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1 GIANFRANCO PASQUINO TRADURRE VOTI IN SEGGI () ”What’s gerrymandering?” Conor asked. “It’s a way of drawing electoral boundaries so some people’s votes don’t matter as much as others” Aine said. (C. Toibin, Nora Webster, New York 2014, p. 192). ABSTRACT. The translation of votes into seats is never a simple, unidimensional process. Even when the first elections took place and the electoral system utilized was the first past the post in single member districts, several variables could be technically “manipulated” It was especially the case of the drawing and redrawing of the boundaries of the districts in the imaginative way defined gerrymandering. This article argues that it was the emergence of the Socialist party in Belgium, capable of winning in many districts and of becoming stronger that both the Liberals and the Christians Democrats that was countered by the introduction of proportional representation in 1891. In a way, PR was a defensive formula against powerful insurgents. After Belgium, PR quickly spread to all the other, especially Nordic, countries, and then also to Italy. PR provides, as it ought to, for the parliamentary representation of political parties with reference to the number/percentage of votes they have received. However, “too much” representation may produce a dangerous fragmentation of the party systems, as, tragically, in the Weimar Republic. Hence, the search for correctives, the most important of them, introduced in post-1949 Germany, being a percentage threshold of access to Parliament. A close analysis of the German electoral system reveals another important feature. Not only can German voters cast two votes: one for candidates in single-member districts, the other for their preferred party in each Land, they do so in a strategic way rewarding candidates and parties that have joined an electoral alliance soon to be a governmental coalition. The article also gives some attention to two non-PR electoral systems: the majority system of Australia and the run off majority system utilized in France since 1958. A quick survey of all the electoral systems at work in the world indicates that there are some mixed systems, but the majority of the existing systems are either plurality or proportional. While it is true that there is no electoral system that can be defined perfect, it is also true, the author concludes, that the new Italian electoral system called Italicum, certainly does not belong to the category of the best of them. () Lectio brevis tenuta nella seduta dell’11 marzo 2016.

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GIANFRANCO PASQUINO

TRADURRE VOTI IN SEGGI()

”What’s gerrymandering?” Conor asked. “It’s a way of drawing electoral boundaries so some people’s votes

don’t matter as much as others” Aine said. (C. Toibin, Nora Webster, New York 2014, p. 192).

ABSTRACT. The translation of votes into seats is never a simple, unidimensional process. Even when the first elections took place and the electoral system utilized was the first past the post in single member districts, several variables could be technically “manipulated” It was especially the case of the drawing and redrawing of the boundaries of the districts in the imaginative way defined gerrymandering. This article argues that it was the emergence of the Socialist party in Belgium, capable of winning in many districts and of becoming stronger that both the Liberals and the Christians Democrats that was countered by the introduction of proportional representation in 1891. In a way, PR was a defensive formula against powerful insurgents. After Belgium, PR quickly spread to all the other, especially Nordic, countries, and then also to Italy. PR provides, as it ought to, for the parliamentary representation of political parties with reference to the number/percentage of votes they have received. However, “too much” representation may produce a dangerous fragmentation of the party systems, as, tragically, in the Weimar Republic. Hence, the search for correctives, the most important of them, introduced in post-1949 Germany, being a percentage threshold of access to Parliament. A close analysis of the German electoral system reveals another important feature. Not only can German voters cast two votes: one for candidates in single-member districts, the other for their preferred party in each Land, they do so in a strategic way rewarding candidates and parties that have joined an electoral alliance soon to be a governmental coalition. The article also gives some attention to two non-PR electoral systems: the majority system of Australia and the run off majority system utilized in France since 1958. A quick survey of all the electoral systems at work in the world indicates that there are some mixed systems, but the majority of the existing systems are either plurality or proportional. While it is true that there is no electoral system that can be defined perfect, it is also true, the author concludes, that the new Italian electoral system called Italicum, certainly does not belong to the category of the best of them.

                                                            () Lectio brevis tenuta nella seduta dell’11 marzo 2016. 

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Anche dopo trentacinque anni di dibattiti e almeno cinque riforme dei sistemi elettorali italiani, c’è ancora molto bisogno di spiegare, soprattutto in Italia, che cosa è un sistema elettorale, quante varietà ne esistono, come sono venute in essere, quali obiettivi perseguono e con quali criteri debbono essere valutati e, eventualmente, modificati. Poiché è proprio attraverso i sistemi elettorali che, nei regimi democratici, i cittadini danno potere ai rappresentanti e, più o meno indirettamente, ai governanti, i sistemi elettorali sono formule e meccanismi della massima importanza che hanno enorme influenza sulla qualità della politica e della stessa democrazia.

PREMESSA In democrazia, «la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1, comma secondo). Fra gli strumenti per l’esercizio della sovranità popolare, le leggi elettorali occupano un posto di assoluto rilievo. Danno agli elettori il potere di scegliere i rappresentanti a tutti i livelli. Pertanto, non deve sorprendere che, persino nelle democrazie più consolidate, USA e Regno Unito (dove si è addirittura tenuto nel 2011un referendum per passare ad un diverso sistema, respinto dal 68 per cento del 42 per cento dei votanti), esista, seppure in forme non esasperate. un dibattito sia sul sistema elettorale in quanto tale sia su alcuni suoi meccanismi. Il tema è all’ordine del giorno in Italia da più di trent’anni; molto immodestamente potrei dire da quando il 4 luglio 1984 presentai una articolata proposta di riforma elettorale nella Commissione Bozzi. Seguirono due referendum, uno sulla preferenza unica (9 giugno 1981), l’altro per cambiare il sistema elettorale del Senato (18 aprile 1993), entrambi approvati dagli elettori che condussero a leggi elettorali maggioritarie con recupero proporzionale leggermente diverse per la Camera e per il Senato. Altri referendum, intesi a rendere il sistema elettorale più compiutamente maggioritario, fallirono per mancanza di quorum. Una importante richiesta di referendum, che avrebbe portato alla reviviscenza del sistema sanzionato dagli elettori quasi vent’anni prima, venne bocciata nel 2012, mi permetterei di dire, inopinatamente e improvvidamente, («incerta giurisprudenza in materia elettorale» ricordo che disse Enzo Cheli) dalla Corte Costituzionale. Due anni dopo, la Corte distrusse la legge vigente e diede una spinta possente alla formulazione di una nuova legge elettorale. Approvato all’inizio del maggio 2015, l’Italicum andrà sicuramente

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incontro a “opportune verifiche di costituzionalità” preannunciate dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questa lunga, ma inevitabile, digressione introduttiva, non può fare trascurare che tutti i sistemi politici che, più o meno fortunosamente e deliberatamente, cercano di instaurare un regime democratico, sono valutati anche con riferimento alla legge elettorale che si danno e alle modalità con le quali la applicano. Il “semplice atto di votare” che, incidentalmente, per la grande maggioranza dei cittadini costituisce l’unico atto di partecipazione nella loro vita, è, invece, da un lato, tutt’altro che semplice, dall’altro, fortemente influenzato dal sistema elettorale vigente. Il mantra degli inadeguati riformatori elettorali è che non esiste un sistema elettorale perfetto. La ineccepibile replica è che, comunque, esistono sistemi elettorali migliori di altri, che hanno dato buona prova di sé per molti decenni, anche per un secolo e più, sistemi che funzionano e non vengono né continuamente rimessi in discussione né frequentemente modificati. Esistono sistemi elettorali, riferendomi al titolo della mia lectio, che più e meglio di altri traducono in maniera efficace i voti in seggi, che sono giustificatamente considerati preferibili con riferimento agli obiettivi politici da perseguire e conseguire. Ripeto che l’obiettivo predominante affidato ai sistemi elettorali conosciuti è costituito dalla traduzione dei voti espressi dagli elettori in seggi per i rappresentanti. Niente di meno, ma anche niente di più. A seconda del modello di governo e delle modalità di elezione, i rappresentanti hanno compiti specifici e diversi che sono messi in grado di svolgere con maggiore o minore autonomia. Non esiste nessun sistema elettorale che consente ai cittadini di eleggere il governo. Nelle Repubbliche presidenziali, gli elettori eleggono non il governo, ma il suo capo che è anche capo dello Stato. Nelle Repubbliche semipresidenziali, gli elettori eleggono il capo dello Stato, che non è mai il capo del governo, ma, a determinate condizioni, vale a dire purché lo schieramento che a lui fa riferimento abbia la maggioranza in Parlamento, può procedere alla formazione del governo e alla nomina del suo capo (come avviene regolarmente nella Quinta Repubblica francese a partire dal 1958). Nelle democrazie parlamentari, gli elettori eleggono un Parlamento nel quale i loro rappresentanti avranno il compito, nella dottrina parlamentare inglese da sempre considerato il più importante, di dare vita ad un governo, di sostenerlo nelle sue attività oppure, eventualmente, di sostituirlo in maniera del tutto legittima.

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Nel corso del tempo, tenendo conto della società alla quale volevano fornire rappresentanza politica, i riformatori elettorali hanno individuato una varietà di meccanismi e di formule elettorali e sono periodicamente intervenuti per rendere quegli insiemi più efficaci, talvolta combinando l’obiettivo dominante: la rappresentanza, con un obiettivo considerato molto importante, ma non a qualsiasi prezzo, la stabilità dei governi. Comprensibilmente, ciascuno dei riformatori ha sempre cercato di individuare formule che consentissero di perseguire obiettivi generali di buon funzionamento del sistema politico, al tempo stesso, favorendo gli interessi del suo partito. Guardando dall’esterno, è legittimo sostenere che il criterio prioritario e sovrastante, anche se certamente non l’unico, con il quale valutare qualsiasi sistema elettorale, dovrebbe essere costituito dal potere dell’elettore, potere che può essere meglio acquisito, rafforzato o indebolito da numerose, piccole, ma tutt’altro che ininfluenti, clausole.

ALL’INIZIO, FIRST PAST THE POST La storia della democrazia elettorale comincia in Inghilterra e, quasi contemporaneamente, negli Stati Uniti d’America. Il primo sistema elettorale utilizzato, rimasto oramai da ben più di due secoli (c’è una lectio, non brevis, anche in questo) in entrambi i paesi sostanzialmente immutato, è correttamente, vale a dire, tecnicamente, definito plurality oppure first past the post, con una di quelle espressioni, molto frequenti in entrambi i paesi, tratte dalla vita quotidiana: il primo cavallo che supera il palo del traguardo ha vinto. Nei collegi, che sono uninominali, vince il seggio il candidato che ottiene la maggioranza, che è frequentemente, soltanto relativa, dei voti. Dopodiché, conseguenza spesso trascurata sia dai commentatori sia, persino, dagli studiosi, il vincitore cercherà di rappresentare tutto il collegio, non soltanto i suoi elettori. Infatti, il rappresentante è o diventerà presto consapevole che, poiché una parte del suo elettorato finirà per considerare alcune sue aspettative trascurate e alcune promesse del candidato non mantenute, egli dovrà cercare di conquistare altri elettori. Come, memorabilmente, si dice che abbia dichiarato Edmund Burke nel corso della sua campagna elettorale quale candidato conservatore nel collegio di Bristol nel 1774, su alcune materie egli avrebbe rappresentato gli interessi e le preferenze degli elettori del collegio (sano localismo); su altre si sarebbe adeguato al programma nazionale del suo partito (apprezzabile disciplina di partito); infine, sulle materie imprevedibili, derivanti da emergenze: inondazioni, epidemie,

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guerre, il suo voto in Parlamento avrebbe risposto anzitutto alla sua coscienza (qui si misura tutta l’importanza dell’assenza di un improponibile vincolo di mandato), fermo restando che sarebbe poi andato a spiegare agli elettori le motivazioni del suo voto (voto, dunque, non di sola, imperscrutabile, coscienza, ma anche di accertabile e confutabile “scienza”). Il pregio del collegio uninominale consiste nell’offrire la migliore rappresentanza personalizzata possibile. Per garantire l’eguaglianza del voto e per riuscire a svolgere in maniera efficace e democratica il dovere politico e istituzionale della rappresentanza, è opportuno che i collegi uninominali siano equilibrati, ovvero abbiano tutti un numero di elettori abbastanza simile. Pertanto, i collegi debbono essere periodicamente ridefiniti (operazione che si chiama redistricting), meglio se dopo ciascun censimento nazionale, affinché il numero degli elettori non risulti squilibrato. Il disegno dei collegi deve anche tenere conto di alcune caratteristiche geografiche: fiumi, montagne, quartieri urbani, in modo che non vengano ritagliati collegi artificiali, troppo omogenei o troppo disomogenei, mirati a dare vantaggi e svantaggi a specifici candidati. Anche per queste, nient’affatto rare, manipolazioni disponiamo di un termine preciso con una lunga storia: gerrymandering. È quanto con notevole destrezza faceva nei primi decenni del secolo XIX il governatore democratico del Massachusetts Elbridge Gerry, che fu anche un Padre Costituente, per fabbricarsi una maggioranza nella sua Assemblea legislativa. Alcune assemblee contemporanee degli Stati USA, controllate dai repubblicani, come, ad esempio, al più alto grado, il Texas, ma non solo, anche soprattutto, la Florida e la Pennsylvania, continuano a esercitarsi in forme più o meno raffinate di gerrymandering.

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Fig. 1 Gerrymandering negli USA. (Da Ch. Ingraham, America's most gerrymandered congressional districts, «The

Washington Post», May 15 2014). È esistito anche un gerrymandering “positivo”, effettuato dai Democratici in alcuni stati del Sud negli anni novanta dello scorso secolo con l’obiettivo di dare rappresentanza agli elettori di colore, come si vede dalla figura tratta dal “New York Times”. Con una sentenza sofferta, la Corte Suprema degli USA ha dichiarato incostituzionale il ritaglio di tutt’e tre quei collegi.

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Fig. 2 Gerrymandering “positivo”, in alcuni stati del Sud.

I collegi uninominali che si accompagnano al sistema plurality, one person one vote one representative, hanno una serie di effetti sui comportamenti di voto e di conseguenze su candidati e partiti. Alcuni di questi effetti e le relative conseguenze gli italiani hanno potuto riscontrarli, seppure non dispiegati nella loro pienezza, nei collegi uninominali utilizzati al tempo della legge elettorale da Sartori beffardamente definita Mattarellum. Il grande giurista-politologo francese Maurice Duverger (1917-2014) ha scritto, al proposito, che nei collegi uninominali a turno unico si manifestano due effetti: un effetto psicologico, che oggi meglio definiremmo come strategico, e un effetto meccanico. Il primo effetto opera sugli elettori i quali, accortisi di una distribuzione di voti che produce la vittoria del candidato da loro più sgradito e che rende molto improbabile la vittoria del candidato da loro preferito, si riposizionano, talvolta incoraggiati, guidati e coordinati dagli stessi candidati e dai dirigenti dei partiti locali, convergendo sul candidato loro meno sgradito che abbia le maggiori probabilità di sconfiggere il più sgradito. Nel medio periodo, misurato con riferimento al numero delle elezioni, almeno tre o quattro, si manifesta anche un effetto meccanico. In ciascun collegio il numero dei candidati finisce per ridursi di molto, ma solo eccezionalmente, a due. In pratica, questo effetto riduttivo, neppure in Gran Bretagna, la patria del bipartitismo, è mai stato completamente

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conseguito. Anzi, nonostante il declino secolare dei Liberali, nella maggioranza dei collegi uninominali della Gran Bretagna, la competizione ha continuato regolarmente a svolgersi fino alle più recenti elezioni fra tre o più candidati (nel 2015 anche sei o sette). Come ha opportunamente sottolineato Giovanni Sartori, spesso esistono minoranze, ideologiche, etniche, regionalistiche, irriducibili che, se sono geograficamente concentrate, non soltanto riescono ad affermarsi in non pochi collegi, ma sono in grado di impedire la nascita e addirittura di minare la sopravvivenza di un sistema bipartitico. D’altronde, nessun sistema bipartitico è mai semplicemente il prodotto del sistema elettorale plurality in collegi uninominali. Richiede l’esistenza ovvero l’affermazione di partiti organizzati sul territorio nazionale. In contesti caratterizzati da disomogeneità dei più vari tipi e dall’esistenza di forti partiti locali/statuali, come, ad esempio, l’India, ma anche il Canada, entrambi paesi che continuano ad usare il sistema elettorale inglese, è molto improbabile, ancorché non del tutto impossibile, che il bipartitismo nella sua schematicità, due soli partiti che contano e che possono vincere, emerga e regga. Tuttavia, per quel che riguarda l’India la competizione si è mantenuta efficacemente bipolare, mentre in Canada continua ad essere possibile e effettivamente si produce la vittoria di un solo partito che conquista, anche grazie al sistema elettorale, la maggioranza assoluta dei seggi, abitualmente con circa il 36-39 per cento dei voti. È un effetto maggioritario favorevole ad entrambi i grandi partiti che non deriva da nessun premio artificiale, ma dalle vittorie collegio per collegio decretate dagli elettori. Sulla scia inglese, praticamente tutti i sistemi politici dell’Europa continentale e, in seguito, anche tutti i sistemi politici di quella che chiamerò la diaspora anglosassone: dal Canada alla Nuova Zelanda e all’Australia, nonché, in seguito dalla Giamaica alle Barbados e alle Bahamas, dal Kenya al Ghana e, in maniera soltanto parzialmente sorprendente, all’India, adottarono inizialmente leggi elettorali maggioritarie in collegi uninominali (e se le sono preservate con cura). Il sistema elettorale di tipo inglese fu utilizzato anche nelle elezioni svoltesi nel Regno di Sardegna e un sistema elettorale maggioritario a doppio turno in collegi uninominali (con i prefetti di Giovanni Giolitti che impedirono a Gaetano Salvemini di vincere nel collegio di Molfetta, mentre Agostino Depretis fu ripetutamente deputato di Stradella e Andrea Costa divenne nel 1882 deputato socialista ante litteram nel collegio di Imola) ha caratterizzato le elezioni tenutesi nel Regno d’Italia dal 1861 al 1911. Appare, dunque, profondamente errata, non soltanto geneticamente,

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ma politicamente, l’affermazione troppo spesso pappagallescamente ripetuta, che gli italiani hanno la rappresentanza proporzionale nel loro DNA. Al contrario, semmai nel DNA, a cominciare da quello dei miei bisnonni maschi (le bisnonne non godevano del diritto di voto), si trova un sistema maggioritario a doppio turno. Naturalmente, in Italia e in Europa, fintantoché, a causa del suffragio ristretto ai ceti abbienti, gli elettori rimasero molto omogenei per appartenenza sociale, per reddito, per istruzione, la vittoria di un candidato invece di un altro non faceva grande differenza. (Nel Regno di Sardegna, la poca distanza politica intercorrente fra i parlamentari consentì il connubio Rattazzi-Cavour e nel Regno d’Italia favorì il trasformismo il quale, nell’Italia repubblicana, soprattutto dopo il 1994, è diventato anche un importante segnale della disgregazione dei partiti e dell’opportunismo degli eletti). Quando, però, aumentarono le distanze fra i candidati e fra i partiti che miravano ad ottenere i voti degli elettori e a rappresentarli, si pose il problema di quale sistema elettorale avrebbe potuto garantire una migliore rappresentanza senza troppi pericoli per i ceti sociali che avevano fino ad allora governato nei diversi sistemi politici dell’Europa occidentale.

L’AVVENTO DELLA PROPORZIONALE La svolta avvenne in Belgio verso la fine del XIX secolo allorquando i due partiti, liberali e democristiani, che si erano sostanzialmente spartiti la maggioranza dei seggi in Parlamento, si trovarono sfidati nei collegi uninominali dai candidati del Partito Socialista in crescita apparentemente inarrestabile. Nelle competizioni tripolari, con poco più del trenta/trentacinque per cento dei voti i candidati socialisti erano molto spesso in grado di sconfiggere di collegio in collegio sia i candidati liberali sia i candidati democristiani. Il rischio per entrambi i loro partiti era di essere rapidamente soppiantati al governo da un partito che aveva due caratteristiche non proprio gradite dai liberali e dai democristiani, rispettivamente: essere espressione della classe operaia e promuovere valori laici. Con la consulenza del matematico belga Victor d’Hondt, la cui formula di traduzione di voti in seggi è tuttora utilizzata in diversi sistemi politici, Liberali e Democristiani redassero e approvarono la prima legge elettorale proporzionale. Alla percentuale di voti ottenuta dai singoli partiti in circoscrizioni che eleggevano più deputati faceva seguito una percentuale non molto difforme di seggi in Parlamento.

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Concretamente, la proporzionale cambiò in maniera significativa l’assegnazione dei seggi. Considerando, ad esempio, dieci collegi uninominali, mentre, grazie ad una percentuale di voti all’incirca pari a 35 in ciascun collegio uninominale i Socialisti potevano riuscire a vincere anche tutti i seggi e i Democristiani con 33 per cento e i Liberali con 32 non ne vincevano neanche uno, nella più ampia circoscrizione alla quale siano assegnati dieci seggi, con le percentuali di voti di cui sopra, la legge elettorale proporzionale ne attribuirebbe quattro ai Socialisti e tre ciascuno ai democristiani e ai liberali. Adottata in chiave difensiva dai due partiti, il cui consenso veniva eroso, ma che erano ancora maggioritari in Parlamento, la proporzionale dimostrò di essere in grado di offrire rappresentanza parlamentare a un numero maggiore di elettori di quanto faceva il sistema plurality. Una volta introdotta in Belgio, la proporzionale fu rapidamente importata, non senza una buona dose di conflitti, nei paesi scandinavi: Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia, dove, seppure, con alcune poche modifiche (relative alla formula elettorale e alla soglia per l’accesso al Parlamento), che non hanno significativamente intaccato il principio della proporzionalità, è rimasta vigente fino ai nostri tempi. Vorrei sottolineare la troppo spesso dimenticata componente difensiva delle leggi elettorali proporzionali con riferimento a due tentativi di passaggio da sistemi maggioritari a sistemi proporzionali in paesi molto diversi e con esiti opposti: Gran Bretagna e Italia. Verso la fine del secolo XIX anche in Gran Bretagna l’ascesa dei laburisti stava insidiando il potere dei due partiti Conservatori e Liberali che se lo erano fino a quel momento spartito, alternandosi al governo del paese. Anche in Gran Bretagna erano i Liberali a soffrire maggiormente l’avanzata dei Laburisti. Furono loro a cercare di ottenere un numero sufficiente di voti in Parlamento per introdurre la rappresentanza proporzionale. Dopo qualche titubanza, però, i Conservatori respinsero qualsiasi riforma ritenendo che con il sistema plurality avrebbero comunque potuto continuare a vincere. Tra il 1910 e il 1928 si consumò la crisi dei Liberali e proseguì l’ascesa, in buona misura a loro spese, dei Laburisti. Pur mantenendo un consenso elettorale intorno tra il 10 e il 20 per cento dei voti, i Liberali furono esclusi dal governo fino al 2010. La riforma elettorale fu frequentemente agitata contro il sistema plurality che conferiva potere di governo a partiti, i Conservatori e i Laburisti, entrambi raramente capaci di ottenere neppure il 40 per cento dei voti, eppure premiati con maggioranze assolute di seggi. Tuttavia, soltanto nel 2011 si tenne un referendum elettorale che, peraltro, avrebbe

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prodotto il passaggio ad un sistema detto Voto Alternativo, di impianto anch’esso maggioritario. Fu bocciato da una maggioranza alquanto larga degli elettori inglesi. A Giovanni Giolitti non era affatto sfuggito il pericolo che nei collegi uninominali italiani la crescita dei socialisti e la comparsa dei popolari finissero per erodere in maniera sostanzialmente decisiva e definitiva le possibilità di vittoria dei candidati liberali che non erano mai riusciti a dare vita ad un partito organizzato simile a quelli europei. Dunque, la motivazione difensiva, salvare quel che restava dei Liberali, per l’introduzione della proporzionale, prima annunciata insieme ad un’espansione del suffragio, poi attuata e applicata la prima volta nelle elezioni del 1919, è assolutamente evidente. Nelle elezioni successive, 1921, la proporzionale consentì anche, esito scontato e inevitabile, l’elezione di 35 deputati fascisti. Non c’era molto potere costituito da difendere nella Repubblica di Weimar (1918-1939) al momento della elaborazione di una nuova legge elettorale. Inoltre, il partito più forte, vale a dire i socialdemocratici, non potevano certo sconfessare tutte le loro battaglie per una rappresentanza politica la più ampia possibile a sostegno della Repubblica democratica post-imperiale. Troppo spesso accusata di responsabilità non sue nell’ascesa del nazismo e del susseguente crollo della Repubblica, la legge elettorale proporzionale tedesca applicata in grandi circoscrizioni, per di più con recupero dei resti, non prevedeva nessuna soglia minima per l’accesso al Reichstag. Sarebbe esagerato e quasi sicuramente sbagliato sostenere che quella legge di per sé incoraggiasse, se non addirittura producesse, la frammentazione partitica. Certo il numero dei partiti passò da 14 nel 1920 a 28 nel 1932. Non è soltanto questioni di verbi. Sartori sostiene che la proporzionale fotografa la frammentazione esistente dei partiti e ne consente la più fedele traduzione nell’assemblea elettiva. Credo che sia più corretto affermare che leggi proporzionali prive di qualsiasi clausola di accesso al parlamento consentono e persino agevolano la frammentazione, ad esempio, come il caso italiano ha dimostrato ad libitum (a mo’ d’esempio, 1947; 1964; 1969-1972; e, decisivo, 1991) non punendo le scissioni, ma rendendole praticabili con pochissimi rischi. Quindi, mi sento di sostenere che l’esistenza di un sistema proporzionale non produce la frammentazione dei partiti, ma, a determinate condizioni, la permette e la facilita. Quando le soglie d’ingresso nell’arena elettorale sono inesistenti oppure molto basse, qualsiasi organizzazione sociale può cercare di ottenere direttamente rappresentanza parlamentare, ancorché piccola. Farò un solo esempio,

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italiano, l’ala sinistra delle ACLI, guidata da Livio Labor, si presentò alle elezioni del 1972 come Movimento Politico dei Lavoratori. Ottenne 120 mila voti, non superando le pure molto basse soglie di accesso per entrare alla Camera dei Deputati. Una volta l’introdotto un sistema elettorale proporzionale, ne consegue la necessità di presentare un buon numero di candidati in tutte le circoscrizioni elettorali. All’uopo diventa indispensabile la formazione di partiti capaci di darsi un’organizzazione nazionale in grado di reclutare, selezionare e sostenere i candidati prescelti. L’impossibilità per gli elettori di conoscere tutti, ma neppure la maggior parte dei candidati che si presentano nelle loro circoscrizioni, spinge nella direzione di un voto che viene dato principalmente al partito. Sintetizzando, la proporzionale accompagnò la politica che diventava di massa e i fattori organizzativi e ideologici presero il sopravvento sui fattori personali che tanto avevano contato nei collegi uninominali dove spesso erano eletti i cosiddetti notabili.

TEMPERARE LA PROPORZIONALITÀ Nel corso del tempo divenne altresì chiaro a tutti, ma in particolare ai dirigenti dei partiti, in special modo di quelli in grado di andare al governo, che la proporzionale presentava il grave rischio di consentire la frammentazione eccessiva dei partiti e del sistema di partiti. Si rese necessario “temperare/contenere” la proporzionalità della legge elettorale senza violarne il principio costitutivo: ad una determinata percentuale di voti deve corrispondere una percentuale non molto dissimile di seggi. Sono stati tre i correttivi escogitati, tuttora validi e applicati con successo: le dimensioni delle circoscrizioni; le clausole di sbarramento per impedire un troppo facile accesso all’assemblea elettiva; le formule matematiche di traduzione dei voti in seggi. Per dimensione della circoscrizione s’intende il numero dei seggi da attribuire in quella circoscrizione. Grande è una circoscrizione che attribuisca venti o più seggi; piccola è una circoscrizione che assegni dieci seggi o meno. Nella prima, per vincere un seggio i partiti debbono ottenere all’incirca il 5 per cento dei voti; nella seconda quasi il 10 per cento. Il cosiddetto recupero dei resti, ovvero dei voti rimasti inutilizzati dopo la ripartizione dei seggi, è il modo più frequentemente adottato per dare rappresentanza anche ai partiti al di sotto del 5 per cento. Soltanto due paesi abbastanza piccoli, Olanda e Israele, non suddividono il loro territorio in circoscrizioni perseguendo il

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molto comprensibile obiettivo di consentire rappresentanza parlamentare anche a interessi, opinioni, preferenze piuttosto minoritarie. Naturalmente, questa rappresentanza si traduce regolarmente in governi multipartitici di coalizione. La clausola di sbarramento o soglia per l’accesso all’assemblea elettiva mira esplicitamente a scoraggiare la frammentazione in partiti piccoli e a impedirne la rappresentanza parlamentare. Se i voti conquistati su scala nazionale da un partito non superano la soglia, quel partito non otterrà nessun seggio. Da quando fu introdotta per la prima volta nel nuovo sistema elettorale proporzionale della Repubblica federale tedesca post-1949, posta a livello del 5 per cento, la clausola di sbarramento è stata importata anche nei sistemi elettorali proporzionali di altri paesi: in Svezia è del 4 per cento; in Spagna del 3 per cento; in Polonia del 5 per cento; nel cosiddetto Italicum, dopo non pochi tentennamenti, si è attestata al 3 per cento. Tutte queste clausole percentuali condividono un pregio: sono chiare, neutre, non manipolabili, note non soltanto ai partiti, ma anche agli elettori che hanno la possibilità di comportarsi di conseguenza. A questo punto mi pare opportuna una sintetica digressione sulla legge proporzionale italiana usata dal 1946 al 1992. Applicata in circoscrizioni di dimensioni medio-grandi (ad esclusione, ovviamente della Valle d’Aosta; del Trentino-Alto Adige; e del Molise), la proporzionale italiana aveva due clausole meglio definibili come clausole d’accesso piuttosto che di esclusione. Per ottenere seggi nella Camera dei deputati, un partito doveva ottenere almeno 300 mila voti su scala nazionale e fare il quorum, ovvero eleggere almeno un deputato in una circoscrizione. Questo significava che, nelle circoscrizioni di grandi dimensioni, come, in particolare, quelle di Roma e di Milano, alle quali erano attribuiti circa cinquanta parlamentari, era necessario conquistare poco più di 60 mila voti per fare il quorum, ovvero eleggerne un deputato. Nel corso del tempo, molti furono, comunque, i partiti, in particolare, di sinistra, come il Manifesto e il Movimento Politico dei Lavoratori nel 1972 (ma anche i monarchici), che vennero esclusi dalle due clausole anti-frammentazione. Il caso più eclatante è costituito dallo PSIUP nel 1972. Pure avendo ottenuto la ragguardevole cifra di quasi 650 mila voti su scala nazionale, il Partito Socialista di Unità Proletaria non riuscì a raggiungere il quorum in nessuna circoscrizione e rimase escluso dalla rappresentanza nella Camera dei deputati, praticamente concludendo la sua breve traiettoria politica iniziata nel 1964.

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Le tre formule matematiche per ripartire fra i partiti i seggi assegnati a ciascuna circoscrizione sono la formula d’Hondt, la formula Sainte-Lagüe e la formula Hare-Niemeyer. Non mi ci soffermo. Mi limito a segnalare che la prima avvantaggia i partiti più grandi; la seconda è più equilibrata; la terza è la più favorevole ai partiti piccoli. La Germania ha utilizzato il metodo d’Hondt fino al 1985. Poi fino al 2008 ha fatto uso del metodo Hare-Niemeyer e nelle due elezioni successive il metodo Sainte-Lagüe. Per quanto, concretamente, si possa trattare della redistribuzione di qualche manciata di seggi, per alcuni piccoli partiti l’utilizzo della formula Hare-Niemeyer è provatamente molto più vantaggiosa. Anche se inevitabilmente riduce la proporzionalità dell’esito complessivo, il premio di maggioranza non appartiene propriamente alla categoria dei rimedi contro l’eventuale frammentazione dei partiti. Mi limito a ricordare che una delle leggi elettorali elaborate e approvate su stimolo referendario, quella per l’elezione dei sindaci, prevede un premio in seggi per il vincitore del ballottaggio. Che nel 1953 la legge definita truffa attribuiva due terzi dei seggi alla coalizione che avesse ottenuto il 50 per cento più uno, ovvero la maggioranza assoluta, dei voti. Che sia la legge formulata dal centro-destra nel 2005 sia l’Italicum contemplano lo stesso premio di maggioranza: 340 seggi alla Camera dei deputati attribuiti, rispettivamente, secondo la legge del 2005 a qualsiasi coalizione avesse ottenuto più voti, senza nessuna soglia minima; secondo l’Italicum al partito o alla lista (dunque, non ad una coalizione di partiti o sommatoria di liste) che abbia ottenuto il 40 per cento più uno dei voti validi al primo turno oppure al partito vittorioso al ballottaggio, del tutto a prescindere dalla percentuale di voti da lui ottenuti al primo turno. La logica del premio di maggioranza, ovvero l’obiettivo dominante, è quello di dare vita ad un governo dotato di una maggioranza alla Camera dei deputati tale da garantirgli la stabilità e la durata. In un certo senso, ridefinisce il modello di governo parlamentare classico dando più forza al governo e ridimensionandone la flessibilità in quanto alla formazione delle coalizioni e alla sostituzione del capo del governo. Il resto, ovvero, l’efficacia, che taluni definiscono impropriamente governabilità, è nelle mani e nelle qualità dei governanti. Tutte le leggi proporzionali italiane alle quali ho fatto cenno: truffa, Porcellum, Italicum, hanno, merita sottolinearlo, un impianto solidamente proporzionale. La caratteristica più negativa della legge del 2005 era rappresentata dal voto di lista bloccato che eleggeva i parlamentari senza nessuna possibilità per gli elettori di cambiare la posizione prestabilita dai dirigenti di partito, con l’aggravante delle pluricandidature, possibili, al

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limite, in tutte le circoscrizioni. L’Italicum stabilisce che soltanto i capilista in ciascuna delle 100 circoscrizioni sono bloccati e riduce le candidature multiple a dieci circoscrizioni. (La rappresentanza politica per essere democratica deve essere elettiva. I rappresentanti di collegio nominati dall’alto, che non possono essere sconfitti dagli elettori e sostituiti, meritano di essere definiti correttamente “commissari politici”). Inoltre, nell’Italicum gli elettori possono esprimere fino a due voti di preferenza purché siano indirizzati a candidature di genere diverso; altrimenti, una sola preferenza.

TRE CASI ESEMPLARI

La varietà delle modalità praticabili per la traduzione dei voti in seggi è molto ampia. Fra quelle esistenti vi sono tre casi che, sia per l’importanza dei paesi nei quali sono utilizzate sia per la loro diversità sia perché sono state spesso richiamate nel dibattito italiano, meritano particolare attenzione: Australia, Francia, Germania. Il sistema elettorale australiano è un sistema majority applicato in collegi uninominali. Gli elettori debbono, pena l’invalidità del loro voto, assegnare un ordine di preferenza a tutti i candidati del loro collegio. Se nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta dei voti espressi in quel collegio, di qui il termine majority, si procede alla redistribuzione delle preferenze ottenute dal candidato che ha avuto il minor numero di prime preferenze e così di seguito fino a che un candidato supera la soglia del cinquanta per cento.

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Fig. 3 Scheda elettorale australiana. (Da H. Penniman, Australia at the Polls. The National Elections of 1980 and 1983,

Washington, D.C.-London-Sidney 1983, p. 331). Il sistema elettorale australiano, che in Italia ha goduto di breve ed effimera popolarità, diventa di difficile, per quanto non impossibile, applicazione qualora il numero dei candidati finisca per essere molto elevato. Il sistema australiano richiede una notevole capacità da parte dei dirigenti di partito di orientare, oltre alle prime, anche le seconde, le terze e, eventualmente, le quarte e così via preferenze in ciascun collegio. Dipende anche dal grado di informazione che gli elettori desiderano e sono capaci di acquisire. Probabilmente, dopo avere deciso in quale ordine classificare i primi tre o quattro candidati, gli elettori procedono casualmente, at random.

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TABELLA 1 Schema del procedimento elettorale con il voto alternativo usato in Australia.

(Adattamento da H. Penniman, Australia at the Polls. The National Elections of 1980 and 1983, Washington, D.C.-London-Sidney 1983, p. 331). Più noto e di più facile comprensione e applicazione è il sistema elettorale francese correttamente definibile come maggioritario a doppio turno in collegi uninominali. È opportuno sottolineare che doppio turno non equivale e non significa affatto ballottaggio. Infatti, al secondo turno francese non sono ammessi soltanto i due candidati più votati, ma tutti i candidati che hanno superato una soglia percentualmente definita. Non è

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poi neppure detto che tutti gli ammessi al secondo turno rimangano in lizza. Anzi, è probabile che alcuni candidati, per una molteplicità di motivi, desistano. Il ballottaggio, che è il sistema in vigore per l’elezione presidenziale, consente l’accesso al secondo turno esclusivamente ai primi due candidati. Le logiche sottostante al doppio turno e quella al ballottaggio sono significativamente diverse. Nel primo turno del sistema che prevede il ballottaggio, le alleanze preventive sono molto improbabili. I partiti hanno interesse a essere presenti con un candidato per suscitare l’attenzione degli elettori. Anche i candidati che sanno di avere pochissime chance vogliono collaudare le loro capacità e valutare il grado di consenso. A sua volta, l’elettore sa che deve votare il suo candidato preferito per farlo arrivare al ballottaggio (ma anche, nelle presidenziali francesi, per fare ottenere al partito di cui quel candidato è espressione i fondi che conseguono ai voti ottenuti). Più raramente, l’elettore potrà decidere di scegliere strategicamente, già al primo turno, non il candidato preferito, ma quello meno sgradito per non correre il rischio del ballottaggio fra due candidati che gli siano entrambi sgraditi. Nel doppio turno per le elezioni parlamentari, è più probabile che al primo turno l’elettore esprima un voto sincero, vale a dire per il candidato preferito, in special modo se quel candidato ha buone probabilità di superare la soglia di accesso per giungere al secondo turno. Dopodiché, da un lato, i dirigenti di partito e i candidati rimasti in lizza possono decidere alleanze e desistenze in maniera che quanto più chiaramente sarà comunicata agli elettori la scelta effettuata tanto meglio potrà dagli elettori essere valutata, premiata o punita. Dall’altro, il voto degli elettori acquista maggior peso poiché diventa decisivo. Non c’è niente di più sbagliato di definire, come è stato fatto da non pochi studiosi e politici italiani, “mercato delle vacche” quello che avviene fra il primo e il secondo turno. Questa spregiativa definizione rivela che i commentatori non hanno mai frequentato un mercato dove le vacche sono visibili, le loro caratteristiche accertabili, la concorrenza totale e i rapporti di fiducia fra venditori e compratori sostanzialmente cruciali. Che è proprio quello che dovremmo desiderare anche in politica, a cominciare, naturalmente, dalle campagne elettorali. Aggiungo che l’esperienza di quasi sessant’anni di utilizzo nella Quinta Repubblica francese del maggioritario a doppio turno in collegi uninominali è stata caratterizzata dalle formazione di coalizioni (pre-)elettorali che si sono presentate in maniera chiara per governare il paese offrendo, di conseguenza, all’elettorato anche l’opportunità di votare i rispettivi

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candidati tenendo conto della loro appartenenza all’una o all’altra delle coalizioni. Due sono le conseguenze politiche più importanti del sistema elettorale francese. La prima è che la necessità di formare coalizioni che si candidano al governo rende le compagini governative più rappresentative di qualsiasi governo formato da un solo partito. La seconda conseguenza politica è che i partiti che corrono da soli e che non vogliono oppure non riescono a dare vita a coalizioni sono fortemente svantaggiati al secondo turno e drasticamente sottorappresentati nell’Assemblea Nazionale francese. Lo svantaggio e la sottorappresentanza derivano dall’incapacità di alcuni partiti, nel passato, talvolta, i comunisti, da una quindicina d’anni il Front National, di trovare alleati. Chi non ha abbastanza forza per cambiare le regole che lo svantaggiano, dovrebbe trovare abbastanza intelligenza e flessibilità per cambiare la strategia. Altrimenti paga un prezzo. Il terzo esempio di una modalità specifica di traduzione di voti in seggi si riferisce ad un caso di grande successo: il sistema elettorale tedesco correttamente definito “rappresentanza proporzionale personalizzata”. Il crollo della Repubblica di Weimar era stato il prodotto di un insieme di fattori dei quali, certamente, il tipo di sistema elettorale proporzionale, pure molto importante, non fu quello decisivo. Tuttavia, chiamati a darsi un sistema elettorale per la Repubblica federale tedesca, gli artefici della Grundgesetz si trovarono stretti, da un lato, fra coloro, vale a dire alcuni dei grandi scienziati politici e sociologi tedeschi esiliatisi negli USA, che argomentavano la superiorità di un sistema elettorale maggioritario (condivisa, non poteva essere altrimenti, dagli occupanti americani e inglesi) e, dall’altro lato, gli uomini politici rimasti in Germania, che consideravano indispensabile un sistema elettorale proporzionale in grado di meglio rappresentare la società tedesca, non soltanto sconfitta, ma lacerata e umiliata, dalle preferenze politico-partitiche ignote, e che, inoltre, stava già sperimentando sistemi elettorali proporzionali nei Länder. L’esito di uno scontro aspro e intenso di competenze e di prospettive ha finito per produrre gradualmente, con approssimazioni successive, una delle due grandi innovazioni nell’assetto istituzionale della democrazia tedesca (l’altra è costituita dal voto di fiducia costruttivo, meccanismo semplice, ma potente, a sostegno della stabilità del Cancelliere e del suo governo). Permettendomi di scherzare, l’uovo di Beethoven o di Kant è un sistema che combina la ripartizione proporzionale dei seggi ai partiti che abbiano conseguito almeno il cinque per cento dei voti su scala nazionale

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(oppure, abbiano vinto in tre collegi uninominali, clausola intesa a salvare minoranze geograficamente concentrate, che si pensava potessero essere i tedeschi dai paesi dell’Est, ma che, curiosamente, è scattata una sola volta, nel 2002, a favore degli ex-comunisti) con l’elezione in collegi uninominali di metà dei parlamentari al Bundestag. Infatti, gli elettori tedeschi dispongono di due voti da esprimere su un’unica scheda: un voto personale, per il candidato preferito in uno dei collegi uninominali assegnati a ciascun Land, e un voto di partito in quel Land.

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 Fig. 4 Scheda elettorale tedesca.

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Individuati i partiti i cui voti hanno superato la soglia del cinque per cento, i seggi vengono loro attribuiti in maniera perfettamente proporzionale. Gli eletti sono tutti coloro che hanno vinto nei rispettivi collegi uninominali più un certo numero di candidati di partito nei Länder a seconda delle percentuali di voto colà ottenute. Seppur in maniera diversa dal sistema elettorale francese, anche la rappresentanza proporzionale tedesca ha incoraggiato la formazione di coalizioni pre-elettorali miranti a segnalare preventivamente agli elettori il loro accordo programmatico e la loro volontà di governare insieme. Sostanzialmente impossibilitati a vincere seggi nei collegi uninominali, i potenziali alleati minori (è stato quasi sempre il caso dei Liberali e dei Verdi) facevano convergere una parte del loro elettorato sui candidati del partito alleato il quale reciprocava facendo spostare sulla lista del partito alleato una parte dei suoi elettori affinché il partito minore superasse la soglia del cinque per cento. Possibile proprio grazie al doppio voto, questa operazione trova riscontro matematico (e conforto politico per i componenti le coalizioni) nei dati confrontando le somme dei voti per i candidati nei collegi uninominali con le somme dei voti per le liste di ciascuno dei partiti.

TABELLA 2 Primo (per i candidati) e secondo (per le liste di partito) voto nelle elezioni 1994, 1998, 2002, 2005 in Germania (da G. PASQUINO, Sistemi politici

comparati, Bologna 2007, p. 38).

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Complessivamente, la legge elettorale tedesca di “rappresentanza proporzionale personalizzata” ha dato ottima prova di sé sia consentendo agli elettori di esercitare effettivo potere sia offrendo loro la possibilità di ratificare o di respingere l’offerta di governo delle coalizioni sia, infine, poiché la soglia del 5 per cento ha effettivamente evitato la frammentazione dei partiti al tempo stesso , comunque, consentendo l’ingresso al Bundestag a partiti nuovi purché sufficientemente rappresentativi di preferenze politiche e sociali, come, nel corso del tempo, si sono rivelati in sequenza i Verdi (1987) e Die Linke (2005). Non soltanto il sistema elettorale tedesco ha bloccato la frammentazione, pure accogliendo la nascita di nuovi partiti di una qualche consistenza rappresentativa. Ha anche permesso il manifestarsi dell’alternanza di coalizioni diverse al governo del paese. Infine, è del tutto sbagliato attribuire al sistema elettorale di per sé il prodursi della Grosse Koalition. Infatti, le tre grandi alleanze fra Democristiani e Socialdemocratici (1966-1969; 2005-2009; e 2013-) non sono state l’effetto meccanico del sistema elettorale proporzionale, ma la conseguenza di scelte politiche dei dirigenti dei due grandi partiti.

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UNA STORIA CHE NON FINISCE QUI Al quesito iniziale: “come tradurre i voti in seggi” sono state date risposte differenti nel corso del tempo e nei diversi paesi. Un conteggio, qualche volta un po’ troppo generoso, relativamente alla democraticità di alcuni sistemi politici, effettuato dall’International Foundation for Electoral Systems, giunge ad individuare 86 casi di paesi che utilizzano leggi proporzionali, 85 leggi maggioritarie, 28 sistemi misti.

Fig. 5 Sistemi elettorali nel mondo. In Rosso METTEREI NERO SCUROindica i sistemi maggioritari; in Blu METTEREI GRIGIO i sistemi proporzionali; in Viola METTEREI BIANCO i sistemi misti; in Grigio e gli altri colori METTEREI TRATTEGGIATO (dove non si vota e dove non sono elezioni libere). Fonte: International IDEA (Institute for Democracy and Electoral Assistance). Ciò rilevato, è possibile formulare più di una generalizzazione convincente. Primo, sia i sistemi elettorali plurality e majority sia i sistemi proporzionali sono in grado di garantire agli elettori una più che modica dose di rappresentanza politica, ma i sistemi in senso lato maggioritari applicati in collegi uninominali offrono questa rappresentanza in maniera più vicina agli elettori, più visibile, più facilmente controllabile, più responsabilizzata (accountable). Seconda generalizzazione: né i sistemi maggioritari né i sistemi proporzionali sono

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in grado di fabbricare maggioranze parlamentari e di dare vita a governi. Entrambi, però, consentono agli elettori tanto di rispondere alle proposte formulate dai partiti, in modo speciale nei sistemi caratterizzati dalla possibilità di esprimere due voti, come il doppio turno francese e la proporzionale tedesca, quanto di dare indicazioni ai dirigenti dei partiti. Terza considerazione, tutti i sistemi per la traduzione di voti in seggi qui analizzati hanno in comune tre importanti elementi: la durata, la semplicità e l’eleganza. In quasi tutti i sistemi politici, possono essere e sono stati introdotti ritocchi e piccole modifiche, raramente mutamenti significativi fino, talvolta, alla produzione di sistemi misti (ciascuno dei quali meritevole di molti approfondimenti analitici). Spesso redatto attraverso accordi complicati, qualsiasi sistema elettorale produce aspettative e consolida interessi tali, se è utilizzato in più tornate elettorali senza grandi inconvenienti, da essere accettato dai partiti esistenti e dai loro parlamentari e potenziali candidati anche per il timore che qualsiasi riforma incisiva produca esiti imprevedibili e pericolosi. Nel secolo XX, l’unico sistema politico che ha totalmente cambiato il suo sistema elettorale è stata la Francia nel 1958. La Quinta Repubblica francese è anche l’unico caso, insieme all’Italia del Mattarellum, che ha effettuato il passaggio da un sistema proporzionale ad un sistema maggioritario. La tendenza è sempre stata nel senso contrario. La Francia si é tenuta, tranne una sola parentesi, il suo doppio turno da più di cinquant’anni. In Italia continuano a sperimentare con l’obiettivo di conseguire vantaggi di parte. La quasi totalità dei sistemi elettorali sono relativamente semplici da capire per gli elettori sia nei loro meccanismi essenziali sia nelle loro conseguenze più importanti. Infine, sono eleganti nel loro funzionamento, vale a dire che non hanno orpelli, artifizi, trucchi contabili che favoriscano la manipolazione degli esiti. Contengono, dunque, alcune lezioni essenziali per tutti quei riformatori elettorali che siano disposti ad imparare e sappiano farlo. Contengono anche i criteri per valutarne la bontà. Non esistono sistemi elettorali perfetti, ma, certo, esistono sistemi elettorali migliori altri. L’Italicum non è migliore di quasi nessuno dei sistemi elettorali esistenti nelle democrazie parlamentari contemporanee.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ESSENZIALI M. DUVERGER, Les partis politiques, Paris 1958; (trad. it. I partiti politici,

Milano 1961).

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ID., Italy has yet another electoral law, «Contemporary Italian Politics» vol. 7, n. 3 (December 2015), pp. 293-300.

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