tecnica flauto traverso

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TECNICA FLAUTO TRAVERSO La tenuta dello strumento L’articolazione L’imboccatura Il meccanismo strumentale La respirazione e la produzione del suono Lo studio giornaliero La tenuta dello strumento Iniziamo a guardare da vicino la tecnica strumentale, il mezzo e il modo cioè con i quali trasformiamo i nostri pensieri musicali in frequenze acustiche. Sarà una esplorazione sicuramente interessante: alcune tematiche potranno forse risultare ovvie, già note, ma sarà comunque utile poterle definire ulteriormente; altre offriranno spunti di riflessione, creando magari pure qualche perplessità. Ma è la mia via all’ esecuzione e per questo voglio rivelarla tutta: la offro a chiunque voglia sperimentarla, precisando fin da ora - se ancora ce ne fosse bisogno - che non è però l’ unica via percorribile; io stesso ho cambiato più volte impostazioni o concezioni tecniche che consideravo prima definitive, per adattarle ad intuizioni nuove, diverse. Offrirò dunque soluzioni diverse ai problemi più ricorrenti: ogni flautista potrà adottare quella che si conforma maggiormente alla propria natura o che ritiene più adatta a ciò che intende perseguire. Comincerò con il dire che, in ogni caso, non mi limiterò a parlare della tecnica del flauto. Sarebbe un banale compendio di quanto già detto da altri autori. Se “tecnica”, nel nostro caso, è il “modo attraverso il quale esprimiamo materialmente un pensiero musicale”, è chiaro che essa deve poter prevedere - almeno in teoria - possibilità illimitate. Chiarisco questo concetto, di importanza primaria: è sbagliato, oltre che dannosamente riduttivo, pensare di “adattare” il pensiero musicale alla tecnica strumentale che si ha a disposizione: ne risulterebbe, il più delle volte, un pensiero espresso con fortissime limitazioni, proprio dal punto di vista musicale. E’ invece straordinario poter pensare che ad un pensiero musicale profondo, ampio, incredibilmente vario ed illimitato, possa e debba corrispondere una tecnica altrettanto profonda, ampia, varia ed illimitata. E’ come se un chirurgo, cui sta a cuore il benessere di un paziente malato, “comprima” la scelta della terapia ai soli mezzi che in quel momento ha a disposizione, senza cercare di trovare o di creare nuovi mezzi di intervento capaci di affrontare e di risolvere quella situazione patologica. Sarebbe la fine di ogni ricerca e della stessa civiltà di pensiero. Certo, come ogni cosa, anche il flauto ha dei limiti; ma non è questo il punto. Noi non possiamo pensare alla musica in base alla nostra tecnica, ma, al contrario, dobbiamo imparare a concepire una tecnica che sia in grado di esprimere il pensiero musicale che è dentro di noi. Potremmo allora più opportunamente parlare di una tecnica strumentale e di una tecnica artistica, capace cioè di materializzare anche lo spirito storico, il profilo stilistico, il gusto estetico contenuti nella musica che noi interpretiamo. Vi sembra che una quartina di semicrome staccate, sia pur identica per note,

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Page 1: Tecnica Flauto Traverso

TECNICA FLAUTO TRAVERSO

• La tenuta dello strumento • L’articolazione• L’imboccatura • Il meccanismo strumentale• La respirazione e la produzione del

suono• Lo studio giornaliero

La tenuta dello strumento

Iniziamo a guardare da vicino la tecnica strumentale, il mezzo e il modo cioè con i quali trasformiamo i nostri pensieri musicali in frequenze acustiche. Sarà una esplorazione sicuramente interessante: alcune tematiche potranno forse risultare ovvie, già note, ma sarà comunque utile poterle definire ulteriormente; altre offriranno spunti di riflessione, creando magari pure qualche perplessità. Ma è la mia via all’ esecuzione e per questo voglio rivelarla tutta: la offro a chiunque voglia sperimentarla, precisando fin da ora - se ancora ce ne fosse bisogno - che non è però l’ unica via percorribile; io stesso ho cambiato più volte impostazioni o concezioni tecniche che consideravo prima definitive, per adattarle ad intuizioni nuove, diverse. Offrirò dunque soluzioni diverse ai problemi più ricorrenti: ogni flautista potrà adottare quella che si conforma maggiormente alla propria natura o che ritiene più adatta a ciò che intende perseguire.

Comincerò con il dire che, in ogni caso, non mi limiterò a parlare della tecnica del flauto. Sarebbe un banale compendio di quanto già detto da altri autori. Se “tecnica”, nel nostro caso, è il “modo attraverso il quale esprimiamo materialmente un pensiero musicale”, è chiaro che essa deve poter prevedere - almeno in teoria - possibilità illimitate. Chiarisco questo concetto, di importanza primaria: è sbagliato, oltre che dannosamente riduttivo, pensare di “adattare” il pensiero musicale alla tecnica strumentale che si ha a disposizione: ne risulterebbe, il più delle volte, un pensiero espresso con fortissime limitazioni, proprio dal punto di vista musicale. E’ invece straordinario poter pensare che ad un pensiero musicale profondo, ampio, incredibilmente vario ed illimitato, possa e debba corrispondere una tecnica altrettanto profonda, ampia, varia ed illimitata. E’ come se un chirurgo, cui sta a cuore il benessere di un paziente malato, “comprima” la scelta della terapia ai soli mezzi che in quel momento ha a disposizione, senza cercare di trovare o di creare nuovi mezzi di intervento capaci di affrontare e di risolvere quella situazione patologica. Sarebbe la fine di ogni ricerca e della stessa civiltà di pensiero.

Certo, come ogni cosa, anche il flauto ha dei limiti; ma non è questo il punto. Noi non possiamo pensare alla musica in base alla nostra tecnica, ma, al contrario, dobbiamo imparare a concepire una tecnica che sia in grado di esprimere il pensiero musicale che è dentro di noi. Potremmo allora più opportunamente parlare di una tecnica strumentale e di una tecnica artistica, capace cioè di materializzare anche lo spirito storico, il profilo stilistico, il gusto estetico contenuti nella musica che noi interpretiamo. Vi sembra che una quartina di semicrome staccate, sia pur identica per note,

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velocità e dinamica, suoni allo stesso modo in Mozart, in Vivaldi, in Schubert o in Hindemith? Dal punto di vista della tecnica strumentale si, certo (forse); ma dal punto di vista della tecnica artistica, essa risulterà senza dubbio diversa in ciascuno dei quattro autori: in uno sarà forse più chiara, nell’ altro più equilibrata, nell’ altro più sostenuta, nell’ altro ancora più incisiva (le possibilità, a questo proposito, sono infinite). E questa varietà di “staccato” nasce sicuramente da una meccanica comune, ha cioè una origine unica; ma, come figli dello stesso padre, assume però poi specificità diverse, determinate da piccole ma sostanziali diversità nella modalità di produzione.

Estenderemo perciò i confini della tecnica non limitandoci a parlare dello strumento ma, partendo da esso, cercheremo di arrivare molto più in alto, verso la tecnica nell’ interpretazione e, più in alto ancora, a cercare di scoprire la possibilità di una tecnica nella rivelazione. “Nonostante” il limite fisico dello strumento.

Lungo circa 67/70 centimetri, il flauto ha un peso medio di circa 300/350 grammi. I flauti in legno hanno un peso maggiore a causa dello spessore del tubo che, in questo caso, oscilla tra i 3 e i 4 millimetri, contro lo 0,4 - 0,5 millimetri di spessore dei tubi in metallo. Un peso e una dimensione non trascurabili, quindi, con cui il flautista deve fare i conti. Per poter tenere in perfetto equilibrio lo strumento in posizione di esecuzione, senza che questo costituisca un elemento di disagio o un “peso” da sopportare, occorre agire contemporaneamente sui quattro punti che ne garantiscono la stabilità:

1) 1) in senso verticale: pollice mano destra e mignolo mano destra, che esercitano due spinte uguali e contrarie, e che perciò si annullano a vicenda, rispettivamente verso l’ alto e verso il basso;

2) 2) in senso orizzontale: indice mano sinistra (falange) e superficie del mento su cui poggia lo strumento nella parte che chiamiamo boccoletta, che esercitano due spinte uguali e contrarie, rispettivamente verso l’ interno e verso l’ esterno.

(Nota. Sarebbe più preciso dire che il mento non esercita alcuna spinta attiva verso l’ esterno, ma che oppone alla spinta verso l’ interno esercitata dalla falange dell’ indice che tiene lo strumento. Tuttavia, benché la sua sia quindi una funzione di resistenza, dal punto di vista dell’ equilibrio delle forze anche il mento esercita una spinta vera e propria).

In tal modo, la perfetta tenuta dello strumento è garantita e le dita sono libere di agire sulla tastiera. Sembra una cosa troppo elementare ma è la primissima capacità tecnica da acquisire: si da troppo spesso per scontata e poi si scoprono difficoltà nel movimento delle dita o instabilità nella tenuta dello strumento, specialmente in prossimità del foro di insufflazione. La tenuta deve essere comoda e sicura, esattamente come imbracciare una telecamera o una macchina fotografica: il risultato finale è determinato - sempre - dalla precisione di tutta una serie di fattori che lo precedono, su cui occorre dunque fissare la nostra attenzione.

Proviamo a tenere il flauto utilizzando unicamente le “spinte” nei quattro punti suindicati, senza timori e senza utilizzare altre dita in funzione di tenuta dello strumento: possiamo verificare che il flauto è perfettamente in equilibrio, sicuro, senza alcun problema di instabilità.

Elencherò ora alcuni tra gli errori più frequenti che ho potuto constatare in questa primissima fase di impostazione e che quindi vanno assolutamente evitati.

1) 1) L’ esecutore porta la testa verso lo strumento, spostandola troppo in avanti rispetto alla linea verticale del corpo, con queste inevitabili conseguenze:

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a. a. si assume una postura che, di profilo, ricorda quella delle tartarughe delle isole Galapagos, con il collo “tirato” in avanti; e questo, esteticamente, non è proprio il massimo dell’ eleganza;

b. si provoca una forte contrazione nell’ area delle prime vertebre cervicali che, dopo alcuni minuti, determina rigidità e dolore alla base del collo e alla nuca;

c. si creano ostacoli alla respirazione, per l’ alterazione della linea verticale attraverso cui deve fluire l’ aria liberamente, ora “piegata” verso l’ esterno in maniera innaturale;

d. per conseguenza di tale contrazione, avremo anche difficoltà nel movimento dei muscoli facciali (soprattutto quelli elevatori degli zigomi e delle arcate sopraccigliari), blocco parziale della mandibola, irrigidimento della lingua, palato schiacciato verso il basso.

Vi pare poco?

Per evitare tali danni, acquisita la posizione naturale del tronco e della testa, occorre semplicemente pensare di “portare il flauto verso il corpo” e non il corpo verso il flauto. Come? Dirigendolo maggiormente verso l’ interno con un leggero spostamento in tale direzione della mano sinistra che lo sostiene.

2) 2) Posizioni scorrette delle spalle, della testa e delle braccia - Posizione consigliata

Nel momento in cui avviciniamo lo strumento alla bocca in posizione di esecuzione, occorre far attenzione a ciò che succede alla spalla destra. Due sono gli errori più comuni: la spalla destra tende ad alzarsi rispetto alla sinistra oppure - peggio - ruota all’ indietro “chiudendo” la scapola destra contro le vertebre; entrambi gli errori creano disturbi alla respirazione, contrazioni muscolari estese anche alle regioni limitrofe, limitazioni nell’ articolazione delle dita. Ciò avviene perché non sempre si da importanza alla posizione esatta del flautista rispetto allo strumento. Illustro quella che a mio parere è la posizione più giusta, più comoda e più naturale e il procedimento per assumerla senza sforzo.

a. a. le spalle. Vanno tenute parallele rispetto alla linea immaginaria che unisce i piedi e con la quale esse formano i lati di un rettangolo; in tal modo il tronco resta in posizione naturale e non subisce una torsione verso destra.

b. b. le braccia. Reggendo lo strumento in posizione di esecuzione con la sola mano sinistra, si tenga il braccio destro in posizione di riposo lungo i fianchi; quindi, lentamente, si porti la mano destra sullo strumento, avendo cura di non muovere la spalla destra e di non alzare il braccio in maniera eccessiva. Con le stesse modalità si effettui l’operazione con il braccio sinistro. Quindi, una volta raggiunta la posizione di esecuzione, si provi a ruotare dolcemente le braccia, a scostarle e ad accostarle al tronco, verificando lo stato di rilassamento e la corretta postura delle spalle. Quando ciò risulta agevole, vuol dire che le braccia si sono “armonizzate” con lo strumento.

c. c. la testa. Contemporaneamente, dobbiamo occuparci della testa. Essendo la lunghezza del flauto certamente non trascurabile, per mantenere spalle e braccia in posizione corretta è necessario ruotare la testa verso sinistra di 40 - 45°, senza però - come abbiamo già detto - “tirarla” in avanti. In tal modo, la testa è in posizione corretta, le spalle sono aperte, le braccia raggiungono comodamente lo strumento. Si noterà ora più facilmente che i quattro punti precedentemente indicati sono sufficienti - da soli - a garantire la perfetta stabilità dello strumento e che non vi sono contrazioni nel collo, né sulle spalle, né lungo le braccia.

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3) 3) Posizione scorretta delle mani - Posizione consigliata

Abbiamo già parlato delle “valvole di sfogo”. Le mani sono soggette a contrazioni o a tensioni eccessive. Direttamente responsabili, in quanto “esecutori materiali”, della tecnica meccanica, necessitano di un’ attenzione particolare. Qui maggiore è il rischio di contrazioni ma maggiore è pure la libertà che esse richiedono per potersi muovere agevolmente. Occorre dunque saper prevedere più “valvole di sfogo”. Esaminiamo dunque gli “snodi” che abbiamo a disposizione.

a. a. i polsi vanno tenuti piegati verso l’ alto (senza tuttavia eccedere raggiungendo il punto di massima tensione) per neutralizzare meglio eventuali contrazioni presenti lungo le braccia. Fungono, in questo caso, da “rompi-tratta”, come si dice nel campo della meccanica, impedendo cioè alle eventuali contrazioni di fluire verso le mani.

b. b. il palmo della mano va tenuto “aperto” (v. esercizio di preparazione della mano), cercando di percepire un tono muscolare disteso e rilassato in tutta la sua superficie. Bisogna ricordare che nell’ avambraccio ci sono non solo i muscoli necessari al movimento, ma anche quelli delle dita della mano: anteriormente i flessori delle dita, posteriormente gli estensori. Pertanto, se persistono contrazioni nel palmo della mano, le dita usufruiranno di una energia ridotta, in quanto “frenata”, dai muscoli dell’ avambraccio.

c. c. le dita. La posizione ideale delle dita è quella che esse assumono quando le braccia sono distese lungo i fianchi. Si provi a notarle, mettendosi in piedi davanti ad uno specchio: naturalmente arrotondate, in posizione di riposo, ma cariche di energia latente, pronte a scattare al nostro comando. Quando sono sul flauto non devono esercitare una pressione esagerata sui tasti: per chiudere un tasto occorrono veramente pochissimi grammi di pressione; esagerare stanca la mano, appesantisce il movimento articolare (è come se si corresse con i pesi ai piedi) e, non da ultimo, danneggia la meccanica dello strumento. Come vedremo meglio in seguito, le dita compiono due movimenti: uno, dall’ alto verso il basso, per chiudere il tasto; l’ altro, dal basso verso l’ alto, per aprirlo. Generalmente, il primo risulta più agevole e preciso, il secondo leggermente meno naturale. Se osserviamo, anche per i piedi succede la stessa cosa: è più facile portare il piede, con rapidità, verso terra che alzarlo di scatto; allo stesso modo, è più facile serrare rapidamente i denti che spalancare la bocca partendo da una posizione con i denti serrati. Insomma, è più facile “chiudere” che “aprire”. Impareremo, più avanti, ad equilibrare la forza dei due movimenti, quando tratteremo dell’ uguaglianza delle dita nell’ articolazione. A questo punto l’ attenzione va concentrata sull’ energia che arriva alla punta delle dita; un flusso di energia che, partendo dalla testa dell’ omero, percorre le braccia per la loro lunghezza, “deposita” le contrazioni negli “snodi” articolari e si concentra, potentissimo, tutto sulla punta delle dita. Si crea cioè un “percorso ad anello” che, partendo dalle vertebre cervicali, si dirige lungo le spalle, percorre contemporaneamente le due braccia, arriva alle mani, alle dita e, da qui, allo strumento che, ormai parte integrante del nostro corpo, “chiude” il cerchio. Ora il flauto non è più un oggetto estraneo, ma risulta perfettamente stabile ed armonizzato con il nostro corpo, cui si integra con facilità e naturalezza.

Esercizio per la tenuta del flauto. Stando in posizione eretta e respirando normalmente, portare lo strumento in posizione di esecuzione. Verificare dapprima i quattro punti di appoggio dello strumento, esercitando su ciascuno di essi brevi pressioni e successive distensioni. Visualizzare quindi il percorso ad anello, percependo la circolazione dell’ energia, dalla base del collo fino alla punta delle dita. Fare attenzione alla distensione del collo, alla leggerezza delle braccia, alla apertura del palmo delle mani; verificare la fluidità degli snodi articolari: testa dell’ omero, gomito,

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polso. Concentrarsi, infine, sul carico di energia presente sulla punta delle dita e al contatto di queste con lo strumento. Verificare più volte lo stesso percorso. Quindi provare a camminare, a flettere o a ruotare leggermente il tronco e il bacino, ad alzarsi sulle punte dei piedi, fino a quando questi movimenti non risultino del tutto spontanei e naturali: a questo punto, il flauto è definitivamente parte di noi stessi.

L’ imboccatura

L’ imboccatura - o “embouchure” - rappresenta il punto di emissione dell’ aria verso l’ esterno o, per essere più precisi, il punto e il momento di passaggio dell’aria dall’ interno del nostro corpo all’ interno dello strumento. Ha un ruolo importante, essendo il flauto uno strumento ad imboccatura libera, privo di ancia o di bocchino; pur tuttavia non assolve ad un ruolo esclusivo nella produzione del suono, cui concorrono in maggior misura la respirazione e l’ uso appropriato di alcune parti della nostra struttura fisiologica. Rappresenta, in altri termini, la fase terminale di un processo di produzione del suono, che è cosa ben più complessa. La particolarità della formazione anatomica di ciascuno di noi rende pressoché impossibile poter definire l’ “imboccatura ideale”: ogni flautista ha labbra diverse, arcate dentali diverse, cavità orali diverse. Pertanto, in questa sezione della ricerca, possiamo solo dare indicazioni di carattere generale, prospettando, nel contempo, errori da evitare; alla fine, però, ciascun flautista “adatterà” l’ imboccatura alla propria struttura anatomica.

In linea generale, direi di considerare questi diversi modelli di imboccatura:

1. Imboccatura centrale o laterale.

La scuola francese - da Marcel Moyse ai contemporanei - ha definito un modello di imboccatura con il punto di emissione dell’ aria leggermente spostato verso sinistra. Tale modello determina un colore di suono piuttosto chiaro, leggero, “di punta”, peraltro ottimo per i pianissimo in terza ottava; per contro, a mio avviso, risulta meno idoneo se si ricerca un timbro scuro, robusto, di impatto più immediato, soprattutto nella prima e seconda ottava. Potrei dire che, nel primo caso, il colore ricorda quello di un soprano leggero; nel secondo, quello di un tenore drammatico. O, ancora, nel primo caso, è come se un violinista utilizzasse prevalentemente la metà superiore dell’ archetto; nel secondo, è come se lo utilizzasse per l’ intera lunghezza. Ciò che è immediato e agile, spesso può risultare un po’ troppo leggero; al contrario, ciò che è scuro e robusto, potrebbe talvolta soffrire di minore agilità e leggerezza. In definitiva, pur auspicando una misura di equilibrio tra i due modelli, non mi sentirei di consigliare il modello francese. Ma questa è anche e soprattutto una questione di gusto personale.

2. Imboccatura con labbra molto tese.

Suonare con le labbra tese, cioè “tirate” orizzontalmente rispetto alla loro posizione naturale, non è ormai più raccomandato da nessun didatta, per il suono piuttosto schiacciato e metallico che ne risulta. Era il vecchio modello della scuola italiana: apparentemente pulito, il suono che ne risulta appare timbricamente rigido, statico, opaco, privo di elasticità, monocromo; inoltre “non cammina”, cioè ha una scarsa capacità di proiezione: è come se un violinista suonasse troppo vicino al ponticello o con l’ archetto schiacciato sulla corda. Tuttavia, è un effetto timbrico da tenere in considerazione ove risulti opportuno (penso ad alcuni brani della letteratura flautistica contemporanea: Hindemith, Berio, Petrassi, ecc.).

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3. Labbra esageratamente rilassate.

Non porta a nessun risultato apprezzabile per quanto riguarda smalto e colore del suono, questa volta capace, sì, di grande proiezione, ma comunque sempre poco definito, specialmente nel piano. Il suono così prodotto manca di contorno, di definizione; a volte presenta pure una buona sostanza timbrica, ma non ha cornice, non è contenuto entro una “forma” precisa, manca di geometria. Richiede inoltre, per essere alquanto valido, un enorme sostegno diaframmatico.

4. Imboccatura consigliata (dallo scrivente).

E’ una posizione naturalmente dinamica, cioè mutevole e perciò capace di produrre una enorme varietà timbrica, specie se associata ad altri fattori.

In primo luogo, occorre che ognuno trovi il proprio “focus”, cioè il punto in cui le due labbra si incontrano centralmente quando sono in posizione naturale. Individuato il “focus”, occorre imparare a percepirlo durante l’ esecuzione, immaginando di dover reggere una pallina piccolissima proprio in questo punto delle labbra.

Quindi, occorre concentrarsi sul tono muscolare interno delle due labbra, sapendo che la tensione determina colori e timbri diversi: maggiore è la capacità di saper modificare la tensione muscolare delle labbra, più estesa risulterà la gamma di colore di suono a nostra disposizione. Ma poiché il suono di manifesta non solo con caratteristiche timbriche specifiche, ma anche - contemporaneamente - con diversi spessori dinamici, prospetterò le mie indicazioni - di carattere generale - riferite a situazioni diverse:

ALTEZZA INTENSITA’ TIMBRO VARIAZ. COL. ARIA

RISPETTO ALLO

STANDARD

IMBOCCATURA

prima ottava

piano

scuro

legg. + in alto

labbra poco più avanzate e morbide;

come a pronunciare la “U”.

prima ottava

piano

chiaro

standard

labbra leggermente tirate, come a pronunciare la “E” chiusa o a sorridere.

prima ottava

forte

scuro

standard

labbra più aperte; tirare leggermente il

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labbro inferiore; rilassare molto il labbro superiore; “O” aperta.

prima ottava

forte

chiaro

legg. + in basso

labbro inferiore molto tirato; labbro superiore molto rilassato; “A”.

seconda ottava piano scuro legg. + in alto labbra avanzate; “U”.

seconda ottava

piano

chiaro

standard

labbra più unite e leggermente più tirate

seconda ottava

forte

scuro

standard

labbra legg. avanzate; labbro sup. più morbido

seconda ottava

forte

chiaro

legg. + in basso

labbra più unite ma rilassate

terza ottava

piano

scuro

standard

labbra molto avanzate; molto morbido il focus, specialmente nel labbro superiore; “U”.

terza ottava

piano

chiaro

+ in alto

labbra appena avanzate e ben unite nel focus; “E” chiusa.

terza ottava

forte

scuro

+ in basso

labbra molto rilassate; “O”.

terza ottava

forte

chiaro

+ in basso

labbra poco più tese; “E” aperta.

A tal riguardo, occorre fare alcune precisazioni:

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1. I movimenti delle labbra sono veramente molto contenuti: quando si legge “labbra avanzate” o “labbra molto rilassate”, ecc., dobbiamo interpretare queste indicazioni tenendo conto che le variazioni di posizione o del grado di tensione avvengono entro una misura veramente ristretta (micromovimenti).

2. La cosa veramente importante è riuscire a percepire sempre il “focus” delle labbra e di imparare a cambiarne forma, dimensione e “inclinazione”, a seconda delle esigenze.

3. Il grado di “tensione di base” corrisponde a quello delle nostre labbra in posizione naturale. Se solo, partendo da questa posizione, stimoliamo leggermente i muscoli che entrano in gioco quando sorridiamo, o quando la nostra espressione si fa poco più severa, o quando tendiamo leggermente le labbra in avanti, possiamo dire che tutto ciò è sufficiente a contenere i movimenti che noi dobbiamo compiere.

4. E’ necessario imparare a sviluppare la capacità di percezione della tensione della labbra sia indipendentemente l’una dall’ altra, sia in maniera coordinata. A volte, per esempio, esse devono avere un grado di tensione diversa (labbro inferiore più teso e superiore meno teso, ecc.); altre volte, agiscono sincronicamente e con ugual tensione. Quel che più conta e che esse siano sempre elastiche, capaci di muoversi con plasticità, quasi “masticando” il suono; né rigidamente tenute, quindi, ma nemmeno prive di alcuna tensione, a meno che particolari effetti timbrici non lo richiedano espressamente.

Per concludere - per ora - l’ argomento “imboccatura”, fornisco ulteriori consigli riguardanti la direzione della colonna d’ aria in rapporto all’ apertura del foro d’ imboccatura:

prima ottava foro più aperto; direzione della colonna d’ aria verso il basso,

seconda ottava foro meno aperto; direzione della colonna d’ aria più alzata;

terza ottava foro ancora meno aperto; direz. della col. d’ aria ancora più alzata.

Si provi ad associare la variazione della direzione della colonna d’ aria con la maggiore o minore apertura del foro; si otterranno risultati molto interessanti che forniranno lo spunto per utili riflessioni. In definitiva, dobbiamo imparare a sviluppare tutte le nostre potenzialità, agendo contemporaneamente su questi indicatori:

a. tensione delle labbra;

b. forma e dimensione del focus;

c. direzione della colonna d’ aria;

d. apertura del foro d’ imboccatura.

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Con l’ esercizio e la sperimentazione si estenderà infinitamente la “tavolozza di colori” a nostra disposizione, permettendoci di ottenere varietà timbriche prima soltanto sognate.

La respirazione e la produzione del suono

Che dire dell’ importanza della respirazione? Primo e ultimo atto della nostra esistenza “in vita”, è il principio attivo al centro di qualsiasi attività dell’ uomo. Attività parzialmente involontaria, esercita una notevole influenza su altre attività fisiologiche al punto che il controllo della respirazione può produrre effetti considerevoli su funzioni solo apparentemente slegate ad essa, di natura fisica, dunque, ma anche emotiva, psicologica. Regolare il ritmo della respirazione riduce inoltre alcune tensioni, favorisce la concentrazione, la meditazione, ecc.. L’ argomento, per me interessantissimo, richiederebbe una ricerca alquanto più estesa ma che in parte esulerebbe dall’ obiettivo della nostra ricerca; pertanto, mi sforzerò di contenerla entro i limiti consentiti dal presente lavoro.

Se è vero che pianisti e violinisti danno importanza alla respirazione nell’ ambito della loro tecnica strumentale, figuriamoci quanto possa essere importante - per noi - la conoscenza e l’ uso dei meccanismi che ne regolano il funzionamento. Pur considerando che la respirazione in esecuzione dovrebbe essere pressoché coincidente con quella fisiologica, dobbiamo purtroppo ammettere che - di fatto - i due modi di respirare risultano assai diversi; è il tributo che la “natura” ha pagato alla “civiltà”. Gli asini respirano allo stesso modo, anche quando “cantano”; gli uomini (soprattutto gli strumentisti a fiato e i cantanti) respirano ora in un modo, ora in un altro .... salvo poi a suonare e a cantare come gli asini. Scherzi a parte, la respirazione è un problema veramente serio. Voglio dare il mio contributo alla ricerca ma, come scrivevo in premessa, in questo settore non finisco mai di sperimentare.

Una prima cosa mi sembra più che mai certa: quasi sempre, si inspira troppa aria prima di emettere un suono. E’ un problema di natura psicologica, non fisiologica: si prende troppa aria per paura di non averne mai a sufficienza. E’ incredibile: provate a chiedere ad un allievo: “Come ti chiami?”. Noterete che risponderà alla vostra domanda senza fare prima alcuna inspirazione. Ora provate a chiedergli di suonare una semplice successione di 4 note; vi accorgerete che farà una inspirazione esageratamente ampia, senza tener conto che l’ esecuzione da voi richiesta durerà 1 o 2 secondi al massimo. E’ normale?. Certamente no. Non solo: quando noi parliamo, anche per ore, non inspiriamo mai fortemente, ma prendiamo aria con movimenti molto ridotti, semplici, “naturali” .... Poi prendiamo lo strumento e allora, “istintivamente”, prima di soffiarci dentro, pensiamo di dover immagazzinare più aria possibile; espandiamo i nostri polmoni soprattutto nella parte alta, alziamo magari pure le spalle e allora, in quel momento, ci ricordiamo che qualcuno ci ha detto: “fermo, non si respira cosi! Usa il diaframma (!)”. A quel punto, buio totale, ignoranza su ciò che bisogna veramente fare: inizia un processo di disorientamento che, il più delle volte porta al disastro, alla nevrosi, all’ impossibilità di poter suonare con naturalità e distensione.

Ogni disciplina psico-fisica attribuisce importanza centrale alla respirazione: lo Yoga, il Training Autogeno, l’ Alexander Tecnic, il metodo Feldenkrais, per citare le più diffuse. Ovviamente la respirazione non consiste nell’ immagazzinare aria per poi espellerla: all’ interno di queste due fasi - inspirazione ed espirazione - si colloca una serie di attività muscolari e di dinamiche emotive ben più complesse. Esistono ottime pubblicazioni in questione, cui rimando il lettore per ulteriori approfondimenti.

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Cerchiamo ora di conoscere più da vicino il meccanismo della respirazione, per poi verificarne l’ applicazione nell’ atto esecutivo.

Stabiliamo intanto delle regole, cui potremmo riferire esercizi specifici.

Regola n. 1. Non può esserci una respirazione corretta ed efficace se non si assume - contemporaneamente - una postura corretta. Tale postura va assunta e mantenuta durante l’ esecuzione; in tal modo l’ azione respiratoria, oltre che alla funzione fisiologica, assolve pure ad una funzione propriamente tecnica: non si “getta” aria nello strumento, ma si “costruisce” il suono già all’ interno del nostro corpo.

Regola n. 2. Nel momento in cui immettiamo aria nello strumento, occorre considerare questi indicatori:

a. origine o derivazione dell’ impulso;

b. appoggio o sostegno dell’ aria;

c. quantità e pressione dell’ aria;

d. forma e direzione della colonna d’ aria verso l’ esterno;

e. “colore” e “calore” dell’ aria (fattore psicologico).

Regola n. 3. Attraverso ulteriori movimenti della gola, del palato, della lingua, delle cavità nasali, dei muscoli elevatori degli zigomi e frontali, noi possiamo modificare le caratteristiche del suono.

Regola n. 4. L’ inspirazione, più che a riempire i nostri polmoni, serve a portare il diaframma nella giusta posizione di partenza; pertanto non è assolutamente necessario, né tanto meno richiesto, immagazzinare una notevole quantità di aria; tale meccanismo, oltre che inutile, rappresenta un fattore di “stress” per i polmoni e per la gabbia toracica e provoca contrazioni di diversa entità a schiena, spalle, gola, collo, lingua, pregiudicando l’ intero processo di produzione del suono.

Regola n. 5. La tecnica della respirazione corrisponde alla tecnica dell’ arco per un violinista: un universo di possibilità e di varietà illimitate! Ribadisco che non si da mai sufficiente importanza a questo aspetto della nostra educazione strumentale, mentre è proprio qui che risiede il principio di ogni fortuna o .... la causa di ogni sciagura.

Esercizio per la regola n. 1. In via preliminare, assumiamo la posizione descritta nel precedente “esercizio per la tenuta del flauto”. Proviamo quindi a respirare normalmente, ma anche a parlare, a sorridere, ad aprire e chiudere la bocca, a compiere insomma - nonostante il flauto - atti della nostra quotidianità. Di tanto in tanto proviamo ad emettere una nota, iniziando da quelle di facile emissione, senza però curarci del risultato finale; non badiamo al suono prodotto ma cerchiamo piuttosto di sentire come reagisce il nostro corpo. Cerchiamo ora di modificare la postura con i seguenti movimenti: alzarsi in punta di piedi, ruotare anteriormente il bacino, aprire le spalle, porre il collo in posizione eretta ma naturale. In altri termini, adattiamo la posizione di esecuzione alla postura corretta e alla respirazione naturale, che si trasforma in emissione sonora allorché poniamo le labbra sullo strumento. Ciò rappresenta la base di partenza per gli esercizi successivi.

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Esercizi per la regola n. 2

a. origine dell’ impulso

Nel momento immediatamente precedente a quello in cui l’ aria passa dal nostro corpo allo strumento, c’ è stata evidentemente una forza che l’ ha spinta verso l’ esterno, esattamente come nell’ attimo in cui la stecca colpisce una palla del biliardo. Tale impulso può essere generato da diverse zone della colonna d’ aria, così come il violinista può attaccare la nota da diversi punti dell’ archetto. Proviamo ad emettere un suono, provocando impulsi da aree diverse: area addominale, plesso solare, gola, labbra. Si noterà un diverso attacco del suono per ogni area di origine dell’ impulso. Proviamo ora ad eseguire una semplice scala ascendente e discendente, staccata, lenta, senza utilizzare la lingua ma ripetendo gli impulsi nelle stesse regioni: prima una scala “addominale”, poi “di plesso solare”, poi “di gola”, quindi “di labbra”. A questo punto, per i più coraggiosi, propongo l’ esecuzione della stessa scala, staccata, facendo corrispondere questa volta ad ogni nota un impulso di derivazione diversa.

Può sembrare un esercizio inutile e, certamente, non si adotterà mai questo modo di eseguire una scala. Ma può servire a gestire meglio il nostro corpo, ad acquisire virtuosismo tecnico in un settore primario della disciplina, così come studiare pagine di note lunghe e di trilli serve ad acquisire capacità specifiche, non certo a prepararci a suonare - in concerto - pagine di note lunghe o di trilli. Del resto, i pianisti non fanno forse lunghi esercizi per la caduta del braccio e della mano, esercizi propedeutici alla costruzione della tecnica? O che forse non impiegano più modi per attaccare il suono (braccio, avambraccio, polso, dita)? E allora perché noi non dovremmo fare altrettanto con la respirazione?

b. appoggio dell’ aria.

La colonna d’ aria ha bisogno di essere “appoggiata”, cioè contenuta tra due estremità, esattamente come la corda che, per poter vibrare, ha bisogno di due nodi. Dobbiamo quindi trovare i due appoggi della colonna d’ aria. A livello inferiore, abbiamo l’ addome e, più in basso, il diaframma pelvico; a livello superiore, il palato e, ancora più in alto, il diaframma cranico. Tra i due punti di appoggio, quello inferiore e quello superiore, il cammino deve essere mantenuto sgombro: si richiede, innanzitutto, postura corretta e gola coraggiosamente aperta. Un suono emesso senza un punto chiaro di appoggio è un soffio amorfo, privo di vita: schiacciato (f) o insignificante (p) nel registro medio-basso, stridente (f) o flebile (p) nel registro medio-alto. E’ un suono immaturo, inespressivo, “espulso” più che “generato” dal corpo. Questo avviene allorquando, dopo l’ impulso originario, tutto il resto viene lasciato al di fuori di ogni controllo, e non sempre - purtroppo - avviene nel modo giusto. Ma poiché, per poter vivere, ogni suono ha bisogno di essere in qualche modo appoggiato, ecco allora che si rischia di creare punti di appoggio in aree deputate a tutt’ altre funzioni: la gola, con suono “ingolato” - per l’ appunto - sottile, con vibratino stretto ed inespressivamente costante; le labbra, con suono forzato e metallico.

L’ appoggio migliore e più efficace è quello costituito dall’ addome o dal diaframma pelvico, in basso, e dal palato o dal diaframma cranico, in alto. Solo in tal modo la colonna d’ aria si distende e vibra per l’ intera sua lunghezza: ogni altro appoggio è instabile, parziale ed inefficace. L’appoggio inferiore si consolida con l’ impiego della muscolatura; quello superiore, al contrario, con la leggerezza, ossia con l’ innalzamento, per perdita di peso, dell’ area palatale o cranica. Immaginiamo, quindi, una corda ben appoggiata in basso, in un punto stabile, e poi tirata su verso l’ alto fino al secondo punto nodale. Impariamo a visualizzarla libera per l’ intera lunghezza e,

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soprattutto, a non creare nodi o blocchi lungo il percorso. Impariamo ora a percepire gli appoggi con i seguenti esercizi:

1. esercizio per la percezione dell’ appoggio inferiore.

In posizione preferibilmente seduta, imprimiamo delle contrazioni all’ addome, nella parte più bassa, contraendo il grande retto dell’ addome: è il muscolo che partecipa a tutti gli sforzi addominali (espirazione forzata, tosse, vomito); localizziamo il punto in cui avviene la contrazione. Ripetiamo lo stesso esercizio in posizione eretta; a questo punto, proviamo a produrre una nota con lo strumento, preoccupandoci che questo muscolo entri in azione; è importante non inspirare prima di produrre il suono. Proviamo quindi a “seguire” il movimento del muscolo, senza forzare la contrazione, anzi, cercando di rallentarla e sentendo il suono proveniente da questa area e non sulle labbra, badando quindi al punto di origine del suono e non a quello terminale dell’ imboccatura. Ripetiamo più volte lo stesso esercizio, tenendo bene a mente questi obiettivi:

a. ridurre progressivamente il movimento del muscolo;

b. aumentare progressivamente la percezione della sensibilità muscolare.

2. esercizio per la percezione dell’ appoggio superiore.

Apriamo la bocca davanti ad uno specchio ed osserviamo la nostra cavità orale mentre respiriamo; proviamo ora a mimare uno sbadiglio: noteremo un allargamento notevole della cavità. A questo punto, proviamo ad espirare mantenendo la cavità orale così ottenuta e, allo stesso tempo, proiettando la colonna d’ aria verso la parte superiore, facendola, per così dire, “scorrere” lungo il palato fino all’ arcata dentale superiore. In altri termini, l’ aria deve “scendere” verso l’ imboccatura dopo aver percorso il profilo palatale e non “salire” verso l’ imboccatura. Proviamo ora a fare brevi inspirazioni e successive espirazioni, visualizzando i due punti estremi della colonna d’ aria - l’ addome e il palato - e sentendo il percorso tra i due punti estremamente libero. Come una pallina da ping-pong, l’aria si muove tra i due punti estremi con facilità: abbiamo imparato a percepire i nostri migliori punti di appoggio. Se a questo aggiungiamo ora la sensazione della leggerezza del diaframma cranico, come se la testa tendesse a perdere peso e a non comprimersi sul tronco, abbiamo allora acquisito una percezione nuova, che possiamo ulteriormente rafforzare mediante una leggera elevazione dei muscoli degli zigomi e di quelli frontali: quelli che noi utilizziamo quando manifestiamo una espressione sorridente e furba allo stesso tempo. Proviamo ora ad emettere una nota, visualizzando i due punti di appoggio: quello inferiore - o della consistenza - e quello superiore - o della leggerezza.

c. quantità e pressione dell’ aria.

Se per l’ origine dell’ impulso e per l’ appoggio ben poco tempo viene generalmente speso, per quanto riguarda la quantità e la pressione dell’ aria le idee risultano spesso troppo approssimative e contraddittorie.

Quantità e pressione sono due grandezze diverse, tra loro indipendenti e neanche sempre direttamente proporzionali; come per il violinista, che può suonare con poco arco (quantità) ma con maggiore pressione sulle corde (pressione) o con molto arco (quantità) tenuto però leggero sulle corde (pressione). Nel primo caso abbiamo minore quantità e maggiore pressione; nel secondo, maggiore quantità e minore pressione (grandezze inversamente proporzionali). Possiamo anche pensare ad un suono con poco arco e poca pressione sulle corde o, anche, ad un altro con molto arco e molta pressione (grandezze direttamente proporzionali). Ogni suono prodotto presenterà

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caratteristiche timbriche e dinamiche diverse. Questo parallelismo potrebbe forse già esaurire il mio discorso, poiché illustra meglio di qualunque altro esempio la differenze e il rapporto tra quantità e pressione. Tuttavia, possiamo e vogliamo dire dell’ altro.

La quantità dell’ aria immessa nello strumento incide sull’ ampiezza del suono, sulla sua vastità, potremmo dire, sul suo “peso”. Se noi aumentiamo, o riduciamo, la quantità di aria, ciò che cambia non è la forza del suono, bensì la sua ampiezza. Forza ed ampiezza sono due qualità non sempre coincidenti: potremmo definirle meglio utilizzando i concetti di peso e di agilità o, anche, di ampiezza e di incisività. L’ ampiezza del suono è determinata dalla maggiore o minore apertura della gola, della cavità orale e delle labbra, senza ancora agire sulla pressione dell’ aria; il suono così ottenuto risulterà più morbido e allo stesso tempo più consistente e con ricchezza di armonici; ovviamente richiederà un maggiore appoggio diaframmatico.

La pressione dell’ aria incide invece sulla capacità di penetrazione del suono; è però necessario trovare - come si dice in questi casi - una giusta misura di equilibrio, al fine di evitare, da una parte, che il suono sia spento e flaccido, e, dall’ altra, che una pressione troppo esagerata finisca col produrre un suono apparentemente teso e penetrante ma, in realtà, rigido e perciò incapace di elasticità e ricchezza dinamica, oltre che timbricamente aspro e alquanto noioso. Così come la maggiore quantità dell’ aria richiede un maggior sostegno diaframmatico, occorre ricordare che la maggiore pressione dell’ aria (la velocità cioè con la quale essa fuoriesce dal nostro corpo) richiede una maggiore tensione delle labbra, soprattutto del labbro superiore, tensione necessaria per “opporsi” naturalmente alla maggiore forza di emissione dell’ aria.

d. forma e direzione della colonna d’ aria verso l’ esterno.

Esaminiamo ora la colonna d’ aria nel momento in cui lascia il nostro corpo per dirigersi verso lo strumento: avrà - ovviamente - una forma e seguirà una direzione. Bene, anche la forma e la direzione producono i loro effetti sul suono, tutt’ altro che trascurabili. Vediamo di esaminarli più da vicino, in modo da acquisire una consapevolezza sempre maggiore delle nostre possibilità tecniche.

La forma è la definizione del “contorno” della colonna d’ aria: tale contorno può essere più o meno rotondo, ovale, ellittico, o ancora più sottile, come una piccola fessura orizzontale. Viene determinato soprattutto dall’ azione dei muscoli labiali, cioè dal diverso atteggiamento delle labbra tra di loro, ma anche dalla maggiore o minore pressione del flauto sul mento. Se immaginiamo di “masticare” il suono, variando quindi il grado di tensione delle labbra e modificando perciò la forma del “focus” d’ imboccatura, otterremo di conseguenza forme diverse della colonna d’ aria. Sarà interessante constatarne i risultati nei termini di resa sonora: suono più intenso, dolce e scuro, con focus a forma rotonda, per arrivare ad un suono più penetrante, brillante e chiaro con focus a forma schiacciata in orizzontale, passando ovviamente per le gradazioni timbriche intermedie. Per il violinista, tutto questo corrisponde a suonare piuttosto verso la tastiera o sul ponticello. La forma del focus, e quindi della colonna, incide perciò solo sul timbro, non sul volume del suono che è determinato invece dalla quantità dell’ aria: sono due concetti e due grandezze assai distinti tra loro; occorre molta chiarezza a questo riguardo, affinché non si cerchi ..... di misurare la temperatura con la bilancia e il peso con il termometro.

La direzione della colonna d’ aria è rappresentata dalla linea immaginaria che collega il nostro focus con il bordo esterno del foro di insufflazione contro cui va a rompersi la colonna stessa. Parte dell’ aria, si sa, si perde verso l’ esterno, parte entra nello strumento mettendo in vibrazione l’ aria in esso già contenuta. Per la produzione dei suoni della prima ottava, si consiglia di dirigere la colonna in senso più verticale, cioè rivolta verso il basso, per poi “alzarla” progressivamente man

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mano che si procede verso il registro più acuto. E’ chiaro che questa “variazione” della direzione della colonna d’ aria è contenuta in pochi gradi dell’ angolo di incidenza e non è mai troppo ampia. Basta un leggero avanzamento o rilassamento del mento per poter correggere la direzione della colonna verso l’ alto o verso il basso, a seconda delle nostre esigenze.

Un’ ultima cosa, di estrema importanza: il foro di insufflazione va comunque tenuto sempre abbastanza aperto, almeno per i ¾ della sua superficie. E’ come la tavolozza del pittore: più vasta è la superficie libera, maggiore è il numero dei colori a nostra disposizione; al contrario, se essa risulta troppo coperta dal labbro inferiore, pure le possibilità timbriche a nostra disposizione risulteranno fortemente limitate.

e. “colore” e “calore” dell’ aria.

E’ ovvio che il colore e il calore dell’ aria rappresentano più che altro delle suggestioni: non esiste un’ aria blu o verde o bianca, né, d’ altra parte, possiamo pensare di poter agire sulla temperatura dell’ aria durante l’ esecuzione. Tuttavia esiste una ragione per credere che “pensare” una nota chiara, o opaca, o lucida come uno smalto, o anche più calda, tiepida o fredda, possa agire poi in concreto sul risultato timbrico del suono. Questa ragione si chiama disposizione o atteggiamento psicologico, espresso nei termini di forza di (auto)suggestione.

Alcune dinamiche, si sa, sfuggono quasi completamente al controllo razionale, ma non per questo non sono reali, visto che determinano poi reazioni nel nostro organismo a livello fisico, psichico o neurologico. Pensare ad un determinato cibo provoca in noi la sensazione di percepirne concretamente il profumo; ricordare una persona intima o straordinariamente attraente può provocare reazioni a livello fisiologico di derivazione certamente “non fisiologica”, constatatane l’ assenza ..... E allora, pensare un suono chiaro o freddo, che senso può avere? Se io penso una nota blu, o un’ altra ferma e gelida, cosa succede? Accade che la suggestione indotta con questo pensiero determina reazioni fisiologiche che a loro volta si manifestano in micromovimenti a livello fisico i quali consistono, per esempio, in leggerissime alterazioni del grado di tensione delle labbra, o ad una appena maggiore apertura delle cavità nasali, o, anche, ad una diversa elevazione degli zigomi. Reazioni queste che sarebbe senz’ altro più complicato determinare con una precisa volontà razionale ma che, al contrario, risultano più semplici da indurre se facciamo appello alla nostra forza di suggestione. Ritornerò su questo argomento nelle prossime sezioni di questa ricerca.

Esercizi per la regola n.3

a. la gola.

La mia esperienza didattica mi induce a credere che la maggior parte dei flautisti fa, della gola, un uso purtroppo improprio se non addirittura controproducente. Basta guardare come questa “vibri” durante l’ esecuzione per rendersi conto che la funzione spesso attribuitale è quella di costituire un appoggio al suono, di determinarne il “vibrato”, di correggerne magari il timbro. Nulla di più assurdo! Se si suona “di gola” ciò vuol dire unicamente che non c’ è appoggio giusto a livello di diaframma o di plesso solare; se invece, pur essendoci l’ appoggio inferiore, si continua a suonare di gola, allora questo è ancora più assurdo perché a) si vanificano gli appoggi inferiori con la

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strozzatura della colonna d’ aria nella parte superiore e b) si impedisce la libera estensione della colonna verso il palato, creando uno snodo artificiale ed improprio proprio laddove è necessario conservare una libera apertura al flusso dell’ aria. E’ come se, in un certo punto della corda tesa, noi applicassimo un corpo estraneo, un ammortizzatore delle vibrazioni; in tal modo la corda non vibrerà più perfettamente per l’ intera lunghezza o, comunque, vibrerà faticosamente producendo un suono più povero, meno sonoro, “disturbato” nell’ uniformità del suo colore. Anche quando si parla “di gola” abbiamo gli stessi risultati: maggiore affaticamento fisico e minore sonorità della voce; lavoro muscolare concentrato tutto sulla gola e, conseguentemente, estrema povertà timbrica. La gola va tenuta quindi “coraggiosamente” aperta, non deve creare ostacoli al libero fluire dell’ aria. Dico “coraggiosamente” non per ironia, ma a ragion veduta: sono infatti il timore e la paura a determinare l’ irrigidimento dei muscoli in questa regione, la “chiusura” della gola: quando si ha paura diventa difficile anche la deglutizione e le parole “restano in gola”. E spesso è proprio la paura di non riuscire a sostenere il suono ad impedire che la gola resti naturalmente aperta. Per questo, ci vuole coraggio.

Una volta imparato a mantenere la gola naturalmente aperta, allora si può imparare a percepire le variazioni dell’ apertura stessa, partendo proprio dall’ apertura naturale che va assunta sempre come apertura minima durante l’ esecuzione: possiamo solo aumentarne la misura, mai restringerla.

Consiglio perciò di respirare a bocca aperta, inspirando con estrema serenità e cercando di percepire il grado di apertura della gola durante questa fase. Successivamente, espirare normalmente avendo però cura di mantenere la gola aperta così come lo era nella fase inspiratoria, immediatamente precedente. Anche qui, come si vede, è necessario sviluppare una maggiore capacità di autopercezione. L’ aria deve solo “passare” attraverso la gola, diretta verso il palato per poi scendere parabolicamente sull’ arcata dentale superiore; la gola è come un casello autostradale VIACARD, sempre aperto, non occorre fermarsi neanche un istante. Il traguardo della colonna d’ aria, così come il suo punto di partenza, è da tutt’ altra parte.

b. il palato.

Anche il palato potrebbe costituire un elemento di disturbo per la colonna d’ aria, fungendo malauguratamente da vero e proprio pannello fonoassorbente. La prova? Eccola: proviamo ad emettere uno sbadiglio “sonoro” e poi confrontiamo il suono che ne risulta con un altro prodotto con atteggiamento naturale ma con la stessa forza diaframmatica. Non ci sono confronti: quello dello sbadiglio, sia pure sgraziato, risulta più voluminoso ma anche più sonoro, timbricamente più ricco rispetto all’ altro, più statico ed opaco. Eppure le corde vocali hanno avuto lo stesso grado di tensione, se i due suoni prodotti sono della stessa altezza; e allora dobbiamo concludere affermando che è stato il palato a fare la differenza perché, durante lo sbadiglio, si è “alzato”, creando una più ampia volta di risonanza alla colonna d’ aria. Se proviamo ora a suonare una nota lunga e, durante l’ esecuzione, mimiamo un leggero sbadiglio, sarà evidentissima e sorprendente la maggiore ricchezza timbrica del suono prodotto allorché la volta palatale sia risultata più alzata, cioè con il profilo arcuato più accentuato. Il palato influisce indirettamente sul volume e sul timbro del suono: l’ influenza diretta è più evidente sulla capacità di risonanza del suono, sulla ricchezza armonica, sulla “sonorità”. Un suono è sonoro quando non è opaco; è come un cielo terso, infinito; suonare con il palato schiacciato verso il basso è come guardare da una finestra con i vetri appannati: le immagini risultano meno definite, la luce non “stacca” i contorni delle figure. Anche un timbro poco definito, “nebbioso” può essere a volte interessante ed appropriato; ma deve essere il risultato di una scelta espressiva, non la conseguenza di una limitazione.

c. la lingua.

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Se chiediamo ad ognuno di noi “dove mettiamo la lingua mentre suoniamo?”, la risposta più comune è “boh! non ci ho mai pensato”. Eppure la posizione della lingua è di primaria importanza perché intanto è una parte estremamente mobile e quindi difficile da “gestire”, poi perché si trova in un’ area complessa e terminale del processo di formazione del suono, infine perché alcuni suoi movimenti - specialmente quelli riflessi - sfuggono quasi sempre al nostro controllo. I movimenti alla base della lingua, per esempio, influiscono sul tono muscolare della gola; d’altro canto è pur vero che l’irrigidimento della mandibola pregiudica fortemente la mobilità della lingua. E allora, che fare? La situazione di partenza potrebbe essere rappresentata dalla posizione della lingua adagiata - in tutta la sua estensione - senza contrazioni o tensioni sul naturale piano di appoggio, con i bordi che toccano l’ interno dell’ arcata dentale inferiore. E’ importante che non ci siano contrazioni sotto la lingua che ne provocherebbero inevitabilmente l’ innalzamento verso il palato, ma che essa sia distesa in maniera assolutamente uniforme, piuttosto rilassata in avanti che contratta all’ indietro, verso la gola. Solo la parte estrema anteriore, la punta, deve conservare una grande mobilità, necessaria per l’ articolazione; il resto va tenuto in relax, per evitare ostruzioni al libero fluire della colonna d’ aria, irrigidimenti muscolari nella gola ed, infine, alterazioni nel volume e nella forma della cavità orale, con relativo suo restringimento e, quindi, con minore capacità di risonanza del suono prodotto.

d. le cavità nasali.

Le fosse nasali si presentano come due canali irregolari lunghi circa 7 centimetri, alti 4 o 5. Sono separate tra di loro dal setto nasale, una lamina osteocartilaginea verticale. Le cavità nasali fungono da risuonatori superiori del suono; timbricamente conferiscono al suono un ulteriore velo di colore, una trasparenza che ne esalta gli armonici medio-superiori. Suonare con le cavità nasali più dilatate aiuta pure a sollevare il palato e il suono acquista una migliore risonanza oltre che una maggiore forza di proiezione verso l’ esterno.

e. muscoli elevatori degli zigomi e frontali.

Siamo ormai nella parte medio-superiore della testa: gli zigomi e la fronte. Qui termina anche il processo di elevazione verso l’ alto di tutta la parte superiore del nostro corpo, dal bacino al diaframma cranico. Il movimento degli zigomi e l’ elevazione dei muscoli frontali vanno considerati quasi come movimenti non volontari, cioè non ottenuti a seguito di uno sforzo muscolare; più propriamente, la loro elevazione dovrebbe corrispondere ad una perdita di peso, cioè ad un alleggerimento di tutta l’ area verso l’ alto, quasi a seguito di una attrazione verso un punto immaginario posto al di sopra della nostra testa. A tale proposito può risultare utile mimare un sorriso o, ancor meglio, assumere un’ espressione furbesca o di meraviglia. L’ importante è comunque imparare a percepire uno stato di leggerezza che tende a salire verso l’ alto, al di sopra di noi, e che si prolunga oltre la verticale del nostro corpo. In tal modo potremmo disporre di ulteriori risuonatori: le cavità orbitali, la fronte, l’ ala sferoide e parietale, incredibilmente efficaci ad esaltare gli armonici superiori e quindi per la produzione dei suoni del registro acuto, soprattutto quando sono emessi in pianissimo o “filati”.

Esercizi per la regola n. 4.

Abbiamo già detto molto (o forse poco) sulla respirazione. Qui, come del resto per ogni altro aspetto della ricerca, l’ enunciazione teorica di principi non è quasi mai sufficiente a chiarire concetti e prassi esecutive che invece necessitano di sperimentazione personale e di guida da parte di un insegnante esperto e consapevole. Ma è opportuno fornire ulteriori informazioni.

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a) per evitare di “gonfiare” il petto durante l’ inspirazione, con conseguenze nefaste sotto ogni punto di vista (è la cosa peggiore che si possa fare, è come guidare per 600 Km. sempre in retromarcia e con il freno a mano tirato), e per evitare pure di gonfiare la pancia come una donna nelle ultime settimane di gravidanza, è necessario apprendere un movimento inizialmente forse difficile, ma insostituibile: quello di allargare leggermente, in orizzontale, la gabbia toracica, senza però inspirare, agendo unicamente sui muscoli laterali del dorso, nei due punti posti qualche centimetro sotto le ascelle. Provando questo movimento, si conferisce la giusta elasticità e tensione alla gabbia toracica, è come tendere la membrana di un timpano al punto giusto; facendolo poi precedere alla inspirazione, si ottiene che la respirazione avverrà in maniera più giusta e corretta, dal momento che il diaframma risulterà ora libero e sciolto nei suoi movimenti. Durante l’ emissione dell’ aria è però necessario poter mantenere tale stato di espansione, resistendo cioè alla tendenza della gabbia a chiudersi, contraendosi naturalmente per la diminuzione della pressione interna man mano che l’ aria fuoriesce dal corpo. Nei primi tempi, le cattive abitudini e la mancanza di esperienza potrebbero causare qualche disagio; a tal punto, basta rilassarsi un attimo per poi ripetere il movimento di espansione laterale. Con il tempo e l’ esercizio, tale espansione avverrà meccanicamente: un movimento riflesso ed involontario che precede l’ atto esecutivo.

b) il movimento del diaframma va seguito e controllato nel suo scorrimento naturale. Gli interventi su questo muscolo vanno sempre attuati in misura assai ridotta. Pur tuttavia essi possono essere di due tipi: il primo, di rallentamento del movimento ascensionale; il secondo, di accelerazione di tale movimento, a seconda dei risultati timbrici ma soprattutto delle esigenze dinamiche che si intendono perseguire.

c) il petto va certamente tenuto “aperto”, evitando tuttavia di assumere posture militaresche. Occorre ricordare che questa area funge da risuonatore soprattutto dei primi armonici e non da serbatoio per l’ aria: così facendo gli si attribuisce la giusta funzione e si evitano pure pericolose contrazioni muscolari.

Esercizio per la regola n. 5.

Non è un esercizio vero e proprio, ma la convinzione che la respirazione è già tecnica strumentale. Non è cioè qualcosa che corre parallelamente al suono, all’ articolazione, alle scale, agli arpeggi, qualcosa che il più delle volte si da per acquisito, per dato di fatto. Al contrario, la respirazione è l’ origine stessa della tecnica, la sorgente, il principio di qualsiasi processo esecutivo. E’ forse qualcosa di più dell’ arco per il violinista, perché proviene da noi stessi, dal nostro corpo che è esso stesso strumento. Ed è per questo importante motivo che voglio raccomandare, a tutti noi, di dedicare alla tecnica della respirazione più tempo di quanto generalmente vi si attribuisce; come tecnica, non va soltanto correttamente acquisita, ma anche consolidata e perfezionata costantemente. Per acquisirla, occorre studio ed attenzione; per consolidarla, occorre esercizio; per perfezionarla, occorre riflessione e disponibilità a volersi evolvere, magari mettendo criticamente ed umilmente in discussione fatti e pensieri considerati acquisiti per sempre. Credo che questa sia l’ unica strada che ci permette di procedere lungo il cammino della vera evoluzione.

L’articolazione

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L’ articolazione.

Le indicazioni fin qui fornite consentono di produrre un suono in grado di avere facilità di emissione, ampiezza dinamica e ricchezza timbrica. Dalla combinazione di queste tre caratteristiche generali, possiamo specificare qualità ulteriori: flessibilità, espressività, consistenza, drammaticità, leggerezza, capacità di penetrazione.... Tutto questo, grazie all’ impiego coordinato di tutta la struttura fisiologica e all’ equilibrio funzionale di ciascuna area specifica. Il suono, però, non è quasi mai una linea retta, infinita; esso si presenta frazionato in molteplici segmenti (le note, appunto), ognuno dei quali ha una fisionomia specifica, una funzione semantica specifica all’ interno dell’ inciso o della frase musicale, una impostazione tecnica specifica. Esattamente come nel linguaggio parlato, dove le sillabe (ad es. “da” o “mi”) hanno fisionomie specifiche (la prima è costituita da una consonante dentale associata alla vocale -a-; la seconda da una labiale + -i-), funzioni semantiche specifiche all’ interno della parola (diversa è la funzione della sillaba “da” nella parola “davanti” rispetto alla parola “dromedario”; o della sillaba “mi” in “mimo” rispetto a “guardami”), impostazioni tecniche specifiche (per pronunciare “da”, debbo agire con la lingua sui denti e poi aprire la bocca; per dire “mi”, si richiede invece il movimento coordinato delle labbra e una minore apertura della bocca). Per parlare, occorre combinare vocali e consonanti, formare quindi sillabe che a loro volta danno vita alle parole, unire infine le parole in frasi di senso compiuto. Il linguaggio verbale richiede perciò, quale condizione primaria, la capacità di articolazione della parola.

Articolazione!: con lo stesso termine noi indichiamo la successione di suoni prodotti secondo precise modalità di attacco e la relazione che intercorre tra i suoni considerati nella loro successione.

Parlerò ora dell’ articolazione senza tener ancora conto del meccanismo delle dita, di cui tratterò più avanti.

Prendiamo, come base di partenza del nostro discorso, l’ emissione di una nota lunga; perfettamente definita nelle sue caratteristiche, essa corrisponde, nel linguaggio parlato, ad un suono vocalico, ad un fonema. Possiamo pensare ora di suddividerla in tanti “segmenti”, in modo da ottenere una serie di suoni ribattuti: per fare ciò, abbiamo 5 possibilità, 5 mezzi con cui è possibile “arrestare” e poi “riprendere” il flusso dell’ aria:

1. diaframma;

2. plesso solare;

3. gola;

4. lingua;

5. labbra.

Analizziamoli più da vicino.

1.2. diaframma e plesso solare.

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Queste aree, abbiamo visto, sono piuttosto deputate a sostenere il suono; per altro, corrispondono in una qualche misura all’ avambraccio e al braccio del pianista. L’ attacco vero e proprio avviene in un punto più vicino all’ imboccatura (gola, lingua o labbra); eppure, un suono “staccato” dal diaframma o dal plesso solare ha una forza incredibilmente superiore, una sonorità più consistente, una capacità di propagazione notevole. Sono convinto che ogni suono debba essere, sì, “sostenuto”, ma anche “attaccato” non solo da gola, lingua o labbra, bensì, contemporaneamente, da un impulso proveniente dall’ area inferiore. Così come per il pianista è il dito, anzi la punta del dito, a toccare concretamente il tasto, ma sono anche il palmo della mano, il polso, il braccio intero a concorrere alla produzione del suono; per il flautista è soprattutto la lingua a “staccare” il suono, certo, ma è necessario che anche altre regioni collaborino alla sua produzione, non soltanto nella funzione di sostegno - ripeto - ma già nell’ impulso iniziale. Il fatto di scegliere l’ impulso diaframmatico o di plesso dipende poi dall’ altezza e dalla consistenza del suono che occorre produrre: diaframma per i suoni più gravi, plesso per quelli progressivamente più acuti; diaframma, ancora, per i suoni più morbidi e aperti, plesso per i suoni che richiedono una maggiore tensione timbrica. Il suono così prodotto è favoloso, proprio come l’ eroe delle fiabe: bello e ricco. Manca tuttavia di una precisa pronuncia iniziale; forte e bello nel corpo, non risulta ancora ben definito nel suo primissimo istante di vita. La sua estremità iniziale non è cioè pulita, è come un tronco spezzato da una parte piuttosto che perfettamente reciso con una lama ben affilata. Quest’ opera di definizione dell’ origine del suono deve essere perciò assolta dalla gola, dalla lingua o dalle labbra.

3. gola.

L’ articolazione della gola può avvenire almeno in due modi: attraverso la pronuncia della consonante dura -G- o pronunciando la consonante dura -C-. Con la -G- l’ attacco è più morbido e sonoro; con la -C- esso risulta più agile, nitido e brillante. Il “colpo di gola” è però generalmente associato al “colpo di lingua”, così da formare il “doppio staccato”. Sarà perciò interessante constatare il diverso carattere del doppio T-C, rispetto al D-G: virtuosistico e scattante il primo, détache e più pastoso il secondo.

È molto importante rafforzare il colpo di gola, renderlo il più omogeneo possibile con il colpo di lingua. Si provi ad eseguire, ogni giorno, l’ Allemanda dalla Partita in la minore per flauto solo di J. S. Bach, utilizzando solo il colpo di gola per ogni singola nota (una volta, eseguendola in C, un’ altra in G). È un aiuto notevolissimo per comprendere e per consolidare l’ uso della gola nell’ articolazione strumentale. Al contrario, trascurare il colpo di gola può costituire un serio ostacolo alla precisione del doppio staccato, per l’ enorme differenza di “taglio” dei due staccati (lingua e gola); è come se un violinista eseguisse, del détache, un perfetto colpo d’ arco in giù, ma un pessimo colpo d’ arco in su.

Ricordiamo, a rischio di apparire troppo ripetitivi, che il colpo di gola va comunque associato all’ impulso contemporaneo del diaframma o del plesso solare.

4. lingua.

Il “colpo di lingua” rappresenta la tecnica più diffusa per l’ attacco del suono. Le varietà di questo tipo di attacco sono innumerevoli, per tecnica di esecuzione e, di conseguenza, per il risultato esecutivo. Eppure, si finisce generalmente con il restringerne l’ uso ad una, massimo due varianti.

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La lingua va utilizzata con la consapevolezza del suo funzionamento; consapevolezza che può essere acquisita soprattutto con l’ autopercezione, visto che il suo movimento non è visibile all’ esterno. Vorrei invitarvi a riflettere ora e magari a sperimentare domani le mie indicazioni in proposito:

a. il movimento deve limitarsi quasi esclusivamente alla sola estremità; in tal modo la lingua conserva la sua mobilità ed agilità, ma anche la sua forza. Non solo: evitiamo contrazioni nella gola, alterazioni del volume della cavità orale e preserviamo energie notevoli. Per contro, estendere il movimento a tutta la lingua determina grossolanità e pesantezza nello staccato, sforzi e contrazioni muscolari, instabilità nell’ imboccatura e quindi nella tenuta dello strumento.

b. dove va a colpire la punta della lingua? Le mie indicazioni a questo proposito sono abbastanza semplici, almeno ad esporle: dietro l’ arcata dentale superiore per le note più acute e, progressivamente, più indietro, verso la volta palatale, man mano che si procede verso il registro grave.

c. la lingua è in grado di pronunciare diverse consonanti: “d”, “l”, “n”, “r”, “t”. Ad ognuna di esse corrisponde uno staccato ben diverso, modi differenti di attaccare il suono.

“d”: con questa consonante noi otteniamo un attacco del suono morbido ma allo stesso tempo molto consistente, ben adatto per un détache sonoro e pieno di energia; generalmente è associato ad un timbro del suono piuttosto scuro.

“l”: ora la lingua si limita ad “accarezzare” il palato o l’ arcata dentale; ne risulta uno staccato trasparente, quasi impercettibile, ideale per una frase legata, pp, con i suoni appena pronunciati. È come, per un pianista, suonare con il pedale destro imprimendo però ai singoli suoni leggerissimi impulsi con le dita.

“n”: abbastanza simile allo staccato precedente, ma con i suoni più separati tra di loro; meno agile ma levigato nella pronuncia, conferisce al suono un carattere leggermente nasale.

“r”: con questo tipo di attacco, possiamo eseguire successioni rapidissime di note in “legato-staccato”. Simile a quello ottenuto con “l”, è più nitido nella pronuncia e più brillante nella resa sonora.

“t”: è la tecnica più usata, per alcuni addirittura l’ unica prodotta per mezzo della lingua. Senza dubbio conferisce precisione assoluta all’ attacco del suono, oltre che scatto e consistenza dinamica. Ma tale facilità nasconde, d’ altra parte, un rischio: quello di usare la lingua per “lanciare” l’ aria nello strumento e non già per “interrompere” momentaneamente il flusso della colonna d’ aria. A mio avviso, lo staccato va piuttosto concepito come una successione uniforme di suoni “interrotti” dal movimento della lingua. La lingua cioè non deve funzionare come una catapulta, raccogliere l’ aria per spingerla poi verso l’ esterno; più propriamente, il suo ruolo è quello di un “interruttore” che interrompe, per l’ appunto, il flusso continuo dell’ aria. In tal caso si potrà osservare che la lingua non dovrà compiere alcuno sforzo; semmai, nell’ attimo in cui essa è appoggiata al palato, dovrà esercitare una modesta funzione di “resistenza” all’ energia del flusso ma non agirà mai come propulsore di “segmenti” d’ aria. Questa è la mia opinione: usiamo la lingua (o la gola o le labbra) per definire l’ attacco, il “taglio” del suono; l’ area diaframmatica e/o del plesso solare per dare forza e tensione dinamica; le cavità di risonanza per conferire i diversi caratteri timbrici.

5. labbra.

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Intendo qui illustrare il modo di attaccare il suono per mezzo delle sole labbra.

In questo caso, l’ imboccatura non determina solo la forma e la direzione della colonna d’ aria, come esposto precedentemente, ma svolge contemporaneamente anche la funzione di definire il “taglio” del suono.

Tale funzione può avvenire in due modi:

a. omettendo completamente di attaccare il suono e lasciando quindi che questo abbia origine dal fluire dell’ aria nello strumento, senza cioè un vero e proprio “stacco”. Ciò corrisponde, per un violinista, ad attaccare il suono con l’ arco già poggiato sulla corda. Per il flautista, può essere di aiuto pensare di dover pronunciare la consonante “p”.

b. facendo precedere l’ attacco del suono dal movimento delle labbra che, dapprima leggermente aperte, si chiudono esattamente nell’ istante in cui fuoriesce l’ aria verso lo strumento. Possiamo facilitare l’ uso di questa tecnica, esercitandoci a pronunciare la consonante “m” direttamente sull’ attacco del suono. Per il pianista, ciò corrisponde ad uno staccato prodotto dall’ articolazione delle sole dita già poggiate sulla tastiera. Per un violinista, ad uno staccato prodotto con l’ arco già poggiato sulla corda, ma anche dall’ articolazione del polso.

Come si vede, non sono certamente pochi i modi di attaccare il suono; ad ognuno di essi corrispondono un risultato acustico ed una scelta estetica specifici. Ampliare la tecnica dello strumento, adottando varianti nell’ articolazione, significa non soltanto imparare ad esprimersi con una buona dizione, ma contribuisce a diventare strumentisti eloquenti, che è cosa ben diversa dal saper “pronunciare” correttamente i suoni.

Ecco dunque, in riepilogo, le diverse varianti di “staccato” a nostra disposizione:

- C - G - D - L - N - R - T - P - M -

Una volta acquisite singolarmente, possono essere combinate tra di loro in tantissimi modi diversi; ne risulterà un universo incredibile di toni e di colori. Un’ ulteriore tappa lungo il percorso che ci sta portando ben oltre il “limite fisico” di uno strumento che continua a svelarci un fascino del tutto nuovo: il fascino del nostro corpo.

L’articolazione delle dita e il meccanismo strumentale

L’ articolazione delle dita e il meccanismo strumentale.

Questo aspetto della tecnica viene generalmente presentato come la tecnica strumentale tout-court: in realtà ne rappresenta più propriamente l’ espressione meccanica, il cosiddetto “meccanismo”. Meccanismo in quanto presuppone movimenti per lo più automatizzati, che finiscono con l’ essere cioè progressivamente connaturati a noi stessi, veri e propri automatismi, insomma; ma anche perché rappresenta forse l’ aspetto più razionale, meno ispirato, direi “oggettivo” della tecnica strumentale. Se il flauto può essere considerato il prolungamento del nostro corpo, le dita sono - a

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ben vedere - il prolungamento meccanico del flauto, gli elementi che, a contatto con la meccanica strumentale, ne determinano l’ azione, il movimento. Non sono, le nostre, le dita del pianista, che creano il suono a contatto con la tastiera (corrispondenti, semmai, alla nostra imboccatura); più esattamente, sono le corde del pianoforte, una parte cioè puramente meccanica, “strutturale” dello strumento. Le dita non esercitano infatti alcuna influenza sull’ attacco o sulla qualità del suono; “semplicemente”, il loro movimento determina la produzione di questa o quella nota. La questione rivela allora tutta la sua importanza nel momento in cui si capisce che una funzione prettamente meccanica, oggettivamente determinata, deve essere svolta ..... da noi, entità fisiche e razionali, sì, ma anche soggetti emotivi e spirituali. Per uscire dal problema occorre dunque analizzarne perfettamente i termini.

Ricordiamo che, ancor prima di esercitare il movimento meccanico per mezzo delle dita, le mani assolvono anche alla funzione di tenuta dello strumento. Abbiamo già parlato precedentemente di questa attività; ribadiamo solo il concetto che tale funzione non deve costituire un impedimento alla libera attività del meccanismo per la presenza di eventuali contrazioni dovute a posture scorrette.

Le dita coinvolte nell’ attività meccanica sono 9: tutte, ad eccezione del pollice della mano destra che sostiene lo strumento nella parte inferiore; le altre agiscono singolarmente o in azione coordinata sulla tastiera.

Abbiamo anche detto che la posizione ideale, o quantomeno consigliata, corrisponde a quella che le dita assumono quando sono rilassate con le braccia lungo la verticale del corpo, in posizione naturalmente arrotondata. Occorre però dire che la mano sinistra, per la specificità dello strumento, assume una posizione necessariamente meno naturale rispetto alla destra: quest’ ultima, infatti, incrocia perpendicolarmente lo strumento; la prima risulta più obliqua rispetto all’ asse longitudinale del flauto.

Le caratteristiche di un ottimo meccanismo sono:

1. la regolarità;

2. la naturalezza.

A queste caratteristiche fanno capo delle capacità specifiche, o abilità, che ne rappresentano la premessa, il mezzo, cioè, per poterle agevolmente acquisire o consolidare. Tali abilità, riferite tutte all’ azione delle dita, sono:

a. l’ indipendenza;

b. l’ equilibrio;

c. il coordinamento;

d. la velocità.

Vediamole più da vicino.

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a. l’ indipendenza

Nella mano troviamo 19 muscoli e moltissimi tendini che le consentono una abilità e una precisione di movimenti raffinatissime e uniche nel mondo animale. Talvolta, però, il movimento di un dito può “riflettersi” in aree adiacenti, estendendo ad esse l’ impulso muscolare che determina, a sua volta, il movimento contemporaneo di altre dita. Tale movimento è del tutto involontario: sfugge al nostro controllo, risulta meno preciso del movimento “principale” ed è quasi privo di energia propria; è come un “rimorchio”, un elemento meccanico trainato da una “motrice” cui è collegato. E come tale, conferisce a volte una maggiore forza alla motrice, ma in altri casi ne intralcia la leggerezza di movimento; quasi sempre, crea disturbi alla regolarità dell’ articolazione.

Non è facile ottenere la completa indipendenza delle dita, conseguire cioè la capacità di articolare ogni singolo dito senza che questo disturbi o sia a sua volta disturbato da movimenti involontari, “secondari”. In ogni caso, la consapevolezza del problema e l’ esecuzione del seguente esercizio possono contribuire a raggiungere questa utile abilità.

Esercizio per la consapevolezza del movimento indipendente delle dita.

Mano destra.

Flauto in posizione di esecuzione, appoggiato al mento. Mano sinistra nella posizione del Sol diesis, con i tasti premuti. Appoggiare le dita della mano destra sulla tastiera, senza però premere. Articolare, premendo sulla chiave corrispondente, il solo mignolo, facendo attenzione a non muovere dalla loro posizione le altre dita della mano destra, che resteranno costantemente appoggiate alla tastiera. Quando si rilascia la chiave del Re diesis, il mignolo non deve comunque sollevarsi dalla chiave stessa, ma deve restare sempre a contatto con essa. Tale articolazione avverrà dapprima lentamente, poi, senza forzare, sempre più velocemente, secondo il seguente schema ritmico:

Passiamo quindi alle altre dita. Posizione iniziale come nell’ esercizio precedente

. Poggiare le dita della mano destra sui rispettivi tasti, senza premere. Articolare, secondo lo stesso schema ritmico e con le stesse modalità di esecuzione, il solo anulare, premendo sul tasto del Re e rilasciandolo successivamente, restando però sempre a contatto con esso.

Ora, il medio e l’ indice della mano destra, con le stesse modalità e identico schema ritmico dei precedenti, articolando, di volta in volta, il dito interessato e lasciando le altre dita sempre a contatto con la tastiera.

Mano sinistra.

Anche per la mano sinistra valgono le indicazioni date per gli esercizi fin qui proposti.

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Tenere il flauto in posizione di esecuzione, con le dita della mano destra premute sui tasti e quelle della mano sinistra appoggiate sui tasti, senza premere. Articolare quindi il mignolo, premendo e rilasciando la chiave ad esso corrispondente, poi l’ anulare, il medio, l’ indice ed infine il pollice che agisce sulla chiave posteriore del si.

Nota. Questi esercizi si possono eseguire dapprima senza accostare lo strumento alla bocca o anche davanti ad uno specchio: in tal modo risulta più agevole notare il movimento delle dita sui tasti. Dopodiché è consigliabile eseguirli in posizione di esecuzione, pur senza emettere alcun suono, visto che le posizioni che si assumono non sempre lo consentono. In tal modo, però, ci si abitua alla percezione dei movimenti e dello stato muscolare, alla consapevolezza mentale della sensazione fisica, piuttosto che alla sua percezione visiva.

Ancora: questi esercizi possono inizialmente risultare un po’ faticosi, per i movimenti lenti ed impacciati. Non bisogna assolutamente scoraggiarsi: essi abituano alla progressiva riduzione dei movimenti secondari, riflessi, fino alla loro totale eliminazione. Allorché le dita avranno raggiunto la loro indipendenza, sarà molto più facile e produttivo costruire la tecnica del meccanismo, con effetti straordinari sulla precisione e la velocità dell’ articolazione.

b. l’ equilibrio.

L’ esercizio precedente ci prepara, in qualche misura, a conseguire la seconda abilità, quella cioè dell’ equilibrio delle dita. Per equilibrio intendo la “distribuzione della stessa energia su ciascun dito durante l’ attività meccanica”. Cercherò di spiegarmi meglio: ognuno di noi usa le mani, ovviamente, anche per tutte le altre azioni quotidiane. Le nostre abitudini, il fatto di utilizzare prevalentemente una mano piuttosto che l’ altra, la particolare conformazione anatomica, così diversa da individuo a individuo, fanno si che le dita non abbiano tutte la stessa forza, non siano in grado, cioè, di esprimere tutte la stessa energia-lavoro. Alcune risultano più forti, o più agili, o più immediate nella reazione agli stimoli nervosi; altre - al contrario - più deboli, più lente, meno immediate. Dobbiamo imparare a percepire questa situazione di eterogeneità per individuare gli interventi più appropriati ad equilibrare le energie presenti. Allorché le nostre dita saranno in grado di articolarsi con equilibrio energetico, saremo al massimo grado di efficienza per quanto riguarda l’ uguaglianza nel movimento, perché tutte sapranno svolgere la loro azione “democraticamente”, senza cioè disuguaglianze nella distribuzione di forze ma, al contrario, con omogeneità nel meccanismo.

Esercizio per l’ equilibrio delle dita.

Eseguire, lentamente, la seguente successione:

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Durante l’ esecuzione, cercare di percepire la “forza percussiva” di ciascun dito sulla meccanica del flauto. Si noterà come alcune dita si muoveranno in maniera diversa rispetto alle altre, per immediatezza, velocità, scioltezza, slancio, leggerezza. Cercare ora di individuare le dita più “deboli” e ripetere quindi l’ esercizio facendo attenzione a che l’ energia si diriga ora soprattutto verso le dita “deboli”, migliorandone la qualità del movimento. Si noterà pure che alcune dita si muoveranno in maniera differente quando si esegue la successione discendente, rispetto a coinvolgere il palmo o il dorso della mano nel movimento delle dita, le uniche a dover essere impegnate nel corso dell’ esercizio. Quando anche questa abilità sarà acquisita, potremo senz’ coinvolgere il palmo o il dorso della mano nel movimento delle dita, le uniche a dover essere impegnate nel corso dell’ esercizio. Quando anche questa abilità sarà acquisita, potremo senz’ altro dire che tutto è pronto per passare all’ abilità successiva, verso cui la nostra attenzione è costantemente diretta quando parliamo di tecnica strumentale, ma che non potremmo mai acquisire al massimo grado di consapevolezza se - prima - non abbiamo preparato le dita rendendole perfettamente indipendenti ed equilibrate nei movimenti.

c. il coordinamento.

Coordinare vuol dire ordinare insieme più cose per un determinato scopo.

Nel nostro caso, è necessario quindi acquisire la capacità di ordinare i movimenti di 2 o più dita affinché si passi da una nota all’ altra, ad un’ altra ancora, con precisione e naturalezza di movimenti. Alcune volte il passaggio da una nota all’ altra risulta semplice, naturale, assolutamente privo di problemi; altre volte può emergere qualche difficoltà; altre volte, infine, possiamo trovarci di fronte a veri e propri “scogli”. (Ovviamente parlo qui di passaggi da una posizione all’ altra delle dita; talvolta, infatti, nell’ eseguire un intervallo di ottava, possiamo trovarci nella situazione di dover affrontare problematiche esecutive di tutt’ altra natura, che nulla a che fare hanno con il movimento delle dita).

Il movimento coordinato delle dita lo si ottiene eseguendo tutti gli esercizi e gli studi che ogni strumentista affronta - o ha affrontato - nel corso della sua formazione musicale: esercizi di tecnica, scale cromatiche, scale maggiori e minori, intervalli, arpeggi. In essi sono contenute tutte le combinazioni possibili, dai movimenti più elementari, alle successioni più complesse. Ma oltre alla ovvia raccomandazione di eseguire - quotidianamente - tali esercizi, vorrei piuttosto soffermarmi a parlare del modo di studiare e di eseguire tali esercizi.

Mutuando modalità esecutive dalla tecnica pianistica, propongo l’ uso delle seguenti varianti, laddove si notino difficoltà o imprecisioni sul piano del coordinamento tecnico, sottolineando il fatto importantissimo che l’ uso delle varianti ritmiche ci costringe all consapevolezza dell’ articolazione; le dita, cioè, non vengono lasciate all’ arbitrio dell’ articolazione “spontanea”, ma disciplinate nel loro movimento meccanico.

Le varianti che io propongo sono esposte alla fine di questo capitolo.

Possono essercene tante altre. Ritengo comunque che queste siano sufficienti per risolvere ogni problema riguardante il meccanismo coordinato delle dita, a condizione che si osservino queste indicazioni:

1) non passare mai alla variante successiva se prima non si è eseguita con assoluta precisione la precedente;

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2) eseguire le varianti preferibilmente con l’ ausilio del metronomo, per acquisire l’ assoluta precisione ritmica nell’ esecuzione;

3) eseguire i passaggi “variati” a velocità inferiore rispetto a quella riferita al testo originale e con attenzione scrupolosa all’ omogeneità ritmica;

E’ semplicemente miracoloso quello che si riesce ad ottenere con l’ impiego delle varianti ritmiche: non esiste successione veloce o passaggio difficile che non possano essere risolti con l’ uso delle varianti. Il motivo di questo successo è - a ben vedere - alquanto ovvio: le varianti, in definitiva, non fanno altro che “scomporre e ricomporre” i movimenti articolatori in tanti modi diversi, fino al loro completo automatismo. Le dita, cioè, ripetono i movimenti rispondendo ogni volta ai diversi impulsi con reazioni ad essi corrispondenti, fino ad “assorbire” il meccanismo di risposta ai comandi trasmessi con reazioni muscolari automatiche, quasi involontarie.

Esistono quintali di ottimi esercizi per il meccanismo puro; per questo non ritengo assolutamente opportuno indicarne altri, per il solo gusto di voler scrivere, a tutti i costi, qualcosa di pseudo-originale. Taffanel e Gaubert, ma soprattutto Marcel Moyse, hanno analizzato le possibilità tecniche del flauto fin nei minimi dettagli, proponendo esercizi per ogni grado e tipologia di difficoltà; eventuali compendi non sono altro che patetici surrogati a questi lavori cui, per necessità, si finisce poi col dover ritornare, per la loro ineguagliabile organicità e completezza.

d. velocità.

Il sogno di ogni strumentista .... una tappa importantissima per ogni virtuoso.

La velocità viene dopo il coordinamento, che si ottiene - ripetiamo - con l’ indipendenza e l’ equilibrio delle dita. Consiste nella rapidità, teoricamente illimitata, dei movimenti delle dita nella perfetta sincronicità meccanica. Al di là di una certa misura, accessibile pressoché a tutti, entrano in gioco qualità individuali, quali il talento personale per la velocità, la particolare consistenza muscolare che rende le dita più o meno predisposte per l’ agilità motoria, una caratterialità psicologica ed emotiva che sembra esprimersi meglio e più direttamente nell’ ebbrezza della velocità.

Noi sappiamo però che la conoscenza delle nostre risorse ed il lavoro possono svelarci traguardi insperati, sempre più lontani da ciò che ora riusciamo forse solo ad ipotizzare: conoscenza della forza che è nelle nostre dita e del lavoro che possiamo fare per ottimizzare le funzioni in termini di potenziali standards esecutivi.

Ma come si ottiene la velocità?

Qui vorrei invitarvi a seguire il mio ragionamento.

Generalmente noi cerchiamo la velocità in maniera più o meno inconsapevole, acritica; eseguiamo cioè un passaggio di note ad una determinata velocità, poi tentiamo in qualche modo di “spingere” l’ articolazione delle dita fino ad ottenere, con il tempo, una velocità di esecuzione maggiore rispetto alla precedente, raggiungendo, prima o poi, il “limite” delle nostre possibilità (o di quelle che pensiamo siano le nostre possibilità). Più avanti di così non si va: c’ è chi - per doti naturali - è più veloce e chi invece arriva fino ad un certo punto. Noi, però, vogliamo cercare ora di imparare ad

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oltrepassare questo limite, ponendolo sempre più lontano, esattamente come fa l’ atleta di salto in alto che pone l’ asta ad una altezza sempre maggiore.

Riflettiamo: quando noi eseguiamo un passaggio, siano pure quattro note soltanto, a velocità comoda, moderata, “istintivamente” le dita reagiscono al nostro comando con un movimento articolatorio soft, passando cioè “morbidamente” da una posizione all’ altra. Quale che sia la durata di ciascun suono, il passaggio tra una nota e l’ altra avviene comunque con movimenti articolatori abbastanza lenti. Pensiamo ad un Adagio: suoniamo con partecipazione emotiva, intensità, lirismo; le dita seguono la nostra emozione e si muovono perciò “espressivamente”, “accarezzano” la tastiera. E questo, sotto certi punti di vista, è anche giusto e naturale. Ma le nostre dita - ripetiamo - non sono le dita del pianista, in questo caso “costrette” all’ articolazione morbida richiesta dall’ Adagio in questione: le dita del flautista sono il prolungamento meccanico dello strumento.

Passiamo ora ad un Allegro, ad un Presto-Vivace. Se noi pensiamo che sia sufficiente aumentare la velocità dell’ articolazione, così, muovendo le dita più velocemente rispetto a quanto facevamo nell’ Adagio, forse potremmo trovarci di fronte ad una grossa delusione. Ben presto vedremo di fronte ai nostri occhi il segnale che ci indica il limite massimo consentito alla nostra velocità.

E allora, a questo punto, è ora di chiarire un ulteriore concetto che, tradotto in abilità, può aiutarci ad acquisire la perfetta velocità nel meccanismo: il concetto di scatto.

Osserviamo un campione di arti marziali o, più semplicemente ..... un gatto. Fermo ed immobile, carico di energia potenziale, con muscoli e nervi al massimo grado di tensione: ad un certo punto.....uno scatto, poi un altro, poi un altro ancora. Tra uno scatto e l’ altro possono intercorrere anche diversi secondi di assoluta immobilità ma, nel momento dell’ azione, questo è immediato, si consuma in una frazione di secondo.

Torniamo a noi. Proviamo ad eseguire un passaggio di poche note lentamente, ma facendo ben attenzione ad una cosa: il passaggio da una posizione all’ altra deve avvenire in una frazione di secondo, come nei movimenti del nostro campione di arti marziali. Fermiamoci qualche istante in questa posizione, poi passiamo alla successiva, sempre scattando verso di essa. Passiamo quindi alla terza posizione, poi alla quarta, alla quinta e così via, sempre procedendo per scatti, non nervosi ma assolutamente determinati, concentrando il massimo della nostra energia unicamente sulla punta delle dita. A questo punto ripetiamo daccapo il nostro esercizio, riducendo però il tempo di riposo su ciascuna posizione. Noteremo che il passaggio risulta ora più veloce, è ovvio. Ma, se riflettiamo, ci rendiamo conto che tale velocità non dipende assolutamente dalla maggiore velocità dell’ articolazione, ma, più esattamente, dalla riduzione dei tempi di riposo sulle singole note. Riduciamo ora ancora di più i tempi di riposo, e il passaggio risulterà ancora più veloce ...... ma la velocità dello scatto è rimasta inalterata! Continuando ancora, saremo presto sorpresi di constatare la nostra capacità di eseguire passaggi velocissimi di note, senza dover incidere in alcun modo sulla velocità delle dita. In altri termini, se noi impariamo la tecnica dello scatto, siamo già ad una velocità straordinaria: il problema rimarrà solo nella riduzione dei tempi di riposo, le dita sono già a posto. Altrimenti l’ acquisizione della velocità nell’ esecuzione seguirà sempre un processo semi-involontario, inconsapevole; le dita saranno costrette ad intensificare il proprio movimento con fatica e con irregolarità (oltre un certo limite di velocità, si capisce), senza arrivare mai a poter “scattare” con tutta l’ energia di cui sono capaci.

Non so se il mio ragionamento e la mia proposta risulteranno convincenti. Ma io non voglio convincere; voglio, semmai, indicare una ipotesi di sviluppo, una alternativa a chi non è del tutto convinto del proprio modo - comunque rispettabilissimo - finora seguito nell’ esecuzione di passaggi veloci. La velocità, in questo caso, è il nostro fine, la quarta abilità meccanica da

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raggiungere: e questo è un dato oggettivo. Il modo per poter perseguire tale fine appartiene invece alla scelta soggettiva di ognuno di noi: non ha valore oggettivo, dunque, ma rappresenta soltanto una opzione, una scelta possibile tra le diverse alternative di studio.

Lo studio giornaliero.

Al di là di particolari casi di prodigiosa genialità individuale che consente - forse - di possedere già, o di ottenere con estrema facilità, elevatissimi livelli esecutivi, nella maggior parte dei casi tutto ciò che si può costruire, migliorare, potenziare è frutto unicamente di riflessione, studio e lavoro. E forse, contraddicendo quanto detto poc’ anzi, questo vale pure per i geni.

J. S. Bach, a chi gli chiedeva come facesse a sviluppare soggetti musicali così magistralmente improvvisando sull’ organo, rispondeva tranquillamente “ognuno di voi può riuscirci; basta conoscere bene l’ armonia e il contrappunto”. Anche Mozart, a coloro che restavano increduli di fronte alla sua straordinaria facilità nel comporre, soleva ripetere “ma voi non sapete quante ore ho studiato io da piccolo, facendo esercizi di armonia, variazioni e progressioni”. Ecco: lo studio per lo sviluppo del talento è il mezzo insostituibile per la maturazione del proprio essere, senza altre alternative. Il solo seme non basta; occorre coltivarlo, con amore e pazienza, per poterne, un giorno, ammirare i frutti. Si capisce dunque che lo studio non è il semplice fare, un’ azione ripetitiva ed inconsapevole: perché possa essere veramente valido richiede progettualità finalizzate, precise modalità di attuazione e verifiche scrupolose.

Parlerò ora dello studio giornaliero relativo alla sezione della disciplina trattata in questo capitolo, e cioè dello studio della tecnica strumentale.

I presupposti dello studio giornaliero.

Prima di iniziare lo studio della tecnica strumentale, consiglio di effettuare gli esercizi di preparazione indicati nel paragrafo “Conoscenza ed espressione fisica del corpo”. Non sono semplici esercizi ginnici, ma rappresentano il presupposto indispensabile per un’ utile sessione di studio. E’ come imbandire per bene la tavola e lavarsi le mani prima di mangiare o, per un atleta, predisporre il tono muscolare prima dell’ allenamento: questa fase - in realtà - è già studio della tecnica, se siamo veramente convinti che è l’ intero corpo - e non il solo strumento - a partecipare all’ atto esecutivo. Dare il giusto spazio e la giusta concentrazione a questa fase ci consente quindi di migliorare progressivamente il nostro standard tecnico in almeno due direzioni:

a. migliore qualità del livello tecnico raggiunto alla fine di ogni sessione di studio;

b. migliore impiego delle nostre energie e risorse.

Il check-up iniziale -i fondamenti della tecnica -il progresso continuo.

Check-up: è l’ indicazione del nostro livello di partenza, l’ estratto conto delle nostre risorse. E’ da qui, dalla percezione del presente attuale, che occorre partire per l’ impostazione di interventi concreti. Questa “autodiagnosi” risulterà tanto più reale e attendibile, quanto più sarà potenziato il

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nostro grado di autopercezione: non sempre è possibile, per le ragioni più diverse, avere a disposizione un buon orecchio esterno in grado di consigliarci e di guidare il nostro percorso; più realisticamente, dobbiamo imparare da noi stessi, con serena obiettività di giudizio, a verificare l’ iniziale situazione di partenza. Dopo la “preparazione” del corpo, possiamo passare agli esercizi per la produzione del suono (M. Moyse, De la sonorité), cercando i fondamenti della tecnica nel progresso continuo, cioè nell’ ottimizzazione costante della nostra performance. Mai suonare senza entusiasmo; l’ atteggiamento positivo influisce non soltanto sulla nostra psiche, ma esercita i suoi effetti direttamente a livello fisico, favorendo il rilassamento, la tonicità muscolare, la maggiore elasticità e il coordinamento dei nostri movimenti. Questa è pure una fase di sperimentazione: combinazione di posture diverse, percezione degli appoggi dell’ aria, dell’ imboccatura, dei movimenti delle cavità nasali, degli zigomi, dei muscoli frontali. Può essere utile “percorrere” mentalmente tutto il nostro corpo, dal diaframma cranico alla pianta dei piedi e viceversa, comparando le reazioni delle varie regioni agli impulsi nervosi con i risultati esecutivi ottenuti. Solo così, con il tempo e l’ esercizio, ci si abituerà progressivamente all’ autopercezione continua fino a quando ...... scomparirà a livello di pensiero mentale attivo per diventare una sorta di automatismo sensoriale: la dinamica percezione - stimolo - reazione sarà, a quel punto, “regredita” a livello inconscio. Avremmo cioè percorso interamente il ciclo evolutivo che, partendo dalla inconsapevolezza, si sarà diretto prima verso la consapevolezza sensoriale e razionale, per poi arrivare (tornare?) finalmente all’ inconscio. La fase della consapevolezza razionale rappresenta dunque solo una tappa intermedia, non il traguardo finale, di un processo che possiamo sintetizzare in questo modo:

sentire (autopercezione sensoriale),

capire (consapevolezza razionale),

divenire (azione e re-azione inconscia).

Dopo gli esercizi per la produzione del suono in tutte le variazioni di attacco, dinamiche e timbriche - che possiamo solo ipotizzare, viste le possibilità veramente infinite - passiamo allo studio del meccanismo strumentale. Anche qui i lavori di Moyse, Taffanel e Gaubert, gli Studi di Andersen, Briccialdi, Koehler e tanti, tanti altri, sono un alimento insostituibile al nostro lavoro. Vanno studiati con scrupolo, serietà, ma soprattutto con fiducia nelle nostre possibilità, nella consapevolezza che rappresentano la costruzione della preparazione strumentale e, come tale, un percorso di studio che occorre programmare e organizzare con metodo e continuità.

Lo studio è un fatto di responsabilità personale; tutto ci sarà possibile solo quando avremmo capito che tra la volontà di essere e il fare per essere c’ è di mezzo ..... “e il”. E questo “e il” è soltanto il nostro lavoro. Di nuovo un trinomio: volere - fare - essere: ciascun termine non ha alcun senso senza gli altri, o quantomeno non ne ha alcuno all’ interno di una dinamica evolutiva reale e, dunque, possibile.

Le verifiche.

Al termine di ogni sessione di studio è molto importante fermarsi a verificare il livello tecnico raggiunto: è il check- up finale, la diagnosi dopo la terapia. Senza questa attività di riflessione, la constatazione dei risultati risulterà priva di utilità, ammesso pure che questa avvenga; in altri termini, non sapremmo mai - concretamente - a quali traguardi siamo giunti, quali siano le coordinate della nostra posizione attuale. È come se una nave, dopo aver percorso miglia e miglia di navigazione, non si preoccupasse minimamente di verificare la posizione raggiunta nell’ oceano, la distanza dal punto di partenza o dal traguardo previsto e - di conseguenza - non predisponesse i

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miglioramenti da apportare a fronte di eventuali errori da correggere. Potrà sembrare una attività inutile, una perdita di tempo; ma vi assicuro che non lo è. La verifica, oltre a stimolare la capacità di autovalutazione del nostro lavoro, conferisce maggiore dignità e rigore professionale alla ricerca e, infine, rafforza ancor più le nostre energie. Verificare non significa infatti constatare solo gli errori per infliggere fantasiose punizioni autolesionistiche: verificare significa, più esattamente, prendere atto ed analizzare lo standard raggiunto in quel momento considerato però nella sua globalità, per una ulteriore precisazione dei nostri livelli, certo, ma anche per il consolidamento delle tante qualità positive in essi già espresse.

A conclusione di questa sezione della ricerca, vorrei tentare di schematizzare una proposta di studio giornaliero che riguarda, per l’ appunto, la fisiologia e l’ esecuzione strumentale. È solo uno schema: dunque, un’ astrazione teorica che ha valore puramente indicativo; ognuno potrà e dovrà calarlo nel proprio reale-soggettivo per farne un valido programma di studio che tenga conto della specifica situazione di partenza per poi dirigersi verso gli obiettivi di volta in volta programmati.

Esercizi di percezione e dinamica fisiologica - 15 minuti

Esercizi per la produzione del suono - 20 minuti

Esercizi di tecnica giornaliera - 90 minuti

- pausa -

Studi di tecnica - 60 - 90 minuti

Come di consueto, le ultime raccomandazioni:

1. Studiare sempre con entusiasmo e fiducia nelle proprie possibilità.

2. Costruire la tecnica quotidianamente e seguendo - possibilmente - un preciso programma di studio che indirizzi il nostro lavoro verso queste due direzioni:

a) consolidamento del livello tecnico già acquisito;

b) potenziamento della tecnica verso il livello successivo.

Per scherzare, potrei dire che la costruzione della tecnica sintetizza al meglio le due idee di pensiero politico più ricorrenti: l’ idea di conservazione e l’ idea di progresso. Accontentarsi del livello già acquisito può significare infatti rinunciare alla nostra evoluzione che, invece, è un fatto meravigliosamente naturale, se noi stessi non poniamo limiti e freni al suo libero divenire; d’ altra parte, però, pensare di poter evolverci senza aver prima acquisito la consapevolezza del presente attuale è una pura illusione, una fantasticheria mentale e non una fantasia reale. Per

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costruire occorre quindi prima consolidare; una volta consolidato non possiamo però rinunciare alla costruzione di un qualcosa di più evoluto. Questo è il “progresso continuo”.

3. Studiare la tecnica con molta attenzione e concentrazione. Il tempo che noi impieghiamo va riempito con intelligenza e amore per ciò che facciamo. Non serve a niente “studiare” quattro o più ore di tecnica con la mente distratta o - peggio - con un senso di noia verso un lavoro penitenziale e ripetitivo; più esattamente, in ogni esercizio noi miglioriamo costantemente il nostro rapporto con lo strumento attraverso la consapevolezza sempre maggiore del nostro corpo; ne apprezziamo le infinite possibilità espressive, le diverse reazioni: così facendo diventiamo pian piano una entità unica, naturale, meravigliosa, capace di andare al di là della materia sonora, della pura esecuzione strumentale.