tesi basaglia
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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITA’ DI BOLOGNA
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE POLITICHE
INDIRIZZO STORICO-POLITICO
TESI DI LAUREA
IN STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
CRITICA DELLA PSICHIATRIA
CONTEMPORANEA
NEL PENSIERO DI FRANCO BASAGLIA
Candidato: Relatore:
MATTEO SASSI Dott. SANDRO MEZZADRA
sessione IIIanno accademico 2004/2005
A mia sorella Giulia
Ringraziamenti
Sono molte le persone alle quali rivolgo un sincero ringraziamento, poiché questo lavoro è
innanzitutto frutto di discussioni, confronti, letture condivise con amici e compagni, uomini e
donne che non si arrendono alle ingiustizie del presente. Ciascuno di loro riscontrerà, nelle pagine
seguenti, momenti vissuti assieme e riflessioni comuni.
In particolare, ringrazio Giorgio Antonucci poiché attraverso i suoi scritti, e le sue parole, ho
avuto modo di avvicinarmi alla critica della psichiatria e, conseguentemente, alla comprensione di
quanta umanità vi sia nella sofferenza esistenziale. A Sandro Mezzadra va il merito di avermi
costantemente rassicurato, grazie alla lucidità dei suoi consigli, durante questo lavoro.
Ringrazio Sandro Malagò del Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia per la preziosa
collaborazione che ha reso possibile l’inchiesta presentata nel secondo capitolo.
Ringrazio l’amico Francesco per avermi insegnato, con grande umiltà e coraggio, quanto possa
essere forte e dignitosa la risposta dell’uomo nei confronti dell’oppressione, anche della più
brutale.
A mia sorella, dico grazie per incoraggiarmi, ogni giorno, con la sua incontaminata gioia di
vivere. Ai miei genitori, infine, va il ringraziamento più sentito, per avermi insegnato il valore di
ogni singolo passo nel delineare il cammino di una vita.
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Indice
Introduzione..............................................................................................7
I. Istituzionalizzazione e libertà...............................................................16
1. La Distruzione dell’ospedale psichiatrico
come luogo di istituzionalizzazione.....................................................17
2. Ospedali psichiatrici e annientamento dell’Io..................................26
Sopraffazione e contaminazione dell’Io...........................................27
Istituzionalizzazione e destrutturazione del Sé.................................33
3. La Comunità terapeutica..................................................................39
4. L’istituzione negata.......................................................................49
II. Psichiatria e controllo sociale.............................................................51
1. Follia e miseria..............................................................................54
Classi sociali e malattie mentali.......................................................55
Malattia mentale e stratificazione sociale:
un’inchiesta a Reggio Emilia............................................................62
La classe sociale della “marginalità”................................................71
2. Controllo sociale e paradigmi politico-economici........................74
La patologizzazione della diversità..................................................77
3. I funzionari del consenso..............................................................88
III. Psichiatria, legge e diritto..................................................................96
1. Legge e psichiatria...........................................................................96
2. Il nuovo ordine psichiatrico...........................................................103
Il caso italiano: la legge 180...........................................................108
Legge, diritto e stato d’eccezione in psichiatria.............................116
Conclusioni............................................................................................ 121
Bibliografia............................................................................................ 140
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Introduzione
Certe volte non sono sicuroche si abbia il diritto di dire quando uno è pazzo
e quando non lo è.Certe volte credo che non ci sia nessuno di noi
del tutto pazzoe nessuno del tutto sano di mente
finché la maggioranza non ha decisoin un modo o nell’altro.
Non è tanto quello che uno fa,ma è il modo in cui la maggioranza
lo giudica quando lo fa.
William Faulkner, Mentre morivo
Ragionando di psichiatria non si può che evocare un’immagine avvolgente, mai del tutto
definita, capace di disorientare chi la osserva, senza tuttavia annichilire i particolari che la
compongono. Ciascun istante, ogni tratto di vita vissuta, ricoprono un ruolo cruciale ed
irrinunciabile nel restituire l’idea della distruttività psichiatrica. Questo ci insegnano le storie, le
biografie, gli spaccati di vita che emergono dagli archivi di quelli che una volta erano gli ospedali
psichiatrici, così come le testimonianze dei sopravvissuti alla repressione di una soggettività
individuale e sociale giudicata in eccesso rispetto alle ferree regole, in primis di carattere
economico, che governano la nostra società. La psichiatria si presenta come un tutto
contraddittorio ed irrisolto, come una presunta scienza che più di altre è rimasta vittima di
esigenze politiche e sociali nel corso della storia. E’ tuttavia l’emergere insopprimibile della sua
dimensione sociale a rappresentare una costante nel divenire della storia psichiatrica
contemporanea e a reclamare oggi una nuova analisi politica, capace di indagare l’odiosa
saldatura tra povertà e follia, tra esclusione sociale e malattia mentale.
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Nella fondamentale opera Ci chiamavano matti1, dove finalmente fu data la parola a chi aveva
sofferto per anni nel silenzio d’una condizione violata ed oppressa all’interno del manicomio,
l’autrice osserva come la malattia mentale fosse sistematicamente intrecciata alla miseria, alla
subalternità, all’improduttività, alla distruzione operata dallo sfruttamento; condizioni che
venivano coperte dall’alibi della follia. In sostanza, i manicomi erano ospizi per i poveri, luoghi di
esclusione e controllo sociale, ipocritamente ammantati di una presunta missione medica,
umanitaria, benefica. Oggi, nonostante la difficoltosa chiusura degli ospedali psichiatrici a seguito
della legge 180 del 19782, tale rischio è tutt’altro che remoto, anzi, come avremo modo di vedere,
vecchie e nuove forme di esclusione contribuiscono a delineare un ruolo affatto rilevante della
psichiatria quale scienza del controllo sociale.
In una fase come quella attuale, caratterizzata dalla patologizzazione di ogni devianza rispetto
allo status quo e dalla imperante rinascita di un movimento biologistico3, la psichiatria assume i
tratti di un osservatorio privilegiato in cui ricercare le radici dell’esclusione così come le ragioni
sociali di quest’ultima. E’ l’arbitrio che la domina, il potere pressoché incondizionato che
esprime, a restituire un’immagine nient’affatto certa della psichiatria, simile ad un prisma
unicamente capace di rifrangere, in direzioni ritenute innocue, le insopportabili contraddizioni del
presente.
Riteniamo quindi la psichiatria un’eccellente metafora della crisi moderna, non soltanto per la
violenza e il dominio che la connotano, ma segnatamente per la capacità di eludere, ingannare,
operare una mistificazione della realtà. Possiamo pertanto parlare di ideologia nel senso marxiano
del termine, ovvero di un apparato teorico che presenta se stesso come “verità naturale”, fondando
tale pretesa sull’utilizzo strumentale ed irrazionale del ruolo immaginario che la scienza ha
assunto nelle nostre società. Il fine è sempre il medesimo, proprio di una società basata
sull’accumulazione capitalistica e sulla competizione, ovvero la conservazione dell’esistente
laddove questo coincide con inevitabili asimmetrie, squilibri, oppressioni e violenze che quel
modello di società porta con sé. La funzione della scienza è impedire la messa in discussione della
norma, nascondendo i rapporti di forza che determinano quest’ultima e ammantandola di una
veste giuridica che, in realtà, nasce dal pensiero delle classi dominanti.
Classi sociali, un tema di certo complesso, una lente che ha dato vita alle letture più lucide della
storia contemporanea, ma anche una categoria politica caduta in disuso nel momento in cui
1 Anna Maria Bruzzone, Ci chiamavano matti. Voci da un Ospedale psichiatrico, Torino, Einaudi, 1979.2 Gli ultimi Ospedali psichiatrici sono stati chiusi soltanto nel 1998.3 Cfr. l’opera di Furio Di Paola, L’istituzione del male mentale, Roma, Manifestolibri, 2000. E’ significativo inoltre riportare le parole dell’On. Maria Burani Procaccini, relatrice del progetto di legge n. 174 del 30.05.2001 (“Norme per la prevenzione e la cura delle malattie mentali. Per migliorare l’assistenza di persone affette da malattie mentali”), che così interviene alla Commissione Affari Sociali della Camera: “I dati a nostra disposizione hanno evidenziato i limiti del paradigma psicologistico e quelli, ancor più netti, del paradigma sociologisitco. Cosicchè la maggioranza degli psichiatri condivide oggi l’affermazione che, senza sottovalutare gli aspetto sociologici e sociali, è necessario recuperare una dimensione biologica e medica della malattia mentale”.
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maggiore è stata – e continua ad essere - l’esigenza della sua straordinaria capacità interpretativa.
Oppure, più verosimilmente, sono i mutamenti storici che hanno fatto seguito all’abbandono di
questa fondamentale categoria politica a determinare un senso di vuoto, di insicurezza, di disagio
nella lettura politica dei processi reali. Tuttavia, non dobbiamo pensare si tratti di una semplice
categoria, di uno strumento come tanti altri capace di rendere intelligibili e, in particolare,
classificabili e individuabili sul piano accademico i fenomeni politici, economici o sociali. Bensì,
con l’espressione “classi sociali”, si vuole giungere al cuore della questione politica, al principio
organizzativo - finanche disciplinare - della vita socioeconomica che caratterizza il sistema
capitalistico attuale, tanto in affanno quanto egemone su scala planetaria. A modellare la categoria
“classe sociale”, è quindi tutto quanto assume una dimensione soggettiva e individuale nel vivere,
rappresentare, sostenere o combattere l’ordine di cose esistenti.
La classe sociale è pertanto interpretata quale insieme di elementi e rapporti reali che
accomunano individui, soggettività, in ultima istanza uomini e donne che nell’articolare la propria
irripetibile soggettività non possono sfuggire alle costrizioni del sistema in cui sono inseriti. Tale
attenzione non è qui tradizionalmente rivolta alle classi lavoratrici e al processo di emancipazione
che queste devono intraprendere in ambito economico e sociale tramite l’autonoma iniziativa ed
organizzazione politica, ma essenzialmente a quelle figure marginali che sono state, nel corso
della storia, espulse da tale confronto-scontro dialettico in seno alla società. In particolare,
all’interno di questo universo della marginalità, l’attenzione corre alla figura del folle così come
magistralmente definita da Foucault, ovvero “una categoria di individui esclusi
contemporaneamente dalla produzione, dalla famiglia, dal discorso e dal gioco”.1 Si propone
pertanto di focalizzare l’analisi sulle dinamiche di esclusione e negazione che conducono
all’individuazione di un “eccesso” dell’umanità, e di farlo a partire dal significato politico
racchiuso dalla struttura negativa di una società.
Non è un caso che proprio attorno all’appartenenza di classe si siano sviluppate, negli anni ’60 e
’70, fondamentali riflessioni filosofiche e politiche esplicitamente rivolte alla critica della
psichiatria, dei suoi metodi, così come dei fini. Nel pensiero di autori diversi e talvolta distanti
quali Foucault, Laing, Cooper, Fanon, Basaglia, solo per citare i più noti, forte era la
consapevolezza che la critica della psichiatria, e la vitalità del movimento convenzionalmente
definito come antipsichiatrico, fossero elementi ineludibili della più ampia critica verso la società
e la struttura socioeconomica assunta dagli stati occidentali nel secondo dopoguerra. Tutto ciò ha
un’assoluta rilevanza nel restituire l’idea di una politica in movimento, capace di rendersi
autonoma dalle costrizioni reali al punto tale da non rifiutare la sfida di ridisegnare la geografia
sociale e relazionale del tempo. Alla “naturale” marginalità della follia si risponde così con la
centralità della critica psichiatrica, con un rifiuto radicale dell’oppressione istituzionale – altra
1 Kyoki to shakai, in M. Foucault e M. Watanabe, Telsugaku no butai, Asahi-Shuppansha, Tokyo, 1978, pp.63-76.
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cosa rispetto alla generica filantropia o al pietismo caritatevole – che affonda le radici nella
connotazione classista di quell’oppressione. Ecco quindi che le ragioni della segregazione
istituzionale vanno ricercate al di fuori di ogni schema precostituito, nella propria dimensione
effettivamente naturale, vale a dire quella sociale, relazionale, in cui ciascun individuo è immerso,
trasportato, “costituito” per parafrasare Goffman1.
Oggi, in un’epoca dove le diseguaglianze sono condannate all’anonimato, relegate in una sorta
di ineluttabile condizione naturale, che individualmente assume i tratti della colpa e della
sconfitta, dobbiamo recuperare un’analisi che interroghi le forme dello sfruttamento e
dell’oppressione a partire da una rinnovata centralità della condizione marginale. A questo livello
risiede la ragione che qualifica politicamente l’attenzione nei confronti della dimensione sociale
della psichiatria e l’attualità di un’analisi volta ad individuare la funzione precipua di quest’ultima
all’interno del circuito del controllo sociale. Tutto ciò in un quadro caratterizzato da crescenti
squilibri economici e sociali, nell’affanno - per dirla con Laing - di un Sistema Mondiale Totale 2
che avverte la prossimità del tracollo, il peso dell’insostenibilità ecologica e sociale del proprio
modello.
In questo contesto, ritengo che il pensiero di un grande psichiatra, nonché intellettuale critico tra
i più lucidi del secondo dopoguerra, come Franco Basaglia, possa essere una guida preziosa e
insostituibile. La sua produzione intellettuale, rilevante almeno quanto l’impegno professionale
condotto sempre sul campo, è ancora una miniera di spunti, riflessioni mai esaurite, varchi che
assumono l’immagine di una possibile liberazione.
La sua vita ha a lungo coinciso con il discorso e la prassi psichiatrica antiistituzionale nel nostro
paese e non solo, con la negazione d’ogni forma di prassi psichiatrica cristallizzata. Basaglia è
stato uno dei grandi protagonisti di un periodo storico segnato dalla volontà del cambiamento, in
cui la consapevolezza politica della centralità delle figure sociali marginali, degli esclusi, andava
di pari passo con le riflessioni più ampie sulle forme di liberazione individuale e collettiva. Di
quel fervore storico e politico resta ben poco nel tempo attuale; tuttavia, sono le contraddizioni
insolubili del presente a riattualizzare, sul piano storico prima ancora che della volontà politica, la
necessità del cambiamento, l’attualità di una prassi politica orientata a negare l’esistente al fine di
prospettare le “ricchezze del possibile”3.
1 “…ogni sé si svolge entro i confini di un sistema istituzionale, sia esso una istituzione sociale come un ospedale psichiatrico o un complesso di rapporti professionali o sociali. Il sé può quindi essere visto come qualcosa che risiede nel sistema di accordi che prevale in una società. In questo senso esso non risulta di proprietà della persona cui viene attribuito, ma risiede piuttosto nella dinamica del controllo sociale esercitato su di lei , dalla persona stessa e da coloro che la circondano. Questi tipo particolare di ordinamenti istituzionali , più che servire di sostegno al sé lo costituisce.” E. Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 2003, p. 193.2 Nell’opera La politica dell’esperienza, pubblicata da Feltrinelli nel 1967, Laing con il termine Sistema Mondiale Totale si riferisce al contesto di tutti i possibili contesti, ovvero un contesto limite, folle e irrazionale in quanto non riconducibile all’interno di un altro contesto e pertanto non intelligibile. 3 Tale espressione è presa da un celebre libro di A. Gorz, Miserie del presente, ricchezze del possibile, Manifestolibri, Roma, 1998.
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Ritengo che un pensiero complesso come quello di Franco Basaglia, arricchito inoltre da
un’esperienza straordinaria, necessiti, in questa sede, d’una analisi che ne valorizzi un aspetto
particolare. L’obiettivo, già richiamato, è quello di riattualizzare una radicale critica politica della
psichiatria contemporanea, a partire dalla messa in discussione della funzione sociale di
quest’ultima. Credo pertanto che a ricoprire un ruolo di particolare interesse siano i testi in cui
Basaglia analizza la rilevanza della scienza psichiatrica ai fini del controllo sociale così come
nella creazione della devianza psichiatrica stessa.
Le ragioni che mi spingono lungo questa traiettoria del pensiero basagliano sono principalmente
due. La prima è da individuare nell’originalità che la dimensione sociale della psichiatria assume
in Basaglia; una dimensione che rifugge ogni determinismo sociale così come ogni presunta
autonomia soggettiva della condizione psicotica. Infatti, la messa tra parentesi del concetto di
malattia mentale apre la strada ad un’analisi interamente orientata alla comprensione della
condizione sociale e relazionale dell’individuo psicotico in un determinato contesto storico e
politico. La seconda ragione è da ricercare nei mutamenti economici e politici che negli ultimi
vent’anni hanno investito anche il nostro paese. Si tratta di trasformazioni profonde, che non
hanno certo risparmiato lo stravolgimento di paradigmi economici, sociali e culturali un tempo
dominanti. Lo Stato moderno, che aveva assunto la fisionomia dello stato sociale democratico nel
secondo dopoguerra, esce infatti radicalmente ridefinito sul piano della propria identità sociale. Il
pensiero neoliberista, unito a quello neoconservatore, ha eroso costantemente la dimensione
sociale del Welfare State e con essa diritti di cittadinanza che in molti ritenevano acquisiti.
C’è chi ha cercato di riassumere tali mutamenti con l’immagine del passaggio dal Welfare State
allo stato penale1 e, parallelamente, dalle società disciplinari a quelle di controllo2. Ciò che è
indubbiamente vero, è che oggi si impone una riflessione, a partire dalla critica psichiatrica,
relativamente alle forme di controllo sociale che hanno fatto seguito a questo salto di paradigma
sul piano delle relazioni di potere. Nei venticinque anni che ci separano dalla prematura
scomparsa di Franco Basaglia, è pertanto mutato lo scenario politico ed economico del nostro
paese e non solo. Tuttavia, non per questo il suo pensiero sul ruolo sociale della psichiatria risulta
meno pregnante, anzi, acquisisce una crescente capacità interpretativa che si origina dalle
contraddizioni attuali e, segnatamente, dall’approfondirsi di squilibri sociali e relazionali che un
tempo erano soltanto mitigati dal compromesso noto come Welfare State3.
Credo sia proprio questo mutamento di paradigma politico e sociale ad evidenziare la rilevanza
delle riflessioni basagliane, la loro straordinaria capacità di scoprire le radici della questione
psichiatrica, di circoscrivere il campo del confronto al di là di ogni ideologia. In particolare, le
1 L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero, Milano, Feltrinelli, 2000.2 G. Deleuze, La società del controllo, in “DeriveApprodi”, n. 9-10, 6. 3 Per una ricostruzione storica della nascita del Welfare State e del suo legame con la cittadinanza, intesa come categoria politica, fondamentale risulta il testo scritto da T. H. Marshall nel 1949, Cittadinanza e classe sociale, edito da Laterza (2002).
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riflessioni che Basaglia avanza già nel 1969, durante una permanenza di diversi mesi negli Stati
Uniti in qualità di visiting professor, e dalla quale nasce anche il libro La maggioranza deviante1,
rendono l’idea della straordinaria sensibilità di Basaglia nel registrare la portata di mutamenti
economici e sociali a partire dalla questione psichiatrica. Come scriverà in una lettera, Basaglia è
a New York per “capire il nostro futuro”, ovvero il mondo in cui oggi viviamo, caratterizzato
dalla “riorganizzazione della psichiatria come circuito di istituzioni diffuse che sposta in un’area
specifica e meno visibile il manicomio”.
Come si è detto, il pensiero di Basaglia è complesso ed articolato a tal punto da non poter
risultare privo di contraddizioni interne e nodi irrisolti. Per le ragioni di cui sopra, mi limiterò ad
esaminare quegli elementi, anche contraddittori, che afferiscono alla dimensione sin qui delineata
della psichiatria. Sono volutamente tralasciati aspetti pur fondamentali del pensiero basagliano,
quali le riflessioni in merito al contributo fenomenologico ed esistenzialista in campo psichiatrico,
le note riguardanti la nosografia delle psicopatologie, così come i contributi aventi un carattere
strettamente specialistico sul piano medico2.
In questa ricerca, sono aiutato e guidato, fin dalle prime battute, dalla ricostruzione cronologica
che Franca Ongaro Basaglia ha realizzato degli Scritti3 di Franco Basaglia. Si tratta di un lavoro
prezioso, di una ricostruzione attenta che pone il lettore nelle condizioni di accedere in modo
sistematico ed immediato al pensiero di Basaglia, evidenziandone aspetti particolari che
presentano oggi forme inedite d’attualità politica e sociale.
Il discorso sarà così orientato a porre al centro della riflessione il malato mentale come categoria
sociale, o meglio, come particolare soggetto della devianza che non può eludere l’incontro – e lo
scontro - con una rigida forma di controllo sociale qual è la psichiatria. E’ mia convinzione che
questo sia il terreno dove Basaglia ha ancora molto da svelare, dove la riflessione investe il
terreno politico, coinvolgendo i soggetti dell’effettivo processo produttivo della realtà e della sua
percezione. In particolare, intendo sottolineare come il pensiero di Basaglia sgorghi da
un’immersione nel reale e, precipuamente, dalla profondità delle sue fratture e contraddizioni. A
stupire ed affascinare non è tanto l’influenza che la prassi psichiatrica, quale essa sia, esercita su
Basaglia, quanto la consapevolezza che egli dimostra di possedere dell’intero processo. Per questo
possiamo parlare, ben al di là d’ogni retorica, di un pensiero vero, vivo, pulsante ancora oggi.
In Basaglia, non vi è traccia alcuna di ideologie precostituite, anzi, il suo potrebbe essere
definito come “pensiero del divenire”, inestricabilmente legato alla realtà del suo tempo così come
alla costante necessità del suo consapevole superamento. Non c’è un porto certo al quale
approdare per la critica psichiatrica, ma c’è una rotta da seguire, ovvero il rifiuto della psichiatria -
e delle sue istituzioni - in quanto scienza dogmatica, alienata dalla realtà e anzi volta a negarla.
1 Franco Basaglia - Franca Ongaro Basaglia, La maggioranza Deviante, Torino, Einaudi, 1971.2 Per quanto riguarda questo aspetto del pensiero basagliano si rimanda in particolare modo agli scritti degli anni ’50. 3 Scritti vol. I-II, Torino, Einaudi, 1981-’82, a cura di Franca Ongaro Basaglia.
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Scorrendo l’elenco delle pubblicazioni di Basaglia, e volendo individuare un punto cruciale
della caratterizzazione politica del suo pensiero, non si può che soffermarsi all’anno 1964; anno in
cui Basaglia parla della necessità di “distruggere l’ospedale psichiatrico come luogo di
istituzionalizzazione”1. Sono trascorsi tre anni dal primo ingresso di Franco Basaglia all’interno di
un ospedale psichiatrico, ed è in questo periodo che egli matura le principali convinzioni della
propria critica psichiatrica. Al 1961 fanno seguito tre anni di sostanziale silenzio in cui Basaglia,
in stretta collaborazione con Franca Ongaro Basaglia, affianca al lavoro di umanizzazione dei
reparti degli ospedali psichiatrici un’attenta riflessione sulla nuova letteratura critica in ambito
psichiatrico.
E’ di questi anni il confronto con Michel Foucault, Ronald David Laing e, in particolare, Erving
Goffman per quanto concerne le dinamiche di istituzionalizzazione e annientamento
dell’individuo negli ospedali psichiatrici. Il “Basaglia filosofo”, come veniva apostrofato negli
ambienti delle cliniche accademiche dove operò a lungo dopo il conseguimento della
specializzazione in neuropsichiatria nel 1952, troverà una nuova dimensione all’interno di un
quadro irrinunciabilmente politico. Il confronto con la psichiatria realmente esistente, con il
mondo alienante dell’asilo, segnano per sempre Basaglia, come uomo prima ancora che come
psichiatra.
Il processo di annientamento dell’Io, pianificato in onore dell’autorità, dell’efficienza e del
rigore all’interno degli Ospedali psichiatrici, appare subito nella sua asimmetrica dimensione
sociale. Il saggio del 1964, presentato al I Congresso internazionale di psichiatria sociale a
Londra, può così essere interpretato come un vero e proprio “manifesto politico”, un compendio
di quelle che saranno le linee d’azione, e di analisi, di colui che, d’ora in poi, non sarà più soltanto
uno psichiatra che tenta di coniugare il proprio lavoro con la riflessione filosofica esistenzialista e
fenomenologica, ma un uomo immerso nella realtà, impegnato in un chiaro obiettivo politico,
sociale ed umano.
In Basaglia è straordinariamente evidente, per dirla con Marx, il passaggio dalla “critica del
cielo” alla “critica della terra”. L’impatto con la realtà manicomiale annichilisce ogni ipotesi di
compromesso con la psichiatria tradizionale, che d’ora in poi può soltanto essere negata, distrutta,
fronteggiata con lo stessa violenza con la quale essa opera e si esprime. Per queste ragioni saranno
trattati principalmente gli scritti realizzati a partire da questo periodo. La suddivisione cronologica
e tematica del pensiero basagliano, effettuata dallo stesso Basaglia2 ed inserita come esposizione
riassuntiva nel primo volume degli Scritti da Franca Ongaro Basaglia, riveste pertanto un ruolo
cruciale nell’impostazione del mio lavoro, seppur all’interno di una classificazione tipologica.
1 La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. Mortificazione e libertà dello “spazio chiuso”. Considerazioni sul sistema “open door”, comunicazione al I Congresso internazionale di psichiatria sociale, Londra 1964, in “Annuali di Neurologia e Psichiatria”, LIX, f. I, 1965.2 Si tratta di una bibliografia generale curata dallo stesso Franco Basaglia in occasione della partecipazione ad un concorso di cattedra nel 1974 ed aggiornata al 1980 da Franca Ongaro Basaglia.
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Delle quattro tappe del “graduale processo di analisi e di comprensione della realtà”, prenderò in
esame le ultime due. La prima di queste riguarda la negazione istituzionale che porterà “alla
negazione della psichiatria come ideologia, in quanto essa tende a fornire giustificazioni teoriche e
risposte pratiche a una realtà che la scienza stessa contribuisce a produrre nella forma più
adeguata alla conservazione del sistema generale in cui è inserita”1. La seconda concerne
un’apertura all’esterno dell’intero problematica psichiatrica, per una sua comprensione che vada
oltre le mura dell’istituzione e indaghi direttamente la struttura socioeconomica, le sue
contraddizioni, le istanze di liberazione così come la violenza delle oppressioni.
Per fare questo, sono stati individuati alcuni percorsi tematici che ripercorrono,
cronologicamente, le principali opere e gli scritti maggiormente significativi di Franco Basaglia a
partire dai primi anni Sessanta. Tale impostazione è finalizzata all’individuazione di argomenti
che si reputano centrali nell’articolare una critica della psichiatria contemporanea e, al contempo,
capaci di delineare una dimensione politica del pensiero di Franco Basaglia. I capitoli sono
sostanzialmente ordinati in modo cronologico, al fine di rendere più agevole la comprensione del
pensiero di Basaglia sullo sfondo storico, politico, e sociale.
Il primo capitolo, dedicato alla negazione dell’ospedale psichiatrico, individua le dinamiche di
annientamento ed oppressione dell’uomo all’interno di quest’ultimo e, conseguentemente, investe
anche il ruolo della Comunità Terapeutica e i significati politico-sociali che questa racchiude.
Tuttavia, partendo dalla ricostruzione della critica basagliana degli ospedali psichiatrici quali
luoghi d’inevitabile istituzionalizzazione dell’individuo, si giunge ad evidenziare l’inconciliabilità
tra qualsiasi forma storico-istituzionale assunta dalla psichiatria e la presunta dimensione
“terapeutica” di quest’ultima.
Il secondo capitolo riguarda invece il ruolo assunto dalla psichiatria all’interno della nostra
società, sia per quanto concerne il legame tra le classi sociali subalterne e la malattia mentale, sia
per la funzione della psichiatria e del manicomio - istituzione simbolo di quest’ultima non solo sul
piano storico ma anche culturale e simbolico - nell’ambito del controllo sociale. Per queste ragioni
la parte iniziale del capitolo è dedicata ad un’inchiesta – realizzata attraverso la rielaborazione di
dati forniti dal Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia – circa l’incidenza della
condizione sociale tra gli uomini e le donne che in provincia di Reggio Emilia, nell’arco di tempo
che va dal 2000 al 2004, sono stati giudicati “malati di mente”. Emergono dati di grande interesse
politico e sociale, forieri di riflessioni che conducono non solo alla correlazione tra malattia
mentale e classe sociale, ma, in particolare, all’incontro tra il disagio sociale e la sofferenza
esistenziale. E’ a questo punto che interviene la “scienza psichiatrica” con il suo portato
ideologico e mistificante, politicamente finalizzata a delineare i confini del “disprezzo sociale”.
Possiamo quindi parlare, come vedremo, di vera e propria “produzione psicotica” da parte della
psichiatria, poiché il disagio esistenziale viene cristallizzato da quest’ultima in forme pre-definite
1 Scritti, vol. I, Esposizione riassuntiva, pag. XXII.
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– rispondenti sia a pregiudizi sociali e culturali che a “ragioni” storico-politiche -, impedendo così
alle soggettività in esso “disperse” di esprimersi liberamente e, per questa via, ricostruire la
narrazione della propria esistenza a partire dalle “fratture reali” che ne hanno provocato traumi e
scossoni. Verranno inoltre analizzate pratiche di “istituzionalizzazione molle” – così come
vengono definite dallo stesso Basaglia – ovvero nuove forme di controllo sociale esercitate
attraverso un potere psichiatrico che è sempre più frammentato sul territorio e nascosto negli
interstizi di un “morbido” controllo sociale piuttosto che protagonista di pedagogiche pratiche
correzionarie.
Nell’ultimo capitolo si cercherà, tramite un’analisi di alcuni scritti basagliani relativi alla Legge
180 del 1978, di cogliere il significato politico di quest’ultima a partire, più in generale, dal
rapporto esistente tra legge, psichiatria e diritto. Credo possa trattarsi di una buona opportunità
tramite cui riprendere ed evidenziare le contraddizioni pur presenti nel pensiero di Basaglia 1, che
di quella legge - a tutt’oggi faro della legislazione internazionale in tema di salute mentale - fu
certamente uno dei padri indiscussi, pur rifiutandone la compiutezza.
Si vuole infine sottolineare come siano proprio i confini della psichiatria stessa ad inglobare
tutto ciò che può inserirsi, a vario titolo, nell’universo umano. Come qualsivoglia fenomeno che
riguardi l’uomo, anche la follia chiama in causa la politica, ovvero rapporti di potere, dominio,
esclusione. Rapporti reversibili, mai immutabili, anche quando l’oppressione e la violenza
sembrano giungere al grado zero, laddove l’uomo vorrebbe annichilire l’uomo. Il principale
insegnamento che Basaglia ci ha lasciato risiede nella consapevolezza che in ognuno di noi, nelle
passioni così come nell’indifferenza, è indicata la strada del domani. L’impossibile può
trasformarsi nel suo contrario attraverso il continuo superamento delle contraddizioni, ovvero
tramite un movimento politico che individua nelle tensioni civili e sociali le ragioni del
cambiamento, dell’emancipazione che, talvolta, non è possibile raggiungere tramite compromessi.
E’ il rifiuto dell’utopia come palingenesi futura a riproporre nel pensiero basagliano, in modo
costante ed ineluttabile, il tema dell’impegno di ciascuno, qui ed ora.
1 In particolare il ruolo e il concetto stesso di malattia mentale non sarà mai affrontato sino in fondo da Basaglia ma, piuttosto, messo tra parentesi.
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I. Istituzionalizzazione e libertà
La celeberrima citazione di Primo Levi, con la quale si apre questo capitolo, è a tutt’oggi
un’immagine insuperata per chiunque voglia restituire, in profondità, l’idea della condizione di
disumanità in cui l’uomo può ridurre i propri simili. E’ mia convinzione che la psichiatria offra un
terreno fertile in cui cogliere l’essenza di questa spoliazione e mortificazione umana. Raramente,
nella storia contemporanea, è stato infatti raggiunto un livello così tragico di inferiorizzazione
dell’uomo quale si è verificato in ambito psichiatrico.
Questo capitolo, vuole pertanto individuare le dinamiche di annientamento dell’Io che
caratterizzano la condizione umana negli ospedali psichiatrici. Ritengo sia questa la ragione
principale ad aver innervato il processo di negazione della psichiatria e delle sue istituzioni che
Basaglia esporrà straordinariamente ne L’istituzione negata; opera che ebbe un ruolo
fondamentale non solo nella diffusione e nel consolidamento del movimento antiistituzionale in
Italia ma, in particolare, ai fini dell’inserimento della questione psichiatrica nel discorso pubblico
dei movimenti critici di quegli anni.
E’ quindi da un rifiuto della negazione della dignità umana che si è originato un movimento
psichiatrico, politico e culturale deciso a non rassegnarsi alla violenza e all’esclusione quale cifra
del presente. Allora come oggi, questo presente incombe su ognuno di noi con costante ed
opprimente attualità; rassegnarsi all’idea che non possa un giorno divenire passato, sarebbe un
crimine altresì imperdonabile.
Si immagini ora un uomo, a cui, insieme con le persone amate,
vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto
quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno,
dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto,
di perdere anche se stesso.
Primo Levi, Se questo è un uomo
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1. La Distruzione dell’ospedale psichiatrico
come luogo di istituzionalizzazione
L’intervento che Basaglia effettua a Londra nel 19641, in occasione del primo Congresso
internazionale di Psichiatria sociale, sancisce la dimensione antiistituzionale della sua critica
psichiatrica, che giungerà, in seguito, alla negazione della psichiatria in quanto ideologia. In tal
senso, questo saggio rappresenta una sorta di anticipazione di quelle che saranno, negli anni a
venire, le principali linee d’azione politica di Franco Basaglia, sul piano professionale e
intellettuale.
Nel sottolineare come, ancora alla metà degli anni ’60, la situazione degli ospedali psichiatrici
italiani ed europei fosse sostanzialmente identica a quella denunciata nel 1925 da artisti francesi
che si firmavano la “révolution surréaliste”2, Basaglia apre il suo intervento con la denuncia della
principale contraddizione psichiatrica così come si è storicamente verificata da Pinel in poi, vale a
dire l’inconciliabilità tra la prassi custodialistica e correzionaria degli ospedali psichiatrici e il loro
fine ufficialmente terapeutico. Questo il punto da cui emerge la ragion d’essere della stessa critica
psichiatrica, sospinta dalla disarmante fisicità dei meccanismi di oppressione istituzionale. Il
dominio dei corpi custoditi all’interno dei manicomi non può, proprio in quanto misura
violentatrice della condizione umana, risultare privo di conseguenze sul piano della riflessione
politica e dell’analisi che la politica è chiamata a rivolgere nei confronti di se stessa. E’ questa
consapevolezza a rappresentare uno dei passaggi chiave del pensiero basagliano, che nel saggio
qui analizzato, pur rimanendo ad una formulazione ancora iniziale, esce tuttavia definitivamente
allo scoperto, con il chiaro intento di farsi discorso pubblico.
Gli ospedali psichiatrici affiancano a presunte finalità terapeutiche una prassi organizzativa ed
istituzionale innegabilmente improntata a fini custodialistici, dai tratti inequivocabilmente
carcerari3. E’ quindi evidente come la principale contraddizione risieda in una sorta di
inconciliabilità tra mezzi e fini dell’ospedale psichiatrico, in un’epoca in cui la vita degli internati
è ancora interamente scandita dall’istituzione tramite limiti forzati, burocrazia e autoritarismo.
Nel quadro europeo, soltanto Francia e Gran Bretagna evidenziano, nella prima metà degli anni
1 La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. Mortificazione e libertà dello “spazio chiuso”. Considerazioni sul sistema “open door”, comunicazione al I Congresso internazionale di psichiatria sociale, Londra 1964, in “Annuali di Neurologia e Psichiatria”, LIX, f. I, 1965.2 Tale manifesto indirizzato ai direttori dei manicomi, così concludeva: “Domattina, all’ora della visita quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza”.3 Scrive Basaglia in Corpo e istituzione: “Prima di uscire sono state controllate serrature e malati”. Queste sono le frasi che si leggono nelle note consegnate da un turno di infermieri al successivo, per garantire il perfetto ordine del reparto. Chiavi, serrature, sbarre, malati, tutto ciò fa parte dell’arredamento ospedaliero di cui infermieri e medici sono responsabili.
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’60, una certa vivacità critica in ambito psichiatrico; la prima con le cosiddette politiche di
settore1, la seconda con la Comunità Terapeutica di Maxwell Jones2. Come avremo modo di
vedere, Basaglia manifesta, sin dall’inizio, una forte diffidenza nei confronti di esperienze assurte
a modelli, poiché fondato è il rischio di cristallizzare quelle pratiche in forme predefinite assunte
quale guida ideologica, prescindendo così dall’analisi del contesto politico, economico e sociale in
cui si agisce e, quanto di più grave, dalla possibilità di modificarlo.
In un passaggio iniziale del suo intervento, Basaglia pone in relazione la disumanità dello spazio
chiuso dell’ospedale psichiatrico con l’azione combinata di due figure chiave della modernità: il
legislatore e il medico. Il primo conduce all’ineludibile orizzonte politico-sociale della psichiatria
e delle sue istituzioni; il secondo ricopre invece il ruolo di mero esecutore di un mandato politico
identificabile nel dominio della libertà degli internati, marginalizzando così ogni condotta medica
e scientifica che, piuttosto, risulta relegata in una dimensione ideologica improntata alla
legittimazione e al consenso. E’ già radicata la volontà di sottrarre il confronto sulla questione
psichiatrica dal terreno del tecnicismo per ricondurlo a quello politico e sociale. Non si tratta,
evidentemente, di una disquisizione sul metodo, bensì di una differenza sostanziale com’è quella
che intercorre tra affrontare un tema neutralmente oppure in modo significativo, capace cioè di
apportare cambiamenti concreti. Basaglia, con straordinaria lucidità, introduce così i termini
fondamentali di ogni discorso politico sulla questione psichiatrica, riassumibili nella relazione tra
il potere politico e la scienza psichiatrica da un lato, e tra i medici e la società della quale sono i
rappresentanti dall’altro. Irretiti all’incrocio tra queste relazioni di potere si trovano coloro che,
per ragioni sociali ed esistenziali, restano prigionieri del circuito psichiatrico, dove assistono
impotenti alla normalizzazione del proprio Io, ossia al controllo di una soggettività che eccede
orizzonti e confini santificati dalla norma.
In questo scritto è possibile individuare una delle principali contraddizioni della psichiatria
contemporanea e, conseguentemente, delle ragioni della sua critica. Mi riferisco al passaggio in
cui Basaglia sottolinea come “lo psichiatra sembra riscoprire solo oggi che il primo passo verso la
cura del malato è il ritorno alla libertà di cui finora egli stesso lo aveva privato” 3. E’ evidente
come queste argomentazioni conducano alla formulazione di una domanda critica e pressoché
inevitabile, ovvero: se riconosciamo nella libertà un valore incontestabilmente terapeutico, com’è
1 Si tratta di una misura adottata in Francia a partire dai primi anni Sessanta e finalizzata a ridurre il numero di ingressi in ospedale psichiatrico tramite la creazione di centri territoriali orientati alla prevenzione della malattia mentale. Basaglia resterà sempre critico nei confronti di questo provvedimento, in quanto ritenuto incapace di contestare radicalmente il sistema manicomiale che continua ad ergersi minaccioso alle spalle della “psichiatria di settore”. 2 Maxwell Jones è uno degli psichiatri inglesi più conosciuti al mondo; è identificato con uno dei più validi contributi della psichiatria sociale: il concetto di Comunità Terapeutica. Quest’ultima si fonda sull’impiego dei vantaggi del potenziale terapeutico presente in tutti i membri di un’équipe di cura multidisciplinare e nei pazienti con cui essi si trovano a lavorare. Per un approfondimento del pensiero di Maxwell Jones si rimanda in particolare a M. Jones, “Ideologia e pratica della psichiatria sociale”, Universale Etas, 1981.3 Le citazioni di Basaglia senza ulteriori indicazioni sono tratte dal saggio “La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione”.
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possibile sostenere che debba essere il legislatore – ossia il potere politico – a disporre della
libertà degli stessi malati? L’accettazione di questa relazione, infatti, implicherebbe il
riconoscimento dell’esistenza di un effettivo legame tra le categorie “salute” e “malattia” e la
politica stessa.1 Come avremo modo di vedere, il potere politico individua nella costruzione di
categorie straordinari strumenti di controllo sociale che sorprendono per efficienza e capacità di
regolare dall’interno i soggetti che investono2. In particolare, è la sovrapposizione tra i percorsi
della devianza – qualsiasi essa sia – e la stigmatizzazione delle soggettività oggettivate in quelle
categorie devianti a ricoprire un ruolo cruciale all’interno della psichiatria.
In questa fase, è già forte l’influenza del pensiero di Erving Goffman su Basaglia, in particolare
degli studi sociologici sulle dinamiche relazionali all’interno delle istituzioni totali. Asylums è
stato pubblicato da alcuni anni e Basaglia mostra di averne compreso il significato profondo. Il
tentativo che Goffman persegue all’interno di un ospedale psichiatrico statunitense3 - vivere la
realtà delle istituzioni totali in prossimità al punto di vista degli internati - si traduce in un
messaggio arricchito, nell’interpretazione basagliana, di quella carica politica che Goffman non
riuscirà mai ad intercettare. Basaglia, infatti, legge con tagliente lucidità il ruolo politico ricoperto
dal governo del “margine di individualità” che l’istituzione opera. Ciò è evidente nel passaggio
in cui descrive le dinamiche di istituzionalizzazione proprie degli ospedali psichiatrici, tendenti a
ridurre “l’uomo senza un interesse, uno scopo, un’attesa, una speranza verso cui tendere”; si
assiste, in sostanza, alla pietrificazione dell’uomo, alla sua più completa oggettivazione.
E’ l’autonomia personale ad essere annichilita, proprio perché in potenziale contrasto con
l’ordine e la regola che dominano il manicomio e che ne costituiscono, di fatto, il fine reale. In
merito, il giudizio di Basaglia è caustico e non lascia scampo a dubbi: “il ricoverato pare assumere
nella realtà manicomiale un valore al di là di quello umano”4. Ecco quindi che il principio di
efficienza istituzionale viene ad anteporsi persino alla stessa condizione di umanità; condizione
che Basaglia non ravvisa più nei ricoverati degli ospedali psichiatrici. Al momento dell’ingresso
nell’istituzione, il malato cade in una dimensione di vuoto emozionale – Goffman avrebbe parlato
di un processo di disculturazione5 e spersonalizzazione – che Basaglia rifiuta di qualificare in
termini psicopatologici6 preferendo discutere, più realisticamente, di effetti
dell’istituzionalizzazione. Goffman, in un passaggio magistrale di Asylums, rileva come “il nostro
1 E’ questo un tema ineludibile dell’intero pensiero basagliano, che in questo intervento viene proposto soltanto in filigrana ma che risulterà di fondamentale importanza per l’analisi successiva. In particolare, si vedrà come l’assolutizzazione dei due concetti e la loro polarizzazione – positiva la salute, negativa la malattia – risulti funzionale alla struttura organizzativa d’una società divisa in classi sociali.2 Per un’analisi della costruzione della devianza in quanto categoria politica si rimanda alla fondamentale opera di A. Dal Lago, La produzione della devianza, Verona, Ombre Corte, 2000.3 Si tratta dell’ospedale psichiatrico di St. Elizabeths, a Washington (D.C.), dove Goffman condusse uno studio sul campo nel periodo 1955-’56.4 Corsivo mio.5 Con questo termine si intende l’inabilità dell’individuo internato a riappropriarsi di cognizioni circa alcune abitudini ritenute indispensabili nella società libera.6 R. Burton “Institutional neurosis”, J. Wright, Bristol, 1959.
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status è reso più resistente dai solidi edifici del mondo, ma il nostro senso di identità personale,
spesso risiede nelle loro incrinature”.1 E’ esattamente ciò che viene impedito all’interno delle
istituzioni totali, e segnatamente degli ospedali psichiatrici, dove non solo viene richiesta
un’assoluta adesione ai dogmi istituzionali, ma, in particolare, la rinuncia ad ogni forma di difesa
individuale rispetto a quelle oppressioni. Inoltre, ogni reazione dissidente rispetto alla distruzione
del sé, sia che si tratti di atti psicotici che, più in generale, del tentativo di evadere il sistema a fini
liberatori, è sistematicamente ricondotta alla malattia mentale. Pertanto, il tentativo di resistere
alla distruttività dell’azione psichiatrica cade in un circolo vizioso che fa del determinismo la
costante dell’oppressione stessa.
Proprio a seguito del processo oggettivante di cui il malato è vittima, e in continuità con la
discrasia tra mezzi e fini della psichiatria asilare, Basaglia cerca di legittimare la richiesta di
distruzione del manicomio “come fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio”.
E’ nella naturalezza sprigionata da questo semplicemente che dobbiamo leggere la profondità del
pensiero di Basaglia, la sua indisponibilità al compromesso laddove questo serva a mascherare
rapporti di forza la cui forma violenta ed asimmetrica risulta oramai intollerabile. Tuttavia, in
questa fase, è altresì importante evidenziare come la distruzione dell’ospedale psichiatrico non
implichi, in Basaglia, il rifiuto a priori di un luogo dove potersi liberare dall’incombere degli altri
su di sé, dove poter ricostruire il proprio mondo personale. Restano così sullo sfondo due temi
cruciali: il rapporto tra la società – e le sue relazioni di potere – e l’istituzione manicomiale da un
lato, il concetto di malattia mentale e la sua scientificità dall’altro. Tutto questo assume un grande
significato, in quanto il desiderio di non voler rinunciare alla possibilità di curare e guarire il
malato di mente è qui interpretato all’interno di una cornice terapeutica ancora contraddistinta
dalla necessità dell’individuazione di un luogo della cura2. Luogo che, inevitabilmente, non può
che darsi esterno alla società, circoscritto proprio perché individuato come necessariamente altro
dalla società. In questo periodo, nel 1964-’65, non sfugge all’analisi basagliana la dimensione
sociale ed esistenziale della malattia mentale – ovvero il retroterra fatto di miseria, degrado,
abbandono e sofferenze che accomuna i malati – tuttavia, appare ancora determinante la
classificazione patologica di quel disagio; da qui l’irrinunciabile individuazione di un luogo della
cura. E’ bene sottolineare questo passaggio, al fine di delineare l’evolversi del pensiero basagliano
sullo sfondo delle condizioni politiche e sociali più generali.
Basaglia, nel proseguire il proprio ragionamento, concentra l’attenzione attorno
all’individuazione della libertà, da parte della psichiatria, quale irrinunciabile strumento
terapeutico. Inserisce così un passo fondamentale tratto da Storia della follia nell’età classica di
Foucault, dove viene evidenziata l’azione di oggettivazione che investe lo stesso concetto di
libertà dei folli intorno alla fine del XVIII secolo. E’ questo un passaggio cruciale che assume,
1 E. Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 2003, pag. 336 cit.2 Questa posizione è particolarmente evidente in Potere e istituzionalizzazione (1965).
21
soprattutto oggi, una grande rilevanza alla luce di nuove forme di “istituzionalizzazione molle”
che dominano la scena psichiatrica. Sul finire del 1700 si assiste ad una significativa ridefinizione
del concetto di libertà che vede il folle – soggetto simbolo dell’anormalità – inserito all’interno di
una ritualità della retorica finalizzata ad egemonizzare ogni discorso sull’internamento
spostandone così l’asse sulla rappresentazione ideologica. Discutere di libertà – in questo caso in
termini “terapeutici” – proprio quando si cristallizzano e si definiscono le “ragioni”
dell’internamento dei folli nei manicomi, è la via di fuga che il potere borghese percorre al fine di
circoscrivere l’arbitrarietà di quell’atto nelle solide forme della razionalità medico-scientifica che
di quel potere è strumento di legittimazione e controllo. Scrive Foucault: “L’internamento deve
essere dunque spazio di verità oltre che spazio di coercizione, e non può essere quest’ultimo se
non a condizione di essere anche l’altro”.1 Foucault si riferisce all’internamento come spazio
costruito attorno ad una libertà ristretta ed organizzata, condizione fondamentale affinché
l’internamento stesso assuma, a poco a poco, un valore terapeutico. Basaglia rifiuta quindi ogni
teoria che individui nella somministrazione della libertà da parte dell’istituzione una possibile
azione terapeutica, e lo fa richiamando lo studio certamente più approfondito e significativo del
tempo – e non solo – sulla genealogia storica dell’incontro tra medicina e follia tramite l’utilizzo
terapeutico della “libertà governata”.
Un ulteriore elemento di critica individuato da Basaglia nei confronti di questa libertà
oggettivata, risiede nel rapporto effettivo esistente tra lo psichiatra e il malato, ovvero tra il
delegato della società a gestire tecnicamente tutto ciò che quest’ultima esclude e gli outsiders2 che
di questa stigmatizzazione ed esclusione sono vittime. E’ a questo punto che Basaglia emerge con
lucida e graffiante originalità, consegnandoci una lezione tutta politica, laddove ricorda come la
libertà non possa mai essere concessa ma soltanto conquistata. Ecco che affinché il manicomio
non abbia a delinearsi in un “ridente asilo di servi riconoscenti”, è fondamentale far leva
sull’aggressività individuale. Troviamo anticipato, in queste poche righe, un tema che diverrà in
seguito cruciale nella critica dell’intera società, partendo dalla questione psichiatrica. Infatti,
evocando la necessità di ricostruire un clima di tensione reciproca tra i soggetti presenti a vario
titolo nell’ ospedale psichiatrico, Basaglia coglie la necessità politica di ricondurre le dinamiche
relazionali interne all’istituzione ad un clima di reale contrapposizione dialettica. O si ricreano le
condizioni affinché lo scontro dialettico assuma un proprio significato, talvolta anche contingente,
oppure non vi possono essere margini di liberazione. Ciò implica che la relazione di totale
asimmetricità tra psichiatra e paziente, sino ad allora considerata elemento terapeutico, deve
essere radicalmente ridiscussa e, anzi, negata. Quando Basaglia parla di autentica relazione con il
1 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 2004, pag. 369.2 Outsiders è il titolo di un celeberrimo saggio del sociologo nordamericano H. S. Becker, pubblicato alla metà degli anni Sessanta. Si tratta, nell’ambito della sociologia della devianza, di un’opera certamente innovativa, che ha segnato la nascita di un nuovo orientamento teorico secondo il quale la devianza non è la qualità dell’atto compiuto da una persona, ma piuttosto la conseguenza dell’applicazione di norme e di sanzioni da parte di alcuni nei confronti di un trasgressore.
22
paziente, intende l’instaurazione di una parità di status, unica condizione capace di restituire
dignità umana agli internati e a rappresentare, pertanto, un elemento imprescindibile per ogni
confronto vero e significativo. Ecco quindi che nasce l’intercambiabilità dei ruoli e con essa la
capacità di ripensare la follia alla luce della ragione e viceversa. Questo passaggio risulta
dirimente per la costituzione stessa della critica psichiatrica, in quanto orientato a demolire la
presunta incomprensibilità della follia, ovvero l’elemento cardine sul quale la psichiatria
contemporanea si è fondata, e giustificata, nel condurre la propria missione correzionaria e
custodialistica.
Basaglia, muovendo dalla critica dell’ospedale psichiatrico e dei suoi effetti distruttivi
sull’individuo, recupera così una dimensione umana della follia, immersa nelle contraddizioni del
reale, innervata dalle condizioni sociali e politiche circostanti e, conseguentemente, tutt’altro che
rappresentabile come un corpo estraneo all’ambiente esterno. L’elemento ideologico, finalizzato a
rappresentare la follia come naturalmente destinata alla sottomissione al principio d’autorità,
viene così smascherato e combattuto, tramite una sua storicizzazione politica.
Indubbiamente significativo è il confronto intellettuale che Basaglia apre in questa fase con
autori quali Foucault, Laing, Goffman, ovvero con pensatori che esercitano critiche, seppur
radicalmente differenti, nei confronti del sistema politico e sociale di riferimento. In particolare, è
nella “questione psichiatrica” che questi autori individuano un terreno fertile dove analizzare le
contraddizioni del presente per poi manifestare la propria critica politica e sociale. Non si vuole
qui individuare una discontinuità nell’opera di Basaglia, bensì valorizzare come l’incontro con
quella che potremmo definire “psichiatria reale”, ovvero la realtà dei manicomi e
dell’istituzionalizzazione dei ricoverati, segni anche un percorso intellettuale.
Il confronto serrato degli anni Cinquanta con i principali esponenti della psichiatria
fenomenologica (Jaspers, Binswanger, Minkowski, Strauss) e le riflessione filosofiche di Husserl,
Heidegger, Merleau-Ponty e, in particolare, Jean Paul Sartre, avvengono all’interno di un
orizzonte segnato dall’incombenza della psicopatologia e dalla necessità di leggere quest’ultima
attraverso modalità che ne permettano la comprensione. Ecco quindi che il metodo dell’analisi
esistenziale è “importante in quanto mette direttamente in gioco la persona del medico, che deve
partecipare direttamente…vivere interamente e intensamente la descrizione del sintomo”. E’ come
se lo psichiatra, una volta abbandonata la forma mentis positivista che lo aveva trasformato in
“esaminatore” prima e “classificatore” poi, tenti di immedesimarsi il più possibile nell’individuo
psicotico – Laing direbbe che lo psichiatra deve attingere alle proprie “potenzialità psicotiche” –
calandosi in prossimità dell’Io del paziente e quindi del modo unico e irripetibile di essere-nel-
mondo di quest’ultimo.
Non si vuole in alcun modo semplificare la discussione attorno ad una scuola di pensiero
complessa ed articolata qual è la fenomenologia – specie nella sua dimensione psichiatrica - ma
evidenziare come sia lo stesso Basaglia a cogliere che “le relazioni di causalità non potranno
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essere considerate come facenti parte del metodo fenomenologico al quale invece partecipa
attivamente solo la relazione di comprensibilità”1. In particolare, il concetto di “psicologia
comprensiva” jaspersiano sussiste unicamente in forza del soggettivismo dello psichiatra che
ricopre nuovamente il ruolo dell’esaminatore, seppur in modo radicalmente differente.
In sostanza, la psichiatria fenomenologica di Jaspers2, i disturbi del tempo vissuto di
Minkowski3 e l’analisi antropologico-esistenziale di Binswanger4, a fronte delle alterazioni della
vita psichica di un individuo, orientano la psichiatria non verso un disturbo della “natura” – così
come avviene con la psichiatria positivistica e organicistica - ma piuttosto verso un’anormale
maniera di porsi nel mondo. E’ quindi evidente la distanza di quest’analisi dalla critica politica
che a partire dagli anni Sessanta diventa sempre più profonda e pressante nei confronti del
modello sociale fondato sull’accumulazione capitalistica. Ciò che Basaglia avverte
quotidianamente all’interno dell’ospedale psichiatrico di Gorizia è un legame forte, inscindibile,
tra la condizione socioeconomica degli internati e la manifestazione della loro stessa malattia
mentale, sotto forma sia di psicopatologia che di effetti dell’istituzionalizzazione. A comparire
con determinazione è quindi una relazione di causalità; la stessa relazione che conduce alla genesi
storica dell’istituzione e alla sua funzione di controllo sociale.
E’ indubbio che il contributo della psichiatria fenomenologica e dell’analisi esistenziale sia stato
fondamentale al fine di sottrarre la psichiatria stessa dalla morsa del determinismo positivistico e
1 F. Basaglia, Il mondo dell’”incomprensibile” schizofrenico, Scritti vol. I, pag. 6.2 L’analisi fenomenologica in psichiatria individua nell’opera Psicopatologia generale (1913) di Karl Jaspers il proprio atto fondativo. Secondo Jaspers l’attenzione dello psichiatra deve essere centrata sui particolari modi che assume l’esperienza, indagando la relazione che la persona intrattiene con se stesso e con il mondo; “l’accadere psichico reale e cosciente” è l’oggetto della psicopatologia. Ecco quindi che l’attenzione privilegiata all’ascolto, alla valorizzazione di ogni espressione del paziente senza preconcetti, alle esperienze interne, ai vissuti prima che ai comportamenti sono elementi chiave di questa tradizione di ricerca. “Noi vogliamo sapere cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze e come le vivono”, scrive Jaspers nel 1913; il metodo fenomenologico costituisce pertanto lo strumento privilegiato di indagine per lo studio delle esperienze soggettive. 3 Eugène Minkowski (Pietroburgo 1885 – Parigi 1972) è uno dei più eminenti psichiatri e psicopatologi del XX secolo; a lui si deve la questione dell’analisi del vissuto e del tempo in ambito psicopatologico e psicologico. La sua fu un’opera pionieristica, capace di individuare in strumenti e domande di natura filosofica – e segnatamente fenomenologica – chiavi di lettura indispensabili non solo per la psicopatologia e la psicologia. In particolare, ad essere al centro della sua psicologia e filosofia è il problema del tempo e dello spazio. Le opere principali di Minkowski sono: La schizofrenia (1927), Il tempo vissuto (1933), Trattato di psicopatologia (1966). 4 Ludwig Binswanger (1881-1966) nasce a Kreuzlingen; è membro di una famiglia di psichiatri, il nonno aveva fondato nel 1857 la famosa clinica Bellevue in Svizzera. Nel 1906 si laurea in medicina a Zurigo, ma tra il 1901 e il 1906 frequenta anche un corso presso le università di Losanna e Heidelberg. Appena laureato diventa medico interno presso l’ospedale Burgholzli di Zurigo, diretto da Eugen Bleuler che Binswanger considererà il suo vero maestro in psichiatria clinica. Nel 1910, dopo la morte del padre, gli subentra nella direzione della clinica Bellevue; incarico che manterrà sino al 1956 quando passerà lo scettro a suo figlio. La formazione di Ludwig Binswanger avviene tra Freud e la psicoanalisi da un lato, Husserl e la fenomenologia dall’altro. A lui si deve l’”analisi esistenziale” (Daseinsanalyse) in psichiatria, orientata a considerare il malato mentale sempre come un essere umano singolare, senza ridurre il suo comportamento al disturbo di una determinata funzione. L’impostazione binswangeriana è in ultima istanza caratterizzata da una profonda connotazione antropologica, finalizzata a vedere e indagare un ambito proprio dell’essere umano a partire dalla totalità del tema uomo. Le sue principali opere sono: Per un’antropologia fenomenologica (Milano, 1970), Il caso Suzanne Urban (Venezia, 1994), Sulla fuga delle idee (Torino, 2003). Quest’ultima opera, pubblicata per la prima volta nel 1933, è il lavoro col quale Binswanger ha posto le basi di ciò che sarebbe diventata la Daseinsanalyse in psichiatria. Il libro è dedicato allo studio dell’essere-nel-mondo dell’individuo maniacale, attraverso l’analisi fenomenologica della fuga delle idee.
24
biologistico del XIX secolo. Tuttavia, se tale approccio al disagio psichico ha da un lato aperto
spiragli di liberazione individuale e soggettiva – a partire dalla libertà di espressione che non è più
elemento invalidante e stigmatizzante – dall’altro lato, invece, ha rischiato di intrappolare
l’individuo in una sorta di “relativismo soggettivista” che non rende giustizia delle diseguaglianze
ed oppressioni che informano il reale. Binswanger ragionando del metodo antropologico –
orientato a vedere ed indagare un ambito proprio dell’essere umano a partire dalla totalità del
tema uomo – sostiene che il disagio psichico deve essere sottratto al giudizio morale
semplicemente dispregiativo e alla valutazione psicologica e biologica soltanto negativa della
psichiatria, per essere piuttosto compreso come “modo proprio e caratteristico dell’esistenza
umana e in quanto possibilità esistentiva propria e caratteristica”. Credo che in queste ultime righe
sia racchiuso quanto Basaglia cerca di evitare nella critica dell’oggettivazione dell’uomo che la
psichiatria opera, ovvero il rischio di sfociare in una sorta di “soggettivismo psicopatologico” che
nel negare ogni relazione di causalità nella malattia mentale – di cui a questo punto si arriva ad
una ridefinizione esistenzialista e non medico-psichiatrica – giunge a relativizzare l’influenza
delle condizioni socioeconomiche nella tutela della salute psichica1.
Credo sia questa la consapevolezza maturata da Basaglia a seguito del suo contatto diretto col
manicomio, che non significa un’abiura nei confronti della riflessione fenomenologica ed
esistenzialista in campo psichiatrico che caratterizza segnatamente gli anni precedenti, bensì un
suo inserimento in un contesto allargato capace di leggere nell’essere-nel-mondo di ciascuno una
preziosa opportunità di comprensione e critica nei confronti di relazioni di potere e assetti
socioeconomici che avvolgono l’individuo in società. Si ha come la sensazione di muoversi sul
filo del rasoio, poiché, come evidenzia Galimberti, “l’ansia di accreditarsi come scienza sul
modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria organicista passasse sopra come un carro
armato alla soggettività dei folli, che furono tutti oggettivati di fronte a quell’unica soggettività
salvaguardata che è quella del medico”. Pertanto, credo sia sul confine della possibilità di
“soggettivazione” dell’individuo - piuttosto che sulla “soggettività” genericamente intesa - che si
debba sviluppare un confronto dialettico capace di individuare gli elementi materiali di costrizione
della soggettivazione che conducono all’immagine di una “soggettività oggettivata“.
1 Illuminante a proposito è la riflessione avanzata da Erich Fromm nell’opera I cosiddetti sani (1953), in cui si afferma che la salute psichica di un individuo dipende eminentemente dalle condizioni socioeconomiche del suo gruppo sociale d’appartenenza. Questa impostazione ha il duplice vantaggio di sottrarre la riflessione sulla salute mentale dal discorso psichiatrico tradizionalmente inteso – quello positivistico e biologistico caratteristico del XIX secolo – e, al contempo, individuare strumenti effettivi di cambiamento sociale orientati alla tutela della salute mentale stessa. Viene pertanto ricondotto ad un terreno politico e sociale il confronto su normalità e anormalità, follia e salute mentale, liberandolo dal determinismo della medicina e segnatamente della psichiatria clinica. Si potrebbe obiettare che, in questo modo, si rifugge da una forma di causalità per approdarne ad un’altra. Credo che l’unica alternativa sia rappresentata da ciò che abbiamo definito “relativismo soggettivista” in ambito psicopatologico. Come avremo modo di vedere si tratta di un velato tentativo di preservare l’ordine di cose esistenti inserendo criteri di “falsa tolleranza” nei confronti del disagio mentale, che in fondo è un malessere eminentemente sociale ed esistenziale.
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Ho ritenuto di percorrere i passaggi cruciali di questo saggio al fine di individuare le traiettorie
fondamentali del pensiero basagliano così come si configura, non casualmente, proprio nel 1964.
Non a caso poiché è questo uno dei primi interventi di Basaglia a seguito del primo contatto con
la realtà del manicomio, avvenuto nel 1961. Basaglia, sino ad allora, aveva infatti frequentato
cliniche psichiatriche universitarie che, per effetto della sovrapposizione del sistema universitario
e sanitario allora vigenti, risultavano sostanzialmente estranee alla realtà delle condizioni reali dei
malati di mente nelle istituzioni psichiatriche pubbliche, amministrate su base provinciale1.
Questo saggio, presentato da Basaglia in una circostanza certamente significativa qual è un
Congresso internazionale di psichiatria sociale, è pertanto da considerare un punto di partenza,
una sorta di “manifesto politico”, la cui straordinarietà è data dagli spunti di riflessione che
Basaglia vi inserisce con rigore argomentativo e passione intellettuale, quasi a voler liberare,
improvvisamente, la tensione politica, civile e umana accumulata nei primi tre anni di lavoro
nell’ospedale psichiatrico provinciale di Gorizia. La visione d’insieme restituita ne impedisce
pertanto una particolare dimensione analitica che, invece, possiamo riscontrare in altri testi.
Ritengo quindi appropriato parlare di “manifesto politico”, ovvero di un atto che sancisce una
presa di coscienza, a fronte di una maturazione che non è solo intellettuale ma segnatamente
umana, in quanto capace di coinvolgere passioni e sentimenti che nutrono una costante tensione
politica e sociale.
Ciò che si è voluto sottolineare, è quindi il carattere “costituente” di questo intervento ai fini di
una prassi politica, professionale ed intellettuale orientata alla costante negazione dell’ospedale
psichiatrico in quanto luogo di oppressione, controllo ed alienazione dell’uomo. Tuttavia, non si
tratta di un percorso definito a priori; la stessa meta non è data una volta per tutte. Basaglia parla
d’una critica della psichiatria che non può costituire un “mondo in sé compiuto”. Il passo è oramai
irrevocabile, l’idea della negazione costante d’ogni forma di psichiatria istituzionale diventa il
segno del pensiero basagliano e un’occasione di straordinaria riflessione politica. Come vedremo,
questa sarà la condizione irrinunciabile affinché sia possibile approdare, tramite la negazione
istituzionale, alla critica e alla lotta contro le ingiustizie e la violenza della struttura
socioeconomica che dell’istituzione è la fonte.
2. Ospedali psichiatrici e annientamento dell’Io
1 Bisognerà attendere il 1978 affinché anche in Italia, tramite la legge numero 833, venga creato un Servizio sanitario nazionale. Tale legge, fissa principi cardine come la solidarietà, la copertura assistenziale globale e la natura pubblica del Servizio sanitario: con tale modello universalistico la tutela della salute, nel realizzare il principio costituzionale di cui all’articolo 32 della Costituzione, viene indirizzata a tutti gli appartenenti la comunità, ponendo gli oneri a carico della fiscalità generale.
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Ci occuperemo ora degli Scritti in cui Basaglia denuncia l’azione di annientamento dell’Io
perpetrata negli ospedali psichiatrici, vale a dire la principale ragione per la quale, come abbiamo
visto, la distruzione del manicomio appare come un fatto urgentemente necessario, se non
semplicemente ovvio. Verrà data priorità ad un punto di vista che caratterizza particolarmente
alcuni scritti basagliani, e cioè il ruolo assunto dai corpi degli internati, quale dimensione
privilegiata attraverso la quale leggere le dinamiche essenziali dell’istituzione stessa. Si tratta
indubbiamente di una felice intuizione di Basaglia, che si dimostra capace d’individuare nella
dimensione antropofenomenologica ed esistenzialista del proprio pensiero uno strumento prezioso
di indagine della condizione umana nei manicomi.
L’obiettivo non è solo quello di restituire l’idea della disumanità delle condizioni di vita
all’interno degli ospedali psichiatrici, ma segnatamente relazionare questa realtà con il contesto
politico, economico e sociale dell’epoca. Solo così è possibile cogliere gli elementi di continuità
tra “interno” ed “esterno”, tra manicomio come luogo della “malattia” e società come luogo della
“salute”. Infatti, se un elemento irrinunciabile alla critica politica della psichiatria contemporanea
è il riconoscimento della funzionalità di quest’ultima in termini di controllo sociale, allora, è
altresì necessario scorgere nelle dinamiche psichiatriche espressioni di tratti politici, economici e
culturali dominanti nella società. Ciò che si vuol qui sostenere, è che i percorsi terapeutici, gli
strumenti e i luoghi della cura – ma potremmo persino dire l’individuazione delle patologie
mentali stesse – riflettono esigenze che hanno una natura inequivocabilmente esterna a
qualsivoglia discorso medico e scientifico, assumendo, perciò, un carattere storicamente
determinato.
In sostanza, è a partire dall’individuazione delle dinamiche d’oppressione dell’uomo nelle
istituzioni psichiatriche che è possibile delineare il quadro più generale all’interno del quale
quell’oppressione si inscrive; nella convinzione che non vi sia alcuna significativa autonomia di
un sottosistema, qual è quello psichiatrico, nei confronti della struttura generale di società
complesse come quelle contemporanee. Dobbiamo ricercare negli scritti basagliani quegli
elementi che ci permettono quindi di cogliere questa sorta di “relazione osmotica” tra ospedale
psichiatrico e società; consapevoli che la stessa esistenza del primo è testimonianza nient’affatto
marginale di un modello sociale fondato sui luoghi e le forme della disciplina.
Il percorso che si vuole seguire nella lettura di un tratto politico-culturale certo fondamentale
qual è il rapporto d’una società verso la follia, procede dall’analisi della condizione umana
all’interno delle istituzioni psichiatriche, così come descritta ed interpretata da un osservatore
attento e critico quale Basaglia.
Sopraffazione e contaminazione dell’Io
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Come evidenziano Franco e Franca Basaglia nell’introduzione all’edizione Einaudi di Asylums1,
la natura escludente e discriminante delle istituzioni totali è frutto dello stesso pregiudizio che
individua nella punizione una necessità, una sorta di “partenza originaria attorno alla quale viene a
costruirsi e a giustificarsi l’esistenza della istituzione stessa”. E’ perciò evidente come il dominio
dei corpi all’interno degli ospedali psichiatrici giochi un ruolo cruciale, direi addirittura
costituente, per l’istituzione stessa. La punizione non si presenta soltanto coi lineamenti
dell’afflizione di chi la subisce, ma assume segnatamente i tratti del rito, ovvero di uno strumento
formidabile di governo ed esercizio del potere. L’atto del punire necessita di ministri – figure
ufficialmente abilitate alla celebrazione del rito - di codici, di significati riconosciuti e, in
particolare, di una colpa da esecrare e un colpevole da redimere. Basaglia ci ricorda come “questa
necessità di punizione risulterebbe la funzionalità delle istituzioni al sistema sociale di cui sono
strumento e mezzo di controllo”. Risulta ora maggiormente comprensibile quanto Goffman ritiene
essere il significato più profondo delle istituzioni totali, vale a dire “scoprire un crimine che si
adatti alla punizione e ricostruire la natura dell’internato per adattarla al crimine”. E’ questo un
punto nodale dell’intera questione psichiatrica e delle modalità di interazione tra quest’ultima e la
società. Il crimine qui richiamato è la follia; ciò significa che è l’atto di internamento stesso a
costruire la malattia e, in particolare, il suo volto nell’immaginario collettivo. Basaglia,
nell’introduzione ad Asylums, afferma chiaramente che “la malattia è venuta a trasformarsi
gradualmente in ciò che è l’istituzione totale”. In queste righe è racchiusa una conquista
fondamentale, volta a rappresentare, nella sua crudeltà, il fine ultimo degli ospedali psichiatrici: la
destrutturazione del sé degli internati.
Nel saggio Corpo e istituzione, Basaglia si domanda a quale livello si attui il rapporto tra
medico e malato mentale, vale a dire tra le due figure che all’interno degli ospedali psichiatrici
riproducono, tramite la mera presenza fisica, un’immagine affatto emblematica dell’asimmetricità
tipica d’una società basata sull’accumulazione, la competitività e quindi l’esclusione. In medicina,
l’incontro tra il medico e il malato avviene nel corpo stesso di quest’ultimo; è perciò evidente lo
sbilanciamento del rapporto, costituito da un invasore e un invaso, cosicché la soggettività del
corpo sofferente non viene neanche presa in causa, anzi è scientemente mantenuta a distanza.
La causa della sostanziale incomunicabilità tra i poli soggettivi di questo rapporto, va imputata
quindi al mancato riconoscimento del malato in quanto soggetto. Quest’ultimo, infatti, deve
presentarsi al medico come mero corpo, dove la medicina può trovare risposte ai propri principi
positivistici che hanno fatto dell’uomo come oggetto il fine ultimo della ricerca.
Tuttavia, nel caso del malato di mente, l’”incontro” non può avvenire sul corpo, così come
invece avviene per il malto organico. Allora, spiega Basaglia, ci si trova dinanzi ad un bivio: o
l’incontro non avviene affatto – ma ciò non significa che il malato sfugga al circuito del controllo
e dell’oppressione – oppure, più frequentemente, lo si attua in un corpo che si presume essere
1Pubblicata in prima edizione nella collana Nuovo Politecnico nel 1968.
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malato a livello organico, anche se questo risulta difficilmente dimostrabile. Anzi, come avremo
modo di vedere, il malato di mente è giudicato “incomprensibile” per definizione dalla psichiatria
stessa. La contraddizione di un comportamento apparentemente inspiegabile, viene così risolta
tramite la conversione forzata di questa soggettività in una oggettività determinata in campo
medico-scientifico. Dinanzi a uomini e donne che traducono un disagio esistenziale in un
comportamento che è immagine e veicolo di un irrinunciabile ed individuale essere-nel-mondo
(che di quel disagio è comunque espressione), il potere dominante reagisce rifugiandosi nelle
presunte certezze della scienza moderna, sempre pronta a sacralizzare ogni esigenza di natura
politica. E’ importante sottolineare come questo utilizzo strumentale della scienza – e
conseguentemente della razionalità moderna – celi una profonda crisi del razionalismo stesso che
giunge, in sostanza, alla negazione della razionalità e dei principi che a quest’ultima si sono
ispirati nel corso dell’età moderna. Possiamo paradossalmente parlare, nel caso della psichiatria,
di una “modernità tradita” per mezzo d’una costruzione ideologica che ha fatto del giudizio
scientifico il momento della verità, dell’esclusione, dell’assoluto. Assistiamo, pertanto, ad un vero
e proprio processo produttivo di verità scientifiche che sostanzialmente scalzano la realtà delle
condizioni umane di vita, fatte di sofferenze, conflitti, contraddizioni, sconfitte, sostituendola con
una più rassicurante “ragione superiore” costruita affinché le forme di lotta e di resistenza che
nascono dalle contraddizioni del reale possano essere neutralizzate.
Basaglia fa notare che “presumere un corpo malato come base di incontro tra psichiatra e
paziente mentale, impone a quest’ultimo un ruolo oggettivo sul quale l’intera istituzione che lo
tutela viene a fondarsi”. Avendo già richiamato il ruolo fondamentale ricoperto dalle istituzioni –
intese anche come insieme di norme, organizzazioni, prassi consolidate in ambito sociale – nel
costituire il sé di un individuo, è facile immaginare quale possa essere il grado di influenza che
tale approccio oggettivante finisce per avere sul malato. Quest’ultimo, riassume Basaglia, “non
può che viversi come corpo malato, esattamente nel modo in cui è vissuto dallo psichiatra e
dall’istituto”. Ecco che cosa si intende con il termine contaminazione del sé, vale a dire un
processo graduale – ma violento – avente come fine la distruzione di “individualità in eccesso” in
relazione ad un determinato contesto storico e sociale. Potremmo dire, senza apparire retorici, che
la contaminazione del sé pianificata negli ospedali psichiatrici ha come fine ultimo
l’annichilimento di una volontà di “essere”. E’ sul governo dell’autonomia esistenziale
dell’individuo – e in primis delle modalità di reazione di quest’ultimo a ciò che Foucault definisce
il “potere di disciplina”1 – che la psichiatria fonda la propria ragion d’essere in quanto scienza
biopolitica.
1 Ci si riferisce al concetto di “potere di disciplina” così come enucleato da Foucault nel corso delle lezioni al Collège de France sul potere psichiatrico, dal novembre del 1973 al febbraio 1974. Foucault parla di una forma di potere, quella disciplinare, dal carattere capillare e terminale, attraverso la quale il potere politico giunge a toccare i singoli corpi, a far presa su di essi. Il potere disciplinare è una modalità del tutto specifica dell’epoca di quel che si potrebbe chiamare il contatto sinaptico corpi-potere. Per un approfondimento, M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano, 2004.
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Goffman, nell’analizzare il mondo dell’internato1, evidenzia magistralmente quelli che sono i
processi di “umiliazione, degradazione e sopraffazione del sé” che segnano l’inizio di
cambiamenti radicali nella “carriera morale”, ovvero nell’insieme di “credenze che l’individuo ha
su di sé e su coloro che gli sono vicini”. Credo possano essere individuate due principali forme di
sopraffazione del sé: la prima di ordine fisico, la seconda, invece, di ordine psicologico. E’
innanzitutto doveroso sottolineare come questa distinzione possa apparire per certi versi
pericolosa; infatti, sin dalla scissione cartesiana tra res cogitans e res extensa, l’uomo corre
costantemente il rischio di essere dissociato, lacerato in anima e corpo2. D’altronde, come nota
R.D. Laing in “L’io diviso”3, la stessa psichiatria è costituita di un vocabolario orientato a
dividere l’uomo. Afferma Laing: “Invece del legame originale Io e Tu, si prende un singolo uomo
isolato, e si concettualizzano i suoi vari aspetti: L’io, il Super-Io, l’Es”. E’ fondamentale, per
Laing, partire dal concetto di un tutto unitario, ma niente di simile esiste, né potrebbe essere
espresso, entro il sistema linguistico in uso in psichiatria o in psicoanalisi.
Tuttavia, il merito di Goffman, prontamente colto da Basaglia, è aver evidenziato la matrice
reale dei processi istituzionali che conducono alla sopraffazione del sé e alla destrutturazione
dell’integrità umana. Fatta questa doverosa premessa, è quindi fondamentale scorgere gli
strumenti attraverso i quali viene operato questo annientamento della personalità 4. Come si
diceva, è possibile individuare processi che agiscono primariamente a livello di percezione fisica e
altri che, invece, puntano maggiormente ad una percezione psicologica del fenomeno.
Appartengono ai primi tutti quei provvedimenti volti ad annullare ogni intervallo fisico tra
l’individuo e l’ambiente che lo circonda, inibendo così la capacità del primo di agire
significativamente su quest’ultimo. Qualche esempio può risultare utile.
La prima riduzione del sé per chiunque abbia a che fare con le istituzioni totali, e segnatamente
con gli ospedali psichiatrici, è emblematicamente segnata dallo spazio chiuso dell’istituzione,
dalle barriere fisiche che delimitano lo spazio interno dall’esterno. Spazio interno che, agli occhi
del paziente rappresenterà – per un periodo di tempo spesso indeterminato5 - ogni raffigurazione
possibile dello spazio stesso, cosicché è la stessa distinzione categoriale dentro/fuori a perdere
ogni rilevanza interpretativa.
1 Si tratta del primo capitolo del saggio Sulle caratteristiche delle istituzioni totali, contenuto in Asylums.2 Nell’opera Psichiatria e fenomenologia (1979), Umberto Galimberti evidenzia come la divisione introdotta da Cartesio non sia affatto qualcosa di originario capace di offrirsi all’evidenza fenomenologica, ma è piuttosto un prodotto della metodologia della scienza, costretta a ridurre lo psichico e epifenomeno del fisiologico che in psichiatria si chiama “apparato cerebrale”. 3 R.D. Laing, L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Torino Einaudi, 2001. Si tratta dell’unico studio di psichiatria esistenziale condotto dallo psichiatra scozzese Laing, pubblicato per la prima volta nel 1959.4 Di seguito si utilizzerà il termine personalità in modo pressoché intercambiabile con quello di carattere. Infatti, si ritiene che la pervasività dell’azione delle istituzioni totali sia tale da modificare sia desideri e sentimenti che solitamente restano all’interno dell’individuo (personalità) sia i tratti permanenti della nostra esperienza emotiva ed il valore etico attribuiti ai nostri desideri e alle nostre relazioni con gli altri (carattere). 5 Un caso significativo dell’indeterminatezza che domina la permanenza temporale degli internati negli Ospedali psichiatrici ci è fornita ancora oggi dagli ospedali psichiatrici giudiziari dove la misura di sicurezza che legittima l’internamento è reiterabile all’infinito a prescindere dall’entità del reato commesso.
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Vi è poi il processo di ammissione che porta generalmente ulteriori perdite e mortificazioni; tale
procedura può essere definita come una sorte di perdita e di acquisto, dove il punto centrale è dato
dalla nudità fisica. Goffman nota come “la perdita implica una spoliazione di ciò che si possiede –
importante nella misura in cui le persone investono un sentimento del sé in ciò che posseggono”.
E’ oltremodo significativo evidenziare come la perdita di ogni forma di controllo su quanto
concerne il corredo della propria identità, rappresenti un punto nodale nell’esclusione
dell’individuo dalla possibilità di relazionarsi con l’ambiente esterno – a cominciare dagli oggetti
più intimi che lo circondano – al fine di rafforzare la propria personalità.
Vi è inoltre una forma di mutilazione personale che assume una dimensione drammaticamente
fisica, poiché afferisce ad una vera e propria deturpazione dei corpi. Nel solo caso degli ospedali
psichiatrici basti pensare agli effetti di lobotomie, elettroshock, shock chimici e, non ultimo, degli
psicofarmaci utilizzati a fini di controllo1. Si tratta di brutali provvedimenti che certo non
restituiscono una garanzia di integrità fisica ai pazienti, con tutto ciò che questo può comportare
sul piano della rappresentazione del sé.
Infine, esiste un’ultima forma di contaminazione fisica, anche questa estremamente nuda nella
sua materialità, che è data dal contatto forzato dei corpi con tutto ciò che è altro dai corpi stessi.
Nuovamente, nel caso degli ospedali psichiatrici, possiamo ritenere tale l’obbligo di assumere
medicine, effettuare iniezioni endovenose, oppure, essere costretti all’alimentazione forzata.
Per quanto riguarda le dinamiche di spersonalizzazione che abbiamo detto agire una dimensione
segnatamente psicologica, possiamo individuare due linee d’azione principali. La prima concerne
la “spoliazione dei ruoli”, la seconda il cosiddetto “effetto circuito”. La spoliazione dei ruoli è una
condizione nella quale incappano in modo sistematico tutti coloro che, per qualsiasi ragione,
vengono separati dal mondo esterno per un periodo di tempo significativo. Un esempio certo
calzante è quello del carcerato che nel periodo detentivo è costretto ad assumere a proprio
modello di vita le ferree regole della prigione, assistendo costantemente alla negazione del proprio
passato. E’ questo uno dei tratti maggiormente significativi delle istituzioni totali – e del concetto
stesso di punizione – vale a dire la recisione di ogni legame sociale ed affettivo precedentemente
vissuto dagli internati; quasi ad individuare nella sofferenza di questa punizione la strada della
redenzione sociale e civile.
In ambito psichiatrico, questa spoliazione dei ruoli assume un valore ancor più pregnante ed
alienante. Infatti, se l’internamento in manicomio determina una condizione di estraniazione
rispetto ad un ruolo sociale precedentemente assunto, l’incontro con la psichiatria origina una vera
e propria spoliazione dello status di cittadino. La morte civile che accompagna i malati di mente
giudicati interdetti ne è la prova ricorrente e drammatica; è bene ricordare il passaggio in cui
Basaglia rimarca con forza “il valore al di là di quello umano” assunto dai ricoverati negli
1 Per una critica delle “cure” utilizzate in psichiatria si rimanda in particolare all’opera di R. Cestari, L’inganno psichiatrico, Roma, Sensibili alle foglie, 1994.
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ospedali psichiatrici. La contaminazione e la sopraffazione del sé operata all’interno dei
manicomi, si risolve nella sostanziale riduzione dei ricoverati ad una condizione subumana;
obiettivo che trova una presunta legittimazione nella conclamata “inferiorità” dei “malati di
mente” che possono così essere spogliati dello stesso status umano.
Ciò che si definisce “effetto circuito”, invece, nasce dalla consapevolezza del ricoverato di
ritrovarsi in balia di un vortice, incontrastabile ed inglobante nella sua azione. Ogni reazione
difensiva esercitata dall’internato in risposta all’oppressione subita, risulta infatti foriera di un
ulteriore attacco da parte dell’istituzione. Ciò significa che ad essere minata alla radice – in quanto
oggetto di inevitabile punizione e biasimo – è l’autonomia dell’azione stessa, in un contesto già
gravemente ristretto come quello di un ospedale psichiatrico. Tale questione, è inoltre strettamente
correlata a ciò che Goffman chiama “processo di unificazione” che, nelle istituzioni totali, crea
appunto ulteriori esempi di circuito. Il sociologo canadese, osserva inoltre che “nelle istituzioni
totali le diverse sfere d’azione sono unificate in modo che la condotta dell’internato in un
particolare settore, gli viene ritorta dal personale curante, sotto forma di commento o di verifica
del suo comportamento in un contesto diverso”.1 Ora, questa drammatica immagine di
compressione degli spazi e del tempo di vita in un giudizio sovraordinatore della condizione
umana – che appare come sempre già dato – viene ripreso da Basaglia nel saggio Corpo, sguardo
e silenzio2, seppur da una diversa angolatura.
Questo saggio, incentrato sull’enigma della soggettività in psichiatria, analizza il rapporto che la
scienza psichiatrica, inevitabilmente legata all’uomo e ai suoi problemi, intraprende con il tema
stesso della soggettività e, segnatamente, del rapporto io-corpo. Infatti, non è possibile, scrive
Basaglia, “parlare dell’uomo senza essere rimandati alla sua corporeità, né si può avvicinare il
fatto corporeo senza implicare l’intero complesso dell’uomo nel suo essere umano”. E’ in queste
poche righe che Basaglia, rielaborando il pensiero di Husserl e Merleau-Ponty, ci restituisce
un’idea affatto particolare della condizione umana, “dell’uomo nel suo comportamento di fronte
al mondo, dell’uomo che deve liberamente scegliere, dell’uomo che è libero di plasmare
razionalmente se stesso e il mondo che lo circonda”. L’uomo, il cui corpo si dà come materia
impenetrabile, opaca, passiva - per parafrasare Husserl – intraprende un rapporto con le cose del
tutto particolare, che consente di esperirle in modo soggettivo ed irripetibile ma pur sempre
tramite la “materia costitutiva di se stessi”. Senza il corpo, sostiene Sartre3, non è consentito
distinguere il possibile dal reale, ecco perché possiamo intendere il corpo quale punto di vista
privilegiato di ogni azione e contesto possibile al mondo; è corpo l’identità della nostra nascita e
della nostra morte e, conseguentemente, il corpo è il veicolo dell’essere-nel-mondo di ciascuno,
l’elemento irrinunciabile che sottende una vita intera.
1 E. Goffman, Asylums, Einaudi, Torino, 2003, p. 65, cit.2 Questo saggio fu pubblicato per la prima volta nel 1965 sulla rivista “L’Evolution Psychiatrique”, n. I, 1965.3 J.-P. Sartre, L’essere e il nulla (1943) , Milano, Il Saggiatore, 1997.
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A questo punto, Basaglia inserisce un ulteriore elemento di analisi, concernente il rapporto tra
individui, e tra quest’ultimi e istituzioni, in un dato contesto sociale. Infatti, è nel momento in cui
si è intenzionati a fare un’esperienza del proprio corpo nel mondo che l’uomo si trova dinanzi al
comportamento di sé ed al comportamento dell’altro. E’ quindi nel costituirsi di ciascuno come
“persona” che il proprio corpo si staglia in mezzo agli altri e alle cose come altro-da-sé. Pertanto,
se è necessaria la presenza fisica e comportamentale dell’altro perché sia data anche la
soggettività individuale di ciascuno, è altresì necessario, spiega Basaglia, che “il corpo mantenga
dall’altro e dalle cose una distanza sufficiente a permettergli di riconoscere nel proprio corpo la
presenza dell’altro come propria alterità”. In sostanza, la presenza dell’uomo nel mondo – l’uomo
inteso come sintesi affatto particolare di corpo-materia da un lato e soggettività dell’Io dall’altro –
necessita di un’alterità data, ma la relazione tra questi due poli deve avvenire nello spazio di un
intervallo irriducibile. Infatti, ricorda Basaglia, “il mio corpo deve conservare la propria unicità e
non può essere pressato dalle cose se vuole comunicare con esse: altrimenti si troverebbe in esse
imprigionato ed identificato”. Questo è un passaggio fondamentale, in quanto pone al centro
dell’intera riflessione l’autonomia dell’individuo nell’identificare se stesso tramite la
comunicazione e la costante interazione con gli altri. Tuttavia, la comunicazione presuppone una
“spazialità distanziata” quale strumento imprescindibile dello stesso dialogo.
E’ interessante notare l’analogia esistente tra gli effetti negativi arrecati dalla promiscuità e
dall’invasione dello spazio individuale e la condizione esistenziale della persona schizoide, così
come ufficialmente riconosciuto in ambito psichiatrico. Laing, nella già citata opera L’io diviso,
afferma che caratteristica principale dell’individuo ontologicamente insicuro, è quella di percepire
la propria esistenza nel mondo in modo costantemente segnato dall’insicurezza e dall’incombere
di pericoli. Se è stata raggiunta una condizione di sicurezza ontologica primaria1, afferma Laing,
“le normali circostanze della vita non presentano una minaccia continua per la propria esistenza”.
Altrimenti, se questa base per vivere non è stata raggiunta, “tutte le circostanze comuni della vita
quotidiana costituiscono un pericolo continuo e mortale”. L’individuo schizoide, o
ontologicamente insicuro, avverte così nell’interazione con l’altro e il mondo circostante una
fonte di incessante pericolo per sé e, in particolare, per la propria identità. L’insicurezza che lo
domina, determina la paura di essere “risucchiato” dal rapporto con l’altro, o di “implodere” al
contatto di quest’ultimo. La manovra principale a cui ricorre un individuo schizoide per
conservare un minimo senso di identità, consiste quindi nell’isolarsi a tal punto da giungere ad
una vera e propria scissione dell’Io dal corpo.
Ricordando le parole di Basaglia, e cioè che il corpo deve poter conservare la propria unicità al
fine di non trovarsi imprigionato in ciò che è altro da sé – condizione che determinerebbe la
1 E’ dotato di sicurezza ontologica primaria colui che ha il senso della propria presenza nel mondo come persona reale, viva, intera e, in senso temporale, continua. Come tale vive nel mondo e ne fa parte, e incontra gli altri; e sia questi che quello vengono vissuti come altrettanto reali, vivi, interi e continui.
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scomparsa del sé, che verrebbe appunto “risucchiato” – non si può che cogliere un emblematico
parallelismo tra gli effetti dell’istituzionalizzazione sull’individuo e quelli che vengono presentati
come sintomi di una “malattia mentale” quale la schizofrenia.
Pertanto, conclude Basaglia, “l’intervallo è dunque da considerarsi lo spazio necessario a due
corpi che si incontrano per poter salvaguardare ciascuno la propria intimità dall’altro: venendo a
mancare questo intervallo l’uno dei poli dell’incontro sarà sopraffatto dall’altro”. Questo è proprio
quanto accade all’interno degli ospedali psichiatrici, dove l’asimmetricità che corre tra lo
psichiatra e il malato, così come tra l’istituzione e gli esclusi della società, genera, per dirla con
Foucault, differenze di potenziale, scambi, dispersioni, reti; ovvero, un sistema di differenze in cui
il potere può mettersi a funzionare.
Istituzionalizzazione e destrutturazione del Sé
Nel punto precedente, abbiamo visto come caratteristica principale degli ospedali psichiatrici,
ma potremmo dire più in generale della psichiatria stessa, sia quella di annichilire ogni intervallo
tra l’Io degli internati e l’istituzione. I termini utilizzati – contaminazione e sopraffazione –
vogliono proprio restituire quest’idea d’invasione e destrutturazione d’una entità precedentemente
data che, d’ora in poi, non sarà più nulla all’infuori di ciò che le sarà imposto d’essere.
E’ quindi doveroso interrogarsi sulle finalità di questo annientamento dell’Io; qual è la ragione
che conduce ad ideare istituti volti a ridurre l’uomo ad una condizione “al di là di quella umana”?
Credo si possa articolare la risposta lungo due livelli; il primo concerne la funzionalità
dell’ospedale psichiatrico nei confronti della classe dominante – potremmo quindi parlare di
manicomio come strumento del potere – il secondo, invece, coinvolge le esigenze di
funzionamento interno del micromondo che l’istituzione stessa rappresenta – in questo caso
potremmo riferirci ad una “microfisica del potere”. Pertanto, una parziale risposta al quesito
iniziale può essere fornita dall’analisi degli effetti dell’istituzionalizzazione stessa. Abbiamo
finora evidenziato le dinamiche di aggressione dell’Io; tuttavia, è altrettanto fondamentale
comprendere gli esiti di questo processo nella loro dimensione umana.
Vi è una saggio, scritto da Basaglia nel 1966, particolarmente significativo nell’evidenziare ciò
che viene fatto dell’uomo all’interno degli istituti psichiatrici. Mi riferisco a Un problema di
psichiatria istituzionale1, dove già il sottotitolo rende l’idea del concetto-chiave attorno al quale
Basaglia argomenta il proprio pensiero: l’esclusione come categoria socio-psichiatrica. In questo
scritto si sottolinea come l’obiettivo perseguito dalle istituzioni totali, e precipuamente dagli
ospedali psichiatrici attraverso le pratiche descritte in precedenza, sia quello di escludere
l’internato a due livelli: nei confronti della società e verso se stesso e la propria carriera morale.
1 F. Basaglia, Un problema di psichiatria istituzionale. L’esclusione come categoria sociopsichiatrica, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, 90, f. 6, 1966.
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La prima forma di esclusione verrà analizzata nel corso del prossimo capitolo; ora è necessario
soffermarsi sulla seconda.
L’esclusione del malato mentale, a differenza di quanto accade per tutte le altre figure marginali
e socialmente stigmatizzate, determina un’impossibilità a resistere ed opporsi che è misura
talvolta più alienante dell’esclusione stessa. Infatti, ci troviamo dinanzi alla negazione del diritto
soggettivo a rappresentare la propria volontà in modo autonomo, riconosciuto e significativo.
Viene cioè esclusa ogni possibilità di confronto dialettico tra l’internato e qualsiasi altro soggetto.
Basaglia parla esplicitamente di “regressione istituzionale”, o secondaria, “chiaramente prodotta
dall’internamento in istituzioni psichiatriche che hanno troppe volte avuto l’unica funzione di
proteggere il sano dagli eccessi e dalla pericolosità del folle”. Il punto qui fondamentale, è che i
processi di istituzionalizzazione si traducono in una destrutturazione dell’individuo e della
percezione che egli ha di sé stesso, che conduce ad una violenta ridefinizione del suo essere-nel-
mondo. Inoltre, questa azione risulta tanto distruttiva quanto indeterminata, poiché non è dato
sapere fin dove si spinga la regressione primaria – quella che si presuppone essere determinata
dalla malattia mentale – e quella istituzionale. L’ovvia conseguenza è l’immersione del paziente
in un continuo divenire di situazioni contraddittorie che hanno il solo effetto di rafforzarne
l’insicurezza e rimpicciolire il suo Io, vale a dire ridurre sempre più ogni forma di autonomia e
resistenza verso l’istituzione – che in questo modo tutela le proprie esigenze di efficienza e
controllo.
Un ruolo determinante nell’efficacia di questa violenza perpetrata a detrimento dei ricoverati, è
certamente ricoperto da una particolare forma di esclusione: quella che investe l’accesso paritario
al discorso. Abbiamo visto come già Foucault avesse individuato nell’esclusione dal discorso una
parte rilevante del quadruplo sistema d’esclusione che connota lo status del folle in ogni epoca e
società occidentali1. Questa esclusione riveste un ruolo cruciale non solo in quanto costante dello
statuto sociale della follia, ma segnatamente in qualità di presupposto irrinunciabile dell’invasione
del sé che ha luogo negli ospedali psichiatrici. Basaglia, nel saggio Il mondo
dell’”incomprensibile” schizofrenico attraverso la Daseinsanalyse2, afferma che “una delle
espressioni più significative della natura umana ci sembra sia il linguaggio, non inteso come
strumento atto ad esprimere le nostre idee ed i nostri concetti, ma come mezzo di tradurre in
parole la vita stessa”. Se la “vita stessa” non può essere tradotta in parole, gesti, segni - ovvero in
veicoli di sensazioni, stati d’animo, pensieri che si originano dall’esperienza umana immersa nella
“vita stessa” - allora quest’ultima non può restare inalterata nella sua costituzione materiale,
1 Afferma Foucault nel saggio La follia e la Società (1978): “Ogni società ha un sistema d’esclusione per cui la parola di certi individui non viene recepita allo stesso modo della parole degli altri. La loro parola è più sacra o, al contrario, è più vana e vuota di quella altrui: a causa di ciò, quando parleranno, non otterranno lo stesso credito e neppure gli stessi effetti degli individui normali. Esiste dunque una marginalità per quanto riguarda il discorso o il sistema di produzione dei simboli”.2 In “Giornale di Psichiatria e Neuropatologia”, 81, 471, 1953. Anche in Scritti vol. I.
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poiché qualsiasi azione volta a negare l’elaborazione e la riproduzione soggettiva della vita, aliena
il soggetto negato dal “reale” finendo col delineare lo “stato di cose presenti” come immagine di
una sola parte dell’umanità. Si tratta di un passaggio estremamente rilevante, poiché non pone
l’accento sui processi di comunicazione del pensiero, comunque fondamentali, ma segnatamente
sulla rappresentazione della “vita stessa”, quale momento reale, imprescindibile e basilare per gli
stessi processi produttivi del pensiero. Continua Basaglia, “il linguaggio infatti costituisce
l’espressione più genuina che l’uomo possieda nei suoi rapporti interumani poiché esso può essere
considerato come la proiezione dell’individuo nel mondo: una manifestazione del suo “modo di
essere”, è il mezzo con il quale l’uomo esprime la propria individualità e soprattutto manifesta il
suo aspetto modale rapportato a quello degli altri”. Possiamo affermare che attraverso il
linguaggio l’individuo si relaziona col mondo esterno, esercitando così continue e fondamentali
forme di resistenza. Non è possibile negare l’esistenza di ogni rapporto dialettico tra l’internato e
l’istituto che lo custodisce senza rimarcare che, contemporaneamente, viene disconosciuto il
“potere di voce” dell’internato in quanto tale. La ragione di tutto questo è da individuare nella
reclusione del paziente all’interno dell’”incomprensibilità”, dove la presunta incapacità del malato
di mente a relazionarsi con l’altro in modo significativo - capace cioè di padroneggiare
coscientemente sentimenti, intenzioni e volontà – risulta essere elemento sovraordinatore
dell’esperienza stessa.
Vi è almeno un’altra ragione significativa nel conferire questa rilevanza alla negazione del
linguaggio della follia, strettamente correlata alla precedente. Mi riferisco al percorso che ha finito
per accerchiare e definire la follia nei termini della malattia, imprigionandola così nel linguaggio
stesso di quest’ultima che, come sottolinea Basaglia in Follia/Delirio1, “è linguaggio della
razionalità del potere, dove la soggettività del folle, espressa nel delirio, sarà definitivamente
oggettivata”.
Ancora nel saggio Un problema di psichiatria esistenziale, Basaglia afferma: “Il perfetto
ricoverato, all’apice di questa desolante carriera la cui meta sembra, paradossalmente, la
distruzione del malato, sarà dunque quello che si presenta completamente ammansito, docile al
volere degli infermieri e del medico. E’ il ricoverato di cui si dice, con soddisfazione, che si è ben
adattato all’ambiente, che collabora con l’infermiere e con il medico, che si comporta bene con gli
altri e non crea complicazioni né opposizioni”. E’ qui evidente quanto il dominio dell’ordine e
dell’efficienza organizzativa all’interno degli istituti psichiatrici sia correlato alla capacità degli
istituti stessi di costituire il sé degli internati. Non è possibile disgiungere le due finalità, in quanto
hanno una radice politica e sociale comune: proteggere la società dalla follia e, al contempo,
celebrare la santificazione della norma quale unico orizzonte possibile.
1 In Enciclopedia Einaudi, vol. VI, Torino 1979. In collaborazione con Franca Onagro Basaglia. Anche in Scritti, vol. II.
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L’individuo viene pertanto destrutturato e rimodellato sulla base delle esigenze dell’istituzione.
Il malato è consapevole del fatto che opporsi a questa violenza equivale a dar prova della propria
malattia, così come rinunciare al "diritto di voce” comporta l’annientamento della stessa idea di
se. Questo concetto è reso magistralmente da Basaglia nel saggio Il problema dell’incidente1,
dove dimostra come qualsiasi atto compiuto dal malato venga sottratto alla consapevole
soggettività di quest’ultimo e imputato alla malattia; segnatamente quando si tratta dei cosiddetti
“incidenti”, ovvero atti che sfuggono al controllo dell’istituzione minandone così l’efficienza e
l’immagine. Anzi, quando questi incidenti hanno luogo, l’istituzione è pronta a trasferire ogni
responsabilità al malato e alla malattia, rifiutando quindi ogni coinvolgimento. Evidentemente ci
troviamo dinanzi ad un paradosso, poiché il ricoverato giudicato “incomprensibile”, che si è
trovato sistematicamente spogliato di ogni responsabilità, viene riconosciuto come unico
responsabile di un atto intollerabile per l’istituzione.
A questo livello, è necessario richiamare un aspetto che segna indelebilmente la degenza
all’interno degli istituti psichiatrici e anche il periodo successivo. Mi riferisco al cosiddetto
processo di etichettamento che investe appunto i degenti, e non solo. Scrive Basaglia: “A ogni
istituzione corrisponde la propria ideologia di competenza (medica, custodialistica, punitiva,
pedagogica, ecc.) e il proprio contenuto (malati, internati, carcerati, scolari, ecc.), ideologia in cui
tutti gli oggetti istituzionalizzati si trovano ad identificarsi”2. Con il termine “etichettamento”,
intendiamo pertanto l’adesione artificiale e forzata dell’individuo istituzionalizzato all’ideologia
che afferisce una determinata istituzione di riferimento. Ecco quindi che l’ingresso in ospedale
psichiatrico non può che coincidere con la produzione di una verità ideologica, è cioè il fatto della
malattia mentale. Ciò che qui si presenta col termine “etichettamento”, segna dunque un momento
iniziale e finale al contempo della psichiatria istituzionale. Iniziale in quanto al momento
dell’internamento del pre-degente in ospedale psichiatrico si produce un fatto stigmatizzante nella
carriera morale di quest’ultimo. Tuttavia, l’immagine conferita è ancora scarsamente definita; il
degente, nella fase iniziale, ha ancora una densità personale flebile, sia per quanto riguarda la sua
esperienza passata – che ormai viene letta esclusivamente in funzione dell’”incomprensibilità”
attuale – che della sua carriera futura. Il passaggio finale del processo di ”etichettamento
psichiatrico”, è invece determinato dalla sostanziale pervasività del processo di
istituzionalizzazione cui è sottomesso il paziente. L’ospedale psichiatrico è infatti raffigurabile
come un enorme involucro riempito di corpi che non possono viversi e che attendono che
qualcuno li faccia vivere a suo modo: nella schizofrenia, nella psicosi maniaco depressiva,
nell’isterismo. Si tratta, afferma Basaglia in Corpo e Istituzione, di un processo di “cosificazione”
1 F. Basaglia, Il problema dell’incidente, in collaborazione con Franca Ongaro Basaglia, Appendice alla 2^ ed. de L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968. Anche in Scritti, vol. I.2 Prefazione a “Il comportamento in pubblico”, di E. Goffman, Torino, Einaudi, 1971. In collaborazione con Franca Ongaro Basaglia.
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dell’uomo, in cui “il malato è l’ultimo gradino di una gerarchia fondata sui valori stabiliti una
volta per tutte dal più forte”.
Quando Basaglia, richiamando un passaggio della celebre opera Se questo è un uomo di Primo
Levi1, azzarda un emblematico parallelismo tra il volto del malato mentale rinchiuso nell’asilo e
quello dell’escluso nei campi nazisti, si ha come la sensazione di avvertire, in modo profondo e
convincente, qualcosa più di una semplice analogia. Non è certo questa la sede per avanzare una
specifica comparazione tra gli ospedali psichiatrici e i lager nazisti, tuttavia, credo sia opportuno
rilevare due macroquestioni che sottendono entrambe queste istituzioni, innervandone logiche
distruttive. La prima è data dalla presenza di un comune apparato ideologico che individua la
propria ragion d’essere nella legittimazione scientifica di una viscerale discriminazione, odiosa
nella sua essenza e genesi politica quanto devastante nelle sue conseguenze – ovvero la superiorità
della “razza ariana” così come l’inferiorità del “malato di mente”. La seconda, è data, come
afferma lo stesso Basaglia, dalla "netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha, la violenza
fredda di chi esercita il potere su chi ne è escluso”. E’ questo elemento d’unione, oserei dire
identitario, delle istituzioni totali, a rendere possibile la sovrapposizione di queste due figure,
poiché “posto in uno spazio coatto dove mortificazione, umiliazioni, arbitrarietà, sono la regola,
l’uomo, qualunque sia il suo stato mentale, si oggettivizza gradualmente nelle leggi
dell’internamento, identificandovisi”.
In queste poche righe, Basaglia ci consegna uno spaccato del potere osservato dal polo opposto,
ovvero un’analisi a misura d’uomo delle conseguenze della mera esistenza delle relazioni di
potere e delle “differenze di potenziale” che quest’ultime sottendono. Illuminante è inoltre la
capacità dimostrata da Basaglia nell’affrancarsi dal ruolo di psichiatra – ovvero di amministratore
del potere – mettendo in gioco la propria persona al fine d’inverare un processo di
immedesimazione nella vita del malato stesso. Tuttavia, Basaglia è attento a non correre il rischio
di cadere in una sorta di “alienazione soggettivista” e, riprendendo il pensiero di Minkowski,
afferma di “voler cercare “dietro” l’esperienza soggettiva un punto centrale, l’esse che possa
costruire l’oggetto di una descrizione. Ciascun fenomeno fondamentale e costitutivo della vita
possiede un indice spaziale-temporale indissolubilmente unito nella sua concezione di tempo-
spazio vissuti: ogni atto umano possiede di conseguenza un aspetto temporo-spaziale circa il
passato, il presente ed il futuro”2. Il punto centrale, l’esse di cui parla Minkowski, è individuato da
Basaglia nel dominio assoluto dell’efficienza istituzionale, quale elemento finalizzato a garantire
la sicurezza della società nei confronti del malato stesso.
1 In Un problema di psichiatria istituzionale (1966), Scritti, vol. I, Einaudi, Torino, 1981. 2 F. Basaglia, Il mondo dell’”incomprensibile schizofrenico”, Scritti vol. I, p. 5. Si tratta di un saggio giovanile, scritto da Basaglia nell’anno successivo alla specializzazione in neuropsichiatria. In quest’opera sono già evidenti le linee di pensiero che Basaglia svilupperà nell’arco della vita, segnatamente per quanto riguarda il metodo dell’”analisi esistenziale” (Daseinsanalyse) fondato dal L. Binswanger ed E. Minkowski
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Il tempo e lo spazio vissuti all’interno dell’ospedale psichiatrico, generano quindi nei degenti –
cioè in coloro che per una certa fase della propria vita non conoscono altro tempo e spazio
all’infuori di quello istituzionale – un processo di regressione e rimpicciolimento dell’Io che, pur
assumendo un’immagine simile a quella della malattia mentale, individua nella presenza e nel
funzionamento dell’istituzione totale la ragione della propria genesi. E’ quest’aspetto “temporo-
spaziale” di ciascun atto umano che Basaglia vuole indagare, storicizzare e, in un certo qual
modo, de-naturalizzare. Infatti, l’immagine che gli ospedali psichiatrici restituiscono della follia, è
in larga parte costruita e mediata dalle esigenze di ordine, efficienza e funzionalità dell’istituzione
stessa.
Nel saggio La Comunità terapeutica e le istituzioni psichiatriche1 Basaglia scrive: “Parsons
definisce le istituzioni come un complesso di integrate di ruolo istituzionalizzate che abbiano un
significato strutturale strategico nel sistema sociale in questione”. E’ a fronte di questo significato
strutturale strategico che viene piegata, modellata e conformata la condizione esistenziale del
malato di mente. Il necessario governo della sua autonomia, manifestata tramite il rifiuto di
un’opprimente oggettualità che si erge “dietro” l’esperienza soggettiva, rende necessario istituire
il “doppio binario”, il regime separato di cui le mura dell’ospedale psichiatrico sono l’immagine
più significativa. Ecco quindi che l’ospedale psichiatrico assume i tratti d’una dimensione
parallela rispetto alla società esterna, in cui il processo di istituzionalizzazione del folle – vale a
dire la sua esclusione prima e la cristallizzazione in un sé destrutturato e artefatto poi – ricopre un
ruolo cruciale nel sostenere il discorso pubblico relativo alla legittimazione stessa di questa
duplice dimensione.
Analizzeremo nel prossimo capitolo la funzionalità di questa “dimensione parallela” rispetto al
contesto politico, economico e sociale circostante. Nel prossimo punto, invece, prenderemo in
considerazione le riflessioni di Basaglia sulla Comunità Terapeutica, al fine di evidenziare meglio
le linee di frattura presenti negli ospedali psichiatrici per quanto concerne l’annientamento dell’Io.
Infatti, come vedremo, i principi che stanno alla base della comunità terapeutica si propongono di
sanare quelle stesse fratture.
3. La Comunità terapeutica
Scrive Bonnafè nel 1952: “Questa lotta contro il “mito” da cui si sviluppa la follia non sarà vinta
da speculazioni teoriche ma da realizzazioni concrete…Solo una nuova impostazione pratica ci
mostrerà l’orientamento verso cui può andare la trasformazione dell’assistenza psichiatrica, della
condizione del malato mentale nella società e quali forme prenderà”2. Con un titolo emblematico 1 F. Basaglia, La Comunità terapeutica e le istituzioni psichiatriche, Relazione al Convegno “La società e le malattie mentali”, Roma 1968. In Atti del Convegno. 2 F. Basaglia, La libertà comunitaria come alternativa alla regressione istituzionale, Scritti vol. I, p. 409.
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– La miseria della psichiatria – un numero speciale dell’”Esprit” fu dedicato alla ricerca di un
nuovo modo di avvicinare il malato mentale.
Sono trascorsi dieci anni da allora quando Basaglia inizia la coraggiosa esperienza della
Comunità Terapeutica presso l’ospedale psichiatrico di Gorizia. Non si tratta, come lo stesso
Basaglia sottolinea in più occasioni, di una pratica unica nel suo genere; già nel 1839 il dottor
Conolly, un coraggioso psichiatra inglese, apriva le porte ed eliminava le contenzioni fisiche in un
ospedale psichiatrico in cui erano internati cinquecento malati1. Poco più di un secolo dopo,
Maxwell Jones, sempre in Inghilterra, definisce “Comunità Terapeutica” un’esperienza che traeva
ispirazione dall’originale approccio al malato e all’istituzione che Conolly aveva impostato
soltanto intuitivamente. Fu indubbiamente il clima democratico e riformista in senso sociale del
secondo dopoguerra britannico, a rendere possibile la nascita della Comunità Terapeutica e il suo
sostegno in ambito politico. In particolare, due furono le tappe principali che caratterizzarono
questo percorso sul piano politico-legislativo: il National Health Service istituito nel 1948 2 e il
Mental Health Act che aveva rivisitato il regime delle ammissioni in ospedale psichiatrico e creato
un sistema di psichiatria territoriale.
L’Italia, ancora agli inizi degli anni Sessanta, restituiva invece un’immagine scettica, pigra,
incapace al dialogo con esperienze innovative e critiche sperimentate in altri paesi nel settore
psichiatrico. Le scienze umane si presentano pervase da un positivismo acritico che individua
nella cultura psichiatrica ufficiale una roccaforte conservatrice. La psicanalisi, in un contesto
culturale chiuso ed ingessato, si ritira in posizioni di privilegio assolutamente marginali per poter
solo scalfire la solida struttura psichiatrica, accademica e non. A tutto questo, bisogna aggiungere
un’endemica arretratezza nell’organizzazione dei servizi pubblici; condizione che certo non
incentiva la nascita di esperienze critiche sul territorio.
La motivazione addotta da Basaglia a giustificazione di questa profonda arretratezza, passa
attraverso una lettura in chiave eminentemente socio-economica del fenomeno. Scrive Basaglia:
“il nostro sistema sociale non può essere interessato alla riabilitazione del malato mentale che non
potrebbe essere recepito da una società, dove non è risolto il problema del lavoro dei suoi membri
sani”3. Il punto centrale è qui rappresentato dalla capacità o meno del tessuto sociale e produttivo
di assorbire il lavoro vivo racchiuso nelle braccia dei folli. Si tratta quindi di comprendere se vi
siano o meno le condizioni economiche tali per cui possa essere messo a valore il lavoro degli
“asociali”. Già Foucault, in Storia della follia, aveva sapidamente illustrato come gli istituti di
internamento, sorti nel corso del XVII secolo in Europa occidentale, fossero utili a più livelli tra
cui un’azione regolante nei confronti del costo della manodopera in relazione alle esigenze
1 Nell’opera Che cos’è la psichiatria? (1967), A. Pirella e D. Casagrande dedicano un saggio alla storia di Conolly, intitolato: John Conolly, dalla filantropia alla psichiatria sociale.2 Per la prima volta in un paese capitalista il sistema sanitario fonda il proprio servizio sul mero valore d’uso e non di scambio, riconoscendone il ruolo dirimente in termini di democrazia sostanziale. 3 F. Basaglia, La libertà comunitaria come alternativa alla regressione istituzionale, in Che cos’è la psichiatria (1967), Milano, Baldini e Castoldi, 1997.
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economiche e sociali. Analizzeremo meglio nel prossimo capitolo questa dimensione
segnatamente socioeconomica della psichiatria; tuttavia, per quanto concerne la questione della
Comunità Terapeutica, è importante sottolineare la rilevanza dei luoghi e delle forme d’incontro
tra “interno” ed “esterno”. Potremmo dire che in Basaglia la Comunità Terapeutica è una sorta di
strumento privilegiato nella costante ricerca di questo dialogo - carico di contraddizioni - tra
ospedale psichiatrico e società.
Questo concetto viene corroborato nel saggio La Comunità Terapeutica come base di un
servizio psichiatrico1, dove Basaglia sostiene la necessità di legare ogni forma di lotta contro
l’istituzionalizzazione dell’ambiente esterno alla lotta contro l’istituzionalizzazione dell’intero
corpo ospedaliero. Afferma Basaglia: “Se per istituzionalizzazione si intende il processo di
rimpicciolimento di sé in particolari circostanze frustranti, tale termine sembra adattarsi anche al
caso di una società che si sia oramai adeguata ed identificata con le regole che, al di là di ogni
possibile intervento individuale, la convogliano in un ritmo di vita anonimo, impersonale,
conformista”. Pertanto, ci si trova dinanzi ad una battaglia che solo in apparenza appare duplice –
verso l’interno e l’esterno dell’istituzione – ma che, in realtà, riflette un unico scopo poiché ha
come avversario il sistema che prima esclude e poi cristallizza in forme istituzionalizzate le
soggettività incompatibili con la contingenza della norma.
L’unificazione dei luoghi e delle esperienze critiche di lotta anitiistituzionale, è pertanto
individuato da Basaglia – già alla metà degli anni Sessanta – quale elemento irrinunciabile della
riappropriazione politica del reale, a partire dalle sue contraddizioni e, precipuamente, dalla
segregazione del folle nelle società occidentali. Basaglia coglie con largo anticipo la rilevanza
politica di questo percorso, capace di intercettare la presenza della classe operaia più forte e più
organizzata d’Europa e, conseguentemente, con radicate tradizioni di lotta, conflitti e conquiste
sociali.
Il parallelismo avanzato da Basaglia tra istituzionalizzazione “interna” ed “esterna”, deve
pertanto essere letto in continuità ad una matrice politica e culturale comune, che individua nelle
regole del sistema di riferimento – qualsiasi esso sia – i confini forzati della soggettivazione
dell’individuo. Evidentemente, quando tali confini si restringono a tal punto da inibire qualsiasi
autonomia individuale nella costituzione del sé, ci troviamo dinanzi ad una oggettivazione
dell’uomo. Per dirla con Goffman, se i solidi edifici del mondo si presentano privi di incrinature
non vi è possibilità alcuna per l’Io di riconoscere il sé. Ciò significa che vedere realizzata una
sostanziale continuità tra la percezione delle proprie aspirazioni e della propria volontà da un lato,
e il conseguente manifestarsi della propria esistenza reale dall’altro - senza incappare nelle
costrizioni totalizzanti del potere disciplinare - risulta pressoché impossibile.
1 Relazione al Convegno sulle “Realizzazioni e prospettive in tema di organizzazione unitaria dei servizi psichiatrici”, Varese, 1965. In “Atti del Convegno”; anche in F. Basaglia, Scritti vol. I.
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Pertanto, uno dei tratti che qualificano maggiormente la Comunità Terapeutica, è il fatto che
“ogni movimento dei componenti la Comunità è teso a formulare un clima il cui scopo primo sia
la ricostruzione dell’iniziativa personale, della spontaneità e della capacità creativa compromesse,
in un primo tempo, dalla malattia e, successivamente, distrutte dall’istituto”. Ogni singolo atto
compiuto assume così un significato attivo, la cui portata terapeutica è data dall’autonomia di cui
si dispone, la quale implica una responsabilizzazione verso sé e gli altri. Il processo di costante
de-responsabilizzazione dell’individuo ”incomprensibile”, tratto tipico degli ospedali psichiatrici,
viene così spazzato via e sostituito da una messa a valore dell’individuo – a prescindere dalla
malattia – che comincia con il riconoscimento della sua influenza sull’altro e l’ambiente
circostante. La Comunità Terapeutica deve pertanto ripristinare una condizione di integrità
individuale violentata dall’istituzione; si tratta di un’operazione fondamentale per procedere ad un
recupero della soggettività degli internati che, almeno in una prima fase, coincide con il processo
di de-istituzionalizzazione. Appare dunque evidente la duplice dimensione della Comunità
Terapeutica; da un lato si ha l’inserimento dell’individuo in nuove forme di relazione sociale –
plasmate dalla tensione verso una sostanziale parità di status tra le persone – dall’altro lato queste
dinamiche, nel loro stesso divenire, rappresentano già la negazione dell’istituzione psichiatrica.
L’immagine che ci viene restituita è quindi significativa nel riflettere l’identità dell’istituzione,
poiché tramite il recupero di una condizione di umanità violata si approda – in modo inevitabile,
quasi si fosse trasportati – ad una radicale messa in discussione dell’ospedale psichiatrico, fino al
suo rovesciamento. In sostanza, riemerge puntualmente l’incompatibilità delle istituzioni
psichiatriche con il rispetto dei diritti umani stessi, a meno che non si voglia legittimare uno “stato
d’eccezione permanente” che esclude dall’umanità – e quindi dal riconoscimento universale dei
diritti umani – soggettività e comportamenti, in ultima istanza uomini e donne ritenuti indegni di
appartenervi.
In “La comunità terapeutica”, Basaglia parla di un processo di istituzionalizzazione interna che
coinvolge le tre figure principali componenti un ospedale psichiatrico: medici, infermieri e
malati. Si tratta, com’è inevitabile, di differenti livelli di istituzionalizzazione che, tuttavia,
trovano un terreno comune nella completa cristallizzazione dei ruoli cui ciascuno è sottomesso.
Possiamo leggere in questa particolare forma di costrizione un attacco diretto al cuore stesso della
socialità. Infatti, se prendiamo in considerazione il punto di vista “drammaturgico”, secondo il
quale la vita sociale può essere intesa nei termini della rappresentazione teatrale, risulta evidente il
ruolo decisivo giocato dalla cristallizzazione dei ruoli all’interno di uno spazio sociale. Scrive
Shakespeare: “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi
hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona nella vita rappresenta diverse parti”.
Goffman, nell’opera La vita quotidiana come rappresentazione (1959), evidenzia come il nostro
agire insieme con gli altri non sia solo strumentale, ma anche condizionato da come si vuole
apparire agli occhi degli altri, poiché ritiene, a ragione, che questo elemento giochi un ruolo
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determinante nella percezione di sé. Goffman, inoltre, muove dal presupposto che “quando un
individuo è in presenza di altri abbia molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che
essi ricevono dalla situazione”. Arriva dunque a definire la “rappresentazione” come “tutta
quell’attività di un individuo che si svolge durante un periodo caratterizzato da una sua continua
presenza dinanzi ad un particolare gruppo di osservatori e tale da avere una certa influenza su di
essi”. Nulla di tutto ciò è possibile realizzare all’interno di un ospedale psichiatrico – e più in
generale di una qualsiasi istituzione totale – e di questo è ben consapevole Basaglia che, nel
pensare la Comunità Terapeutica, muove passi decisivi affinché l’architettura stessa dell’ospedale
“tenga conto della necessità del mantenimento del mondo privato di ognuno, anche in opposizione
alla comunità stessa”.1 Di questo mondo privato, è parte rilevante la possibilità del singolo
individuo di rappresentarsi in modo rispondente al rafforzamento dell’immagine di sé che
desidera restituire all’esterno. La consapevolezza di non poter minimamente dominare questo
fondamentale corredo dell’identità, qual è appunto la “rappresentazione”, conduce Basaglia a
caricare di significati, anche terapeutici, la libertà dell’individuo nell’istituzione; libertà che
diventa il vero e proprio motore della critica e della negazione dell’istituzione stessa.
Tuttavia, per opporsi in modo così radicale al manicomio, chiunque deve poter disporre di
un’effettiva libertà, vale a dire una libertà non ideologica la cui funzione non sia orientata alla
ricerca del mero consenso politico. Se libertà deve essere, secondo Basaglia, allora deve potersi
dare in ogni modo, deve essere libertà di fingere senza essere giudicati “malati di mente”, libertà
di contestare la stessa istituzione in cui si è internati senza ricevere per questo punizioni. La
libertà, inoltre, perché sia elemento sostanziale, deve essere affiancata all’uguaglianza, in quanto
non può esservi libertà tra diseguali. Questo significa, calandosi all’interno della realtà
manicomiale, rimettere radicalmente in discussione i rapporti interni, le posizioni di potere che
infermieri e medici hanno acquisito nel corso dei decenni. E’ questo il passaggio giudicato come
maggiormente critico dallo stesso Basaglia, poiché si tratta di sovvertire, tramite un’azione
sostanzialmente interna all’ospedale psichiatrico, rapporti di potere che traggono giustificazione
dall’organizzazione della società esterna e della sua divisione del lavoro. Non si deve dimenticare
infatti che Basaglia individua nella figura degli psichiatri i rappresentanti della società - vale a
dire della classe dominante - nel contesto istituzionale.
Tuttavia, questa ridefinizione dei ruoli all’interno dell’ospedale, e segnatamente degli status,
non deve essere letta, ci ricorda Basaglia, in sterile contrapposizione alla figura dello psichiatra in
quanto tale. L’emancipazione degli internati non passa attraverso la sconfitta degli psichiatri,
bensì tramite una liberazione collettiva di internati e staff dall’oppressione istituzionale. Infatti,
nello svolgere il ruolo di carceriere cui la società ha appaltato l’uso della violenza, lo psichiatra
1 F. Basaglia, La libertà comunitaria come alternativa alla regressione istituzionale (1965), in Scritti vol. I, p. 399.
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non oggettivizza soltanto il malato ma anche se stesso, calandosi in un ruolo che altri hanno
stabilito per lui a tutela di interessi ed equilibri che sfuggono alla sua stessa percezione.
Il manicomio, in quanto istituzione totale, avvolge tutto e tutti, con un’azione densa e penetrante
a tal punto da non lasciare margini di liberazione individuale. Il messaggio che Basaglia grida
dall’interno dell’istituzione psichiatrica, è che non vi può essere salvezza per nessuno nei luoghi
deputati all’esclusione, alla violenza e alla consunzione psicologica dell’uomo. Il suo è un appello
rivolto innanzitutto ai propri colleghi, affinché prendano coscienza del proprio livello di
oggettivazione e di mero asservimento alla difesa dello status quo. Per questo motivo, la
funzionalità dell’istituzione al sistema sociale di riferimento non implica che gli psichiatri
debbano necessariamente individuare una corrispondenza tra i valori di quest’ultimo e il proprio
ruolo. In altre parole, la funzionalità dell’ospedale psichiatrico nel tutelare il dominio delle classi
dominanti, non determina condizioni materiali tali per cui sia giustificata come ineluttabile una
sussunzione dei “tecnici” - in questo caso gli psichiatri - a quella causa. Poiché - per dirla con
Engels – “il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la
riproduzione della vita reale”. Ciò significa che vi sono molteplici possibilità di liberazione
individuale e collettiva, come la vita di Basaglia e più in generale il movimento antipsichiatrico e
antiistituzionale hanno dimostrato con anni di lotte cariche di tensione umana, politica e sociale.
Altrimenti, si correrebbe il rischio di effettuare un’analisi pericolosamente simile a quella
psichiatrica, in cui il determinismo – qualsiasi esso sia – stronca ogni possibilità di confronto
dialettico e superamento delle contraddizioni.
L’ospedale psichiatrico ci viene così presentato come un’eterna istantanea, un luogo in cui lo
scorrere del tempo è disgiunto da qualsivoglia processo reale di cambiamento dello “stato di cose
presenti”. Ecco l’origine della sensazione di inutilità, la consapevolezza di vivere una sorta di
“tempo morto” che attanaglia e distrugge gli internati e finanche i membri dello staff. A fronte di
questo immobilismo, Basaglia si interroga sulle azioni da intraprendere affinché sia possibile
provocare una rottura, una de-cristallizzazione dei ruoli quale presupposto per trasformare
l’ospedale psichiatrico in un mosaico fluido, in cui le dinamiche di tensione e controtensione tra i
componenti l’istituzione rappresentino il fattore di cambiamento.
Il punto maggiormente sensibile su cui far leva, è la riconquista dell’aggressività personale da
parte del malato quale testimonianza di una forza esistenziale ancora non completamente
annichilita, su cui potere edificare un rapporto di vera “tensione reciproca che potrebbe rompere i
legami di autorità e di paternalismo, causa prima del processo istituzionalizzante”. Questo
percorso non può procedere per gradi; posti di fronte all’uomo ridotto ad uno status al di là di
quello umano, o si restituisce immediatamente la condizione di umanità sottratta violentemente al
malato o s’inseriscono, a differenti livelli, ulteriori elementi d’inferiorizzazione degli internati. E’
questo un processo che se da un lato non può essere oggetto di compromessi, dall’altro necessita
di condizioni tali per cui la libertà non venga semplicemente concessa dall’istituzione al malato,
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bensì conquistata da quest’ultimo a partire dalla lotta per un rinnovato diritto alla parità di status
cui ciascun uomo, in quanto tale, deve tendere. Pertanto, l’aggressività inesplosa del malato trova
nella Comunità Terapeutica condizioni favorevoli affinché - a fronte di una riscoperta delle
contraddizioni reali che l’ospedale psichiatrico tradizionale aveva costantemente negato - gli sia
consentito di costituirsi in soggettività critica.
Potremmo affermare che intorno alla metà degli anni Sessanta – vale a dire ad alcuni anni
dall’inizio dell’opera di rinnovamento dell’ospedale psichiatrico di Gorizia – Basaglia intravede
nella Comunità Terapeutica una sorta di interfaccia tra l’ospedale psichiatrico e la società; è come
se il profilo stesso della Comunità Terapeutica consentisse lo sviluppo d’una comparazione
identificativa tra ospedali psichiatrici e società fondate sull’accumulazione capitalistica. Si tratta
infatti di una comparazione che assumerebbe contorni difficilmente leggibili qualora non venisse
mediata da uno strumento d’azione ed analisi al contempo – la Comunità Terapeutica appunto –
capace di distogliere il discorso pubblico dalla mera contrapposizione tra il manicomio quale
luogo della sragione e della malattia e la società quale sede della ragione e della salute. Ovvero, se
è difficile trasmettere la continuità tra la relazione asimmetrica ed oppressiva che caratterizza il
rapporto psichiatra/paziente e, per utilizzare le parole del sociologo ed economista inglese T. H.
Marshall, il “dovere di accettare psicologicamente il proprio lavoro e di lavorare duramente” 1 in
un’epoca in cui “abbiamo finito per attenderci che tutti i cittadini siano dei lavoratori”2, è certo più
immediato registrare il consenso e l’attenzione pubblica attorno alle dinamiche che investono il
concetto di libertà.
Nessuno può negare la realtà oppressiva degli ospedali psichiatrici e gli effetti devastanti che
questi hanno sul singolo individuo – vi è una letteratura oramai rilevante su questo tema almeno
per quanto concerne il modello correzionario-autoritario dei “vecchi” manicomi . Tuttavia, il salto
di qualità, sia sul piano politico che dell’analisi accademica, consiste – come Basaglia nota già
alla metà degli anni Sessanta – nel cogliere l’immagine della società riflessa nell’ospedale
psichiatrico e viceversa. Punto d’incontro di questa comparazione è la negazione della dimensione
sostanziale della libertà tanto all’interno del manicomio che all’esterno, seppur in forme
certamente differenti. Abbiamo già richiamato la critica basagliana al ritmo di vita “anonimo,
impersonale, conformista” che caratterizza la contemporaneità delle società occidentali; si tratta di
tre aggettivi che delineano i contorni di una figura esistenziale debole, costantemente in balia
degli eventi e pertanto priva di una “densità personale”. Credo che la ragione di questa alienazione
– da sé e dal mondo – debba essere ricercata tra le sfumature di una libertà “tradita” nel momento
stesso in cui si è negato il valore politico dell’uguaglianza sostanziale tra gli uomini.
L. Le Guillant e L. Bonnafè, nel già richiamato numero speciale dell’”Esprit” dedicato al tema
La miseria della psichiatria, evidenziano con decisione come “la condizione dei malati
1 T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Bari, Laterza, 2002, p.83.2 T. H. Marshall, Lavoro e ricchezza, (1945).
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nell’ospedale psichiatrico non sembra sia effetto di qualche “maledizione”…Se questi malati sono
più duramente trattati degli altri…è perché si tratta di malati senza difesa, senza voce e senza
diritti”. E’ l’assenza di questo “potere di voce” – conseguenza di un’esclusione economica,
politica e sociale – a segnare vistosamente la questione sociale della psichiatria, ed è questa
consapevolezza a rafforzare sempre più in Basaglia l’idea che l’unica via capace di restituire
dignità umana agli internati è la distruzione dell’ospedale psichiatrico. Come vedremo, dobbiamo
pertanto leggere nella Comunità Terapeutica la forma storicamente determinata della critica
psichiatrica, non certo un modello universalmente valido.
Scrive Voltaire nel Dizionario Filosofico: “la vostra libertà non è libera, ma le vostre azioni lo
sono. Voi siete libero di fare quando avete il potere di fare”1. Senza forzature di pensiero, ritengo
che in queste parole possa essere individuato l’intento principale di Basaglia nella costruzione
della Comunità Terapeutica – “comunità di uomini liberi” - presso l’ospedale psichiatrico di
Gorizia. La Comunità deve pertanto rappresentare un’opportunità di emancipazione e riscatto
costantemente individuata nell’interazione paritaria tra tutti i membri che la compongono. E’
questa interazione a riflettere le contraddizioni del presente e segnatamente la funzionalità
dell’ideologia psichiatrica nella salvaguardia di quest’ultimo. L’immagine della porta aperta, degli
abiti personali in luogo delle divise manicomiali, la possibilità di muoversi liberamente, così come
il riconoscimento della dignità di ciascuno a partire dalle dinamiche relazionali, racchiudono una
potenzialità di critica e di negazione certamente superiore alla condizione preesistente.
Riassaporare la sensazione di varcare una porta senza essere tormentati dal freddo rumore dei
chiavistelli, incontrare un visitatore esterno nel cortile dell’ospedale e avere la certezza di non
essere riconosciuti come “folli”, sono esempi, parziali e universali al contempo, capaci di
restituire al singolo internato la consapevolezza di un’umanità violentemente sottratta e che, allo
stesso modo, deve essere riconquistata.
Luogo simbolo di questo clima, è la riunione di comunità che si attua ogni mattina nell’ospedale
e che rappresenta “il banco di prova dove ogni componente la comunità si espone di fronte
all’altro”. Tale riunione di comunità è anche la miglior immagine nel rappresentare, in primis agli
occhi dei componenti l’istituzione, le nuove modalità di interazione all’interno dell’ospedale. Non
siamo più di fronte alla piramide gerarchica ed autoritaria che quotidianamente scandisce lo
scorrere dei minuti, bensì ad un’organizzazione che tende ad essere orizzontale, “in cui ogni
componente è indispensabile all’andamento della comunità e deve poter, a sua volta, contare sulla
sicura collaborazione di tutti”.
Il significato principale delle riunioni che avvengono nella comunità, e segnatamente di quella
generale, è quindi creare le condizioni affinché i componenti la comunità – medici, infermieri,
ricoverati, inservienti, ecc. – possano ritrovarsi e confrontarsi. Basaglia sottolinea costantemente
come queste riunioni non abbiamo alcun fine psicoterapeutico di per sé, ovvero non vengono
1 Voltaire, Dizionario filosofico, Torino, Einaudi, 1977, p. 286.
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strutturate su una base psicodinamica nello sviluppo e nell’interpretazione. Nell’intervista di Nino
Vascon a Franco Basaglia, inserita nell’Introduzione documentaria de L’istituzione negata1,
quest’ultimo afferma che “le riunioni hanno valore e peso solo nella misura in cui la presenza di
una persona è espressione di una decisione…Importante è che a queste situazioni di spontaneità di
scelta partecipino tutti i componenti la comunità, medici, infermieri, malati; senza, naturalmente,
pretendere di creare una realtà artificiosa che non tenga conto della situazione, del ruolo sociale,
dello status del malato”. In questo passaggio si evidenzia, con grande chiarezza, la funzione della
Comunità Terapeutica, vale a dire portare alla luce le contraddizioni insite nell’esistenza stessa
dell’istituzione. Il malato è un uomo escluso e senza diritti, scopo della Comunità Terapeutica –
espressione concreta di una realtà istituzionale in rovesciamento – è discutere con lui il suo essere
senza diritti e la sua esclusione. Ecco quindi che il fine della Comunità Terapeutica è indagare in
modo critico e non ideologico la realtà, ponendo le condizioni tali per cui gli esclusi possano
accedere alla coscienza del proprio status, alle determinanti politiche e sociali di quest’ultimo per
poi opporvisi.
Basaglia, nel saggio La Comunità Terapeutica e le istituzioni psichiatriche2, prende in esame il
rischio più pressante insito in ogni processo di negazione di una situazione data, ovvero assistere
al soffocamento di quella stessa libertà che è stata artefice della negazione. Sartre scriveva che “le
ideologie sono libertà mentre le si fanno, oppressione quando sono fatte”. In questo caso, sostiene
Basaglia, “anche la Comunità Terapeutica potrebbe rischiare di tradursi in una nuova ideologia,
qualora si tramuti in un valore assoluto che non ha più bisogno di verifiche sulla realtà”. Viene
posta una riflessione dirimente che investe il significato stesso dell’esistenza della psichiatria
alternativa, segnatamente antiistituzionale, e dei movimenti politici che la circondano. Ovvero, se
la negazione dell’istituzione finisce per intaccare le strutture su cui il sistema politico e sociale si
fonda, è evidente che si giunge ad un punto dove o si continua a percorrere un terreno segnato da
negazione, sintesi e successive ed inevitabili contraddizioni, oppure, “si tramuta la negazione in
un’affermazione riformistica assorbendo nella sua dinamica tutto ciò che di eversivo vi può
nascere”.
In questo scritto del 1968 è evidente il tono critico adottato da Basaglia nei confronti di quella
che oramai definisce essere “l’ideologia della Comunità Terapeutica”. Infatti, con straordinaria
lucidità, Basaglia puntualizza che “il manicomio come istituzione in cui occultare e negare la
malattia mentale, cambierà velocemente faccia, perché la sua violenza è stata smascherata e
dimostrata disumana, oltre che inutile: i malati mentali disturbano meno in una Comunità
Terapeutica che in un manicomio tradizionale”. Queste righe trasudano delusione, rabbia, ma
anche una straordinaria volontà di lottare e superare ogni nuova contraddizione, poiché potremmo
1 F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata.2 Relazione al Convegno “La società e le malattie mentali”, Roma, 1968. In Atti del Convegno. Anche in Scritti vol. II.
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dire, parafrasando una famosa espressione, che in Basaglia “il fine è nulla, il movimento è tutto”.
Basaglia avverte pressantemente il rischio di un’involuzione del processo di negazione
istituzionale, che anziché demistificare l’ideologia del manicomio volta a celare la realtà
custodialistico-carceraria-difensiva di quest’ultimo, viene a trasformarsi in una nuova ideologia
sotto la quale negare le contraddizioni del sistema sociale. Ciò che Basaglia inserisce all’ordine
del giorno è pertanto la possibilità di una sconfitta tutta politica del movimento antiistituzionale.
Oramai è matura in Basaglia la convinzione che non vi possa essere alcuna azione terapeutica
capace di recuperare persone eliminate come eccedenze in una società che non è in grado di
risolvere il problema del pieno impiego. Come vedremo nel prossimo capitolo, fino a che vi
saranno meccanismi economici, politici e culturali, orientati ad individuare “uomini di troppo”,
chi si occupa di psichiatria alternativa o sceglie di avallare quel sistema o di distruggerlo, a partire
dall’incessante negazione della realtà asilare.
Nella prefazione a Ideologia e pratica della psichiatria sociale1, Basaglia è ormai in grado di
mettere a sistema la critica della Comunità Terapeutica, e lo fa intrecciando quest’ultima al
contesto politico e sociale di riferimento. Significativo è l’anno in cui esce questa prefazione
critica, scritta in collaborazione con Franca Ongaro Basaglia. Siamo nel 1970, è trascorso più di
un anno dalle dimissioni di Basaglia dalla carica di direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia,
maturate a seguito di fori dissidi sorti con l’Amministrazione provinciale in merito alla gestione
dell’ospedale stesso. Basaglia riconosce immediatamente il fondamentale contributo innovativo
apportato dalla psichiatria sociale, specie nel nostro paese dove la concezione positivista della
malattia mentale aveva sempre dominato; in particolare, nota come attraverso l’orientamento
sociale della psichiatria sia possibile rimettere in discussione l’assunto che vorrebbe il medico
quale unico depositario della salute, per poi evidenziare come nella realtà si determini una
gestione eminentemente collettiva di quest’ultima. Tuttavia, questo non significa, precisa
Basaglia, accettare la dimensione irriducibile assunta dal sociale nel pensiero di Maxwell Jones.
Infatti, l’elemento di differenziazione della psichiatria sociale – in primis verso la psichiatria
positivista - non risiede nel rifiuto di ogni determinismo nella classificazione psicopatologica,
bensì nell’individuazione della genesi della malattia mentale e, conseguentemente, nelle azioni
terapeutiche da intraprendere. Si assiste, in sostanza, ad un ampliamento della piattaforma del
potere e del controllo, in un contesto in cui il potere dello psichiatra è relativo soltanto
all’intervento dei cosiddetti operatori sociali.
La critica più graffiante che in queste pagine Basaglia muove a Maxwell Jones, è quella di non
essere riuscito ad identificare il sociale, le cui forze restano di una natura sostanzialmente
sconosciuta, cosicché la norma appare “come un valore dato e non prodotto”. Basaglia rifiuta
pertanto ogni applicazione psicodinamica al sociale e alle sue possibili interazioni, che appare
1 Maxwell Jones, Ideologia e pratica della psichiatria sociale. Prefazione scritta in collaborazione con Franca Ongaro Basaglia. Anche in Scritti vol. II.
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invece essere elemento qualificante del pensiero di Maxwell Jones, al punto tale da convincere
quest’ultimo a prospettare l’applicazione del “modello comunitario” al processo di trasformazione
nel campo educativo, nell’industria e nell’università al fine di risolvere i conflitti psicologici e
addirittura sociali.
E’ a questo punto evidente la differenza tra la Comunità Terapeutica intesa come “scienza
organica” in Maxwell Jones0 e la dimensione politico-organizzativa orientata “alla messa in
discussione del sistema gerarchico, autoritario, custodialistico, tipico delle vecchie organizzazioni
manicomiali” che invece distingue il pensiero di Basaglia. Il punto centrale, che una concezione
ideologica della Comunità Terapeutica implica, è quindi dato dall’impedimento ad andare oltre
l’istituzione - che resta quindi luogo di dominio e discriminazione socio-economica. Non esistono
soluzioni “tecniche”, quali ad esempio la “Psichiatria Comunitaria”, applicabili ad un contesto che
è il prodotto di una struttura socio-economica ben definita; ovvero, non esiste soluzione,
all’infuori di quella politica, capace di risolvere le contraddizioni di quello stesso contesto.
E’ tramite queste argomentazioni che Basaglia apre definitivamente la strada non soltanto ad
una critica eminentemente politica della psichiatria e delle sue istituzioni, ma soprattutto
all’individuazione del terreno politico-sociale quale unico luogo di scontro dialettico e
superamento delle contraddizioni, a cominciare dalla condizione del malato di mente nelle società
occidentali.
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4. L’istituzione negata
Questo primo capitolo non può che chiudersi – per ragioni di ordine cronologico e di sintesi
politica al contempo – con una riflessione circa L’istituzione negata. Pubblicata nel 1968, si
compone di un “insieme di documenti e di appunti” a cui si deve la maturazione d’una
consapevolezza antiistituzionale in ambito psichiatrico - e più in generale in ambito politico -
grazie alla costante critica nei confronti del potere e segnatamente dell’intreccio di quest’ultimo
con il sapere “medico-scientifico” nel dominio di corpi e soggettività.
Si tratta di un’opera dall’impatto eccezionale, ne sono una dimostrazione le otto edizioni, di cui
due solo nel 1968, le sessantamila copie vendute dal 1968 al 1972 e, soprattutto, la straordinaria
capacità di sintesi politica che essa racchiude. La sapienza con la quale i saggi vengono disposti
ed argomentati, il rifiuto che vi possa essere una realtà in grado di racchiudere in sé una critica
compiuta alla psichiatria così come ad ogni sistema politico-sociale, trasportano il lettore in una
dimensione capace di andare oltre il sistema e i vincoli del possibile.
Per queste ragioni L’istituzione negata può essere considerata una straordinaria opera politica,
per la portata di un’analisi immersa nel reale, innervata dalle contraddizioni dell’ospedale
psichiatrico e, al contempo, costantemente orientata alla negazione della realtà, quasi a non volersi
mai identificare con essa. Ne L’istituzione negata le contraddizioni vengono mantenute aperte,
“vive” e la volontà di comprenderle non sfocia mai nella presunzione di risolverle
definitivamente.
E’ questo a fare de L’istituzione negata un’opera brillantemente attuale, insuperata nel suo
ambito poiché permeata di ideali e di valori politici che identificano la loro ragion d’essere
nell’oppressione umana e, per questa via, assumono oggi una cogente attualità. Come ricorda
Basaglia nella presentazione: “il senso del volume vuole essere soltanto l’analisi di una serie di
problemi, che non sono problemi psichiatrici particolari, per dimostrare come un’azione – carica
di tutte le sue contraddizioni – sia possibile all’interno di un’istituzione della violenza, e come
quest’azione ci rimandi alla violenza globale del nostro sistema sociale”. In queste righe è
racchiusa probabilmente la più lucida e preziosa intuizione di Franco Basaglia; il legame
inscindibile tra le istituzioni – segnatamente quelle della violenza – e il sistema sociale di
riferimento, interroga sulle forme e gli obiettivi dell’azione politica. Infatti, Basaglia ci mostra
come a partire da una “realtà istituzionale in rovesciamento” sia possibile “coinvolgere nella
critica i valori che consentono e perpetuano l’esistenza di una tale realtà”, al fine di non agire una
dimensione meramente “tecnica” e “specialistica” che si tramuterebbe in una nuova ideologia.
“La strategia, la finalità di ogni azione e di ogni provvedimento sono l’uomo, i suoi bisogni, la
sua vita, all’interno di una collettività che si trasforma per raggiungere questi bisogni e la
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realizzazione di questa vita per tutti”, scrive Basaglia in Condotte perturbate1 nel 1978. E’ quindi
evidente come con L’istituzione negata si consolidi definitivamente una volontà politica nel senso
più alto del termine, testimoniata dal “coraggio della verità” che Basaglia mette in campo, poiché
la posizione dello psichiatra rende le violenze, le sopraffazioni e i soprusi drammaticamente
vistosi, allora “o si è complici, o si agisce e si distrugge”.
I primi sette anni che Basaglia trascorre all’interno degli ospedali psichiatrici vengono pertanto
condensati ne L’istituzione negata, a livello di esperienze, vissuti e, in particolare, consapevolezza
politica. Se il saggio La distruzione dell’ospedale psichiatrico (1964) può essere paragonato ad
una sorta di manifesto politico, L’istituzione negata è qualcosa di più, è la consapevolezza d’un
vissuto dai tratti inequivocabilmente politici, è un punto di arrivo e partenza al contempo. Infatti,
la consapevolezza della violenza istituzionale e del tratto classista dell’ideologia medico-
scientifica che la sottende, risultano essere elementi indisponibili alla mediazione politica, che
diverranno conquiste dei movimenti studentesco ed operaio soprattutto grazie a L’istituzione
negata. Con un’affermazione forte, potremmo dire che nel pensiero basagliano - di cui
L’istituzione negata è probabilmente l’espressione storico-politica maggiormente efficace – è
possibile individuare elementi assoluti d’identificazione etica capaci di farsi ragione politica. La
peculiarità del movimento antiistituzionale italiano – che si origina essenzialmente dalla pratica
psichiatrica – risiede infatti nel suo carattere apertamente politico, capace di collegare i
meccanismi di formazione della devianza alla struttura generale della società capitalista e, di
conseguenza, tende a mobilitare lotte di massa per una gestione sociale della salute, in un contesto
di valorizzazione delle potenzialità critiche che la presenza del più forte ed organizzato partito
comunista occidentale aveva portato con sé nei decenni precedenti2.
Sono principalmente due gli elementi che rivestono, sul piano storico-politico, un ruolo decisivo
nell’articolare una critica segnatamente politico-sociale della psichiatria a partire dal pensiero
basagliano: le radici socioeconomiche della violenza istituzionale e il ruolo dei tecnici quali
appaltatori del potere dominante.
E’ tramite la scomposizione di questi due punti fondamentali che nel prossimo capitolo si
condurrà un’analisi circa la psichiatria quale scienza del controllo sociale.
1 Si tratta di un saggio scritto da Franco Basaglia in collaborazione con Franca Ongaro Basaglia nel 1978 per il volume Psychologie della Encyclopédie de la Pléiade. Il volume uscì in Francia nel 1987. Condotte perturbate viene pubblicato per la prima volta in italiano nell’antologia di scritti basagliani L’utopia della realtà, Einaudi, Torino, 2005. 2 E’ tuttavia necessaria una specificazione a riguardo poiché, come è noto, lo stesso Basaglia subì, in più di un’occasione, l’ostracismo della dirigenza del Partito Comunista Italiano nel corso della sua azione di rovesciamento e negazione dell’istituzione manicomiale. Capitò emblematicamente nel periodo 1969-‘71 a Colorno, un comune del parmense, dove Basaglia soffrì una condizione di compressione del suo “furore pratico contro l’istituzione”, come dirà in seguito nella prefazione al Giardino dei gelsi. Pertanto, si vuole qui sottolineare non tanto la cultura antiistituzionale della classe politica comunista in Italia, quanto le condizioni di criticabilità di massa che la presenza di un partito formalmente antisistemico aveva creato in anni di dure lotte sociali nei confronti della “struttura dell’ineguaglianza capitalistica”.
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II. Psichiatria e controllo sociale
A condurci lungo l’analisi della psichiatria quale scienza del controllo sociale, è la gestione
tecnica e specialistica di un disagio dalla dimensione segnatamente sociale ed esistenziale.
L’appropriazione medica di questo disagio veicola, nell’immaginario comune, la legittimazione
dell’azione psichiatrica anche quando assume apertamente i tratti della violenza e
dell’oppressione, di cui il manicomio è un’espressione storica parziale.
Basaglia, ne L’istituzione negata, ci ricorda come “la società cosiddetta del benessere e
dell’abbondanza ha ora scoperto di non poter esporre apertamente il suo volto della violenza…ed
ha trovato un nuovo sistema: quello di allargare l’appalto del potere ai tecnici che lo gestiranno in
suo nome”. E’ la presunta neutralità di questa dimensione “tecnica” a non convincere e, anzi, a
restituire una sensazione di “ostile tolleranza” verso coloro che non si conformano all’artificiosità
delle norme sociali, poiché spesso delle ingiustizie e delle contraddizioni di quel sistema portano i
segni sul corpo e fin dentro l’anima.
L’analisi degli scritti basagliani si situa pertanto all’incrocio tra il legame della malattia mentale
con la povertà – intesa anche nella sua accezione psicologico-culturale – e la continuità della
psichiatria con i meccanismi di controllo sociale in un contesto sempre più segnato dalla crisi
verticale dei diritti sociali di cittadinanza.
La prima parte del capitolo è dedicata alla relazione esistente tra “follia” e “miseria”, ovvero ad
uno degli elementi che fondano la necessità del controllo sociale in un sistema che riconosce
nell’accumulazione capitalistica e nella competizione individuale le proprie fondamenta. Nel
momento in cui l’esclusione e la competizione, elementi chiave del capitalismo neoliberista,
innescano dinamiche non più virtuose per il sistema – vale a dire incapaci di raggiungere una
sintesi ritenuta accettabile tra il rafforzamento del potere economico delle classi dominanti e il
mantenimento di una condizione di sostanziale ordine sociale – allora quest’ultimo rafforza gli
strumenti di controllo adeguandoli formidabilmente alle nuove esigenze. Al fine di sostenere la
La brava gente dà un nome alle cose,e le cose portano questi nomi…
il capro espiatorio sta dalla parte degli oggetti nominati,
non di coloro che li nominano.
Jean-Paul Sartre
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tesi secondo la quale esiste tra follia e miseria un legame stringente, tale da confondere la prima
nella seconda e viceversa, si è considerato uno studio classico e fondamentale della sociologia
contemporanea, tuttavia poco compreso e presto dimenticato1. Si presenteranno inoltre i risultati
di una breve ricerca, nata dalla rielaborazione di dati raccolti presso il Dipartimento di Salute
Mentale di Reggio Emilia, finalizzata ad individuare un “profilo sociale” il più possibile attuale
del “malato di mente”2.
La seconda parte del capitolo sarà invece dedicata agli scritti in cui Basaglia considera, già sul
finire degli anni Sessanta, il rischio di una crescente “ideologizzazione” della psichiatria e,
aggiungerei, di una formale “democratizzazione” delle pratiche di controllo sociale che assumono
i tratti di una patologizzazione diffusa dei vissuti umani, segnatamente delle problematiche di
natura sociale. In particolare, a partire dagli scritti contenuti ne La maggioranza deviante3, si
cercherà di rendere intelligibile la correlazione tra le forme storiche del sistema socioeconomico e
le dinamiche del controllo sociale stesso. Seguendo questa linea di pensiero si giungerà ad una
interpretazione del riemergere di forme di potere disciplinari nei confronti di una underclass
enormemente accresciutasi nel corso degli ultimi due decenni. Nella cosiddetta modernità
liquida4, caratterizzata dal nomadismo e dalla deterritorializzazione del capitale, lo
smantellamento sostanziale degli organismi collettivi che garantivano la qualità delle relazioni e
finanche la stessa esistenza – non scontata – di una rete sociale, riapre infatti la strada a forme
antiche di controllo panottico5.
E’ così possibile affermare che la psichiatria ricopre un tratto del circuito del controllo sociale
poiché, come ricorda Basaglia, “la società incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia
in malattia allo scopo di eliminarla”. La follia subisce quindi un processo di mediazione da parte
della razionalità borghese che la trasforma in “malattia mentale”, condizione oggi irrinunciabile al
1 Ci si riferisce a Classi sociali e malattie mentali, di August B. Hollingshead e Fredrick C. Redlich, Torino, Einaudi, 1965. Titolo originale Social Class and Mental Illness (1958). 2 Non sono numerosi gli studi storici in merito al legame tra follia e miseria aventi un carattere rigoroso. Si segnala in particolare il saggio Pellagra e alcolismo: sviluppo capitalistico e trasformazioni nella configurazione sociale del ricovero psichiatrico (1780-1915) di Alberto De Bernardi, contenuto in Tempo e catene. Manicomio, psichiatria e classi sociali. Il caso milanese, Milano, Franco Angeli, 1980. Si tratta di uno studio storico circa l’incidenza della pellagra e dell’alcolismo nei casi di internamento psichiatrico in istituti milanesi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. L’impostazione dell’opera ha la pretesa di superare i ristretti ambiti di una microstoria locale o i confini di un semplice lavoro di scavo su una particolare forma di ospedalità, per investire direttamente le modalità storiche con cui le classi dirigenti italiane hanno gestito la follia, intesa quale abnorme manifestazione di devianza collettiva. Il saggio di De Bernardi ha il grande merito di evidenziare la dimensione classista di questa “devianza collettiva”; che coinvolge innanzitutto braccianti agricoli, operai inurbati e sottoproletariato. 3 F. Basaglia, F Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante, Einaudi, Torino, 1971. Quest’opera nasce dal soggiorno che Franco Basaglia effettua negli Stati Uniti nel corso del 1969 in qualità di visiting professor. Rispetto a L’istituzione negata rappresenta uno sviluppo e un ampliamento coerente, parallelo ad un processo obiettivo che dall’ideologia della diversità e dal corrispondente sistema custodialisitico-punitivo evolve, attraverso l’ideologia della devianza, verso una totalizzazione del controllo sociale. 4 Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2002.5 Il termine deriva dall’opera Panopticon di Jeremy Bentham, giurista inglese che intorno alla fine del XVIII secolo pubblicò un libro originale e brillante, successivamente assunto quale paradigma nell’organizzazione dei sistemi penitenziari occidentali nel corso del XIX e del XX secolo.
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fine di legittimare “scientificamente” le forme del controllo sociale stesso1. Per queste ragioni,
credo risulti di particolare interesse rileggere il pensiero di Basaglia in virtù dell’analisi avanzata
dalla scuola sociologica della cosiddetta labelling theory2. Infatti, il processo di traduzione della
follia in malattia mentale, che Basaglia espone magistralmente in Follia/Delirio3, risponde ad
esigenze di “classificazione” e “catalogazione” della diversità sul piano sociale che finiscono col
creare la figura del deviante stesso, in risposta alle fratture del tessuto sociale. Da questo punto di
vista la scienza psichiatrica è prigioniera di determinismi nosografici che da Kraepelin 4 in poi ne
hanno definito l’identità. Vedremo come la costruzione ideologica di categorie nosologiche non
stia solo alla base del processo di esclusione e di stigmatizzazione del “malato di mente”, ma
finisca per crearlo e costituirlo sul piano della percezione socioculturale. Questo significa che la
figura sociale del folle – pur mantenendo inalterato il suo status generale – subisce un processo di
“densificazione” e crescente individuazione che agisce come elemento legittimante nei confronti
della sua atomizzazione sociale5.
1 Si segnala uno scritto agile quanto lucido ed efficace nel delineare una lettura storico-antropologica del concetto di diversità. Trattasi di Il mostro il peccatore e l’anormale di Guido Giarelli. 2 Alla metà degli anni Sessanta emerge un punto di vista sulla devianza che, per certi versi, assume i tratti della rivoluzione copernicana. Secondo questa teoria, la società inventa la devianza, poiché i gruppi sociali definiscono le norme la cui infrazione comporta l’attribuzione della qualifica deviante. L’attore deviante è una persona particolare che viene etichettato come outsider. La devianza non assume pertanto i tratti dell’azione qualificata intrinsecamente come tale, bensì si presenta come l’effetto dell’applicazione di certe regole e delle sanzioni correlate da parte di alcuni a danno di altri. Sotto il profilo metodologico l’innovazione risiede in uno spostamento di attenzione dal comportamento alla reazione sociale, dall’attore e dall’atto verso l’opinione pubblica. In particolare, l’innovazione straordinaria apportata dalla labelling theory sta nel rifiuto di una spiegazione causale dell’azione deviante sostituita dall’attenzione nei confronti dei meccanismi di etichettamento che rappresentano la reazione sociale alla devianza. In sostanza, si sostiene che non è la devianza che genera il controllo sociale ma all’opposto è il controllo sociale che porta alla devianza. I principali esponenti di questa scuola sociologica, che mette radici prima nella sociologia statunitense poi in quella europea dominando la scena per oltre vent’anni, sono H. S. Becker e E. M. Lemert. 3 In Enciclopedia Einaudi, vol. VI, Torino, 1979. In collaborazione con Franca Ongaro Basaglia. Anche in Scritti vol. II. 4 Nel 1883 Emil Kraepelin, pubblica il suo “Manuale di psichiatria”, dove cataloga in modo nuovo le malattie mentali. Il suo fine è unicamente quello di classificare e costruire vere e proprie gabbie d’acciaio dove intrappolare il comportamento dei “folli”. 5 Scrive R. Cestari in L’inganno psichiatrico: “…laddove c’è una patologia che è stata catalogata in modo molto dettagliato, la conoscenza è poca e i rimedi nulli, poco efficaci o palliativi…quando c’è una malattia di cui non si capisce niente e per la quale non si sa fare assolutamente nulla di efficace, si inizia a catalogare”. Credo che questo passaggio sia illuminante poiché evidenzia il processo di rifugio nella scienza e nel suo linguaggio – in ambito medico la nosologia appunto - che accomuna i “tecnici”. Questo percorso è infatti necessario ai fini dell’individuazione del folle, del “malato di mente” e di quella che sarà la sua carriera morale” per dirla con Goffman. Non a caso Cooper, uno dei principali esponenti della cosiddetta antipsichiatria inglese, afferma che la differenza tra un uomo sano e uno malato di mente è il fatto che quest’ultimo ha subito, almeno una volta nella vita, un trattamento psichiatrico.
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1. Follia e miseria
Follia e miseria sono due termini imponenti, capaci di racchiudere i tratti salienti della
modernità, delle sue ingiustizie e finanche dei suoi drammi, così come dello straordinario
potenziale della ragione umana, che essa ha talvolta sprigionato con fierezza oltre angusti limiti
così come, molto frequentemente, ricondotto forzatamente al silenzio. Scrive Basaglia: “La
miseria ha tante facce: quella della fame e dell’indigenza e quella dell’impoverimento totale
dell’esistenza umana…E’ in questo mondo generalizzato di miseria economica e psicologica che i
bisogni si esprimono in modo confuso e indifferenziato: bisogni che nascono dall’urgenza della
vita, da un corpo che non accetta di essere mutilato e mortificato, da una soggettività che non
vuole essere repressa e violentata e che trova stretto lo spazio che le viene concesso” 1. La miseria
non cessa mai di essere anche segno di vita, testimonianza di un bisogno di esserci
soggettivamente, in modo paritario con la dignità propria di uomini e donne, senza ulteriori
aggettivi. Se oggi si parla di miseria, è perché le soggettività in essa imprigionate continuano a
reclamare a gran voce i propri diritti e a urlare l’oppressione di cui sono vittime; non si dicono
vinte ma pronte, ancora una volta, alla lotta quale migliore testimonianza di sé nel mondo.
In questa prima parte del capitolo si prenderanno in considerazione alcuni studi riguardanti la
relazione tra follia e povertà, intendendo quest’ultima in senso lato – vale a dire in una
dimensione umana, materiale, culturale e relazionale al contempo – ma pur sempre riconducibile
ad una condizione reale, constatabile empiricamente. Tale percorso dovrebbe consentirci
d’individuare un ambito dove articolare una riflessione circa il concetto di “classe sociale”, in
particolare per quanto concerne la sua accezione in relazione alla questione psichiatrica.
Un’attenta riflessione circa la dimensione sociale della psichiatria - sia in chiave storica che
attuale - può fornire un contributo singolare e irrinunciabile alla ridefinizione prima, e
all’articolazione politica poi, della categoria “classe sociale”. E’ importante sottolineare come non
si voglia in alcun modo ricondurre l’esclusione che accomuna e segrega i cosiddetti “sofferenti
psichici” ad un principio deterministico “psicosociale”, in quanto, seppur differente nella genesi
rispetto a quello di natura biologica o organica, risulterebbe altrettanto stringente e soverchiante
nei confronti dell’individuo. Scrive infatti Basaglia: “Se pensassi che la follia è solo un prodotto
sociale sarei ancora all’interno di una logica positivistica. Dire che la follia è un prodotto
biologico oppure organico, un prodotto psicologico o sociale, significa seguire la moda di un
determinato momento. Io penso che la follia e tutte le malattie siano espressione delle
contraddizioni del nostro corpo, e dicendo corpo, dico corpo organico e sociale. La malattia,
1 F. Basaglia - Franca Ongaro Basaglia, Follia/Delirio.
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essendo una contraddizione che si verifica in un contesto sociale, non è solo un prodotto sociale,
ma una interazione tra tutti i livelli, di cui noi siamo composti: biologico, sociale, psicologico…”1.
Questo passaggio racchiude uno straordinario potenziale nel condurci lungo la ricerca e la
riattualizzazione della categoria “classe sociale” poiché, parlando di situazioni contraddittorie di
cui la malattia del corpo è solo un’espressione paradigmatica ma pur sempre parziale, delinea
un’immagine fluida, composita, dove il confine della dimensione sociale è condiviso con quello
esistenziale, relazionale, direi persino intrecciato con la percezione simbolica che l’individuo ha
del proprio Sé nel mondo che lo circonda.
L’obiettivo principale di questo capitolo sarà pertanto ricercare tra le pieghe dell’anormalità la
relazione reale che la costituisce e la circoscrive sul piano relazionale e sociale, per poi
individuarla quale formidabile strumento di controllo attraverso una negazione ideologica della
sua contraddittorietà.
Classi sociali e malattie mentali
Classi sociali e malattie mentali non è solo il titolo di una fondamentale opera della sociologia
contemporanea, ma anche una riflessione ineludibile per una lettura realmente politica di una
grande contraddizione delle nostre società, quale appunto la malattia mentale. Abbiamo già
sottolineato come il variegato mondo della marginalità meriti, a partire dalle figure “fuori
margine”2 che lo compongono, un’assoluta centralità politica al fine di percorrere un’analisi
ancorata al reale, capace cioè di prendere in esame tematiche e soggettività che solitamente
vengono occultate ed oscurate. Non certo per restituire nel mondo virtuale della riflessione –
anche se politica – quanto sottratto quotidianamente e irrimediabilmente dalla vita di uomini e
donne, bensì per agire nella realtà al fine di modificarne i rapporti di forza, la fisionomia, i valori.
Scrivono Marx ed Engels ne L’ideologia tedesca: “I presupposti del reale sono gli uomini, non in
qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo reale di sviluppo
empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene rappresentato questo
processo di vita attivo la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti…Cadono le frasi sulla
coscienza e al loro posto subentra il potere reale”3. Ecco perché non ritengo sia sufficiente,
ancorché fondamentale, affiancarsi agli oppressi, a tutti coloro che ricoprono il ruolo più vero e
più vivo nella struttura sociale dell’ineguaglianza capitalistica, ma è altresì necessario indagare
1 F. Basaglia, Conferenze brasiliane, Milano, Raffaello Cortina editore, 2000, pp. 98-99. Le conferenze vennero tenute da Basaglia nel periodo compreso tra giugno e novembre del 1979, nelle città brasiliane di San Paolo, Rio de Janeiro e Belo Horizonte. Si tratta di una delle ultime occasioni di riflessione pubblica di Basaglia sul significato complessivo dell’impresa della sua vita, una sorta di bilancio critico della psichiatria all’indomani della Legge 180. In queste conferenze Basaglia si presenta ad un pubblico di studenti, lavoratori, sindacalisti, medici e professori, e apre con loro un rapporto al contempo complice e critico, capace di centrare temi e problemi tuttora aperti. 2 Fuori margine è una felice espressione con la quale Giulio Salierno ha intitolato un’opera dedicata alle figure marginali della nostra società: ladri, prostitute, camorristi. G. Salierno, Fuori margine, Torino, Einaudi, 2001. 3 Corsivo mio.
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quella realtà, conoscerla, toccarla, tentare di smontarla nelle sue parti costitutive come farebbe un
bambino con il più curioso degli oggetti. E’ quindi doveroso ripartire dagli uomini, dal loro
processo reale di sviluppo - segnatamente se questo è in realtà immagine di abbrutimento,
vessazione, degrado materiale e culturale – al fine di individuare i soggetti e le forme della
trasformazione sociale.
La lettura dell’opera di Hollingshead e Redlich deve pertanto procedere a partire da questa
riflessione, che segna anche una consapevolezza in merito agli orizzonti della politica, finanche
del “materiale” stesso che la costituisce. Quando Marx ed Engels parlano degli uomini nel loro
divenire quale presupposto irrinunciabile del reale, indicano alla politica – intesa appunto quale
strumento del cambiamento sociale – il fine ultimo della sua stessa ragion d’essere: l’uomo nelle
sue condizioni reali di vita. Ecco quindi che sofferenza, marginalità, disagio, diventano elementi
costitutivi della politica stessa poiché, esprimendo l’immagine più vera e viva delle contraddizioni
che circondano l’uomo, rendono legittima la ragion d’essere della politica qualora coincida con la
volontà di cambiamento dello stato di cose presenti.
Classi sociali e malattie mentali è pertanto uno strumento ancora fondamentale per la
comprensione della società odierna e delle sue contraddizioni. Possiamo quindi fare nostre le
ragioni che convinsero un intellettuale e politico di raro valore quale Raniero Panzieri a
consigliare l’edizione italiana dell’opera di Hollingshead e Redlich. Il libro in questione racchiude
infatti i tratti dell’inchiesta tanto cara a Panzieri, ovvero uno strumento capace di analizzare
criticamente le dinamiche della società, di giungere alla radice della “questione sociale” sino ad
impattare scomode verità, che hanno la forza di essere percepite intrinsecamente come
un’ingiustizia, un sopruso, una violenza dell’uomo nei confronti dell’uomo.
“Le domande fondamentali alle quali questa ricerca vuole dare una risposta sono: esiste un
rapporto fra classi sociali e malattie mentali? La posizione sociale di un paziente influenza il tipo
di terapia che egli riceve?”1 Una volta definito il campo di interesse i due ricercatori non esitano
ad avvertire il lettore come segue: “sia la classe sociale che le malattie mentali si possono
paragonare ad un iceberg: il 90% sta nascosto sotto la superficie e la parte sommersa, benché
invisibile, è la parte più pericolosa”. Questo poiché le classi sociali e le malattie mentali
rappresentano, nelle società occidentali, categorie ammantate di una presunta neutralità tecnico-
scientifica – sociologica o medica che sia – che tuttavia non si esime dal fornire giudizi di valore –
quindi morali – nei confronti di uomini e donne “in eccesso”. In sostanza, ci troviamo dinanzi a
strumenti indispensabili nel delineare i confini della discriminazione sociale quale passaggio
irrinunciabile alla tutela ideologica dello status quo. E’ come se il giudizio morale - sempre
socialmente costruito - che avvolge il soggetto “anormale”, debba emergere quale caratteristica
intrinseca e connaturata all’anormalità di quest’ultimo, al fine di occultare le responsabilità
politiche insite nel processo di emarginazione sociale. Ecco perché Hollingshead e Redlich
1 Le citazioni senza ulteriori indicazioni sono tratte dal saggio Classi sociali e malattie mentali.
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parlano di un iceberg, ovvero di una verità sociale difficile da accettare per il singolo individuo,
poiché il giudizio discriminante che si abbatte su “malati di mente” e “poveri” è talmente
invalidante da risultare insopportabile, vergognoso. Per questo motivo è da occultare, in quanto
“le classi sociali e le malattie mentali sono due aspetti della vita che i membri della nostra società
preferiscono evitare”.
Ciò che resta strutturalmente ai margini del sistema deve costantemente subire un processo di
inferiorizzazione e identificarsi in una sorta di imprinting dell’esclusione sociale capace di
regolare dall’interno, in modo sempre mortificante, la percezione che questi soggetti hanno di Sé
nel mondo. Inoltre, tutte le forme di esclusione e discriminazione finiscono per sommarsi,
incrociarsi e sovrapporsi l’un l’altra in un terreno condiviso, dove la percezione individuale e
collettiva del fenomeno risulta distorta e continuamente costruita sul piano sociale. E’ quindi
facile comprendere l’imbarazzo a parlare di classi sociali e malattie mentali da parte di coloro che
vivono condizioni degradanti, in un contesto in cui le responsabilità dell’insuccesso – economico,
esistenziale, affettivo e relazionale – vengono imputate alla persona e alla sua “costitutiva” ed
“oggettiva” inferiorità.
Hollingshead e Redlich individuano cinque classi sociali nella comunità di New Haven 1, sulla
base di tre indici della posizione sociale: la zona di residenza della famiglia, l’occupazione del
capofamiglia e gli anni di scuola frequentati dal capofamiglia2. Ritengo questa classificazione
particolarmente significativa, poiché pone l’accento sugli spazi – Foucault ha dimostrato che la
storia del potere è sostanzialmente storia degli spazi – e sul rapporto tra livello di istruzione e
occupazione3. Per rispondere al quesito iniziale dei due ricercatori, e per i fini che ci siamo
1 Si tratta della comunità urbana del Connecticut in cui si è svolto la ricerca in questione tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Cinquanta. 2 Si riporta di seguito una rapida descrizione della composizione della classi: Classe I: è formata dai leader cittadini nelle professioni e negli affari. I suoi membri abitano nei quartieri della città generalmente ritenuti migliori, i capofamiglia hanno conseguito una laurea in prestigiose università; le loro mogli sono state da uno a quattro anni all’università. I loro redditi sono i più alti della città e molte famiglie sono ricche; spesso si tratta di una ricchezza ereditata. Classe II: quasi tutti gli adulti della classe II hanno avuto un certo grado di istruzione superiore e alcuni uomini occupano posti direttivi. Le famiglie abitano case individuali nelle migliori zone residenziali, sono benestanti ma non godono di un patrimonio ereditato o accumulato. Quattro membri su cinque di questa classe sono forniti di mobilità sociale ascendente.Classe III: su quattro capofamiglia, tre sono impiegati. Il 51% occupa posti vari nelle amministrazioni negli uffici; il 24% esercita in proprio una piccola azienda; il 9% è composto da tecnici e semiprofessionisti; il 16% lavora come caporeparto in una fabbrica o come operaio specializzato. In questa classe vi è un maggior numero di uomini e di donne insoddisfatte delle loro condizioni di vita di quanto avvenga nella classe II; vi è anche meno ottimismo circa il futuro. Classe IV: su cento uomini della classe IV, 35 compiono un lavoro specializzato, 52 un lavoro semispecializzato, 12 sono commessi o piccoli impiegati, uno è un piccolo proprietario. Una parte rilevante di questa classe è composta da immigrati di seconda o terza generazione.Classe V: dal punto di vista dell’occupazione, gli adulti sono in stragrande maggioranza operi semispecializzati e manovali. Come istruzione, la maggior parte degli adulti non ha terminato le classi elementari. Gli individui e le famiglie sono concentrati nei quartieri operai e negli alloggi privi dei servizi igienici moderni di New Haven e nelle baracche semirurali. Gli immigrati dall’Europa meridionale ed orientale formano la maggior parte di questo strato sociale. 3 La ricerca di Hollingshead e Redlich è svolta tra il 1948 e il 1958. Credo tuttavia che gli indici utilizzati restino di assoluta attualità per chiunque voglia condurre un’inchiesta sociale simile.
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preposti, risulta di particolare interesse l’influenza che la condizione sociale esercita nel
determinare “le vie che conducono allo psichiatra”.
Percentuale di invii da parte di fonti specifiche per gli psicotici alla prima terapia, secondo la classe1.
Fonti di invio I-II III IV V Mediche
Medici privati 21,4 59,4 44,1 9,0Medici di ambulatorio
… 6,2 16.3 13,0
Non mediche Istituzioni sociali … … 7,4 19,6Polizia e tribunali … 4,8 18,9 52,2Famiglia e amici 42.9 17,2 8,1 2,0Autoinvio 35,7 6,2 2,6 …Altri professionisti … 6,2 2,6 4,2N 14 64 270 378
Credo che alcune osservazioni risultino immediate. Innanzitutto, la percentuale degli invii di
natura medica è, ad eccezione della terza e della quarta classe, inferiore rispetto a quelli di natura
non medica. In particolare, per quanto concerne i membri della quinta classe soltanto il 22% degli
invii ha una natura medica, vale a dire 83 casi su un totale di 378. Inoltre, per questa classe
sociale, e in misura comunque rilevante anche per la quarta, gli invii al settore psichiatrico hanno
origine da istituzioni sociali, polizia e tribunali. Ovvero, 271 persone su 378 giudicate psicotiche
individuano il proprio “accusatore”2 in istituzioni di natura sociale o poliziesca. Significativo è
come la prima e la seconda classe risultino totalmente escluse dall’azione di queste istituzioni.
Infatti, i membri delle prime due classi appartengono alla dirigenza cittadina, alla classe politica
ed imprenditoriale, rappresentano quindi il centro di potere della città. Ecco perché le istituzioni
giudiziarie o poliziesche non interferiscono con la sfera individuale dei componenti di queste
classi e, al contrario, si spiega la ragione per cui la quasi totalità degli invii ha un’origine
volontaria o comunque attinente l’ambito familiare.
“Possiamo dire che tra classi sociali e malattie mentali esiste un chiaro rapporto inverso. Il
rapporto tra la condizione sociale e la distribuzione dei pazienti nella popolazione segue un
andamento caratteristico: quasi invariabilmente la classe V contribuisce con un numero di pazienti
assai maggiore di quanti indichi il suo peso proporzionale nella popolazione. Tra le classi più alte,
il rapporto tra il numero di pazienti psichiatrici e il numero di individui non pazienti è assai più
1 La tabella è tratta dall’opera Classi sociali e malattie mentali, p. 1952 E. Goffman, in Asylums, evidenzia come la carriera del malato di mente inizi con la trasgressione alle norme del vivere sociale; atto che viene riferito da un accusatore che risulta così colui che ha dato l’avvio al ciclo che porterà l’accusato alla ospedalizzazione.
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proporzionato”. Tali affermazioni di Hollingshead e Redlich trovano giustificazione in una ricerca
metodica e rigorosa3, che è riassunta a fianco.
Classi sociali e distribuzione dei pazienti e non-pazienti nella popolazione4:
Pazienti Non-pazientiI 1,0 3,0II 7,0 8,4III 13,7 20,4IV 40,1 49,8V 38,2 18,4
n = 1891 236940
Questi dati rivelano che la classe I ha un numero di pazienti pari ad un terzo di quanto ci si
potrebbe aspettare se il rapporto fra i malati della classe I e la popolazione dei malati di mente
fosse uguale al rapporto fra gli individui della classe I e la popolazione in generale. Al contrario,
la percentuale dei pazienti della classe V è superiore al doppio della percentuale degli individui
appartenenti alla classe V rispetto all’intera popolazione.
Nella lettura di Classi sociali e malattie mentali, risulta di particolare interesse anche il capitolo
in cui Hollingshead e Redlich indagano una possibile correlazione tra la posizione sociale e i
diversi disturbi mentali. In particolare, per i nostri scopi, è importante soffermarsi sul legame tra
nevrosi e classi sociali e tra quest’ultime e le psicosi. Non è certo questa la sede in cui analizzare
la distinzione medica – o presunta tale – tra nevrosi e psicosi; tuttavia, attenendoci alla distinzione
proposta dai due ricercatori nordamericani, possiamo avanzare alcune considerazioni. I disturbi
nevrotici vengono innanzitutto presentati come meno gravi - e quindi meno pericolosi in chiave
sociale – rispetto a quelli psicotici. Infatti, se si osservano i cinque tipi di psicosi individuate –
affettive, alcoliche e da tossicomane, organiche, schizofreniche, senili – ci si accorge
immediatamente della dimensione segnatamente sociale del comportamento sanzionato ed
“accusato”. E’ evidente che alcolismo, tossicodipendenza, psicosi dovute a malattie infettive
(sifilide, meningite, encefaliti ecc.) o traumatiche, psicosi senili dovute a disturbi circolatori o
3 E’ importante sottolineare che la dimostrazione circa la prevalenza di pazienti psichiatrici nelle classi sociali subalterne della comunità, nasce da una ricerca metodica condotta lungo una serie di passaggi con difficoltà crescenti. Il primo passaggio - legato ad un paragone diretto tra i pazienti e la popolazione in generale e racchiuso nella precedente tabella - ha rivelato che oltre ad esistere una precisa relazione tra la posizione sociale di un individuo e il fatto che egli diventi un paziente psichiatrico, emerge chiaramente che quanto è più bassa la classe sociale, tanto maggiore è la proporzione di pazienti psichiatrici nella popolazione di riferimento. Inoltre, per assicurare che lo stretto rapporto esistente tra classe sociale e malattie mentali dipenda realmente dallo status sociale e non da altri fattori, i due ricercatori hanno effettuato una serie di analisi dei dati ottenuti, tenendo sotto controllo, di volta in volta, una serie di fattori – sesso, età, origini etniche, religione e stato civile. Il lavoro svolto mostra chiaramente che ciascuna di queste variabili risulta ininfluente nel rapporto tra condizione sociale e malattie mentali, poiché quando ciascuno di quei fattori veniva tenuto costante, tale rapporto ricompariva sostanzialmente invariato.4 La tabella è tratta dall’opera Classi sociali e malattie mentali, p. 205.
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metabolici del cervello in età avanzata, hanno una matrice inequivocabilmente socioeconomica.
Ne è una prova lampante la psicosi dovuta da infezione sifilitica, ovvero da una malattia che
storicamente può essere annoverata tra le “malattie dei poveri”. Pertanto, possiamo affermare che
dalla distinzione avanzata da Hollingshead e Redlich emerge come le psicosi presentino una
dimensione indubbiamente sociale, tanto nella genesi quanto nei loro rivolgimenti economici e
sicuritari – basti pensare all’improduttività dell’anziano e al turbamento arrecato all’ordine sociale
da alcolisti e tossicodipendenti. Al contrario, i disturbi nevrotici individuati dai due autori –
personalità psicopatiche, nevrosi di carattere, ansie e fobie, reazioni depressive, nevrosi ossessive,
disturbi psicosomatici, reazioni isteriche - presentano un carattere che potremmo definire
“privato”, in quanto immerso in modo talvolta drammatico – basti pensare alla “melanconia” - in
una sfera intima, personale, isolata dal resto della vita sociale e pertanto incapace di disturbarla. I
confini della sofferenza psichica, nel caso delle nevrosi, ci appaiono meno estesi in quanto
costretti a manifestarsi all’interno della mera sfera esistenziale. Questo non significa che la
percezione della sofferenza nel caso del nevrotico sia inferiore rispetto a quella della psicotico;
rischieremmo infatti di scivolare in una sorta di inverosimile “classifica del dolore mentale”,
quand’è invece evidente che la sofferenza esistenziale non ha un metro di misura ma soltanto un
vissuto soggettivo, non mediabile attraverso schemi precostituiti. Piuttosto, rimanendo all’interno
della distinzione effettuata da Hollingshead e Redlich tra nevrosi e psicosi, possiamo affermare
che le prime invadono in misura certo più contenuta il terreno sociale, le seconde, al contrario,
individuano in quest’ultimo la dimensione costitutiva della propria stigmatizzazione.
Sono riportati di seguito i dati circa il legame tra le classi sociali e i diversi disturbi mentali1.
Percentuale di pazienti presenti in ciascuna categoria delle nevrosi secondo la classe (con la correzione per età e sesso).
I-II III IV V
Personalità psicopatiche 21 32 23 37Nevrosi di tipo ansioso e
fobico16 18 30 16
Nevrosi di carattere 36 23 13 16Reazioni depressive 12 12 10 8
Disturbi psicosomatici 7 9 13 11Nevrosi ossessive 7 5 5 0Reazioni isteriche 1 1 6 12
N 98 119 182 65
1 Le tabelle sono tratte dall’opera Classi sociali e malattie mentali, pp. 233, 235.
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Percentuale di pazienti di ciascuna categoria diagnosticata delle psicosi, secondo la classe (con correzione per età e sesso).
I-II III IV V
Psicosi distimiche 21 14 14 7Psicosi alcoliche e
tossicomanie8 10 4 8
Psicosi organiche 5 8 9 16Psicosi schizofreniche 55 57 61 58
Psicosi senili 11 11 12 11
N 53 142 584 672
I risultati raccolti in queste tabelle rivelano l’esistenza di un rapporto significativo tra la
condizione sociale e la proporzione di pazienti che soffrono di diversi tipi di disturbi psichiatrici.
In particolare, possiamo notare come la classe sociale risulti discriminante nell’individuare una
sofferenza nevrotica piuttosto che psicotica, in quanto ben 1256 casi di psicosi su un totale di
1451 riguardano membri delle due classi più subalterne. E’ evidente come ciò assuma un
significato politico-sociale in relazione a quanto evidenziato in precedenza circa la dimensione
“pubblica” e “sociale” delle psicosi. Basaglia, nella prefazione a Il Comportamento in pubblico di
E. Goffman, nota che a cadere sotto le sanzioni implicite nel deviare rispetto alle regole di
condotta sono coloro che non dispongono di uno spazio privato dove poter vivere le proprie
anormalità comportamentali e quindi di un territorio dove poter difendere dalle ingerenze altrui
vizi, meschinità, abnormità che diventano osceni e degni di stigmatizzazione soltanto dopo essere
caduti sotto uno sguardo estraneo. Emblematico è il seguente passaggio: “Disporre di uno spazio
privato si traduce quindi, direttamente, in un’arma di difesa dalla stigmatizzazione e dalle sue
conseguenti sanzioni. Ma disporre di uno spazio privato significa appartenere alla classe della
proprietà privata, della privacy, delle riserve, del vietato l’accesso, dove le mura e i cancelli
servono a difendere la proprietà e il privilegio, anche nel senso della tutela delle proprie
abnormità che possono mantenersi sul piano dell’eccentricità e della stravaganza…”1. Inoltre, è
certamente significativo notare come nell’ambito delle psicosi considerate la schizofrenia, in
misura indipendente rispetto alla classe sociale, si attesta tra il 55 e il 60 per cento dei casi. Questo
conferma come la schizofrenia risulti essere una sorta di “simbolo sacro della psichiatria”, come
ha causticamente fatto notare Thomas Szasz2.
1 F. Basaglia, introduzione a Il comportamento in pubblico, di E. Goffman. In collaborazione con Franca Ongaro Basaglia. In Scritti vol. II, p. 152. 2 T. Szasz, Schizophrenia: the sacred symbol of psychiatry (1976). Versione italiana edita da Armando Armando, 1984. In quest’opera, esaminando le varie concezioni della schizofrenia, Szasz mostra esattamente in che senso gli psichiatri hanno “creato”, e continuano a “creare”, schizofrenici. “Questo si riassume nel principio che la schizofrenia non riguarda la medicina in quanto non è una malattia, ma solo il nome di una presunta malattia, più precisamente il “mostro sacro” che ha consentito alla psichiatra di erigersi come scienza e svilupparsi…al punto
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In conclusione, credo che l’opera di Hollingshead e Redlich rappresenti, ancora oggi, uno studio
fondamentale ed irrinunciabile per avvicinarsi criticamente alla psichiatria. Dalle loro ricerche,
infatti, emerge l’esistenza di una “questione psichiatrica”, a meno che non si voglia ignorare la
relazione tra “malattia mentale” e povertà e, più in generale, ogni legame tra quest’ultima e
l’insorgere di problematiche che investono l’esistenza umana3. Ritengo questa relazione di
straordinario interesse, poiché racchiude la ragione politica tale per cui è possibile individuare
storicamente nella psichiatria un formidabile strumento di controllo sociale.
Malattia mentale e stratificazione sociale: un’inchiesta a Reggio Emilia
Si riporta ora une breve inchiesta nata dall’elaborazione di dati forniti dal Dipartimento di
Salute Mentale (DSM) di Reggio Emilia circa i trattamenti psichiatrici effettuati nei Centri di
Salute Mentale (CSM) della provincia, nel periodo 2000-2004. Tale inchiesta non ha alcuna
pretesa di esaustività, tuttavia ci sembra uno strumento utile e insostituibile per restare
costantemente ancorati alla realtà e alla materialità delle condizioni di vita di uomini e donne che
ogni giorno affrontano, a mani nude, le contraddizioni del presente. Tra le quali, il fatto che prima
di essere schizofrenici, paranoici o depressi, si è abbandonati, poveri, privi di istruzione, alienati
nel proprio lavoro, o semplicemente alla ricerca di sé.
Credo, in generale, che lo strumento dell’inchiesta necessiti d’una riattualizzazione politica, non
soltanto perché si tratta di un elemento identitario del movimento operaio che ha segnato gloriose
istanze di emancipazione sociale, ma anche perché è espressione di un’analisi non ideologica e
bensì innervata dalla realtà, dalla materialità della vita. L’inchiesta segna un percorso che
potremmo definire irriducibile allo status quo, poiché, nel condurla, si delinea già un’alternativa
alle ingiustizie del presente. In sostanza, a fronte di un preteso giudizio di scientificità – peraltro
mai dimostrato – della psichiatria tradizionale, si deve rispondere con un surplus di analisi
che una smitizzazione della malattia mentale minerebbe e distruggerebbe la psichiatria allo stesso modo in cui la smitizzazione dell’Eucarestia minerebbe e distruggerebbe il Cattolicesimo”, dalla prefazione di Leonardo Ancona. 3 Se è legittimo, ancorché deplorevole sul piano etico e politico, ignorare la dimensione sociale delle cosiddette “malattie mentali”, non lo è mistificare la realtà o, addirittura, negarla. In Cesare Lombroso troviamo un esempio storico affatto emblematico di tale atteggiamento. Infatti, nei confronti della pellagra Lombroso mise in atto un complesso tentativo pseudo-scientifico volto a trasformarla da malattia della fame e della miseria a malattia virale, prodotta non dalle tristissime condizioni di vita in cui versavano centinaia di migliaia di contadini, ma dal penicillum glaucum, da una muffa velenosa che avrebbe aggredito il granoturco avariandolo in modo irreparabile. C. Lombroso, La pellagra e l’inchiesta agraria, in “Archivio di psichiatria, scienze penali e antropologia criminale”, 1882. Questo è solo un esempio storico piuttosto conosciuto, ma potremmo arrivare sino ai nostri giorni. Ne sono un esempio la Relazione introduttiva alla presentazione del progetto di legge n. 174 alla Commissione Affari Sociali della Camera dell’On. Burani Procaccini. Il primo punto recita: “Solo recentemente, con il venire meno di alcune contrapposizioni ideologiche…abbiamo potuto osservare gli esiti della riforma dell’assistenza psichiatrica del 1978 con modalità pragmatiche e con quella oggettività scientifica che, impedita da rigide teorie sociogenetiche della malattie mentali. Cosicché la maggioranza degli psichiatri condivide oggi l’affermazione che è necessario recuperare una dimensione biologica e medica della malattia mentale”.
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scientifica che, in questo caso, evidenzi la composizione di classe e la “marginalità”, ancora
attuale, quale unica cifra realmente constatabile della “malattia mentale”.
Forse sarà per qualcuno poca cosa, o peggio un esercizio impropriamente definito “ideologico”,
ma siamo convinti che questa breve ricerca rafforzi le ragioni di chi sostiene che tra follia e
povertà vi sia un legame intimo, inscindibile. Proprio come Hollingshead e Redlich dimostrarono
già negli anni Cinquanta. A chi obietta che tali dati sono privi di “scientificità”, elaborati da chi
non ne possiede le credenziali “tecniche”, rispondo con le parole di Franco Basaglia: “E’ troppo
facile all’establishment psichiatrico definire il nostro lavoro privo di serietà e di rispettabilità
scientifica. Il giudizio non può che lusingarci, dato che esso ci accomuna finalmente alla
mancanza di serietà e di rispettabilità da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli
esclusi”1.
I trattamenti psichiatrici effettuati nel periodo 2000-2004 nei Centri di Salute Mentale della
provincia di Reggio Emilia2 sono riassunti a fianco.
Tabella 1Anno Numero di ingressi in CSM
2000 1395
2001 1281
2002 1382
2003 1392
2004 1369
n = 6819
Da questi dati emerge un sostanziale equilibrio, nell’arco di tempo considerato, circa l’incidenza
delle malattie mentali nella provincia di Reggio Emilia. Infatti, si nota soltanto una flessione nel
2001 (del 7,5% rispetto alla media degli altri anni) in un quadro altrimenti stabile. Poiché lo scopo
della nostra inchiesta è quello di verificare l’eventuale presenza di una correlazione tra malattie
mentali e stratificazione sociale, si è proceduto a valutare l’incidenza di una serie di parametri,
ritenuti significativi nel delineare lo status sociale di una persona3, sul totale delle diagnosi
considerate.
La tabella seguente riporta l’incidenza di ciascun livello di scolarità tra le persone cui è stata
diagnosticata una psicopatologia tra il 2000 e il 2004
.
1 F. Basaglia, L’istituzione negata, ed. 1998, p. 11, cit.2 I Centri di Salute Mentale della Provincia di Reggio Emilia sono sette, distribuiti su tutto il territorio provinciale.3 Tali parametri sono principalmente il livello di scolarità e la professione. Inoltre, verranno analizzati in modo incrociato più variabili al contempo, al fine di cogliere eventuali legami tra quest’ultime in relazione alla diagnosi psichiatrica.
64
Tabella 2
Scolarità 2000 2001 2002 2003 2004 Tot. %Analfabeta 15 4 12 10 12 53 0,82Alfabeta
senza titoli39 39 39 35 45 197 3,04
Licenza elementare
314 299 320 287 269 1489 23,0
Licenza media
484 426 484 458 507 2359 36,5
Diploma superiore
367 357 393 371 396 1884 29,1
Laurea 56 44 42 54 53 249 3,85Non
rilevato60 45 38 48 49 240 3,71
6471 100
Il dato certamente lampante è l’elevata incidenza del livello di bassa scolarizzazione tra le
persone diagnosticate come “malate di mente”. Infatti, ben il 62,5% possiede un titolo di studio
non superiore alla licenza media o non lo possiede affatto. Viene qui delineato cioè il confine
della “questione psichiatrica”, il terreno reale del confronto, al di là di sovrastrutture ideologiche,
mediche o giuridiche che hanno l’unico scopo di inquinarne la dialettica. Un elemento ancor più
preciso e significativo è certamente l’incidenza di quasi il 4% di analfabeti e alfabeti senza titoli
tra i diagnosticati, in un contesto sociale dove l’analfabetismo e l’assenza di scolarità sono
pressoché scomparsi da decenni. Storicamente, l’analfabetismo può essere considerato un
indicatore inequivocabile di emarginazione ed ingiustizia sociale unite ad una sorta di odiosa
ipoteca sull’impossibilità dell’emancipazione futura. E’ in questo terreno sociale, capace di
precludere le stesse istanze di liberazione, che la malattia mentale individua condizioni favorevoli
al proprio insorgere.
Ritenendo quest’ultimo dato di grande rilevanza nel delineare la marginalità dei “folli”, si è
proceduto ad analizzarlo alla luce di variabili quali l’età e il genere.
65
La tabella 3 evidenzia la composizione secondo il genere e la classi di età dei “malati di mente” analfabeti:
Analfabeti
2000 2001 2002 2003 2004 Tot.
GenereM 1 0 7 3 6 17F 14 4 5 7 6 36Classi di età18-35 1 0 0 0 3 436-50 3 1 5 2 1 1251-65 5 0 5 4 6 2066-80 6 3 2 3 2 16>80 0 0 0 1 0 1
15 4 12 10 12 53
La tabella 4 si riferisce alla composizione di genere e alle classi di età dei “malati di mente” alfabetizzati ma senza titoli:
Alfabeta senza titoli
2000 2001 2002 2003 2004 Tot.
GenereM 6 14 8 10 15 53F 33 25 31 25 20 134
Classi di età
18-35 0 1 0 1 4 636-50 4 3 2 4 6 1951-65 9 8 7 6 11 4166-80 18 18 14 17 17 84>80 8 9 16 7 7 47
39 39 39 35 45 197
Credo che questi dati restituiscano con forza l’attualità di una “questione sociale” e persino di
genere all’interno della psichiatria. Non si può ignorare che gli analfabeti con un’età compresa tra
i 18 e i 35 anni sono ben il 7,6% di coloro a cui è stata diagnosticata una qualsiasi forma di
malattia mentale. Percentuale che sale al 30,2 se consideriamo i “malati di mente” con un’età
compresa tra i 18 e i 50 anni. Non è quindi possibile attribuire all’eventuale anzianità del
campione tale livello di analfabetismo, in quanto è significativamente elevata la percentuale di
analfabeti in età giovane ed adulta. Emerge inoltre una vera “questione di genere” anche
all’interno del settore psichiatrico, infatti ben il 70% dei malati analfabeti è donna.
66
Per quanto concerne i malati alfabetizzati ma senza titoli risulta meno evidente l’incidenza
nell’età compresa tra i 18 e i 50 anni (12,7%), ma è pur sempre significativa. Inoltre, si conferma,
con un dato del 68%, la netta prevalenza della componente femminile. Possiamo così affermare
che la storica “contraddizione di genere” trova nella psichiatria non solo una conferma della
propria esistenza ma un contributo storico fondamentale, ancora oggi, ai fini della sua stessa
affermazione.
La tabella 5 riassume l’incidenza di ciascuna categoria professionale sul totale del campione considerato, nuovamente nel periodo 2000-2004.
Professione 2000 2001 2002 2003 2004 Tot. %
Disoccupato 101 65 106 84 100 456 7,10Invalido 73 50 60 59 33 275 4,26
In cerca diOccupazione
41 58 51 51 63 264 4,10
Operaio 327 318 326 310 344 1625 25,2Impiegato 150 152 164 156 160 782 12,1Pensionato 270 266 277 245 278 1336 20,7
Studente 29 33 42 32 38 174 2,70Casalinga 167 113 118 145 133 676 10,5
Lavori temporanei
12 11 12 15 13 63 0,98
Lavoro a domicilio
3 4 5 8 5 25 0,39
Imprenditore 9 6 8 8 9 40 0,62Libero
professionista
28 13 15 20 18 94 1,46
Dirigente 10 10 11 9 9 49 0,76Lavoratore in proprio
59 57 51 55 52 274 4,25
Altro 41 42 55 49 61 248 3,84Non rilevato 18 16 20 10 10 74 1,15
6455 100
Questi dati forniscono diversi spunti di riflessione. Innanzitutto, balza agli occhi l’11,2%
composto da disoccupati (7,1) e persone in cerca di lavoro (4,1). In una realtà come quella
reggiana, caratterizzata da un tasso di disoccupazione bassissimo – intorno al 2,5%1 - quel dato
stride in modo inconciliabile con la storia e la coesione sociale di queste terre. Risulta pertanto
evidente che nel gruppo sociale affatto particolare rappresentato dai “malati di mente” vi è una
presenza significativamente maggiore di persone disoccupate o in cerca di lavoro. Ciò può
significare che quest’ultima condizione sociale – ma potremmo dire anche esistenziale – favorisce 1 I dati forniti dall’Assessorato provinciale alle Politiche del Lavoro registrano un tasso di disoccupazione medio, nel periodo 2000-2004, pari al 2,4%.
67
l’insorgere di “disturbi mentali”. Oppure, come io credo, nei confronti dei disoccupati – emblema
della contraddizione capitale-lavoro – scattano meccanismi di controllo sociale tendenti a svolgere
la funzione del “capitale latente”, vale a dire vincolare la forza-lavoro – o come in questo caso
l”esercito di riserva” – al territorio. In sostanza, come vedremo meglio in seguito, credo che la
psichiatria, con il suo corollario di “etichettamento nosografico”, non faccia altro che compensare
carenze strutturali nel governo degli uomini da parte del capitale - e quindi delle classi dominanti -
attraverso gli strumenti del mercato. In questo senso la psichiatria attua misura che possiamo
indubbiamente annoverare tra quelle biopolitiche.
Non è quindi un caso che, negli anni Duemila, un malato di mente su quattro sia un operaio.
Nell’era post-industriale – tanto decantata quanto incompresa – ci troviamo dinanzi ad una vera
“questione operaia” nell’ambito della salute mentale. Potremmo dire, con amara ironia, che fare
l’operaio non giova certo alla salute della mente. Con questo non intendo sostenere l’esistenza di
una relazione causale tra lo svolgere un certo mestiere e l’insorgere di patologie mentali. Se così
fosse, infatti, non solo cadremmo vittime d’una spirale deterministica, ma non comprenderemmo
la “ragione sociale” che sta alla base di quel dato incontestabile. Mi riferisco alla necessità di
ricondurre al terreno della presunta neutralità medico-scientifica le contraddizioni reali dell’uomo
e del contesto sociale che lo circonda. Il malessere esistenziale manifestato in misura nettamente
maggiore tra gli operai – anziché i liberi professionisti o i dirigenti – subisce un processo di
conversione dalla sfera sociale e soggettiva a quella medica ed oggettiva. Le responsabilità,
quindi, ricadono sul singolo individuo, addirittura sulla sua stessa “costituzione biologica”. Come
vedremo, è questo il miglior modo per preservare le relazioni sociali e di potere esistenti, sotto
forma di un diffuso controllo sociale, fluido e flessibile a tal punto da riuscire a governare ogni
“margine di soggettività”.
Un dato altresì rilevante è quello riferito alle casalinghe. Infatti, ben il 10,5% delle persone
curate nei CSM è donna e casalinga. Considerando che questo dato è calcolato sul totale del
campione, comprendente uomini e donne, possiamo affermare che circa una donna su cinque
dovrebbe svolgere il mestiere di casalinga in provincia di Reggio Emilia affinché quella
percentuale possa essere considerata, per così dire, “rappresentativa” della società. Al fin di
procedere ad un confronto più rigoroso, si è deciso di individuare le classi di età.
68
La tabella 6 si riferisce alle classi di età delle casalinghe affette da “malattie mentali”.
Casalinghe
2000 2001 2002 2003 2004 Tot. %
Classi di età
18-35 24 11 10 24 22 91 13,536-50 57 35 48 40 42 222 32,851-60 49 43 33 49 46 220 32,5>60 37 24 27 32 23 143 21,2
167 113 118 145 133 676 100
Ritengo che questi dati possano essere considerati tra i più rilevanti riscontrati sinora. Il fatto
che ben il 78,8% delle casalinghe affette da psicopatologie, curate presso i CSM della provincia di
Reggio Emilia, sia in età da lavoro, è qualcosa di estremamente significativo, poiché il tasso di
occupazione femminile, considerando la stessa base territoriale, è del 61,7%1.
Seguendo l’impostazione di Hollingshead e Redlich, si è deciso di indagare la composizione
sociale di alcune forme di disturbi psichiatrici.
La tabella 7 fornisce un quadro dell’incidenza di ciascuna psicopatologia.
2000 2001 2002 2003 2004 Tot./%Psicosi
schizofreniche208 206 222 222 212 1070
(16%)Nevrosi
depressiva426 369 407 462 423 2087
(31,1%)Disturbi della
personalità208 189 222 206 206 1031
(15,4%)Psicosi
distimiche205 190 207 190 193 985
(14,7%)Altre diagnosi (incl.rit.ment.)
111 94 108 90 103 506(7,55%)
Altre nevrosi 187 177 174 161 162 861(12,8%)
Psicosi organiche
(incl.demenze)
30 39 23 35 39 166(2,48%)
1375 1264 1363 1366 1338 6706
Si è quindi proceduto ad indagare la condizione professionale ed il livello di scolarità di
persone cui sono state diagnosticate patologie ritenute significative: la psicosi schizofrenica e la
nevrosi depressiva – si tratta di una distinzione simile a quella effettuata da Hollingshead e
Redlich in Classi sociali e malattie mentali. Sono invece state volutamente tralasciate le patologie
aventi una conclamata causalità biologica, quali appunto le psicosi organiche e simili.
1 Dati forniti dall’Assessorato provinciale alle Politiche del Lavoro di Reggio Emilia.
69
La tabella 8 riassume la composizione professionale delle persone affette da “Psicosi schizofrenica”.
Psicosi schizofreniche
2000 2001 2002 2003 2004 Tot. %
Disoccupato 37 38 39 33 42 189 19,5Operaio 42 42 37 60 47 228 23,5Invalido 28 14 25 23 10 100 10,3
Casalinga 12 16 25 23 20 96 9,9Pensionato 39 47 49 32 50 217 22,4
Lav.in proprio 10 8 5 9 8 40 4,12Impiegato 14 11 15 12 15 67 6,9Dirigente 0 0 1 0 0 1 0,1
Imprenditore 0 2 1 0 1 4 0,4Libero Prof. 0 0 1 0 2 3 0,3
Studente 1 4 8 7 5 25 2,58970 100
Quanto emerge da questi dati è di grande interesse. Infatti, risulta certo evidente come la
rappresentanza di ciascuna professione all’interno del quadro delle malattie mentali in genere –
riassunta nella tabella 5 – risulti significativamente modificata nel caso particolare delle psicosi
schizofreniche. Nel primo caso, disoccupati e persone in cerca di lavoro rappresentavano circa
l’11% del totale; tra le psicosi schizofreniche, invece, rappresentano quasi il 20%. La
rappresentanza degli invalidi è più che raddoppiata, restano invece sostanzialmente costanti i dati
riferiti a casalinghe, pensionati ed operai. Evidente è il dato riscontrato tra gli impiegati, che
vedono dimezzare la propria presenza tra le psicosi schizofreniche. Tuttavia, i dati più rilevanti si
hanno tra le professioni che conferiscono uno status sociale elevato. Infatti, la presenza di
dirigenti diminuisce di sette volte, quella dei liberi professionisti di cinque, di una volta e mezzo,
infine, quella degli imprenditori.
Tutto questo conferma che tra le psicosi schizofreniche la presenza delle classi sociali subalterne
o del tutto marginali – basti pensare al dato relativo ai disoccupati – assume tratti certamente più
marcati. Non credo possa trattarsi di un caso, piuttosto si delinea una relazione tra lo status sociale
di una persona e la risposta che la psichiatria fornisce nei confronti del disagio esistenziale e
sociale di quest’ultima, a partire dalla stessa diagnosi. Infatti, possiamo paragonare la “psicosi
schizofrenica” ad una sorta di contenitore vuoto, in cui è la “carriera morale” del “malato di
mente” a costituire la sostanza stessa della diagnosi psichiatrica. In sostanza, è estremamente
probabile che gli “schizofrenici” siano, più di altri “malati di mente”, poveri, disoccupati ed
emarginati socialmente.
70
La tabella 8 riassume la composizione professionale delle persone affette da “Nevrosi depressiva”.
Nevrosi depressiva
2000 2001 2002 2003 2004 Tot. %
Disoccupato 32 13 30 22 34 131 7,16Operaio 106 92 99 96 105 498 27,2Invalido 5 9 6 4 4 28 1,53
Casalinga 59 43 38 61 41 242 13,2Pensionato 85 71 90 87 84 417 22,8
Lav.in proprio
16 20 21 13 14 84 4,59
Impiegato 63 68 58 74 64 327 17,9Dirigente 2 7 3 8 4 24 1,31
Imprenditore 1 1 2 2 4 10 0,55Libero Prof. 8 5 4 8 7 32 1,75
Studente 5 7 5 9 12 38 2,081831 100
Il dato certo più rilevante che emerge da questa analisi è quello relativo ai disoccupati (annovera
anche coloro che sono in cerca di prima occupazione). Infatti, rispetto ad un’incidenza dell’11%
riscontrata tra le malattie mentali in generale, nel caso delle “nevrosi depressive” si scende intono
al 7% con una differenza di ben 12 punti rispetto all’incidenza rilevata tra le “psicosi
schizofreniche”.
Credo si possa affermare, nuovamente, che nei confronti della componente per definizione
marginale della società - vale a dire coloro che non sono parte attiva del processo produttivo –
vengono individuati, a fronte d’una condizione di sofferenza quale il disagio mentale, strumenti di
controllo e “governo” maggiormente stringenti. Credo pertanto che lo status socioeconomico
individuale concorra, in misura affatto rilevante, a determinare le “tappe successive” alla pubblica
manifestazione del disagio. E’ così possibile affermare che in una fase segnata da una risposta
“fluida” e “plurale” alle contraddizioni umane e sociali, la diagnosi assume una centralità
biopolitica ai fini del controllo sociale stesso. E’ infatti singolare che la “gerarchia” delle diagnosi
segua quella delle condizioni socioeconomiche. Questa tendenza viene confermata anche nel caso
delle cosiddette “altre nevrosi” che comprendono una percentuale di disoccupati pari all’8,5%,
con 74 casi su un totale di 861 diagnosi nel periodo 2000-2004.
71
La classe sociale della “marginalità”
Questa breve analisi, come anticipato, non avanza alcun carattere di esaustività, tutt’altro. Può
infatti essere considerata anche parziale, viziata negli esiti dalla sua stessa impostazione
“ideologica”. Credo tuttavia risulti preziosa per due ragioni principali, che si inseriscono a pieno
titolo all’interno della riflessione sul pensiero di Franco Basaglia. Innanzitutto, si muove da un
presupposto cruciale, e cioè che “tendenzialmente la psichiatria è sempre oppressiva, è un modo
di porsi del controllo sociale”1. Inoltre, “la psichiatria è fin dalla nascita una tecnica altamente
repressiva, che lo Stato ha sempre usato per reprimere i malati poveri, cioè la classe lavoratrice
che non produce”2. Si è pertanto avvertita come ineludibile l’esigenza di verificare oggi
l’attendibilità di un mandato sociale così stringente ed inequivocabile. Possiamo infatti
individuare in queste poche righe non solo la ragione precipua per la quale si è sottolineato con
forza il dato relativo ai disoccupati, ma anche la conferma del rilievo che la psichiatria assume nel
pensiero basagliano in qualità di tecnica del controllo sociale. Come spiegare, altrimenti, la
presenza così significativa dei disoccupati e la collocazione “marginale” della “malattia mentale”
– almeno quella visibile e stigmatizzata – in una provincia come Reggio Emilia che pure ha avuto
un passato a tratti glorioso in termini di critica della psichiatria? Come si è già detto, sarebbe un
grave errore affidarsi ad un principio deterministico sul piano psicosociale, poiché si
accrediterebbero istanze oggettivizzanti nei confronti dell’uomo e, inoltre, non si comprenderebbe
la “reazione” del potere a fronte delle proprie contraddizioni. Infatti, se la condizione di povertà
ed emarginazione è il segno più evidente ed intollerabile dell’iniquità dell’attuale sistema
economico e sociale, l’inserimento nel circuito del controllo psichiatrico di soggettività portatrici
di tali contraddizioni non è questione immediata e scontata. In tal senso, possiamo ritenere che
l’individuazione – potremmo persino dire la “creazione” – del “malato di mente” si situa al
confine tra la risposta soggettiva all’insostenibilità delle proprie condizioni sociali ed esistenziali,
e la necessità del potere di cristallizzare per poi gestire, ordinare, catalogare quell’eccesso di
umanità incontrollata ed irriducibile all’ordinarietà.
La seconda ragione a sottendere questa breve inchiesta è da ricercare nel metodo stesso che si è
intrapreso. Non si tratta minimamente di un mero formalismo; al contrario di un elemento
dirimente nel qualificare come politico soltanto il pensiero che si origina dal reale e, sulla base di
ciò, motiva e legittima istanze di cambiamento sociale. Non a caso fu il primo contatto con
l’ospedale psichiatrico a ricollocare le riflessioni basagliane su un terreno segnatamente politico
che, come abbiamo visto, parla della necessità di distruggere l’ospedale psichiatrico nei termini di
un fatto naturale se non semplicemente ovvio. Nelle pagine conclusive di Modernità liquida,
Bauman riprende la riflessione di Milan Kundera circa il compito del poeta, condividendone il
1 F. Basaglia, Conferenze brasiliane, p. 4, cit.2 Ibid. p. 6, cit.
72
messaggio politico: “Per il poeta scrivere significa abbattere il muro dietro cui si nasconde
qualcosa che ‘è sempre stata lì’”1. Possiamo affermare, all’interno del nostro discorso, che ad
essere “sempre stata lì” è la relazione stringente tra malattia mentale e miseria. Questo è vero
ancora oggi, in un’epoca in cui “occorre analizzare – spiegare e capire – i patimenti caratteristici
dell’ordine sociale che ha indubbiamente ridotto la grande miseria (sebbene a volte più a parole
che nei fatti), moltiplicando al contempo gli spazi sociali…offrendo condizioni favorevoli per la
crescita senza precedenti di ogni sorta di piccole miserie”2. E’ la diffusione di queste “piccole
miserie”, raffigurabili nella corrosione del carattere di coloro che sono maggiormente esposti alla
società del rischio e dell’incertezza, a segnare un rinnovato dominio sulle classi sociali subalterne
e, soprattutto, una sorprendente capacità di controllo da parte delle élite espressa tramite una
riduzione impolitica d’ogni forma di disagio e sofferenza. Per questa ragione, come afferma
Bauman, dobbiamo “abbattere i muri dell’ovvio e dello scontato, della moda ideologica
oggigiorno prevalente la cui stessa diffusione viene elevata a prova della sua sensatezza”. Se è
vero che non è nostro compito fornire giudizi perentori circa la scientificità del concetto di
malattia mentale – altro discorso è criticare l’uso politico che storicamente ne è stato fatto – è
altresì vero che non è possibile ignorare la “questione sociale” celata dall’ideologia psichiatrica, in
quanto verità che “è sempre stata lì”. Come ci ricorda Pierre Bourdieu in La misère du monde,
“Chiunque contribuisca, consapevolmente o meno, a occultare o peggio ancora a negare la natura
umana, non-inevitabile, contingente e alterabile dell’ordine sociale, e in particolare del tipo di
ordine responsabile dell’infelicità, è colpevole di immoralità, di omissione di soccorso a una
persona in pericolo”. Reputo queste parole capaci di esprimere, con raro ed intenso equilibrio, il
fine ultimo della politica, la ragione che condusse Basaglia ad operare la distruzione dell’ospedale
psichiatrico.
Abbiamo sostenuto in precedenza la necessità di giungere ad una riattualizzazione della
categoria politica “classe sociale”, partendo dalla “questione psichiatrica”. Innanzitutto, credo vi
siano due ragioni fondamentali per le quali il terreno della psichiatria possa risultare fertile da
questo punto di vista. La prima si riscontra nello storico intreccio della psichiatria con la povertà,
la miseria e, in particolare, la necessità del controllo sociale degli esclusi, che ne fa una sorta di
“posto di blocco” – tra i tanti – situato sul cammino delle classi subalterne. La seconda ragione,
invece, nasce da un tratto caratteristico del potere psichiatrico che, a mio avviso, assume oggi una
grande attualità. Mi riferisco al fatto che da sempre il potere esercitato dalla psichiatria nei
confronti dell’uomo – della sua unione di corpo e mente – ha generato in esso un senso di
inferiorità costitutiva, di vuoto esistenziale che, per riprendere le parole di Basaglia, ha ridotto
uomini e donne al di là della condizione umana. Non credo sia possibile immaginare che cosa
voglia dire per un uomo, o per una donna, avere la sensazione – che col tempo diviene opprimente
1 M. Kundera, L’arte del romanzo, 1986. 2 Z. Bauman, Modernità liquida, p. 254.
73
certezza - di non essere riconosciuti come tali. Primo Levi ci ha insegnato che l’uomo, in
circostanze degradanti e mortificanti, scivola nella terribile perdita di sé. E allora inizia un viaggio
interminabile, un’infinita sofferenza che, presto, assume i tratti del senso di colpa, della vergogna,
della rabbia nei confronti di se stessi poiché, da qualche parte, si annida l’insopportabile dubbio
che infondo vi sia una ragione a fondamento della sofferenza; una ragione che ha il nostro stesso,
severo e vigile sguardo. Fin qui il formidabile potere della psichiatria, la sua tremenda capacità di
squalificare l’uomo agli occhi di se stesso. Dov’è allora la connessione con le “classi sociali” del
XXI secolo? Indicativamente, sino alla fine degli anni Settanta, l’appartenenza ad una classe
sociale - borghesia o proletariato, gruppo dominante o dominato – era, in larga misura, ragione
d’identificazione politica. Vi era pertanto una consapevolezza del carattere storico e politico non
solo dell’appartenenza di classe, ma della stessa esistenza di quest’ultime quale simbolo
dell’ineguaglianza e dell’oppressione. Ed in virtù di questa consapevolezza venivano animate
istanze di emancipazione sociale e civile, rivendicazioni salariali, e così combattuta quella
“guerra” tra classe capitalistica e cittadinanza – intesa quale immagine socio-giuridica delle
rivendicazioni di classe – di cui parla Marshall. Oggi, resta ben poco di tutto questo; non perché
non esistono più le classi sociali – mai come negli ultimi anni le società del mondo sono state
polarizzate tra ricchi e poveri, oppressori ed oppressi – bensì perché è venuta meno la coscienza di
classe e con essa la capacità di leggere i processi reali in coerenza col proprio status sociale. E’ a
questo punto che incontriamo nuovamente il senso di colpa individuale verso un disagio
esistenziale – che comunque nelle condizioni materiali della vita affonda le radici. Infatti, se non è
più possibile scaricare le tensioni generate dal sistema dell’ineguaglianza nei confronti d’una
dialettica politica volta ad individuarne non solo le cause e le responsabilità ma anche le strategie
di liberazione, allora resta unicamente l’afflizione del proprio Io, il ripiegamento su se stessi e
sulla propria presunta quanto connaturata “inferiorità”, di cui la disuguaglianza sociale è
testimonianza più viva e, per questa via, innegabile. Pertanto, credo sia possibile affermare oggi
che il potere psichiatrico nell’individuare le “malattie mentali” – e le soggettività che le
esprimono in modo assolutamente indipendente da ogni schematismo nosografico – segua i
percorsi delineati dalle dinamiche dell’esclusione socioeconomica, a partire dai processi
intrapsichici che queste generano. La psichiatria, pertanto, assorbe, registra, riduce, normalizza le
contraddizioni del sistema capitalistico neoliberista muovendo non solo dalla mera coercizione dei
corpi esclusi, ma dal sostegno “scientifico” ai processi d’inferiorizzazione psicologica che degli
insuccessi in ambito socioeconomico si nutrono.
Credo pertanto che il potere psichiatrico fornisca un importante contributo – seppur
inconsapevole – all’interpretazione della “classe sociale” quale soggetto della trasformazione e
polo d’aggregazione di uomini e donne che, riconoscendosi eguali nella propria condizione di
oppressi, generano un movimento di opposizione e contrasto allo stato di cose presenti. Pertanto,
se in passato l’organizzazione piramidale della società non determinava, per chi stava alla base,
74
una condizione di stigmatizzazione sociale in quanto costante era il conflitto coi “vertici” e, per
questa via, l’orgoglio d’appartenenza alla classe, oggi, l’organizzazione reticolare e fluida della
società – la concentrazione senza centralizzazione di cui parla Sennett – stronca il conflitto sul
nascere, impedendo quel processo di soggettivazione politica. Pertanto, l’immagine capace di
restituire la condizione di subalternità, non è più quella della scala gerarchica o piramidale, bensì
ci è data da un movimento centrifugo che sbalza sino ai confini del sistema sociale uomini e
donne che rispetto a quello stesso sistema non assumono una condizione di “subalterna
funzionalità”, ma di vero e proprio corpo estraneo, alla stregua di un rifiuto da smaltire nel modo
più efficace possibile.
Oggi, dopo la chiusura dei manicomi nel nostro paese, è quindi fondamentale riaprire la
discussione circa le nuove tecniche psichiatriche di controllo sociale. Scrive infatti Basaglia, con
toni quasi profetici: “la proliferazione della marginalità oggi è molto alta. E’ molto più alta che
all’epoca in cui si costruirono i primi manicomi…Dunque il problema è che i tecnici devono
trovare mezzi diversi per controllare questi marginali, dato che comunque il potere deve rendere
produttiva l’improduttività…Il sistema del manicomio o della prigione non sono più adeguati,
occorre una nuova logica, una nuova visione, in sostanza un nuovo sistema di controllo per questa
società capitalistica che si sta trasformando”1. Se da un lato l’origine sociale dell’infelicità risulta
essere insopportabile per il segno classista con cui solca l’esistenza di uomini e donne, dall’altro
lato, la riduzione di tutto questo a problema di ordine e controllo sociale da appaltare a “tecnici”
ed “esperti”, suona come una sfida per tutti coloro che vogliono un mondo di liberi ed eguali.
2. Controllo sociale e paradigmi politico-economici
Discutendo di psichiatria in termini di scienza del controllo sociale, siamo chiamati ad
analizzare il concetto stesso di devianza. Nelle nostre società esiste una soglia di tollerabilità delle
devianze, coincidente con la sostanziale compatibilità dei comportamenti “anormali” nei confronti
del sistema economico e sociale capitalistico. Scrive Basaglia: “…nella nostra società industriale,
la definizione di norma proveniente da un’analisi della realtà quotidiana e, insieme, dalle
rispondenti definizioni teoriche, coincide esplicitamente con la produzione. Tanto che chiunque
ne resta ai margini risulta deviante”2. Viene qui affermata la dimensione intrinsecamente relativa
del concetto di devianza, a conferma che i valori di una società acquisiscono un significato
assoluto soltanto dopo la loro infrazione, individuando in quest’ultima il proprio momento
costituente. La norma è così stabilita dalla produzione, dalla messa a valore del lavoro vivo nei
modi e nelle forme corrispondenti alla massimizzazione del profitto e all’immediata
1 F. Basaglia, Conferenze brasiliane, pp. 50-51.2 F. Basaglia, L’obiettività del potere in La maggioranza deviante, p. 69.
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accumulazione. Potremmo dire, seguendo il ragionamento di Basaglia, che la norma – intesa quale
espressione riconosciuta di ordinarietà - è l’immagine socioculturale della produttività. Per questa
ragione è plausibile sostenere che l’individuazione del confine tra normalità e anormalità celi un
conflitto di potere dirimente nella costruzione dell’abnorme quale fenomeno da stigmatizzare e
respingere. Il terreno in cui avviene tale processo di inferiorizzazione della diversità è
segnatamente quello economico-produttivo; ne sono conferma decisioni politiche volte ad
umiliare e affliggere la “disabilità” in ambito lavorativo1. In sostanza, il limes tra normalità e
anormalità riflette rapporti di forza e di potere reali, soggetti pertanto ad oscillazioni, mutamenti e
nuovi equilibri che ridefiniscono storicamente l’immagine stessa dell’anormalità e la sua matrice
culturale nell’immaginario collettivo2.
La follia si inserisce dunque a pieno titolo tra le devianze, poiché, come abbiamo ricordato nel
precedente capitolo, il folle è colui che, specie in ambito economico e lavorativo, risulta essere
escluso per eccellenza. In questo contesto, la devianza della singola persona viene affrontata quale
fenomeno endogeno ed indipendente rispetto agli effetti che le relazioni sociali e di potere
esercitano su di essa. Tuttavia, la corrispondenza fra le caratteristiche socioeconomiche generali di
un sistema e le forme del controllo sociale che questo genera - tema che ha suscitato un’attenta
riflessione da parte di Basaglia specie nell’opera La maggioranza deviante – consente un’analisi
comparata e critica circa l’utilizzo della psichiatria ai fini del controllo sociale, ma anche una
radicale messa in discussione dei confini individuali della devianza. Tale percorso intreccia altresì
il ruolo ricoperto dai “tecnici” delle scienze umane nella costruzione di un “consenso repressivo”
all’interno delle democrazie capitalistiche. Per queste ragioni cercheremo di individuare le radici
politico-culturali che stanno alla base, per dirla con Basaglia, dei “crimini di pace”3.
A risultare necessaria è pertanto una riflessione introduttiva circa il concetto di devianza. La
prospettiva ricercata negli scritti basagliani attiene alla sociologia della devianza quale disciplina
che si occupa delle cause e delle modalità di espressione di tutti quei comportamenti che si
discostano da ciò che la maggioranza dei membri di un certo gruppo sociale ritiene opportuno. E’
mia convinzione che non esista un atto “di per sé” deviante, ma esiste sempre una definizione
sociale delle conformità e delle devianze sulla base di uno specifico sistema culturale e normativo.
Tuttavia, questo non significa che l’atto del “deviare” risulti unicamente come un fenomeno
eterodiretto, infatti, conserva sempre una soggettività che emerge da una condizione di
1 Il governo Berlusconi ha previsto, nel dlgs 276/03 (art.13 e art.14) attuativo della Legge 30 sulla riforma del mercato del lavoro, un trattamento salariale e contrattuale dei lavoratori disabili in deroga rispetto al contratto collettivo nazionale di riferimento, motivandolo con esigenze di produttività e competitività delle imprese. 2 Nel saggio Il mostro il peccatore e l’anormale, Guido Giarelli fornisce una lucida lettura storico-antropologica del concetto di anormalità, incentrata sulla costruzione socioculturale della figura del “diverso” che, di volta in volta, assume tratti funzionali alla società nei confronti del governo e della strumentalizzazione del fenomeno “deviante”. 3 Crimini di pace è il titolo dell’opera curata da Franco Basaglia in collaborazione con Franca Onagro Basaglia e pubblicata da Einaudi nel 1975. Si tratta di una raccolta di testimonianze che costituiscono una ricerca a più voci sul ruolo dell’intellettuale e del tecnico come addetti all’oppressione, come custodi di istituzioni violente.
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irriducibilità alle ingiustizie del presente1. Credo pertanto ci si debba rivolgere alla devianza non
solo rifiutando l’impostazione positivistica2 - tendente ad imputare unicamente al soggetto
tensioni e responsabilità sistemiche – ma altresì rifiutando l’idea che possa esistere una relazione
causale tra ”essere devianti” e ricoprire un particolare status sociale. Piuttosto, considerando le
relazioni sociali proprie di un sistema capitalistico, credo si possa parlare di “devianza necessaria”
quale elemento strutturale a quest’ultimo e anzi definito dai meccanismi di controllo sociale stessi.
Non essendo possibile considerare la devianza quale mera espressione soggettiva, poiché
l’insieme di conseguenze derivanti dalla violazione di norme o indicazioni dominanti soverchia e
finanche costituisce l’atto deviante, ne discerne che il giudizio di valore - e quindi morale – che
sottende la punizione della devianza assume una collocazione centrale nel nostro discorso3. L’atto
del “deviare” implica necessariamente azioni stigmatizzanti e discriminanti sul piano sociale che
evidenziano tutti i limiti dell’approccio che potremmo definire “maggioritario” in quest’ambito.
Infatti, il deviante non è semplicemente colui che si distingue rispetto ad un contesto segnato dalla
presenza, più o meno forte e definita, di norme maggioritarie, ma è colui che nel distinguersi non
esita a mettere in discussione la legittimità del sistema politico, economico, sociale e valoriale in
cui si trova. La figura del deviante, specie se osservata dal punto di vista del “guardiano”
dell’ordine costituito, non rappresenta la negazione del sistema presente, bensì l’anticipazione del
possibile tramite la messa in discussione delle contraddizioni del sistema4.
Scrive Basaglia in Psichiatria e giustizia: “In una società divisa in classi, malattia e devianza
della classe subalterna diventano altra cosa da ciò che sono e l’unica risposta non può che essere
la repressione, sotto mistificazioni più o meno mascherate, perché ciò che determina la natura
1 Si potrebbe aprire una discussione circa l’effettiva volontarietà e “consapevolezza politica” del deviante. Credo che, fatto salvo ogni singolo caso, risulti piuttosto difficile, forse addirittura ideologico, cercare di dare una risposta. Pertanto, ritengo che questa disputa possa essere messa tra parentesi, al fine di concentrare l’attenzione su ciò che la società fa delle devianze e, soprattutto, sul modo in cui vengono individuati e trattati i devianti. Credo pertanto che le cause delle devianze siano molteplici, soggettive e sistemiche insieme, ma ciò che più conta è la collocazione politica delle devianze stesse, ovvero la lettura della loro funzionalità al fine di comprendere le forme e i modi di una possibile soggettivazione ed organizzazione dei “soggetti devianti”. 2 Tale impostazione è emblematicamente riassunta dalla scuola criminale positiva di C. Lombroso (1835-1909) pone l’accento sui caratteri biologici dei comportamenti devianti. I comportamenti criminali e folli sarebbero cioè il risultato di una predisposizione organica e di impulsi congeniti, da combattere, quindi, o con interventi di prevenzione oppure con provvedimento cautelativi, che pongano dei limiti alle possibilità di questo soggetti di fare danni sociali più gravi. Importante, dunque, è l’utilizzo degli indicatori scientificamente individuati per poter parlare di azioni di tipo preventivo”, da Devianza e controllo sociale, di Bianca Barbero Avanzino, Franco Angeli, Milano, 2002. 3 Con questa affermazione non si intende mortificare la soggettività insita nell’azione deviante – e quindi finanche la sua volontarietà – bensì rafforzare la consapevolezza che l’immagine sociale del deviante è sempre costruita, mediata, mai realmente libera di esprimersi in quanto funzionale al mantenimento dei perversi “equilibri dell’ineguaglianza” del sistema capitalistico. 4 R. Castel in L’ordine psichiatrico, Feltrinelli, Milano, 1980, afferma che la follia ha lanciato una sfida alla società nata dalla caduta dell’ancien régime; e questa sfida è stata colta. Questa sarebbe una delle ragioni per cui la legislazione relativa agli alienati in Francia (1838) anticipa di cinquant’anni tutte le altre misure di sicurezza. Il pazzo è infatti la figura generalizzata dell’asocialità: non trasgredisce una legge precisa come il criminale ma può violarle tutte. Riattiva l’immagine del nomade errante che minaccia tutte le regole che presiedono all’organizzazione sociale e produttiva. Castel rifiuta quindi un’interpretazione che giustifichi l’assistenza agli alienati in base alla necessità di recuperare una forza lavoro. La follia si configura, sostanzialmente, come un rifiuto dei valori borghesi di ordine, disciplina, polizia, prevedibilità dell’amministrazione e del governo.
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della risposta non è la natura del bisogno, ma la classe di appartenenza di chi lo esprime” 1. Questo
breve passaggio sottolinea alcuni aspetti cruciali nell’attribuire alla scienza psichiatrica una mera
funzione di controllo. Innanzitutto, vi è il dato incontrovertibile della presenza di una società
divisa in classi, organizzata cioè in modo asimmetrico tra i suoi membri a seconda del ruolo
ricoperto nella divisione del lavoro. Il secondo elemento, vale a dire la realtà della malattia quale
fenomeno tangibile di fragilità dell’uomo, genera, assieme al primo, una contraddizione insanabile
poiché differente è la risposta fornita per ciascuna classe sociale a fronte di un bisogno dal
carattere eminentemente universale, quale appunto la malattia. In queste poche righe Basaglia
pone in evidenza una delle principali contraddizioni del processo di modernizzazione, e cioè il
limite posto dagli interessi particolari all’universalità dei diritti. Questo è palese specie nei diritti
sociali, di cui il diritto alla salute è punto cardine. Infatti, i bisogni della classe subalterna – quali
ad esempio l’assistenza sociale o sanitaria – vengono mistificati e ricondotti ad un livello culturale
e sociale regressivo, caratterizzato dalla de-costruzione di quella stessa sofferenza e dalla sua
ricomposizione in chiave ideologica, cioè falsificata. Ricorda Basaglia in L’ideologia della
diversità che “le idee dominanti sono le idee della classe dominante, la quale non tollera elementi
che non rispettino le sue regole”; e le regole della classe dominante si riassumono nella
“pericolosità sociale” del malato di mente, cioè di colui che è irriducibile alle leggi di mercato a
cominciare dalla presunta razionalità degli “attori economici”.
Il nostro sistema, infatti, è fondato su una logica economica che non soddisfa i bisogni di tutti –
si produce per coloro che possono acquistare, non per soddisfare i bisogni umani – e, di
conseguenza, tutto ciò che si situa, per qualsiasi ragione, all’esterno del circuito della produzione
e dello scambio capitalistico subisce un’azione di esclusione e di controllo 2. Sono le forme di
questo controllo che, specie in ambito psichiatrico, necessitano di essere storicizzate e
denaturalizzate.
La patologizzazione della diversità
L’opera La maggioranza deviante, pubblicata nel 1971, nasce da un soggiorno negli Stati Uniti
che Franco Basaglia effettua in qualità di visiting professor al Maimonides Hospital di Brooklyn -
istituzione inserita nel quadro della programmazione Kennedy per i malati e i ritardati mentali.
Come abbiamo accennato, si tratta di un’opera che a partire dalla componente improduttiva della
società - studenti, hippies, malati e inabili sociali, vecchi e bambini - delinea i confini di una
devianza generalizzata, addirittura maggioritaria all’interno del sistema capitalistico statunitense
di fine anni Sessanta. L’ideologia che governa il controllo e la gestione di questa “frangia” -
marginale nel quadro delle relazioni economiche e negli assetti di potere tuttavia maggioritaria
1 F. Basaglia, Psichiatria e giustizia, in Scritti vol. II, p. 233.2 Z. Bauman parla di Vite di scarto (2005) riferendosi a tutti coloro che, a seguito della diffusione su scala globale dei processi di modernizzazione, vengono privati dei loro modi e mezzi di sopravvivenza. I reietti, i rifugiati, gli sfollati, i richiedenti asilo vengono annoverati da Bauman tra i “rifiuti” della globalizzazione.
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nella dimensione sociale - rappresenta il tema del volume curato da Franco Basaglia in
collaborazione con Franca Ongaro Basaglia.
Come afferma nella Lettera da New York1, Basaglia è negli Stati Uniti per leggere il nostro
futuro politico ed istituzionale; infatti, la nuova legislazione americana in campo psichiatrico 2 è
espressione di un paese ad alto livello tecnologico caratterizzato da sensibili mutamenti economici
e sociali, vale a dire d’una fase di sviluppo del sistema capitalistico che, nel 1969, è ancora
lontana dalla realtà italiana3. Il punto nevralgico sollevato da Basaglia - e rintracciabile anche
nelle riflessioni sulla comunità terapeutica – concerne i rischi, di carattere politico e sociale,
impliciti in forme soft di istituzionalizzazione psichiatrica. Scrive Basaglia: “Qui – sotto una
stessa legge che le informa – agiscono contemporaneamente in modo complementare le
istituzioni della violenza, con il loro significato esplicitamente esclusorio discriminante e
distruttivo, e le istituzioni della tolleranza che, attraverso il nuovo concetto della psichiatria
sociale e comunitaria e l’interdisciplinarietà, tendono a risolvere tecnicamente i conflitti sociali.
Le prime, ancora esplicitamente deputate all’esclusione degli elementi di disturbo sociale; le
seconde, al riadattamento della sempre più vasta fascia di “marginali” che questo sistema socio-
economico continua a produrre”4.
Questa nuova organizzazione dell’assistenza psichiatrica nasce da un’ideologia
multidisciplinare chiamata a fornire risposte alle esigenze del sistema economico e sociale a
fronte di sensibili mutamenti. E’ tale multidisciplinarietà a consentire il governo della
“maggioranza deviante”, poiché i saperi messi in atto contribuiscono a frammentare, dividere e
ordinare soggetti portatori di possibili istanze di emancipazione sociale. Come afferma
Basaglia,”è nel momento in cui la miseria incomincia a reclamare i suoi diritti che si dà l’avvio a
un’operazione tesa a individuare e separare le diverse voci che la popolano, per non rispondere
alla globalità di quel grido…”5. Per fronteggiare la forza straripante della maggioranza
improduttiva – e il suo potenziale distruttivo verso l’ordine esistente – è quindi fondamentale
dividere, selezionare, settorializzare gli ambiti d’intervento, ma per fare questo è necessario
mettere in campo saperi ed esperienze, scienze umane e sociali pronte ad adempiere ad una
funzione “normalizzatrice” laddove si individua l’eccezione, il folle, lo strappo alla regola, al fine
di tutelare, difendere e preservare l’ordine esistente.
1 F. Basaglia, Lettera da New York: il malato artificiale, in Scritti vol. II. 2 La riforma assistenziale del 1963, fortemente voluta dal Presidente Kennedy, vede nelle unità psichiatriche territoriali l’espressione diretta di un tentativo orientato a risolvere tecnicamente la le contraddizioni della realtà su cui opera. Queste unità psichiatriche non entrano in conflitto con le istituzioni della violenza - prime fra tutte i manicomi - poiché agiscono in sinergia con quest’ultime. 3 “Un paese in cui aborto e divorzio erano proibiti, in cui i tentativi di sovvertimento autoritario erano all’ordine del giorno, in cui fabbriche, scuole, università, ospedali, carceri, manicomi erano gestiti spesso in modo ottocentesco non poteva accogliere la sfida di uno sviluppo economico a cui gli apparati sociali e istituzionali del dopoguerra stavano già stretti”. Alessandro Dal Lago, in La produzione della devianza, Ombre Corte, Verona, 2000, p. 10, cit.4 F. Basaglia, Lettera da New York: il malato artificiale, in Scritti vol. II, p. 97. 5 F. Basaglia – Franca Ongaro Basaglia, Follia/Delirio, p. 413.
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Il livello di sviluppo capitalistico raggiunto negli Stati Uniti, già nel corso degli anni Sessanta,
impone una ricollocazione del variegato mondo dell’improduttività. Ciò significa che le
soggettività esterne al circuito della produzione e dello scambio capitalistico devono esservi
inserite in modo coatto – seppur in un quadro di falsa tolleranza – al fine di tramutare in oggetti
passivi della riorganizzazione economica uomini e donne relegati strutturalmente nella
marginalità. In un paese dove la spinta propulsiva allo sviluppo economico del secondo dopo
guerra ha lasciato il campo alle contraddizioni sociali generate da quello stesso boom economico,
le classi dominanti – il gruppo centrale nella geografia del potere – avvertono l’attualità d’una
riflessione circa le fasce marginali, ancora lontane dal centro ma non per questo meno minacciose.
Ecco che a seguito della legge Kennedy del 1963 si assiste “all’assorbimento nel ciclo produttivo
delle fasce di marginali che prima ne risultavano escluse, consentendo e assicurando il loro
controllo sociale, come controllo tecnico”, come afferma Basaglia.
E’ importante notare come l’azione di controllo sociale, nella lettura basagliana della società
nordamericana di fine anni Sessanta, necessiti di una mediazione dell’apparato tecnico-produttivo.
Il controllo non si esercita più, quindi, soltanto attraverso l’azione repressiva delle istituzioni
totali quali carceri e manicomi, bensì in modo più capillare e cifrato, fluido e invisibile. Il
controllo è ora insito nei meccanismi di organizzazione e riproduzione materiale della società, a
partire dai processi economici. Basaglia sottolinea che “ è impossibile – in quanto non necessario
al capitale – adeguare un livello di sviluppo ad uno in cui le nuove ideologie tecnico scientifiche
operano in risposta a particolari esigenze socio-economiche, come loro corrispondente
razionalizzazione”1. E ancora: “Se si tende a rompere il rigido legame fra l’ideologia medica e la
legge, per creare un nuovo tipo di interdisciplinarietà con altre scienze umane, la finalità di questo
spostamento non è il miglioramento della vita e delle condizioni dell’uomo, ma la scoperta di un
nuovo tipo di produttività e di efficienza che riesce a sfruttare anche l’inefficiente o
l’improduttivo o a trovargli un nuovo ruolo”2. Basaglia coglie quindi la peculiarità di un contesto
in cui la sussunzione della vita reale al capitale è penetrante a tal punto da mettere a profitto la
“cura” di comportamenti giudicati “anormali”. Scrive J. Ruesch: “La popolazione moderna è
formata da un gruppo centrale che comprende governo, industria, scienza, ingegneria, esercito e
istruzione. Attorno a questo nucleo ruota un cerchio di consumatori di beni e di servizi,
organizzati da chi sta al centro. Alla periferia si trovano poi i marginali che non hanno alcuna
funzione significativa nella nostra società…”3. E’ tra queste soggettività marginali – contestatrici
nei confronti del sistema con la forza della propria mera esistenza – che è possibile scorgere il
“tipo ideale” di deviante, vale a dire colui che soltanto attraverso un inserimento pianificato nel
business del controllo sociale può incontrare un’apparente riabilitazione sociale.
1 F. Basaglia – Franca Ongaro Basaglia, L’ideologia della diversità, in La maggioranza deviante, p. 22.2 Ibidem, p. 30.3 L’abito stretto, in La maggioranza deviante, p. 12.
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Nel testo L’ideologia della diversità, il fenomeno delle devianze viene considerato come
cruciale e decisivo per i paesi industrializzati. Basaglia precisa che si tratta di un fenomeno ancora
non esploso in Italia, ma che tuttavia “viene importato nella nostra cultura come tema ideologico
di un problema altrove reale”1. Infatti, alla fine degli anni Sessanta, in Italia il problema del
deviante – inteso come colui che si trova al limite o al di fuori della norma – è ancora ricondotto
all’ideologia medica o giudiziaria. Potremmo affermare che dietro la trasposizione del rifiuto di
valori relativi - quali appunto le norme sociali - dalla dimensione soggettiva al terreno medico o
penale dell’originaria abnormità, si erge una forma dura e violenta di controllo sociale, incentrata
sull’azione disciplinare delle istituzioni totali. Lo stigma dello psicotico e del delinquente domina
pertanto le dinamiche d’un controllo rigido e arcaico corrispondente ad una fase sostanzialmente
arretrata di sviluppo del capitalismo.
Nel corso della sua permanenza negli Stati Uniti, Basaglia coglie immediatamente, già nella
Lettera da New York2, il carattere totalizzante raggiunto dal sistema capitalistico nordamericano.
In un contesto segnato dall’esplosione di contraddizioni insanabili, le classi dominanti hanno
compreso che la morbilità può diventare, nei confronti della produzione e dell’economia, un
fattore straordinario di propulsione. L’Italia, invece, appariva a Basaglia culturalmente ancorata
ad una costruzione ideologica della diversità quale condizione imprescindibile della
discriminazione e della segregazione. La de-qualificazione sociale e finanche morale era dunque
elemento irrinunciabile per dominare fisicamente i corpi degli psicopatici e dei delinquenti e, in
particolare, per inferiorizzare nell’immaginario collettivo il valore della loro stessa “abnorme”
esistenza, oramai ridotta a mera questione di ordine pubblico, poiché “pericolosi socialmente e di
pubblico scandalo”3.
Tutto questo viene apparentemente superato negli Stati Uniti attraverso un approccio
multidisciplinare - che vede principalmente la sociologia affiancare la disciplina medico-
1 Basaglia è particolarmente attento al tema del dominio ideologico delle culture subordinate, che partecipano con un ruolo marginale al sistema politico-economico generale da cui sono determinate. Ne La malattia e il suo doppio, Basaglia considera apertamente il tema della colonizzazione culturale affermando: “A gradi diversi di sviluppo socioeconomico corrispondono, infatti, gradi diversi di sviluppo nella cultura ad esso rispondente; come dire che problemi nati sul terreno pratico in paesi ad alto livello tecnologico, vengono assunti quali temi originariamente artificiali in paesi socioeconomicamente meno sviluppati”, in Scritti vol. II, p. 127. 2 Lettera da New York fu scritta da Basaglia nel 1969 al suo arrivo negli Stati Uniti. Significativi risultano i due passi seguenti, coi quali si apre e si chiude la lettera: “Il mio interesse per questi tipo di esperienza nasce dal fatto che essa risulta l’espressione della nuova legislazione in campo psichiatrico – la legge Kennedy del ’63 che prevedeva piccole unità psichiatriche a diretto contatto con la comunità – di un paese ad alto livello tecnologico che rappresenta concretamente il nostro futuro politico e istituzionale”. Infine: “Gli Stati Uniti ci prevengono, con il loro sviluppo tecnologico, suggerendo soluzioni tecnico-istituzionali per ogni problema sociale, così da ridurre gradualmente ad una enorme istituzione tollerante, sottilmente controllata, l’intera società”. 3 L’articolo 1 della legge 14 febbraio 1904, n. 36 recita: “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano o non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi…”. La presunta pericolosità sociale del malato di mente ha a lungo rappresentato – e in parte rappresenta ancora – la ragione politica e giuridica capace di consentire e legittimare provvedimenti volti alla limitazione delle libertà personali.
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giudiziaria in chiave ideologica1 - al controllo e alla gestione della violazione delle norme sociali.
Il risultato ottenuto viene definito da Basaglia come “controllo totale”, ovvero un’azione capace di
penetrare ogni ambito della vita sociale attraverso una sistematica patologizzazione della
diversità. E’ come se nella percezione comune venisse eclissata l’idea stessa della legittima
esistenza d’una diversità irriducibile allo status quo. L’assolutizzazione delle norme sociali
racchiude una sorta di sanzione originaria; tuttavia, è questo un processo che necessita,
parallelamente, dell’oggettivazione “tecnica” della “diversità” per giungere a compimento2. E’ in
questi termini che bisogna leggere il concetto di “patologizzazione” della diversità, ovvero sotto
forma di mediazione tecnico-scientifica di una data alterità politica e sociale. Non potendo infatti
approdare immediatamente ad un giudizio discriminante sul piano politico e valoriale, il potere
ricorre alla presunta neutralità della scienza – e quindi alla relazione di dominio che caratterizza
ogni forma di sapere – al fine di screditare socialmente il “diverso” minandone così la credibilità
del “potere di voce” in seno alla società.
Le pratiche di controllo sociale individuate da Basaglia negli Stati Uniti - seppur ancora in una
fase iniziale sul finire degli anni Sessanta -, segnano indubbiamente uno scarto significativo
rispetto alla fase “panoptica” dei sistemi di controllo sociale. La ragione di ciò credo sia
individuabile nella composizione sociologica delle cosiddette società post-industriali e post-
moderne e nel paradigma economico e sociale neoliberista che le accompagna. Il dominio della
cosiddetta improduttività, che Basaglia notava già negli Stati Uniti di fine anni Sessanta, è giunto,
nel corso degli ultimi due decenni, anche in Italia. La realtà statunitense, descritta ne La
maggioranza deviante, non è solo segnata dalla riorganizzazione delle forme di controllo sociale a
fronte di determinati mutamenti. C’è qualcosa di più, si tratta di forme di potere che seguono rotte
differenti rispetto al passato, delineando nuovi scenari di organizzazione economica e politica
funzionali alla ridefinizione dei rapporti tra classi sociali. La frammentazione territoriale delle
pratiche di controllo psichiatrico riflettano un mutamento assai profondo e paradigmatico delle
“forme di potere e di relazioni sociali”. Credo sia infatti possibile leggere in continuità le
trasformazioni avvenute in ambito economico-produttivo, a partire dal superamento del taylor-
fordismo, e quelle relative alle forme di potere psichiatrico e al controllo sociale in generale. Allo
stesso modo in cui la grande fabbrica fordista – caratterizzata da mastodontici stabilimenti
burocratizzati, rappresentata socialmente dalla figura dell’operaio-massa – si è dissolta e
frammentata sul territorio, il manicomio - istituzione totale rigida e colossale - si è disperso nei
1E’ importante sottolineare che i termini “discipline” ed “ideologie”, spesso affiancati nel corso del testo, attengono a campi semantici differenti. Infatti, le prime sono espressione di saperi e forme di conoscenza spesso contraddittorie, incomplete ma pur sempre in continuo divenire storico. Le ideologie invece, almeno nel senso marxista del termine con cui ci identifichiamo, rappresentano una mistificazione politica della realtà che genera una “falsa coscienza” degli uomini. E’ quindi sempre presente uno scarto tra le discipline e le ideologie, dato dall’autonomia dei “saperi” e dell’intelligenza umana da un lato e dal controllo politico – e quindi dai rapporti di potere – dall’altro. 2 L’elemento che sopravvive al declino dell’”ideologia della diversità” è infatti il determinismo di fondo che inabilita, secondo diverse forme, uomini e donne vittime della neutralità dei (pre)giudizi “tecnici”.
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mille rivoli di un controllo sociale reticolare che individua nell’illeggibilità dei propri processi un
tratto fondamentale.
Richard Sennett, nell’opera L’uomo flessibile1, per spiegare le caratteristiche e gli effetti della
riorganizzazione postfordista sul “governo” della forza lavoro, parla di “concentrazione senza
centralizzazione”. Ritengo questa immagine calzante nel riassumere il legame tra la
riorganizzazione del lavoro nelle fabbriche e le forme della nuova assistenza psichiatrica. Scrive
infatti Sennett: “La struttura rimane intatta nelle forze che spingono gli individui o le unità verso
determinati scopi; quella che viene lasciata libera è solo la scelta dei modi per raggiungere gli
obiettivi…La “concentrazione senza centralizzazione” è un modo per trasmettere gli ordini in una
struttura che non ha più la semplicità di una piramide…Nelle organizzazioni moderne che
praticano la concentrazione senza centralizzazione, il controllo dall’alto non è solo saldo, ma è
anche privo di un volto”2. L’immagine della “centralizzazione” può essere indubbiamente
ricondotta alle istituzioni totali, all’imponente presenza degli asili per alienati, capaci di scandire
il tempo degli internati e strutturare i luoghi e le forme delle relazioni al loro interno. E’ il
progetto del Panopticon che J. Bentham pubblica nel 1791, ovvero una struttura carceraria che,
parafrasando Foucault, fa dei prigionieri “oggetti di informazione piuttosto che soggetti di
comunicazione”3. Le innumerevoli annotazioni mediche circa la condotta degli internati sono così
la testimonianza di ciò che potremmo definire “fame di scritturazione”, finalizzata a generare
effetti permanenti della sorveglianza che conduce i detenuti ad una “situazione di potere di cui
sono essi stessi portatori”4.
La disciplina psichiatrica tradizionale – caratterizzata dalla costante ricerca d’una relazione di
causalità organica capace di spiegare l’incomprensibilità della follia – necessita di una struttura
istituzionale alla quale appoggiarsi. L’anormalità, l’eccezione, deve essere isolata, relegata ai
margini, a partire dal piano fisico e geografico; l’intento è quello di restituirne un’immagine
d’irriducibile alterità ai valori moralmente apprezzati della norma. Questo è il principale limite
delle forme di controllo sociale corrispondenti all’ideologia della diversità, vale a dire l’essere
ancorata ad un luogo limitato, definito e irreggimentato. Tale modello risulta connaturato ad un
potere disciplinare che tende al controllo minuzioso della vita degli individui. E’ questa forma di
1 R. Sennett, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, 1999 (titolo originale The corrosion of character). Si tratta di una lucida analisi circa le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale. Secondo Sennett il “capitalismo flessibile” manifesta una progressiva corrosione del carattere delle persone, le cui caratteristiche di stabilità, durata e permanenza sono in contrasto con la dinamicità, frammentarietà e mutevolezza dei nostri tempi. 2 R. Sennett, L’uomo flessibile, pp. 55,56.3 “La struttura del Panopticon è semplice: si tratta di una costruzione ad anello divisa in celle separate fra loro da un muro e dotate ciascuna di due finestre, una che dà verso l’esterno e che permette alla luce di attraversarla, l’altra rivolta verso il centro dell’edificio, dove si trova una torre di controllo tagliata da grandi finestre. E’ sufficiente un solo guardiano per tenere sotto sorveglianza ogni occupante delle singole celle, dato che la luce gli permette di occuparle una ad una. Chi è rinchiuso, invece, è messo in condizione di non vedere né il sorvegliante, posto opportunamente fuori dalla sua portata, né gli altri detenuti, dai quali appunto lo separa un muro”. S. Catucci, Introduzione a Foucault, Bari, Laterza, 2000, p. 103. 4 Ibidem, p. 104.
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potere a dominare all’interno delle istituzioni totali e, anzi, ad individuare in quest’ultime i luoghi
deputati per eccellenza alla propria realizzazione. Afferma Foucault che la disciplina è
“un’anatomia politica del dettaglio”, un sistema che regola momento per momento il tempo e
l’opera degli uomini e che pertanto fa della cura infinitesimale dei dettagli la propria strategia;
allo stesso modo in cui l’istituzione totale opera un tentativo di ridefinizione del Sé delle persone.
Tutto questo sembra scomparire all’orizzonte dell’organizzazione economica e sociale
postfordista e post-industriale, travolto da flessibilità, mobilità, rischio, smantellamento
dell’assistenzialismo e talvolta della stessa presenza dello Stato. Tuttavia, come afferma Sennett,
ciò che resta è la “concentrazione” e, aggiungiamo noi, la necessità di fare di quest’ultima uno
strumento di potere e di controllo adeguato al “capitalismo flessibile”. All’interno del nostro
discorso possiamo pertanto intendere con il termine “concentrazione” l’idea che, nonostante il
crollo delle istituzioni totali e delle loro organizzazioni piramidali, permane attualissima la
questione della centralità del controllo sociale. Infatti, ad essere libera è soltanto la scelta dei modi
attraverso cui giungere a tale obiettivo, il resto è ricondotto all’ideologia della tolleranza che
frammenta e disperde capillarmente sul territorio le pratiche del controllo stesso.
Ad entrare in crisi non è il principio della manicomialità in quanto tale, ma l’applicabilità delle
forme storiche assunte dal controllo psichiatrico ad una società in rapida trasformazione.
L’elemento qualificante della post-modernità è riscontrabile nella fluidità delle relazioni sociali e
politiche, nella loro continua reversibilità e adattabilità non solo ai contesti ma anche alla
contingenza delle esigenze politiche ed economiche in conseguenza del declino delle
organizzazioni di massa e delle “gabbie d’acciaio” che queste rappresentavano per i singoli
individui. Se a questo si aggiunge lo straordinario livello di coscienza e di lotta che i cosiddetti
movimenti “antiistituzionali” hanno assunto in alcuni paesi nel corso degli anni Sessanta e
Settanta – specie in Italia – è facile comprendere le ragioni storiche del declino degli ospedali
psichiatrici.
La realtà che Basaglia incontra a New York nel 1969, tuttavia, è ben lungi dall’accogliere un
processo di negazione istituzionale. Il manicomio continua ad ergersi imponente e minaccioso, è
ancora emblema del potere assoluto che solo l’incontro tra tecnica e politica può sviluppare; è
l’essenza stessa del potere, ovvero un luogo dove domina l’”eccezione permanente” che
impedisce all’uomo ogni dialettica virtuosa tra sé e il mondo, lo spazio e il tempo. Tuttavia, agli
albori della società post-industriale, questo modello appare obsoleto, inefficace ai fini del
controllo sociale e finanche dannoso per l’immagine stessa della politica – e quindi del consenso
all’interno delle “democrazie di mercato” - a causa delle continue critiche della società civile e dei
movimenti studenteschi in particolare. Queste le ragioni sociali, politiche ed economiche che
secondo Basaglia motivano l’attuazione della legge Kennedy del 1963. Non vi è più un’infinità di
istantanee del dolore, della sofferenza, del sopruso, poiché la visibilità dei luoghi capaci di
originare e racchiudere un sentimento profondo di ribellione naturale all’ingiustizia e alla violenza
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viene occultata. Quest’ultime esistono ancora, ma sono tuttavia ricollocate e rimodellate alla luce
di una “falsa tolleranza” che, assieme ad una generica filantropia, egemonizzano il discorso
pubblico. Il potere politico genera un’ideologia che, nel contrastare l’onda d’urto delle
contestazioni civili e sociali della psichiatria, rilancia la questione del “controllo totale” dell’intera
società. La “maggioranza deviante” è soprattutto questo, ovvero una reazione delle classi
dominanti presentata quale innovazione “tecnica” e nuova frontiera dell’assistenza psichiatrica. In
sostanza, sul finire degli anni Sessanta, si origina nel santuario stesso del capitalismo un processo
di riforma finalizzato a disinnescare alla radice le contestazioni civili e sociali che investono la
psichiatria e i sistemi di controllo in generale. La strada individuata consiste nell’oscurare il
conflitto sociale – e le istanze di emancipazione che lo animano – tramite una repressione latente e
mascherata d’ogni forma di dissenso e disagio sociale. Viene pertanto operata un’azione di natura
strettamente culturale oltre che politica, capace di piegare il crescente senso di insicurezza
collettiva alla causa delle classi dominanti. Ecco che il deviante – figura sociale comprendente
anche i delinquenti e gli psicopatici in quanto appartenenti alla più ampia classe degli
“improduttivi” – viene dipinto quale minaccia alla stabilità dell’ordine costituito e, in primo
luogo, al diritto di proprietà e al godimento di privilegi legati a quest’ultimo.
Scrive Basaglia: “Lo stigma generico di devianza si trova quindi a sostituire quello più specifico
e più violento di psicopatia-delinquenza. I rigidi parametri della scienza medica vengono
ammorbiditi dall’ingresso in campo delle cosiddette scienze umane, che non modificano però
l’essenza del fenomeno…”1. E’ così che nasce la risposta plurale, differenziata, capace di
intercettare larghe fasce di popolazione, sino a giungere al paradosso della “maggioranza
deviante” o potenzialmente tale. Questo è esattamente ciò che richiede il livello di sviluppo
socioeconomico statunitense di fine anni Sessanta, vale a dire non solo la capacità di “prendere in
consegna l’improduttivo”, ma soprattutto di saperlo individuare e costituire tramite processi di
stigmatizzazione. Non a caso Basaglia parla apertamente di stigma, ossia di un segno che viene
associato agli aspetti inconsueti e deprecabili della condizione morale di chi lo ha. Lo stigma,
quale appunto la devianza, segna una condizione di minorazione e d’incapacità attribuibile alla
persona che lo porta, alla sua costituzione fisica, biologica. Non vi è quindi una responsabilità
condivisa ma unicamente individuale, così come accade con il delinquente o lo psicotico
all’interno di forme custodialistico-punitive di controllo sociale.
Ci ricorda Goffman che “è la società a stabilire quali strumenti debbono essere usati per dividere
le persone in categorie e quale complesso di attributi debbano essere considerati ordinari e naturali
nel definire l’appartenenza a una di quelle categorie”2. Un discorso analogo è fatto proprio dagli
esponenti della scuola sociologica della cosiddetta labelling theory, in particolare H. S. Becker.
Scrive quest’ultimo: “ La scienza ha anche accettato la supposizione di senso comune secondo la
1 F. Basaglia – Franca Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante, p. 157, cit.2 E. Goffman, Stigma (1963), Ombre Corte, Verona, 2003, p. 12.
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quale l’atto deviante avviene perché certe caratteristiche della persona che lo commette rendono
necessario ed inevitabile il commetterlo. Di solito gli scienziati non pongono domande
sull’etichetta “deviante” quand’è applicata ad azioni o persone particolari, ma lo considerano
come un dato di fatto. Così facendo, accettano i valori del gruppo che emette il giudizio”1. Il
pensiero di questi autori pone con forza il tema del giudizio quale componente cruciale del
fenomeno deviante stesso, ovvero del fatto che è la società stessa a creare la devianza. Continua
Becker: “…voglio dire che i gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione
costituisce la devianza stessa…da questo punto di vista la devianza non è una qualità dell’atto
commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di
norme e di sanzioni nei confronti di un colpevole”2. L’atto deviante si configura quindi come una
conseguenza della reazione esterna all’atto di una persona; dove il termine “esterna” è attribuibile
alle relazioni di potere che informano l’esistente.
Questo breve excursus sociologico circa l’interpretazione della devianza, risulta cruciale ai fini
della comprensione del salto di paradigma che Basaglia ritiene essere in corso negli Stati Uniti di
fine anni Sessanta. La critica rivolta al dilatarsi delle malattie nel momento in cui si creano nuovi
servizi deputati alla loro cura, avvalora significativamente la lettura che Goffman e Becker
forniscono del processo di “etichettamento” e “categorizzazione” delle persone. Quest’ultimo
assume una prospettiva funzionale, non appare come qualcosa di dato, interno alle dinamiche
d’interazione sociale, bensì politicamente determinato. Infatti, “in tema di politica sanitaria, un
servizio dovrebbe ridurre il fenomeno per cui è stato creato come risposta ad una carenza tecnico-
funzionale. Invece, nel momento in cui il nuovo servizio non può che tendere – come ogni nuova
istituzione inserita nel ciclo produttivo – alla propria sopravvivenza, la finalità è la produzione,
nel cui cerchio il malato viene assorbito come un nuovo oggetto e non come il soggetto per i cui
bisogni il servizio è stato creato”3. Ecco che lo stigma di “deviante” risulta essere la condizione
essenziale affinché l’accesso al mondo della produttività consenta all’improduttivo di redimersi
dall’infamia di essere altro rispetto ai meccanismi di accumulazione capitalistica.
L’abbandono dell’ideologia della diversità, di cui si conserva tuttavia il portato di
discriminazione morale oltre che medica, consente d’individuare soggettività devianti
maggioritarie in seno alla società in virtù dell’identificazione tra “devianza” e “improduttività”. E’
tale concentrazione - esercitata tramite la riduzione d’ogni forma di improduttività a devianza e di
quest’ultima al rango di patologia - a rappresentare un formidabile strumento di potere e di
controllo affidato alle classi dominanti, perseguito attraverso un duplice movimento, politico e
culturale, che snatura la soggettività dell’individuo. Infatti, da un lato l’ingresso di nuovi saperi
frammenta e divide ogni possibile alleanza dei soggetti del cambiamento sociale, dall’altro lato,
1 H. S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Edizioni Gruppo Abele, p. 18.2 Ibidem, p. 22.3 F. Basaglia – Franca Ongaro Basaglia, La maggioranza deviante, p. 166.
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invece, si concentrano queste soggettività in un unico immaginario al fine di guidarne
efficientemente il percorso nel circuito del controllo sociale. Possiamo così dire che dal punto di
vista del “deviante”, ossia del soggetto stigmatizzato come tale, la propria irriducibilità al sistema
viene circoscritta e atomizzata sino a ricondurne le cause alla costituzione biochimica
dell’organismo stesso; dal punto di vista del potere, invece, si assiste ad un’azione di
inglobamento della società – e delle soggettività che la compongono – da parte di una “nuova”
ideologia del controllo. Accade quindi che l’individuo risulti compresso e immobilizzato da un
duplice movimento che da un lato mira a scomporlo nelle sue parti costitutive sino a scoprire la
causa organica della sua “incomprensibilità”, dall’altro lato viene invece proiettato nei massimi
sistemi della psichiatria contemporanea che, in virtù di quella stessa scomposizione originaria,
mistifica la sua appartenenza alla categoria degli esclusi tramite una classificazione nosologica.
Pertanto, “non si tratterà più di dare un fondamento scientifico alla psichiatria, ma di lottare
politicamente affinché il sistema psichiatrico venga rimesso in discussione a livello sociale…tutto
questo comincia a consumare gli psichiatri italiani in quanto soggetti della conoscenza,
spingendoli senza sosta a distruggere il luogo del discorso – il manicomio – e a dissipare il sapere
scientifico – la psichiatria – in una lotta politica, in un tentativo di generalizzazione delle questioni
specifiche del manicomio e della psichiatria”1. Con queste parole Di Vittorio delinea la strada
maestra da percorrere per giungere ad una radicale messa in discussione della psichiatria – sia
nella sua dimensione storica che scientifica – attraverso un confronto con quest’ultima che
avvenga sul solo terreno realmente esistente, cioè quello sociale.
La dimensione ideologica delle nuove misure messe in atto nell’assistenza psichiatrica, risulta
quindi evidente nella falsificazione del ruolo dell’individuo che viene restituito alla società e
all’individuo stesso. Ciò che più conta è pertanto la “falsa coscienza”, poiché essa è già in sé
strumento di controllo, o meglio, d’inconsapevole auto-controllo. La de-qualificazione
dell’individuo dal rango della normalità a quello dell’a-normalità, esercita su quest’ultimo
un’azione stigmatizzante che individua nell’interiorizzazione dell’immagine sociale di sé, e
nell’auto-afflizione che ne deriva, la leva del controllo sociale stesso. Potremmo dire che il fine
ultimo di questo processo è l’oggettivazione dell’uomo nei termini sartriani, ovvero la riduzione
della soggettività, propria del vivente, ai confini fisici dell’in-sé, che non è mai per-sé. Questo
significa che il margine d’individualità, il bordo che separa l’io da un’idea oggettiva e statica
dell’essere, viene eliminato affinché possa coincidere con l’immagine impostagli in modo pre-
definito e funzionale. Afferma Basaglia: “Il corpo è dunque materia passiva che si soggettivizza
nell’attuarsi come principio di ordinamento – condizionato dalle circostanze – attorno al quale
verte lo spazio vissuto”2. E’ quindi evidente come il corpo non possa in alcun modo divenire
1 P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Verona, Ombre Corte Edizioni, 1999, p. 59.2 F. Basaglia, Corpo, sguardo e silenzio. L’enigma della soggettività in psichiatria (1965).
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oggetto di ordinamento, poiché risulterebbe impossibile il processo di soggettivazione dell’uomo
che non può rinunciare al corpo per esperire la realtà circostante e approdare così al vissuto
individuale e collettivo.
Ciò che a questo punto risulta importante rilevare, all’interno della cosiddetta ideologia della
tolleranza, è come il controllo sociale si eserciti sotto forme frammentarie e deterritorializzate,
volte a coincidere con l’intero spazio della società. Possiamo affermare che l’oppressione della
soggettività umana è quindi un fenomeno che ha origine nell’immaginario che ciascun individuo
crea e percepisce del mondo e, soprattutto, della proiezione di sé nel mondo. Ogni forma di
devianza – che come abbiamo visto è sempre determinata – subisce un’azione oggettivizzante che,
nella dimensione politica e culturale, è sostanzialmente simile a quella generata dallo stigma
dell’essere giudicato psicotico o delinquente. Con questo non si intende sostenere che l’ideologia
della tolleranza applicata alla maggioranza deviante riproponga su base allargata il dominio dei
corpi degli internati – che giunse a vere e proprie forme di tortura – ma, al contrario, si vuole
evidenziare come forme soft di istituzionalizzazione traggano origine ed ispirazione dal
messaggio ultimo che sorregge le istituzioni totali, ovvero l’inferiorizzazione dell’uomo, non più
essere dotato di ragione e razionalità ma “incomprensibile” manifestazione di follia. Il principio
che sottende l’intero discorso è nuovamente quello positivistico e deterministico che tuttavia può
assumere, di volta in volta, una matrice organicistica piuttosto che psicodinamica o psicosociale.
Il pensiero basagliano assume così una dimensione eminentemente politica, aliena da ogni
tecnicismo e autoreferenzialità psichiatrica. Basaglia non è alla ricerca di spazi dove ricollocare la
psichiatria contemporanea alla luce di limiti, soprusi, critiche e trasformazioni sociali. Non vi è
quindi un tentativo di riforma a fronte di contraddizioni sociali ed istituzionali – prima fra tutte la
condizione di povertà materiale del malato di mente e l’azione regressiva che l’istituzione opera
nei suoi confronti – bensì la volontà di rendere evidente il mandato sociale dello psichiatra e la
sua conformità all’esistente. Sono infatti le trasformazioni economiche e sociali ad indurre il
sistema politico ad aggiornare quel mandato e a commissionare successivamente alla psichiatria
una legittimazione tecnico-scientifica.
Al ruolo dei tecnici nella definizione dell’ideologia della tolleranza e, soprattutto, nell’azione di
mascheramento del volto del dominio e di mistificazione delle contraddizioni sociali è dedicato il
proseguo del capitolo.
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3. I funzionari del consenso
Crimini di pace - pubblicato nel 1975 - è il titolo di un testo straordinariamente politico curato
da Franco Basaglia in collaborazione con Franca Ongaro Basaglia. Il fatto che questo saggio si
apra con una citazione di Antonio Gramsci1, è emblematico delle intenzioni dichiaratamente
politiche del suo estensore, che approdano alla volontà d’individuare un punto di incontro tra le
lotte antiistituzionali, le riflessioni circa le nuove forme di controllo e l’ideologia del consenso
politico. Basaglia sostiene che “l’intellettuale, figlio della borghesia, poteva prendere le parti della
classe oppressa, senza che questo gli richiedesse una messa in discussione dei valori cui
automaticamente aderiva…”2. Questa ambiguità di fondo - che accompagna la stessa militanza
politica dell’intellettuale critico – viene smascherata dall’esplosione d’una insanabile
contraddizione tra ideologia e pratica. Gli intellettuali e i tecnici – rispettivamente i teorici e i
pratici dell’ideologia dominante – assumono consapevolezza del proprio ruolo di “commessi” e
“funzionari” della classe dominante a partire dalla propria attività pratica. In questo Basaglia
restituisce un insegnamento politico di cruciale rilevanza, evidenziando come ogni processo di
emancipazione dell’uomo – e della rispettiva “presa di coscienza” - non possa che originarsi dalla
consapevolezza della natura reale e politica delle contraddizioni sociali e del relativo disagio
esistenziale. La politica è quindi realtà, e soltanto dall’immersione nella materialità della vita può
nascere il soggetto della trasformazione sociale. Non vi è istanza di cambiamento alcuna che non
sia incentrata su un vissuto diretto, provato e percepito dall’io-corpo, specie nel suo essere dolore,
ingiustizia, oppressione. La soggettivazione politica non può che avvenire nei luoghi in cui la
sofferenza umana assume volti conosciuti, in cui il dolore si fa parola di uomini e donne
desiderosi di raccontare la propria esistenza. Ecco perché compito degli intellettuali non è,
secondo Basaglia, “fingersi gli operai che non siamo, ma rendere praticamente espliciti i processi
attraverso i quali una ideologia scientifica riesce a far accettare ad una classe subalterna misure
che apparentemente rispondono ai suoi bisogni e che, di fatto, la distruggono (in questo
consistono le ideologie)…”3.
Abbiamo detto che la consapevolezza dei “tecnici del sapere pratico“ di essere i “funzionari del
consenso” deriva da uno scontro tra l’ideologia e la pratica. Indubbiamente, il manicomio fornisce
un punto di vista privilegiato nello svelare le contraddizioni tra l’ideologia dell’ospedale (la cura e
la riabilitazione) e la pratica (la segregazione e la violenza). Questa è infatti la critica principale
1 “Gli intellettuali sono i ‘commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico…”. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura (1930).2 F. Basaglia,in collaborazione con Franca Onagro Basaglia, Crimini di Pace, in Crimini di pace, Einaudi, Torino, 1975. Anche in L’utopia della realtà, p. 209. 3 Ibidem, p. 216.
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che Goffman, ancor prima di Basaglia, rivolge all’istituzione totale nelle pagine di Asylums1.
Basaglia, tuttavia, decide di andare alla ricerca della “funzione sociale” del manicomio che
abitualmente sfugge alla comprensione dello psichiatra. Se così non fosse, si commetterebbe
l’errore di muovere una critica tecnica e non politica delle istituzioni totali; sarebbe infatti
sufficiente operare un riallineamento tra l’ideologia ufficiale e la pratica al fine di eliminare ogni
scarto di inefficienza istituzionale e per questa via ogni contraddizione. Basaglia, invece, pone con
forza interrogativi stringenti circa il mandato sociale delle istituzioni della violenza2.
Vi è quindi una inconciliabilità di fondo tra il mandato della scienza e quello della società;
un’inconciliabilità che tuttavia individua nelle ideologie – e nel loro carattere mistificatore –
l’elemento capace di celare le contraddizioni e garantire così il sostanziale mantenimento dei
rapporti di potere esistenti. Il fine della scienza medica, a fronte di una conclamata patologia, è
quello di curare, ovvero preoccuparsi, interessarsi a qualcuno, dar vita ad un “rapporto in cui una
sofferenza è oggetto di partecipazione, solidarietà, comprensione ed aiuto”3; il mandato (politico)
della società, invece, si riassume nel celare ogni contraddizione riconducendola all’ordinarietà e
alla prevedibilità degli eventi. L’essenziale, per il potere, è stemperare i colori dalle forti tonalità,
omogeneizzando così il quadro sociale attraverso un’incessante produzione ideologica. Emerge
quindi nell’analisi basagliana una concezione storica dello Stato e delle relazioni sociali informata
dalla contrapposizione di classe, intesa come inconciliabilità dei bisogni delle classi subalterne
rispetto agli interessi del gruppo dominante. La storia è quindi un’interrotta lotta di classe, una
perenne battaglia tra oppresso ed oppressore che, nell’epoca dell’ideologia della tolleranza, vede
ricoprire un ruolo significativo della scienza nel determinare la stessa coscienza di classe e
finanche esistenziale dell’uomo.
Il supporto falsamente neutrale delle ideologie scientifiche all’ideologia dominante può essere
ricondotto, secondo Basaglia, all’artificio in base al quale i “devianti”, i “diversi”, gli “anormali”,
“sono ciò che sono per natura, e che scienza e società non possono modificare processi
connaturati nell’uomo”. Irrompe con forza, esplicitamente, il tema ineluttabile della “costituzione
naturale” del deviante e di come l’inferiorizzazione biologica rappresenti una passaggio
ineludibile nel determinare la condizione sociale dell’escluso. A questo punto, è lecito domandarsi
quali siano, nella pratica quotidiana, i processi che sostengono la creazione di nuove ideologie da
parte dei “funzionari del consenso”. Infatti, se può apparire cosa ovvia che le istituzioni della
1 Come fanno notare Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia nell’Introduzione all’edizione Einaudi di Asylums (1968), “…al di là della contraddizione palese che Goffman denuncia tra le finalità ideologico-scientifiche e la quotidianità concreta dell’istituzione psichiatrica, si può intravvedere un’identità fra la realtà istituzionale e la funzionalità dell’istituzione in rapporto al nostro sistema sociale che sopravvive appunto escludendo gli elementi di disturbo. Da questo punto di vista l’analisi di Goffman…si ferma, limitandosi e rendere esplicita la contraddizione fra ideologia e realtà”. 2 “Come non vedere nel dilatarsi e nel restringersi dei limiti di norma, a seconda della classe del ‘disturbato’ e delle situazioni di espansione o di recessione economica del paese, che può o non può riaccogliere le persone riabilitate, la relatività di un giudizio scientifico che, di volta in volta, muta il carattere irreversibile delle sue definizioni?”, Ibid. p. 211. 3 Franca Ongaro Basaglia, Salute/Malattia, Torino, Einaudi, 1982, p. 43.
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società borghese esistono a difesa dei valori e, soprattutto, della condizione materiale del gruppo
dominante, più difficile è scorgere i percorsi politici e culturali che delineano un immaginario
collettivo capace di produrre non solo consenso, ma anche una rappresentazione della realtà
funzionale alla difesa dello status quo.
Con straordinaria lucidità politica - che nella sensibilità umana individua una sorgente
inestimabile -, Basaglia cerca di focalizzare l’attenzione e il discorso sulle dinamiche
d’interazione individuale e sulla capacità dell’uomo di rendersi soggetto del cambiamento a
partire dall’empatia che nasce dall’incontro con l’altro. Basaglia dice chiaramente che “dobbiamo
tentare di costruire un nuovo umanesimo, dobbiamo dare una nuova forma all’uomo, dobbiamo
creare i presupposti per cui l’altro non sia un nemico”1, ma un soggetto indispensabile nella lotta
alle contraddizioni e alle ingiustizie sociali, poiché elemento sempre costituente della
soggettivazione politica di ciascuno. Tuttavia, questa fiducia nell’uomo necessaria alla serena
riflessione politica e all’incessante ricerca d’una condizione di dignità dell’uomo, è costretta a
scontrarsi con la realtà dei rapporti sociali. Per queste ragioni, Basaglia sembra andare alla ricerca
di un punto di vista altro rispetto al proprio, nella consapevolezza che la condizione di direttore di
ospedale psichiatrico – tutt’uno con la sua estrazione sociale borghese – non gli possa consentire
di comprendere realmente i vissuti degli oppressi, dei diseredati. Se ne deduce che soltanto chi è
oggetto della manipolazione e del controllo della psichiatria può aiutare ad individuare e chiarire
le dinamiche attraverso le quali avviene la mortificazione e lo snaturamento del sé degli individui.
Per questa ragione è fondamentale, nel pensiero basagliano, creare le condizioni affinché alla
classe subalterna sia consentito di “riconoscere nella scienza e nelle ideologie la manipolazione e
il controllo di cui è oggetto, e non invece un valore assoluto…”2. Non vi è quindi spazio per
certezze e dogmatismi, specie in ambito scientifico dove, da un lato, il retroterra politico-sociale
indirizza e “governa” la ricerca scientifica e, dall’altro lato, si appropria dei linguaggi di
quest’ultima – consapevole del prestigio che essa ha maturato nell’immaginario collettivo -
utilizzandoli in chiave funzionale al potere stesso.
Sono quindi le parole stesse della medicina a trarre in inganno la classe oppressa che,
paradossalmente, tende ad avvertire una risposta insufficiente ai propri bisogni sul piano delle
prestazioni medico-scientifiche. I termini “diagnosi” e ”cura”, come ci ricorda Franca Onagro
Basaglia in Salute/Malattia, rimandano a significati accoglienti e carichi di un sapere che è tanto
più rassicurante quanto impenetrabile e tecnicistico nel porsi al servizio dei bisogni – spesso falsi
ed indotti – di ciascuno. E’ il discorso medico-psichiatrico a risultare ambiguo, fuorviante e
ideologico in quanto finalizzato a sconvolgere la rappresentazione e la comunicazione della realtà.
E’ in questi termini che il tecnico borghese esercita la delega affidatagli dalla classe dominante,
vestendo cioè gli abiti dell’uomo di scienza in un’accezione presuntivamente neutrale ed assoluta
1 F. Basaglia, Conferenze brasiliane, p. 62. 2 Ibidem, p. 215.
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di quest’ultima1. Rifiutando di cogliere gli elementi di dominio e d’identificazione con la classe
borghese insiti nel discorso psichiatrico, il tecnico oggettivizza non solo il “malato di mente” ma
anche se stesso nel ruolo di “funzionario” del potere.
In un contesto che punta alla fissità dell’individuo, alla sua riflessiva rispondenza all’immagine
sociale che ne restituiscono i rapporti economici e sociali, la straordinaria lucidità politica di
Basaglia consiste proprio nel comprendere che soltanto dal dialogo con l’internato il “tecnico del
sapere pratico” può imparare a conoscere ed individuare i bisogni effettivi degli oppressi, al di là
di ogni ideologia. Il tecnico borghese, afferma Basaglia, “vive uno stato di alienazione da cui può
uscire rompendo la condizione di oggettivazione in cui vive l’oppresso”2. E’ pertanto l’unità nella
lotta che consente una soggettivazione politica del tecnico e dell’internato, nella comune “ricerca
di una liberazione pratica”. Queste poche parole racchiudono non solo un profondo significato
politico, ma la strada indicata da Basaglia al fine di raggiungere una liberazione che si dà
costantemente nel viaggio, nella ricerca di infiniti attimi incatenati tra loro da istanze di
liberazione dell’uomo. Uno di questi spiragli di emancipazione - e di discontinuità storica e
politica -, è segnato dal tradimento del tecnico verso il proprio committente – ossia la classe
dominante – attraverso l’identificazione della propria battaglia politica con quella del “paziente”,
delineando così un comune immaginario affrancato dalla passività e dall’oggettivazione dei
rispettivi ruoli. Se è appropriato parlare di “ruoli” – in quanto la psichiatria opera una “messa in
scena” sin dalla sua comparsa tra XVIII e XIX secolo – è altresì importante sottolineare che sia il
“malato di mente” che lo psichiatra non recitano affatto, poiché la loro personalità è sussunta,
interamente ricondotta alle pratiche quotidiane di oppressione e di controllo, di obbedienza e
passività che la disciplina psichiatrica, in tutte le sue forme storiche, pone in essere. Coloro che
sfuggono alle ferree leggi della disciplina psichiatrica - attraverso gli spiragli di liberazione che la
contraddizione tra ideologia e prassi crea – incappano in una sorta di scomunica da parte del
committente (il gruppo dominante) in quanto il tecnico “ha messo in piazza i segreti di famiglia,
quelli che di solito conosce solo il padre e che neppure i figli devono sapere, altrimenti avrebbero
poco rispetto per il padre e per la famiglia”3. Basaglia presenta qui un interessante parallelismo tra
il modello patriarcale e l’organizzazione socio-istituzionale tipica dei luoghi della psichiatria,
capace di rimandare alla continuità storica del ruolo marginale degli esclusi che le scienze umane
non intendono certo affrancare. Infatti, ricorda Basaglia, “La nascita delle scienze umane
1 La dimensione assoluta è così conferita dalla presunta neutralità, ossia dall’idea che vi possa essere un’attività dell’uomo, ancorché in ambito scientifico, scevra da ogni influenza politica, sociale ed economica. Potremmo dire che all’interno di tale visione l’esistenza stesso dell’uomo risulterebbe svilita, poiché ricondotta ad una sfera irreale, lontana dalla materialità della vita e delle sue contraddizioni; tra le quali il fatto che ad orientare la scienza sono spesso interessi parziali e rispondenti ad esigenze economiche e relative ad assetti di potere. Altro discorso è sostenere che vi possa essere un ideale verso il quale tendere, che veda nella scienza pura la manifestazione della razionalità dell’uomo, lo strumento attraverso il quale “leggere il libro della natura”, intrecciando così i temi della scienza e quelli della filosofia, dell’etica, del senso dell’essere e della vita. 2 F. Basaglia - Franca Onagro Basaglia, Crimini di Pace, in Crimini di pace. Anche in L’utopia della realtà, p. 217. 3 Ibidem, p. 218.
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sembrava dare inizialmente nuove aperture e nuove prospettive alla lotta per la liberazione
dell’uomo…Ma, una volta immesse queste nuove scienze nella logica della divisione in classi…
esse si sono praticamente tradotte in ulteriori strumenti utili alla conferma di questa oppressione” 1.
Tale processo ha dato origine ad un’imponente opera di codificazione generale della società, e in
questa turbinosa ricollocazione di valori e morali, i comportamenti sono stati analizzati, sezionati
e suddivisi in “normale” e “patologico”, “corretto” e “deviante”. Se Goffman e Becker hanno
fornito un contributo cruciale alla lettura delle dinamiche di stigmatizzazione sociale, Basaglia
non rinuncia a storicizzare tale processo e ad inserirlo in un quadro politico di ampio respiro. Ecco
quindi che l’utilizzo del tecnico o dell’intellettuale in qualità di “funzionario del consenso”
risponde ad esigenze politiche che affondano le radici nella crescita e nel consolidamento del
sistema capitalistico e di una legge economica che “deve contare sul controllo dei più per
garantire la sopravvivenza del gruppo dominante”2.
Un altro tema di grande attualità, proposto da Basaglia in questo lungo saggio, concerne quanto
si potrebbe definire il feticcio della difesa formale dei diritti dell’uomo. Sostiene infatti Basaglia,
che si ricorre all’utilizzo di un certo tipo di tecnico o intellettuale, in qualità di funzionario del
consenso, quando “occorre far passare per qualcosa di diverso ciò che potrebbe contrastare con i
principi dei diritti dell’uomo che non possono non essere formalmente sostenuti”. E’ a questo
livello che intervengono le scienze umane e le diverse ideologie, con lo scopo di garantire la
“scientificità” e la “legalità” della tortura e dei crimini. Soltanto laddove non si conoscono ancora
i vantaggi offerti dall’uso delle scienze umane, come forma di controllo sociale, la tortura si
pratica illegalmente. Basaglia delinea quindi un profilo delle scienze umane – e della psichiatria in
particolare – rivolto a giustificare e a normalizzare l’eccezione, l’inconsueto e il drammatico nei
rapporti politici e sociali – quale ad esempio la tortura – ammantandoli di un’aura tecnica e
specialistica, dove la cura del particolare - ad esempio gli effetti dell’elettroshock sull’organismo
piuttosto che i cavilli giuridici in merito all’interpretazione delle convenzioni internazionali sui
diritti umani – soverchia il tutto.
Potremmo qui trovarci dinanzi ad una contraddizione del pensiero basagliano, poiché abbiamo
visto, ne La maggioranza deviante, come le scienze sociali venissero presentate quali ancelle della
psichiatria, con il duplice scopo di ampliare il raggio d’azione di quest’ultima – attraverso la
“patologizzazione del vivere sociale” – e ammorbidirne le forme di controllo per garantire il
consenso politico. Pertanto, la dimensione che abbiamo definito come soft del controllo sociale e
1 Ibidem, p. 218. 2 E’ questa un’analisi che, prima di Basaglia, Foucault in Storia della follia e R. Castel in L’ordine psichiatrico – solo per citare i più noti – approfondiscono sul piano storico e politico. L’elemento di interesse e novità in Basaglia, risiede nella sua stessa condizione di “tecnico”. Infatti, tra i primi psichiatri al mondo a mettere in discussione il proprio sapere e il proprio agire quotidiano. E’ questo l’elemento di discontinuità, di rottura radicale rispetto a pur rilevanti esperienze a lui contemporanee, di cui le più note sono quelle condotte da M. Jones e R. D. Laing. Ecco perché il discorso che Basaglia conduce in Crimini di pace circa la “presa di coscienza del tecnico del sapere pratico”ha il sapore di un vissuto personale, d’una negazione del proprio ruolo sociale e quindi d’una ricerca, in primo luogo, di sé nel mondo.
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delle forme di istituzionalizzazione – dominate dalla multidisciplinarietà dei saperi che
intervengono sull’io-corpo e dalla patologizzazione della devianza – viene corroborata da un
inasprimento delle rivendicazioni politico-culturali circa gli interventi hard, quali la tortura e i
“crimini di pace” in generale. Quali le ragioni storiche e politiche che non consentono un
definitivo abbandono di pratiche di controllo e di dominio inequivocabilmente violente, vessatorie
e inumane? Quale il punto di congiunzione tra le preoccupazioni circa la patologizzazione della
devianza e l’illeggibilità dei “nuovi” processi di controllo da un lato, e il riesplodere di vere forme
di tortura e sadismo dall’altro? Con la sensibilità che contraddistingue i suoi scritti nel cogliere i
mutamenti sociali, Basaglia avverte un “disagio della civiltà” che “pare stia facendo ricomparire
un po’ ovunque la tortura…in un clima culturale in cui la ragione di stato sta prevalendo
sull’ultimo umanesimo, e la violenza non teme più di rivelarsi per ciò che è”1. La densità politica
di queste righe, cariche di passione civile ed umana, lancia un grido d’allarme non solo contro il
dominio della violenza e del sopruso – che si pone oramai persino al di là della forma stessa dei
“principi dei diritti dell’uomo” -, ma soprattutto contro il carattere sempre più ordinario di
quest’ultimo, connaturato al divenire stesso del sistema. In sostanza, se nella Maggioranza
deviante l’attenzione di Basaglia è catturata dalle nuove forme di controllo sociale e dal loro
divenire, in Crimini di pace credo si possa leggere un’anticipazione di scenari futuri che giungono
sino ai giorni nostri, sino alla gestione delle “vite di scarto” di uomini e donne giudicate in
eccesso.
Crimini di pace fu pubblicato nella primavera del 1975, in un clima politico segnato da aspre
contraddizioni di classe che, tuttavia, sarebbero state lette, col senno di poi, come una sorta di
tramonto delle istanze di trasformazione sociale più radicali – finanche rivoluzionarie – e di alba
di una nuova fase politica segnata dal pensiero neoliberista, di cui la destrutturazione del Welfare
state diveniva l’elemento simbolico. La sconfitta del movimento operaio, già nel corso degli anni
Settanta, determinò cambiamenti profondi – e per questo forse meno visibili nell’immediato –
nella società italiana che, per utilizzare l’espressione di Dedijer richiamata anche da Basaglia,
stava per ricevere il “bacio della morte”, ovvero l’assimilazione ai valori della borghesia. Ecco
quindi che lo smantellamento dei diritti sociali non risponde solo ai piani politici conservatori e
neoliberisti, ma è l’indicatore più rilevante di uno sfaldamento della coscienza di classe
individuale e collettiva e di un progressivo venir meno del conflitto tra capitale e lavoro. Scrive T.
H. Marshall: “nel secolo ventesimo la cittadinanza e la classe capitalistica si sono trovate in guerra
tra loro”2, dove per cittadinanza dobbiamo intendere un movimento di emancipazione collettiva,
soprattutto sociale, che ha individuato nel sistema di Welfare un compromesso storico con la
classe padronale. E’ il venire meno di questa contrapposizione, a causa della sconfitta della classe
1 F. Basaglia - Franca Onagro Basaglia, Crimini di Pace, in Crimini di pace. Anche in L’utopia della realtà, p. 220. Corsivo mio.2 T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1950), Bari, Laterza, 2002.
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operaia, che Basaglia indaga nelle pagine finali del saggio in questione, laddove rileva che “ oggi
ogni tecnico spicciolo – anche proveniente dalla classe operaia o da una piccolissima borghesia
quasi proletaria, che ha tratto vantaggio dalla maggiore accessibilità alla cultura borghese – per il
fatto di identificarsi nel suo ruolo e di difenderlo per sé, rappresenta e impone i valori
dominanti.”1. E’ quindi la terziarizzazione delle società capitalistiche (post)industriali – con la
loro capacità di inglobare parte della classe dominata nei valori e nel terreno della classe
dominante grazie anche all’allargamento del cerchio dei funzionari – a rappresentare l’elemento
d’unione tra l’utilizzo dinamico delle scienze umane ai fini del controllo sociale e l’esplosione di
contraddizioni ingovernabili che il “disagio della civiltà” porta inevitabilmente con sé. Infatti, se
da un lato la classe borghese è riuscita a cooptare all’interno del proprio quadro culturale e
valoriale membri della classe subalterna – indebolendo così il fronte delle rivendicazioni sociali - ,
dall’altro lato tali trasformazioni sociali e culturali hanno significativamente modificato gli assetti
della società, polarizzandola sempre più tra ricchi e poveri, dominanti e dominati, riducendo
drasticamente le opportunità di ascesa sociale. Il sistema di Welfare, pertanto, non era solamente
testimonianza di un costante conflitto tra capitale e lavoro, ma anche veicolo di controllo degli
oppressi, del movimento operaio e, più in generale, di tutti coloro che dovevano assuefarsi ad uno
standard di vita e rinunciare così, gradualmente, a gettare le basi per ogni ulteriore istanza di
rivendicazione futura. Non è certo questa la sede dove ripercorrere la storia politica che ha
condotto all’attuale dominio del sistema economico e sociale neoliberista, tuttavia è importante
rilevare che la profondità delle fratture sociali arrecate da quest’ultimo ha determinato una
riattualizzazione della discussione circa la riapertura dei manicomi e di ulteriori luoghi di
sospensione del diritto.
A pochi anni dalla Maggioranza deviante, Basaglia coglie uno dei tratti costitutivi del modello
economico e sociale neoliberista, ovvero l’irrazionalità delle risposte politiche ai bisogni umani.
Infatti, un sistema che per mantenere al governo una classe sempre più autoreferenziale e ingorda
è costretto a manipolare i bisogni dell’uomo attraverso l’ausilio delle scienze umane e sociali, non
può che generare un inasprimento delle contraddizioni e delle fratture in seno alla società. Il
neoliberismo, oggi imperante, necessita di ancorare e fissare a terra gli elementi di disturbo, le
“vite di scarto” per dirla con Bauman. Una componente sempre più significativa del corpo sociale
è infatti ridotta a variabile dipendente del mercato, ossia della fame di potere e denaro che
contraddistingue l’èlite transnazionale che governa le sorti del mondo; quella che Basaglia, in
un’epoca sostanzialmente informata da rapporti produttivi e sociali fordisti, definiva “classe
dominante”.
Tuttavia, l’elemento che è emerso con sempre maggior irruenza nel corso degli ultimi anni – e
che Basaglia aveva già sostanzialmente avvertito e sintetizzato nel “disagio della civiltà” –
consiste proprio in un rinnovato imperio del mercato che non si limita a sfruttare sempre più il
1 Ibidem, p. 222.
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lavoro vivo ad ogni angolo del pianeta, ma addirittura pretende di decretare l’espulsione di uomini
e donne dalla civiltà giuridica, sancendone una sorta di alterità rispetto ai confini dell’umanità
tollerati dal capitale. Per questa ragione, saranno centrali, nel prossimo capitolo, le riflessioni di
Basaglia su legge, psichiatria e diritto.
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III. Psichiatria, legge e diritto
1. Legge e psichiatria
L’impostazione marxista del pensiero basagliano - specie a partire dalla seconda metà degli anni
Sessanta – è certo evidente nelle riflessioni in merito al rapporto tra legge e psichiatria e, più in
generale, tra legge e dinamiche sociali. Siamo nel 1979 quando Basaglia scrive il saggio Legge e
psichiatria - presentato presso l’International Congress of Law and Psychiatry (Oxford)-, testo
che può indubbiamente considerarsi un’analisi storico-politica della nascita della psichiatria e,
segnatamente, della sua costituzione in ambito giuridico. Basaglia opera in questo scritto una
collocazione storica della disciplina psichiatrica indubbiamente dominata dalla concezione
materialistica dell’agire umano e, conseguentemente, della legge stessa1.
“Nella produzione sociale della loro esistenza”, scrive Marx, “gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalle loro volontà, rapporti di produzione che corrispondono a
un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti
di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale su cui si eleva
una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme della
coscienza sociale”2. Scrive Basaglia: “Pur ‘liberato’ dalla generica asocialità rinchiusa nelle
carceri, il folle non può trovare una collocazione nell’ordine razionale della società in quanto non
la trova nel suo ordine produttivo”3. La subordinazione della dimensione sociale, culturale e
finanche esistenziale a quella economica è quindi presente in modo inequivocabile nel pensiero
1 L’interpretazione sovrastrutturale del diritto, o meglio della legge, che accompagna il pensiero basagliano risulta, come vedremo in seguito, di cruciale rilevanza ai fini della comprensione stessa del rapporto tra Basaglia e la legge 180 che, spesso impropriamente, viene semplicisticamente associata al suo nome. 2 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Prefazione.3 F. Basaglia, Legge e psichiatria, in Scritti vol. II, pp. 445-446. L’influenza del pensiero marxiano traspare chiaramente negli scritti di Basaglia, specie a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, è quindi indiscutibile anche se a tutt’oggi largamente inesplorata. Tuttavia, resta ancora largamente inesplorato il terreno d’incontro tra Marx e Basaglia, ovvero il controllo della marginalità sociale attraverso forme di ideologiche della conoscenza borghese, tra cui la psichiatria.
Il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge:
una volontà il cui contenuto è già dato nelle condizioni materiali d’esistenza della vostra classe.
Marx ed Engels, Manifesto del Partito comunista
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basagliano. E’ infatti la collocazione improduttiva del folle a determinare la sua espulsione
dall’ordine razionale; nasce così l’idea della follia quale condizione di assoluta alterità rispetto
alla ragione (borghese). Il confine diviene quindi l’immagine storica e politica di questo processo;
le mura che separano il manicomio dalla vita della città, la cartella clinica che sostituisce la
soggettività del “malato di mente” con schematismi nosografici, così come lo stigma giuridico di
“pericolosità sociale verso se stesso e gli altri”, sono la dimostrazione della storicità di quel limite.
Viene quindi meno la lettura che diede Erasmo della follia quale elemento immanente alla ragione
e legata a quest’ultima da una condizione di continua reversibilità1. L’invalicabilità delle mura
dell’ospedale psichiatrico, il carattere ineluttabile e sovradeterminante del linguaggio medico, la
forza della legge riassumono il destino storico di uomini e donne altrimenti irriducibili ad una
codificazione della razionalità sempre più coincidente col potere. La soggettività di coloro che -
per qualsiasi ragione - non interpretano la propria esistenza alla stregua di un mero strumento
d’accumulazione capitalistica, viene pertanto snaturata e mortificata nei modi che abbiamo sin qui
analizzato. L’originaria marginalità del folle assume, nella lettura basagliana, una connotazione
segnatamente socioeconomica; infatti, la nascita e l’insediamento della psichiatria in seno alla
medicina - che ha avuto come principale conseguenza la sostituzione della separazione tra
produttivo e improduttivo con quella tra sano e malato – presenta, come evidenzia Foucault in
Storia della follia, un carattere storico determinato. Ad essere irrazionale è l’improduttivo, il
vagabondo, colui che, inserito in una rete di obblighi e divieti, esercita il diritto di fuga e
diserzione dinanzi ad un sistema che pretende persino di negargli il diritto di voce2. Tuttavia,
quando la follia - emblema di improduttività - viene inserita nell’alveo della medicina, in virtù del
fatto che “la nascita della clinica sembra indicare la raggiunta coincidenza tra improduttivo e
malato, e perciò l’integrazione tra medicina e organizzazione produttiva”3, emerge una profonda
contraddizione, ancora aperta, che necessita dell’intervento della sovrastruttura giuridica. Infatti,
la “patologia relazionale” – corpo specifico della follia – non risulta essere riconducibile alla
razionalità delle tecniche che la scienza medica ha individuato per curare le malattie; ciò, in primo
luogo, a causa dell’assenza di segni capaci di darsi non solo nella fattualità della propria
autoevidenza – poiché questa è sempre costruita e mediata socialmente sul piano culturale – ma
soprattutto nella propria fondatezza scientifica e segnatamente eziologica, senza la quale
1 Erasmo da Rotterdam scrive il celeberrimo Elogio della follia nel 1508. Per Erasmo la follia è un elemento irrinunciabile all’esistenza delle società, in quanto è un mezzo per demistificare e per operare un effettivo rinnovamento vitale, creativo. La follia è il più efficace antidoto contro il dogmatismo, consente di guardare il mondo alla rovescia e rivelarne aspetti insospettati, sorprendenti, stimolanti, evidenziando così l’unilateralità delle regole. 2 La fuga deve essere qui interpretata come rifiuto degli angusti spazi in cui l’individuo è costretto dal sistema economico e sociale dominante. E’ la risposta soggettiva ed immediata alla sopraffazione e all’esclusione di cui si è vittima. Pertanto, non è da intendersi come categoria rivoluzionaria nei termini classici del Novecento, ma, paradossalmente, come mera volontà di esser-ci, di poter quindi vivere coerentemente con la propria soggettività in uno spazio sempre più globale e al contempo ristretto. In sostanza, è importante evidenziare come questa ribellione verso ingiustizie intrinsecamente avvertite come tali – poiché affondano le radici nella materialità dell’esistenza – porti con sé un potenziale disgregante e conflittuale verso l’esistente. 3 F. Basaglia, Legge e psichiatria, p. 446.
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l’intervento medico diviene un fatto insignificante ed ingiustificabile. La scienza medica mantiene
quindi un certo grado di autonomia rispetto alle esigenze dell’organizzazione produttiva, specie,
come ricorda Basaglia, “nella definizione e nel trattamento del suo oggetto (il corpo improduttivo
= malato)”1. Deve esservi, pertanto, una ragione ampiamente riconosciuta alla base di un
intervento medico sui corpi, una motivazione che, anche quando ideologica, è capace
d’individuare un luogo dove manifestare e produrre la propria verità, quale ad esempio i processi
di guarigione. Nota Foucault come “la crisi medica sia scomparsa, tra la fine del XVIII e l’inizio
del XIX secolo, a causa essenzialmente dell’apparizione dell’anatomia patologica che, di fatto,
dava la possibilità di rendere visibile, in una lesione localizzata all’interno dell’organismo e
reperibile nel corpo, la realtà stessa della malattia”2. La medicina, pertanto, riesce ad affermare se
stessa grazie all’evidenza della malattia, alla sua capacità di emergere dal corpo, di modificarlo e
condurlo sino alla morte. Il corpo morto diviene quindi luogo di lettura e conoscenza della
medicina; è in esso che permangono i segni indelebili che gli hanno sottratto la vita. Al contrario,
la psichiatria necessita di “costituire, instaurare una prova – o una serie di prove – tale da
consentirle di rispondere all’esigenza della diagnosi assoluta, vale a dire una prova capace di
conferire realtà o irrealtà, in grado di inscrivere nel campo della realtà o invece di squalificare
come irreale ciò che si suppone sia la follia”3. Ciò che Foucault ci suggerisce è che la psichiatria,
in quanto mera forma di potere, arroga a se stessa la facoltà di posizionare il confine fra reale e
irreale, fra razionale e irrazionale, fra ciò che è consentito – e tutelato dal sapere “tecnico” – e ciò
che non lo è. In sostanza, la continua ricerca di una prova, che coinvolge la psichiatria sin dalla
sua nascita, a dimostrazione della scientificità del proprio sapere, si risolve in una codificazione
culturale e giuridica che conduce all’identificazione del “malato di mente” – di cui si stigmatizza
il comportamento quale “segno” inconfutabile della malattia – con l’individuo “pericoloso
socialmente”.
L’equiparazione dell’improduttività alla malattia, di cui parla Basaglia, non è solo orientata alla
razionalizzazione della prima quale condizione imposta dalla razionalità borghese al fine di
preservare l’ordine sociale capitalistico – e quindi ad una misura di “governo sociale” che investe
in primo luogo il ruolo della clinica -, ma si compone di una parte che potremmo definire
ideologicamente calata nel reale. Se da un lato le cure rivolte alla classe operaia vengono
giustificate dall’esigenza di mantenere in salute la forza-lavoro – e per questa via restituire
un’immagine sociale della “norma” coincidente con la “salute” –, dall’altro lato viene recuperata
una condizione effettiva di sofferenza di uomini e donne. In sostanza, ciò che manca alla follia per
razionalizzarsi, ovvero per divenire “malattia mentale” ed essere così oggetto di “cure”, è una
forma di legittimazione. A tal fine, osserva Basaglia, “suo completamento fondamentale diventa
1 Ibidem, p. 447.2 M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano, 2004, p. 229. 3 Ibidem, p. 231.
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la sanzione giuridica: il concetto di ‘pericolosità sociale’…si delinea così la contraddizione di
fondo della psichiatria, ambiguamente sospesa, fin dal suo nascere, tra cura del malato e difesa
sociale, tra medicina e ordine pubblico”1. E’ a partire da questo presupposto che si origina la
coincidenza tra corpo sociale e corpo organico in psichiatria. Afferma infatti Basaglia che “i
confini del corpo da curare, identificati nella medicina nel limite fisico del ‘soma’, su cui si
costituisce la specificità e l’autonomia della scienza medica, nel caso della psichiatria sfumano e
si dilatano fino a coincidere col corpo sociale”2.
Non esiste il confine proprio e individuale del corpo in psichiatria; quest’ultimo diviene
specchio delle contraddizioni sociali, luogo di esercizio dei saperi e, conseguentemente, di
particolari forme di potere. E’ nello spazio indefinito di quel confine che si attua, come vedremo,
la “sospensione del diritto” tramite la creazione d’uno stato di “eccezione permanente”.
L’imposizione d’una condizione indefinita e mutevole ai confini esistenziali, fisici e giuridici
della persona umana, risulta quindi essere uno strumento formidabile di governo e
assoggettamento dell’uomo. La soggettività di quest’ultimo viene attaccata violentemente
attraverso un’invasione dei suoi confini reali – il corpo – al fine di frammentare e dissipare sul
terreno psichiatrico e giuridico l’idea stessa della sua identità, sotto forma di categorie
stigmatizzanti e precostituite quali “schizofrenia”, “psicosi” o “pericolosità sociale”. Il linguaggio
è quindi tanta parte non solo nel delineare le parabole politiche del disprezzo e dell’emarginazione
sociale, ma soprattutto nel veicolare come tecnica, scientifica e finanche amministrativa un’azione
dal carattere evidentemente segregante. Se l’obiettivo è l’inferiorizzazione sociale e morale del
“diverso” – inteso come colui che è irriducibile all’ordine nato dall’identificazione del potere con
la ragione borghese – ai fini del suo controllo, allora è sotto questa luce che dobbiamo leggere
l’incontro tra la disciplina psichiatrica e quella giuridica. Nel loro punto di congiunzione –
drammaticamente rappresentato dai corpi degli internati e degli stigmatizzati - legge e psichiatria
danno origine a forme d’esclusione che soltanto all’apparenza possono risultare differenti, ma che,
in realtà, condividono una medesima ragione sociale e politica. La nascita della loro unione,
pertanto, è da imputare a fattori storico-politici – specie nella loro dimensione filosofica e
giuridica – che hanno imposto il dominio del razionalismo borghese ad ogni ambito dell’azione
umana. E’ evidente come, ancora una volta, sia parte cruciale di ciò che definiamo “razionalismo
borghese” l’elemento ideologico. La ragione della necessità politica e filosofica del concetto
giuridico di “pericolosità sociale”, risiede quindi nella sua complementarietà al presupposto
fondamentale della disciplina psichiatrica, ovvero l’incapacità di intendere e di volere del “malato
di mente”. E’ quindi il folle che, lanciandosi nella dimensione sociale senza inibizioni di ordine
morale o culturale – e rischiando così di infrangere ogni barriera posta a difesa dell’esistente e
delle sue ingiustizie -, delinea all’interno del sistema valoriale borghese i percorsi
1 F. Basaglia, Legge e psichiatria, p. 447. 2 Ibidem, p. 448.
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dell’emarginazione sociale in forza della propria mera esistenza. Per dirla con Castel, la “sfida”
che la follia lancia all’ordine borghese non vede mai né vittorie né sconfitte definitive, poiché la
condizione dell’armistizio non può essere contemplata. Da qui la ragione della perenne attualità
del controllo del folle, la necessità di “imprigionare” la follia sia sul piano fisico che culturale ed
immaginario. Quest’ultima, in virtù della propria mera esistenza, lancia quindi una sfida a tutto
campo alla società borghese, alla sua organizzazione economica e, soprattutto, alla sua capacità di
produrre significati coerenti. E’ in tal senso che credo sia doveroso leggere la sanzione giuridica
della “pericolosità sociale” e non, come spesso viene ideologicamente propagandato, sul piano
sicuritario dell’incolumità personale. Parimenti, è l’inspiegabilità di alcuni fenomeni – e quindi il
loro portato destabilizzante – a richiedere l’intervento della psichiatria forense e criminale, al fine
di ricondurre l’incomprensibile e l’inspiegabile agli angusti ma rassicuranti confini della
razionalità borghese1. La stra-ordinarietà patologica dell’atto incomprensibile viene tuttavia
stabilita a posteriori, poiché necessita del frangente imprevedibile per manifestarsi in modo
inequivocabile, ed essere così posto oltre i confini della normalità, al di là della condizione umana
per dirla con Basaglia. Ci si trova così dinanzi ad una serie di relazioni di causa ed effetto che con
lucida spietatezza giungono all’identificazione della normalità con la condizione umana stessa.
L’anormale – e segnatamente il folle – appare così costitutivamente inumano; ecco perché corpo
sociale e corpo organico sono, in psichiatria, intrappolati in un’opposizione irriducibile. La
medicina, invece, ha non solo la capacità, ma anche la necessità di restituire il corpo organico al
corpo sociale, e questo per due ragioni principali. La prima è che il corpo sociale, ovvero
l’organizzazione produttiva, richiede l’integrazione della forza lavoro sana – e anche in virtù di
questa esigenza acconsente alle cure -; la seconda è che la scienza medica deve poter esprimere e
manifestare la validità del proprio sapere poiché questa è l’unica via attraverso cui consolidare lo
1 Nello scritto L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo, Foucault si interroga sulle ragioni dell’intervento della psichiatria in ambito penale agli inizi del XIX secolo. Tra il 1800 e il 1835 si verificano una serie di crimini efferati che presentano tra loro alcune rilevanti analogie così riassunte da Foucault: “il grande assassinio mostruoso, senza ragione né segni premonitori, l’irruzione improvvisa della contro-natura nella natura, è dunque la forma singolare e paradossale con cui si presenta la follia criminale o il crimine patologico”. Si tratta quindi di un tipo di alienazione che si manifesterebbe soltanto nel momento e nelle forme del crimine, che gli psichiatri del tempo riassumono con la finzione della “monomania omicida”. Nota Foucault, come “il fatto è tanto più paradossale in quanto, pochissimo tempo prima, al termine del XVIII secolo, i primissimi alienisti (in particolare Pinel) protestano contro la promiscuità, praticata in molto luoghi di internamento, tra delinquenti e malati”. Perché si è voluta riallacciare tale parentela? Foucault individua due principali chiavi di lettura. La prima è da ricercare nella nascita, a partire dalla fine del XVIII secolo, del “corpo sociale” inteso non solo come metafora giuridico-politica ma come realtà biologica e campo d’intervento medico. Il medico, afferma Foucault, “deve quindi essere il tecnico di questo corpo sociale e la medicina un’igiene pubblica”. L’autonomia e il prestigio della psichiatria ottocentesca è quindi da ricercare nell’ambito di una medicina percepita come difesa dai pericoli inerenti al corpo sociale. La seconda ragione risiede invece nei meccanismi di punizione e nei significati loro attribuiti. E’ tramite questa via che la medicina mentale penetra nella penalità, e non “dall’alto” con la mediazione di codici o princìpi teorici. Questo perché punire diviene un insieme di processi ideati per modificare i trasgressori, in una società in cui “l’esercizio del potere implicava una tecnologia ragionata degli individui”. La punizione, pertanto, più che sul crimine deve ruotare sulla persona del criminale, specie a proposito dei crimini senza ragione. La macchina penale non si accontenta più di un’ammissione o di un accertamento dei fatti, necessita di una confessione, di un esame di coscienza, uno svelamento di sé; anche da qui l’intervento della psichiatria in ambito penale.
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status e il prestigio raggiunto. La psichiatria, invece, si riconosce unicamente nella cancellazione
del corpo organico – uomini e donne – in nome degli interessi del corpo sociale – ossia rapporti di
potere e sfruttamento. Per cancellazione del corpo organico non dobbiamo solo intendere la
mortificazione dell’uomo di cui abbiamo parlato in precedenza ma, rimanendo all’interno del
discorso medico-psichiatrico, l’impossibilità della guarigione dalla “malattia mentale” quale
postulato della psichiatria stessa. La cancellazione del corpo organico, infatti, determina il venir
meno della stessa dimostrabilità scientifica del proprio discorso, poiché si mortifica l’elemento
fisico e corporeo su cui manifestare le potenzialità della propria scienza; credo sia questa una
delle immagini più calzanti nel restituire la portata della forza scaturita dall’incontro tra
psichiatria e potere. Non vi è quasi più bisogno di ricorrere all’incantesimo della scienza, il potere
produce da sé verità e certezze ben oltre il limite posto dalla razionalità stessa della scienza che, a
questo punto, diviene ancella delle classi dominanti, non disciplina autonoma nel proprio sapere
ma strumento di dominio.
Il corpo fatto oggetto dalla psichiatria è quindi un corpo morto che, come afferma Basaglia,
assume significato solo in quanto “contenuto del manicomio”. Se interpretiamo il manicomio
quale istituzione-simbolo del dominio e della sopraffazione, ne consegue che la psichiatria
sostituisce la morte alla vita, l’efficienza dell’organizzazione sociale ed economica alla serenità
dell’esistenza umana. Il soggetto è così annichilito, ridotto a mero strumento di riproduzione
materiale del manicomio. Scrive Basaglia: “In questo modo la razionalità del manicomio recupera
la follia: un recupero che…fino a quando non si produrranno sostanziali mutamenti
nell’organizzazione produttiva, tenderà ad escludere la possibilità di recuperare il singolo corpo” 1.
Il singolo corpo è la parabola di vita di uomini e donne – nient’affatto raramente bambini e
bambine –, l’immagine di un vissuto che affonda le radici nel dolore e nella sensazione di
abbandono che percorre quel tormentato crocevia che è l’esistenza umana in condizioni di miseria
e marginalità.
In questo contesto, è il manicomio a divenire paradossalmente soggetto, poiché la riproduzione
dei luoghi e delle forme del controllo psichiatrico diviene condizione essenziale ai fini della
“totalizzazione dell’individuo nella sua devianza psichica”, ovvero nell’oggettivazione bio-
giuridica della sua esistenza. Per questa ragione la psichiatria ha sempre tentato di ridurre al
minimo lo scarto tra custodia e cura, puntando sistematicamente a dimostrare la necessità della
loro coincidenza ai fini sia della guarigione che del recupero sociale del “malato”. E’ a questo
livello che l’intervento giuridico risulta essenziale, poiché è chiamato a “governare” la spinosa
questione dei diritti dell’uomo in un regime borghese e “liberale”. Le norme che garantiscono la
coincidenza della cura con la custodia e la sorveglianza – a partire dalla condivisione dei
medesimi luoghi2 - hanno infatti visto, storicamente, l’esercizio di un controllo attento e rigido,
volto ad impedire ogni pratica che potesse ostacolare ”l’automatica sequenza malattia-sanzione”.
1 Ibidem, p. 449.
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Al contrario, come nota Basaglia, “sulle garanzie dei diritti del singolo, pure esplicitamente
contemplate dalle legislazioni, ed affidate ad appositi organismi, si sono sempre consentiti ampi
margini di manovra, quando giustificati o coperti dall’autorità tecnica”1. La giustificazione
dell’autorità tecnica, quindi, non è rivolta solo alla formazione del consenso, ma anche ad
individuare uno spazio normativo dove sospendere i diritti di determinate categorie di persone,
senza che questo possa compromettere l’assetto dell’ordinamento istituzionale voluto dalle classi
dominanti. Anzi, è proprio l’individuazione di una parte variabile e fluttuante all’interno degli
ordinamenti giuridici borghesi a consentire la sopravvivenza dell’ordine sociale ed economico di
cui l’apparato legislativo è immagine riflessa. In sostanza, le contraddizioni sociali proprie del
sistema capitalistico individuano nella sanzione giuridica e in quella psichiatrica – che nel caso
della malattia mentale si intrecciano in modo inestricabile – condizioni favorevoli al contenimento
della tensione sociale e, soprattutto, al governo di quest’ultima in una chiave politica e culturale
regressiva. L’esistenza stessa del discorso psichiatrico in ambito giuridico, e viceversa, tende a
strutturare un immaginario segnato da istituzioni totali, perizie e classificazioni unicamente rivolte
ad oggettivizzare le tensioni reali della società - e delle persone che la animano -, operando un
vero e proprio arretramento, sul piano della coscientizzazione politica, delle soggettività
coinvolte.
In tal senso, risulta emblematico il sistema normativo costruito in ambito psichiatrico, orientato
a sottrarre alla imprevedibile spontaneità del vivente ogni margine d’autonomia. L’imperativo è
strutturare, ordinare e definire al fine di frammentare i percorsi di soggettivazione politica. “Come
nel caso dell’apparato giudiziario”, osserva Basaglia, “l’oggetto della psichiatria si definisce sul
pericolo costituito dal comportamento deviante”2. Possiamo quindi affermare che la psichiatria è
in realtà riconducibile ad un mero sistema normativo, articolato lungo un percorso così definito:
pericolosità sociale-contenzione-internamento. Non vi è alcuna reale autonomia rispetto ai pilastri
della sanzione e della segregazione propri dell’apparato giudiziario; è infatti intorno ad essi che,
storicamente, la psichiatria ha svolto – e continua a svolgere - il proprio mandato sociale. E’
dunque facile comprendere la ragione che conduce Basaglia ad affermare che “la definizione
normativa ha dunque inciso assai pesantemente nel canalizzare lo sviluppo del sapere
psichiatrico”3, attribuendo così alla legge una funzione che potremmo definire “costitutiva”. Il
concetto di sanzione, costantemente presente nel discorso psichiatrico, è indubbiamente proprio
della sfera giuridica e ci parla innanzitutto di una punizione conseguente alla violazione di una
norma – che è lì a rappresentare la cristallizzazione di rapporti di forza in seno alla società. E’
2 Questo non avveniva soltanto all’epoca dei grandi ospedali psichiatrici, ma permane ancora oggi persino nei Centri di Salute Mentale più avanzati, dove la tendenza alla “cronicizzazione istituzionale” del “malato di mente” è condizione essenziale al fine di affiancare alla presunta azione terapeutica un costante monitoraggio della vita sociale di quest’ultimo. 1 Ibidem, p. 450. 2 F. Basaglia, Legge e psichiatria, p. 450. 3 Ibidem, p.451.
103
tuttavia evidente che l’arbitrio del potere non può spingersi talmente oltre sino a teorizzare una
corrispondenza tra la condizione di “malato” e quella di “colpevole”, poiché, nel tentativo di
distogliere l’attenzione dai bisogni reali delle persone, finirebbe per innescare perverse e
distruttive dinamiche nei confronti del sistema borghese stesso1. E’ da questa contraddizione che
nasce la necessità di agire ideologicamente affinché la malattia mentale si situi, nell’immaginario
comune, sempre più in prossimità del concetto di pericolosità sociale. Anzi, le tendenze in atto –
che nel precedente capitolo abbiamo definito “patologizzazione della diversità” – ci dicono che
siamo oramai giunti ad una sostanziale coincidenza tra il significato di devianza o pericolosità
sociale e quello di malattia mentale, ovvero alla riduzione di una testimonianza inequivocabile di
contraddizione sociale, economica ed esistenziale ad una forma di determinismo biologico o
psicodinamico. E’ evidente come questa trasposizione non resti priva di conseguenze sul piano
politico - segnatamente dei processi d’emancipazione sociale, civile e finanche di genere – e anzi
rappresenti una sorta di conferma non solo della disgregazione della “coscienza di classe” ma
anche dell’assenza di reali processi di soggettivazione politica che partano dalla marginalità, da
ciò che viene lasciato all’esterno del sistema in condizioni di perenne sofferenza.
2. Il nuovo ordine psichiatrico
La crisi del modello asilare – che si manifesta attraverso processi di riorganizzazione della
psichiatria profondamente differenti nei vari paesi – individua nella ridefinizione normativa
l’elemento capace di accomunare le diverse esperienze su cui si è assestato ciò che Basaglia, sul
finire degli anni Settanta, definisce “nuovo ordine psichiatrico”. Nel quadro normativo resta
quindi scolpito in modo inequivocabile l’effettivo mandato sociale della psichiatria, pur in un
contesto segnato da grandi mutamenti sul versante delle esperienze di trasformazione
istituzionale. La ragione che sta alla base della crisi del modello asilare è riconducibile, nella
lettura che ne dà Basaglia, all’espansione economica e dunque alla necessità di nuova forza-lavoro
e di un efficace recupero di quella inabile. In particolare, sono i due punti cardine intorno ai quali
si è articolata la disciplina psichiatrica, vale a dire la prognosi di cronicità della malattia mentale e
l’irreversibilità dell’internamento, ad entrare in conflitto con l’organizzazione produttiva. Secondo
1 Basti pensare al ruolo ricoperto dalla scienza medica nell’attuazione di misure biopolitiche finalizzate al controllo del “corpo sociale”. Come nota Foucault, “la crescita della demografia, delle strutture urbane, del problema della manodopera industriale, aveva provocato, nel corso del XVIII secolo, la questione biologica e medica delle ‘popolazioni’ umane, della loro condizione d’esistenza, di habitat, d’alimentazione, della loro natalità e mortalità, dei loro fenomeni patologici”. E’ quindi evidente l’inadeguatezza storica d’ogni misura volta a stigmatizzare l’intervento della medicina nella vita sociale che, anzi, diviene parte irrinunciabile di quest’ultima. Pertanto, risulta storicamente e politicamente necessario focalizzare l’intervento stigmatizzante sulle patologie che presentano un forte legame con le classi sociali subalterne e marginali. Indubbiamente le “malattie mentali” sono tra queste, così come quelle veneree. Tuttavia, le prime assommano alla propria composizione di classe - già ragione di esclusione e controllo in un contesto borghese – ciò che abbiamo definito essere il proprio intrinseco portato antisistemico nei confronti della codificazione borghese della razionalità.
104
Basaglia, questo attrito può essere recuperato soltanto “dall’instaurarsi di una continuità,
ideologica e organizzativa, tra riparazione del corpo sociale (come controllo del suo equilibrio
produttivo) e riparazione del singolo corpo (come tutela della sua potenzialità di lavoro)”1. Il
carattere ideologico del “nuovo ordine psichiatrico”, denunciato da Basaglia, è insito nel tentativo
stesso di ricomporre la frattura tra corpo sociale e corpo organico, poiché trattasi di un’operazione
che avviene all’insegna della centralità della produzione e delle sue esigenze. Vi è quindi una
discrasia che un’azione riformatrice può armonizzare soltanto parzialmente, poiché questa deve
comunque rispondere ad esigenze di mera natura economica. Basaglia stigmatizza la necessità di
giungere ad un “equilibrio produttivo”, ossia ad un rapporto certo e stabile tra domanda ed offerta
di manodopera; così come reputa inaccettabile che la tutela dei diritti del singolo individuo venga
qualificata come variabile dipendente della sua potenzialità di lavoro. E’ unicamente nel lavoro
che l’individuo stigmatizzato come “malato di mente” può recuperare il proprio status di uomo, la
propria dignità civile e sociale. E’ inoltre emblematico come il lavoro non sia di per sé condizione
sufficiente alla riabilitazione del folle, ma lo sia soltanto il lavoro capace di produrre un surplus
economico. Pertanto, stando alla lettura basagliana, la congiuntura economica e le leggi di
mercato ricoprono un ruolo cruciale nel creare le condizioni per il recupero – o quantomeno la de-
istituzionalizzazione - dei “malati di mente”. Il sistema dell’economia, dunque, è non solo giudice
del destino di uomini e donne, ma elemento capace di attivare la produzione d’una “verità
scientifica”, di un processo di guarigione così come d’una diagnosi di irreversibile cronicità.
In particolare, le nuove risposte organizzative sono tendenti al raggiungimento d’una condizione
di continuità fra istituzione e territorio. E’ pertanto necessario edulcorare gli aspetti più spigolosi e
rigidi del manicomio – basti pensare all’introduzione del ricovero volontario2 – al fine di renderlo
maggiormente permeabile al territorio, e viceversa. Basaglia riassume così tali dinamiche: “si
assiste al diffondersi di una rete di servizi e di un esercito di tecnici che sembrano aver spostato il
manicomio verso la periferia del circuito”3. La delocalizzazione del manicomio ai margini del
circuito del controllo psichiatrico, è quindi un’azione determinata dall’incoerenza ideologica di
quest’ultimo e dalla sua inefficacia funzionale. “La prima”, osserva Basaglia, “si declina come
sospensione generalizzata dei diritti individuali in una fase storica in cui questi vengono ribaditi
ed enfatizzati; la seconda si rovescia contro l’organizzazione produttiva come ostacolo
all’assorbimento di nuova forza lavoro – e quindi al contenimento dei salari e delle rivendicazioni
– ed alla riproduzione di quella parte già integrata”4. La marginalità assunta dal manicomio è
1 F. Basaglia, Legge e psichiatria, p. 453.2 In Italia fu la legge 431 del 1968 ad introdurre la possibilità del ricovero volontario. L’art. 4 “Ammissione volontaria e dimissioni” recita: “L’ammissione in ospedale psichiatrico può avvenire volontariamente, su richiesta del malato, per accertamento diagnostico e cura, su autorizzazione del medico di guardia.”. Risulta quindi evidente come il potere effettivo del medico non venga messo in discussione, anzi, nuovamente esaltato poiché alla possibilità di sancire un ricovero coatto si aggiunge quella di giudicare la liceità della richiesta di un ricovero volontario. 3 F. Basaglia, Legge e psichiatria, p. 456. 4 Ibidem, p. 453. Corsivo mio.
105
dunque condizione irrinunciabile alla tutela stessa della sua esistenza in una fase storica che
presenta forti criticità, sia sul piano politico che economico, rispetto all’immagine sino ad allora
dominante dell’istituzione asilare. Per assicurare la persistenza del manicomio è paradossalmente
necessario dislocarlo altrove, quasi a volerlo nascondere e proteggere dalle crescenti critiche della
società civile e dai suoi stessi limiti che, già nel corso degli anni Settanta, assumono contorni e
dimensioni non più “normalizzabili”.
Basaglia utilizza un’espressione estremamente felice nell’indicare la rinnovata capacità del
potere psichiatrico di modulare la propria azione in linea con una società sempre più fluida e
complessa nei rapporti sociali, infatti, parlando di “diffrazione della sanzione che si dosa per gradi
nei differenti livelli del circuito”, coglie la peculiarità di una psichiatria oramai capace di adagiarsi
sull’intera società al fine di ricondurne le fratture e le contraddizioni ad un mero problema di
legge e ordine (psichiatrico). La condizione di continuità fra istituzione e territorio, di cui parla
Basaglia, chiama in causa soggetti sociali che – più o meno consapevolmente -, attraverso la
propria azione pratica, ricoprono il ruolo di “guardiani” dell’ordine costituito. Infatti, i servizi
offerti in ambito psichiatrico - sempre più espressione del polo territoriale e segnatamente del
“terzo settore” – operano, in modo paradossale, un tentativo di sussunzione della malattia mentale,
e quindi della “marginalità sociale”, alle leggi della produttività e dell’economia cosiddetta
“sociale”. L’istituzione psichiatrica vera e propria, o quel che ne resta – in particolare i reparti di
diagnosi e cura negli ospedali civili e gli ospedali psichiatrici giudiziari -, mantiene il monopolio
della gestione di soggettività che sfuggono al controllo territoriale dei servizi e,
conseguentemente, precipitano “nell’area più severa e rigida del circuito”, poiché affette da una
malattia giudicata tanto più grave ed incurabile quanto più risulta difficile domarla.
In un passaggio cruciale di Legge e psichiatria – testo scritto l’anno successivo all’approvazione
della legge 180 – Basaglia mostra nuovamente una straordinaria sensibilità nel cogliere la capacità
del potere – ossia delle classi dominanti – di riadattarsi al mutare delle condizioni economiche,
sociali e finanche legislative, salvaguardando così i rapporti di forza esistenti. Infatti, Basaglia
parla di un’area di “cronicità morbida” (soft) che si polarizza attorno ai servizi, evitando di
appesantire non solo il carico degli ospedali psichiatrici ma, più in generale, di tutte le istituzioni
che agiscono direttamente sul terreno medico-psichiatrico. E’ come se l’organizzarsi della
psichiatria in un circuito di istituzioni diffuse e multidisciplinari ne avesse sensibilmente
potenziato la capacità di aggregare ed ordinare fasce sociali individuate come maggiormente
pericolose nei confronti dell’equilibrio socioeconomico esistente, poiché dal loro mancato
controllo – e quindi dalla loro possibile soggettivazione politica – deriverebbe un’alterazione del
dis-equilibrio reale che informa i rapporti sociali. La prognosi di cronicità del “malato di mente” –
che negli ospedali psichiatrici assume i tratti drammatici dell’istituzionalizzazione più profonda –
viene conservata quale formidabile strumento di potere all’interno del “nuovo ordine
psichiatrico”. La durata indefinita del rapporto tra psichiatra – quale delegato della società – e
106
paziente è quindi inscritta nella stessa diagnosi; in questo modo viene garantita non solo la
continuità del controllo e dell’inferiorizzazione del “malato”, ma il consolidamento del potere
psichiatrico che la stessa ritualità dell’intervento genera.
E’ questa cronicità soft che consente di “mantenere il rapporto col tessuto sociale attraverso una
parziale e precaria attività lavorativa ed un proprio ambito di socializzazione”1. Viene largamente
evitata la lungodegenza serializzata ed irreversibile - tipica dei manicomi - proprio al fine di
delineare una dipendenza costante e periodica dal servizio; è questa una condizione essenziale al
fine di qualificare quest’ultimo, in primis agli occhi del “malato”, come polo dotato del know-how
necessario alla sua stessa vita sociale. Credo possa essere utilizzata l’immagine dell’outsourcing
per evidenziare il carattere innovativo adottato dal potere psichiatrico nella fase successiva alla
riforma operata dalla legge 180 del 1978. Infatti, se è vero che viene affidata ai servizi – oramai
appannaggio del settore privato – la gestione di tratti significativi del circuito del controllo
psichiatrico -operando così una prima “esternalizzazione”-, è altresì vero che quest’ultimi
individuano in ciò che resta dell’autonomia sociale ed esistenziale del “malato di mente” un
sostegno irrinunciabile e prezioso alla propria azione. Questa condizione di relativa autonomia del
soggetto viene quindi sussunta all’interno di un “percorso terapeutico” che finisce per
neutralizzarla nel momento stesso in cui la utilizza ai fini del controllo. Per queste ragioni,
afferma Basaglia, “ambedue – l’attività lavorativa precaria e l’ambito di socializzazione
dell’individuo – sono sostenuti e controllati dal ricorso al servizio nel quale la supervisione dello
psichiatra consente da un lato forme diversificate di prestazioni – necessarie a fronteggiare la
complessità delle nostre società -, garantendo dall’altro l’omologazione del contenuto”2. Viene
operata quindi una finzione che, sul piano formale, garantisce l’individualizzazione delle
prestazioni socio-sanitarie ma, sul piano sostanziale, assicura, proprio in virtù di un ”controllo a
misura d’uomo”, una perfetta omologazione agli standard comportamentali definiti dalle norme
sociali.
In questo contesto che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, si caratterizza per una
pericolosa estensione dello status di “malato di mente”, Basaglia nota una singolare continuità dei
principi normativi con la struttura ottocentesca. A fronte di significativi mutamenti sul piano
dell’organizzazione dell’intervento psichiatrico - che vede nella trasformazione del modello di
gestione dal manicomio alla diffusione dell’istituzione psichiatrica il proprio punto cardine – gli
interventi in ambito legislativo sono stati minimi. Afferma Basaglia che “i confini della psichiatria
si sono di fatto sfocati con l’estendersi della condizione di utenza ma restano ancora indicati, in
ultima analisi, da una sanzione giuridica di forma ottocentesca…”3. La pericolosità sociale del
malato di mente – “ragione” politica e giuridica d’ogni misura volta alla limitazione delle libertà
1 Ibidem, p. 457.2 Ibidem, p. 457. Corsivo mio. 3 Ibidem, p. 458.
107
personali – è quindi il vero nodo da sciogliere discutendo di legge e psichiatria, in quanto, per
questa via, si investe la definizione stessa di “psichiatria” e segnatamente la sua funzione
nell’organizzazione sociale. Inoltre, sino a quando, all’interno dell’ordinamento di un paese,
persisterà l’istituzione manicomiale, ci si troverà dinanzi ad una cultura della sanzione e della
separazione che “irrigidisce” ed “inquina” la rete dei servizi sociali, impedendo a quest’ultimi di
considerare i bisogni reali delle persone e, per questa via, le contraddizioni sociali resteranno
prive di risposte politiche. L’ospedale psichiatrico, in quanto luogo della criminalizzazione del
malessere sociale ed esistenziale, risulta essere un vero e proprio baluardo del conservatorismo e
della difesa dello status quo. Ecco perché Basaglia ritiene fondamentale – potremmo persino dire
pedagogico ai fini d’una riforma in chiave progressista della psichiatria – attribuire alla
distruzione dell’ospedale psichiatrico il valore di conditio sine qua non per iniziare non solo a
discutere di un effettivo processo di riforma psichiatrica - e quindi del cammino politico che
questo implicherebbe nella visione basagliana – ma anche al fine di restituire alla sofferenza
psichica il suo effettivo volto, che di certo non è quello scavato dalle pratiche di
istituzionalizzazione. Altrimenti, anche quando nascosto e lontano dal centro, il manicomio
continuerà ad agire quale elemento catalizzatore dell’oppressione e della sospensione dei diritti
umani; è come se l’aria circostante venisse irrimediabilmente viziata dalla sua sola presenza.
Scrive Basaglia: “esso costituisce il luogo in cui sono visibili e legittimate le categorie che finora
hanno informato le ideologie e le pratiche della corporazione psichiatrica…”1. Il manicomio è
quindi capace di strutturare e definire l’immaginario comune – è come se la sua mera presenza
fisica giustificasse se stesso, il proprio fine sociale e le proprie pratiche -, è luogo della verità dove
i pregiudizi psichiatrici trovano sistematicamente conferma e sostegno – anche se necessitano di
transitare attraverso mortificanti prassi istituzionali per inverarsi. Il manicomio è quindi il segno
più drammatico della storicità della normativa psichiatrica e del suo incombere minaccioso sul
singolo individuo; da questo punto di vista, sul finire degli anni Settanta, il nodo della sua
esistenza ricopriva, specie sul piano simbolico, un ruolo dirimente nel segnare la possibilità di
trasformazione sociale o, viceversa, di un sostanziale mantenimento dell’ordine costituito.
1 Ibidem, p. 458.
108
Il caso italiano: la legge 180
In Italia il primo tentativo di riforma legislativa – in grave ritardo rispetto ad altri paesi europei
– è del 1968 con la legge stralcio 431. Tale provvedimento si articola lungo due linee
fondamentali: la prima è volta ad introdurre disposizioni riguardanti il ricovero volontario in
ospedale psichiatrico, la seconda istituisce invece un’area di servizi territoriali a contorno
dell’ospedale psichiatrico (i Centri di salute mentale). Basaglia, sin dalle prime battute, assume
una posizione critica e distaccata nei confronti di quella che definisce essere una “microriforma”,
in particolare perché non vengono intaccati i “fondamenti della sanzione giuridica”. Infatti, il
malato ricoverato in modo coatto è ancora definito come “pericoloso per sé e per gli altri e di
pubblico scandalo”, sulla base della vecchia normativa del 1904. Risulta quindi evidente come il
giudizio di pericolosità sociale non abbia nulla a che vedere con la malattia mentale ma, piuttosto,
sia strettamente legato alla “docilità” delle persone internate o psichiatrizzate. I malati che si
sottopongono volontariamente alle “cure”, infatti, non risultano essere pericolosi in base alle
disposizioni della legge – poiché già dominati da meccanismi di autocontrollo -, quelli “coatti”,
invece, conservano tutta la propria intrinseca pericolosità sociale, almeno sino a quando non
saranno adeguatamente istituzionalizzati e normalizzati.
A giudizio di Basaglia, le cause reali degli effetti irrilevanti di tale riforma sono da individuare
“nello scarto fra l’ampiezza delle problematiche aperte dalle esperienze di trasformazione
istituzionale…e la complessiva rigidità di un sistema di istituzioni interamente fondato sulla rete
del manicomio sorta nei primi anni del secolo”1. Basaglia continua quindi a sostenere, in perfetta
coerenza, l’irriformabilità dell’istituzione manicomiale, che può essere soltanto negata e distrutta
assieme alle sue insanabili contraddizioni. Nello specifico caso italiano, tale riforma ha prodotto
un’ulteriore polarizzazione della situazione, avvicinando sensibilmente i sostenitori di una pratica
alternativa – il movimento antiistituzionale - verso un collegamento spiccatamente politico, quali
le lotte operaie e studentesche del 1968-’69. La diffidenza da parte dello stato ad ogni processo di
mutamento ha da un lato compattato rigide riproposizione della psichiatria asilare ottocentesca e
positivistica e, dall’altro lato, allontanato ogni ipotesi di orientamento verso astratti modelli di
riforma del settore.
Basaglia nota immediatamente come, in Italia, la crisi del modello asilare abbia trascinato con
sé “la funzione stessa della psichiatria ed in essa siano confluiti contenuti e conflitti di ordine non
specificamente psichiatrico”2. Il percorso trasversale e segnatamente “sociale” del movimento di
critica psichiatrica, ha posto al centro dell’analisi e della prassi politica non solo il manicomio ma
soprattutto il principio, per così dire, della “manicomialità” che ne è fondamento. Questa critica
radicale della psichiatria – vera peculiarità italiana – affonda le radici nel processo sociale che l’ha
1 Ibidem, p. 459.2 Ibidem, p. 460.
109
accompagnata e nella sua capacità di coinvolgere istanze e soggetti tra i più disparati, che vanno
dal mondo dell’università a quello del lavoro, dagli studenti agli operai, dai sindaci e dalle
amministrazioni locali ai parlamentari, dai lavoratori delle grandi industrie ai braccianti agricoli
delle zone periferiche e marginali. In sostanza, in una certa fase della vita politica italiana, vi è
stato un movimento composito ed articolato in numerose lotte territoriali che, pur nelle legittime
differenze, ha prodotto una critica profonda e unitaria della psichiatria, segnando così un punto di
non ritorno sul piano della coscienza sociale e civile. “In questi termini e con questa ampiezza”,
sostiene Basaglia, “si è posto, alla fine degli anni settanta, il problema politico di una
ridefinizione, normativa ed organizzativa, della psichiatria”1. Il punto di non ritorno
dell’esperienza italiana è sintetizzato proprio dalla legge 180 del 1978, poiché “mentre le revisioni
del dopoguerra hanno sottovalutato o eluso il problema della sanzione giuridica e della forma-
manicomio, nell’illusione forse di un loro possibile superamento organizzativo, la normativa
italiana si incentra proprio su questi punti e ne ridefinisce i termini”2. Si tratta di una normativa
contraddittoria sul piano dei contenuti ma, forse proprio per questa ragione, rappresenta un punto
d’osservazione privilegiato nel campo psichiatrico. La legge non si prefigge più l’obiettivo di
determinare i confini della malattia mentale e, conseguentemente, di delineare il terreno del lecito
e dell’illecito, ma si concentra sulle forme e le ragioni del trattamento della malattia. Per questa
ragione il trattamento diviene meramente sanitario e, quindi, potenzialmente riferito a tutte le
patologie che possono necessitare d’una condizione di obbligatorietà del trattamento stesso – ad
esempio le malattie infettive e diffusive. La malattia mentale viene quindi calata all’interno di un
contesto allargato – perdendo così il suo specifico stigmatizzante sul piano morale e relazionale –
in cui risulta parificata ad altre patologie. L’intento del legislatore è quindi quello di alleggerire la
densità della “psicopatologia” sul piano della percezione comune al fine di ridurne i riferimenti
sociali e culturali pregiudizievoli – e a tratti persino scaramantici – che la caratterizzano. La
dimensione eminentemente sanitaria all’interno della quale viene inserita, al pari di altre
patologie, opera un movimento che sposta il focus della malattia mentale dalla stigmatizzazione
sociale (“pericoloso a sé e agli altri”) e culturale (“di pubblico scandalo”) al trattamento medico-
scientifico. Per questa ragione, osserva Basaglia, “la necessità del trattamento sanitario
obbligatorio va dimostrata, ove le altre normative la pongono come insita e definitoria della
malattia mentale – in virtù della sua scontata pericolosità sociale”3.
La legge 180 pone quindi l’accento sul servizio e non sul comportamento, giustificando il
trattamento sanitario obbligatorio solo qualora “non vi siano le condizioni e le circostanze che
consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”. Basaglia invita a
notare come, a questo punto, il problema risulti essere duplice: “da un lato le difficoltà del
1 Ibidem, p. 461.2 Ibidem, p. 461.3 Ibidem, p. 461, corsivo mio.
110
soggetto, ma dall’altro la risposta del servizio, che ricorre al ricovero in ospedale psichiatrico in
quanto non ha saputo o potuto organizzare altre misure tempestive ed idonee”1. La responsabilità
viene quindi condivisa e diffusa tra più soggetti ed istituzioni; la sofferenza psichica non è più una
mera colpa, uno stigma di cui l’individuo porta i segni deterministici sul corpo o nella mente, ma
la risultante – mediata soggettivamente e in chiave esistenziale – di condizioni economiche,
sociali e relazionali. Ecco che il trattamento sanitario obbligatorio, oltre ad essere una misura alla
quale ricorrere in extrema ratio, rappresenta sempre una sconfitta poiché denota l’esistenza di un
“sistema di servizi che non ha organizzato sul territorio una risposta efficace al caso specifico” 2.
La funzione che la legge pone in capo ai servizi sociali è quindi di cruciale rilevanza, in quanto
quest’ultimi sono chiamati a rispondere ai bisogni reali di ciascuna persona, aprendo così spazi
politici innovativi che investono, in primo luogo, il concetto stesso di diritti sociali – a partire dai
princìpi di universalità ed esigibilità che dovrebbero connotarli – e il conflitto politico, latente e
costante, che accompagna la loro affermazione così come la loro regressione.
Accade quindi che il tema della follia viene riversato fisicamente, politicamente e culturalmente
sulla società, rendendo così evidente una delle sue principali ed irrisolte contraddizioni. Ai tempi
de L’istituzione negata, Basaglia sosteneva che attraverso il processo di negazione istituzionale e
di apertura dei manicomi si “violentavano” le città poiché, improvvisamente, la cittadinanza, la
società, le istituzioni, venivano poste dinanzi al volto della follia, a ciò che nei secoli era stato
escluso e relegato ai margini, nell’oscurità. L’incontro improvviso con il folle rompe quindi un
incantesimo lungo secoli, avvera l’impossibile, ossia la continuità fisica della normalità con la
pazzia. La contemporanea condivisione degli stessi luoghi apre, dieci anni prima della legge 180,
il lungo percorso – ancora attuale – della ricomposizione tra follia e ragione, anormalità e
normalità, sragione e razionalità, in una chiave tutta politica che vede nella scissione tra malattia
mentale e pericolosità sociale la condizione necessaria d’ogni processo d’emancipazione
individuale e collettivo in ambito psichiatrico. E’ infatti l’avverarsi di questa condizione a
delegittimare la “sopravvivenza del manicomio come concentrazione e separazione”; da qui
l’esplicito divieto della legge alla costruzione di nuovi ospedali psichiatrici e l’obbligo di
programmare il riutilizzo ad altro scopo delle vecchie strutture di ricovero. “Lo stigma della
psichiatrizzazione”, scrive Basaglia, “diventa diritto ad una soluzione altra dal manicomio, cioè a
forme di assistenza che garantiscano la risposta ai bisogni sotto forma di reddito e servizi…” 3. In
queste righe è contenuto tutto il valore che Basaglia attribuisce alla conflittualità politica nel
determinare la definitiva chiusura dei manicomi e giungere così all’organizzazione di
un’assistenza capace di rispondere ai bisogni reali delle persone, a partire dalla comprensione di
quest’ultimi attraverso un’attenta lettura delle forme di disagio psichico ed esistenziale.
1 Ibidem, p. 462. 2 Ibidem, p. 462. 3 Ibidem, p. 464.
111
Emblematica è la citazione del reddito tra le possibili risposte ai bisogni; è infatti questo un
passaggio chiave che avvalora e legittima le preoccupazioni circa la stringente correlazione tra
follia e miseria. Il terreno del contrasto e della prevenzione della sofferenza psichica è anche
quello delle grandi battaglie del mondo del lavoro, delle lotte di lavoratrici e lavoratori, donne e
uomini che, a partire dal miglioramento delle condizioni materiali di vita, hanno voluto affermare
la propria dignità.
Un altro elemento introdotto dalla legge – che Basaglia giudica fondamentale – è il ruolo di
garante del sindaco nella supervisione dei trattamenti sanitari obbligatori. La politica viene quindi
incaricata non solo dell’organizzazione dei servizi, ma anche d’una duplice funzione di tutela
verso la singola persona: dall’invalidazione che lo stigma di “malato di mente” continua a
conservare sul piano socioculturale da una parte, e dalla limitazione delle libertà e delle volontà
individuali che ogni trattamento coercitivo comporta dall’altra parte. In un passaggio di Legge e
psichiatria dal sapore profetico, Basaglia – ad appena un anno dall’approvazione della legge 180
– mette in guardia rispetto alla divaricazione tra “normativa e stato di fatto”, specie per quanto
concerne l’analisi sul trattamento sanitario obbligatorio. Scrive Basaglia: “è proprio tenendo
presente lo scarto tra normative e pratiche, fondato su concrete stratificazioni di interessi…che
assume rilevanza la parzialità in qualche modo adottata come propria dalla normativa”1. E’
l’entità di questo scarto tra norma e prassi a rappresentare l’indicatore più veritiero della presenza
– e dell’incisività – di un movimento politico, sindacale e sociale capace di aggregare e mobilitare
una soggettività politica collettiva e diffusa che legga nella psichiatria – in tutte le sue forme
storiche – un pratica di dominio e di controllo sociale. In tal senso, afferma Basaglia, “la nuova
legge psichiatrica italiana rappresenta un tentativo di legare la trasformazione di un settore
dell’apparato statale alla crescita, in coscienza e in organizzazione, della base dell’organizzazione
sociale…”2. L’applicazione della normativa può essere garantita soltanto da un movimento
politico che, da un lato, aggrega “dal basso” una forte volontà di superare e trasformare storiche
carenze ed arretratezze dello stato – all’interno delle quali si inserisce anche il trattamento del
disagio psichico – e, dall’altro lato, promuove un’attiva partecipazione popolare alla gestione
delle istituzioni stesse, ovvero avvicina la politica al corpo sociale e ai suoi bisogni.
La critica della psichiatria non può pertanto risolversi in un testo di legge, anche nel caso del più
progressista di questi. Tra legge e psichiatria, così come tra legge ed istanze di emancipazione
sociale, vi è, nella lettura basagliana, un rapporto in costante divenire – sia sul piano formale che
sostanziale -, che sarebbe deleterio cercare di identificare e circoscrivere in una cristallizzazione
storico-giuridica. La legge 180, che risponde ad una diffusa richiesta di trasformazione sociale
così come di riorganizzazione della pratica psichiatrica, non fa certo eccezione. Il compito
fondamentale di ciascuno – almeno di coloro che non sono asserviti al potere -, secondo Basaglia,
1 Ibidem, p. 463. 2 Ibidem, p. 465.
112
è quello di aprire costantemente delle contraddizioni in quanto, così facendo, si creano dei bisogni
e, assieme a questi, i percorsi di “presa di coscienza” della condizione reale – e non mediata dal
potere – della propria vita. Ecco perché sarebbe comunque una sconfitta accogliere una legge, o
una proposta politica, in chiave salvifica ed assoluta. La componente oppressa della società
dispone di un’unica arma politica, che è quella del conflitto costante e diffuso, tanto più efficace e
temibile quanto più fondato sulla capacità di ricondurre ogni singola ingiustizia, ogni sopruso, ad
una collocazione sistemica e strutturale. I bisogni degli oppressi, le fratture esistenziali che
costellano le “vite di scarto”, non possono trovare, all’interno dell’attuale sistema economico e
sociale, risposte compiute, capaci cioè non solo di porre rimedio a quelle sofferenze ma, al
contempo, di rimuoverne le cause attraverso un percorso politico di trasformazione sociale.
Infatti, sostiene Basaglia, “lo stato propone un’enorme quantità di tecniche, che sono tecniche
assistenziali…non sono il ricavato dell’esame dei bisogni, ma sono piuttosto l’espressione dei
bisogni dell’organizzazione sociale”1. Ecco che la psichiatria, specie quella manicomiale, si rivela
per quello che è: miseria e povertà. La politica, posta di fronte al problema reale della miseria,
fornisce una risposta “tecnica” – grazie al puntuale intervento dei “funzionari del consenso” – che
individua nella metamorfosi della povertà in “pazzia” un efficace strumento di controllo della
marginalità sociale. “La classe al potere”, sostiene Basaglia, “può anche tollerare i cambiamenti
purché questi vengano riassorbiti, risistemati, razionalizzati. Ciò che non può tollerare è la
confusione, in questo caso la mancanza di confini tra psichiatria e povertà…”2. La classe
dominante, assieme a “tecnici” ed “intellettuali”, profonde uno sforzo enorme, sul piano teorico,
al fine di consolidare la specificità della follia e minare così alla radice l’originalità della
situazione italiana degli anni Settanta, vale a dire l’aggancio tra i tecnici e le istanze dei
movimenti di base. La sovrastruttura ideologica che la psichiatria pone in essere è quindi
finalizzata alla frammentazione identitaria dei soggetti della trasformazione sociale, ossia
all’oscuramento della relazione di dominio che informa i rapporti sociali in una società divisa in
classi.
In Psichiatria e giustizia3, Basaglia riassume magistralmente tale discorso, affermando che “lo
stato borghese si fonda su una divisione artificiale (cioè prodotta, storicamente determinata) che
viene imposta e assunta come divisione naturale: la divisione in classi”. Si rendono quindi
necessari regolamenti ed istituzioni orientati a garantire l’esistenza e la riproduzione d’una
struttura di potere incapace a soddisfare i bisogni reali delle persone e, conseguentemente, in forte
crisi di legittimità. La psichiatria e le sue pratiche rientrano all’interno di questi regolamenti ed
istituzioni, prodotti storicamente ed artificialmente. E’ importante sottolineare come non sia
1 F. Basaglia, Conversazione sulla legge 180, Scritti vol. II, p. 475. 2 Ibidem, p. 478.3 Psichiatria e giustizia. Appunti su psichiatria e criminalizzazione del bisogno. Si tratta della relazione di Basaglia al I Convegno Nazionale di “Psichiatria Democratica”, in La pratica della follia, Ed. Critica delle Istituzioni, Venezia 1974. Anche in Scritti vol. II.
113
quest’ultimo aspetto – ovvero l’artificialità, la dimensione quindi politica – a rappresentare una
sorta di vulnus, bensì la pretesa del potere – ergo delle classi dominanti in un sistema capitalistico
– di ammantare ideologicamente la propria azione d’una veste naturale, ineluttabile, che appare
come sempre già data. E’ questa una consapevolezza che, discutendo di legge e psichiatria, è bene
non dimenticare; Basaglia ci ha infatti insegnato che un sistema sociale fondato sull’ineguaglianza
e l’asimmetricità, tende ad individuare nella legge dello stato una sorta di camera di
compensazione dove ricondurre i conflitti che nascono dalle contraddizioni sociali. Come
abbiamo visto, infatti, vi è sempre uno scarto tra la norma e la prassi e, a seconda del grado di
conflittualità della legge con il sistema, tale scarto indica l’effettivo controllo del potere da parte
delle classi dominanti. Di certo, come riconosce Basaglia, la legge 180 ha sancito un principio su
tutti, e cioè che “l’assistenza ai malati di mente non può più essere gestita come nel passato”. La
legge 180 rappresenta, da questo punto di vista, una cesura storica e politica che testimonia,
ancora oggi, il carattere repressivo, ideologico e mistificante della risposta psichiatrica al disagio
mentale. Scrive Basaglia che “la distruzione del manicomio non significa dunque abbandono del
malato a se stesso, ma significa creare le premesse perché egli possa essere seguito in modo
migliore ed aiutato in quelle che sono le sue reali difficoltà”1. Una volta sancita la distruzione del
manicomio quale atto di civiltà, quindi, si apre una nuova fase, certo non meno difficile,
caratterizzata dalla necessità di profondere un grandissimo sforzo sia a livello di analisi che di
azione politica, affinché i bisogni reali del sofferente possano trovare risposte coerenti con la sua
condizione umana.
Attraverso tali riflessioni, Basaglia ci conduce lungo le principali contraddizioni della legge 180
che, per così dire, si presenta strutturata in due parti fondamentali. La prima è quella relativa al
rifiuto del manicomio quale luogo del disprezzo, della segregazione e della punizione; è questa,
sotto certi aspetti, la parte centrale e più divulgata della legge che, tuttavia, richiede una capacità
di lettura e di interpretazione profonda. La seconda parte - che potremmo definire “variabile” –
concerne, più in generale, il cammino intrapreso dalla legge, alternativo al manicomio, e i rischi in
esso contenuti. Come abbiamo visto, la legge 180 inserisce le “malattie mentali” all’interno del
sistema sanitario nazionale2, in condizioni paritarie rispetto ad ogni altra patologia. Se da un lato
tale provvedimento consente un affrancamento delle psicopatologie da un retroterra mortificante e
stigmatizzante sedimentatosi sul piano culturale - segnatamente negli ultimi due secoli -, dall’altro
lato è forte il rischio di incappare in un medicalizzazione diffusa del disagio sociale. Basaglia
rilancia quindi il carattere peculiare, unico, delle “malattie mentali”, riscontrabile nella loro
collocazione indefinita, liminare tra patologia e vissuto soggettivo. E’ questo un nodo che
Basaglia non scioglierà mai, anzi, a mio avviso, rappresenta una contraddizione centrale nel suo
1 F. Basaglia, Conversazione sulla legge 180, p. 479. 2 Ne è la prova il fatto che la legge 180 sia diventata parte integrante della legge 833 del 1978 istitutiva del sistema sanitario nazionale, sino ad allora inesistente.
114
pensiero. A preoccupare Basaglia è il fatto che l’inserimento del “malato di mente” all’interno
della sfera medica, avviene in un contesto politico e sociale che continua a mantenere
quest’ultima in condizioni arretrate e sclerotizzate - proprie del positivismo più deterministico -,
con conseguenze disastrose sulle effettive possibilità di restituire alla propria vita uomini e donne.
Scrive Basaglia: “succede dunque che il cosiddetto malato di mente non è una persona che soffre,
una persona che si trova in una situazione di disagio, ma appunto è un ‘malato’ di mente. Questo è
importante: deve mantenersi questa connotazione di malato”1. E’ a questo livello che il pensiero di
Basaglia resta piuttosto vago, quasi timoroso di effettuare il passo decisivo – da molti atteso – in
grado di sconfessare l’intero impianto psichiatrico, così come ogni sua velleità medico-scientifica.
E’ difficile comprendere la ragione che induce Basaglia a virgolettare il termine “malato”, o a
riferirsi a tale condizione umana con l’espressione “connotazione”, evocando quindi una
situazione in cui i riferimenti culturali e sociali risultano stigmatizzanti a tal punto da individuare
nella “malattia mentale” una vera e propria camicia di forza. Basaglia, in queste poche righe,
sembra voler spostare il confine di ciò che potremmo definire la “criticabilità” della psichiatria,
oltre le esperienze sino ad allora vissute. Anche volendo evitare sterili fossilizzazioni circa la
definizione – introvabile – di “malattia mentale” e le sue effettive basi scientifiche, non è possibile
eludere il portato sociale invalidante che tale “etichetta” porta con sé. Sotto questo punto di vista,
Basaglia si limita ad affermare che “non tutto si può medicalizzare”, poiché “resta tagliata fuori
quella fascia di individui che sono paramalati, parapsichiatrizzati, drogati, alcolisti ecc.”. A mio
avviso, non viene sottolineato in modo rilevante il fatto che il giudizio psichiatrico – ma sarebbe
più corretto dire il pregiudizio – può investire chiunque, specie nella vastissima area delle classi
sociali subalterne e marginali, in modo sostanzialmente libero da ogni presupposto di natura
“scientifica”. Un alcolista, piuttosto che un tossicodipendente, può perdersi nel circuito
psichiatrico senza lasciare altra traccia di sé all’infuori di una mera catalogazione nosografica.
Questo vale per chiunque, poiché il potere psichiatrico si manifesta nell’immediatezza del proprio
giudizio, nel tempo della compilazione di una cartella clinica piuttosto che della richiesta di un
trattamento sanitario obbligatorio. Questo è quanto richiede l’organizzazione sociale, non perché,
come nota anche Basaglia, “sia cattiva o buona, ma perché deve pur sopravvivere e, dal momento
che la sua sopravvivenza è legata all’emarginazione, essa deve appunto organizzare e controllare
le persone che sono da emarginare, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di individui
malati”2. In questo passaggio, se da un lato Basaglia coglie il legame inscindibile tra
organizzazione sociale capitalistica ed emarginazione – a partire dai privilegi che tale sistema
dispensa a pochi a scapito di molti -, dall’altro lato non legge come la “malattia mentale” –
risultato dell’etichettamento psichiatrico - sia uno strumento potente e diffuso nel delineare i
percorsi dell’emarginazione sociale e, attraverso questi, pervasive pratiche di controllo. Non deve
1 F. Basaglia, Conversazione sulla legge 180, pp. 479-480.2 Ibidem, p. 480.
115
sembrare questa una discussione puramente formalistica, in quanto la radicale messa in
discussione della psichiatria, soprattutto oggi, passa attraverso una negazione dell’oggetto stesso
intorno al quale essa si è strutturata sin dalla sua nascita, ovvero la “malattia mentale”.
Basaglia, in alcuni scritti, sembra accarezzare questa idea ma, forse per evitare d’imbattersi in
disquisizioni teoriche che sarebbero state, con ogni probabilità, “sterilizzate” dal potere, sceglie di
demandare ogni confronto in merito ad una fase successiva. Scrive infatti Basaglia: “il problema è
che la gente capisca quali sono i propri bisogni e comprenda l’alienazione in cui vive”1;
l’alienazione si pone quindi in continuità rispetto alla mistificazione della natura dei bisogni reali
delle persone, tuttavia, da qui ad affermare che la patologia mentale è un’invenzione, un istituto
medico-giuridico – storicamente determinato – resta uno scarto sensibile. Nonostante ciò,
collocando il pensiero basagliano in continuità rispetto al divenire storico e politico che
caratterizza la sua lettura dialettica della storia e delle dinamiche sociali, possiamo affermare,
senza forzature di pensiero, che qualsiasi processo di “presa di coscienza” individuale e collettivo
– quale ad esempio la consapevolezza dell’inconsistenza scientifica del concetto di “malattia
mentale” – avviene nello spazio aperto dalle contraddizioni. Sostiene infatti Basaglia che “nel
tempo che intercorre tra l’esplosione della contraddizione e la sua copertura (perché non può
avvenire che questo), si determina un’occasione di presa di coscienza da parte dell’opinione
pubblica”2. Affinché in questo frangente, che ci è dato ogni qualvolta si manifesta una
contraddizione, possa svilupparsi un processo di effettivo avanzamento della coscienza degli
oppressi, è necessario riuscire a trasmettere il contenuto delle esperienze reali e vissute, poiché
“non si fa cultura scrivendo libri, si fa cultura soltanto nel momento in cui si cambia la realtà”3. La
coscienza di classe non è altro che questo, ovvero la consapevolezza della propria condizione
subordinata e funzionale al mantenimento dello status quo; è quindi evidente come soltanto dalla
materialità delle condizioni di vita – ossia dal tempo vissuto - delle soggettività oppresse possa
originarsi una “sollevazione irriducibile” di quest’ultime.
Basaglia avverte profondamente la difficoltà ad individuare tali percorsi di “soggettivazione
politica” delle figure marginali, oppresse dal controllo sociale o segregate nei manicomi. Ne è una
prova il seguente passo: “nel momento in cui io affermo che il discorso riferito all’istituzione
manicomiale è importante, perché ha dato la possibilità di dare voce all’internato, questa è
un’affermazione validissima; però qual è questa voce io non lo so, perché io so solo qual è la mia
voce”4. Basaglia è attento a sottolineare questa sensazione di vertigine che si origina dalla
sostanziale assenza del soggetto della trasformazione sociale, dal suo rimanere nell’ombra, quasi
disperso ed introvabile. Riconoscere unicamente la propria voce abbandona l’uomo ad un silenzio
insopportabile, interrotto unicamente da grida di dolore, lamenti che, tuttavia, non hanno volti e
1 Ibidem, p. 480. 2 Ibidem, p. 481. 3 Ibidem, p. 485.4 Ibidem, p. 484.
116
vissuti conosciuti. Il “malato di mente” resta una perenne “figura debole”, in balia delle ingiustizie
del sistema e della sua forza apparentemente incontrastabile. Ciò che Basaglia vuole comunicare,
in ultima istanza, è che sino a quando risulterà pressoché impossibile immaginare il “malato di
mente” quale soggetto politico protagonista, autonomo e consapevole della propria battaglia - e
quindi della propria condizione di oppresso – non vi saranno margini apprezzabili di cambiamento
sociale. Gli incessanti tentativi della classe dominante di normalizzare ogni esperienza alternativa
saranno sempre vincenti, poiché “tutta questa esasperata volontà di produrre cultura finisce per
produrre solo un aumento di ideologia”1. Basaglia sa bene quale sia la forza della produzione
ideologica, memore dell’insegnamento sartriano secondo il quale le ideologie “sono libertà mentre
le si fanno, oppressione quando sono fatte”. L’oppressione maggiore risiede proprio nella
pervasività di un sistema ideologico-normativo che vanifica ogni aggregazione di istanze di
riscatto sociale ed esistenziale, inserendo costantemente ulteriori elementi di frazionamento del
corpo sociale. Le riflessioni basagliane, pertanto, giungono a noi con straordinaria lucidità in virtù
d’una necessità politica – l’aggregazione e la soggettivazione di uomini e donne dispersi e
frammentati nei luoghi di lavoro, così come nelle formulazioni discriminanti del sapere
scientifico, ma accomunate da una condizione sociale oppressa e subalterna – che non solo
conserva la propria attualità in ambito psichiatrico, ma si estende ad altri settori sino a coincidere
con le stesse istanze di emancipazione sociale.
Legge, diritto e stato d’eccezione in psichiatria
A 28 anni dall’approvazione della legge 180 possiamo affermare che l’intento del legislatore –
sospinto dal complesso movimento antiistituzionale italiano, che ebbe indubbiamente in Basaglia
l’esponente di maggior rilievo – è rimasto in larga parte disatteso, per ragioni diverse. Innanzitutto
vi è il dato storico, inconfutabile, che attiene a mutamenti politici di lungo corso; la scomparsa
della diffusa conflittualità politica e sociale che aveva segnato l’arco temporale che va dal 1968
alla fine degli anni settanta, ha privato di linfa vitale molte delle conquiste sociali e civili che pure
avevano trovato ufficiale accoglienza all’interno dell’ordinamento giuridico del paese. Da questo
punto di vista, la legge 180 è un esempio emblematico ma, per citarne altri più recenti, potremmo
discutere dell’attacco alla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza e, più in generale,
della crociata nei confronti delle donne, del loro corpo, della loro sessualità e, conseguentemente,
del tentativo di ridefinire in senso retrogrado ed oscurantista la divisione sociale e sessuale del
lavoro. Questo per dire che la divaricazione tra norma e prassi, evidenziata già da Basaglia, può
essere ricomposta unicamente attraverso un movimento reale capace di inserire nuovamente al
centro dell’agenda politica e sociale del paese le istanze di liberazione degli oppressi, operando
così una parziale e mai esaustiva “abolizione dello stato di cose presenti”.
1 Ibidem, p. 485.
117
Si delinea quindi un elemento affatto rilevante, sul piano storico e politico, che dovrebbe
interrogare le forze progressiste – ma non solo - sull’affidabilità delle “istituzioni borghesi” – o
perlomeno dominanti in un contesto sperequato ed ingiusto come quello attuale –, anche delle più
democratiche (formalmente). La sistematica differenziazione tra il portato della legge e quello del
diritto, dovrebbe infatti far riflettere sulla natura dello stato, sulla sua parzialità e complicità nei
confronti delle classi dominanti, così come sulle dinamiche oggettivizzanti – tendenti cioè a
sfocare la soggettività politica – insite in ogni processo legislativo. E’ come se la
“giuridificazione” di istanze d’emancipazione sociale generi effetti perversi finalizzati a
ricondurre quelle stesse istanze a pratiche amministrative e “governamentali” che potremmo
definire “sterilizzanti”. Non è nostro compito – ed è certamente materia complessa – indagare le
ragioni storiche, politiche ed organizzative che conducono a tali esiti, ma è importante sottolineare
come la psichiatria consenta di registrare tale fenomeno in modo evidente e, per così dire, con uno
scarto probabilmente massimo tra norma e prassi rispetto ad altri ambiti. Ciò era vero ai tempi dei
grandi ospedali psichiatrici per alienati mentali, dove il fine ufficiale (la norma) rappresentato
dalla cura e dalla riabilitazione divergeva in modo incontestabile rispetto ad una realtà improntata
alla custodia e alla punizione (la prassi), così come lo è oggi nell’epoca del decentramento del
controllo psichiatrico.
A fianco di questa caratteristica strutturale – propria della “legge borghese” – s’inseriscono vere
e proprie sospensioni dello stato di diritto, previste anche dalla legge 180, che rendono
maggiormente flessibile l’impianto giuridico, in direzioni sistematicamente lesive dei diritti
individuali (specie quelli sociali). Le istituzioni dello stato, volto politico dell’organizzazione
sociale, individuano eccezionali – ma paradossalmente permanenti – “vie di fuga” attraverso le
quali invadere la sfera personale delle soggettività che contrastano l’attuale processo
d’affermazione di un preciso modello sociale, economico e relazionale. Vi è una ragione superiore
- spesso inconfessabile – che, grazie alla mediazione dei “funzionari del consenso”, sovraordina
tutto il resto a partire dai princìpi cardine della filosofia politica “occidentale” – liberalismo in
primis.
L’istituto del trattamento sanitario obbligatorio, solo per citare l’esempio a noi più vicino,
obbliga una persona a sottoporsi ad un intervento sanitario senza addurre alcuna motivazione –
qualora esistesse – a tale violazione del corpo, della dignità, del sé dell’individuo. Potremmo
altresì riferirci alle recenti normative cosiddette “antiterrorismo” che, di fatto, sospendono le
garanzie dell’habeas corpus e, in taluni casi, reinseriscono striscianti forme di tortura. Si
potrebbero inoltre considerare le condizioni giuridiche – per non parlare di quelle di vita – di
uomini e donne migranti rinchiusi nei centri di permanenza temporanea senza aver commesso
alcun reato, abbandonati in uno stato giuridico ed esistenziale indefinito che individua nella
necessità dell’internamento la propria suprema ed indiscutibile giustificazione. Non sembri
118
azzardato il paragone con la condizione dei “malati di mente”, poiché la necessità e
l’incontestabilità dell’eccezione denotano una medesima “ragione” politica e sociale.
L’espressione coniata da Bauman, “vite di scarto”, accorre nuovamente in nostro aiuto rendendo
immediata l’idea dell’esistenza di un’umanità che il sistema economico e sociale individua quale
“eccesso”, poiché l’accoglimento di quest’ultima comporterebbe una netta rivisitazione del
sistema di privilegi e di assoggettamento che lo contraddistingue. E’ importante notare come tutto
questo entri in rotta di collisione coi princìpi universalistici ed egualitari – degli uomini di fronte
alla legge - del liberalismo, ovvero dell’ideologia politica formalmente assunta quale modello di
riferimento nelle cosiddette “democrazie occidentali”. Ci troviamo dinanzi ad una palese
contraddizione che, stante l’attuale quadro economico e sociale, non può essere superata, poiché
risultano assenti i margini politici d’un confronto dialettico capace di ricollocare quelle esistenze
all’interno del novero dell’umanità, a partire dalle loro condizioni reali di vita. Il fatto stesso che
si eviti di cogliere l’insanabile contraddizione esistente tra liberalismo – inteso quale sistema di
princìpi politici e filosofici – e governo – o meglio pratiche di “governamentalità” quale azione
politica concreta ed inevitabile -, denota una consapevolezza latente ed ipocrita che, come sempre
accade, individua nella produzione ideologica il metodo più efficace per sfuggire al confronto
politico.
In merito, Foucault propone una chiave di lettura del liberalismo che, ai fini del nostro discorso
circa l’esclusione e il controllo delle figure sociali marginali, merita particolare attenzione. “Il
liberalismo come io lo intendo”, afferma Foucault, “questo liberalismo che può essere
caratterizzato come la nuova arte del governo che si forma nel XVIII secolo, implica un intrinseco
rapporto di produzione/distruzione nei confronti della libertà…”1. La libertà viene quindi
mercificata all’interno dell’organizzazione sociale capitalistica, prodotta in ogni istante,
annoverata tra i fattori di costo; cessa così di essere un ideale universale verso cui tendere. La
libertà – a cominciare da quella di mercato – è quindi il motore della stessa pratica
governamentale, senza la quale tutto sarebbe immobile e, paradossalmente, ingovernabile. Nota
quindi Foucault, che ”questo liberalismo non è tanto l’imperativo della libertà quanto la gestione e
l’organizzazione delle condizioni alle quali si può essere liberi…”2. Organizzare e gestire tali
condizioni comporta dei costi meramente economici che all’interno delle società – e dei rapporti
di forza tra classi sociali – vengono considerati tra i fattori determinanti del conflitto. Pertanto, è
anche alla luce della contrapposizione – materiale e reale – tra libertà e sicurezza che dobbiamo
leggere lo scontro di classe – a livello macrosociale – e i dispositivi di potere reticolari che lo
riflettono, su scala ridotta, in una molteplicità di luoghi. I poli di questo rapporto – gli interessi
contrastanti – sono inseriti in una situazione fluida, in perenne movimento, in cui l’inevitabile
produzione di libertà deve anche essere letta quale limitazione e distruzione della stessa, se
1 M. Foucault, Biopolitica e liberalismo, Milano, Medusa, 2001, p. 160. 2 Ibidem, p. 160.
119
osservata da un altro punto di vista – ossia da un’altra condizione sociale. E’ evidente come tutto
questo non avvenga casualmente, ma sia la risultante di rapporti di forza tra le classi sociali e,
conseguentemente, della loro capacità di innescare processi di soggettivazione politica pervasivi
degli infiniti luoghi in cui si manifesta il potere. Non deve pertanto stupire se la condizione socio-
giuridica delle figure marginali, a partire dai “malati di mente”, si caratterizzi per coincidere col
polo a minor potenziale del rapporto problematico e contraddittorio costruito attorno alla libertà. I
costi economici e sociali della violazione della loro dignità di uomini e donne risultano essere
pressoché irrilevanti, poiché lieve è la loro protesta sino a quando non riusciranno a liberarsi - e
noi con loro - dalle catene cui l’ideologia psichiatrica li costringe.
Pertanto, le “finestre ideologiche” aperte dal potere a giustificazione della prevaricazione delle
soggettività subalterne, devono indurre le forze progressiste - per definizione irrimediabilmente
critiche nei confronti dell’esistente – a ricostituire un percorso finalizzato alla soggettivazione
politica di tali figure oppresse e marginalizzate. Per dirla con Basaglia, dobbiamo creare le
condizioni affinché le voci diseredate possano non soltanto lamentarsi, gridare e protestare, ma
soprattutto riconoscersi l’un l’altra, e costituirsi così in un soggetto politico collettivo capace di
valorizzare ogni soggettività, poiché è dalla resistenza irriducibile di ciascuna di essa che potrà
trarre origine il tutto che già rappresentano.
Oltre alla divergenza tra norma e prassi, in ambito psichiatrico riscontriamo, in misura maggiore
che altrove, un preoccupante e significativo scostamento della nozione di legge da quella di
diritto. La prima coincide con una sostanziale difesa dello status quo - o con una mitigazione degli
effetti apportati a quest’ultimo dall’intervento delle forze progressiste -, mentre la seconda evoca
diritti individuali – civili, politici e sociali – che tuttavia la realpolitik riconduce ad una
dimensione utopica attraverso l’apparato ideologico ordito da “tecnici” ed “intellettuali”. “Nel
nostro contesto sociale”, scrive Basaglia, “determinato da una logica economica cui sono
subordinati tutti i rapporti e le regole di vita, non esiste né la realtà come espressione del
praticamente vero su cui verificare le ipotesi come risposte alternative ai bisogni, né l’utopia come
elemento ipotetico che trascende la realtà per trasformarla”1. L’ideologia, intesa come introiezione
individuale e collettiva della falsificazione della realtà, riduce in condizioni di schiavitù
intellettuale e politica l’uomo, reso incapace di esprimere ed individuare i propri bisogni. Soltanto
la liberazione dall’ideologia può consentire all’uomo di “parlare della realtà come del
praticamente vero e dell’utopia come dell’elemento prefigurante le possibilità di una
trasformazione reale di questo praticamente vero”2, laddove intendiamo con questa espressione
ciò che “è sempre stato lì”, per parafrasare Bauman e Kundera. Tale liberazione passa
necessariamente attraverso la produzione di una cultura nuova che, nella lettura basagliana, “non
può che nascere da una pratica sociale nuova”. E’ quindi fondamentale che tale cultura si
1 F. Basaglia, L’utopia della realtà (1974), Scritti vol. II, p. 341. 2 Ibidem, p. 341.
120
costituisca da una prassi politica capace d’individuare – e finanche costituire – spazi di liberazione
quotidiani a partire dalla centralità dei vissuti delle soggettività oppresse. La riduzione della
distanza tra legge e diritto – ossia dei diritti inalienabili dell’uomo con la garanzia della loro
esigibilità e del loro rispetto – individua nella concatenazione di elementi di dis-continuità verso
l’assetto socioeconomico dominante la propria via maestra. Uno di questi elementi è
indubbiamente rappresentato dal rifiuto delle “eccezioni” in ambito giuridico, specie se
quest’ultime sono funzionali alla sospensione dei diritti individuali fondamentali e all’invasione
della sfera personale – segnatamente della sua dimensione fisica e corporea - che, al contrario,
dovrebbe segnare il limite ultimo d’ogni azione politica.
121
Conclusioni
Scrivere le conclusioni a questo lavoro, costantemente guidato ed ispirato dal pensiero di Franco
Basaglia, è questione complessa: qualsiasi “conclusione” risulterebbe probabilmente inadeguata.
Non vi è la necessità di concludere, bensì di puntualizzare un nuovo inizio, al fine di apportare un
contributo – certo parziale – ad una riattualizzazione del pensiero basagliano che non si limiti alla
sola riflessione teorica ma cerchi di delineare i percorsi d’una “nuova pratica sociale”. Per questa
ragione è fondamentale riannodare i vissuti delle soggettività oppresse ai grandi ideali della
politica – oserei dire alla ragione che la costituisce -, cominciando dal superamento di quel
“primitivo rapporto alienante servo-signore” che, per Basaglia, fu ragione di vita ed impegno
politico nel senso più alto del termine. E’ la nobiltà di questo ideale, il suo portato coscientemente
utopico, ad indicare nella ricerca delle radici dell’oppressione – attraverso una vera e propria
immersione nel reale – l’orizzonte stesso della politica.
Dobbiamo quindi operare affinché emerga, oggi come allora, l’indisponibilità al compromesso
se questo termine indica l’elusione delle ragioni – economiche e sociali in particolare – che
sottendono l’asimmetricità della relazione servo-signore. Scrive Mistura, riferendosi a Basaglia,
che “nulla lo faceva reagire energicamente quanto il manifestarsi dei raggiri ideologici che
rendono opaca la realtà e che inducono a confonderla con l’apparenza”1. Vengono così sottolineati
la necessità ed il valore d’ogni ricerca politica capace di scavare a fondo - oltre l’opprimente
superficie dell’ovvio – sino ad incontrare scomode verità, la cui lucentezza risulta accecante agli
occhi del potere; quest’ultimo, infatti, nell’opacità dell’apparenza individua la garanzia del
proprio dominio. Possiamo quindi reputare inconciliabile col pensiero basagliano ogni riflessione
- così come ogni pratica sociale - finalizzata alla creazione di “falsa coscienza”; se è grave
assoggettare l’uomo alla relazione servo-signore, lo è ancor di più agire affinché le cause reali di
tale assoggettamento restino nell’ombra. L’opacità della realtà rende quindi attuale la riflessione
dialettica circa la necessità del costante superamento del “già dato”, poiché quest’ultimo è
immagine d’ingiustizia e di oppressione. Tuttavia, non dobbiamo intendere questa apparenza –
ossia la mistificazione operata dalla psichiatria – come una sorta di “menzogna”, poiché
risulterebbe riduttivo e fuorviante. Piuttosto, è fondamentale interrogarsi circa “gli effetti reali
dispiegati da un insieme di apparenze”2, in quanto non vi è un rapporto eguale e contrario tra
“apparenza” e “realtà”, bensì una relazione fortemente asimmetrica a totale detrimento di
quest’ultima. E’ infatti la realtà ad essere concretamente riscritta nel momento stesso in cui viene
letta ed interpretata attraverso le lenti dell’apparenza e della falsa coscienza – prodotte
dall’ideologia egemone e dominante. La condizione del “malato di mente” - quale si presentava
1 S. Mistura, Sei tesi su Franco Basaglia, in “Rivista Sperimentale di Freniatria”, CXXIV (2000), n. 4. 2 S. Mezzadra - M. Ricciardi (a cura di), Marx. Antologia degli scritti politici, Roma, Carocci, 2002, p. 14.
122
negli ospedali psichiatrici o come si presenta oggi nel circuito decentrato del controllo psichiatrico
- è quindi il prodotto della sedimentazione storica di questa produzione ideologica. La condizione
di “umanità dispersa”, quasi “inafferrabile”, che segna il contesto manicomiale – e le soggettività
in esso internate - non ha nulla a che vedere con la malattia mentale ed i suoi eventuali sintomi:
piuttosto, è il prodotto di ciò che l’organizzazione sociale ha fatto di quest’ultima a causa della
sua improduttività e, conseguentemente, della sua incompatibilità rispetto alla razionalità
borghese.
L’esperienza e la riflessione basagliana sono testimonianza di questa tensione ideale,
continuamente alimentata e sostenuta dai volti della sofferenza e dalla solitudine dell’uomo, così
come dalla volontà di andare oltre le miserie della sopraffazione che, nel suo disperato tentativo
egemonico, finisce con l’esaltare i margini di liberazione che ciascuna soggettività, anche la più
oppressa, continua a conservare. E’ la coltre di ipocrisia propria di organizzazioni sociali
improntate all’esclusione e alla violenza – istituzionale e non – a rappresentare la ragione
principale dell’impegno professionale, civile ed umano di Basaglia. Il riconoscimento della
storicità delle contraddizioni risulta quindi essere un passaggio dirimente, poiché questa è la
condizione essenziale del loro superamento, non certo in chiave definitiva ma come “negazione
delle negazione”. Nel pensiero basagliano le contraddizioni vengono quindi dipinte in modo
ambivalente; da un lato sono la testimonianza più cruda del carattere oppressivo delle
organizzazioni sociali fondate sull’accumulazione capitalistica, dall’altro lato, invece, assumono i
tratti di “viatici” della liberazione umana. “Mantenere aperte” tali contraddizioni, come afferma
Basaglia, significa innanzitutto viverle e contrastarle, vale a dire agire affinché l’opacità del
potere non riconduca al silenzio le verità che sono sempre esistite storicamente e mai
naturalmente – ossia come dato prepolitico -, a cominciare dalla relazione servo-signore,
oppresso-oppressore. La centralità delle contraddizioni sociali può essere quindi intesa quale cifra
del pensiero basagliano; da qui la sua volontà di muovere continuamente verso il superamento
dell’organizzazione sociale capitalistica e delle sue ingiustizie.
Particolarmente efficace nel focalizzare tali contraddizioni è un saggio scritto da Franco
Basaglia e Franca Ongaro nel 1978, intitolato Condotte perturbate1. Questo scritto risulta
straordinariamente lucido nel restituire, con grande efficacia, la dimensione “apparente” della
malattia mentale – intesa quale conseguenza della mistificazione psichiatrica – e, al contempo, la
reale drammaticità delle conseguenze sulle persone di tale azione ideologica. Mi riferisco alle
riflessioni circa la contrapposizione assoluta che viene operata tra i concetti di salute e malattia. E’
proprio la necessità di ricorrere all’assolutismo a rivelare la pericolosità delle contraddizioni – e
1 Si tratta di un saggio pubblicato per la prima volta in italiano soltanto nel 2005 nell’antolologia di scritti basagliani L’utopia della realtà. Inizialmente fu scritto per il volume Psicologie della Encyclopédie de la Pléiade, pubblicato in Francia nel 1987.
123
dell’operato di coloro che vogliono mantenerle aperte – nei confronti del potere dominante nelle
nostre organizzazioni sociali.
L’assolutizzazione degli opposti – e le semplificazioni che questo comporta – risulta essere il
metodo più efficace – potremmo dire totalizzante – nell’oscurare lo spazio sociale, economico ed
esistenziale che li separa. Comprimere tale spazio equivale ad annichilire le soggettività che nel
continuo oscillare tra un polo e l’altro delle condizioni umane – quale ad esempio la salute e la
malattia – determinano processi di trasformazione sociale, alterando così lo stesso spazio
socioeconomico e relazionale che le circonda. Tra la salute e la malattia s’inserisce quindi
l’elemento portante dell’organizzazione sociale capitalistica, ovvero l’attività produttiva con le
sue regole e i suoi dogmi orientati alla subordinazione d’ogni altro aspetto della vita umana. Ecco
quindi che la malattia decade dallo status di condizione insieme soggettiva – mediata cioè
esistenzialmente – ed obiettiva – medico-scientifica nell’accezione razionale e moderna del
termine – per approdare nel limbo dell’a-normalità, ossia dell’inefficienza e dell’inabilità
produttiva. La malattia, presentandosi come condizione altra rispetto alla salute – e coincidendo
quest’ultima con la vita produttiva quale condizione del vivente tutelata e riconosciuta dal capitale
-, viene sospinta sino ai confini della morte, anzi, assolutizzata come tale. Possiamo quindi
leggere in drammatica continuità con tale riflessione le inumane condizioni di vita cui venivano
costretti gli internati nei manicomi, ovvero quale conseguenza del loro essere soggetti morti
economicamente, corpi situati al di là del confine vitale tracciato dalle norme dell’organizzazione
sociale.
“L’ideologia medica”, afferma dunque Basaglia, “assume su di sé l’esperienza soggettiva della
malattia, neutralizzandola e negandola fino a ridurla a puro oggetto di sua competenza”1. Basaglia
propone una riflessione circa la de-soggettivazione dell’uomo che, a nostro avviso, è il principale
e più attuale strumento di controllo sociale. Continua infatti affermando che “l’ideologia medica
risulta responsabile dell’insorgere di una relazione reificante fra l’uomo e le proprie esperienze”2;
quest’ultime vengono sottratte alla percezione soggettiva e consegnate dunque a fattori
oggettivizzanti, tendenti cioè a ricondurre il vivente – gli uomini e le donne – ad una relazione
sociale ed esistenziale regressiva che suona costantemente come una accusa verso se stessi. E’
questo un punto nodale del pensiero basagliano poiché, a mio avviso, s’inserisce a pieno titolo
all’interno della più ampia riflessione circa il passaggio dalle società disciplinari alle società del
controllo; anzi, come vedremo, ne condensa il significato più profondo. “Il sistema produttivo che
è venuto affermandosi”, sottolinea Basaglia, “si fonda sull’appropriazione della soggettività
dell’uomo, quindi sulla riduzione del corpo organico a corpo, e sulla tendenziale identificazione
tra corpo sociale e corpo economico”3. E’ importante sottolineare come il corpo sociale
1 F. Basaglia – F. Ongaro Basaglia, Condotte perturbate, in L’utopia della realtà. 2 Ibidem, p. 280. 3 F. Basaglia, Follia/Delirio, in Scritti vol. II, p. 427.
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rappresenti, nell’elaborazione basagliana, una soggettività collettiva capace di contenere ogni
soggettività individuale. La storia umana, costantemente segnata dalla dialettica tra individuo e
collettività, tra soggettività e collettività, individua un punto di sintesi nelle norme, ovvero nel
limite posto dall’organizzazione – quindi dalla collettività - alla libertà individuale. Affermare che
la norma rappresenta il punto di sintesi nella dialettica tra individuo e organizzazione non
significa prospettare una sorta di immobilismo storico dove la sintesi assume lineamenti privi di
conseguenze sul piano sociale e del divenire storico. La norma - qualsiasi essa sia – deriva infatti
da rapporti di forza reali che coinvolgono interessi contrapposti e conflittuali in seno alla società –
uno su tutti quello tra capitale e lavoro –, rispondenti o meno a determinati bisogni umani, che
agiscono quali fattori del cambiamento sociale.
Viene così introdotto un concetto centrale in tutta la riflessione basagliana: i bisogni degli
uomini e delle donne. Basaglia individua nell’impossibilità dell’organizzazione sociale
capitalistica di soddisfare i bisogni dell’uomo – a partire da quelli primari - la dimostrazione più
vera e drammatica del suo carattere escludente e parziale, incapace cioè di coinvolgere l’intero
corpo sociale nella definizione delle norme e delle istituzioni che devono regolarne la vita.
Afferma Basaglia che “se la norma è una regola imposta a difesa del gruppo dominante, essa
impedisce ai dominati qualsiasi espressione soggettiva, riducendo l’individuo a corpo dominato,
corpo alienato e sfruttato da ciò che lo organizza”1. La soggettività collettiva del corpo sociale –
che si manifesta nel limite posto dalla soggettività e dai bisogni altrui all’espressione della propria
soggettiva esistenza e dei propri bisogni – viene meno nelle organizzazioni sociali capitalistiche
poiché non vi è alcun riconoscimento della contrapposizione dialettica tra bisogni delle classi
sociali subalterne e interessi dei gruppi dominanti. Tale contraddizione viene privata di ogni
legittimità politica e quindi negata nella sua stessa esistenza. Come abbiamo visto, i bisogni delle
classi sociali subalterne vengono frammentati e dispersi affinché tali soggettività non parlino con
un’unica voce e, soprattutto, non si riconoscano eguali nella propria condizione di sfruttati ed
oppressi. Tutto questo richiede un’intensa attività di produzione ideologica, a firma dei
“funzionari del consenso”, che in ambito psichiatrico individua una delle espressioni storiche più
totalizzanti.
Per questa via si giunge quindi alla de-soggettivazione del corpo sociale e, conseguentemente,
alla sua identificazione col corpo economico in virtù dell’apparente a-conflittualità e a-
contraddittorietà che caratterizza quest’ultimo. Risulta essenziale puntualizzare questo elemento,
ovvero la perdita della dimensione soggettiva del corpo sociale in quanto, a mio avviso, è stato
uno dei grandi mutamenti politici indotti dal paradigma neoliberale apertosi nelle società
occidentali sul finire degli anni Settanta del XX secolo. In sostanza, credo che il venir meno della
diffusa conflittualità sociale che per circa un decennio aveva caratterizzato la vita politica delle
democrazie occidentali – Italia in particolare –, abbia altresì determinato una de-soggettivazione
1 Ibidem, p. 427.
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dello spazio pubblico e di tutto ciò che ruota attorno alla dimensione che potremmo definire
“collettiva”. I processi di individualizzazione – o meglio atomizzazione esistenziale – che il
neoliberalismo ha portato con sé, non hanno soltanto determinato un ripiegamento dell’individuo
su se stesso ma, in particolare e più in profondità, un mutamento qualitativo della presenza di
quest’ultimo in società. La relazione dialettica di cui parla Basaglia tra soggettività e
organizzazione viene quindi ridefinita alla luce del prevalere di un’interpretazione a-dialettica di
quest’ultima. La divisione in classi sociali che caratterizza le società delle democrazie occidentali
viene infatti presentata quale caratteristica “naturale” e non come risultato d’una contrapposizione
storica tra forze e soggetti la cui conflittualità ha definito le relazioni sociali e produttive odierne.
Le classi sociali continuano ad esistere e a rappresentare un elemento insostituibile per la critica
delle ineguaglianze e delle ingiustizie sociali che caratterizzano il sistema capitalistico1; tuttavia,
muta radicalmente la coscienza che gli individui hanno di sé nel proprio contesto sociale e
relazionale. La de-soggettivazione dello spazio pubblico, pertanto, si origina dal venir meno della
conflittualità sociale – a seguito d’una profonda azione ideologica – e da vissuti soggettivi sempre
più isolati ed investiti di responsabilità sistemiche circa le proprie condizioni sociali ed
esistenziali.
La proiezione soggettiva di intere fasce di popolazione al di fuori della propria sfera personale –
quindi in una dimensione relazionale e conseguentemente anche politica – avviene in forme
nuove, dominate dalla “reificazione” della relazione che l’uomo intrattiene con le proprie
esperienze, poiché egli stesso diviene oggetto di analisi e “conoscenza” continua. Il diffuso
intervento di molteplici “discipline” – in particolare delle scienze umane –, sotto forma di
capillare penetrazione dell’intero corpo sociale, ha generalizzato, e al contempo individualizzato,
le forme del controllo sociale. Ciò significa che tende a scomparire, almeno in questa fase storica,
il tipo-ideale di individuo – e di individualità - che Bentham immaginava quale prigioniero del
Panopticon. In quest’ultimo, infatti, la rilevanza di ciascun uomo è data non solo dal suo essere
mero corpo fisico da contenere, custodire, imprigionare ed amministrare, ma dal suo essere
circoscritto fisicamente in un “interno” che si contrappone ad un “esterno”. Questo è il segno più
tangibile della società disciplinare – che fa seguito nella lettura foucaultiana a quella di sovranità
– così come si manifesta tra la fine del XVIII e parte del XX secolo. L’individuo del Panopticon è
innanzitutto un internato, una soggettività circoscritta tra le mura del carcere piuttosto che i reparti
dell’ospedale psichiatrico. Il tratto principale delle società disciplinari è quindi rappresentato dalle
istituzioni totali e dai loro luoghi; si tratta di ambienti chiusi ed orientati, seppur attraverso forme
e gradi differenti, alla coercizione individuale e alla reclusione. Ciascun individuo, nel corso della
propria vita, sperimenta inevitabilmente alcune di tali istituzioni: famiglia, scuola e fabbrica sono
1 Con questo non si vuole marginalizzate l’importanza delle trasformazioni che i decenni neoliberisti hanno apportato anche sul piano della stratificazione sociale e, in particolare, della sua “segmentazione identitaria” ma, al contrario, evidenziare come quest’ultimi siano il punto d’arrivo della volontà politica di preservare le strutture dell’ineguaglianza capitalistica.
126
senz’altro tra queste. Vi sono inoltre istituzioni che hanno come unico fine quello di recludere,
isolare, spezzare la continuità sociale e relazionale che contraddistingue l’uomo quale “animale
sociale”; il manicomio e la prigione ne sono la realizzazione storica più diffusa e conosciuta. Lo
spazio delimitato dall’istituzione – l’anello circolare del Panopticon – è quindi il luogo
d’attivazione del sapere-potere disciplinare; soltanto all’interno di celle individuali attraversate da
un fascio di luce l’uomo può essere sorvegliato, indagato e “scritturato” nei suoi comportamenti.
L’uomo libero resta estraneo a tale potere disciplinare - almeno all’intensità e alla pervasività
della sua azione -, anche se avverte costantemente il rischio di esserne assorbito ed assimilato1.
L’ambiente di reclusione - come magistralmente dimostrato da Foucault in Sorvegliare e punire
– opera una combinazione tra la suddivisione dello spazio e il coordinamento del tempo
finalizzata ad organizzare in modo sempre più efficiente i corpi in esso internati. Le società
disciplinari presentano dunque una costellazione di luoghi di reclusione, seppur differenti nei loro
gradi di intensità, funzionale, in primo luogo, al mantenimento degli equilibri sociali esistenti.
L’esistenza di “confini istituzionali” all’interno del corpo sociale, finalizzati al parziale
contenimento di quest’ultimo, si delinea quale orizzonte politico delle società disciplinari e della
contemporaneità. Da questo punto di vista, il manicomio può essere assunto quale elemento
paradigmatico e costitutivo delle società disciplinari, poiché è in esso che l’arbitrarietà
dell’istituto dell’imprigionamento individua la massima espressione storica. Scrive Foucault che
“tutta la penalità del XIX secolo diviene un controllo, non tanto di quello che fanno gli individui –
è conforme o no alla legge? -, ma di quello che possono fare, di quello che sono capaci di fare, di
quello che sono inclini a fare, di quello che sono in procinto di fare”2. Risulta quindi
comprensibile la ragione che induce a leggere nell’ospedale psichiatrico l’universo
concentrazionario dei princìpi e dei dispositivi del potere disciplinare, in quanto, come afferma
Goffman, “le istituzioni totali sono luoghi in cui si forzano alcune persone a diventare diverse: si
tratta di un esperimento naturale su ciò che può essere fatto del sé”3.
L’attenzione viene quindi posta non tanto sull’infrazione della legge, ma sulle potenzialità degli
individui, ovvero sul terreno ignoto ed arbitrario del possibile. Foucault nota che il “panottismo” –
il tipo di potere che domina le società disciplinari – “non poggia più sull’indagine, ma su qualcosa
di completamente differente” che possiamo riassumere con il termine “esame”. Nel Panopticon –
che è innanzitutto una modalità organizzativa dei corpi inseriti in un’istituzione qualsiasi della
contemporaneità (famiglia, scuola, fabbrica, caserma ecc.) – l’individuo internato è costantemente
attraversato dallo sguardo inquisitore del sorvegliante – o dall’idea minacciosa di quest’ultimo –
poiché totalmente asimmetrica è la relazione che si instaura tra il primo e il secondo. Il
1 Ricordiamo che la principale critica rivolta da Basaglia alle esperienze riformatrici europee e statunitense del secondo dopoguerra, fu proprio quella di non aver intaccato l’ospedale psichiatrico che, pertanto, continuava ad ergersi minaccioso alle spalle dei centri territoriali di igiene mentale. 2 M. Foucault, Antologia. L’impazienza della libertà, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 85.3 E. Goffman, Asylums, p. 42.
127
sorvegliante, ovvero il polo dominante della relazione, acquisisce un potere che si origina in larga
parte dal formarsi di un sapere su coloro che sorveglia e, appunto, esamina – basti pensare alle
annotazioni di medici ed infermieri sulle cartelle cliniche dei pazienti1. E’ nuovamente Goffman a
riassumere tutto questo con un’espressione straordinariamente calzante: “azione inglobante della
situazione”2.
Possiamo quindi affermare che le cosiddette scienze umane – psichiatria in primis – fondano il
proprio dominio sulla stretta correlazione che si instaura tra sapere e potere laddove corpi e vissuti
umani vengono investiti dall’azione inglobante dell’istituzione. L’osservazione dei fatti e la loro
descrizione – che in ambito giudiziario si riassume nell’accertamento delle responsabilità penali –
lascia il campo ad un diffuso tentativo di spiegare i fenomeni rilevanti socialmente a partire
dall’indagine del singolo individuo, sino a fare di quest’ultimo – del suo corpo – un luogo di
produzione di “verità scientifiche”. Tutto questo, formidabilmente riassunto nell’istituzione
manicomiale, genera, a livello individuale ed esistenziale, una sensazione di costante ed
ineluttabile “perquisizione” del proprio Sé. L’individuo internato nel Panopticon avverte – a
ragion veduta – un senso di opprimente trasparenza agli occhi del sorvegliante; è questa una
condizione permanente poiché non è dato sapere a nessuno dei sorvegliati se e quando il potere è
attivo, essendo impossibile scorgere il sorvegliante che resta ben protetto da imposte socchiuse. Il
sorvegliante, “funzionario” del potere, può quindi essere chiunque, poiché la forza impareggiabile
della relazione “panoptica” non è data da chi la detiene – come avveniva invece nelle società
dominate dal potere di sovranità, basti pensare alla figura del re -, ma dagli stessi meccanismi con
cui essa si esprime. Possiamo quindi affermare che l’istituzione manicomiale è il luogo simbolo
della società disciplinare, un dispositivo terrificante di un particolare tipo di potere storicamente
determinato.
“Le società disciplinari”, scrive tuttavia Deleuze, “sono già qualcosa che non siamo più,
qualcosa che cessiamo di essere”3. La ragione che induce Deleuze a parlare di fine delle società
disciplinari è identificabile con la “crisi generalizzata di tutti gli ambienti di reclusione, prigione,
ospedale, fabbrica, scuola e famiglia”. Tuttavia, prima di addentrarci meglio in questa
discussione, è bene collocare il manicomio – ovvero la nostra istituzione disciplinare per
eccellenza – all’interno di un contesto sociale ed economico capace di accoglierlo e riconoscerlo,
poiché esso è uno spaccato fedele e significativo dell’ordine esterno e delle sue contraddizioni4.
1 Scrive Goffman: “In generale, gli ospedali psichiatrici provvedono sistematicamente a far circolare su ciascun paziente il genere di informazioni che egli cercherebbe di nascondere e che ogni giorno – in modo più o meno dettagliato – vengono usate per frustrarne le pretese”. Asylums, p. 186. 2 E. Goffman, Asylums, p. 69. 3 G. Deleuze, Puorparlers (1972-1990), Minuit, Paris, 1990, pp. 240-247.4 “Nella società occidentale non sembra esserci un’istituzione totale che provveda una vita di gruppo completamente indipendente dalle distinzioni di sesso; alcune istituzioni come i conventi, dove pare non vi dovrebbero essere discriminazioni socio-economiche, tendono, di fatto, ad assegnare i ruoli di servitori ai conversi di origine contadina, così come i gruppi di “rifiutati” nei nostri ospedali psichiatrici modello, dove si dichiara l’assenza di discriminazioni razziali, sono quasi sempre rappresentati dai negri”. E. Goffman, Asylums, p. 148.
128
Credo che l’espressione “modernità pesante”, così come intesa da Bauman, accorra in nostro aiuto
rendendo immediati concetti altrimenti complessi ed articolati che, in questa sede, non possiamo
approfondire nello specifico. Il concetto di “modernità pesante”, innanzitutto, restituisce una
sensazione di fisicità, ossia di centralità della relazione spazio/tempo. “Fu quella l’epoca”, scrive
Bauman, “delle macchine pesanti e sempre più ingombranti, delle mura di fabbriche sempre più
ampie che fagocitavano sempre più operai…”1. Sul piano delle relazioni sociali e produttive, è
quindi la grande fabbrica fordista a rappresentare l’immagine rigida della modernità, in cui
capitale e lavoro si trovano ancorati al suolo, immobili, in una condizione di costante conflittualità
ma, al contempo, consapevoli dell’ineluttabilità del loro sodalizio poiché “nessuno dei due
sarebbe sopravvissuto senza l’altro”2. La modernità pesante fu anche “l’epoca della conquista
territoriale…gli imperi si espansero ai quattro angoli del globo, fermati soltanto da altri imperi, di
pari o superiore forza”3. La colonizzazione risulta quindi essere un ulteriore punto cardine della
“modernità solida”, in virtù dell’identificazione tra possedimenti e ricchezza, potere e conquista
dello spazio.
Nota Foucault come la colonizzazione si sia rivolta anche all’interno degli stati-nazione, nei
confronti di vagabondi, mendicanti, nomadi, delinquenti, prostitute, dando così origine all’intero
sistema di internamento dell’epoca classica. Possiamo quindi sostenere che l’accumulazione
capitalistica è proceduta di pari passo con l’accumulazione degli uomini e, in particolare, della
loro forza-lavoro. L’interrogativo della modernità è dunque quello di comprendere “come
distribuire gli individui in modo che, dalla loro pluralità, si ottenga più della pura e semplice
somma di individui posti gli uni accanto agli altri”4. La risposta è stata in larga parte fornita dalla
nascita delle scienze dell’uomo sotto forma di discipline, ovvero “tecniche di distribuzione dei
corpi, degli individui, dei tempi, delle forze di lavoro”5. All’interno di questo quadro dobbiamo
situare l’ospedale psichiatrico, strutturato ed organizzato alla stregua di altre istituzioni totali della
società disciplinare. Il manicomio è la proiezione dei dispositivi fondativi della fabbrica fordista,
così come della caserma, su un terreno affatto particolare quale il disagio psichico. L’operaio-
massa, la cui vita è irreggimentata dall’organizzazione della fabbrica fordista e dal coordinamento
“metrico” del tempo di lavoro – che è sempre tempo di vita -, reagendo all’alienazione della
propria condizione umana attraverso la “produzione psicotica” - intesa quale fuga e sofferenza
della soggettività umana - non fa altro che transitare da un luogo all’altro della società
disciplinare. Si muove sempre e comunque all’interno del Panopticon, poiché, come afferma
Bentham, l’eccellenza di quest’ultimo “consiste nella grande forza che è in grado di conferire a
qualunque istituzione lo si applichi”6.
1 Z. Bauman, Modernità liquida, p. 127. 2 Ibidem, p. 130. 3 Ibidem, p. 128.4 M. Foucault, Il potere psichiatrico, p. 77.5 Ibidem, p. 78.6 Ibidem, p. 79.
129
Sono due le espressioni Benthamiane riferite al Panopticon che, a mio avviso, meritano
particolare attenzione; da una parte la capacità di fornire una “forza erculea” a coloro che lo
dirigono, dall’altra il fatto che esso rappresenti “un nuovo modo di conferire allo spirito un potere
sullo spirito”. Queste due affermazioni riassumono l’essenza del potere disciplinare; da un lato la
capacità di vertere sul singolo corpo – seppur l’impiego brutale della forza rimanga l’ultima
istanza del potere – e, dall’altro lato, l’incisività dell’azione “panottica” nell’innescare un costante
processo di auto-controllo dell’individuo, il quale, nella consapevolezza di poter essere
sorvegliato, s’interroga sulla liceità della propria condotta – finanche dei propri pensieri – e sul
concetto stesso di limite e di norma. E’ proprio questa assoluta contiguità della disciplina con la
norma, con la “codificazione sociale”, a delineare la geografia della residualità, a circoscrivere
l’irriducibile, l’inclassificabile, l’inassimilabile; allo stesso modo in cui il tempo metrico della
catena di montaggio fordista individua ed espelle i soggetti “improduttivi”, coloro che non
vogliono piegarsi – o non riescono – all’organizzazione della produzione giudicata storicamente
come “razionale” e “normale” dal capitale. Il potere disciplinare, pertanto, individualizza i
soggetti all’interno di uno spazio definito, circoscritto ed irreggimentato. Viene meno la
collettività dei fenomeni – a cominciare dalla comunicazione di gruppo – e si origina un “potere
d’insieme esercitato su tutti, ma che avrà di mira soltanto serie di individui separati gli uni dagli
altri”1. Il carattere individualizzante del potere disciplinare necessita, per dirla con Foucault, d’una
“meccanica della disciplina”, ossia di procedure definite e standardizzate che garantiscono la
governabilità dell’istituzione stessa nel suo complesso - cioè la sua capacità di riprodursi – e,
attraverso quest’ultima, il controllo sociale delle soggettività irriducibili all’esistente.
Tutto questo, secondo Deleuze, entra in una fase di crisi verticale nell’epoca di quella che
Bauman definisce “modernità liquida”. Cerchiamo di delineare brevemente i tratti di quest’ultima
per comprenderne gli effetti sul piano del controllo sociale in generale e della psichiatria in
particolare. Il segno principale della “modernità leggera”, del capitalismo “software” in luogo di
quello “hardware”, è, a mio avviso, “l’odierna irrilevanza dello spazio, mascherata sotto forma di
annullamento del tempo”2. Alcuni autori giungono ad affermare che a venire meno è la stessa
differenza tra “lontano” e “vicino”; così come l’epoca moderna si aprì all’insegna delle grandi
scoperte geografiche – e quindi di una rivoluzione nella concezione dello spazio -, la post-
modernità si identifica nell’istantaneità delle comunicazioni informatiche, nei flussi elettronici che
inaugurano la “svalutazione dello spazio”.
Rispetto ad interpretazioni “futuribili” della post-modernità – affette da un certo “nuovismo” –
credo che quest’ultima possa essere ricondotta, essenzialmente, all’esasperazione di alcuni tratti
della modernità stessa, dei quali si appropria il sistema dominante – l’organizzazione sociale
capitalistica – al fine di perpetuare il proprio dominio e perfezionare il proprio controllo. Infatti,
1 Ibidem, p. 81.2 Z. Bauman, Modernità liquida, p. 132.
130
come nota Bauman, “anche la tecnologia più avanzata, armata di processori sempre più potenti, ha
ancora della strada da fare per raggiungere l’istantaneità assoluta”1. Questo significa che la post-
modernità non può individuare in processi d’innovazione scientifica e segnatamente tecnologica –
primo fra tutti quello che investe il settore informatico – la propria “ragione costitutiva”. La
svalutazione dello spazio non deve essere interpretata quale diretta ed ineluttabile conseguenza
della comunicazione digitale, bensì come elemento di un progetto politico ed economico – il
neoliberalismo – che individua nella ristrutturazione capitalistica su scala globale il fine ultimo
della propria azione. In questo quadro s’inseriscono i processi di delocalizzazione produttiva
funzionali ad una nuova divisione internazionale del lavoro. In tal senso, credo che la post-
modernità si presenti in sostanziale continuità con la modernità, poiché entrambe necessitano di
un sistema-mondo improntato alla “differenziazione invalidante”, ossia alla sperequazione e alla
sottomissione di intere classi sociali e popolazioni ad interessi e privilegi elitari. La “modernità
pesante” di cui parla Bauman la ritroviamo oggi nelle fabbriche delocalizzate in Cina, India e
Brasile; si assiste quindi ad una costante modulazione della relazione spazio/tempo funzionale al
capitale – oggi libero di muoversi trans-nazionalmente – e, pertanto, alla strutturazione di società
estremamente differenti tra loro, ma inserite all’interno della medesima “situazione inglobante”.
Tutto questo non sfugge a Bauman, il quale precisa che “le persone che riescono a mantenere le
proprie azioni indipendenti, libere da norme e dunque imprevedibili, e al contempo a
regolamentare le azioni altrui, dominano”2. Continua affermando che “il dominio consiste nella
capacità di sfuggire, di svincolarsi, di ‘essere altrove’, e nel diritto di decidere la velocità con cui
fare tutto ciò…”; ecco perché parliamo oggi di capitale de-territorializzato, volatile, sempre più
svincolato dalle costrizioni che la relazione spazio/tempo portava con sé all’epoca della
“modernità solida”, poiché questa è la frontiera del dominio nel XXI secolo.
Il capitale non è più ancorato al suolo, costretto ad un coinvolgimento diretto e duraturo con il
lavoro, con soggettività sfruttate e potenzialmente sovversive nei confronti dell’esistente. O
meglio, questa relazione non esiste più, almeno nelle società occidentali, nelle forme della
“modernità pesante”. Possiamo quindi affermare che la “modernità leggera” individua nella
riorganizzazione degli spazi e nella loro disposizione – a partire dalle modalità e dalla tempistica
dei flussi comunicativi che li attraversa, specie sul piano produttivo -, lo strumento principale del
controllo sociale stesso. L’esempio emblematico non risiede solo nei processi di delocalizzazione
industriale – interni alla ridefinizione della divisione internazionale del lavoro -, ma nella
riorganizzazione del tessuto produttivo delle stesse società occidentali. La frammentazione
territoriale dei siti produttivi – veicolata da una vera e propria ossessione al ridimensionamento di
quest’ultimi -, così come la terziarizzazione dell’economia – condizione ideale, come abbiamo
visto, alla diffusione della “falsa coscienza” propria dei “funzionari del consenso” -, presentano
1 Ibidem, p. 134.2 Ibidem, p. 135.
131
elementi di assoluta rilevanza sul piano dell’innovazione delle tecniche di controllo sociale, a
partire dalla ricollocazione degli spazi politici e, soprattutto, sindacali.
Secondo Deleuze, quindi, la “modernità liquida” racchiude il contesto spazio-temporale
all’interno del quale collocare le “società del controllo”, in quanto “il capitalismo non è più per la
produzione, che viene spesso relegata alle periferie del terzo mondo, anche sotto le forme
complesse del settore tessile, metallurgico e petrolchimico”1. Il capitalismo cui si riferisce
Deleuze vende servizi ed acquista azioni; in tal senso smaterializza e digitalizza la fabbrica e la
“solidità” della produzione, almeno se osservato dal nostro punto di vista immerso nelle
trasformazioni che il capitale transnazionale apporta agli spazi e alle relazioni sociali dei paesi
occidentali. Proviamo ora ad individuare, a partire da una possibile interpretazione del declino
delle società disciplinari, le trasformazioni odierne dei sistemi di controllo sociale.
Foucault ci ricorda che la microfisica del potere disciplinare esercita un’azione
individualizzante, volta ad abolire i fenomeni collettivi in modo tale da raggiungere la condizione
in cui “nelle officine non ci saranno più distrazioni collettive, canzoni, sospensione del lavoro e
scioperi; nelle prigioni, non ci saranno più complicità, e negli ospedali per malati di mente non si
verificheranno più fenomeni di agitazione collettiva, di imitazione, e così via” 2. Foucault si
riferisce ad “interni”, ovvero ad ambienti chiusi, definiti, irreggimentati; a questo livello si
inserisce la critica di Deleuze quando parla di crisi generalizzata di tutti gli ambienti di reclusione,
e di “irriformabilità” – nonostante i numerosi sforzi – di quest’ultimi. Credo sia possibile
sostenere che gli strumenti delle società disciplinari portano inevitabilmente con sé una sorta di
“contropotere” dato dalla mera presenza di uno spazio circoscritto. La principale contraddizione
dei dispositivi disciplinari, consiste nell’aver ideato meccanismi di “individualizzazione
massificante” che si originano dalla coercizione serializzata di persone: operai, prigionieri,
studenti, ricoverati. Per questa ragione i due pilastri del potere disciplinare – l’uno attinente ad
una dimensione meramente fisica, “erculea”, l’altro ad una realtà “psicologica” – vedono nelle
società occidentali, all’epoca della “modernità pesante”, un deficit di efficienza del secondo e,
parallelamente, un costo eccessivo del primo3.
Il potere conferito dal Panopticon “allo spirito sullo spirito”, si rivela inefficace per due ragioni
fondamentali. La prima riguarda la stessa “meccanica disciplinare”, in quanto la massificazione
delle istituzioni totali – ma anche di quelle produttive -, ha forgiato, per dirla con Marx, armi che
arrecheranno la morte a quest’ultime. Internati, operai e prigionieri sussunti dalla medesima
condizione sociale ed esistenziale, divorati dagli stessi luoghi, non solo si riconoscono eguali in
1 G. Deleuze, Pourparlers, pp. 240-247.2 M. Foucault, Il potere psichiatrico, p. 80. 3 “Va detto che la spinta decisiva a chiudere i manicomi è stata determinata da una esigenza economica del Governo, nel 1998. Tenere tante persone in una struttura manicomiale costava molto, allora l’Esecutivo impose una data entro la quale ogni direttore di azienda sanitaria doveva provvedere a sistemare, in strutture adeguate, l’utenza del suo territorio ricoverata negli ospedali psichiatrici”. N. Valentino (a cura di), Istituzioni post-manicomiali, Sensibili alle foglie, 2005, p. 13.
132
quanto oppressi, ma possono concretamente organizzarsi e sperimentare così forme di
“contropotere disciplinare”, poiché sono essi stessi - coi loro corpi – a rappresentare gli
ingranaggi dell’istituzione. E’ il lavoro delle braccia degli operai a fornire le basi empiriche per la
misurazione della tempistica produttiva, così come sono i malati di mente internati nei manicomi
a scandire i tempi della vita istituzionale attraverso vere e proprie “cerimonie” incentrate
sull’oggettivazione dei loro corpi e sulla spersonalizzazione dei loro vissuti. La seconda ragione,
invece, presenta un carattere psicologico – o psicosociale –, attinente cioè la formazione di ciò che
Bentham definisce “nuovo modo di conferire allo spirito un potere sullo spirito”. All’interno del
Panopticon l’azione di autocontrollo individuale è data dai meccanismi punitivi e coercitivi
dell’istituzione e, segnatamente, dagli effetti di quest’ultimi sulla “vita istituzionale”
dell’internato. L’origine d’ogni dinamica autodisciplinare è quindi esterna all’individuo, poiché
circoscritta nello spazio istituzionale e nella “situazione inglobante” e terrificante che
quest’ultimo racchiude.
Credo sia importante soffermarsi, seppur brevemente, su questo punto poiché evidenzia una
contrapposizione rilevante tra le “società disciplinari “ e le “società del controllo”. Se facciamo
riferimento alla prigione - così come al manicomio - quale emblema di “panoptismo”, ci
accorgiamo come il duplice processo che, secondo Foucault, investe il sistema delle pene tra la
fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo – vale a dire la scomparsa dei supplizi e dello spettacolo
punitivo da un lato, l’annullamento del dolore dall’altro – sia orientato alla sobrietà punitiva in
virtù della crescente centralità della “penalità dell’incorporeo”. “Per effetto di questo nuovo
ritegno”, scrive Foucault, “tutto un esercito di tecnici ha dato il cambio al boia, anatomista
immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori”1. E’
quindi importante focalizzare un concetto circa il nuovo sistema penale che si instaura agli inizi
del XIX secolo – in coincidenza con la nascita della disciplina psichiatrica -: non è più al corpo
del condannato (o dell’internato) che si rivolge la pena più severa, ma all’anima. “All’espiazione
che strazia il corpo”, ricorda Foucault, “deve succedere un castigo che agisca in profondità sul
cuore, il pensiero, la volontà, la disponibilità”2. Tutto questo assume uno straordinario e
particolare significato proprio all’interno delle istituzioni psichiatriche, ovvero laddove i
comportamenti umani vengono stigmatizzati e puniti non tanto a seguito di violazione di norme,
ma in virtù del loro inserimento nel campo degli oggetti suscettibili di conoscenza scientifica. Il
giudizio scientifico segue quindi i percorsi dell’inferiorizzazione morale dell’individuo, in base a
ciò che egli è o potrà essere. Tutto questo per affermare che tale mortificazione dell’uomo - che
abbiamo visto essere elemento centrale nel generare l’autodisciplina dell’individuo internato nel
Panopticon -, non solo necessita di istituzioni e luoghi eminentemente disciplinari - quali un
1 M. Foucault, Sorvegliare e punire, p. 13. 2 Ibidem, p. 19.
133
“esercito” di funzionari e uno spazio d’internamento – ma riflette una percezione che l’individuo
ha di se stesso, costruita e pianificata all’interno di quel medesimo spazio.
Nel corso del primo capitolo abbiamo parlato di “sopraffazione del Sé” degli internati, ovvero di
un’invasione della sfera personale che l’istituzione manicomiale opera costantemente, seppur ad
intensità variabile. Goffman ci ricorda come l’ospedale psichiatrico sia irretito da un vero e
proprio “sistema di privilegi” – e di punizioni – determinato in base al comportamento degli
internati, ossia della loro propensione all’autodisciplina e, conseguentemente, alla docilità
dimostrata a fronte di ripetute ed esplicite – per questo umilianti – violazioni della loro
personalità, della loro intimità fisica e psicologica1. E’ questa la dimostrazione più efficace del
nesso stringente che le società disciplinari instaurano tra l’autocontrollo – ovvero
l’automortificazione dell’uomo – e gli spazi istituzionali. Sin qui, dunque, la forza formidabile del
potere disciplinare e i suoi punti di criticità e contraddizione che, assieme ad un nuovo paradigma
socioeconomico (il neoliberismo) e in stretta correlazione con quest’ultimo, hanno creato le
condizioni per l’avvento delle società del controllo.
Quali sono quindi i nuovi tratti del controllo sociale – segnatamente psichiatrico – nell’epoca
della “modernità liquida”? Dove le società del controllo si differenziano rispetto alle società
disciplinari? Credo che una risposta efficace possa essere articolata lungo due linee principali; da
una parte la ridefinizione degli spazi istituzionali – quale segno di un cambiamento più profondo
che investe l’intera organizzazione sociale - e, dall’altra, le conseguenze a livello psicologico ed
esistenziale di tali mutamenti. Abbiamo detto che il principale fallimento del potere disciplinare e
delle sue istituzioni risiede nell’aver delineato un sistema di autocontrollo del soggetto mediato da
dinamiche che risultano inefficaci e, pertanto, foriere di rivolte diffuse e spesso incontrollabili.
Possiamo affermare, in poche battute, che l’autocontrollo – inteso quale limitazione della propria
libera espressione –, in un contesto disciplinare, non si origina dal vivente ma da rapporti
istituzionali ed artificiali.
A partire dalla chiusura dei grandi asili per alienati, o dalla destrutturazione della fabbrica
fordista a seguito di processi di delocalizzazione e frammentazione produttiva, viene meno
l’ideal-tipo di spazio istituzionale all’interno del quale l’individuo elaborava una lettura di sé e
delle proprie relazioni sociali aventi come caratteristica principale la continuità spazio-temporale
di quest’ultime. Deleuze restituisce con grande efficacia tale concetto, affermando che “le
reclusioni sono modelli-stampi, delle distinte modellature, mentre i controllo sono una
modulazione, come una modellatura autodeformante, che si modifica continuamente, da un istante
all’altro”2. Il “modello-stampo” di cui parla Deleuze è paragonabile alla cella del Panopticon,
ovvero allo spazio istituzionale-psichiatrico per eccellenza delle società disciplinari. Vi è quindi
1 Più volte Goffman utilizza in Asylums il termine “contaminazione” per indicare non solo la violazione del Sé ma anche il deperimento di quest’ultimo, il suo mutamento strutturale dalle drammatiche conseguenze esistenziali.2 G. Deleuze, Pourparlers, pp. 240-247.
134
un elemento - certo drammatico - di continuità, stabilità e rigore a segnare quest’ultime; è questo
il modello istituzionale compatibile con la “modernità solida”. Allo stesso modo, la fabbrica
fordista, costruita attorno all’operaio-massa, individuava un livello stabile e definito dei salari,
comune a tutti gli operai e costante nel tempo. L’impresa del XXI secolo, invece, “si sforza più
profondamente d’imporre una modulazione d’ogni salario”, in virtù d’una produzione just-in-time
capace di piegare sistematicamente l’offerta alla domanda – la pianificazione al mercato. La
domanda, infatti, “entra” in produzione e, grazie all’innovazione delle tecnologie comunicative,
mistifica lo scontro tra capitale e lavoro attraverso l’imposizione di falsi “interessi generali” di cui
il mercato, oramai “soggetto produttivo”, è la sintesi più pericolosa ed ingannevole.
Qualcosa di analogo accade nel circuito del controllo psichiatrico, dove le istituzioni post-
manicomiali – strutture intermedie residenziali e semiresidenziali, centri diurni ecc. -, in
collaborazione coi centri di salute mentale delle aziende sanitarie locali, rispondono in tempo
reale alle esigenze dei territori di “contenere” soggettività “devianti”. Non vi sono più
mastodontici istituti per “alienati mentali” dove concentrare ed amministrare le “vite di scarto”
d’una società, bensì una rete di istituzioni post-manicomiali che, tuttavia, individuano modalità
organizzative e funzionali solo apparentemente orizzontali. Possiamo infatti parlare di “rete
gerarchica”, caratterizzata da centri di potere ad elevata differenza di potenziale, rispondenti alle
coordinate d’una vera e propria geografia del “disprezzo sociale”. Il dominio del potere
psichiatrico – e segnatamente della figura sociale dello psichiatra – non è stato messo in
discussione; al contrario, negli ultimi anni si è assistito ad un’estensione del campo d’intervento
della psichiatria a seguito dell’individuazione di nuove “malattie mentali”1. La psichiatria odierna,
a differenza di quella che potremmo definire “classica”, ha inglobato all’interno della propria
azione il “vissuto quotidiano”, l’esperienza comune; non è più necessario esperire “situazioni
limite” tra l’individuo e l’organizzazione affinché intervenga l’accusa psichiatrica. Anche per
questo si sono diffuse capillarmente le istituzioni post-manicomiali; organizzazioni snelle, agili,
poco costose per la collettività ma sufficientemente redditizie per il “privato sociale”. Il
manicomio è ora disperso sul territorio, fluidificato nel circuito decentrato del controllo
psichiatrico; non più visibile quale corpo circoscritto, ma rete capillare innervata dalle
contraddizioni dell’organizzazione sociale capitalistica, a cominciare dal suo vorace desiderio di
sussumere il reale al profitto, alla mercificazione non solo del vivente ma persino delle sue
fratture esistenziali che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, sono spesso una drammatica
conseguenze del “regime dell’ineguaglianza” in cui l’individuo è imprigionato. L’organizzazione
del controllo psichiatrico non è più mera prerogativa dello Stato, servizio pubblico posto al
confine tra cura e custodia, ma attività lucrativa privata svolta da “funzionari del consenso” e, per
1 Tutto questo appare chiaramente da una semplice consultazione del DSM, il dizionario diagnostico-psichiatrico elaborato negli Stati Uniti, dove vengono costantemente inserite nuove malattie mentali.
135
dirla con Basaglia, da “servi ridenti” della classe dominante, sempre solerte a fagocitare lo Stato
poiché, come affermava Braudel, “il capitalismo trionfa quando è lo Stato”.
L’azione psichiatrica si è fatta quindi sempre più avvolgente, priva di confini che non siano
quelli del corpo sociale stesso o delle norme socio-giuridiche imposte da un potere “illeggibile” e
fluido – poiché flebile è divenuto il conflitto sociale e con esso le dinamiche di soggettivazione
politica collettiva1. L’individuo, costantemente immerso nello spazio sociale ed economico che lo
circonda, affronta in condizioni di assoluta “solitudine” – a seguito del carattere frammentario e
dispersivo delle formazioni sociali, oramai prive di un effettivo “potenziale aggregante” – le
contraddizioni che investono la sua sessa esistenza, originate da un’organizzazione sociale sempre
più ineguale nella distribuzione delle ricchezze e delle opportunità ed asimmetrica nelle relazioni
tra i suoi soggetti. Non siamo più dinanzi ad imponenti e mastodontiche “istituzioni totali”, lo
sguardo non si ferma più, intimorito ed affascinato, alla linea di confine, alle mura del carcere, al
filo spinato, al reparto di un ospedale psichiatrico; l’individuo è oramai solo, in balia delle
narrazioni della propria vita, sempre più precaria, incerta, alla deriva. Non sono più i formidabili
dispositivi disciplinari a generare autocontrollo e contenzione, non la paure delle ritorsioni del
potere a “conferire allo spirito un potere sullo spirito”, ma il peso delle fratture sociali che il
neoliberismo globale ha scaraventato sul singolo individuo. L’insicurezza sociale ed esistenziale
domina la vita e le coscienze – quest’ultime sempre più “reificate” -; uomini e donne dispersi
nella fluidità delle relazioni odierne incappano in un potere dal volto “soft”, oramai non più
raffigurato da un corpulento sorvegliante e dai suoi strumenti di contenzione, ma dal volto
“amico” di psicologi, educatori ed operatori del “terzo settore” pronti a discernere il bene dal
male.
Ha ragione Giorgio Antonucci quando afferma che “in passato la critica al pregiudizio
psichiatrico era più semplice, ora è molto più complessa, perché bisogna difendere le persone da
un numero sempre maggiore di possibili accuse”2. Il proliferare dei centri d’accusa è una delle
peculiarità delle “società del controllo” – la cifra della loro fluidità -, a cominciare dall’atto di
accusa che l’individuo rivolge verso se stesso, a seguito di una crescente difficoltà nella vita di
relazione che attanaglia le società definite “occidentali” ed “avanzate”. Deleuze parla di “forme
ultrarapide di controllo all’aria aperta, che rimpiazzano le vecchie discipline operanti nella durata
di un sistema chiuso”3. Da questo punto di vista, gli psicofarmaci rappresentano non solo il più
diffuso strumento odierno di contenzione in ambito psichiatrico, ma l’emblema della “liquidità”
1 Si vuole sostenere che il conflitto sociale è già in sé ragione d’identificazione politica individuale e collettiva, in quanto nelle sue stesse dinamiche – in parte anche nei suoi “rituali” – sono inscritte le norme del gruppo sociale che partecipa - tramite ogni suo componente - a rivendicazioni civili, sociali, salariali e politiche in senso lato. Se ai tempi di Basaglia il “campo di battaglia” era diviso sostanzialmente in due parti avverse, estremamente contraddittorie al proprio interno ma pur sempre reali nella loro conflittuale alterità, oggi ci troviamo dinanzi ad una realtà frammentaria, dove le resistenze sono in larga parte costituite da narrazioni soggettive. 2 G. Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Sensibili alle foglie, 2005, p. 9. 3 G. Deleuze, Pourparlers, pp. 240-247.
136
dei sistemi di dominazione dell’individuo, dove si abbandonano lettini e camicie di forza per
affidarsi ai princìpi attivi di sostanza chimiche neuroplegiche, ossia paralizzanti di alcuni funzioni
nervose. L’autocontrollo – ciò che nel Panopticon era l’autodisicplina dell’internato – non è più
indotto da dispositivi istituzionali e, pertanto, esterni all’individuo; ora è parte di quest’ultimo,
della sua stessa materialità. Scorre nelle sue vene, si mescola alla sua sostanza biologica, lo segue
in ogni suo spostamento; ombra indelebile che accompagna – e dirige – i suoi pensieri in ogni
tempo e circostanza.
Deleuze ci ricorda, con estrema lucidità, che “non è il caso né di piangere né di sperare, si tratta
piuttosto di cercare nuove armi”. Dobbiamo scavare nel quotidiano, nella realtà sociale sino ad
incontrare le “radici dell’oppressione”, la ragione della squalifica morale ed esistenziale di uomini
e donne colpite dall’atto di accusa della psichiatria. E’ oggi necessario ripartire dal principale
insegnamento di Basaglia: “non esiste storia della follia che non sia storia della ragione” o, per
dirla con Foucault, “monologo della ragione sopra la follia”. Se dobbiamo distinguere la “malattia
mentale” che sia solo per esaltare e stigmatizzare il suo portato sociale, per aiutare le soggettività
in essa oppresse ad emergere e ricostruire così la narrazione della propria vita. Soltanto
restituendo alla miseria la propria inconfondibile voce, la propria immagine di “umanità violata”,
sarà possibile delineare i percorsi d’una effettiva emancipazione sociale. All’ideologia dominante,
che vorrebbe occultare le proprie contraddizioni attraverso il fumoso e complesso linguaggio della
psichiatria quale emblema di risposta tecnica approntata dalla razionalità del potere, rispondiamo
con la semplicità e la profondità dei vissuti e dei bisogni di coloro che, per utilizzare le parole di
Karl Kraus, sono stati “portati via” dalla psichiatria.
Non è un elemento casuale il fatto che gli scritti basagliani ci consentano di effettuare
quest’analisi circa il confine tra le “società disciplinari” e le “società del controllo”; è frutto della
straordinaria capacità di Franco Basaglia di “leggere” i mutamenti sociali e, soprattutto, di
comprenderne le cause, il portato storico e politico. Come ricorda Maria Grazia Giannichedda,
nell’introduzione a L’utopia della realtà, Basaglia dedica gli ultimi mesi della propria vita –
fondamentali nel delineare i percorsi politici attraverso cui riattualizzare il suo pensiero e,
soprattutto, la sua “pratica sociale” – alla riorganizzazione delle politiche di salute mentale della
regione Lazio. “Gli interessa l’opportunità”, scrive Giannichedda, “di mettersi alla prova in una
metropoli che ha uno dei più grandi manicomi pubblici e che sta vivendo il drammatico proporsi
delle emergenze legate alle tossicodipendenze e alla nuova marginalità urbana, e in una regione
che ha la più alta concentrazione di posti letto psichiatrici privati…”1. Basaglia coglie così la
centralità di due punti-cardine delle odierne “società del controllo”: la questione (sociale) della
“marginalità urbana” e il ruolo del “settore privato” in psichiatria. La devianza sociale,
segnatamente nei contesti urbani, ha infatti assunto dimensioni rilevanti - connaturate
all’affermarsi, sul piano economico e storico-politico, del paradigma neoliberale – che
1 F. Basaglia, L’utopia della realtà, p. LI.
137
impongono, oggi più che mai, una riflessione critica ed attenta circa l’azione di controllo sociale
che le scienze umane – a partire da una rinnovata azione istituzionale – pongono in essere.
L’azione della psichiatria, nelle nostre società, è quindi rivolta al controllo dello “scarto” esistente
tra corpo sociale e corpo economico, ossia tra la soggettività diffusa di uomini e donne e le leggi
del mercato e della produzione. Tale “scarto” viene de-soggettivato a seguito dell’azione
ideologica delle “scienze umane”- psichiatria e psicologia in primis –, finalizzata a negare la
“normalità” biologica – intesa, nell’immaginario comune, quale condizione fondamentale per
accedere alla “paritarietà” delle relazioni sul piano umano e finanche morale – di tali soggettività.
Ciò significa che la responsabilità della mancata coincidenza tra corpo sociale e corpo economico
– che può darsi solo a partire da una subordinazione di quest’ultimo al primo – viene imputata al
singolo individuo e non all’organizzazione della società nel suo complesso, dove ineguaglianze ed
ingiustizie costituiscono la base della “marginalità urbana” stessa. In questo contesto, Basaglia
evidenzia il carattere pervasivo dell’odierna azione istituzionale; da qui i suoi tentativi di
riorganizzare il pronto soccorso di uno degli ospedali più difficili del centro storico di Roma, “per
cercare risposte alternative ai problemi della popolazione marginale che vi ruota intorno” 1. Allo
stesso modo, “l’ipotesi di coinvolgere alcune cliniche private in un programma di riorientamento
delle proprie strutture”2 rientra all’interno di un’ipotesi di lavoro che non può prescindere dalle
condizioni reali e materiali in cui si opera. Le contraddizioni che, già negli anni Sessanta, il
movimento antiistituzionale italiano aveva reso evidenti all’interno dei grandi ospedali
psichiatrici, necessitano di essere oggi ricondotte all’intera organizzazione sociale, oramai
divenuta terreno di un controllo continuo, poiché innervata da molteplici istituzioni spesso
anonime, nascoste, mascherate, ma pur sempre presenti e terribilmente efficaci nello svolgere la
propria funzione sociale3.
A fronte di una condizione di “manicomialità diffusa”, è necessario, parafrasando Basaglia,
arrivare a capire che “il valore dell’uomo, sano o malato, normale o anormale, va oltre il valore
della salute e della malattia, della normalità o dell’anormalità…Se il valore è l’uomo, la salute e la
normalità non possono rappresentare la norma dato che la condizione dell’uomo è di essere sano e
insieme malato, normale e insieme anormale”4. L’aberrazione consiste quindi nel portato
stigmatizzante – e socialmente invalidante – che accompagna la “malattia” e l’”anormalità” nelle
nostre organizzazioni sociali, a dimostrazione del fatto che vengono utilizzate quale strumento di
1 Ibidem, p. LII.2 Ibidem, p. LII.3 Nell’opera Istituzioni post-manicomiali, Nicola Valentino evidenzia, attraverso una raccolta di “narrazioni esperenziali” di operatori e residenti, il carattere totalizzante dei dispositivi di quelle che vengono definite “strutture intermedie residenziali” per sofferenti psichici. In particolare, si dimostra come allo svuotamento dei manicomi pubblici non abbia fatto seguito la “chiusura del Manicomio” inteso, innanzitutto, quale pregiudizio diffuso. Le SIR (strutture intermedie residenziali) rappresentano così l’elemento di continuità con il “vecchio” ospedale psichiatrico, riproponendo - in chiave storico-politica aggiornata – dinamiche istituzionali umilianti ed oggettivizzanti verso coloro che vengono asetticamente definiti “residenti”. 4 F. Basaglia, Condotte perturbate, in L’utopia della realtà, pp. 299-300.
138
alienazione e dominio; infatti, “solo se la strategia, la finalità di ogni azione e di ogni
provvedimento sono l’uomo, i suoi bisogni, la sua vita…si potrà parlare di una malattia e di una
anormalità che esprimano direttamente ciò che sono”1. In sostanza, “malattia” e “anormalità” non
possono in alcun modo giustificare violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo: libertà, certezza
della propria condizione sociale e giuridica, rispetto della dignità di ciascuno; altrimenti ci
troveremmo dinanzi a “condizioni umane” che – paradossalmente ed in modo inspiegabile se non
ricorrendo ad una precisa volontà di inferiorizzazione e punizione dell’uomo – si porrebbero al di
sopra dell’uomo stesso, della sua intangibile interezza.
Abbiamo visto, nel corso del secondo capitolo, quale sia, ancora oggi, la portata sociale della
malattia mentale, l’attualità del suo connotato “di classe”, l’ombra di emarginazione sociale che la
accompagna in ogni istante. Non possiamo disinteressarci di tutto questo fingendo che si tratti di
un semplice “dato”, riconducibile a qualche teoria politica o sociologica. Si tratta di vissuti umani,
di uomini e donne che lanciano un grido di dolore, che parlano di un mondo ingiusto, di questo
mondo. Dobbiamo ripartire dallo straordinario valore politico racchiuso in quei bisogni, dar voce
ad istanze di emancipazione sociale che, altrimenti, finiscono per essere inglobate e snaturate in
modo regressivo ed alienante dall’azione ideologica del “pensiero dominante”. “Da questo
panorama indistinto di bisogni”, scrive infatti Basaglia, “qualche voce può alzarsi a gridare
l’angoscia, il furore, la rabbia, la scissione, la frattura; o a piangere la propria impotenza. E’ allora
che le si darà la parola, per imbavagliarla con la definizione di ‘malattia’: una malattia che sarà
‘curata’ perché non dica da dove proviene”2. Basaglia, nella sua critica, si è così spinto ben oltre i
confini della psichiatria; ha negato infatti l’intangibilità della “scienza”, giudicata simbolo sacro –
e servile – di una falsa idea della razionalità moderna, piegata alla parzialità dei valori borghesi.
Credo che il recupero di un “pensiero forte” della modernità – a partire dalla condizione di
eguaglianza sostanziale tra gli uomini quale elemento fondativo delle stesse libertà moderne –
vada di pari passo con processi di soggettivazione politica, individuale e collettiva, capaci di
articolarsi lungo la centralità dei bisogni reali degli oppressi, dei diseredati, degli “scartati”, oggi
offuscati dall’azione ideologica dei “funzionari del consenso”. Varcare la coltre di ipocrisia di cui
si attornia l’ideologia borghese non è cosa semplice e priva di rischi; Basaglia, assieme a pochi
altri, ha avuto il coraggio di farlo, per poi sfiorare le verità dell’uomo, sempre incise nella realtà.
E’ da questa realtà che proponiamo di ripartire, tramite il conferimento di un protagonismo
politico ai “vissuti marginali”, oggi residuali all’interno dello stesso discorso politico.
Crediamo sia doveroso lasciare alle parole di Basaglia la conclusione di questo lavoro; per
questo motivo si riporta, tra poco, il passo con cui termina Follia/Delirio, il saggio scritto nel
1979 da Franco Basaglia, in collaborazione con Franca Ongaro, per l’Enciclopedia Einaudi. E’
carico di emozioni, animato dalla volontà di comprendere l’esistente, di scavare in profondità, ma
1 Ibidem, p. 299.2 F. Basaglia, Follia/Delirio, p. 442.
139
anche, talvolta, di ribellarsi improvvisamente all’oppressione, testimoniando così, in forme
diverse, la propria irriducibilità al potere, alla cultura della disperazione che vorrebbe l’uomo
assoggettato ai propri simili, il mondo troppo piccolo per accogliere chiunque. Basaglia parla di
un altro mondo, umano e rispettoso delle differenze; un “altrove” che, tuttavia, non può che essere
tra noi, nella consapevolezza delle contraddizioni che investono il nostro agire quotidiano,
affinché il domani - anche se non sarà migliore - possa continuare a presentare spazi di
emancipazione. Esser-ci, a fronte dell’arroganza del potere, è già un affronto per quest’ultimo,
un’insopportabile testimonianza di autonomia e libertà.
Non crediamo ai falsi profeti, ma alla liberazione dell’uomo quale realtà che è possibile
afferrare; lo dobbiamo a tutti coloro che sono stati portati via dalla psichiatria, che mai più
faranno ritorno, ma le cui voci - se attentamente ascoltate – già sovrastano “il monologo della
ragione sulla follia”.
“…Ci sono sempre falsi profeti. Ma nel caso della psichiatria è la profezia stessa ad essere falsa, nel
suo impedire, con lo schema delle definizioni e classificazioni dei comportamenti e con la violenza
con cui li reprime, la comprensione della sofferenza, delle sue origini, del suo rapporto con la realtà
della vita e con la possibilità di espressione che l’uomo in essa trova o non trova. Continuare ad
accettare la psichiatria e la definizione di “malattia mentale” significa accettare che il mondo
disumanato in cui viviamo sia l’unico mondo umano, naturale, immodificabile, contro il quale gli
uomini sono disarmati. Se è così, continuiamo a sedare i sintomi, fare diagnosi, prestare cure e
trattamenti, inventare nuove tecniche terapeutiche: ma consapevole che il problema è altrove. Perché
‘senza speranza non è la realtà ma il sapere che – nel simbolo fantastico o matematico – si appropria la
realtà come schema e così la perpetua’“.
Franco Basaglia – Franca Ongaro, Follia/Delirio
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