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1 Verso le valutazioni della mente: la co-valutazione formativa Walter Colesso ([email protected] ) Il contributo s’inserisce nell’ambito di un progetto di ricerca più ampio che vuole aprire una riflessione sul ruolo della valutazione nella formazione e nel pensare “sistemico”. Numeri e misurazioni evocano spaventosi fantasmi di tecnicismi che possono soffocare e uccidere l’arte della formazione, quella che si apprende solo “a bottega” restando al fianco del maestro. La valutazione alla fine sembra cosa utile solo alla ricerca, alla pubblicazione di articoli, alla carriera accademica e dannosa per il lavoro dei clinici e formatori . Ho quindi pensato di proporre una riflessione sul concetto di “co-valutazione formativa”, un processo che coniuga valutazione e principi dell’epistemologia sistemica per scopi di intervento formativo per evidenziare che valutazione e sistemica non sono necessariamente incompatibili. Data l’apparente incongruenza tra “valutazione” e “approccio sistemico”, e la confusione con cui vengono utilizzati in maniera equivalente i termine “valutazione”, “diagnosi” e “valutazione diagnostica” nella letteratura – soprattutto quella di ispirazione sistemica – ho ritenuto necessario iniziare con delle riflessioni sul processo valutativo e le sue relazioni con la diagnosi, le Evidence Based Practice e l’epistemologia sistemica. La valutazione Il dizionario Devoto Oli (2007) definisce “valutazione” la “determinazione del valore da assegnare a cose o fatti ai fini di un giudizio.” Tale valutazione non deve essere necessariamente l’assegnazione di un numero, ma il risultato di un confronto come Galimberti (1991) ha rilevato con riferimento all’applicazione nel campo degli interventi sociali: “La valutazione nasce essenzialmente come attività di confronto tra oggetti, azioni e individui, che tende a configurarsi come il risultato di un pensiero teso a cogliere le relazioni che tali oggetti, azioni e individui intrattengono, alla ricerca delle specificità, omogeneità-disomogeneità che li caratterizza” (p. 7). Secondo Galimberti il modello sarebbe stato esportato dal “controllo di qualità” applicato alla produzione della grande serie e delle situazioni lavorative standardizzate per arrivare ad assumere un significato di “programmazione-valutazione” focalizzato su efficienza ed efficacia. Recentemente, lo scrivente (Colesso, 2012) ha proposto un ampliamento del concetto di valutazione applicato direttamente all’azione d’intervento nel campo psicologico: esso indica un processo che si sviluppa attraverso tre fasi: (1) l’osservazione di un soggetto (individuo,

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Verso le valutazioni della mente: la co-valutazione formativa Walter Colesso ([email protected])

Il contributo s’inserisce nell’ambito di un progetto di ricerca più ampio che vuole aprire una

riflessione sul ruolo della valutazione nella formazione e nel pensare “sistemico”. Numeri e

misurazioni evocano spaventosi fantasmi di tecnicismi che possono soffocare e uccidere

l’arte della formazione, quella che si apprende solo “a bottega” restando al fianco del

maestro. La valutazione alla fine sembra cosa utile solo alla ricerca, alla pubblicazione di

articoli, alla carriera accademica e dannosa per il lavoro dei clinici e formatori .

Ho quindi pensato di proporre una riflessione sul concetto di “co-valutazione formativa”, un

processo che coniuga valutazione e principi dell’epistemologia sistemica per scopi di

intervento formativo per evidenziare che valutazione e sistemica non sono

necessariamente incompatibili.

Data l’apparente incongruenza tra “valutazione” e “approccio sistemico”, e la confusione

con cui vengono utilizzati in maniera equivalente i termine “valutazione”, “diagnosi” e

“valutazione diagnostica” nella letteratura – soprattutto quella di ispirazione sistemica – ho

ritenuto necessario iniziare con delle riflessioni sul processo valutativo e le sue relazioni

con la diagnosi, le Evidence Based Practice e l’epistemologia sistemica.

La valutazione

Il dizionario Devoto Oli (2007) definisce “valutazione” la “determinazione del valore da

assegnare a cose o fatti ai fini di un giudizio.” Tale valutazione non deve essere

necessariamente l’assegnazione di un numero, ma il risultato di un confronto come

Galimberti (1991) ha rilevato con riferimento all’applicazione nel campo degli interventi

sociali: “La valutazione nasce essenzialmente come attività di confronto tra oggetti, azioni

e individui, che tende a configurarsi come il risultato di un pensiero teso a cogliere le

relazioni che tali oggetti, azioni e individui intrattengono, alla ricerca delle specificità,

omogeneità-disomogeneità che li caratterizza” (p. 7). Secondo Galimberti il modello

sarebbe stato esportato dal “controllo di qualità” applicato alla produzione della grande

serie e delle situazioni lavorative standardizzate per arrivare ad assumere un significato di

“programmazione-valutazione” focalizzato su efficienza ed efficacia. Recentemente, lo

scrivente (Colesso, 2012) ha proposto un ampliamento del concetto di valutazione

applicato direttamente all’azione d’intervento nel campo psicologico: esso indica un

processo che si sviluppa attraverso tre fasi: (1) l’osservazione di un soggetto (individuo,

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coppia, famiglia o sistema) e la registrazione di dati, siano essi quantitativi e/o qualitativi;

(2) l’elaborazione dei dati raccolti, attraverso il confronto con altri datiosservati nel corso

della stessa osservazione (approccio idiografico; Allport, 1969; Nunnally, 1978) o con altri

dati raccolti nel corso di altre osservazioni (approccio nomo tetico; Allport, 1969; Nunnally,

1978); (3) la “lettura” delle differenze rilevate al fine di agire nuove azioni, dirette o

indirette, sul soggetto osservato (Figura 1).

Fig. 1 Il processo valutativo

La valutazione diagnostica

Nell’ambito della psicologia clinica, la valutazione è sempre considerata quasi

esclusivamente in ottica diagnostica, al punto che i termini “valutazione” e “diagnosi” sono

utilizzati in maniera interscambiabile.

La diagnosi (Boscolo e Bertrando, 1996) è un processo che nasce nell’epistemologia

medica, il cui scopo è la delimitazione della natura o della sede di una malattia in seguito

alla rilevazione dei sintomi. Essa si sviluppa secondo le fasi di:

1. Anamnesi: raccolta delle notizie riguardanti i precedenti fisiologici e patologici

personali ed ereditari del paziente stesso e dei familiari compiuta mediante

l’interrogatorio del paziente stesso e dei familiari;

2. Osservazione sintomi soggettivi, raccolti attraverso l’osservazione del paziente

stesso (sincronica);

3. Ipotesi di sindrome (diacronica), ossia l’individuazione nella letteratura dello

specifico pattern di sintomi soggettivi osservati;

4. Diagnosi eziologica: della causa della malattia associata alla sindrome ipotizzata;

5. Decisione del trattamento (programma terapeutico) come indicato dalla letteratura

sulla base di sindrome ipotizzata e diagnosi;

6. Prognosi: il giudizio clinico sull’evoluzione futura della malattia.

Nel campo della malattia mentale l’attuale riferimento bibliografico per le ipotesi di

sindromi è il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (APA, 2001) che

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contiene descrizioni d’insiemi di segni e sintomi (le sindromi) associati e raggruppati per

etichette .

Boscolo e Bertrando (1996), sottolinenano che, nell’applicazione al campo del mentale, il

processo diagnostico risente delle premesse epistemologiche di chi lo utilizza e quindi può

essere attuato per distinguere: (a) la normalità dalla patologia (psicoanalisi e

comportamentismo); (b) il benessere dalla sofferenza (pensiero umanistico, approccio

narrativo e costruzionista); (c) il problema dalla soluzione (modello strategico di Palo Alto e

modelli basati sul problem solving); (d) il problema dal non problema (distinzione fatta dal

paziente e non dal terapeuta nell’orientamento strategico-sistemico).

Del Corno (2005), nell’ambito della psicologia clinica, crede opportuno distinguere la

“diagnosi nosografica descrittiva” di tradizione psichiatrica dalla “diagnosi funzionale.” Se

la prima è volta a etichettare sindromi e associarvi protocolli terapeutici, la diagnosi di tipo

funzionale si pone come obiettivo la valutazione delle aree di funzionamento del paziente:

l’individuazione dei “problemi”, le preoccupazioni percepite, i punti di forza e di debolezza,

la struttura difensiva e lo stile relazionale. In questa seconda proposta, cambia la

prospettiva di valutazione: dal rilevamento di segni e sintomi alla valutazione delle risorse

del paziente.

Boscolo e Bertrando (1996) criticano il concetto di diagnosi, rilevando che essa si riduce

ad un processo di attribuzione linguistica che può costruire delle “trappole” per gli

interventi formativi quali: reificazione di concetti presenti solo nel linguaggio,

semplificazione di realtà comunque complesse, l’appiattimento della dimensione

temporale e il sostegno ad una pretesa obiettività. L’adozione di questa prospettiva come

esclusiva comporta due pericoli: (a) la notevole riduzione delle possibilità d’intervento

definite all’interno di una logica lineare-causale; (b) il rischio di etichettamento, ossia

l’affissione di un’etichetta sulla “pelle psicologica” di un individuo in grado di modificare

l’auto immagine e di indurre nelle persona circostanti a reagire alle etichetta e non

all’individuo (Tannenbaum, 1938).

Per ovviare questi pericoli, Boscolo e Bertrando propongono la diagnosi come una delle

possibili punteggiature della realtà e suggeriscono l’utilizzo del processo valutativo-

diagnostico in prospettiva evolutiva da connettere continuamente all’effetto terapeutico

della sua indagine.

Una prima conclusione parziale che possiamo trarre, funzionale agli scopi di questo

contributo, è che i processi di “valutazione” e “diagnostico” possono non coincidere: se è

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vero che un processo diagnostico è un particolare processo valutativo, non è sempre vero

il contrario.

La valutazione dell’efficacia di un intervento

La necessità di controllare il grado di efficacia di un intervento è oggi raggiunta attraverso

la valutazione del risultato e la valutazione del processo (Kazdin & Kendall, 1998).

Il fine della valutazione di risultato è il confronto tra una valutazione pre e post intervento,

a loro volta raffrontati con una o più valutazioni di follow-up. Lo scopo è registrare i

cambiamenti delle aree sulle quali si interviene. Questo monitoraggio non è ancora

sufficiente per connettere al trattamento le differenze riscontrate. E’ necessario attuare

una valutazione del processo di trattamento, definendo delle variabili indicatrici dell’azione

di intervento e controllando la loro influenza. Tale monitoraggio permette di escludere

l’influenza di altri fattori non controllati e quindi di attribuire i cambiamenti al processo

attivato. Questi principi erano probabilmente alla base della stesura di protocolli terapeutici

quali la “prescrizione invariabile” adottata da Mara Palazzolo Selvini nell’ultima fase della

sua attività (Selvini e Pasin, 2005).

Un ulteriore livello di verifica è rappresentato dalla valutazione dell’efficienza

dell’intervento, ossia del rapporto tra risultato raggiunto e risorse impiegate. La funzione è

di poter massimizzare il risultati minimizzando i “costi”.

Galimberti (1991) sottolinea che una valutazione rigorosa e adeguata nel settore

dell’intervento psicologico può essere ricondotta sia a bisogni di ordine esterno, sia ad

esigenze interne. Gli aspetti esterni rimandano a chi (enti locali, assicurazioni,

associazioni, cooperative di lavoro sociale) finanzia queste attività. La crisi generalizzata

del welfare e la conseguente diminuzione delle risorse destinabili al settore dei servizi

sociali hanno accresciuto a vari livelli le esigenze di controllo sul grado di efficacia e di

efficienza di tali servizi. Le spinte alla valutazione derivano soprattutto dalla diminuzione

dei flussi di denaro investito e dalla corrispondente crescita delle esigenze di

razionalizzazione degli investimenti effettuati, un doppio movimento che spinge a valutare

la redditività dei servizi forniti secondo le prospettive tecnica, economica e politica. Gli

aspetti interni riguardano la differenziazione dell’offerta del lavoro terapeutico, ponendo

ogni gruppo di intervento (equipe terapeutica, scuola, …) di fronte all’esigenza di testare il

proprio modello per coglierne la differenza specifica rispetto al variegato panorama

generale. Il bisogno è quindi duplice: di riflessione sulla natura teorico-metodologica e

sull’efficacia del proprio lavoro.

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Queste riflessioni attraversano trasversalmente il mondo scientifico e si concretizzarono

negli USA nel Based Evidence Practice movement. Iniziarono nel 2001 nel mondo della

medicina (Institute of Medicine, 2001; Sackett, Stratus, Richardson, Rosenberg, & Haynes,

2000), per poi estendersi anhce al campo psicologico. L’American Psychologist

Association (A.P.A.) nel 2005 costituisce la Presidential Task Force on Evidence-Based

Practice in Psychology (EBPP) che si accorda nella seguente definizione: la pratica basata

sulle evidenze in psicologia è data dall’integrazione della ricerca con la pratica clinica, nel

rispetto delle caratteristiche del paziente, della sua cultura e delle sue opinioni.

(“Evidence-based practice in psychology (EBPP) is the integration of the best available

research with clinical expertise in the context of patient characteristics, culture, and

preferences.” APA, 2006, p. 273). La EBPP è subito distinta dai Trattamenti Dimostrai

Empiricamente (Empirically Supported Treatments; ESTs): se le ESTs si focalizzano sul

trattamento e sulla modalità di agire su specifici disturbi in specifiche condizioni, la EBPP

si interessa della persona e delle evidenze empiriche che devono giustificare il modo di

agire dello psicologo con lo specifico paziente.

In tale sede vengono anche definiti i tre elementi che devono caratterizzare le EBPP:

validità, molteplicità della delle evidenze di validità e la pratica clinica.

La validità delle pratiche deve essere sostenuta dalla più consistente ricerca disponibile,

provata scientificamente e ottenuta attraverso disegni e metodologie di ricerca che

attestino l’efficacia delle pratiche psicologiche. Tal efficacia deve essere provata su ampi

campioni di bambini, giovani, adulti e anziani e con problematiche psicologiche, di

dipendenza, di salute e relazionali. Tale validità va valutata anche in termini di riduzione di

costi medici, aumentata produttività e miglioramento della soddisfazione di vita.

La validità basata sulla ricerca deve essere sostenuta (Multiple Types of Research

Evidence) da risultati scientifici in focalizzati sulle strategie d’intervento, problemi clinici,

soggetti clinici e assessment. L’APA incoraggia che le EBPP siano sostenute da prove di

validità basate su disegni di ricerca multipli che prevedano osservazioni cliniche, ricerche

qualitative, studi dei casi sistematici, disegni di ricerca sperimentali di casi singoli, ricerche

epidemiologiche, ricerche etnografiche, studi di processi, ricerche su interventi condotti

“sul campo” e ricerche di meta analisi. Quest’ultime in particolare dovrebbero sintetizzare

sistematicamente più ricerche, testare le ipotesi e stimare quantitativamente le dimensioni

degli effetti.

Rispetto alle ricerche di valutazione su specifici interventi, l’APA raccomanda di osservare

due principi come già dichiarato nelle Linee Guida dei Criteri di Valutazione dei

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Trattamenti (APA, 2002). Il primo è quello dell’efficacia del trattamento sostenuto da una

valutazione scientifica e sistematica che determini se il trattamento funziona. Il secondo

criterio è quello dell’utilità clinica, ossia la sua applicabilità e utilità nello specifico ambiente

ove viene applicato e la sua generalizzazione ad altre situazioni.

La pratica clinica è essenziale per integrare e verificare la validità della ricerca con i dati

clinici. Tale scopo può essre raggiunto attraverso: (a) l’assessment, il giudizio diagnostico,

la sistematica formulazione del caso e la pianificazione del trattamento; (b) il modo in cui è

attuata la decisione per il tipo di intervento, la sua realizzazione il monitoraggio dei

progressi del paziente; (c) la comprensione dell’influenza sul trattamento delle differenze

individuali e culturali. Essa deve essere applicata in tutte le attività cliniche e non deve

essere limitata alla fase della costituzione dell’alleanza terapeutica e dell’ingaggio.

L’aspetto interessante di tutto il movimento è che la valutazione, pur nelle sue diverse

applicazioni, è oramai richiesta a tutti i livelli, come confermato anche dalla più recente

letteratura (Hillix & L’abate, 2012; Magnavita, 2012; Overton, 2012; L’Abate, Cusinato,

Colesso, & Sweeney, accepted for pubblication ).

Una prima sintesi che possiamo tracciare è che il processo valutativo nell’area

dell’intervento, sia esso diagnostico o di efficacia-efficienza, definisce un processo i cui

risultati restano sempre e comunque a disposizione del terapeuta che oltre a

implementarne le premesse, può utilizzarli nel suo intervento direttamente o indirettamente

(vedi Figura 2).

Fig. 2. Valutazione diagnostica, di efficacia ed efficienza

Valutazione ed Epistemologia Sistemica

Nell’ambito della valutazione della terapia familiare, l’epistemologia sistemica ha proposto

l’approccio estetico (la new epistemology), in contrapposizione all’approccio empirico

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(Tamanza, 1991). Uno degli obiettivi dichiarati è quello di liberarsi dell’“errore pragmatico”

(Allman, 1982), ossia della concezione riduttiva della famiglia in trattamento come un

sistema chiuso, separato ed indipendente da altri sistemi che ripropone il riduzionismo.

Tamanza ritiene che, di là dalle riflessioni indubbiamente suggestive, l’approccio estetico

abbia prodotto contributi poco significativi in ambito valutativo.

Giuliani (2002) propone una nuova concezione di valutazione coerente con l’epistemologia

sistemica, prospettando colloqui di valutazione condotti sulla traccia dello script familiare e

che puntano ad una riformulazione del problema in senso depatologizzante e quindi alla

costruzione di una nuova realtà. Esso si inserisce nell’ambito dell’approccio di copione

conversazionale (Giuliani, 2003) ispirato ai copioni familiari di Byng-Hall (1998). Giuliani

(2003) ha l’impressione che l’insieme delle pratiche che definiamo “psicodiagnosi”,

“valutazione psicologica” o “valutazione di personalità”, abbiano spesso la prerogativa

della comunicazione detta “monoculturale” o “etnocentrica” (con riferimento alla

tassonomia di Pearce, 1998, nel senso che assomiglia a un incontro fra due culture nel

quale le regole di attribuzione di significato sono proprietà di uno solo dei due

partecipanti). Le premesse circa il “bene” e il “male”, la “salute” e la “malattia”, il

“problema” e la “soluzione” appartengono soprattutto a uno dei due partecipanti, il

terapeuta, che può ritenerle indiscutibilmente migliori, o più sane, o più attendibili e

obiettive di quelle prodotte dall’altro e non si aspetta che l’altro non possa che

condividerle. Su questa base Giuliani suggerisce la possibilità di immaginare il processo di

valutazione diagnostica come comunicazione “cosmopolita”, ove gli altri sono definiti tutti

“simili”, tutti “nativi”: non perché condividano le stesse risorse, ma perché ciascuno è

parimenti formato dalla propria cultura, è diverso da chiunque altro ed è titolare di risorse e

chiavi di lettura uniche della realtà. Le risorse di ciascuno non sono a rischio perché

includono la possibilità di storie alternative che salvaguardano il mistero dell’incontro tra

“non nativi” realizzando la loro coerenza e coordinamento.

Pur con l’introduzione di importanti aspetti sistemici, la prospettiva del processo valutativo

resta comunque quello diagnostico.

Madonna (2003) allarga il concetto di diagnosi e valutazione dalla comune concezione (la

diagnosi dell’azione formale, finalistica, orientata al futuro, sotto il primato della coscienza

e valutabile secondo modalità etiche) alla diagnosi dell’azione processuale (l’azione che

esiste solo nel suo svolgersi, orientata al presente, narrante e conoscibile soltanto con

modalità estetiche): “produrre una metafora da immettere nel flusso della comunicazione

non è solo azione terapeutica che propone la rilettura di eventi o la ridefinizione di

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relazioni; è anche fare diagnosi, perché dischiude nuove e inimmaginate possibilità di

comprensione per discorsi e comportamenti” (p. 87).

Malgrado i tentativi prodotti per approcciarsi alla diagnosi, e più in generale alla

valutazione, gli sforzi tentati e i risultati prodotti appaiono scarsi. Di questa situazione ne

ha consapevolezza Viaro (2009) quando presenta una riflessione sulla necessità, per chi

utilizza l’epistemologia sistemica a livello d’intervento, di confrontarsi con i criteri di

scientificità richiesti dalle EBPP e dettati dalla Biologia che pervade il panorama

scientifico: ogni intervento che si qualifichi come cura deve produrre dati che soggiacciano

a criteri di scientificità definiti in modo preciso, anche perché “per convincere le agenzie

che terapia è efficace, bisognerà insomma parlare un linguaggio che sia loro noto, una

volta costatato che non si è riusciti a convincere gli altri ad imparare il nostro” (p. 101).

La co-valutazione formativa

Con questa espressione viene avanzata una proposta che possa rappresentare un

ulteriore sviluppo dell’utilizzo del processo di valutazione all’interno dell’epistemologia

sistemica: esso è inserito nel processo formativo, abbandonando la finalità puramente

diagnostica che ne ha sempre relegato i risultati a livello di premesse per il terapeuta che

ne aveva l’accesso esclusivo. Si propone di elaborare i dati osservati in un sistema e di

reintrodurli in un momento successivo nel sistema stesso come stimolo per perturbarlo.

Entrando nello specifico del processo, esso si sviluppa secondo i seguenti passaggi:

1. Osservazione di dati relativi aspetti relazionali più o meno specifici, che possono essere

raccolti attraverso questionari self-report, focus group o altre modalità (tempo tempo 0).

2. I dati sono successivamente elaborati (tempo 1), ossia messi a confronto con altri dati

(approccio nomo tetico) o con gli stessi all’interno dello stesso sistema (approccio

idiografico). Lo scopo è far emergere ed evidenziare delle differenze. Queste prime

elaborazioni sono definite “proto-informazioni”;

3. In un successivo momento (tempo 2), le proto-infomazioni vengono re-inserite nel

medesimo sistema dal formatore e utilizzate secondo le seguenti modalità:

a. I partecipanti alla seduta sono stimolati dal formatore ad esprimere le loro opinioni

rispetto al tema oggetto anche della valutazione al tempo 0;

b. I partecipanti alla seduta sono stimolati ad esprimersi rispetto gli altri partecipanti

rispetto il medesimo tema (domande triangolate);

c. I partecipanti sono stimolati a rilevare le differenze a livello individuali e diadiche

rispetto i temi trattati.

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d. Il formatore presenta le proto-informazioni opportunamente introdotte e

rappresentate. Deve altresì smorzare la portata “diagnostica” della valutazione

enfatizzando il suo uso come mezzo formativo e della cui lettura è “esperto”

soprattutto il soggetto valutato che può connetterla alla propria esperienza e storia.

e. I partecipanti ancora una volta i partecipanti a confrontare le proprie posizioni

rispetto le proto-informazioni (opportunamente introdotte e rappresentate ). Queste

nuove informazioni sono definite “deutero-informazioni”.

4. Il formatore partecipa attivamente alla formulazione di un’ipotesi che connetta tutte le

informazioni prodotte (tempo 4).

In questo processo è fondamentale il ruolo del formatore che deve avere nelle sue

premesse epistemologiche un atteggiamento “costruttivista” (essere consapevole che ogni

individuo è portatore in seduta di un proprio modo di costruire la realtà), “costruzionista

sociale” (essere consapevole che una nuova lettura della realtà può essere costruita –

ipotizzata – anche nella seduta a cui partecipa anche il terapeuta), focalizzato sulla

relazione e sulla circolarità. Egli partecipa alla “danza comune” che diventa, di fatto, una

danza comune sulle differenze (Figura 3).

Fig. 3. Il processo di co-valutazione formativa

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L’approccio formativo proposto rappresenta la lettura in chiave sistemica di un modello di

intervento preventivo per piccoli gruppi guidati da un formatore, corroborato da anni di

esperienza presso il Centro della Famiglia di Treviso nelle aree della genitorialità e del

pre-marriage. Il modello formativo consolidato prevede il succedersi strutturato di più

situazioni di confronto per i partecipanti rispetto specifiche tematiche: in gruppo

nell’incontro di apertura della tematica; a domicilio individualmente (prima) e

confrontandosi con il partner (poi) nel corso della settimana seguente; in gruppo, dopo una

settimana, nell’incontro di chiusura.

Il metodo della co-valutazione formativa è altresì alla base del processo attivato

dall’applicazione dello strumento RC-Ecomap recentemente validato (Colesso, 2012;

Colesso e Garrido Fernandez, 2012) e può essere utilizzato anche con altre metodologie

di rilevazioni dati concernenti l’area delle relazioni. Esso rappresenta una

operazionalizzazione dell’ecomappa di Hartmann (1995), uno strumento di assessment

usato nella pratica clinica per il monitoraggio degli elementi dell’ecologia umana. Essa

descrive graficamente le relazioni e i sistemi sociali che le persone creano al fine di

interagire più efficacemente sia con l’ambiente fisico, sia con quello sociale in cui vivono e

lavorano. Pertanto essa offre al ricercatore e al clinico la prova della grandezza, struttura e

funzione delle reti sociali stesse e come le relazioni si adattino e cambino col tempo dentro

i sistemi sociali individuali.

L’Ecomappa di Competenza Relazionale (RC-Ecomap) è la proposta per utilizzare la

rappresentazione grafica delle relazioni che una persona/coppia/famiglia realizza nei

propri ambienti di vita, avendo come riferimento concettuale non tanto un generico

paradigma ecologico, quanto la teoria della competenza relazionale (TRC, L’Abate, 2005).

Gli elementi che permettono di operazionalizzare l’ecomappa sono gli ambienti (Foa e

Foa, 1974; L’Abate, 1995, 2005) – Home, Work, Survival ed Enjoiment – le relazioni e i

loro contenuti (money, goods, services, information, importance, intimacy). Il processo Rc-

Ecomap è realizzato attraverso (1) la raccolta dati, (2) l’elaborazione dei dati raccolti e (3)

la restituzione della valutazione/diagnosi e sua lettura. La somministrazione dello

strumento è proposta attraverso un’applicazione strutturata che è realizzata

individualmente. Le analisi possono offrire indicazioni sulla qualità dei contesti relazionali

vissuti dall’individuo, coppia o famiglia e sulle priorità verticali ed orizzontali messe in atto.

A livello operativo le variabili scelte sono considerate di tipo categoriale, vale a dire

caratterizzate da categorie di risposta a livello di scala nominale. Allo scopo di indagare la

rilevanza di ciascuna variabile e le relazioni tra esse, sono costruite delle tavole di

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contingenza bivariate e trivariate nelle quali sono incrociate le variabili e quindi calcolati i

parametri marginali e incrociati e le relative significatività. La restituzione dei risultati

prevede la loro rappresentazione in una mappa sintetica ed intuitiva comprendente le

indicazioni statisticamente fondate delle priorità e del livello di competenza relazionale: la

discussione e lettura che ne segue con il soggetto valutato ne rappresenta il passaggio più

importante. La Figura 3 ne riporta un esempio: I quattro quadranti rappresentano i quattro

tipi di ambienti: casa, lavoro, ambienti di necessità e ambienti di libera scelta di

“ricreazione”. Nel rettangolo centrale è riprodotto lo schema base del genogramma. Il

quadrato/cerchio più marcato indica il/i soggetti/i dell’ecomappa. I quadrati e i cerchi nei

quattro quadrati rappresentano le persone (maschi o femmine) in relazione con il/i

soggetto/i.

Fig. 4. Esempio di Rc-Ecomap di restituzione

Conclusioni

Lo scopo del contributo era di aprire una riflessione sul ruolo della valutazione nel

pensiero sistemico. Le argomentazioni presentate hanno dimostrato che i due concetti

possono essere compatibili e che accanto una lente sistemica, e una solitamente

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psicoanalitica, non è detto che non possa trovarvi posto anche lente valutativa: alla fin

fine, una valutazione altro non è che un processo di ipotizzazione e la “co-valutazione

formativa”, un esempio di come valutazione e principi dell’epistemologia sistemica

possono essere coniugati a scopo di intervento.

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