli oggetti percepiti all’esterno i quali, allorché essi appaiono, sono in realtà vuoti – non possiedono realtà. Ciò è chiamata l’indivisibilità esterna di apparenza e vacuità. Qui vacuità non significa che non vi è apparizione, ma che la natura dell’apparenza è vacuità. Per esempio, quando si sogna un elefante, la natura di quell’elefante è vacuità, perché non vi è assolutamente realtà in esso. Se qualcuno ci chiede che cosa stavamo sognando, e noi diciamo “un elefante”, questo dimostra che vi è stata un’apparenza dell’elefante. Ma la reale natura di quell’elefante è solo vacuità. La stessa cosa avviene quando vediamo con la coscienza visiva la stessa forma. Ciò che rimane impresso nella nostra coscienza visiva è solo vacuità, perché l’elemento di realtà-esistente della forma vista è solo dimostrabile con la stessa coscienza che mantiene il ricordo, per cui la realtà in se stessa della forma, non può essere percepita. Ecco perché nel Sutra del Cuore è detto che “La forma è vacuità e la Vacuità è forma”.

TABELLA 3 – I 51 FATTORI MENTALI ( Skrt. CHAITTA)

I Cinque Fattori onnipresenti (Sarvatraga)

1) Sensazione (vedana)

2) Discernimento (samjna)

3) Intenzione (chetana)

4) Contatto (sparsha)

5) Concatenazione mentale (namaskara) Le Sei Radici Contaminanti (Mulaklesha)

22) Attaccamento (raga)

23) Aggressività o Rabbia (pratigha)

24) Superbia (mana)

25) Ignoranza (avidya)

26) Dubbio (vichikitsa)

27) Visione afflitta (drishti) I Cinque Fattori Determinanti (Viniyata)

6) Aspirazione (chhanda)

7) Fiducia (adhimoksha)

8) Memoria o Ricordo (smrti)

9) Stabilizzazione (samadhi)

10) conoscenza Suprema (prajna)

I Quattro Fattori Mutevoli (Aniyata)

28) Pentimento (kaukrtya)

29) Sonnolenza (middha)

30) Esaminazione (vitarka)

31) Analisi (vichara)

Gli Undici Fattori Virtuosi (Kushula)

11) Fede (shraddha)

12) Vergogna (hri)

13) Imbarazzo ( apartrapya)

14) Distacco (alobha)

15) Non-avversione (advesha)

16) Non-confusione (amoha)

17) Sforzo gioioso (virya)

18) Docilità (prasrabdhi)

19) Coscienziosità (apramada)

20) Equanimità (upeksha)

21) Non-nocività (avihimsa)

Venti Contaminanti Secondari(Upaklesha)

32) Collera (krodha)

33) Risentimento (upanaha)

34) Occultamento (mraksha)

35) Ripicca, Dispetto (pradasha)

36) Gelosia (irshya)

37) Bramosia (matsarya)

38) Falsità, Inganno (maya)

39) Disonestà (shathya)

40) Presunzione (mada)

41) Nocività (vihimsa)

42) Svergognatezza (ahrikya)

43) Apatia (styana)

44) Agitazione (auddhatya)

45) Sfiducia (ashraddhya)

46) Pigrizia, Indolenza (kausidya)

47) Incoscienza (pramada)

48) Dimenticanza (mushitasmrtita)

49) Distrazione (vikshepa)

50) Non-Introspezione (asamprajanya)

51) Repulsività (dvesha)

IL PERCETTORE INTERNO

Un esempio di meditazione sul percettore interno è la meditazione sulla rabbia. La rabbia sorge e la si esamina non con una comprensione ordinaria, ma con la conoscenza discriminante. Ci si chiede da dove è sorta e qual è la sua sorgente, non in termini di “E’ colpa di quella persona che mi ha fatto questo e mi ha fatto arrabbiare”, ma proprio in termini di voler sapere da quale parte di noi, da dove mai è venuta fuori quella rabbia. Si cerca la sua immediata origine e si cerca poi dove si è posizionata adesso. E’ forse nel corpo, o fuori di esso, o tra dentro e fuori? Si analizza con la prajna discriminante e si cerca di scoprire la sua collocazione e la sua natura _ “Cos’è, che colore ha, che forma?”. E di sicuro, in maniera semplicistica, non si può situarla o scoprire la sua natura, perché la sua natura è unione indivisibile di vacuità e consapevolezza. Con la consapevolezza si vede che nella rabbia vi è una energia molto chiara e che, al tempo stesso, essa è vuota di realtà perché non si può afferrare, non è identificabile in qualche posto. Con la propria coscienza discriminante si scopre che, alla fine, anche la rabbia è solo una fusione di consapevolezza e vacuità (vedi Nota 7).

Questo stesso modo di meditare è usato anche per tutti i sei principali veleni mentali (klesha). Il primo è la rabbia, il secondo è l’attaccamento alle cose esterne, come il cibo, la ricchezza, il sesso e, internamente al proprio corpo, alle proprie opinioni, ecc. Quando si esamina l’attaccamento allo stesso modo in cui si è esaminata la rabbia, non si è in grado di trovare alcuna realtà in esso e parimenti si scopre che anche l’attaccamento altro non è, che l’unione di consapevolezza e vacuità. Il terzo veleno mentale è la superbia che fa vedere se stessi superiori a chiunque altro ma, ad un esame più ravvicinato, anch’essa non è altro, che l’unione di consapevolezza e vacuità. Il quarto veleno mentale è l’ignoranza, che è alquanto diverso dagli altri perché è più onnipervasivo e non sorge così vividamente. Vi sono due tipi di ignoranza – ignoranza mista e ignoranza isolata. Se l’ignoranza è accompagnata ad un altro veleno mentale, come la rabbia e quindi non ci permette di essere consapevoli sia della rabbia che dell’ignoranza stessa e non può impedirci di fare errori derivanti da questa ignoranza della rabbia, allora questa è ignoranza mista. Invece, l’ignoranza isolata, è proprio quella primordiale e spontanea che non ci fa comprendere la vera natura dei fenomeni. Ad un esame più attento, si può vedere che anche l’ignoranza non ha una vera realtà solida ed è, essa stessa, unione di consapevolezza e vacuità. Il quinto veleno mentale è il dubbio o indecisione, che significa che qualunque cosa su cui si posi la nostra mente, non sarà in grado di farci prendere una decisione. Anche qui, vi sono due tipi di indecisione, favorevole o sfavorevole. Indecisione favorevole è quando si pensa che qualcosa sia probabile, mentre indecisione sfavorevole è quando si pensa che sia improbabile o impossibile. Quindi, in una scelta decisiva, l’incertezza favorevole alla fine ci farà dire “sì”, mentre quella sfavorevole ci costringerà al “no”. Anche questo veleno, comunque, esaminato da vicino dimostra l’inseparabilità di consapevolezza e vacuità. Il sesto veleno mentale è la Visione afflitta (o errata). Questa è una visione distorta come, per esempio, l’idea “Io esisto”. Quindi vi è un giudizio erroneo, un’idea sbagliata in cui si crede e che, quando la si esamina più da vicino con la comprensione discriminante, potrà essere vista anch’essa come priva di realtà e come indivisibile unità di consapevolezza e vacuità.

Nella meditazione vipashyana, si medita sui veleni della mente che alla fine, vengono riconosciuti come inseparabili dalla loro natura di consapevolezza e vacuità, come il profilo delle montagne nel cielo e, allo stesso modo, si può quindi meditare anche sui pensieri neutrali.

I pensieri neutrali sono pensieri che non possono essere definiti buoni, ma nemmeno cattivi. Vi sono due tipi di pensieri neutrali: pensieri neutrali creativi e pensieri neutri di attività. I pensieri neutri creativi sono, per esempio, “Voglio mangiare”, “Ho sonno”, ecc., mentre quelli di attività sono, per esempio, “Devo tornare a casa”, oppure “E’ ora di andare a dormire, o a mangiare”. Questi pensieri sono neutri, però possono anch’essi essere esaminati per vedere chi è che sta pensando quei pensieri e dove questi pensieri sono posizionati. Così si scopre che la natura dei pensieri neutri è priva di realtà ed è, ancora, una indivisibile unità di consapevolezza e vacuità.

Quindi si passa ad esaminare la comprensione interna dell’indivisibilità di consapevolezza e vacuità e la comprensione esterna dell’indivisibilità di vacuità ed apparenza. La conoscenza discriminante comprende questa indivisibilità e realizza in seguito che la conoscenza discriminante non ha essa stessa realtà, sicché la mente si arresta di fronte al percipiente, al percepito ed alla comprensione di questi due. Per esempio, nel passato qualcuno può aver sfregato tra loro due bastoncini per fare un fuoco e quando il fuoco si è acceso, ha bruciato anche i due bastoncini. Allo stesso modo, la comprensione dell’indivisibilità di consapevolezza e vacuità e di vacuità ed apparenza, alla fine ha solo la natura della vacuità. Nelle istruzioni alla pratica di Atisha, egli dice che la mente del passato ha cessato di esistere e la mente del futuro non è ancora venuta all’esistenza. La mente del presente è difficile da esaminare perché non ha colore, né forma e né ubicazione. È proprio soltanto come lo spazio – è inesistente e non è nessuna delle molteplici cose. Però, anche se il pensiero è vuoto, la chiarezza della mente non

cessa mai. Vi è sempre questa continua chiarezza della mente e la mente non diventa mai svuotata o inerte come una pietra, anche se poi non si può ubicare da dove proviene questa chiarezza.

Lo stato meditativo di vipashyana è descritto come non avente alcuna apparenza, nel senso che vi è la realizzazione dell’inseparabilità di vacuità ed apparenze e che le apparenze non hanno alcuna realtà da parte loro. Ma, a dispetto di questa vacuità, vi è sempre l’incessante chiarezza della mente che, pur non avendo realtà in se stessa, nella meditazione è pur sempre libera da ogni complicazione o elaborazione. Essa è “non-esistente”, ma anche non è “non-esistente”, come pure non è sia “esistente” e “non-esistente” e, infine, non è “né esistente, né non-esistente” insieme. Essa è completamente libera da queste quattro complicazioni ed è né una cosa creata e neppure qualcosa che cessa. Dato che tutto ciò che esiste deve essere stato creato, allora deve anche morire o cessare di esistere. Ma nella chiarezza della mente non vi è nulla che è nato o che possa morire. Grazie a questa realizzazione si possono eliminare i difetti della meditazione, quali la pigrizia o l’agitazione e, rimossi questi, non vi sarà più l’attaccamento o l’aggrapparsi al sé. La mente non penserà più che qualcosa sia buono e debba essere afferrato o qualcos’altro sia cattivo e debba essere rifiutato. Questo è ciò che si intende con meditazione Vipashyana.

IL COMPLETAMENTO DI VIPASHYANA

Gampopa disse che, per ottenere la visione definitiva, bisogna osservare la natura della mente. Non vi è alcun senso nel cercare in qualche altra parte. Vi è una storia Tibetana riguardo a questo fatto. C’era una volta un uomo chiamato Je, che significa “Forte”. Egli, infatti, era veramente molto forte, ma stupido, ed aveva un gioiello incassato nella sua fronte. Quando si stancava per il troppo lavoro, la pelle della fronte si ripiegava su se stessa e copriva completamente il gioiello. Allorché egli cercò con le mani di toccare il gioiello, non poté sentirlo perché la pelle lo aveva completamente coperto e quindi pensò di averlo perduto. Andò così in cerca del gioiello, ma ovunque cercava non poteva trovarlo. Allo stesso modo, è detto che per ottenere la visione definitiva, bisogna guardare nella propria mente e non vi è nessun altro posto dove poterla cercare, se non in se stessi.

Quando uno ha questa realizzazione della mente, allora è detto che in essa vi sono solo caratteristiche e non vi è nessuna apparenza. Nessuna apparenza significa che quando uno osserva la mente, non può trovare che esista alcunché di reale. Quindi vi è soltanto l’aspetto di chiarezza che è consapevolezza dell’assenza di qualunque vera esistenza. Questa è una consapevolezza che non cesserà mai né mai andrà perduta perché, essendovi assenza di ogni elaborazione o fabbricazione, significa che non vi è nessuna complicazione nella propria vita, dato che si è realizzato che non vi è nulla di realmente esistente. Quindi, si può dire che non vi è la complicazione della non-esistenza, in quanto è sempre presente l’aspetto di chiara conoscenza e perciò non si può dire che tutto è completamente vuoto, un “vacuum o un nulla di alcunché”, perché vi è questa chiarezza e questa consapevolezza. Ecco perché la mente realizzata è libera da ogni complicazione o elaborazione, perché non ha esistenza, ma non è nemmeno non-esistente, quindi in realtà non ha una reale natura.

Il Terzo Karmapa, Ranjung Dorje, dice nella sua “Preghiera Mahamudra” che la mente è non-esistente perché essa non può essere vista dai Buddha, quindi la mente non ha vera esistenza come una cosa, perché se la esaminiamo non possiamo trovarla. Quindi, non solo noi non possiamo trovare la mente, ma nemmeno i Buddha lo possono. Allora si potrebbe pensare che, se la mente non esiste come una cosa, allora essa deve essere non-esistente. Ma la seconda riga di questo versetto dice che la mente non è non-esistente, perché essa è la base del samsara e del nirvana. Quindi essa non è non-esistente, perché nella mente sorgono tutte le apparenze del samsara e la via per uscire dal samsara. Dunque non può essere non-esistente. Anche l’ottenimento del Nirvana, lo Stato di Buddha, la conoscenza della vera natura e della varietà multiforme dei fenomeni, si sviluppano nella mente. Quindi, non è non-esistente. La terza riga del verso dice che non vi è contraddizione nel dire che la mente non è esistente e né non-esistente. In effetti, questa non è una contraddizione. Questa è la Via di Mezzo, che è libera dagli estremi di esistenza e non-esistenza. Perciò, il significato in questa “Preghiera Mahamudra” del Terzo Karmapa è identico a quanto detto in questo testo. Esso spiega che questa consapevolezza è completamente senza la mentalità di pensare “c’è questo”, “c’è quello”, “questo è buono”, “questo è cattivo”, e così via. Non vi è alcun tipo di attività mentale, o di impegnativa mentale o di attenzione nel pensare. Tutto ciò è stato eliminato e la consapevolezza è in un completo stato di rilassamento. Dunque, si deve restare in meditazione in questo modo; e questo è il modo in cui Atisha descrive la meditazione ed il sentiero che si dovrebbe praticare.

Precedentemente, essere “ben addestrati” è stato descritto come la caratteristica del completamento di shamatha. Anche il completamento di vipashyana può essere detto come lo stato “completamente addestrato”. Si può essere capaci di meditare, ma poi, successivamente, non lo si fa più bene a causa della perdita della chiarezza, oppure perché la mente diventa pigra, oppure si perde il desiderio di meditare. Ma quando uno ha raggiunto lo stato di flessibilità di essere ben addestrato, allora la mente si impegna volontariamente in vipashyana e questo vipashyana

stesso porta chiarezza e comprensione. Quindi, finché non si è raggiunta la flessibilità dello stato “ben addestrato”, non si ottiene il vero Vipashyana, che poi è lo stato “completamente addestrato”. Il testo dice ancora che la natura di questo vipashyana ed il modo in cui è generato, sono già stati spiegati nella sezione di shamatha. Nei termini dell’Abhidharma, si può dire che “essere ben addestrati” è un evento mentale e quindi tutti gli esseri lo possiedono in ogni caso, ma ciò che differenzia gli esseri nel possederlo è la estensione di tempo. Alcuni individui si impegnano naturalmente in cattive azioni ed altri, altrettanto naturalmente producono buone azioni. Ma finché non ci si impegna da un certo tempo ad una buona meditazione, non potremo essere “ben addestrati” poiché questa tendenza non ci è naturale. Quindi dobbiamo abituarci a meditare per poter avere nella nostra mente questa shamatha e vipashyana. Il vipashyana “ben addestrato” si svilupperà gradualmente dall’inizio con sempre più intensità. Il Samadhi, la comprensione, l’attenzione e la consapevolezza sono anch’essi tutti eventi mentali naturalmente presenti, ma devono essere incrementati, così prima si sviluppa la meditazione shamatha e poi si sviluppa vipashyana. Lo sviluppo di un “ben addestrato” vipashyana è descritto nel Sutra “Spiegazione della Visione”, il quale dice che vi sono due tipi di realizzazione. Vi è la realizzazione dell’intera molteplicità dei fenomeni, e questo è l’aspetto relativo. Così, la comprensione dell’impermanenza, i cinque aggregati, con i dodici anelli dell’originazione interdipendente sono raccolti in questa conoscenza della molteplicità dei fenomeni. Per sviluppare questa conoscenza, bisogna per forza avere una mente perfettamente addestrata. Poi vi è la realizzazione della vera natura dei fenomeni, e questo è l’aspetto ultimo. Anche per avere questa realizzazione è necessario avere una mente perfettamente addestrata. Perciò, per entrambe le realizzazioni bisogna ottenere lo stato completamente addestrato; se non lo si ha, non si possono ottenere queste due realizzazioni e perciò non si potrà avere il genuino vipashyana. Solo lo sviluppo ed il raggiungimento dello stato completamente addestrato è la prova del completamento di vipashyana.

Per concludere, vi è uno stato “ben addestrato” in cui si è in grado di eseguire la meditazione vipashyana senza una particolare difficoltà o avversità, anzi essa sarà molto gradevole e facile da farsi. Quindi, quando facciamo la meditazione vipashyana, non deve esservi difficoltà mentale o fisica e questo è il segno del completamento della meditazione vipashyana.

NOTA AL CAPITOLO 5

7) Lo Stato di Buddha, o Buddità, è uno stato mentale chiamato anche “Liberazione” che, però, non è un qualcosa che si può avere o raggiungere come uno stato che non si aveva prima. Liberazione è la realizzazione della vera natura dei fenomeni senza alcuna concettualità indotta. Poiché la mente umana ordinaria non realizza questo naturale stato reale dei fenomeni, essa è in una condizione di illusione credendo nell’esistenza di ciò che non esiste. Una volta che si realizza questo stato naturale, ecco che si manifesta immediatamente la liberazione dal samsara. Perché ciò avvenga, bisogna prima analizzare i fenomeni tramite il ragionamento. Per mezzo di questa analisi, si otterrà la comprensione della vera natura dei fenomeni; però, anche avendo questa comprensione, non si avrà ancora la familiarizzazione o l’abitudine a ciò. Quindi, è necessario abituarsi e convincersi nel profondo della natura reale dei fenomeni, della loro non-esistenza intrinseca, prima di poter raggiungere la completa liberazione. Il grande Tilopa, chiese a chi gli mostrava un seme di sesamo, “Si, ma dov’è l’olio di sesamo?”. L’olio di sesamo risiede nel seme, ma non si può avere l’olio di sesamo semplicemente masticando il seme di sesamo. Per ottenere l’olio di sesamo, bisogna battere, schiacciare e triturare il seme. Così è per lo Stato di Buddha: esso è all’interno di tutti noi, ma per ottenere la liberazione, ci si deve prima applicare intensamente nella meditazione per realizzarla.

Un altro esempio di liberazione, è la parabola del serpente e della corda. Se in una stanza buia vi è una corda attorcigliata, è probabile che vedendola, si possa pensare che sia un serpente e da ciò ne deriverebbe grande spavento. Questo spavento sorge a causa dell’illusione che la corda sia un serpente. Per essere liberi da questa paura, si deve realizzare che “il serpente” è, in realtà, una corda e non dovrà essere presa nessun’altra soluzione, quale il prendere un’arma, o prendere un antidoto per il veleno del serpente, oppure tentare di fuggire. Appena si realizza che il serpente è solo una corda, allora la paura se ne andrà spontaneamente. Questo accade in maniera naturale, anche se nella corda non vi è stato alcun cambiamento, né prima né dopo. La sola differenza, è che prima si era preda dell’illusione e dopo si è scoperta la verità. Perciò, per ottenere la completa pace dello Stato di Buddha nella mente, bisogna ascoltare gli insegnamenti e seguire i metodi insegnati dal Buddha e, costantemente contemplandoli, si può rimuovere l’illusione ed ottenere la realizzazione della vera natura della mente.

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PARTE TERZA

CAPITOLO 6° - L’UNIONE DI SHAMATHA E VIPASHYANA

E’ possibile ottenere l’illuminazione con solo meditazione shamatha? No, non è possibile raggiungere la completa realizzazione con la sola meditazione di shamatha. E si può raggiungerla con solo meditazione vipashyana? Nemmeno, non si può sviluppare la saggezza dello Stato di Buddha che porta all’illuminazione, con la sola meditazione vipashyana. Ciò che è necessario, è prima studiare shamatha e poi studiare vipashyana, e successivamente, si deve praticare l’unione di shamatha e vipashyana, per ottenere l’illuminazione finale. Questo capitolo è diviso in tre parti: la pratica dell’unione di shamatha e vipashyana, i tempi dell’unione e, infine, i diversi tipi di meditazione analitica e non-analitica di shamatha e vipashyana.

LA PRATICA DELL’UNIONE

L’unione di shamatha e vipashyana è, in realtà, l’unione di stabilità e visione profonda della mente. La mente è quieta, immobile ed in pace, ma non nel modo ordinario, essa è ferma e immobile nella saggezza del Dharmadhatu. Nella tradizione dei Sutra vi sono quattro diversi sistemi di istruzioni, dati da quattro diversi maestri, su come eseguire questo. Le istruzioni variano, ma sono d’accordo sul fatto che si deve praticare l’unione di shamatha e vipashyana. Sono i quattro maestri Indiani – Bhavaviveka, Shantideva, Kamalasila e Chandrakirti, tutti maestri del Madhyamika, che furono impegnati a dare una precisa comprensione della vacuità. Nel Madhyamika, vi erano due scuole maggiori – Svatantrika e Prasangika. In sintesi, la scuola Svatantrika diceva che a livello della verità ultima, nulla ha una vera esistenza mentre, a livello relativo le cose esistono. Quindi, la scuola Svatantrika è coinvolta nei concetti di esistenza e non-esistenza. La scuola Prasangika, invece, credeva che anche le cose non avessero vera natura ed i fenomeni fossero solo apparenze e che, a parte la loro apparenza, non hanno alcuna reale natura. Insomma, tutte le cose sono soltanto apparenze. Quindi i Prasangika non erano affatto coinvolti con concetti di esistenza o non-esistenza.

Jamgon Kongtrul presenta prima la visione di Bhavaviveka, della scuola Prasangika. Il suo metodo per sviluppare l’unione di shamatha e vipashyana, consiglia prima di meditare su amore e sgradevolezza, ecc. Questo metodo fu descritto nella sezione sui rimedi contro l’attaccamento in cui, per esempio, si medita sull’amore per superare l’attaccamento alla rabbia e si medita sulla sgradevolezza per superare l’attaccamento ai piaceri sensuali. In questo modo, una persona sviluppa quindi la meditazione shamatha. Poi vi è l’analisi dei fenomeni. Nell’analisi dei fenomeni esterni si ottiene una comprensione dell’inseparabilità di apparenza e vacuità delle cose. Nell’analisi dei fenomeni interni si ha la comprensione dell’inseparabilità di consapevolezza e vacuità del percipiente.

Santideva, nel Bodhisattvacaryavatara (Stile di Vita di un Bodhisattva), dice che per sviluppare shamatha bisogna imparare lo sviluppo di Bodhicitta. Vi è un bodhicitta relativo ed un Bodhicitta assoluto, e shamatha si sviluppa tramite il bodhicitta relativo. Questo significa che si deve pensare che tutti gli esseri desiderano la felicità e desiderano essere liberi dalle sofferenze. Ma, siccome non conoscono ciò che causa le sofferenze e ciò che apporta felicità, essi restano nelle condizioni di sofferenza a causa della loro ignoranza. Quindi, si sviluppa la motivazione di aiutare tutti gli esseri a diventare liberi dalla sofferenza e ad ottenere la felicità. Comunque, siccome non si ha veramente ancora l’abilità per fare questo, così si pratica il Dharma perché la pratica del Dharma insegnerà come poterlo fare. Quindi si pensa che si sta cercando di realizzare lo scopo di aiutare tutti gli esseri ad ottenere lo stato di Buddha. Questo è lo sviluppo del bodhicitta relativo.

Shamatha è dunque sviluppato grazie alla generazione del bodhicitta relativo. Dopo aver raggiunto lo stato completamente ben addestrato di questo shamatha tramite il bodhicitta relativo, ci si muove verso vipashyana. Tramite lo sviluppo di vipashyana arriva la realizzazione di vacuità. Ciò è simile all’analisi di Bhavaviveka sui fenomeni esterni ed interni, per raggiungere la comprensione dell’inseparabilità di vacuità ed apparenza e l’inseparabilità di consapevolezza e vacuità, rispettivamente.

Il terzo sistema, quello di Kamalasila, è ampiamente praticato e si trova nel secondo volume degli “Stati di Meditazione". Come già discusso precedentemente, si sviluppa shamatha tramite l’arresto della mente su un oggetto esterno, come un’immagine del Buddha, ecc., poi su un oggetto interno, come il respiro, e così via. Quindi, questo tipo di pratica rende la mente ferma e calma. Avendo sviluppato shamatha fermando la mente su un oggetto, esterno o interno, si sviluppa poi vipashyana, in cui si analizza e si esamina la mente che si è arrestata in shamatha. Così si

riconosce che non vi è alcuna mente da poter individuare e si ottiene la comprensione dell’inseparabilità di consapevolezza e vacuità. Indi, si riconosce che, esaminando la mente, al pari di essa non vi è nessun’altra cosa che può essere individuata e quindi si sviluppa la meditazione vipashyana, grazie all’analisi delle sei radici dei veleni mentali, come è stato descritto nella sezione shamatha della tradizione di Atisha. Grazie a tutto ciò, si sviluppa pienamente vipashyana.

Chandrakirti fu un grandissimo maestro del Madhyamika che, tra gli altri, compose il testo “Entrata nella Via di Mezzo”. In questo testo egli dette avvio a numerosi tipi di ragionamenti (vedi Il Settuplice Ragionamento, n.d.T.) e analisi logiche sulla vacuità. Non solo egli ne dettò le ragioni, ma per eliminare l’attaccamento ai fenomeni da parte dei suoi discepoli, fece anche dimostrazioni pratiche. Vi era una pittura della Ruota delle Esistenze (un dipinto che mostra, in un cerchio diviso in sei parti, i sei regni dell’esistenza, formati da dei, asura, umani, animali, spiriti affamati ed esseri infernali, - n.d.T.) all’ingresso dei templi sacri. Nel passato, gli Esseri Nobili (Arhat) si recavano in visita in tutti e sei i reami e, quando tornavano indietro, descrivevano agli altri il modo in cui questi reami erano fatti, così che le persone ordinarie potevano ascoltare questi insegnamenti ed avere una precisa descrizione di questi sei reami di esistenza. Perciò il Buddha disse che all’ingresso dei Templi doveva esservi un dipinto che mostrava gli esseri dei sei reami, affinché gli umani potessero vederlo. Quindi, in quel cerchio, nel settore del reame degli animali, c’erano dipinte alcune mucche e Chandrakirti, un bel giorno, si mise a mungere una delle mucche del dipinto. Egli fu capace di mungere così tanto latte da farne bere a tutti. Questo miracolo egli lo fece per dimostrare che tanto la mucca del dipinto quanto una mucca reale, veramente non avevano entrambe alcuna autentica realtà. Perciò è noto che Chandrakirti non fu soltanto un grande erudito ma aveva davvero una grande realizzazione.

Il metodo di Chandrakirti è diverso dagli altri. In questo metodo si ascoltano gli insegnamenti e poi li si contempla, finché si ottiene la comprensione della vera natura delle cose. Per mezzo dell’ascolto e della contemplazione degli insegnamenti, si sviluppa la Prajna o comprensione della vera natura di tutti i fenomeni. Così si ottiene la visione che arriva dall’analisi della “talità” o “quiddità” delle cose. In questo modo, si sviluppa questa perfetta comprensione della vera natura dei fenomeni e, dopo aver ottenuto la giusta visione, si sviluppa la meditazione shamatha e vipashyana. Queste sono quindi, praticate sulla base di questa visione e cioè la reale comprensione della natura della mente.

In questi quattro sistemi, vi sono leggere differenze di istruzioni su come sviluppare shamatha e vipashyana, ma sono solo piccole differenze; in fin dei conti essi sono tutti concordi sul fatto che, prima di tutto, bisogna stabilizzare la mente, poi si sarà capaci di sviluppare l’insight di vipashyana e che queste due pratiche non sono separate, ma anzi esse sono riunite in una unione. Tutti e quattro i sistemi concordano che la pratica di shamatha è la causa e vipashyana è l’effetto, per cui è evidente che si debbano praticare insieme nella loro unione. Ciò significa che la mente deve essere uniforme e unidiretta e non distratta dagli altri pensieri. Questo significa anche, che si deve avere la mente come oggetto della propria meditazione e che non si deve pensare a qualcos’altro durante il tempo della meditazione. Questa unidirezionalità si manifesta quando si sta meditando, ma non quando si sta analizzando l’oggetto.

Vi è un Lama chiamato Mendong Sherab (ora non c’è più, essendo deceduto nel 1984 – n.d.T.), proveniente da Lachi, che è un luogo ove meditava Milarepa. Questo è un luogo davvero molto isolato, vicino al confine tra il Nepal ed il Tibet. Quando i Cinesi invasero il Tibet nel 1959, il confine fu chiuso e non vi era più alcuna via di passaggio tra i due Paesi. Quindi, quello divenne un luogo ancora più isolato, ove nessuno poteva andarci. Vi era lì una caverna, in cui Lama Sherab meditò per tre anni e, un giorno, quando egli si incontrò con Thrangu Rimpoche per raccontargli queste sue esperienze, quest’ultimo disse, “Devi aver avuto un mucchio di realizzazioni ed esperienze lì, dato che non c’era nessuno da poterti distrarre in quel posto”. Lama Sherab replicò, “Anche se si sta da soli in una caverna, la mente diventa distratta”. Quindi, se non si controlla la mente, essa si distrarrà continuamente. Ecco perché, quando si medita, è importante avere il controllo sulla mente, così che non diventi distratta. La meditazione deve essere fatta con un assiduo controllo per proteggerla dall’insorgere repentino dei pensieri.

Il testo descrive tutti i diversi tipi di shamatha e vipashyana, in quanto esso è “Il Tesoro della Conoscenza”, che presenta tutti i tipi di conoscenza. Le pratiche di cui sopra sono quelle insegnate nella tradizione dei Sutra. Nella tradizione Vajrayana, si pratica il sistema di Kamalasila, quello che usa un oggetto esterno, o interno, di meditazione. Perciò shamatha è generalmente sviluppato seguendo la pratica dell’osservare il proprio respiro.

Vipashyana è di solito praticato usando le diverse analisi degli oggetti esterni, per individuare la loro vacuità, nonché la consapevolezza e vacuità degli oggetti interni e tutti gli altri svariati metodi che sono stati descritti. Ma il sistema generalmente seguito nella tradizione Vajrayana è l’inseparabilità interna di consapevolezza e vacuità. Quando la meditazione è stabile, la mente resta nella sua naturale stabilità, ma talvolta i pensieri sorgono e la mente si mette subito in movimento. Si deve cercare di vedere qual è la natura del movimento della mente e questo non con

l’uso del ragionamento analitico e logico, ma avendo una diretta esperienza della natura della mente sia quando è immobile che quando è in movimento. Questo è l’usuale metodo seguito per lo sviluppo di vipashyana.

Non è necessario analizzare logicamente la mente per scoprire che essa non ha vera esistenza; si può solo tentare di cercare la mente e vedere che lì non c’è. Ma, al tempo stesso, vi è questo processo di conoscenza e consapevolezza. In Tibetano la mente si dice ‘sem’, ma è anche chiamata ‘she-pa’ che significa ‘ciò che conosce’. Perciò vi è questo conoscere, ma se uno cerca di trovare chi è che sta facendo l’azione di conoscere, non può trovare alcunché. L’attività del conoscere è incessante, ma non è possibile trovare alcunché che stia conoscendo, non si può conoscere chi sta conoscendo. Così, si può dire che questo sia il non-sé; la mancanza intrinseca del sé; dato che non c’è mente, c’è assenza del sé e questo è vacuità. Quindi, si può chiamare questa vacuità come inseparabilità di chiarezza e vacuità e questa ‘assenza del sé’, o non-esistenza dell’ego, come vacuità. Questa assenza del sé, la vacuità e l’inseparabilità di chiarezza e vacuità, sono cose che non sono mai state pensate veramente, da tempi senza inizio, e la nostra permanenza nel samsara è causata dal fatto che la nostra attenzione è costantemente rivolta altrove all’esterno. Ma, se facciamo lo sforzo di far ritornare a convergere su se stessa la mente, allora si vedrà questa assenza del sé e l’inseparabilità di chiarezza consapevole e vacuità. Tuttavia, questa vacuità non è una vacuità nel senso di un nulla di qualsiasi cosa, poiché vi è comunque l’interdipendenza dei fenomeni, vi è la consapevolezza con cui e di cui facciamo esperienza, vi sono le forme che possiamo vedere, i suoni che possiamo udire, e così via. Se, però, la nostra mente non è sotto controllo, allora nella stessa mente sorgono le oscurazioni (klesha). Quindi, tutte queste cose appaiono e la nostra esperienza di esse è come quella del guardare un film. In realtà, nella casa dentro un film non vi è nulla, eppure tutte quelle figure, suoni ed emozioni appaiono lo stesso nella nostra mente. Perciò, le apparenze sorgono, ma quando le si investiga più da vicino, si può vedere che esse non hanno vera esistenza, ma è soltanto una interdipendenza tra i fenomeni (proprio come il proiettore, lo schermo, la pellicola e gli altoparlanti del film).

Il Terzo Karmapa, Rangjung Dorje, descrisse la natura di shamatha e vipashyana nella tradizione Vajrayana. In shamatha vi sono sottili ed evidenti ondate di pensieri che man mano diventano sempre più pacificati. Egli disse che questa rappresentazione dei pensieri sottili o manifesti che poi si acquietano, è come il mare, in cui talvolta vi sono onde alte e impetuose e talvolta è calmo e senza onde. Quando queste onde cessano, vi è completa immobilità senza movimento alcuno. Allo stesso modo, si hanno talvolta pensieri subdoli e sottili e talvolta pensieri evidenti e impetuosi. Se questi diventano completamente pacificati, anche la mente diventerà totalmente calma e immobile come una mare sereno. Però, anche quando il mare è completamente calmo, potrebbe esservi un inquinamento, perciò bisognerebbe avere acqua pura e chiara che fluisce nel mare, per far sì che esso sia completamente puro. Allo stesso modo, anche se i pensieri della mente sono stati placati, potrebbe ancora esservi il difetto della pigrizia o di altri veleni e, quindi, occorre un perfetto shamatha per rimuovere i difetti e per produrre uno stato di chiarezza, unito insieme allo stato di calma e stabilità mentale.

Anche Rangjung Dorje descrive vipashyana come il guardare ripetutamente in qualcosa che non può essere vista, cioè la mente che deve essere analizzata ed esaminata, benché non se ne trovi traccia. Egli dice che uno deve continuamente osservare la natura della mente anche se nulla che abbia vera esistenza, potrà essere trovato. Osservando e indagando sulla vera natura della mente, si diventa liberi dal dubbio e dall’incertezza su che cosa sia la mente. Anzi, si sviluppa una chiara certezza proprio tramite il vedere la natura della mente, e questa è la meditazione vipashyana.

Allora, per sviluppare shamatha e vipashyana si deve avere diligenza ed applicare se stessi nella meditazione, senza andare da un metodo all’altro. La sola diligenza, tuttavia, non è sufficiente senza avere la vera pratica e le istruzioni essenziali come si trovano nel Guru Yoga (Nella tradizione Tibetana, di solito si inizia la pratica con i Quattro Fondamenti Ngon-dro che sono: 1) 100.000 prostrazioni, 2) 100.000 mantra di Vajrasattva, 3) 100.000 offerte del Mandala e 4) 100.000 pratiche di Guru Yoga). In questa pratica, si supplica il Guru affinché si sviluppi la devozione al Maestro. Dopo questa supplica e lo sviluppo della fede e devozione al Maestro, lo si deve visualizzare di fronte a sé risplendente di raggi luminosi color bianco, rosso e blu e, immergendosi in se stessi, si riceve così la benedizione del proprio Guru. Dopodiché bisogna trasformare tutto ciò nella meditazione, per cui se non si era capaci di sviluppare l’esperienza di shamatha e vipashyana, questa pratica di Guru Yoga potrà aiutare ad incrementare lo sviluppo di questa esperienza. La purificazione del proprio karma negativo e l’accumulazione di meriti saranno anch’essi in grado di aumentare lo sviluppo della meditazione e la conseguente eliminazione del karma negativo rimuoverà i klesha e gli ostacoli a shamatha e vipashyana. Quindi si dovrà fare la pratica di Vajrasattva e la pratica delle offerte del Mandala per agevolare la propria esperienza e la realizzazione. Questi Quattro Fondamenti, o Pratiche Preliminari sono molto importanti nella tradizione Tibetana, perché non essendo sufficienti la volontà e la diligenza iniziali, ci si deve aiutare con la fede e l’obbedienza al proprio Guru e lo sviluppo della mente Bodhicitta (la motivazione compassionevole che aspira ad aiutare tutti gli esseri nella via del Risveglio).

I TEMPI DELL’UNIONE DI SHAMATHA E VIPASHYANA

Il testo va avanti dicendo che vi sono due tipi di unione: shamatha e vipashyana con punti di riferimento e shamatha e vipashyana senza punti di riferimento. Shamatha con punti di riferimento significa che la mente si deve focalizzare su una immagine del Buddha, o sul proprio respiro, ecc. Vipashyana con punti di riferimento significa che si devono esaminare i fenomeni e differenziarli tra di loro. Quando sorgerà questa realizzazione vipashyana insieme con shamatha libero dai pensieri, allora vi è l’unione di questi due. Ma il principale tipo di shamatha e vipashyana è quello non-concettuale, cioè senza punti di riferimento. Questo tipo di meditazione è descritto da Rangjung Dorje, lì dove parla della mente che diventa calma e libera da onde di pensieri sia impetuosi che sottili. Questo è lo stato in cui si resta nella natura della mente senza alcun concetto, è lo stato di stabilità mentale di shamatha e lo stato del vedere che la mente non ha vera esistenza né realtà autonoma che è vipashyana. Questa presenza dello stato di pace e la realizzazione della natura della mente è l’unione di shamatha e vipashyana. In questo caso, shamatha è un aiuto per vipashyana e viceversa, perciò questo stato è chiamato unione di shamatha e vipashyana. Shamatha non-concettuale è la mente proprio dimorante in questo stato naturale di stabilità e Vipashyana non-concettuale è la comprensione dell’inseparabilità di apparenze e vacuità delle percezioni esterne e di inseparabilità di consapevolezza e vacuità del percettore interno. Entrambe sono necessarie per avere l’unione di shamatha e vipashyana non-concettuali riunite in una singola identità. Quando queste due meditazione sono riunite in una e praticate insieme, i testi dicono che la loro unione significa una unica entità, non solo che esse sono riunite l’una con l’altra, ma che proprio è impossibile differenziarle e distinguerle tra di esse. Se è presente shamatha non-concettuale è contemporaneamente presente vipashyana non-concettuale e viceversa.

Questa unione di shamatha e vipashyana è spiegata chiaramente da Kamalasila nel volume primo de “Gli Stadi della Meditazione”. Egli dice che quando si pratica la meditazione si vede la mancanza di un’essenza dei fenomeni. Essendo una spiegazione Madhyamika, ciò significa “vedere la vera natura dei fenomeni proprio così com’è” e, come fu anche riferito dal Buddha, “essere oltre pensieri e parole”. Oltre i pensieri vuol dire che non si può analizzarli concettualmente pensando che esistano, o che non esistano, o qualsiasi altra cosa. Oltre le parole significa che questo vedere trascende completamente la capacità di poter essere riferita con parole. Non si può dire, comunque, che i fenomeni sono non-esistenti dato che, vi è solo la consapevolezza della chiarità di mente. Anche se non vi è reale essenza dei fenomeni, non vi è in ogni caso, nulla che si può identificare come esistente o come non-esistente. Quindi si ha questo diretto ‘insight’ nella chiarezza e nell’assenza di qualsiasi vera essenza di realtà e questo è descritto come la vera visione profonda, cioè vipashyana. Il testo dice che quando nella meditazione si è in grado di vedere la reale natura dei fenomeni, di essere liberi dai difetti di agitazione e torpore e di poter rimanere senza sforzo in questa meditazione libera da ogni azione intenzionale, allora si è raggiunta l’unione di shamatha e vipashyana.

Il metodo di praticare l’unione di shamatha e vipashyana fu descritto anche da Milarepa nei sui Canti e, particolarmente, nel Canto dedicato a Nyma Paldar Bum. Costei era una donna con moltissima fede e con una esemplare abilità nel praticare il Dharma. Era anche assai in gamba nel fare domande acute ed intelligenti ed un giorno Milarepa la incontrò, mentre era intento ad insegnare a varie persone. Essa ebbe subito una grande fede in Milarepa e lo invitò a casa sua. Ivi giunti, subito cominciò a dire a Milarepa che era stufa di vivere nel samsara, che durante il giorno si annoiava preparando il cibo ed i vestiti e tutto questo fino a sera, quando andava a dormire. Però lei voleva praticare il Dharma e perciò chiese a Milarepa quale pratica avrebbe dovuto fare per arrivare ad ottenere la Buddità.

Milarepa dava spesso insegnamenti mediante canti spirituali (Doha) in cui usava molte metafore ed esempi. Quando Thrangu Rimpoche era giovane, il suo insegnante gli raccontò la storia di Milarepa che aveva lasciato il suo paese natale, e quando più tardi vi fece ritorno, la sua casa era stata distrutta, quindi egli ne vide solo le rovine. Rimpoche ascoltò la canzone in cui Milarepa descriveva la sua casa distrutta, come la mascella superiore di un leone e i dintorni della casa, come le orecchie di un asino. Quando Rimpoche ascoltò questo canto da bambino, pensò che era soltanto una metafora e niente di speciale. Più tardi, quando Rimpoche ritornò in Tibet e vide tutti gli edifici rovinati, pensò, “ Oh, tutto ciò sembra davvero come la mascella di un leone e orecchie d’asino, con tutti i pezzi di case crollati e sparsi in tronconi conficcati nel terreno!”. La metafora di Milarepa descriveva perciò perfettamente ciò che le rovine sembravano.

Ritornando alla nostra storia, Milarepa dette a Paldar Bum un insegnamento sotto forma di canto in cui usò quattro metafore o simboli. Prima le disse, “Guarda su in cielo. Il cielo non ha un centro su cui puoi puntare e nemmeno puoi determinare dove siano gli angoli del cielo. Similmente, la tua mente dimora in se stessa senza che vi sia un centro o un limite”. Poi le disse ancora, “Guarda le montagne. Sono completamente stabili e immobili. Allo stesso modo la tua mente deve essere ferma e stabile”. Come terza cosa le disse, “Guarda il sole e la luna. Essi non fluttuano nella loro luminosità, ma sono completamente chiari con la stessa intensità in ogni momento. Allo stesso

modo, la tua mente deve mantenere costante la sua chiarezza, senza fluttuazioni”. E, per ultimo, le disse, “Guarda il grande lago senza onde che è completamente calmo e immobile. Anche la tua mente dovrebbe essere così calma e immobile”. Milarepa non intendeva dire che lei doveva meditare realmente sul cielo, sulle montagne, sul sole e la luna o sul lago immobile, queste erano metafore per la meditazione che si dovrebbe avere, cioè la mente in silenzio nella meditazione non-concettuale. Quindi Milarepa disse a Paldar Bum di meditare senza concetti, e questo è l’aspetto shamatha. Poi, di guardare la mancanza di essenza dei pensieri e questo è l’aspetto vipashyana. In questo modo egli la istruì a meditare con l’unione di shamatha e vipashyana, dicendole di meditare senza pensieri.

Nyma Paldar Bum meditò e tornò da Milarepa con domande sul canto che egli le aveva dato. Lei disse che quando si mise a guardare il cielo, fu in grado di meditare nello stesso stato rilassato e libero del cielo. Ma, all’improvviso apparvero le nuvole e che cosa doveva fare, lei, riguardo alle nuvole? Poi disse che si era messa facilmente a meditare sulla visione delle montagne. Ma facendo questo, ad un tratto si accorse di vedere piante e alberi che crescevano sulle montagne, e che cosa avrebbe dovuto fare riguardo alle piante ed agli alberi? Lei disse ancora che aveva meditato sul sole e la luna ma, quando questi hanno le loro eclissi, cosa avrebbe dovuto fare lei riguardo all’eclissi? Infine, disse anche che era stata capace di meditare come il lago calmo, ma quando fossero apparse onde impetuose, cosa avrebbe dovuto fare riguardo alle onde? Il significato delle sue domande, naturalmente, era che lei era capace di meditare sulla mente, ma quando lo faceva, sorgevano pensieri e come poteva lei meditare su questi pensieri?

Milarepa replicò che era buona cosa che lei poteva meditare come il cielo con l’assenza di ogni centro e limite e, allorché apparivano le nuvole, non si dovrebbero vederle come diverse dal cielo perché esse sono proprio una emanazione o manifestazione dello stesso cielo. Se si riesce a realizzare e comprendere che la natura di queste nuvole è il cielo stesso, queste scompariranno spontaneamente. Se si è capaci di meditare sulle montagne, è buona cosa. Le piante e gli alberi che crescono sulle montagne non sono differenti dalla montagna; essi sono semplici manifestazioni o emanazioni della montagna stessa. Se si è capaci di meditare sul sole e la luna, ciò è ottimo, ma l’eclissi di sole e di luna non è altro che la natura stessa del sole e della luna. Infine, se si è in grado di meditare sul grande lago calmo, questo è eccellente anche perché, se sorgono le onde, queste sono solo il movimento del lago, quindi sono soltanto una sua emanazione o manifestazione. Non si possono trovare onde che non facciano parte del lago o del mare. Esse SONO il lago ed il mare. Quindi Milarepa concluse che se uno è abile nel meditare sulla mente, di sicuro appariranno dei pensieri, ma questi pensieri sono solo movimento e mutamento che avviene nella mente stessa. I pensieri SONO la mente, non sono nient’altro che la mente, manifestazione o emanazione della mente stessa. Quando uno non comprende i pensieri, questi sono come le onde sul lago; ma queste onde sono parte del lago; quindi, quando si comprende la loro natura ed il fatto che essi non hanno una vera essenza, allora si pacificheranno spontaneamente. Quindi bisogna comprendere che questi pensieri non sono separati dalla mente.

Ecco come Milarepa insegnò l’unione di shamatha e vipashyana. Dimorare senza pensieri è meditazione shamatha e vedere che la natura dei pensieri non è nient’altro che una manifestazione della mente è meditazione vipashyana. Dunque, questo canto è un insegnamento dell’inseparabilità di shamatha e vipashyana; esso non dice:- questo è shamatha, e questo è vipashyana -, ma insegna che entrambi sono una sola meditazione.

IL RISULTATO DELL’UNIONE DI SHAMATHA E VIPASHYANA

La realizzazione dell’unione di Shamatha e Vipashyana è più grande che non quella di shamatha e vipashyana presi da soli e, questo risultato, è chiamato “samadhi genuino”. Quando si ha il genuino samadhi, i periodi meditativi e post-meditativi sono armonizzati e si può restare in perenne meditazione; grazie alla familiarizzazione con questa condizione, si esce dalla meditazione seduta e si dà seguito alle attività giornaliere rimanendo in questo stato meditativo costante. Quindi questa mescolanza di meditazione e post-meditazione è il samadhi genuino – l’unione di shamatha e vipashyana.

Insegnamenti sulla meditazione furono portati da Marpa dall’India in Tibet. Marpa aveva avuto due insegnanti principali, - Naropa e Maitripa. Da Naropa egli imparò il Sentiero del Metodo, in cui vi erano svariati metodi da praticare per ottenere la realizzazione. Però, l’insegnamento di Maitripa enfatizzava la meditazione diretta, assai importante negli insegnamenti sulla meditazione, che si trova nel suo “La Talità di Maitripa”. In questo testo egli affermava che ciò che faceva raggiungere il risultato era il samadhi genuino e ciò sta a significare che l’unione di shamatha e vipashyana è il raggiungimento più alto che si può ottenere. Non vi è nulla di più elevato di questo, perché ciò che serve da realizzare è stato realizzato e ciò che bisogna eliminare è stato eliminato.

Il samadhi sviluppato con l’unione di shamatha e vipashyana, che è stata portata all’ultimo completamento, renderà liberi dalla schiavitù del samsara e farà ottenere lo stato del nirvana non-dimorante, che è la Buddità. Devesi

notare che alcune persone sono sì molto protese a studiare il Dharma ed a praticare la meditazione, ma non sono interessate a raggiungere la Buddità. Esse credono che lo Stato di Buddha sia contrapposto alla mondanità e che raggiungere la Buddità sia un qualche cosa di separato da questo mondo, per andare verso qualche regno metafisico o in qualche paradiso non ben identificato. Ma raggiungere la Buddità non è per niente così. La parola Tibetana per indicare “Buddha” è ‘sang-gyé”, con ‘sang’ che significa “chiarezza” e ‘ghyé’ che significa “sviluppo”, che è anche la sillaba principale. Ma i traduttori danno maggior significato alla sillaba ‘sang’, intendendo così che il Buddha sia realmente “chiaro”. Allora, il raggiungimento della Buddità ha, in verità, il significato di aver sviluppato questo samadhi dell’unione di shamatha e vipashyana, onde essere in grado di rimuovere tutti i difetti dei klesha e sviluppare la vera comprensione della natura dei fenomeni. Quindi, uno diventa “chiaro” di questi difetti e, questo è il significato della sillaba ‘sang’. Una volta che i klesha sono stati ben chiariti, tutta la saggezza e le positive qualità del Buddha si sviluppano e questo è il significato della sillaba ‘gyé’. La Buddità non significa andarsene in un reame puro fuori dal mondo, ma significa stare nel mondo ordinario con l’ottenimento dell’unione di shamatha e vipashyana. Nel Sutra “Spiegazione della Visione” è detto che, tramite shamatha e vipashyana si diventa liberi dalla schiavitù delle tendenze negative. Ora, noi stiamo vivendo nel reame umano, che è uno dei tre regni superiori (i regni degli déi, dei semidei e degli umani), ma se sono presenti i veleni mentali vi sarà ancora accumulazione di karma negativo e, accumulando karma negativo, il risultato sarà di dover tornare a rinascere in uno dei tre reami inferiori ( i regni degli animali, degli spiriti affamati e degli inferni). Quando ci si libera dei klesha, si diventa anche liberi dalla schiavitù delle Designazioni Concettuali. Per le persone ordinarie, la mente si aggrappa alle cose ed è così attaccata ai fenomeni, da non poter vedere la loro vera natura. Quindi la schiavitù delle propensioni negative e la schiavitù delle caratteristiche concettuali, sono affermate nel sutra “Spiegazione della Visione”, come le oscurazioni dei klesha e le oscurazioni alla conoscenza. Quando queste oscurazioni saranno rimosse, allora tutte le positive qualità quali la saggezza, la chiaroveggenza ed i poteri miracolosi potranno fare la loro comparsa. Ciò è come quando le nuvole che oscuravano il sole svaniscono, così che il sole può di nuovo splendere e brillare senza che venga creato nessun altro ostacolo. Allo stesso modo, schiarendo via tutte le oscurazioni della mente si permette alle qualità positive di tornare a rifulgere con il loro splendore.

In breve, ci si deve sedere in meditazione e focalizzare la propria mente sulla inseparabilità esterna di apparenza e vacuità e sulla inseparabilità interna di consapevolezza e vacuità. Dopo, vi sarà lo stato post-meditativo e, se in questo stato si lascerà che la mente si coinvolga di nuovo in numerosi pensieri, non si sarà in grado di fare alcun progresso nella meditazione. Perciò bisogna mantenere attenzione e consapevolezza anche e soprattutto nello stato post-meditativo. All’inizio potrà esservi una certa difficoltà, ma qualunque cosa si stia facendo si dovrebbe usare il controllo dell’attenzione sulla propria consapevolezza, affinché si sviluppi un naturale controllo sulle proprie azioni. Mentre si sta mangiando, lavorando, andando in qualche parte o parlando con qualcuno, dovrà esservi questo naturale autocontrollo di costante consapevolezza e attenzione. Il testo dice che, nella condizione post-meditativa, tutti i fenomeni devono essere visti come illusioni. Questo significa che nella cosiddetta condizione ordinaria, si deve ritenere qualsiasi cosa con la stessa comprensione di realtà che si è ottenuta nella meditazione. Bisogna vedere tutti i fenomeni come illusioni, in modo che non si debbano avere fissazioni o attaccamenti riguardo a questi fenomeni. Questo è ciò che si dovrebbe fare nello stato post-meditativo.

Il testo riferisce tre tipi di comportamento che si dovrebbe avere nello stato post-meditativo: 1) fare offerte ai Buddha e Bodhisattva, 2) sviluppare compassione per tutti gli esseri, 3) dedicare il karma e tutte le proprie buone azioni. Si fanno offerte ai Buddha e Bodhisattva non perché queste offerte ci facciano felici e questo ci aiuta; ma perché il Dharma è la cosa più importante e la pratica di Dharma è speciale. Il Buddha è colui che ha insegnato il Dharma e i Bodhisattva sono esseri speciali che sono stati capaci di praticare il Dharma senza ostacoli. Fare offerte a questi esseri speciali accresce la nostra motivazione a meditare ed a praticare il Dharma. Senza lo sviluppo di una genuina meditazione, si sarà costretti a rimanere nel samsara ed a sperimentare la sofferenza, dovendo rinascere continuamente. Se si ha una genuina meditazione si otterrà la liberazione, sviluppando compassione verso gli altri esseri, in quanto anche loro stanno soffrendo perché non sono in grado di sviluppare una valida meditazione. Perciò, facendo offerte ai Buddha e Bodhisattva e sviluppando compassione verso gli esseri, questo diventa parte della nostra motivazione ed interesse verso lo sviluppo del samadhi. Grazie allo sviluppo del samadhi, si sarà capaci di beneficiare gli altri esseri. Ecco perché si devono fare offerte e si deve sviluppare la compassione.

Poi si deve anche dedicare a tutti gli esseri, qualunque esperienza o realizzazione si abbia acquisito grazie alla propria meditazione, o qualunque buon karma si sia accumulato. Cosa significa che facendo buone azioni, le si deve dedicare a qualcun altro? Significa che i meriti derivanti dal karma positivo delle buone azioni, devono essere dedicati a tutti gli esseri, e questo va fatto con una preghiera di dedica. Questa preghiera è solo un modo per accrescere la nostra compassione perché, in realtà, non è che noi possiamo convertire la mente degli altri, seppure lo volessimo. Facciamo un esempio. Se vogliamo far crescere un fiore su questo tavolo qui davanti, per quanto possiamo pregare intensamente, questo fiore non potrà crescere, senza determinate condizioni. Per poter avere un fiore che cresce sul tavolo, dobbiamo avere un vaso con della terra dentro, acqua e il seme appropriato. Allo stesso modo, dedicando la nostra preghiera, si svilupperà una forte motivazione di aiutare gli altri, poi grazie al buon karma

che si accumula con questa motivazione, si sarà capaci di aiutare gli altri esseri. Perciò è detto che se si dedicano le nostre buone azioni, esse non andranno mai sprecate perché alla fine questo desiderio sarà esaudito. Il testo dice che, nella post-meditazione, si dovrebbero fare ampie dediche per tutti gli esseri.

I DIVERSI TIPI DI SHAMATHA

La sezione seguente del “Tesoro della Conoscenza” è una revisione dei diversi tipi di shamatha e vipashyana. Iniziando con shamatha, vi è shamatha dei veicoli ordinari e vi è shamatha specifico del Vajrayana. Con shamatha del metodo dei Sutra, come già descritto precedentemente, vi è shamatha della meditazione dei nove tipi di sgradevolezza come rimedio per il desiderio. Poi vi è la meditazione su amore e compassione, come rimedio per la rabbia e vi è la meditazione sul respiro, come rimedio per i troppi pensieri.

Shamatha del Vajrayana usa una quantità di metodi. Spesso, shamatha del Vajrayana è migliore perché ha diversi tipi di metodi che rendono il sentiero più facile da praticare. Dunque, vi è una varietà di metodi, come la meditazione sull’amore in cui si sviluppa il desiderio che tutti gli esseri abbiano la felicità. Si desidera che essi possano essere guidati verso la felicità e possano avere le cause che portano la felicità e questa è la meditazione sull’amore, diretta verso tutti gli esseri. Grazie a questa meditazione sull’amore si sviluppa e si incrementa la propria shamatha che, a sua volta, incrementa essa stessa la meditazione sull’amore. Poi si medita sugli esseri che stanno soffrendo e si desidera che essi siano liberi da ogni sofferenza e dalle cause della sofferenza. Questa meditazione sulla compassione accresce la nostra meditazione che, a sua volta, rafforza la nostra compassione; così, sviluppando amore e compassione si rafforza la stabilità e la calma della nostra mente.

Il metodo per sviluppare amore e compassione, prima di tutto, è eseguito meditando sull’identicità di se stessi e degli altri. Si deve pensare che tutto ciò di cui si ha esperienza piacevole e gradita è anche la stessa cosa che gli altri desiderano. Se si sperimenta qualcosa che non ci piace, lo stesso avviene per gli altri esseri. In questo modo si contempla e si realizza l’uguaglianza di se stessi con gli altri. Successivamente si medita sull’aver cura degli altri preferendoli a se stessi. Vi sono delle azioni precise che di solito si eseguono per il proprio interesse; se si fanno queste azioni vantaggiose per gli altri anziché farle solo per se stessi, questo sarà di enorme beneficio. Quindi gli altri sono visti e considerati molto più importanti perfino di se stessi. Infine, vi è la pratica di scambiare se stessi con gli altri, per mezzo del dare e ricevere (Tib. tong-len), i nostri veleni mentali diminuiranno fortemente e il proprio amore e compassione per gli altri aumenterà, contemporaneamente anche la nostra stabilità mentale si rafforzerà.

Vi è anche la pratica Vajrayana del respiro, usata nella tradizione Kagyu, chiamata “respiro gentile in tre fasi”. Nella respirazione normale vi è una inspirazione ed espirazione. In questa pratica del respiro si contano le inspirazioni e le espirazioni e, per creare la stabilità mentale, si fa una pausa tra queste due, in cui il respiro resta trattenuto nel corpo. Questo metodo di “respiro gentile in tre fasi”, attribuito al saggio Gampopa, non è come il “Respiro del Vaso”, che è un metodo troppo più duro e intenso e inadatto ai principianti. Invece, in questo metodo di Gampopa, vi è l’inspirazione, poi il respiro è trattenuto per qualche secondo nell’addome, e poi vi è l’espirazione; e queste sono le tre differenti fasi. Il motivo per cui si deve trattenere il respiro, è che il respiro normale è fatto al livello di naso e bocca e perciò esso non si espande nel corpo. Comunque, è importante trattenere il respiro nell’addome, così l’aria si espanderà attraverso tutto il corpo, mentre se si trattiene il respiro a livello del torace, l’aria non si espanderà attraverso tutto il corpo e ciò renderà la respirazione non confortevole. Quindi, se si trattiene il respiro sotto l’area dell’ombelico, l’aria si espanderà totalmente in tutto il corpo.

Se si medita soltanto con l’inspirazione e l’espirazione, accadrà che si diventa vittime della distrazione e si dimenticherà la meditazione, inseguendo i vari pensieri che sorgeranno conseguentemente. Se, invece, la nostra meditazione viene eseguita inspirando, trattenendo il respiro e poi espirando, allora se uno si dimentica della propria attenzione si dimenticherà anche di trattenere il respiro e quindi è ovvio che avrà perso la consapevolezza. Quindi, fare il respiro in tre fasi è assai di beneficio per sviluppare stabilità mentale e consapevolezza, molto più che meditare sulla semplice respirazione di inspirazione ed espirazione.

Il primo dei metodi specifici del Vajrayana è quello chiamato “Ritiro Individuale” (Skt. Pratyahara, Tib. sor-dù) che riguarda l’eliminazione degli oggetti dalla mente. Vi sono sei ostacoli principali alla meditazione shamatha, e sono: torpore, agitazione, aggressività, rammarico, insicurezza e attaccamento. Bisogna riconoscere ciascuno di questi ostacoli non appena si presentano, come ad esempio il pensiero, “ho il rimpianto di…”. Questo è un ostacolo, per cui con l’investigazione si può riconoscerlo ed applicare un pensiero di antidoto come rimedio ad esso, per esempio, “Ho avuto coscienza di questo pensiero, e lo lascio andare”. È più facile prendere un particolare pensiero ostacolante e trattare con esso, piuttosto che trattare con tutti i pensieri, così come sorgono. Questo metodo è

chiamato “Individuale” proprio perché bisogna individuare un singolo pensiero alla volta e “ritirarlo”, cioè ritrattarlo, lasciandolo disperdersi nella vacuità.

La seconda pratica vajrayana di shamatha è chiamata “struttura vuota delle nadi, o canali”. Nel corpo vi sono tre canali principali – il canale centrale (Avadhuti), il canale di sinistra (Lalana) ed il canale di destra (Rasana) e, in questa pratica, si medita sui tre canali e sui Chakra, che sono i punti di incrocio in cui i tre nervi energetici si intrecciano.

Il terzo metodo è la pratica del Prana Yoga, o la pratica dei venti, o arie sottili del corpo (Skt.Vayu). La meditazione va fatta visualizzando i canali sottili e le sottili arie energetiche che fluiscono attraverso i canali. Vi sono numerose e diverse pratiche Yoga per queste arie sottili; la pratica per la lunga vita, la pratica per far sentire beatitudine nel corpo, la pratica per aumentare la saggezza, e così via. Vi è inoltre, la pratica dei Bindhu (gocce sottili) in cui si rende il corpo totalmente permeato di queste sottili gocce energetiche e questo crea beatitudine fisica e dona perfetta esperienza dell’unione di beatitudine e vacuità.

Negli insegnamenti Vajrayana, vi è anche la pratica di meditazione sulle divinità Yidam (divinità tutelare scelta per avere assistenza e protezione nella meditazione – n.d.T.). Talvolta si immagina lo Yidam sopra la propria testa e altre volte si può immaginare se stessi nella veste della divinità Yidam. Talvolta per rendere più chiara la nostra meditazione sulla divinità, si medita sulle lettere e le sillabe di un mantra. Esse sono visualizzate alcune volte come molto grandi ed altre molto piccole, ma tutto questo serve solo per dare stabilità alla mente. Tramite queste visualizzazioni o sviluppo di queste fasi della pratica, si diventa abili nell’eliminare le apparenze impure dei fenomeni e si realizza la vacuità delle apparenze pure. Grazie all’immaginazione delle divinità della saggezza si riceve una benedizione, che è un metodo speciale per sviluppare stabilità mentale, non troppo tesa né troppo allentata, che è soltanto uno stato naturale della mente. In generale, la fase di visualizzazione (Tib. kye-rim) della pratica è un metodo per sviluppare la genuina shamatha. Alcuni fanno le pratiche di visualizzazione con la speranza di ottenere una visualizzazione molto chiara e, se ciò non avviene, si rammaricano e non fanno più la pratica. Lo scopo della pratica non è quello di avere una visualizzazione perfetta, ma di meditare sulla natura della divinità al fine di realizzare la sua apparenza pura e creare una stabilità mentale per non distrarsi. Se si diventa distratti, la divinità viene dimenticata e questo verrà immediatamente consapevolizzato. Quindi, la visualizzazione è uno speciale strumento per sviluppare stabilità mentale e consapevolezza.

Talvolta, quando si è stanchi di visualizzare una divinità o di meditare sul proprio respiro, si può fare la pratica della recitazione del mantra. Recitare il mantra può essere fatto con suono o senza suono. Recitare il mantra senza suono si fa sommessamente, sottovoce, così che nessuno può udire. La recita del mantra è descritta tradizionalmente, come “il suono che resta nella gola” e si dovrebbe farlo restando consapevoli di ciascuna sillaba del mantra. Se il mantra è l’OM MANI PEME HUNG, non si dovrebbe proprio recitarlo senza esserne consapevoli; lo si deve recitare assai quietamente, in modo che gli altri possano udirlo a mala pena, ma con la mente consapevole del suono mantrico e senza distrazioni. Vi è anche la recitazione mentale in cui non si fa uso della voce e si contano i mantra con una ‘Mala’ (una specie di rosario tibetano – n.d.T.), recitando i mantra mentalmente fino a raggiungere un numero ben definito, oppure senza interruzione, almeno finché la consapevolezza si mantiene sveglia. Di solito se ne recitano almeno 108, che è il totale dei grani della Mala, oppure tante volte 108 quante sono le intenzioni di recitare un certo numero di ‘Mala’. Tutto questo avviene senza distrazione, perché la consapevolezza resta attiva grazie allo scorrere del dito sui grani della Mala stessa. Il far questo con assiduità, assicura una ottima stabilità mentale ed una aumentata chiarezza di orientamento della mente.

Vi è una pratica di mantra che è chiamata “Recita di Cessazione”; la recitazione mentale del mantra è associata alla respirazione, cosicché viene recitata una parte del mantra unita all’inspirazione, una parte mentre si trattiene il respiro e la parte finale quando si espira. Questa pratica non implica un suono effettivo; per esempio, col mantra di Padmasambhava (Guru Rimpoche), nell’inspirazione si recita “OM AH HUNG”, nella trattenuta si recita “BENZA GURU PEME” e nell’espirazione “SIDDHI HUNG”. Il motivo per cui questa è chiamata ‘recitazione con cessazione’ è che questo metodo blocca i pensieri e la mente diventa subito calma.

Vi sono metodi superiori che usano un punto di riferimento ed anche metodi di nuda e diretta ricognizione della natura della mente. Tutti questi metodi sono mezzi per sviluppare la saggezza suprema e vengono insegnati in accordo alla natura e capacità individuali .

VARI E DIVERSI TIPI DI VIPASHYANA

Ciò che è sviluppato con tutte queste pratiche di shamatha è la stabilità mentale, con cui si può sviluppare vipashyana. Se la mente è stabile e dimora nella sua condizione naturale, può essere usata una tagliente comprensione per analizzare e investigare gli insegnamenti dottrinali o anche i singoli significati delle parole dei testi. Quindi, con questa stabilità mentale si può esaminare e comprendere qualsiasi cosa su cui la mente si focalizza; ecco perché la pratica shamatha diviene pratica vipashyana.

MEDITAZIONE ANALITICA E MEDITAZIONE NON-ANALITICA

Talvolta viene fatta solo la meditazione analitica, altre volte viene fatta solo la meditazione non-analitica. Qualche volta esse vengono fatte alternativamente. Se fatti in modo corretto, entrambi questi metodi possono portare allo sviluppo di shamatha e vipashyana. Sebbene in relazione al Sentiero può esservi una certa differenza tra di essi, in termini di raggiungimento dello scopo essi sono la stessa cosa.

LIVELLI DI MEDITAZIONE

Il testo offre una spiegazione aggiuntiva dei tre diversi livelli di meditazione (dhyana). Il primo livello è quello degli esseri ordinari ed è chiamato letteralmente “esperienza di un essere immaturo”. Riguardo alla pratica, la persona a questo livello è capace di riconoscere, fino ad un certo punto, quando subentra la distrazione ed è in grado di far ritorno alla meditazione. Ciò facendo, questa persona avrà varie, ma limitate, esperienze di meditazione. Il secondo stadio è il livello del Bodhisattva ed è chiamato “meditazione che distingue i significati”. In questo stato meditativo vi è una chiara comprensione della natura dei fenomeni, come l’originazione interdipendente, la natura illusoria di tutti i fenomeni, e così via; qui, lo sviluppo della saggezza è sempre più chiaro e crescente. Il terzo stadio, “il livello ultimo dei Buddha” è quello in cui la natura dei fenomeni è vista e conosciuta direttamente come natura primordiale di pace assoluta. Non è una ulteriore e nuova saggezza, ma la realizzazione della verità così com’è sempre stata, che arriva dunque senza alcun sforzo di immaginazione. Questi, quindi, sono i tre tipi di visione meditativa in relazione alla “talità”, la vera natura dei fenomeni.

ESPERIENZE E RISULTATI DELLA MEDITAZIONE

Il “Tesoro della Conoscenza” non intende discutere sulle esperienze che vengono da una meditazione particolare, quindi Thrangu Rimpoche ci darà il suo pensiero personale su questo argomento, in modo sommario.

Il risultato del praticare la meditazione è realizzazione ed esperienza. Le esperienze meditative sono temporanee e arrivano abbastanza rapidamente; la realizzazione, comunque, è ottenuta tramite il processo graduale della meditazione reiterata ed è duratura. È necessario lavorare sodo per ottenere la realizzazione, mentre non si dovrebbe avere alcun attaccamento per le esperienze di meditazione siano esse buone o meno buone. Se si hanno esperienze positive e piacevoli durante la meditazione, si dovrebbe pensare che sono solo apparenze o manifestazioni della mente e non hanno in sé alcun tipo di vera gioia che si può aver provato. Se si sviluppa attaccamento alle esperienze meditative, si svilupperà insieme orgoglio o superbia che causerà ulteriori ostacoli alla vera meditazione. Se, invece, si hanno esperienze negative o non propriamente piacevoli, non ci si dovrebbe spaventare in quanto, anche queste, sono solo apparenze e manifestazioni della propria mente.

Le diverse esperienze della meditazione sono dovute alle differenze dei canali sottili. Alcuni le trattengono completamente, altri non danno loro particolare importanza finché la loro meditazione non diventa ferma e stabile. Non c’è alcuna ragione di sentirsi felici del fatto che si è avuta una buona esperienza, o tristi se non la si è avuta e magari pensare che non si sta ricavando nulla di buono. E neppure bisogna pensare di avere dei problemi per il fatto che si hanno poche o nessuna esperienza positiva, o che non si ha una meditazione stabile perché si hanno esperienze differenti. Non vi è alcuna ragione per essere felici o tristi riguardo a ciò, perché queste esperienze meditative sono solo creazioni della mente dovute ai diversi tipi di energie sottili e non hanno nulla a che fare con la meditazione.

In relazione alle esperienze, si può dire che ve ne sono di tre tipi – beatitudine, chiarezza e assenza di pensieri. L’esperienza di beatitudine si prova quando, in piena fase meditativa, ci si sente felici e vi è una sensazione di beatitudine fisica, cosicché tutta la meditazione diventa molto piacevole. Se ciò accade, non si dovrebbe provare

attaccamento o ritenere ciò un segno di buona meditazione. Invece, si dovrebbe ignorare questo tipo di valutazione e prenderla essa stessa come semplice meditazione. Può esservi anche una chiara consapevolezza, in cui si vede e si conosce tutto con l’esperienza di chiarezza ed anche questa va considerata soltanto una produzione della mente. Non si dovrebbe pensare che questa sia una meditazione genuina ma solo non si dovrebbe generare attaccamento o coinvolgimento in questa esperienza di chiarezza. Infine, quando si sperimenta l’assenza dei pensieri, si potrebbe pensare (!) che si è ottenuto uno stato di completa stabilità nella meditazione. Ma non ci si dovrebbe fermare qui, si dovrebbe soltanto continuare incessantemente con la propria pratica meditativa.

Quando si sta praticando il Dharma e non vi sono grandi ostacoli esterni, è piuttosto facile sviluppare internamente ostacoli nei riguardi della propria pratica. Ciò accade perché uno comincia a pensare che è un grande praticante e diventa molto orgoglioso. Questa stessa superbia è un grande ostacolo alla propria pratica di meditazione. In Tibet si dice che “dentro una grossa palla di superbia, non può essere versata l’acqua delle qualità positive”. Questo significa che quando si diventa presuntuosi, si è come un blocco indurito e questo diventa un ostacolo. Invece, si dovrebbe avere umiltà, fede e devozione verso il Dharma e, dato che la presunzione è un così grosso ostacolo, si dovrebbe esaminare la propria mente per vedere se è presente questa superbia o meno.

Allorché Gampopa udì per la prima volta il nome di Milarepa, sentì una grandissima fede in lui e andò lontano per incontrarlo. Quindi cominciò a chiedere in giro la via per arrivare da lui, finché fu molto vicino al luogo ove stava Milarepa. I discepoli di Milarepa uscirono per venirgli incontro ed una donna del gruppo disse a Gampopa che lo avrebbe portato a casa sua a passare la notte, e che il giorno dopo lo avrebbe portato a vedere Milarepa. Gli disse anche che lei aveva visto Milarepa quel giorno stesso e Milarepa le aveva detto che un monaco sarebbe arrivato dal Tibet centrale, che sarebbe stato il suo principale discepolo e che possedeva grandi qualità. Milarepa aveva anche detto che chi gli avrebbe portato davanti quel monaco sarebbe stato molto fortunato e non sarebbe rinato nei reami inferiori. Avendo udito ciò, Gampopa pensò, “Oh, se Milarepa è un grande siddha, ha pure una grande conoscenza. Dal modo in cui ha parlato di me, mi sento molto fortunato e così non avrò molta difficoltà nel praticare il Dharma”. Quindi, Gampopa divenne così orgoglioso che Milarepa gli mandò un discepolo ogni giorno per due settimane, dicendo, “Non essere sconvolto, ma non puoi ancora venire a vedere Milarepa”. Così, l’orgoglio di Gampopa fu eliminato e, da ciò, si può vedere come la presunzione sia un vero ostacolo alla pratica di Dharma.

Alcuni individui che praticano in un ritiro al buio (come, ad esempio, un ritiro sul Bardo), potranno vedere ogni sorta di diversi tipi di luce e sentiranno scuotere il proprio corpo ed altre simili cose, durante queste meditazioni. Vi sono anche esperienze a cui non bisogna attaccarsi perché sono soltanto apparizioni che provengono dalla mente. Buone o cattive che siano, si deve soltanto continuare la propria meditazione senza farsi coinvolgere da esse. Si potranno avere anche diversi tipi di sogni e dato che quei sogni sono espressioni della mente, è assai facile che la meditazione possa creare tutti questi sogni e fantasticherie. Ma non c’è scopo di attaccarsi a sogni piacevoli o fissarsi su immaginazioni spaventevoli. Per esempio, quando Gampopa arrivò finalmente al punto di vedere Milarepa, gli parlò dei suoi ripetuti sogni. Milarepa gli rispose, “Tu sei qui davanti a me, perché quando sei venuto avevi detto di aver fatto molta pratica. Se veramente hai fatto molta pratica, non dovresti avere tutto questo attaccamento ai sogni”

Se uno ha un sogno e pensa che sia veramente piacevole, diventa attaccato ad esso e pensa che le cose andranno bene, oppure che sta per accadere qualcosa di buono, ma nella sua pratica in verità non accade nulla, anzi c’è il rischio che queste idee facciano diminuire la sua determinazione nella pratica. Similmente, se uno sperimenta beatitudine e chiarezza nella sua meditazione e pensa, “Oh, sto avendo proprio una buona meditazione!”, diventa attaccato ad esse; ma poi, in altre occasioni, se non avrà queste esperienze, potrà quindi pensare, “Oh, ho smarrito la mia meditazione”. Quindi, non ci si dovrebbe attaccare a queste esperienze, anzi si dovrebbe realizzare che queste esperienze non cambiano l’essenza della nostra meditazione. Anche se non si hanno esperienze di qualche sorta, la nostra meditazione non cambia ma si dovrà soltanto praticare la meditazione con questo stato di mente.

Anche la posizione del corpo è importante nella meditazione. Per esempio quando Gampopa stava praticando sulla cima di una montagna, ebbe l’esperienza che l’intera vallata, sotto la sua grotta, si fosse riempita di fumo. Quando il fumo si schiarì, la sua mente divenne assai sconsolata perché egli udiva un grande frastuono. Egli pensò di essere vittima di qualche demone o spirito. Quando, più tardi, chiese a Milarepa spiegazioni al riguardo, Milarepa replicò che la sua postura non era corretta e questo aveva costipato i suoi canali interni, che poi gli avevano causato queste esperienze. Quindi, i sette aspetti della postura di Vairocana o i cinque aspetti della postura Dhyana sono molto importanti. Anche se non è essenziale tenere le gambe nella posizione del Loto (postura Vajra), cioè a gambe completamente incrociate, è però importante mantenere il proprio corpo seduto con la spina dorsale eretta. Questa seduta eretta è importante anche quando si recitano i mantra, o quando si fanno le visualizzazioni, o qualsiasi altro tipo di meditazioni. Sedersi con la schiena dritta facilita l'attenzione, la consapevolezza e la concentrazione sulla propria pratica meditativa perché i venti energetici (vayu) potranno fluire correttamente nei canali sottili (nadi).

Per meditare nel migliore dei modi, dobbiamo avere una grande diligenza che è chiamata "come una corazza", perché quando si indossa un'armatura, sentiamo di avere assai più coraggio. Il motivo per cui abbiamo necessità di questa diligenza-armatura è perché gli insegnamenti Vajrayana insegnano il modo di ottenere la Buddità in una sola vita e, quando le persone sentono questo, si aspettano di ottenere un rapido risultato. E, allorché il risultato stenta ad arrivare, perdono assai presto la fiducia. Quindi, dobbiamo avere molta diligenza, senza mantenere l'aspettativa di raggiungere rapidamente il risultato, perché ciò che dobbiamo fare è eliminare tutti questi veleni mentali (ed anche l'aspettativa di risultato è uno di questi), in quanto noi siamo condizionati e assuefatti a questi veleni samsarici da tempi immemorabili e senza inizio. Dobbiamo anche arrivare ad ottenere tutte le buone qualità, come la saggezza e l'onniscienza dei Buddha. Per ottenere queste qualità ed eliminare tutti i veleni mentali, c'è bisogno di una grande cura e diligenza, perciò non dobbiamo pensare che i risultati della nostra pratica saranno così rapidi se prima non prepariamo il terreno giusto. Col metodo Vajrayana possiamo raggiungere la Buddità in questa stessa vita solo se abbiamo una grandissima dose di diligenza, come quella di Milarepa, e questa è una qualità molto difficile da alimentare per la maggioranza delle persone.

Dovremmo pensare di poter raggiungere la Buddità, solo avendo una grande diligenza, come Milarepa, e che non potrà accadere nulla soltanto facendo quel poco che facciamo ogni giorno. Potremmo anche pensare, "Io non ho la diligenza di Milarepa, perciò è impossibile per me ottenere risultati". Ma non dovremmo pensare che senza quella diligenza, è inutile allora dedicarsi al Dharma, perché tanto non fa differenza praticare o no. Il Buddha ha detto che fare una qualunque pratica di meditazione è comunque molto positivo. E ancora, il Buddha ha detto che anche se qualcuno ha soltanto il pensiero di praticare la meditazione, pensando di andare in un luogo in cui la si pratica e di volerla fare, anche se poi non ci andrà, o si sarà presentato una sola volta, avrà comunque messo in moto un meccanismo benefico che porterà i suoi frutti, prima o dopo. Perciò, già un grande beneficio arriverà dal solo aver pensato alla pratica futura. Generalmente parlando, solo fare qualche passo verso un luogo ove si fa meditazione non è che porti qualche beneficio in sé ma, secondo le parole del Buddha, alla fine questo fatto porterà risultati benefici, magari in vite future. Perciò, la nostra pratica di meditazione è assai benefica e non dovremmo pensare che non vi è motivo o scopo di fare la meditazione se non abbiamo quel tipo di diligenza che aveva Milarepa.

Ciò che è importante è continuare stabilmente a praticare la nostra meditazione, sia pur non avendo periodi di intensa diligenza, ma non perdendo la fiducia se ancora non si vedono risultati. La migliore diligenza è quella chiamata "immutabile", cioè una diligente assiduità permanente e continuata, che ci rende idonei a mantenere la continuità della pratica. Noi abbiamo bisogno di questo tipo di diligenza e non di avere qualche attaccamento alle esperienze che potrebbero sorgere nella meditazione.

NOTE AL CAPITOLO 6°

8) Più dettagliatamente, la parola "Saggezza" qui riferita, corrisponde al termine Sanscrito "Jnana" ed al Tibetano "Ye-shé". In Sanscrito, 'jnana' non è una parola speciale, in quanto significa semplicemente "conoscere" ed i traduttori Tibetani, quando la tradussero, aggiunsero la sillaba 'ye', che significa "conoscenza primordiale", alla sillaba 'shé' che ha il significato di semplice "conoscere". Quindi, Ye-shé significa realmente "conoscere ciò che è esistito da sempre" e cioè, "Saggezza o Conoscenza Suprema". Questa parola fu poi usata per la conoscenza del Buddha, che conosce tutto ciò che c'è da conoscere nell'aspetto sia relativo che ultimo o assoluto. La parola Sanscrita "Prajna", che noi traduciamo come "Intuizione o Comprensione Profonda", è resa in Tibetano con "She-rab", che aggiunge a 'she', cioè "conoscere" la sillaba 'rab' che significa "migliore, superiore o perfetta".

Le parole 'yeshé' e 'sherab' sono spesso usate in modo intercambiabile per definire "conoscenza" e "saggezza suprema". Ma si può fare una differenziazione tra di esse, perché 'yeshé' è la conoscenza di un Buddha, o un essere illuminato, che è diretta comprensione della natura dei fenomeni, mentre 'sherab' è la comprensione che si acquisisce tramite l'analisi, l'esame ed il ragionamento. 'Sherab' è collegata alla diversificazione dei fenomeni, siccome la nostra esperienza normale è immersa insieme a tutti i fenomeni, e quindi la comprensione 'sherab' è differenziata in quanto si conosce che "questo è questo" e "quello è quello"; "questo esiste" e "quello non esiste"; "questo è buono" e "quello non è buono"; "questa è una cosa" e "quella è un'altra", e così via. Quindi, ogni fenomeno è differenziato l'uno dall'altro e questo è il significato speciale di 'sherab'. La conoscenza che avviene in meditazione, in cui si riconosce la vera natura delle cose, in Tibetano è chiamata "Rig-pa" e in Sanscrito "Vidya". Perciò, quella chiarezza, quella consapevolezza che ha il potere di conoscere la vera natura delle cose, è 'rigpa'.

Vipassana nello Vipassana nello Dzoghchen

Dal "Canto di Mahamudra" di TilopaAll'inizio della lezione abbiamo letto alcuni brani tratti dal "Canto di Mahamudra" di Tilopa. Il Mahamudra è l'insegnamento spirituale e il percorso realizzativo della scuola buddhista-tibetana Kagyu, iniziata proprio da Tilopa, nella quale rientrano il suo allievo Naropa, Marpa il Traduttore e il suo celeberrimo allievo Milarepa."Il Vuoto non ha bisogno di supporto;[...]Senza compiere alcuno sforzo,restando sciolti e naturali,è possibile spezzare il giogo,e ottenere la Liberazione.Se, guardando nello spazio, non si vede nulla,e se, allora, con la mente si osserva la mente,si distrugge ogni distinzionee si raggiunge la Buddhità.Le nubi che vagano per il cielonon hanno radici, non hanno casa;e così sono anche i pensieri discriminantiche attraversano la mente.Quando si è vista la mente universale,ogni discriminazione cessa.Nello spazio nascono forme e colori,ma lo spazio non è macchiato né dal bianco né dal nero.Dalla mente universale emerge ogni cosa,ma essa non è macchiata né dai vizi né dalle virtù.L'oscurità dei secolinon può velare lo splendore del sole;le lunghe ere del samsara [il ciclo delle nascite, morti e rinascite]non possono nascondere la chiara luce della Mente.Benché ci si serva di parole per spiegare il Vuotoil Vuoto in quanto tale è inesprimibile.Benché si dica che "la Mente è una luce brillante",essa è al di là di ogni parola e simbolo.Benché la sua essenza sia il Vuoto,essa abbraccia e contiene ogni cosa.Non fare nulla col corpo, rilassati;chiudi stretta la bocca e resta in silenzio;vuota la mente e non pensare a nulla,Come un bambù cavo, lascia che il tuo corpo riposi a suo agio,Senza dire né prendere, metti a riposo la mente,Mahamudra è come una mente che non si attacca a nulla,Praticando in questo modo, col tempo raggiungerai la Buddhità.La pratica di mantra e paramita [le virtù buddhiste],la conoscenza dei sutra e dei precetti,gli insegnamenti delle scuole e delle scritturenon valgono a produrre la consapevolezza della verità innata;perché la mente che, piena di desiderio,

insegue un finenon fa che nascondere la luce.[...]Desisti da ogni attività, abbandona ogni desiderio;lascia che i pensieri salgano e scendanoa loro piacimento, come onde dell'oceano.Colui che non viene mai meno al non-dimorare,ne al principio di non-distinzione,adempie ai precetti tantrici.Colui che abbandona il desiderioe non si attacca a questo o a quello,coglie il vero significato contenuto nelle scritture.[...]Trascendere la dualità è il punto di vista regale;domare le distrazioni è la pratica regale;[...]Se, sciolto e senza sforzo,ti mantieni nella naturalezza,presto otterrai Mahamudrae raggiungerai il non-raggiungimento.Taglia la radice di un albero e le foglie appassiscono;taglia la radice della mente e il samsara cade.[...]Chi si aggrappa alla mentenon vede la verità che sta oltre la mente.Chi si sforza di praticare il Dharma [l'insegnamento]non trova la verità che è al di là della pratica.Per conoscere ciò che è al di là sia della mente che della praticabisogna tagliare di netto la radice della mentee, nudi, guardare;bisogna abbandonare ogni distinzionee restare rilassati.Non bisogna dare né prendere,bensì restare naturali:Mahamudra è al di là dell'accettazione e del rifiuto.[...]La comprensione suprematrascende questo e quello.L'azione suprema uniscegrande ingegnosità e assoluto distacco.La realizzazione suprema consistenel comprendere l'immanenza senza speranza.Dapprima la mente del praticanteprecipita come una cascata;a metà strada, come il Gangefluisce lenta e placida;alla fine è un vasto oceano,in cui la luce del figlio e quella della madre si fondono".Abbiamo poi iniziato la pratica con il solito esercizio dell'anapanasati. Poi camminata in meditazione, dividendola in cinque movimenti.

Successivamente l'esercizio sulla consapevolezza della postura, stando fermi in piedi.Tornando seduti, l'esercizio sulle parti che poggiano (a parte le mani): quindi solo sedere, mano destra e sinistra, ginocchio destro e sinistro, piede destro e sinistro.In ultimo l'esercizio sul peso del corpo stando sdraiati.In tutti questi esercizi cominciamo, come accennavamo la scorsa volta, a porre mente alle eventuali tensioni di cui si carica il nostro corpo. Quando le percepiamo, focalizziamo lì la nostra consapevolezzae dolcemente le sciogliamo. Poi torniamo al nostro esercizio. È qualcosa di molto importante. La nostra mente e il nostro corpo sono abituati a lavorare in seguente modo: quando qualcosa risulta difficile, ci tendiamo. È oramai un'abitudine radicata nella nostra struttura psico-fisica. Riusciamo ad abbandonarla solo attraverso un minuzioso lavoro di "riprogrammazione": mi tendo, mi osservo, sciolgo. Più pratico in questo senso, più mi sarà assai agevole eliminare le tensioni accumulate durante l'esercizio, fino ad arrivare a un corpo completamente libero da reazioni impulsive di contrazione e quindi apertamente disponibile alla pratica: un corpo di benevolenza e di consapevolezza, di abbandono fiducioso e di lucidità.http://www.lameditazionecomevia.it/index.htm