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Opera Prima - Laura Caccia

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Titolo: Asintoti Autore: Laura Caccia Fonti: “Opera Prima”, n. 5, Cierre Grafica, 2004 Disegno: Michele Cappellesso A cura di: Luigi Bosco e Poesia 2.0 Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

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OPERA PRIMA

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LAURA CACCIA

ASINTOTI

Anterem, 2004

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Premessa di Flavio Ermini

1. Asintoti è un canto alla memoria e mostra una spiccata preferenza per il ricordo sequenziale. Ogni evento riportato alla coscienza non è mai concluso in se stesso. Ma richiama il precedente o il successivo. Svela relazioni tra l’azione già compiuta e quella che verrà: «Nel congedo / che germina istanti / incrinatura l’ombra». È una specie di film dal quale sia stato estratto qualche fotogramma. Che non possiamo mai ritenere un tutto a sé, ma una breve descrizione supportata da un prima e un dopo: un bagliore che rischiara due opposte stazioni del cammino, vere e proprie «cesure al limite del dire». Questa scelta ci fa pensare al filo scorrente del tempo e alle modificazioni che noi imprimiamo a quanto andiamo conoscendo. Il tempo s’incarica infatti di trasformare le cose e il senso che noi diamo a esse. Laura Caccia ci indica che questa nostra vita, per quanto arida, lascia un residuo, irriducibile a qualunque annullamento voluto dalla ragione. Le nostre percezioni sono sempre instabili, perché cercano di adeguarsi al livello via via raggiunto dal nostro incessante esperire, «lungo estremi di terra / irraggiunta». Si lascia una posizione «non per sostituirla con un’altra», annota Heidegger, «ma perché anche quella era solo stazione di un cammino. Quel che rimane costante nel pensare è il cammino». In Asintoti, la dinamica che la memoria va esplorando è il piano primario sul quale vengono collocati gli elementi analitici. In questi particolari c’è la chiave per comprendere passaggi ignoti alla nostra coscienza e inimmaginabili. Ogni ricordo sarebbe dimidiato se non venisse incluso in quella ruota

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temporale che ne è il sostegno e il significato. Si inizia a distinguere quali sono i principi che determinano gli eventi e di quale natura è la trama che li unisce. 2. Stiamo assistendo a un viaggio che si svolge nello spazio del pensiero («nella rotta / prosciugata di luce / incolta tra l’erba / e il dolore») e che attiene al rapporto della vita emotiva con il tempo, e dunque all’incolmabilità del desiderio. Tale relazione porta verso la soglia dello spaurimento. Soltanto «l’atemporalità» precisa Marcuse «sarebbe l’ideale del piacere». Infatti, ogni instaurazione della dimensione temporale comporta anche una produzione di angoscia: per il conflitto tra tempo interno (il movimento delle sensazioni) e tempo esterno (il movimento del cosmo), ovvero tra la brevità del nostro tempo, destinato a scomparire, e l’illimitatezza del tempo. Conflitto che rende evidente la distanza che ci separa dalle cose, destinate a sopravvivere, e dalla loro verità, vigilata da un invalicabile vuoto. Ecco perché in Asintoti una tenebra di fondo tiene lontana la verità delle cose dal cammino che, senza mai compiersi, porta a essa: «come una retta i cui punti si avvicinano sempre più a quelli di una curva ad ogni passo che la curva compie verso l’infinito». Quel vuoto ci induce a formulare molte domande sull’essere e sul destino dell’essere umano. E non giustifica la speranza.

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ASINTOTI

Laura Caccia

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Il dolore dei nomi impervi d’eco di soglia lungo estremi di terra irraggiunta nel vomere dell’aria consunta gravità precoce origine disancorata di luce incrinatura

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senza ombre vasta consuma sulla lastra sgranata di amuleti la chiarità della pietra dentro le parole

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D’erica acerba Il giorno mutevole di terra indirizzo dei sensi allo stupore dell’ombra inesperta di tempo di radici nel fuoco opaco d’argine incompiuta estraneità resina d’erba scarna crivella

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la soglia muta il chiarore scalatore d’impronte d’erica acerba prematura metamorfosi l’assenza cicatrici sconosciute alle nubi

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Postfazione di Stefano Guglielmin

La prima cosa che salta agli occhi, leggendo Asintoti, è l’aspro versificare di Laura Caccia, la sua volontà di tenere la passione a freno, dando sfogo al bulino, alla mano che si vieta qualsiasi concessione all’acquoreo. La seconda cosa è che non esista un nucleo antropologico cui ricondurre quella mano, e che dunque, a scrivere, non sia una creatura umana, per quanto precariamente organizzata, ma piuttosto qualcosa di simile ad un brulichio sabbioso, che incida esili segni sullo spazio reale della pagina, una forza naturale non dirompente che metta in scena la propria estinta concretezza attraverso la molteplicità della lingua e del mondo, entrambi portati a galla frantumati. E ciò, a partire da una profondità impensabile, da una “incrinatura” – questa sì dirompente – che marca il differire originario e che non ha nulla della felice innocenza platonico-cristiana. L’origine da cui il senso si apre, in Asintoti, si coniuga invece con “dolore” e “ombra”, e la sua energia è tale da sfibrare il testo stesso, che così si offre, al lettore, smembrato di pagina in pagina, ciascuna diventando fondo silenzioso sul quale il grumo testuale si erge, simile ad un’urna funeraria custode delle ceneri dell’io. Ed in effetti, a ben vedere, proprio questo ci presenta Laura Caccia: epitaffi alla morte dell’io, pietre tombali in cui l’io incenerito ha lasciato testimonianza del suo passaggio terrestre. Un passare che tuttavia non viene riesumato nell’integrità narcisistica dell’autobiografia, giacché quest’ultima si parcellizza e si fonde nell’incontro-scontro con la natura (quasi sempre notturna e invernale), con la storia (“scolo” che deglutisce gli eventi), con la memoria (mai sazia d’infanzia in controluce, eppure sempre di nuovo annichilita da un presente sovraccarico di dubbi) e con se stessa, in un dialogo serrato e franto, incerto “al chiarore” e arduo “al dire”.

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Ma arduo, in Asintoti, è l’intero dettato, quell’aspro e slegato versificare ottenuto in grazia dell’asindeto, dell’ellissi, dello stretto enjambement e di una sovrabbondanza specificativa la quale, se da un verso costituisce un tic linguistico esteticamente discutibile, dall’altro arricchisce inaspettatamente il senso dell’intero libro. Il genitivo, infatti, collegandosi etimologicamente al “generare”, e così rinviando alla vita ulteriore che qualsiasi specificazione dona al sintagma nominale, acquista un valore semantico decisivo, facendo da contraltare retorico alla serie di racconti funerei in cui l’opera si organizza. Esso, in altri termini, compensa grammaticalmente l’origine e il destino tenebrosi del mondo e degli esseri viventi celebrati nei testi, uscendo dalla roccia come un’erba sopravvissuta alla morsa del gelo e della pietra, un erba che rivitalizza il ramo secco del tempo, facendosi così emblema della rigenerazione universale, di una “incrinatura” ancora più originaria di quella presagita dalla stessa autrice. Le medesime acquisizioni si possono rintracciare approfondendo la definizione di retta asintotica posta in epigrafe del libro, ossia di “una retta i cui punti si avvicinano sempre più a quelli di una curva ad ogni passo che la curva compie verso l’infinito”, senza tuttavia mai raggiungerla. Se il punto della retta potesse incontrare quello della curva, verrebbe a fondersi con esso, biforcando così il suo percorso a venire (l’esser punto sia di una curva e sia di una retta, entrambe proiettate in avanti) e tuttavia conservando il percorso compiuto (l’esser punto di una retta univoca e rammemorabile). L’ordine lacunoso dell’asintoto, così come si configura nel sistema metaforico del libro e nella percussività ossessiva del metro, l’autrice vorrebbe in verità congedarlo, superarlo (con probabile intenzione iniziatica), al fine di aprire l’esistenza (e con essa la scrittura) al possibile, allo stupore del non-ancora. Diversamente, la vita viene miseramente spinta in avanti da un passato refrattario alla fecondità della rivisitazione evocativa, e attratta da un futuro che mai scarta verso il nuovo. In altre parole: l’incenerimento dell’io, di cui

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Asintoti invoca la resurrezione al pari dell’araba fenice, è conseguente a questo suo consumarsi in un tempo che è solo ripetizione, senza differenziazione. Di questo pare consapevole la stessa autrice, nella misura in cui organizza un libro interamente attraversato dal tentativo dell’io di ricomporsi in unità dinamica, a partire da quella corporale, che comincia a farsi sentire dalla sezione intitolata Mestiche. Qui infatti, richiamandosi metaforicamente a quell’impasto di pigmento, colla ed olio, a quella soluzione densa che è, appunto, la “mestica”, l’io narrante cerca di sostanziarsi in durata e peso, fino a sbocciare nella penultima sezione, I passi gli episodi, dove l’aria “sulle labbra” e le “notti mortali / nei corpi” incontrano qualcosa di simile alla vita, sia pure, come già osservato in precedenza, “incerta al chiarore” e “ardua al dire”, qualcosa che, per esistere, ha bisogno di un “passo che affonda affossa / forme corteccia”, una presenza dunque solida, che pesi e porti giù, a costo di rinunciare, come si alludeva all’inizio, al vuoto e all’acqua, a quelle sostanze che, per eccellenza, costituiscono il femmineo e che l’autrice rimette in gioco, per un lungo tratto, soltanto per via grammaticale, sovrabbondando nell’uso del genitivo. E tuttavia, quel ‘punto di contatto’ fra la retta e la curva (fra il maschile e il femminile), quell’incontro fra destini che toglie l’eterno in fieri dell’asintoto, finalmente nel libro si mostra, sia pure ancora nell’incertezza del cominciamento: è in quei nove passi orientati verso “il chiarore” de Le terre indescritte, là dove “l’acqua rimargin/ la sua ferita profonda” e “non si mostra / né si cela limpida / e oscura”. Ben venga dunque questa Opera Prima, memoria di un transito della polvere nelle fibre asciutte della parola, di una “erranza” temeraria tesa a raggiungere l’aperto, quel “varco / inudibile da sponda / a sponda”, a partire dal quale l’autenticità sia ancora possibile. Gennaio 2004 Stefano Guglielmin

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