rachele mussolini
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Rachele Mussolini: "Vi racconto mio nonno, il Duce"
Roma, 1930. La famiglia Mussolini al gran completo. Da sinistra, mamma
Rachele (1890-1979) che tiene in braccio la piccola Anna Maria (1929-
1968), Benito (1883-1945) con Romano (1927-2006, nel cerchio, papà di
Rachele junior), Edda (1910-1995), Bruno (1918-1941) e Vittorio (1916-
1997)
Rachele Mussolini, 36 anni, porta lo stesso nome della nonna paterna, la
famosa donna Rachele, ed è figlia di Romano, quartogenito del capo del
fascismo. È nata dal secondo matrimonio del padre, quello con l’attrice
Carla Puccini. Alessandra, 47 anni, deputata Pdl, è invece figlia di Romano e
della sua prima moglie, Maria Scicolone. Questa è la prima volta che
Rachele parla: «Per farlo non potevo che raccontare di mia nonna, la quale
ha avuto una vita straordinaria al fianco di un uomo che, comunque lo si
giudichi, ha segnato la storia».
Rachele junior ha accettato di parlare 53 anni dopo che lo ha fatto sua nonna.
Fu la giornalista Anita Pensotti, infatti, nel 1957, a raccogliere le confidenze
della moglie di Mussolini e a pubblicarle su Oggi in 16 puntate. Fu un
enorme successo: Oggi balzò a un milione di copie, le memorie di donna
Rachele furono tradotte in più di 30 Paesi e in tutto il mondo ebbero 110
milioni di lettori. Quel memorabile servizio giornalistico è stato raccolto nel
libro Benito il mio uomo (Rizzoli, 1958).
Donna Rachele è stata testimone e protagonista del suo tempo. «Partita
dall’osteria romagnola in cui lavorava alle dipendenze del suocero
Alessandro Mussolini», dice sua nipote, «ha seguito il marito nella scalata al
potere. Poi ha visto la storia voltare pagina, con suo marito e quell’Hitler da
lei sempre detestato che precipitavano…».
Rachele jr ha gli stessi luminosi occhi verdi della nonna che affascinarono
Mussolini. Quando studiava all’università fu eletta Prima Miss dell’Anno
(titolo creato da Enzo Mirigliani nell’ambito di Miss Italia), e avrebbe potuto
partecipare alla finale di Salsomaggiore. Rachele jr, però, ha preferito
laurearsi in Sociologia e poi mettersi a lavorare. Oggi è impiegata nella
segreteria del Pdl a Roma.
Benedetto Mosca
IL MEMORIALE DI RACHELE MUSSOLINI
Il 25 maggio 1974, quando nacqui a Wimbledon in Inghilterra dall’unione di
mio padre Romano Mussolini con Carla Puccini, nonna Rachele non solo
non fece salti di gioia, ma nei primi tempi si mostrò molto fredda. Per lei, io
ero «la figlia del peccato». Mio padre, infatti, non aveva ancora ottenuto il
divorzio da Maria Scicolone, dalla quale aveva avuto due figlie: Alessandra
nel 1964 ed Elisabetta nel 1966. Se fossi nata in Italia non mi avrebbe potuto
riconoscere, ecco perché ho visto la luce in Inghilterra. Mio padre mi ha
raccontato che, un giorno in cui lui era andato a trovarla a Villa Carpena,
donna Rachele gli disse: «Evidentemente non è colpa tua. Quella di non
saper resistere al fascino femminile è una caratteristica di tutti i Mussolini
maschi».
La nonna non aveva torto. Seduttori o sedotti, i Mussolini non potevano fare
a meno di corteggiare ogni donna. Prima di Benito, così era stato suo padre,
il fabbro socialista Alessandro; così era anche mio padre Romano. E le
mogli si dovevano rassegnare, a cominciare da mia nonna Rachele. La quale
però, dopo le proteste e gli sfoghi, finiva per difendere il suo Benito. Di lui
diceva: «Ha tutti i difetti del mondo, ma in tanti anni non ha mai passato una
notte fuori di casa, né mi ha mai fatto mancare niente». Con quel «mancare
niente» non si riferiva solo ai beni materiali, ma anche al fatto che Benito
aveva sempre compiuto regolarmente i suoi «doveri coniugali», come una
volta si diceva. Quanto alle «notti fuori», sapeva benissimo che suo marito
non incontrava le altre donne di notte, ma quasi sempre nel pomeriggio, a
Palazzo Venezia. Di quegli incontri c’è un elenco particolareggiato nelle
memorie dell’usciere Quinto Navarra. Pochi sanno che quel libro, in realtà, è
stato rivisto e sistemato da uno dei più grandi giornalisti italiani, Leo
Longanesi, famoso per la sua beffarda fantasia. In ogni caso non era
questione di numeri. Era il fatto in sé, il principio che umiliava donna
Rachele.
TACEVA PER NON ESSERE MESSA DA PARTE DA LUI
Su mia nonna ho letto una grande quantità di libri e di articoli di giornale.
Ho letto anche i suoi diari e i due libri di memorie che ha scritto, oltre
naturalmente ai ricordi di mio padre (Il Duce mio padre, Rizzoli, 2004) e
alle famose interviste di Anita Pensotti pubblicate da Oggi nel 1957. Adesso,
a tanti anni di distanza, di donna Rachele parlo io. E dico subito che definirla
straordinaria è riduttivo. La sua è una figura molto complessa, difficile da
chiudere in uno schema. Era una donna dell’Ottocento ma, al tempo stesso, è
stata protagonista del Novecento accanto a Mussolini. Fra i due c’era un
misto d’amore e di complicità, ma anche di grande spregiudicatezza. Lui
faceva la sua vita e incontrava le sue donne; lei aveva accettato di vivere,
come dire?, su una specie di binario parallelo: sapeva e talvolta addirittura
vedeva come lui la ingannava, ma solo in casi eccezionali interferiva nelle
sue azioni. Quando lo fece (e, al proposito, io racconterò due o tre cose
inedite che so), si comportò come un’incendiaria, ma all’ultimo momento
fece sempre un passo indietro perché aveva capito che, eliminando la rivale,
avrebbe vinto una battaglia, ma perso la guerra. Mussolini la avrebbe messa
da parte.
QUANDO RACHELE RISCHIÒ L’UMILIAZIONE PIÙ GRANDE
Una cosa è certa: Benito è stato il grande amore della sua vita. Qualcuno ha
cercato di falsare questa realtà attribuendole «vendette» sotto forma di ben
dissimulati tradimenti, ma si tratta di menzogne. Mia nonna non tradì mai il
marito; vero è piuttosto che nel momento più buio della sua vita, quando
Mussolini era stato arrestato e per qualche tempo imprigionato a Ponza, ci fu
chi cercò di farle violenza. Mi riferisco al famigerato questore Polito, il falso
amico di cui dirò più avanti. «Altro che vendette», mi diceva mio padre,
«altro che inganni. Tua nonna si era innamorata di Mussolini quando lui era
un perfetto sconosciuto e a lui ha dedicato tutta la sua vita». Papà aveva
ragione. La prima volta che mia nonna sentì - sono parole sue - «il cuore
farle le capriole nel petto», aveva otto anni, e il responsabile della sua
emozione era Mussolini.
NON AVEVA LE SCARPE
Rachele era la più piccola di sei fratelli (quattro femmine e due maschi) e la
sua famiglia era poverissima. Per lei - la Chellina, come la chiamavano -
andare a scuola era un lusso da signori. In casa erano tutti analfabeti, e
quando lei si impuntò per frequentare la prima elementare fu accusata dalle
sorelle maggiori di voler studiare per evitare il lavoro nei campi. A
raccontarlo si rischia di non essere creduti. Nelle campagne e non solo,
quando donna Rachele era bambina, si viveva in un modo che oggi è
difficile immaginare. C’è però la testimonianza diretta di mia nonna, che
un’idea di quel tempo la dà molto bene. Ogni mattina lei, scalza perché non
aveva scarpe e in casa non c’erano soldi per comprargliene, si faceva sette
chilometri a piedi per raggiungere la piccola scuola di Dovia in quel di
Predappio. Nella buona stagione camminava a piedi nudi, quando veniva il
freddo la madre le avvolgeva due stracci attorno ai piedi. E quando
finalmente arrivava alla porta della piccola scuola, la maestra le andava
incontro porgendole un paio di pianelle che conservava per lei in un
armadietto. Rosa Maltoni, come l’insegnante si chiamava, non voleva che
gli altri alunni (quattro in tutto) vedessero che la Chellina non aveva le
scarpe.
LA RIVEDE DOPO DIECI ANNI ED È UN COLPO DI FULMINE
Rosa era la moglie del fabbro Alessandro Mussolini. «Un giorno che si
ammalò», ha ricordato mia nonna, «a sostituirla venne un ragazzo bruno, il
suo figlio maggiore, che studiava per diplomarsi maestro». Quel ragazzo era
Benito Mussolini. E poiché la Chellina era irrequieta, incapace di rimanere
ferma a lungo, il giovane supplente la costringeva a stare seduta nel banco
affibbiandole di tanto in tanto una bacchettata sulle mani. E lei? Invece di
mettersi a piangere guardava estasiata i suoi occhi «magnetici, quasi
fosforescenti». Ha raccontato mio padre: «Quando il babbo di Rachele morì,
lei fu ritirata dalla scuola e mandata a lavorare come donna di servizio.
Benito intanto era emigrato in Svizzera e per dieci anni non si incontrarono
più. Quando però lui rientrò in Italia e si rividero, si riconobbero
immediatamente». Ricordava mia nonna: «Benito aveva i baffi e un accenno
di pizzetto. Me lo trovai davanti all’improvviso, mentre uscivo da Messa, e
ancora una volta fui subito colpita dai suoi occhi ardenti». Intanto era
successo che il padre di Benito, stanco di fare il fabbro, aveva aperto una
piccola trattoria a Dovia. In cucina aveva messo la mamma della Chellina,
Anna Lombardi, che era stata una sua antica fiamma. Doveva essere solo per
qualche tempo; poi invece lui si era trovato bene, lei anche, e così avevano
formato una coppia molto affiatata. Ci sarebbe stato posto anche per Benito,
al quale però la prospettiva di fare il ristoratore era totalmente estranea.
Anzi, a detta di mio padre «provocava in lui una sorta di smarrimento».
PISTOLA IN PUGNO, CHIESE IL CONSENSO PER SPOSARLA
Rachele serviva ai tavoli. Era diventata una ragazza molto bella, con lunghe
trecce bionde che a volte annodava sul capo e «occhi che sembravano biglie
di vetro celeste». Aveva anche i suoi corteggiatori, e quando Benito si
trasferì nel Trentino (che allora era una provincia austriaca) fu presa dal
panico. Perché tra i clienti della trattoria ce n’era uno, il geometra Olivieri di
Ravenna, che aspettava solo di avere campo libero per farsi avanti. È vero
che Benito, prima di partire, le aveva detto con decisione: «Aspettami,
quando torno ti sposo»; ma è vero anche che lei non sapeva se avrebbe avuto
la forza di tenere a bada non tanto il geometra Olivieri, quanto Alessandro
Mussolini. Il padre di Benito premeva infatti perché lei accettasse la
proposta di matrimonio di Olivieri. «Ha un sacco di soldi», le diceva, «ha
anche delle terre. Devi assolutamente dirgli di sì e scordarti di Benito, che è
una testa matta e non può certo darti un avvenire sicuro». Alessandro
Mussolini non si rendeva conto delle ambizioni del figlio, il cui
comportamento lo lasciava molto perplesso. A mia nonna era rimasta in
mente una frase che, un giorno, Alessandro aveva detto a Benito: «Non vuoi
fare il maestro, non vuoi fare l’impiegato comunale. Insomma, che cosa
vuoi? Il posto di re è già occupato, ti accontenterai di fare il primo
ministro?». Morì troppo presto, poveretto, ma io dico che da lassù rimase
sbalordito vedendo che la sua battuta ironica si era avverata: suo figlio non
era diventato re, ma primo ministro sì. Comunque, da vera testa matta, un
giorno mio nonno Benito si presentò a Rachele, la prese per un braccio e la
trascinò davanti ai genitori. Aveva in tasca una rivoltella che a un certo
punto tirò fuori, e mio padre mi diceva di non essere mai riuscito a farsi dire
da donna Rachele le parole esatte che Mussolini rivolse ai genitori in
quell’occasione. Credo che la versione più vicina alla realtà sia questa: «Se
non ci date il consenso per sposarci, qui ci sono sei colpi: due per Rachele e
quattro per me». Poi aggiunse qualcosa di molto simile a: «Se non possiamo
stare insieme, noi due ci ammazziamo».
SI DICEVA CHE EDDA FOSSE FIGLIA DELLA BALABANOFF
Cosa dovevano fare quei due poveretti dei vecchi Mussolini? Diedero il
consenso al matrimonio (che poi era la convivenza) di Benito con la
Chellina, ma sui motivi dell’opposizione del mio bisnonno alla loro unione
continuarono per un bel po’ a girare strane voci. Erano solo calunnie, ma io
per amore di cronaca le riporto ugualmente. Si diceva che la Chellina fosse
in realtà figlia di Alessandro e quindi sorellastra di Benito; oppure che anche
il vecchio Alessandro avesse messo gli occhi su di lei e non la volesse
«cedere» al figlio. Voci, ma per mia nonna il tormentone delle «voci» durò
tutta la vita. Una delle più insistenti riguardava la relazione tra mio nonno e
l’ebrea russa Angelica Balabanoff, cominciata quando lui si trovava in
Svizzera agli inizi del 1900 e proseguita poi nel Partito socialista e nella
redazione de L’Avanti!. Mio nonno giurava: «Se finissi su un’isola deserta
con la Balabanoff e una scimmia, mi metterei con la scimmia». Intanto però
la primogenita di Benito e Rachele - Edda, nata nel 1910 - era stata iscritta
all’anagrafe come «figlia di Benito Mussolini e di madre N.N.». È vero che i
miei nonni non erano sposati, che Rachele era minorenne e che allora, in
situazioni del genere, si rischiava la galera; molti però si erano sentiti
autorizzati a pensare che quella «madre N.N.» fosse in realtà la Balabanoff.
Mia nonna, umiliata, non poteva reagire. Faceva finta di non sapere, di non
sentire. Fino a che un giorno sbottò in pubblico: «So io quanto ho patito per
metterla al mondo, la mia Edda, mica lei!». Nonostante tutto, però, donna
Rachele non provò mai odio per la Balabanoff, che giudicava una donna
sconfitta e tradita dall’uomo che aveva amato. Sbagliava, perché Mussolini
continuava ad avere un debole per lei, della quale diceva: «Devo molto ad
Angelica, perché la sua generosità non conosce limiti, come la sua
amicizia... Se non l’avessi incontrata in Svizzera, sarei rimasto un piccolo
attivista di partito, un rivoluzionario della domenica».
L’INTELLETTUALE CHE MIA NONNA NON SOPPORTAVA
Mia nonna odiava invece a morte un’altra intellettuale ebrea: Margherita
Sarfatti, una donna affascinante che aveva avuto una grande influenza su
Mussolini e che a un certo punto gli dedicò un libro, Dux, divenuto
rapidamente un best seller internazionale con 17 ristampe in Italia e
traduzioni in 18 Paesi. Quel libro fece conoscere mio nonno in tutto il
mondo: solo in Giappone se ne vendettero più di 300 mila copie. Tuttavia,
best seller o no, a mia nonna la Sarfatti non andava giù. Lo diceva a tutti e
mio padre ricordava che lo disse anche a lui. «Avevo una decina d’anni», mi
ha raccontato, «quando nel giardino di Villa Torlonia a Roma la nonna mi
fece questa confidenza: “Vedi, Romano, di tutte le signore che hanno girato
attorno a tuo nonno, io sono stato gelosa soltanto di quelle che hanno
occupato un posto nella sua mente. Il resto non mi interessava». Sempre in
quel periodo, una mattina mio padre vide la nonna che in giardino si
allenava a fare il tiro a segno con la pistola. Lei fu seccata di essere stata
sorpresa; quindi gli spiegò: «Sto allenandomi per ammazzare la Sarfatti».
QUEL CHE IO SO SULLA TRAGICA VICENDA DALSER
Di recente c’è stato un film, Vincere di Marco Bellocchio, che ha ricostruito
in modo molto forte e suggestivo un’altra relazione di mio nonno, forse la
più drammatica assieme a quella con la Petacci. Mi riferisco alla tragica
storia di Ida Dalser, figlia del sindaco di un paese in provincia di Trento, alla
quale mio nonno fu legato dal 1913 al 1915, quando lei diede alla luce un
bambino, Benito Albino. Mia nonna e mio padre hanno parlato ampiamente
di questa storia nelle loro memorie. Ne parlerò anch’io; adesso però ne salto
i dettagli per arrivare al commento finale di donna Rachele. Con la Dalser,
che si presentava a tutti come «la moglie di Benito Mussolini», lei era
arrivata a scontrarsi fisicamente, ma diceva: «In fondo, io a quella donna
devo essere grata, perché è anche merito suo se mi sono sposata». Non aveva
torto: Benito e lei, prima che il «ciclone Dalser» si abbattesse su di loro,
vivevano in libera unione, e fu anche per essere lasciati in pace che
trasformarono quella condizione in un regolare matrimonio.
MATRIMONIO IN CINQUE MINUTI NELL’OSPEDALE
Sono stata in molti dei luoghi in cui si è svolta la saga dei miei nonni. Ho
visto alcuni degli edifici in cui hanno abitato, ho confrontato le loro vecchie
fotografie con quelle - più recenti - di mio padre ritratto negli stessi posti. Ho
cercato di immaginare quel tempo e quelle situazioni lontane. Il matrimonio
di Benito e Rachele, per esempio, che venne celebrato civilmente durante la
Prima guerra mondiale in una stanzetta disadorna dell’ospedale di Treviglio,
vicino a Milano, dove Mussolini si trovava in convalescenza dopo essere
stato ferito in un’esercitazione sul Carso. Ecco la scena: sul piccolo
calendario del 1915 appeso al muro, accanto alla data del 17 dicembre
qualcuno ha annotato a matita: «Oggi matrimonio di Mussolini Benito con
Guidi Rachele». Il rito civile durò meno di cinque minuti: lo ha ricordato la
nonna allo zio Vittorio, il secondo dei suoi cinque figli (la prima era la zia
Edda) nato il 27 settembre 1916. Torno per un momento alla storia della
Dalser. Ancora prima del matrimonio con Rachele, mio nonno volle
occuparsi del bambino che aveva avuto da quella donna e davanti al notaio
Buffoli di Monza riconobbe come proprio figlio Benito Albino Dalser, al
quale garantì un sostegno di 200 lire al mese. Non erano tante nemmeno per
quell’epoca, ma forse lui pensava di avere messo tranquilla, così facendo, la
Dalser. Invece fu peggio: per lei infatti, con quell’atto davanti al notaio, mio
nonno aveva reso ufficiale il loro legame, e da allora in avanti si considerò
più che mai l’unica vera «signora Mussolini».
MIO NONNO BENDATO SEPARÒ LE DUE RIVALI
L’inevitabile scontro fra lei e mia nonna non tardò a verificarsi. Avvenne
nello stesso ospedale militare dove mio nonno era convalescente. Mio padre
ha descritto bene quello che accadde, e a me ha raccontato anche qualche
particolare in più. Ecco come ricostruiva il fatto mettendosi, come lui
diceva, «dalla parte della nonna», la quale raccontava: «Lì per lì non
riconobbi la Dalser che, entrando come una furia nella stanza dove mi
trovavo con Benito, mi si scagliò addosso urlando: “Sono io la moglie di
Mussolini! Solo io ho il diritto di stargli vicino!”. C’erano dei soldati nella
stanza, anche loro convalescenti, che si misero a ridere. La Dalser
continuava a insultarmi e a un certo punto non ci vidi più: mi gettai addosso
a lei tempestandola di pugni, e alla fine le misi le mani attorno al collo.
Cominciai a stringere e avrei proseguito se Benito, che tutto bendato
com’era sembrava una mummia, non si fosse faticosamente alzato dal letto
per fermarmi». La scena era grottesca: sembrava una di quelle interpretate
da Stan Laurel e Oliver Hardy che, anni più tardi, avrebbero divertito mio
nonno nella sala cinematografica privata di Villa Torlonia, dove per suo
desiderio venivano spesso proiettati i film dei due comici americani. Stanlio
e Ollio, e Charlie Chaplin: le pellicole predilette dai ragazzi Mussolini e
dallo stesso Benito erano le loro. Ma torniamo alla rissa in ospedale. Per
separare donna Rachele dalla Dalser, oltre a mio nonno dovettero intervenire
un medico e due infermieri. Nel suo diario mia nonna conclude così:
«Appena dovetti allentare la presa, la Dalser scappò via e io scoppiai a
piangere».
QUANDO NELLA VITA DI BENITO COMPARE CLARETTA
Passando da una crisi all’altra, la Dalser sprofondò sempre più nella
depressione fino a essere dichiarata pazza e rinchiusa in manicomio a
Venezia. Morì a 57 anni, e terribilmente simile alla sua fu la sorte di suo
figlio, che aveva studiato in un collegio dei Barnabiti e poi si era arruolato in
Marina finendo «in missione» fino a Shanghai. Benito Albino fu internato in
quello che allora era il manicomio di Mombello, presso Milano, dove morì
nel 1942 a 27 anni. Ci fu, diceva mio padre, una violenza inaccettabile nei
confronti di quei due poveretti. Pensava che il controllo di quella atroce
storia, a un certo punto, fosse sfuggito a mio nonno per passare nelle mani
della polizia segreta. E poiché la Dalser era irriducibile, prevalse l’orribile
idea che il manicomio fosse il posto più adatto per neutralizzarla. Molti mi
domandano: ma quando tua nonna seppe della relazione più famosa di
Mussolini, quella con Claretta Petacci? È chiaro che, per ragioni
anagrafiche, posso rispondere solo in base a quello che mio padre mi ha
raccontato, ma di quella vicenda conosco particolari decisamente curiosi.
Rachele Mussolini (1. continua)
Testo raccolto da Benedetto Mosca con la collaborazione di Carlo Palumbo
La seconda parte del memoriale sarà su Oggi n. 48 in edicola mercoledì
24 novembre
Il memoriale di Rachele Mussolini: la caduta del Duce
Rachele Mussolini, 36 anni, figlia di Romano e nipote di Benito, davanti a
Villa Torlonia, che dal 1930 al ’43 fu la residenza privata del capo del
fascismo a Roma.
Nella prima puntata dei suoi ricordi (LEGGI QUI LA PRIMA PARTE)
Rachele Mussolini jr., che parla per la prima volta della straordinaria
avventura umana della nonna paterna, la famosa donna Rachele, ha
rievocato con episodi inediti il burrascoso passato sentimentale del nonno,
Benito Mussolini. Angelica Balabanoff, Margherita Sarfatti e la sventurata
Ida Dalser con il piccolo Albino nato dalla relazione con il Duce, sono state
fra le protagoniste del suo racconto, in cui ha ricostruito anche il primo
incontro di donna Rachele con Mussolini e il loro matrimonio. Le notizie
raccolte da Rachele jr. sono il frutto, oltre che di attente ricerche e di
testimonianze a volte inedite, dei suoi lunghi colloqui con il padre, Romano
Mussolini. Fu proprio lui a raccontarle, con particolari per la prima volta
svelati, come donna Rachele seppe della relazione del marito con la Petacci.
Benedetto Mosca
IL MEMORIALE DI RACHELE, SECONDA PARTE
Fin dal 1932 si sapeva (ma non si diceva) che mio nonno Benito aveva una
relazione con una ragazza di vent’anni, Claretta Petacci. Quella ragazza
sarebbe rimasta al suo fianco fino all’ultimo, dividendo con lui anche la
tragica fine. Mio padre Romano pensava che, pur detestando la Petacci, mia
nonna Rachele avesse per lei una sorta di rispetto. Da buona romagnola dagli
impulsi forti e dalle decisioni senza appello, capiva quello che Claretta (da
lei chiamata sprezzantemente «quella donna») aveva dovuto affrontare. E il
fatto che, pur avendone la possibilità, non si fosse sottratta all’esecuzione, in
una certa misura mitigava il suo risentimento.
La storia del primo incontro di mio nonno con la Petacci è nota: lui era
diretto a Ostia, lungo la Via del Mare che collega Roma con il litorale, al
volante della sua Alfa Romeo spider 1750 Gran Turismo rossa carrozzata
Zagato. Su quella stessa strada viaggiava, a bordo di una Lancia Astura,
anche Claretta con i genitori, la sorella Myriam (futura attrice) e il fidanzato
Riccardo Federici, un tenente dell’aeronautica. A mio nonno piacque subito
quella ragazza che, riconosciutolo mentre lui li sorpassava, lo salutava con
entusiasmo.
I particolari dell’incontro fatale sono stati raccontati troppe volte perché io
possa aggiungervi qualcosa. Ricordo solo che a Mussolini costò fatica
aspettare quattro giorni prima di chiamarla al telefono a casa del padre.
Claretta stava riposando e sua madre Giuseppina, che aveva preso la
chiamata, si sentì dire dalla voce inconfondibile di mio nonno: «Parla quel
signore che avete incontrato sulla strada per Ostia». «Sì», fece lei smarrita; e
poi, alzando la voce: «Dio del cielo, Claretta… è Lui! E vuole te».
QUELLA LETTERA ANONIMA LASCIATA NELL’ATRIO
«Siete padroni di non credermi», mio padre raccontava, «ma il primo a
sapere della relazione con la Petacci fui io nel giugno 1943, quando avevo
16 anni. Nel grande atrio di villa Torlonia, sopra un treppiede, c’era un
piatto d’argento destinato a raccogliere la corrispondenza. Era un piatto-
ricordo dei Campionati del mondo di calcio vinti dalla nostra Nazionale nel
1934 e su di esso si accumulavano le buste indirizzate a mio padre (in genere
si trattava di suppliche), a mia madre e a noi ragazzi Mussolini. Oggi non
sarebbe concepibile, ma allora gli addetti alla sicurezza permettevano che
uomini e donne sconosciuti, semplicemente presentando un documento,
entrassero nella residenza privata del capo del governo per consegnare a
mano le loro petizioni».
Nel giugno 1943, dunque, nel piatto-ricordo dei Campionati del Mondo fu
deposta una lettera anonima indirizzata «al signor Romano Mussolini». Mio
padre la aprì e restò senza fiato leggendo: «Claretta Petacci fa visita tutti i
pomeriggi a Palazzo Venezia. Non ha bisogno di essere accompagnata
perché conosce bene il posto e raggiunge direttamente lo studio del Duce. Le
sue visite durano da 15 minuti a due ore». La lettera era accompagnata da
un’accurata descrizione di Claretta: età, statura, colore degli occhi e dei
capelli.
LUI ERA IL DITTATORE, MA A CASA COMANDAVA LEI
C’è una parola, in dialetto romagnolo, che definisce bene cos’è stata donna
Rachele per la sua famiglia: la «azdora», cioè colei che aveva il pieno
controllo della casa. Fuori, il suo uomo poteva fare tutto quello che voleva.
Ma fra le mura domestiche era lei a decidere. E a volte si permetteva anche
qualche incursione nella sfera politica. Diceva: «Raramente mi sono
intromessa negli affari di mio marito, ma quando l’ho fatto lui ha sempre
accettato i miei consigli. Quando non lo ha fatto, le cose sono andate molto
male. E di me aveva una certa paura…» Con il passare degli anni, in effetti,
mio nonno aveva maturato una sorta di soggezione nei confronti della
moglie. Una volta le disse: «Ma sai che mi fai più paura tu che l’America?».
Non sono soltanto io a pensare che, se mio nonno avesse ascoltato di più
donna Rachele, tante cose sarebbero andate diversamente. Per esempio non
ci sarebbe stato quel fatale 25 luglio 1943 in cui, dopo la seduta del Gran
Consiglio e la caduta del fascismo, re Vittorio Emanuele III fece arrestare
Mussolini. «Già nel maggio del ‘43», lei stessa ha raccontato, «una dama di
Corte mi aveva avvertita che nella tenuta dei Savoia a Castel Porziano si
tenevano riunioni segrete per far perdere il posto a mio marito». Diceva
proprio così mia nonna: «perdere il posto», perché per lei fare il primo
ministro era un lavoro come un altro. Spiegava: «Mio marito non sapeva, o
non voleva sapere, che i capi del complotto contro di lui erano Grandi,
Bottai e Federzoni, ma che a manovrarli era quel maledetto Badoglio, che
faceva tanto il suo amico… Io continuavo a dirglielo: “Guarda che Badoglio
fa controllare i telefoni di villa Torlonia“, ma lui mi rispondeva: “Quello che
mi preoccupa sono i carri armati americani, altro che Badoglio e gli intrighi
che tu vedi dappertutto”». Donna Rachele insisteva, perché le sue
informazioni erano precise: «Guarda che l’intrigo è grosso: sono già stati
dati i passaporti per l’estero ai congiurati, alle loro mogli e anche alle loro
amanti». Mussolini allora si spazientiva: «Sai che ti dico, Rachele?
L’intrigante sei tu!».
MIA NONNA AVEVA LA LISTA DI TUTTI I CONGIURATI
Il 24 luglio 1943 donna Rachele si alzò prestissimo, dopo una notte agitata.
Ha scritto nei suoi ricordi: «Non ho quasi chiuso occhio e, quando busso alla
porta di Benito, trovo che anche lui è già sveglio. Si sta vestendo, io mi
siedo sul bordo del suo letto e domando: “Ma è proprio necessaria la
riunione di oggi?”. Lui mi guarda sorpreso: “Sì, perché? Sarà un chiarimento
tra amici, perché non ci dovrei andare?”. A questo punto mi arrabbio:
“Amici? Ma come puoi chiamare così la banda dei traditori che ti
circonda?”». Mio nonno sapeva, io dico, che donna Rachele aveva ragione,
ma non voleva sentire i suoi avvertimenti. Era nella sua indole, intrisa di
fatalismo, comportarsi così. E infatti anche quella mattina andò come al
solito a palazzo Venezia. Tutto come in un giorno normale. Tornò a casa,
mangiò una porzione scarsa di spaghetti in bianco, lasciò intatto il bicchiere
di vino come spesso faceva, e mangiò una mela. Prima di riavviarsi a
palazzo Venezia, fece solo una cosa differente: abbracciò donna Rachele.
Lei ha ricordato: «Teneva sotto il braccio un grosso fascio di documenti. Gli
cadde un foglio, che io raccolsi mentre lui si dirigeva verso l’automobile che
lo aspettava. “Falli arrestare tutti”, gli disse, “ancora prima di cominciare la
riunione”».
Da quel momento ci fu, tra i miei nonni, un lungo blackout. A un certo
punto, non potendone più, donna Rachele chiamò al telefono il segretario
Nicolò De Cesare. Era mezzanotte e quello le disse che la seduta del Gran
Consiglio continuava, ma che non c’era niente di strano o preoccupante. Mia
nonna, però, era sconvolta dall’ansia. In seguito avrebbe scritto: «È
cominciato un nuovo giorno, il 25 luglio 1943. Sono le due del mattino e
questa è la quarta volta che telefono a De Cesare, ma ancora niente. Mi
tormento: cosa starà succedendo là dentro? Alle tre De Cesare mi chiama,
dicendomi che secondo lui la seduta si sta per concludere. Gli chiedo se
immagina che cosa possa essere accaduto, ma lui risponde evasivamente. Mi
dice solo che è arrivato il capo della polizia, il generale Lorenzo Chierici».
UN ULTIMO ABBRACCIO. ALLE CINQUE DEL MATTINO
Quando leggo queste parole di mia nonna, anch’io vengo assalita
dall’angoscia. Mio padre mi diceva: «Hai il suo stesso carattere». Aveva
ragione: quella notte interminabile, popolata di paure e di fantasmi, sembra
anche a me di averla vissuta. La «azdora», diventata una donna come tutte le
altre, era sola davanti a un destino più grande di lei, con il terrore che le
uccidessero il marito e la preoccupazione dei figli da allevare.
Dopo avere parlato con il generale Chierici, che conosce da tempo, mia
nonna si sente un po’ rincuorata. Poi però l’attesa ricomincia, più snervante
di prima, mentre a vegliare con lei a villa Torlonia c’è solo la fedele
cameriera Irma. Raccontava mia nonna: «Solo alle quattro della mattina
sentii avvicinarsi il motore dell’automobile che riportava Benito a casa. Io e
la Irma scendemmo ad aprirgli il portone. Benito appariva stanco e come
ripiegato su se stesso; a me bastò uno sguardo per capire com’erano andate
le cose. Gli avevano tolto la fiducia, ne fui certa ancor prima che me lo
dicesse. E così, mentre entravo con lui nello studio, gli chiesi: “Almeno, li
hai fatti arrestare tutti?”. Lui mi rispose: “No, ma domattina lo farò”.
“Domani mattina sarà troppo tardi!”, esclamai io con rabbia». Me la vedo
perfettamente, mia nonna, mentre guarda preoccupata il marito. Non sta
piangendo, perché è una donna forte e nei momenti più difficili diventa
fortissima, ma di certo sta cominciando a capire che per Mussolini è iniziata
la fine. Nei giorni scorsi, quando sono andata a villa Torlonia per farmi
fotografare nei luoghi in cui tanta parte dell’avventura di mio nonno si è
svolta, mi è parso quasi di vederlo, il Duce a cui i fedelissimi avevano tolto
la fiducia, «portarsi le mani alla fronte con un gesto di sofferenza», come
mia nonna ha scritto. E dire quindi con voce spenta: «Sta’ calma, sta’ calma
Rachele. Ormai è tutto inutile, non c’è più niente da fare». Poi, in questa
scena che mi è sembrato di rivivere, vedo mia nonna preparare una tazza di
camomilla per il marito. Nel suo studio rischiarato dalla luce dell’alba, lui le
racconta del Gran Consiglio e lei lo ascolta in silenzio, interrompendolo solo
quando sente che anche Galeazzo Ciano, il marito di Edda, gli ha votato
contro. «Anche lui!». Già, anche Galeazzo.
PERCHÉ MIO NONNO NON REAGÌ? MISTERO
Alla fine (sono le cinque del mattino) i miei nonni si abbracciano. Si sono
sdraiati sul letto ma non riescono a chiudere occhio e tre ore dopo, alle otto,
lui è già in piedi, pronto per andare a palazzo Venezia. Incontro alla sua
sorte, mi viene da dire… E scusate se adopero queste parole da ragazza
romantica che non sono, ma la circostanza è proprio di quelle che fanno
pensare all’ineluttabile compiersi del destino. La «azdora» aveva la testa
dura. Però non poté fare nulla per convincere mio nonno a non andare
all’incontro con il re dopo la votazione contraria del Gran Consiglio. Era
sicuro, Mussolini, che il re lo avrebbe difeso contro i congiurati. Vittorio
Emanuele III, del resto, non lo aveva sempre appoggiato? O quanto meno:
non gli aveva sempre permesso di andare avanti nei suoi progetti dandogli la
sua fiducia? «Il re mi aiuterà a punire i traditori», mio nonno pensava.
Donna Rachele non ci credeva e quando, per tre volte, telefonarono da Casa
Reale per invitarlo a presentarsi a villa Savoia in borghese, lei lo scongiurò:
«Non andare, Benito. Ma non capisci? Vogliono che tu non ti metta la divisa
per non dare nell’occhio quando ti arresteranno».
Per mio nonno era assurdo che il re si schierasse contro di lui. «Insieme a
me», pensava, «colpirebbe anche l’Italia e se stesso». Così, quando si avviò
all’automobile che lo attendeva davanti alla scalinata di villa Torlonia, mia
nonna urlò invano il suo ultimo avvertimento: «Non andare! Non ti
lasceranno tornare». Questa scena, per averne tanto sentito parlare mio
padre, mi sembra di averla vissuta in prima persona. Mussolini, nel suo
intimo, si aspettava di essere tradito. Sapeva anche che avrebbe potuto fare
arrestare i congiurati e che si sarebbe potuto opporre senza difficoltà al re
perché vicino a Roma, pronta a intervenire, era accampata una divisione di
soldati tedeschi. Non basta: nella sala del Gran Consiglio c’era un congegno
che bloccava all’istante tutte le porte. Fatto questo, mio nonno avrebbe
potuto fare arrestare Grandi e soci. La ragione per cui invece subì senza
reagire rimane un mistero.
UN SUSSURRO AL TELEFONO: "LO HANNO ARRESTATO"
Dunque Mussolini, nel pomeriggio del 25 luglio 1943, andò a villa Savoia.
Donna Rachele si sedette accanto al telefono, aspettando la chiamata che suo
marito le aveva promesso. A un certo punto il telefono squillò, ma non era la
voce del Duce quella che le sussurrò: «In questo momento lo hanno
arrestato». Lascio che sia lei stessa a proseguire: «Anche se me lo aspettavo,
rimasi pietrificata mentre la voce riprendeva: “Non posso dirvi di più,
avvertite subito i ragazzi a Riccione”. Romano e Anna Maria si trovavano
sulla Riviera adriatica, e io li chiamai immediatamente senza però riuscire a
mettermi in contatto con loro. Subito dopo telefonai al comando generale
della Milizia e all’ambasciata tedesca, ma nessuno sapeva nulla e non
vollero credere alla notizia dell’arresto del Duce. Il generale Galbiati,
comandante della Milizia, fu categorico: “Escludo il fatto, perché tutto è
calmo in città. Qualcuno vi ha mentito”».
Passò qualche minuto; poi, a conferma che qualcosa di grave era accaduto,
un camion di carabinieri si fermò davanti a villa Torlonia. Un ufficiale
ordinò agli agenti di guardia di lasciare immediatamente il posto. Rimasero
solo un agente e due telefonisti disarmati. «Se in quel momento qualcuno
avesse voluto assalire villa Torlonia», donna Rachele ha ricordato, «avrebbe
potuto farlo tranquillamente. Affranta, mi lasciai cadere su una panchina del
parco. Accanto a me era Buffarini Guidi, l’ex segretario agli Interni che
aveva partecipato al Gran Consiglio ed era venuto a riferirmene. Poveretto:
stravolto, beveva cognac e aveva continui malori».
Squillò il telefono e mia nonna, finalmente, sentì la voce di mio padre
Romano. Lui e Anna Maria si trovavano a Riccione con Ola, la moglie di
Vittorio, e Gina, vedova di Bruno.
Mio padre non sospettava di nulla: aveva chiamato donna Rachele solo
perché voleva andare al cinema e Ola glielo aveva proibito. La nonna,
sapendo che la linea su cui mio padre aveva chiamato era controllata, cercò
di dirgli per accenni quello che era successo. «Fui però così poco chiara», ha
ricordato, «che Romano non capì nulla e riferì alla sorella che io temevo un
bombardamento su Riccione». Poi la radio cominciò a trasmettere i
comunicati con cui si annunciavano le «dimissioni» del Cavalier Benito
Mussolini e la nomina di Pietro Badoglio a nuovo capo del governo. Durante
la notte arrivarono a villa Torlonia le voci e le grida della gente che insultava
mio nonno e inneggiava al re e a Badoglio Mia nonna non aveva paura.
L’unica cosa che le importava era avere notizie del marito. Il desiderio di
donna Rachele fu esaudito solo il mattino del 26 luglio: «La manicure della
principessa Mafalda di Savoia mi consegnò una lettera in cui la figlia del re
si diceva addolorata per quanto era accaduto e mi tranquillizzava
assicurandomi che mio marito era vivo e non correva pericoli».
Rachele Mussolini (2. continua)
Il memoriale di Rachele Mussolini. La terza parte in versione integrale
Villa Carpena (Forlì): Rachele Mussolini posa per Oggi davanti a Villa
Carpena. Rachele Jr. ha gli stessi capelli biondi della nonna
Rachele Mussolini jr è nata nel 1974 a Wimbledon, in Inghilterra. Laureata
in Sociologia, vive a Roma con la madre Carla Puccini che il padre Romano
(penultimo dei cinque figli del Duce e di Donna Rachele) sposò dopo il
divorzio da Maria Scicolone (che gli aveva dato due figlie, Alessandra ed
Elisabetta). Nelle prime due puntate del suo memoriale, Rachele jr ha
ricordato la tempestosa vicenda d’amore che portò al matrimonio dei nonni.
Ha quindi ricostruito, con particolari inediti appresi dal padre, le relazioni
extra-coniugali del Duce e i drammatici avvenimenti del 25 luglio 1943,
quando Mussolini fu arrestato per ordine del re Vittorio Emanuele III.
Benedetto Mosca
LA TERZA PUNTATA DEL MEMORIALE
(LEGGI LA PRIMA PARTE DEL MEMORIALE E
LA SECONDA PARTE)
L a vita di mia nonna Rachele è un romanzo. Per decenni moglie nell’ombra
dell’uomo più potente d’Italia, pochi sanno quanto anche lei sia stata una
protagonista. Come pochi immaginano fino a che punto abbia sofferto: per
gelosia, certo; ma soprattutto perché non poteva essere d’aiuto a suo marito,
che di giorno in giorno vedeva avvicinarsi al baratro. «Fermati», era
l’invocazione di Donna Rachele, «fermati e stammi a sentire, Benito». Fino
a che venne il giorno in cui lui - finalmente! - avrebbe voluto ascoltarla. Ma
era tardi.
I ricordi che state leggendo sono il cuore del romanzo di Donna Rachele.
Nel quale c’è di tutto: intrighi e amori proibiti, scenette di vita familiare e
pagine di storia. C’è perfino un capitolo, pochissimo conosciuto, dedicato a
Padre Pio. Proprio a lui, il Santo di Pietrelcina al quale mia nonna chiese
aiuto nel 1945, quando rimase vedova. «Per tanti anni le nostre strade»,
diceva a proposito di Padre Pio, «sono corse parallele senza incrociarsi. Poi
però l’incontro c’è stato». E raccontava come accadde.
“QUANDO VIDE NASCERE EDDA, BENITO SVENNE”
Alla nonna piaceva raccontare la nascita dei suoi due figli più giovani, mio
padre Romano e mia zia Anna Maria. Lui nel 1927 e lei nel 1929, entrambi
avevano visto la luce a Carpena, nella grande villa a pochi chilometri da
Forlì che Donna Rachele aveva comperato con i soldi guadagnati dal marito
come direttore dell’Avanti!. Ne aveva preso possesso nel 1924, l’anno in cui
Giacomo Matteotti fu ucciso dai fascisti e in tutta Italia scoppiarono violente
manifestazioni.
Anche per motivi di sicurezza Donna Rachele decise di trasferirsi in
campagna con i figli, lasciando la casa di via Mario Pagano a Milano. «Ogni
volta che uno dei nostri figli veniva al mondo», mia nonna diceva con la sua
pungente ironia romagnola, «il Duce combinava un mezzo disastro. Volle a
tutti i costi assistere alla nascita di Edda, la maggiore, ma non sentì il suo
primo vagito perché era svenuto per l’emozione. Non vide nascere né
Vittorio né Bruno perché era impegnato a Roma. Giurò allora che si sarebbe
rifatto “con i prossimi figli”, ma anche con Romano e Anna Maria gli andò
storta».
Nonna Rachele non faceva mai drammi. Ma certo non dovette essere facile
per lei tenere a bada il celebre marito che, appena la sapeva incinta, le
inviava «ondate», come lei diceva, «di ginecologi, ostetriche e ogni genere
di esperti che si disputavano l’onore di far nascere un Mussolini». Quando
nacque mio padre Romano, il Duce arrivò a Carpena da Roma al volante
della sua Alfa Romeo, impiegando appena cinque ore. Entrò trafelato nella
villa e domandò: «Dov’è il bambino?». Rimase malissimo quando seppe che
non era ancora nato. «E adesso come si fa?», disse. «Io ho già annunciato la
sua nascita alla Stefani...» (l’agenzia stampa italiana, progenitrice
dell’Ansa). Erano le 11 di sera. Qualcuno chiamò alla Stefani il caposervizio
di turno, pregandolo di fermare la notizia. Tranquillizzato, mio nonno si
sdraiò vestito su un divano nella stanza accanto a quello della moglie. «Mi
riposo mezz’ora», disse, «ma mi raccomando: svegliatemi quando è il
momento».
NON LO SVEGLIARONO PER IL PARTO DI MIO PADRE
A mezzanotte in punto la levatrice lo svegliò. Mio padre era già nato da
mezz’ora. Era stato lavato e vestito e mia nonna sentì attraverso la parete la
sfuriata del Duce. «In quel momento giurai a me stessa», raccontava, «che la
successiva nascita si sarebbe svolta a modo mio: Benito lo avrebbe saputo
solo a cose fatte. Così, quando nel settembre 1929 il ginecologo mi avvertì
che la mia quinta maternità era imminente, mentii a mio marito dicendogli
che l’evento era ancora lontano. Due giorni dopo, il 3 settembre, nacque
Anna Maria. Solo allora chiamai Benito al telefono e gli dissi
semplicemente: “È nata”. “Chi?”. “La bambina”. “Ma quale bambina?”. “La
nostra, quella che volevi. Adesso al nome pensaci tu”».
Mio nonno fu velocissimo e il giorno dopo i giornali pubblicarono che alla
nuova nata era stato imposto il nome di Anna Maria, «come da lungo tempo
il Duce aveva stabilito in ricordo della sua mamma».
Fu anche grazie a mia zia Anna Maria che la famiglia Mussolini si riunì a
Roma. Villa Carpena piaceva a tutti, ma il Duce voleva i figli accanto a sé,
«almeno nelle poche ore», diceva, «che il lavoro mi lascia libere». Così,
quando si seppe che cercava casa a Roma, in molti fecero a gara per
offrirgliene una. Raccontava mio padre: «La spuntò il principe Giovanni
Torlonia e a tua nonna venne da ridere perché da noi in Romagna, dove i
Torlonia avevano grandi proprietà terriere, c’era un detto con cui si prendeva
in giro chi si dava troppe arie: “Ma chi ti credi di essere, il principe
Torlonia?”. E proprio a noi toccava andare a vivere nella sua villa
romana…».
ANNA MARIA GRIDAVA: “PREFERISCO MORIRE!”
Povera zia Anna Maria. La sua storia, che mio padre mi raccontava senza
riuscire a trattenere le lacrime, mi ha rattristata fin da bambina. Nata due
anni dopo Romano, era forte e robusta: sembrava la sua gemella. Stavano
sempre insieme e giocavano tra loro, anche perché c’era una gran differenza
d’età con i tre fratelli maggiori. Anna Maria era estroversa, fin troppo
ingenua e sincera. In famiglia erano famosi i suoi temi in classe. Mio padre
me ne ha mostrato uno, intitolato Che cosa farò da grande, che cominciava
così: «Vorrei tanto fare il pilota d’aeroplano come i miei fratelli più grandi,
Vittorio e Bruno, ma purtroppo il babbo e la mamma me lo impediscono». E
un’altra volta: «Amo Mussolini perché è il Duce e anche perché è il mio
papà».
A sette anni mia zia si ammalò di pertosse e, come a quel tempo si usava, le
fecero «cambiare aria». Venne portata a Tivoli, in un antico palazzo
appartenuto ai papi, ma anziché guarire fu colpita da una malattia molto più
grave, la poliomielite. Gambe e braccia rimasero paralizzate; cominciò il suo
calvario. So che mio nonno, quando i giornalisti della stampa estera gli
consegnarono una bambola per lei, riuscì solo a sorridere e disse a Dino
Alfieri, il sottosegretario alla propaganda che lo accompagnava: «Ringraziali
tu, io non ce la faccio a parlare». Il diario di mia nonna rispecchia la
disperazione di quei giorni: «2 giugno 1936. Ancora nessuna speranza.
Benito è prostrato. Oggi è rimasto sconvolto dalle parole che Anna Maria ha
gridato quando lo ha visto: “Papà, se devo rimanere paralizzata per tutta la
vita, preferisco morire”».
Seguono giorni terribili. Ha raccontato mio padre: «Bastava un niente perché
al Duce saltassero i nervi. Il 7 giugno ‘36 all’improvviso, mentre i tuoi nonni
erano seduti accanto al letto di Anna Maria, un colpo di vento spalancò una
finestra. Il Duce si alzò di scatto urlando: “Chiudetela, il vento porta via la
mia bambina!”».
A SAN GIOVANNI ROTONDO SI PREGÒ PER LA BAMBINA
È il 20 giugno 1936 quando i professori Ronchi, Serena e Valagussa, che
curano Anna Maria senza nascondere di non avere speranza di guarirla,
inaspettatamente dicono ai miei nonni che c’è stato un miglioramento. «Un
miracolo», annota donna Rachele nel suo diario, «in casa tutti lo crediamo!».
Occorre dire, pur con tutte le cautele e prudenze del caso, che il giorno
prima era stata chiesta l’intercessione di Padre Pio di Pietrelcina, per il quale
sia Donna Rachele sia Benito (e in seguito anche mio padre Romano)
avevano una particolare devozione. Tutti i frati del convento di San
Giovanni Rotondo avevano pregato per la guarigione di Anna Maria.
Diceva mio padre: «Evidentemente, avevano avuto successo». E mi
raccontava che in un’altra occasione, prevedendo un attentato a mio nonno,
Padre Pio aveva detto ai confratelli: «Preghiamo per lui, perché la sua vita è
in pericolo».
Anche il Duce credeva che qualcosa di soprannaturale fosse intervenuto per
salvare la vita ad Anna Maria: Donna Rachele lo vide nella sua camera
mentre baciava il rosario di sua madre, che teneva sempre sul comodino. Fu
in quei giorni che alla figlia, ormai non più in pericolo di vita, mio nonno
diede il soprannome di «Piccolo fiore scampato alla malattia».
Ma la convalescenza fu lunga e penosa. Prima in carrozzella e quindi su una
sedia a rotelle più leggera, ma sempre oppressa da un pesante busto di gesso,
Anna Maria veniva spinta lungo i viali del giardino di villa Torlonia. E
quando rientrava per affrontare le lunghe ore del crepuscolo e quelle
interminabili della notte, fra le centinaia di giocattoli arrivati da tutto il
mondo sceglieva sempre una bambola parlante donatale dalla regina Elena e
un Topolino gigante speditole personalmente da Walt Disney.
MIA NONNA FU RICEVUTA DAL FUTURO SANTO
Ora, nel romanzo di Donna Rachele, faccio un salto avanti nel tempo.
Arriviamo al luglio 1945 quando lei, catturata a Como dai partigiani assieme
ai figli Romano e Anna Maria, prima è consegnata agli Alleati e poi - dopo
essere stata in un campo di concentramento inglese a Terni - viene confinata
a Forio d’Ischia. È qui che matura il suo incontro, lungamente desiderato,
con Padre Pio. Da quando era rimasta vedova, la nonna aveva continuato a
sognare il marito. Più che sogni erano visioni: si parlavano, lui le raccontava,
le faceva coraggio e le dava consigli. La mattina seguente lei riferiva la
«visita» ai figli, commentandola con loro. «La prima volta», mio padre ha
ricordato, «il Duce le era apparso triste e con la giacca trapassata dai
proiettili; in seguito le si era invece mostrato più sereno e in abiti normali.
Infine si era trasformato: bello, giovane, con i capelli neri e i baffi, com’era
nella foto che donna Rachele teneva in camera sua». Ecco che le si avvicina
sorridendo e le dice: «Qui c’è una gran pace, Rachele, qui non ci sono
rancori…». E lei, commossa, pensa: se ha un’aria così serena non può essere
un’anima del Purgatorio, e tanto meno dell’Inferno, vuol dire che è stato
accolto dal Signore. Donna Rachele voleva però che qualcuno d’autorevole
le confermasse ciò che pensava, «e così decisi», ha raccontato, «di andare
dall’unico sant’uomo di cui davvero mi fidassi: Padre Pio, che con la sua
intercessione aveva salvato Anna Maria».
"HA SALVATO L’ ANIMA?" "NON VE LO HA GIÀ DETTO?"
Nonna Rachele si fece accompagnare in macchina a San Giovanni Rotondo,
assistette alla Messa celebrata dal futuro Santo e ottenne udienza da lui.
Ecco il suo ricordo. «Mi presentai: “Sono la vedova di Mussolini”. Rispose:
“Lo so”. Domandai: “Che ne è di mio marito? Ha salvato la sua anima?”. E
lui: perché lo chiedete a me? Non ve lo ha già detto lui quando è venuto a
trovarvi? Alzatevi, donna pia, e andate in pace”».
Rachele Mussolini