pomeriggio alle antiche terme

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Cristina Preti, racconti al femminile. Tre racconti, tre donne, tre frammenti di vita. Gli struggimenti della giovinezza, quando un invito a una festa o un saluto scambiato in biblioteca rappresentano avvenimenti di incommensurabile rilievo. La leggerezza di una relazione con un signore dalla risata sonora, che legge gli oroscopi e ha una passione smodata per le sagre paesane; niente di più consolante dopo molti anni trascorsi accanto a un intellettuale colto e polemico. L’incontro improbabile tra una matura madre di famiglia afflitta da problemi di linea e un trentenne neolaureato, pronti entrambi a lasciarsi andare a una qualche forma di pazzia. Tre racconti, tre donne, tre frammenti di vita. Poiché niente è più perfetto di quei momenti in cui tutte le prospettive sono aperte, tutte le ipotesi sono possibili, ma tutte le strade per la felicità sembrano pericolosamente precluse.

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In uscita il 30/4/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2015

(3,99 euro)

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Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita.

La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi

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La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.

CRISTINA PRETI

POMERIGGIO ALLE ANTICHE TERME

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POMERIGGIO ALLE ANTICHE TERME Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-879-4 Copertina: immagine Shutterstock

Prima edizione Aprile 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

A Raffaele

NON HO MAI TRADITO LA MIA GIOVINEZZA

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Per stimolare la fantasia dei suoi allievi la nostra insegnante di i-taliano delle scuole medie, l’indimenticabile professoressa Mala-volti, era solita assegnare compiti piuttosto strani. Capitò un peri-odo in cui i titoli dei temi che dovevamo svolgere iniziavano im-mancabilmente così: “Scrivete un componimento di fantasia, in cui compaiano…” e qui seguiva un breve elenco di oggetti e di elementi male assortiti, tre, quattro, cinque al massimo, che dav-vero non avevano alcuna relazione l’uno con l’altro, e che noi al-lievi dovevamo forzosamente ricomprendere in una storia che a-vesse un senso. Detto così, potrebbe sembrare non eccessivamen-te complicato. Ma sfido chiunque a escogitare una trama plausibi-le in cui trovino posto un pianoforte a coda, un paio di forbicine da unghie, un fungo velenoso, un vasetto di marmellata… Mi è capitato spesso di ripensare a quei componimenti dagli in-trecci strampalati, e crescendo mi sono accorta che non di rado la vita si diverte a creare nel corso del tempo legami assai più biz-zarri e impensabili tra persone, cose e situazioni; solo che la tra-ma non si svolge e si risolve nel giro di tre o quattro pagine di quaderno, ma può impiegare anche molto tempo a dipanarsi. A volte si estende nell’arco di decine di anni… o di una vita intera. E così stamani mattina, dopo che il signor Ludovisi è uscito dal mio ufficio trascinando le gambe con la tipica andatura dei vecchi e io ho richiuso la porta alle sue spalle, mi sono ricordata dei compiti della Malavolti e mi sono detta: “come sarebbe contenta

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la mia vecchia prof se le presentassi un tema in cui compaiono un bel ragazzo dallo sguardo affascinante, appassionato di moto e di serate in discoteca, una incisione del Rigoletto di Giuseppe Verdi diretto da Muti alla Scala nel 1988, e un macellaio in pensione con la moglie gravemente ammalata” …solo che non si trattereb-be di un componimento di fantasia, ma semplicemente del rac-conto di alcune vicende che mi sono davvero capitate e dell’intreccio dei destini dei loro protagonisti. Me compresa. Ecco i personaggi di questa storia, in ordine di apparizione: A. la scrivente, in varie fasi della sua vita; B. il migliore amico di suo marito, che fa il biologo in un la-boratorio di analisi ma a tempo perso si esibisce come percussio-nista e cantante nel gruppo folk/rock/pop Mine vaganti (conve-niamo che il suo nome sia Filippo); C. un ragazzo alto alto e magro magro, con gli occhiali, in gioventù musicista senza convinzione e senza talento, che al mo-mento giusto si rivelerà molto versato nell’ingegneria (Michele); D. un ragazzo dallo sguardo interessante e dal carattere om-broso che maturando diventerà più socievole anche se inizierà a perdere i capelli (chiamiamolo Pietro); E. un suo amico, dallo sguardo probabilmente interessante ma nascosto da un paio di occhiali cerchiati di scuro, capelli biondo-cenere, alto, magro, talmente taciturno da poter sembrare muto, di cui conosco il cognome (Visconti) e il soprannome che ne è derivato, a dire il vero ben poco originale (Visconte); F. i fratelli Lupi, amici di Michele, di Pietro e del Visconte, che nella mansarda di casa loro avevano allestito in gioventù una mini-discoteca denominata La Tana del Lupo; G. una ragazza un po’ mascolina e competitiva, con il vizio di corteggiare spudoratamente i ragazzi che le interessano (Ani-ta);

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H. un anziano macellaio in pensione, la cui moglie grave-mente ammalata necessita di assistenza continua (Signor Ludovi-si e signora); I. vari altri personaggi minori, vale a dire un organista, un marito, una moglie, alcuni bambini, colleghi d’ufficio, una segre-taria, amici di gioventù, ecc. La storia si svolge in un paio di cittadine della Toscana in un arco di tempo che va dal 1982 al 2007, e a raccontarla inizio da una sera di una domenica d’inverno, quella di ieri appunto, quando in una casa surriscaldata del centro di E. due famiglie consumano una cena a base di pasta al pomodoro e pizza. I bambini fanno un gran chiasso, noi adulti scambiamo chiacchie-re e battute cercando di mangiare e contemporaneamente star die-tro ai figli e seguire alla TV un film che parla della crisi della fa-miglia. Trama: una donna di mezz’età scopre che il marito la tra-disce con una ragazza giovane e bellissima ma - e non c’era da dubitarne - molto ignorante e superficiale. Purtroppo da quel fati-dico momento tutti i personaggi del film hanno iniziato a gridare smodatamente e l’intreccio si è arenato in un vortice di accuse, minacce, insulti e imprecazioni. I personaggi non fanno che pro-ferire espressioni volgari e colorite che puntualmente riecheggia-no nei momenti in cui i bambini si sono zittiti all’improvviso e nella stanza da pranzo della casa surriscaldata regna il più assolu-to dei silenzi. «Bambini andate in salotto a giocare!» grida papà Filippo con la sua voce baritonale avvezza a intonare suadenti swing, i cavalli di battaglia delle Mine vaganti. Ma i piccoli non obbediscono. Hanno capito che se li si vuole mandare via c’è qualcosa di interessante alla TV, e per niente al mondo perderebbero l’occasione di imparare qualche nuovo brut-to vocabolo con cui stupire tutti gli altri bambini della scuola.

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Mi alzo risoluta e spengo la televisione. Non sono a casa mia, ma il grado di amicizia e confidenza che mi lega a Filippo e a sua moglie è così alto che so di potermi permettere questo gesto. «Andate di là, che tanto avete finito di mangiare. Vi chiamiamo per il gelato.» Il gelato non c’è, ma quei discoli non si allontanerebbero mai se non avessero almeno uno straccio di prospettiva di poter tornare di nuovo a far baccano. E comunque del gelato si saranno dimenticati tra pochi secondi. I bambini corrono via lanciando grida selvagge. Improvvisamente nella stanza c’è un gran silenzio, disturbato soltanto dal sommes-so crocchiare delle ultime croste di pizza sotto i denti di mio ma-rito e di Isabella, moglie di Filippo. Il quale tira un gran sospiro di sollievo e visto che la cena è dav-vero finita si alza e va verso i fornelli. Soltanto io e lui beviamo il caffè a cena, dato che sia mio marito che Isabella sono ipersensibili all’effetto eccitante della caffeina e vogliono evitare nottate insonni. Questo Filippo lo sa benissimo; ma comunque, obbedendo a un vecchio rito, mentre svita la moka chiede: «Chi prende il caffè?» Mi alzo e riaccendo la televisione, a volume bassissimo. La piccola Betti si è addormentata dietro al divano, nel bel mezzo di una furibonda sfida a nascondino. Giorgino e Mimma sbadi-gliano di gusto distesi sul tappeto tra cuscini, Barbie variamente mutilate e pupazzi d’ogni genere. È l’ora di andare a casa. Doma-ni è lunedì, ci aspetta - mi aspetta - una terribile giornata di lavo-ro, preludio a una terribile settimana densa di impegni stressanti. Unica consolazione, la prospettiva delle prove di canto con il Co-ro del Santissimo Crocifisso, lunedì e giovedì sera. “L’uomo è fatto per lavorare?” mi chiedo mentre mi infilo il cappotto e contemporaneamente cerco di infilare il suo al ciondo-lante Giorgino.

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Ovviamente no. L’uomo nella sua essenza più intima è assoluta-mente disinteressato al lavoro in quanto tale. L’uomo ama creare, comunicare, esprimere, amare, magari tramare e intrigare, ma in quanto a lavorare lo fa soltanto perché costretto. Lasciato a se stesso, l’uomo non lavorerebbe di certo. “Di certo non lavorerei io” penso con amarezza, e mi tornano in mente in un flash improvviso e struggente certi lunghi pomeriggi invernali di quando ero piccola come Giorgino e trascorrevo ore intere ad annoiarmi e a giocare con il gatto. Stiamo sbadigliando gli ultimi saluti ed ecco che Filippo ha come uno scatto improvviso e si lancia verso uno scaffale dell’ingresso tirandone fuori due cofanetti, inconfondibili contenitori di vecchi dischi in vinile. Me li porge. «Li vuoi? Me li ha dati Pietro, che ha fatto un po’ di pulizia in ca-sa sua e questi li voleva gettare via.» Pietro? Guardo i cofanetti: un Rigoletto diretto da Muti alla Scala nel 1988 (Pietro?) e un Don Quichotte di Massenet con Nicolai Ghiaurov. Pietro? Non posso fare a meno di dimostrare tutto il mio stupore. «Pietro ascolta questa musica?» «Non credo proprio. Aveva questi dischi in casa, tutto qua.» «Perché li dai a me? Tu non li vuoi?» «Ma nemmeno per sogno.» Filippo ha amato la musica classica, e sopportato la lirica, soltan-to in una breve stagione della sua vita, coincidente più o meno con l’epoca del suo fidanzamento con Mirella. Chiuso quel perio-do, si è definitivamente votato al folk-pop e ha fondato le Mine vaganti. «E così vedi ancora Pietro» dico voltando i cofanetti per leggere i particolari delle incisioni. «Ogni tanto. Sono stato a trovarlo l’altro giorno, si è rotto una gamba. È ospite da suo fratello, i suoi sono troppo anziani per as-sisterlo.» «Cosa fa? Nella vita, intendo.»

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«Le stesse cose.» Le stesse cose. Cioè non si è sposato, non si è fidanzato, abita an-cora con i suoi genitori e lavora come biologo in un laboratorio di analisi concorrente con quello presso il quale lavora Filippo. Un ragazzo dallo sguardo interessante e dal carattere ombroso che, maturando, diventerà più socievole anche se inizierà a per-dere i capelli. Questo è Pietro. Son più di vent’anni che lo cono-sco, o per meglio dire che so chi è; si tratta infatti di una di quelle conoscenze marginali che ogni tanto si affacciano nella nostra vi-ta senza mai assumere la dimensione di una vera e propria amici-zia, ma che si configurano comunque come qualcosa di più di una trascurabile conoscenza, di una semplice comparsa. Per parlare del modo in cui sono venuta in contatto con Pietro de-vo non solo tornare indietro di più di vent’anni, ma anche intro-durre vari personaggi. Il primo è Michele, un ragazzo alto alto e magro magro, con gli occhiali, in gioventù musicista senza con-vinzione e senza talento, molto versato nell’ingegneria… nel 1982 l’ingegneria non era quasi certamente nei suoi pensieri dato che, se non sbaglio i conti, a quell’epoca aveva sedici anni ed era ancora al liceo… e io ero di un anno più giovane di lui… Ecco una chiesa nel centro di E., una domenica pomeriggio; cele-brazione della Messa. Anima la liturgia il glorioso coro cittadino del Santissimo Crocifisso, nel quale canto da un paio d’anni. So-no entrata a farne parte prima di tutto perché mi ci ha portato la mia mamma, poi perché ho scoperto che cantare mi piace immen-samente. La celebrazione in sé mi annoia da morire, e cerco di ingannare il tempo che passa tra un brano e l’altro chiacchierando sottovoce con le altre coriste, osservando la gente seduta sulle panche, scambiando qualche scherzo a distanza con il giovane organista, che ha due o tre anni più di me e già manifesta i sintomi di una preoccupante forma di totale estraneità agli standard mentali della gente normale.

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Non è solo, ha con sé il suo personale “voltapagine”; questo ra-gazzo è Michele ma io ancora non lo so, nessuno ci ha presentati e non è certo il tipo capace di suscitare particolare interesse; è uno stecco allampanato tutto vestito di beige, per di più con un paio di occhiali enormi che gli coprono mezza faccia. Qualche giorno dopo sto parcheggiando il motorino davanti al li-ceo quando il rumore assordante di una marmitta sfondata mi fa volgere lo sguardo verso la strada. Su un incredibile macinino a due ruote color viola - sissignori, viola - sta sfrecciando davanti a me Michele, con il volto seminascosto da un cappello di lana la-vorato a mano con tanto di ponpon sulla vetta. Una sciarpa a ri-ghe con lunghissime frange finali sventola dietro di lui come una bandiera; nel complesso sembra un personaggio dei fumetti. La visione è quanto di meno glamour si possa immaginare e mi volto immediatamente nel timore che lui, riconoscendomi, magari si fermi e si avvicini facendomi così fare una figura magistrale con le mie compagne che stanno sistemando vicino a me motorini e biciclette. Già il fatto di frequentare il Coro del Santissimo Cro-cifisso, dove l’età media dei componenti si aggira intorno ai qua-rant’anni, getta una luce sinistra sulla mia reputazione; ci man-cherebbe altro che iniziassi a farmi vedere in compagnia di simili tangheri, e nessuno vorrebbe più avere nulla a che fare con me. Ma evidentemente i miei movimenti non sono stati sufficiente-mente tempestivi. Infatti alla prima occasione - cioè l’ennesima Messa - Michele approfitta di un momento in cui il coro non can-ta per avvicinarsi a me e mormorare: «Perché l’altro giorno ti sei voltata senza salutarmi, facendo finta di non conoscermi?» Sorrido rassegnata. È l’inizio della nostra amicizia, tutto sommato profonda e non banale, destinata a riaffiorare periodicamente nel corso di tutti questi anni, senza mai avere il carattere della continuità. In quella prima fase io e Michele ci frequentammo soprattutto per motivi,

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diciamo così, musicali; si organizzavano, con il suo amico orga-nista e qualche altra corista tra le più giovani, delle riunioni a ca-sa sua, dove intorno a un pianoforte malamente strimpellato da chiunque del gruppo sapesse muovere due dita sulla tastiera si cantavano le canzoni dei Beatles, di Battisti, di Baglioni ma an-che qualche romanza d’opera. Temerariamente, con le nostre voci ancora quasi bianche e del tutto ignare dei benché minimi rudi-menti di tecnica vocale, intonavamo le grandi arie delle eroine pucciniane, con risultati che nel ricordo sembrano accettabili, ma che probabilmente saranno stati a dir poco agghiaccianti. Nasceva a quell’epoca il mio amore per la lirica e il melodramma, e il suo primo nutrimento furono appunto quelle casalinghe esibizioni da Michele, il quale, ancora confuso su cosa avrebbe fatto nella vita, credeva in quel momento di essere destinato alla carriera di musi-cista classico e si ingegnava di cavar fuori dal pianoforte accordi il meno dissonanti possibile. Una sera mi ritrovai a casa sua, con un gruppo variegato di ragaz-zi e ragazze, per assistere tutti insieme a un programma televisivo che per Michele e i suoi amici era un vero e proprio cult: Drive In. Eravamo almeno in dodici accatastati sugli unici due divani della stanza, e per la prima volta da quando frequentavo Michele in-contrai i suoi compagni di liceo. Tra loro c’era anche Pietro; lo notai in virtù del citato sguardo interessante ma non ci scambiai nemmeno una parola, in virtù di quell’altrettanto citato carattere ombroso che lo faceva sembrare particolarmente sulle sue. Un ra-gazzo conscio delle proprie attrattive che ci teneva a darsi un tono e che, elegante nel suo curato abbigliamento sportivo, non si ca-piva proprio cosa avesse da spartire con quel bonaccione di Mi-chele il quale, infagottato in un maglione beige lavorato a mano, il volto deturpato dall’acne, gli occhiali spessi come fondi di bic-chiere, continuava a bere incessantemente Coca Cola e si sgan-gherava dalle risate alle battute dei comici del Drive In.

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Con Pietro fa la sua comparsa in questa storia anche il suo amico Visconte, impenetrabile e misterioso dietro ai suoi occhiali cer-chiati in nero; eccolo sul divano semisepolto tra gli amici, che guarda distratto la televisione lasciandosi scappare un sorriso o-gni tanto; ed ecco anche i fratelli Lupi, il cui maggiore è compa-gno di classe di Michele, Pietro e il Visconte, e il cui minore, per quanto fastidiosamente piccolo, è ammesso a far parte della com-pagnia grazie all’illustre parentela. Da questi amici di Michele sono intimidita. Da diverso tempo, ormai, gli ambienti che frequento a parte la scuola sono quelli del Coro del Santissimo Crocifisso, di qualche amica che suona il pianoforte e con cui mi diverto a cantare, della Scuola di Musica dove prendo lezioni di pianoforte e solfeggio e dove ho conosciu-to altre persone appassionate di musica con le quali ho iniziato ad andare ad assistere a concerti e opere. Un insieme di elementi che in un certo senso mi allontana dalla modernità, o me la fa comun-que approcciare dalla parte meno consueta. Loro invece, gli amici di Michele, con il loro abbigliamento trendy, il loro gergo alla moda e i riferimenti a locali di tendenza e alla musica del mo-mento, sono perfettamente calati nel presente, e lo sono dalla par-te giusta. Al Drive In un comico parla di paninari e improvvisamente mi interrogo sull’appropriatezza del mio abbigliamento; indosso un golfino bianco chiuso sul collo da un fiocco di raso, una gonna nera di velluto liscio, stretta e lunga fino alle caviglie, scarpe nere col mezzo tacco. Ho i capelli legati con un nastro pieno di brillan-tini. Sembro pronta per assistere a un recital pianistico, altro che Drive In. La mia sensazione di disagio aumenta; quando la serata finisce e ci si scambiano saluti e buonanotte mi sento decisamente sollevata. Per lungo tempo non vedrò più i prestigiosi, moderni amici di Michele e anche con lui, lentamente, diminuiscono i contatti; do-po aver creduto di poter fare il musicista classico ha iniziato a credere di poter fare il musicista rock, ha fondato il gruppo Sezio-

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ne Aurea e si è avvicinato ad ambienti lontani dal mio. Fine (momentanea) delle trasmissioni. Il collegamento riprende in un anonimo sabato pomeriggio del giugno 1984. Entra in scena Anita, una ragazza un po’ mascolina e competitiva, con il vizio di corteggiare spudoratamente i ragaz-zi che le interessano, con la quale mi sto concedendo un tranquil-lo giro nel centro di E., senza una meta particolare. Anita non è una nuova conoscenza; abbiamo frequentato insieme le scuole e-lementari, ci siamo perse di vista alle medie e nei primi anni di liceo, poi casualmente ci siamo rincontrate, scoprendo di avere entrambe il gusto per la non-omologazione espressa praticando attività impopolari, frequentando ambienti dimessi e vestendoci sempre in modo contrario a quello che la gente si aspetterebbe da noi. Infatti in quel tranquillo sabato pomeriggio strapaesano cir-coliamo per le strade del centro, gremite di signore eleganti e di ragazzi tiratissimi, indossando lei una tuta da ginnastica più che sdrucita e io una strana camicetta nera con lo scollo a volants bordati di rosso che sembra perfetta per interpretare la Carmen. Entriamo in libreria e mentre scorriamo sugli espositori i titoli degli Oscar Mondadori in offerta si materializza improvvisamen-te davanti a me Michele, sempre più alto, sempre più secco e sempre meno presentabile. Sorride festoso e anch’io lo saluto con calore, presentandogli Anita che, lo capisco subito, dopo un rapi-do esame lo cataloga tra i tipi non interessanti e torna a occuparsi dei libri in offerta. Michele mi comunica di essere diventato maggiorenne da pochi giorni e di aver organizzato per il prossimo sabato una grandiosa festa di compleanno, animata dal suo gruppo rock Sezione Aurea. Perché non vado anch’io? E perché non porto con me anche Ani-ta? Io e la mia amica ci guardiamo. Perché no? Mentre Michele scompare all’improvviso così come era compar-so, io e Anita torniamo agli scaffali con maggior convinzione, da-

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to che adesso il nostro esame dei titoli esposti ha uno scopo ben preciso: trovare un regalo da portare al festeggiato. Il resto del pomeriggio se ne va in accese discussioni relative alla scelta del libro. Usciamo dal negozio con “La Boutique del Mistero”, di Dino Buzzati. Michele si è trasferito, non sta più nella casa che ero solita fre-quentare ai tempi in cui si cantava intorno al pianoforte e dove avevo assistito al Drive In in compagnia di Pietro, il Visconte e gli altri ragazzi; adesso abita in campagna, in una graziosa villet-ta, e ha organizzato la sua festa di compleanno nel grande giardi-no che la circonda. Quando io e Anita arriviamo c’è già tantissi-ma gente, gente di tutti i tipi, tanto che troviamo subito qualcuno con cui chiacchierare mentre Michele, scatenatissimo alle tastie-re, si esibisce con il suo gruppo su un palco improvvisato, indos-sando, con quel caldo, un improponibile gilet che sembra confe-zionato con una pelle di pecora non conciata. Di colpo dalla strada giunge un rombo di motore volutamente in-solente, e in brevissimo tempo la maggior parte degli invitati si riversa al cancello d’ingresso incapace di resistere a quel potente richiamo. Io e Anita ci guardiamo con aria interrogativa ma non cadiamo nella trappola, continuando a chiacchierare con i pochi superstiti e a mangiare panini imbottiti. Poi, quando la folla as-siepata al cancello si è un po’ diradata, ci avviciniamo con aria noncurante e guardiamo. Due giovani centauri permettono alla folla di bearsi della loro vi-sione, ostentando un’aria vagamente annoiata dall’alto delle selle delle loro Honda 500 nuove fiammanti. Li riconosco immediata-mente, sono Pietro e il Visconte. Anita smette di parlare e questo di per sé non sarebbe preoccupante, il fatto è che smette anche di mangiare e di interagire in un qualsivoglia modo con tutti i pre-senti limitandosi a restare in silenziosa adorazione dell’immagine dei due motociclisti inquadrati nel vano del cancello della casa di Michele. Anche dopo che, indossati con gesto elegante e sicuro i

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caschi neri, i due se ne sono andati rombando, Anita non riacqui-sta l’uso della parola. Soltanto mentre ce ne torniamo a casa a bordo delle nostre sgangherate biciclette trova la forza di confes-sarmi che uno di quei due motociclisti, per la precisione il moro, da lei casualmente notato tempo fa nei pressi del Bar Michi, è da tempo al centro dei suoi sogni; ma non ha finora trovato il modo di avvicinarlo, e non conoscendone il nome lo ha segretamente soprannominato Sguardo. Le dico che si chiama Pietro, che lo conosco perché l’ho incontra-to altre volte a casa di Michele (in realtà l’ho incontrato una sola volta, ma insomma, non è il caso di andare tanto per il sottile). Come per riscattarsi dal suo temporaneo mutismo, Anita inizia a parlare a macchinetta dicendo che Sguardo è irresistibile, appaga pienamente il suo senso estetico e lei vuole conoscerlo a ogni co-sto, vuole assolutamente diventare la sua ragazza, vuole amarlo per tutta la vita, sposarlo, farci dei figli, trascorrere gli anni della vecchiaia con lui davanti a un caminetto acceso. Cerco di ripor-tarla alla realtà, di farle notare la distanza esistente tra l’abbigliamento griffato di Sguardo-Pietro e i suoi pantaloni sbra-cati, tra la Honda 500 rossa fiammante e la sua cigolante biciclet-ta. Anita pare non sentirmi e tutto sommato sono contenta che non ribatta alle mie obiezioni; anche io, sia pur conscia dei miei limiti, non sono rimasta insensibile al fascino dei due belloni e il pensiero dei loro volti corrucciati e annoiati fa sensibilmente au-mentare l’intensità delle mie pedalate. Passa l’estate. A settembre, archiviati gli amorazzi estivi, ripren-de la stagione “vera”, quella autunno-inverno, che vede Anita impegnata in una furibonda caccia all’uomo. Io l’affianco mite-mente, consapevole che soltanto un miracolo potrebbe permet-termi un avvicinamento a Pietro il musone o all’impenetrabile Visconte. Per un certo periodo ci limitiamo a sperare in qualche incontro fortuito il sabato pomeriggio, in centro, dove ci ostiniamo a baz-

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zicare tutti gli ambienti più “in”, i bar più alla moda, i ritrovi ca-nonici della gioventù dorata della città. Ma non c’è niente da fare; è vero, qualche volta li abbiamo incontrati, sempre insieme, sem-pre immusoniti e scostanti. Ma cosa possiamo fare, così per stra-da, senza un pretesto per attaccare discorso, senza un valido mo-tivo per salutarli o scambiare due parole… fossero più comunica-tivi forse qualcosa potrebbe succedere, ma… Infine la mia amica, spazientita, inizia a dire che dovremmo ricor-rere a Michele, che è loro amico e che potrebbe essere una valida testa di ponte per un approccio significativo. Io mi sento in diffi-coltà, dato che anche i miei rapporti con Michele si sono molto diradati. Poi però il destino pare volerci aiutare, poiché per diver-se volte nelle nostre spedizioni del sabato pomeriggio incontria-mo proprio Michele, che da buon ragazzone qual è si intrattiene volentieri con noi, ci racconta tanti aneddoti di quello che accade nella sua classe nonché di come lui e i suoi compagni passano il tempo libero. Viene fuori che i fratelli Lupi, che io avevo incon-trato la lontana sera del Drive In, hanno allestito nella mansarda della loro casa una vera e propria discoteca, “La Tana del Lupo”, dove si ritrovano a ballare con i loro amici. Un pomeriggio, ca-sualmente, io e Anita incontriamo Michele in compagnia del maggiore dei fratelli Lupi, che pur non essendo un campione di simpatia è certamente più umano del terribile Sguardo e dell’altrettanto terribile Visconte, e dopo qualche chiacchiera, giudicandoci evidentemente degne di considerazione, ci invita ad andare a ballare nella sua Tana il prossimo sabato. Anita indossa un incredibile maglione giallo, verde e viola fatto a mano da sua nonna. Io ho cercato di sistemarmi il meglio possibi-le in vista dell’ambiente che ci aspetta, e sono indubbiamente più presentabile di lei, ma temo di riverberare i bagliori emanati dal suo maglione e quando varchiamo la fatidica soglia della Tana del Lupo sono pressoché paralizzata dall’imbarazzo.

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I presenti sono quasi tutti maschi, alcuni ballano un po’ svoglia-tamente al centro della stanza, ma la maggior parte di loro se ne sta stravaccata sui divani lungo le pareti fumando a più non pos-so. Le poche ragazze presenti sono bellissime, con grandi chiome permanentate, occhi truccati pesantemente, stivaletti neri troncati alla caviglia e a tacco alto dai quali escono calze finissime, deco-rate con brillantini. Una di loro, la più attraente, con una foltissima capigliatura rossa e ricciuta, resta a lungo in piedi vicina a delle ombre sedute nell’angolo più buio della stanza. Quando i miei occhi si sono a-bituati all’oscurità interrotta dalle sciabolate delle luci strobosco-piche mi rendo conto che i due sono Pietro e il Visconte. Il cuore comincia a battermi furiosamente in petto. Ma è l’unica emozione in tutta la serata. Io e Anita ci agitiamo freneticamente in mezzo alla stanza, chiacchieriamo a voce altis-sima, ridiamo sonoramente, facciamo le simpatiche con tutti ma niente riesce ad attirare l’attenzione di Pietro e del suo amico, o-stinatamente fermi nel loro angolo presso il quale si recano a tur-no, come in pio pellegrinaggio, le poche ragazze presenti, che e-videntemente sono loro amiche e si avvicinano disinvolte per scambiare con loro qualche chiacchiera. Ma io e Anita siamo per quei due delle perfette sconosciute, io li ho incontrati solo quella volta a casa di Michele e figuriamoci se si ricordano di me; non ce la sentiamo di andare lì a imporre la nostra presenza. O, per meglio dire, Anita avrebbe già preso l’iniziativa se non fossi stata io a fermarla, consigliandole di aspettare… se almeno si alzasse-ro, si avvicinassero loro, attaccassero discorso con un pretesto qualsiasi… ma queste sono cose che Pietro e il Visconte non fan-no. Quando a mezzanotte e mezzo, orario limite che sicuramente ci farà guadagnare dai nostri genitori una sonora risciacquata, io e Anita lasciamo La tana del Lupo, siamo al punto di partenza. Niente di fatto, e Anita è arrabbiatissima con me che, a suo dire, le ho tarpato le ali.

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Non ci vediamo per diverse settimane. Del resto io sono sempre più impegnata con il liceo e con il canto e preferisco frequentare ambienti in cui mi sento a mio agio piuttosto che La Tana del Lu-po, dove mi sono sentita così diversa e poco inserita. Devo ammettere però che né al liceo, né nel Coro del Santissimo Crocifisso né alla Scuola di Musica ci sono ragazzi affascinanti come Pietro e il Visconte. Per questo resta sempre, in un angolino del mio cervello, il desiderio di tornare alla Tana del Lupo, as-soggettandomi perfino a recitare la parte della ragazza alla moda, quale non sono affatto, pur di avere l’occasione di avvicinare quei tipi così interessanti. Ma se io mi sono dedicata a tutt’altro, Anita non ha mollato la presa e un sabato sera mi telefona in preda alla più acuta delle an-sie dicendomi che deve vedermi in tutti i modi. Tempo un quarto d’ora ed eccola a casa mia, quasi ansimante per l’agitazione. In poche parole mi spiega che un paio di sabati prima, in centro, è finalmente riuscita ad attaccare discorso con Sguardo - lei lo chiama ancora così - e persino ad avere il suo numero di telefono. E stasera, per placare le proprie smanie, lo ha chiamato e… lui le ha detto che non sarebbe uscito, che sarebbe rimasto in casa. Anita mi guarda. Io ricambio, con aria interrogativa. E allora? Allora dobbiamo assolutamente andare sotto la casa di Sguardo, sperando di incontrarlo. Ma come possiamo incontrarlo, se lui ha detto chiaramente che non ha intenzione di uscire?! Anita scrolla le spalle, evidentemente deve fare qualcosa, qualun-que cosa, altrimenti scoppierà. Accetto di accompagnarla, non so dove, non so a fare cosa, in nome dell’amicizia.

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Indossa una tuta da ginnastica azzurra con sopra un giubbetto im-bottito color argento metallizzato. «Infatti è di mio cugino» mi dice dopo che le ho fatto notare che il suo giubbetto è di foggia piuttosto maschile. La obbligo a indossare il mio cappottino sportivo, io chiedo in prestito un giaccone bianco-panna a mia madre e così agghindate, a bordo delle nostre solite biciclette, ci avventuriamo per strada, i fanali accesi nel buio di quello strano sabato sera invernale in cui gli uomini se ne stanno tranquilli al caldo delle loro case e le donne escono impavide per andarli a stanare. Io non ho la minima idea di dove abiti Pietro, ma Anita procede con sicurezza e io la seguo, chiedendomi quale figuraccia ci stia-mo apprestando a fare. A metà tragitto la mia amica lancia un grido e alcune colorite im-precazioni. Una falda del mio cappottino le è rimasta impigliata nella catena della bicicletta e lei non riesce assolutamente né a ri-prendere a pedalare né a far uscire la stoffa dall’ingranaggio. Sca-ravento la mia vecchia bici su un marciapiede, mi avvicino e cer-co di aiutarla, ma ogni nostro sforzo sembra vano fino a che un terribile straaappp ci avvisa della triste sorte toccata al mio cap-pottino. Anita tira su, lentamente, il lembo di stoffa ridotto a brandelli e chiedendomi scusa si issa nuovamente in sella e ri-prende a pedalare. La seguo dominando a stento il disappunto e ripromettendomi di non compiere mai più gesti gentili nei confronti di quella incredi-bile pasticciona. Siamo in pieno centro e Anita si dirige con sicurezza verso una stradina illuminata flebilmente da un unico lampione. Scende dal-la bicicletta e l’appoggia a un muro, invitandomi a fare altrettan-to. Poi indica in silenzio un’abitazione, facendomi capire che Sguardo abita lì. È una casa a due piani stretta tra altre case simi-li, di quelle da disegni dei bambini, con al piano terra il portone tra due finestre e al primo piano un terrazzino tra altre due fine-stre. Le persiane di una finestra al primo piano sono aperte, la-

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sciano indovinare una stanza illuminata da luci basse e calde. A-nita deduce che quella stanza sia la camera da letto di Sguardo, che appunto in quel momento se ne sta probabilmente comodo sul suo letto ad ascoltare musica o a leggere un buon libro. “Mentre noi siamo qui fuori come deficienti con i vestiti a bran-delli” non posso fare a meno di pensare, esagerando un po’ la si-tuazione. Guardo la mia amica. E ora? Lei non sa cosa rispondermi. Ci avviciniamo silenziosamente al portone, lei mi mostra il cam-panello su cui è scritto il cognome di Pietro. Ha un’aria enorme-mente soddisfatta ma io non posso fare a meno di ripetere: «E ora?» Anita pesticcia i piedi, fa qualche passo, torna indietro. «Vuoi suonare il campanello?» chiedo ironica. Scuote la testa, non è ardimentosa fino a questo punto. Si guarda in giro. È proprio una stradina del centro storico, malamente il-luminata, e non passa nessuno; non ci sono locali vicini, a quell’ora la gente se ne sta al cinema, o al ristorante, o in macchi-na in viaggio verso la discoteca. Anita saltella in mezzo alla stra-da ora su un piede, ora su un altro. Si avvicina a un cancello che si apre su un vialetto di ghiaia, si inginocchia per terra - tanto or-mai il cappotto è andato, penso io - insinua una mano tra le sbarre della ringhiera e prende una manciata di sassolini. Improvvisa-mente si volta verso la casa di Pietro, alza la mano destra e getta alcuni sassolini in direzione della finestra del primo piano. Apro la bocca per gridarle che è pazza ma sento lo scroscio causato dall’impatto della ghiaia sui vetri della finestra e scappo a na-scondermi dietro all’angolo dove abbiamo appoggiato le biciclet-te. Anita mi raggiunge e scoppiamo in un riso soffocato, guar-dando in direzione della casa di Pietro, certe che da un momento all’altro qualcuno si affaccerà gridando qualcosa. Passano dieci secondi, venti, trenta, un minuto, due minuti, e non succede nien-te. Anita torna alla carica e scaglia altri sassolini, correndo subito

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dopo a nascondersi. Ridiamo a più non posso, ma di nuovo non succede niente. La mia amica mi chiede se voglio provare io, anzi inizia a insistere pensando che forse il mio lancio sarà più fortu-nato e riuscirà ad attirare l’attenzione di Pietro. Mi rifiuto catego-ricamente. Sconsolata, ma non del tutto sfiduciata, Anita butta con forza un’altra manciata di ghiaia che provoca stavolta una ve-ra e propria grandinata sulla finestra del primo piano. Trattengo il fiato, la mia amica si accorge di aver esagerato e mi abbraccia si-lenziosa a occhi sgranati, il volto sbiancato, senza distogliere lo sguardo dalla finestra illuminata. Nulla. Alle undici inforchiamo di nuovo le biciclette e ce ne torniamo a casa. Restituisco ad Anita l’orribile giubbottino metallizzato di suo cugino e mentre cerco di escogitare qualche valida scusa per giustificare con mia madre il brutto strappo sul davanti del mio povero cappotto mi tolgo il giaccone bianco-panna e mi accorgo di averlo orribilmente macchiato di nero. Ho giurato di non vedere mai più Anita in vita mia, ed è soltanto con grande sforzo che un sabato pomeriggio accetto di parlarle al telefono dopo essermi fatta negare svariate volte. È nuovamente molto inquieta, mi racconta brevemente di aver proseguito i suoi tentativi di approccio e di aver finalmente otte-nuto dai fratelli Lupi, attraverso i buoni uffici di Michele, un invi-to per quella sera alla Tana del Lupo, un invito esteso anche a me. Non nascondo una certa irritazione e la esorto a spiegarsi meglio; Chi l’ha invitata, i fratelli Lupi o Michele? E cosa vuole dire che “l’invito è esteso anche a me”? E perché non vengo invitata direttamente, ma per interposta per-sona? E poi Michele è amico mio o suo? Non risponde a nessuna delle mie domande e sembra sull’orlo delle lacrime mentre insiste col dirmi che devo in ogni modo ac-compagnarla quella sera alla Tana. Non mi sbilancio, cerco di te-

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nere il punto e quando ci salutiamo non c’è nulla di deciso. Poco dopo mi telefona Michele, gioviale come suo solito, dicendomi che gli farebbe piacere che quella sera andassi alla Tana del Lupo insieme ad Anita, che - ma guarda un po’ - da qualche tempo in-contra continuamente fuori dal liceo, a fare la spesa, in biblioteca, in cartoleria. Nonostante tutto l’idea di Anita intabarrata nei sui fantasiosi giubbottini e appostata agli angoli delle strade in attesa del pas-saggio di Michele mi fa sorridere, e accetto l’invito. Alla Tana del Lupo tutto è come la prima volta che ci siamo an-date. Ci sono poche ragazze e i maschi se ne stanno a sedere sui divanetti osservando con aria annoiata quel che succede in mezzo alla stanza. Anita, forte dei risultati dei precedenti tentativi di ap-proccio, serata dei sassolini a parte, si avvicina decisa all’angolo di Pietro e del Visconte e vi si trattiene qualche minuto; ma poi la vedo tornare sui suoi passi, mogia mogia. A un certo punto arriva un gruppetto di ragazzi e ragazze un po’ più vivace, e la serata si anima all’improvviso; in molti iniziano a ballare, si odono risate e piccoli cori che accompagnano la musi-ca, e riusciamo a fare amicizia con diverse ragazze che, per quan-to molto meglio agghindate di noi e quindi esponenti di quell’ambiente giusto dal quale io e Anita ci sentiamo irrimedia-bilmente escluse, sono piuttosto simpatiche e non sembrano darsi delle arie particolari. Vedo a un certo punto che una di queste ra-gazze prende sottobraccio Anita e l’accompagna al solito angolo buio; mi distraggo per mettermi a chiacchierare con Michele, che mi parla della sua preparazione per l’esame di maturità e mi con-fida di non avere ancora nessuna idea sulla scelta della facoltà u-niversitaria, e quando mi volto sono scomparsi tutti, Pietro, il suo amico, Anita e l’altra ragazza. Faccio un giro per il locale, pesco delle patatine da una ciotola, ballo un lento con un tipo brufolosissimo e per di più senza men-to, particolare che rende il profilo del suo volto molto simile a

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quello di un pesce. Chiedo a Michele se sa dov’è andata Anita, lo chiedo al maggiore dei fratelli Lupi, poi al minore, nessuno l’ha vista. Faccio un nuovo giro di perlustrazione, poi un altro tipo orribile, questa volta senza collo e quindi con la testa avvitata direttamente sul tronco, mi si avvicina dicendomi che mi ha vista cantare nel Coro del Santissimo Crocifisso, e con questa scusa mi attacca un bottone micidiale che va avanti almeno per un’ora. È, così dice, un estimatore di musica classica e di canto corale, il quale però, ma tu guarda, non ha tempo per coltivare questa passione - e in-fatti dalle poche cose che si azzarda a dire si capisce subito che di musica non sa assolutamente niente - ma ha una tale parlantina che è evidentemente capace di imbastire una conversazione sugli argomenti più disparati senza saperne alcunché. A dire il vero più che una conversazione si tratta di una sorta di monologo, è chiaro che non gli interessa tanto parlare con qualcuno ma a qualcuno, e dopo una ventina di minuti mi sento già del tutto rintronata; ma il tipo non molla ed è talmente lanciato che ha tutta l’aria di poter andare avanti ancora per un bel po’. Mi guardo intorno disperata, implorando con gli occhi chiunque mi passi vicino perché mi salvi da quella terrificante situazione, ma nessuno ha pietà di me, anzi mi viene il dubbio che tutti ab-biano tirato un sospiro di sollievo e che si guardino bene dal libe-rarmi, con il rischio che quella sanguisuga si attacchi a qualcun altro. Tento di allontanarmi con una scusa, non ci riesco. Gli dico chia-ro e tondo che un bisogno urgente mi costringe ad andare al gabi-netto. Allora si zittisce e mi permette di allontanarmi, ma è passa-ta comunque più di un’ ora da quando mi si è avvicinato e sto praticamente per svenire dallo stordimento. In bagno mi passo dell’acqua fresca sulle tempie e sulla fronte, e mi sovvengo di Anita! Guardo l’orologio, è tardissimo, devo assolutamente tro-varla e tornare a casa.

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Rientro in sala, ed evitando accuratamente lo scocciatore di po-canzi cerco dappertutto la mia amica, senza successo. Chiedo in giro, nessuno l’ha più vista, si ripresenta l’uomo-pesce che mi chiede se ho voglia di ballare ancora con lui, vedo che si sta velo-cemente avvicinando il chiacchierone senza collo e dopo aver malamente agguantato borsa e giaccone mi catapulto fuori dalla Tana del Lupo, dove, a pensarci adesso, non rimetterò mai più piede in vita mia. Passano parecchi giorni. Ho di nuovo giurato di non frequentare più Anita, ma questa volta non c’è bisogno di farsi negare al tele-fono, dato che nemmeno lei mi cerca. Un pomeriggio Michele viene da me a parlare con un mio cugino che si è laureato in in-gegneria, per avere un consiglio in vista della scelta della facoltà. Al momento di andare via - pur avendo evidentemente la testa al-trove, concentrata sul suo futuro - Michele mi chiede con uno strano sorriso sulle labbra che ne è stato di Anita. «A me lo chiedi? Non lo so. È sparita con Pietro quella sera che siamo venute a ballare alla Tana, non l’ho più vista né sentita. Si sarà messa con lui e forse è così gelosa che non vuole dirlo a nes-suno, nemmeno a me.» «Non credo sia andata così» ridacchia Michele con fare misterio-so. Se ne va fischiettando. Mi accorgo che il suo aspetto sta miglio-rando; da spilungone allampanato sta diventando un ragazzo slanciato dall’aspetto sano e sportivo, e, complice una nuova montatura di occhiali, dall’espressione molto meno impacciata di qualche tempo fa. Mi ha detto che, avendo troppo da studiare, già da parecchio tempo ha lasciato perdere i Sezione Aurea e nei po-chi momenti liberi preferisce andare a giocare a tennis con suo fratello. A giudicare da come si sta sviluppando il suo fisico, direi che ha fatto la scelta giusta.

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Un pomeriggio di metà maggio - è passato più di un mese da quella ultima serata alla Tana del Lupo, e non ho più visto né sen-tito Anita - sono in biblioteca quando qualcosa avviene. Fa già caldo, mi sono tolta la giacca della mia tuta azzurra legan-domela in vita e restando con una maglietta bianca a maniche corte. È una vecchia t-shirt cui sono affezionatissima, che ha stampate sul petto le prime righe pentagrammate della partitura della Primavera di Vivaldi. Lo scollo della maglietta è visibil-mente slabbrato e proprio in mezzo al petto campeggia una splendida macchia di caffellatte, ma stamani, al momento di ve-stirmi, avevo calcolato che la temperatura non sarebbe stata tale da costringermi a togliere la giacca della tuta e a esibire così quel-la maglietta tanto rovinata. Ma adesso il caldo è insopportabile e io non penso più allo stato in cui il caffellatte ha ridotto la partitu-ra di Vivaldi, che esibisco senza pudore. Dopo un paio d’ore di traduzioni dal greco mi sono concessa un quarto d’ora di pausa e la trascorro tra gli espositori della biblio-teca su cui sono allineati i volumi dedicati alla storia dello spetta-colo. A naso in su, con la testa lievemente inclinata a sinistra per meglio scorrere i titoli dei libri, cammino lentissimamente lungo uno scaffale e non appena svolto per esaminare i volumi del lato opposto quasi vado a sbattere con un ragazzo che sta facendo il percorso esattamente inverso al mio. È Pietro. Non posso fare a meno di sorridere amichevolmente, è una reazione che mi viene istintiva anche se nessuno ci ha mai presentati e non possiamo de-finirci né amici né conoscenti. Forse gli stessi pensieri passano nella sua testa perché anche lui mi sorride, un sorriso appena ac-cennato, quasi subito represso in una specie di smorfia che però sul suo volto sempre un po’ corrucciato e oscuro ha l’effetto di un raggio di sole che buca una nuvola e illumina, anche se per un tempo brevissimo, i suoi lineamenti distendendoli e rilassandoli in una espressione che gli dona moltissimo. Penso che Pietro è veramente un bel ragazzo e mi accorgo in quel momento che alle sue spalle, seduto a un tavolo ingombro di volumi e quaderni, se

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ne sta il Visconte, immusonito e oscuro quanto mai ma pur sem-pre affascinante, con i capelli biondi e folti un po’ scarmigliati, una maglia grigia a collo alto nonostante il caldo. Ma chissà, sarà una maglia leggerissima, fatta di un tessuto speciale che non fa sudare e che permette ai bei ragazzi di essere elegantissimi in tut-te le stagioni… «Ciao» bisbiglio in un improvviso impeto di coraggio. Anche Pietro mi dice ciao. Dietro di lui il Visconte riemerge dal libro che sta leggendo, mi guarda senza scomporsi e accenna un saluto nella mia direzione alzando il mento e socchiudendo gli occhi dietro alle lenti. Il tempo si ferma. Torno a sedermi al mio tavolo in uno stato di semi trance. Dalla mia postazione li vedo benissimo, non capisco perché prima, mentre traducevo le versioni di greco, non li avevo notati. Forse sono arrivati dopo, in gran silenzio, e io ero così concentrata sul mio lavoro da non aver nemmeno alzato la testa al loro ingresso nella sala. Il cuore prende a battermi furiosamente, penso che come al solito il mio abbigliamento non è a posto e sto facendo la figura dell’eccentrica mentre loro due sembrano appena usciti da un videoclip degli Spandau Ballet. Non riesco più a concentrarmi, raccolgo libri e quaderni e me ne torno a casa. Telefono ad Anita, convinta, chissà perché, di non trovarla, e in-vece è lei stessa che mi viene a rispondere. «Ma si può sapere dove sei andata a finire? È più di un mese che non ti fai viva. Sei sparita quella sera alla Tana del Lupo insieme a Pietro senza dirmi niente e non mi hai più cercata.» Anita balbetta qualcosa, sembra imbarazzata, reticente. Cerco di forzare un po’ la mano, butto là: «Ti sei messa con Pietro e siete così presi dal vostro amore da non uscire più con i vecchi amici?» Quasi mi riaggancia in faccia. Mi saluta così in fretta che non ho nemmeno il tempo di raccontarle dell’incontro avvenuto in biblioteca, niente.

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Medito un po’, poi telefono a Michele. Mi ricordo delle sue mez-ze frasi l’ultima volta che ci siamo visti, evidentemente sa qual-cosa. Infatti è così. Non appena gli chiedo se sa esattamente cosa sia successo di particolare quella sera alla Tana del Lupo, si mette a ridere. «Certo che lo so. La tua amica Anita ha fatto in modo di appartar-si con Pietro e poi gli ha detto di essersi perdutamente innamorata di lui, e gli ha chiesto di poter essere la sua ragazza. Pietro gli ha risposto di no. Tutto qua.» Il primo pensiero che mi passa per la testa è di ammirazione nei confronti della mia amica. Che coraggio! Subito dopo, però, mi rendo conto che ha fatto una irrimediabile brutta figura. Queste sono iniziative che non si prendono, soprattutto verso ragazzi così in vista, così “in” come Pietro. Anita si è resa ridicola, si è atteg-giata a mendicante, ha completamente svenduto il suo amor pro-prio. Ora, è inutile negarlo, si sa perfettamente che per quanto le profferte amorose vengano nel 99 % dei casi dai ragazzi, gene-ralmente è stata la donna a guidare con abilità il gioco, ma non si deve mai contravvenire alla regola base, cioè che la proposta de-cisiva e definitiva deve essere fatta dal ragazzo. Non capisco cosa sia saltato in testa a quella matta di Anita. Lo credo bene che poi si è chiusa in casa. Che vergogna. Fine anteprima.Continua...