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Gruppo Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Interstizi & Intersezioni NewsMAGAZINE n. 19 Autunno 2010 Quando ce ne andiamo ti ricordano per un sorriso per un raro gesto di generosità per un tic, per la balbuzie, per la loquacità per la sciarpa bianca o cammello per la cravatta sbagliata per l’accento padano quanto a me ricordatemi come volete ancor meglio se ne fate a meno, vivete! (Luciano Erba, “Negli spazi intermedi”) Cari destinatari, vorrei dedicare queste righe al ricordo di due persone recentemente mancate: la prima è Raimon Panikkar, eminente figura di studioso traversale e “interstiziale” che era stata citata nell’editoriale del n.17 a proposito della comunicazione e del silenzio. Panikkar, sacerdote cattolico figlio di padre indù e di madre catalana, teologo e scienziato umano attivo nelle università di tre continenti, ha spinto verso nuove frontiere il dialogo tra cultura cristiana-occidentale, induismo e buddismo. Ho avuto il privilegio di conoscerlo personalmente una ventina di anni fa, quando ancora non era diventato un uomo pubblico, e ricordo che allora rimasi colpito non solo dall’originalità del suo pensiero (che mi pareva anche per qualche aspetto sconcertante) ma anche dall’equilibrio che emanavano il suo volto sorridente e il suo corpo sorprendentemente giovanile. L’altra persona che ricordo qui con affetto è Luciano Erba, amico e collega in Università Cattolica e soprattutto poeta schivo dai versi essenziali, folgoranti e allusivi: lo ricordo soprattutto per la sua capacità di ridare in poesia la vita quotidiana nel suo volto dimesso, semplice, ordinario. Erba è stato poeta delle piccole cose che diventano grandi, perché ciascun essere umano può essere grande nella sua vita comune. A tutti un cordiale saluto e augurio di buona lettura del NewsMagazine. Gianni Gasparini S S O O M M M M A A R R I I O O 1. Incontri - Cristina Pasqualini, Una lettura poetica del Ben-essere - Fabio Introini, La Natura: attorno a noi o dentro di noi? 2 Libri & Scritti - Francesca Rigotti, Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità - Cristina Pasqualini, Edwige, l’inséparable di Edgar Morin - Antonio Cocozza, (a cura di), Persone Organizzazioni Lavori - Michela Bolis, Giovani coppie e modi di abitare - Laura Galuppo, Il gruppo in teoria e pratica di Cesare Kaneklin 3. Arte & Comunicazione - Francesco Tedeschi, Fine o morte del monumento? Il persistere della memoria fra le pieghe del vissuto - Giovanni Gasparini, Film “Uomini di Dio” 4. Vita quotidiana - Giovanni Gasparini, Piccole cose interstiziali al Museo delle Arti e Tradizioni popolari di Tolmezzo (Udine) - Domenico Secondulfo, Tempo e società – dal tempo del sole al tempo delle macchine 5. Rubrica “Le città interstiziali” - Roberta Cucca, Toronto (Canada) - Italo Piccoli, Varanasi, un interstizio tra la vita e la morte Pubblicazioni recenti neXus

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Page 1: News n. 19 - Dipartimenti · 2015. 5. 28. · questi anni: Alberto Melucci (1943-2001), Alda Merini (1931-2009) e Giovanni Raboni (1932-2004). Se è vero che l’uomo è per natura

Gruppo Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano Interstizi & Intersezioni

NewsMAGAZINE n. 19 Autunno 2010

Quando ce ne andiamo ti ricordano per un sorriso per un raro gesto di generosità

per un tic, per la balbuzie, per la loquacità per la sciarpa bianca o cammello

per la cravatta sbagliata per l’accento padano

quanto a me ricordatemi come volete ancor meglio se ne fate a meno, vivete!

(Luciano Erba, “Negli spazi intermedi”) Cari destinatari, vorrei dedicare queste righe al ricordo di due persone recentemente mancate: la prima è Raimon Panikkar, eminente figura di studioso traversale e “interstiziale” che era stata citata nell’editoriale del n.17 a proposito della comunicazione e del silenzio. Panikkar, sacerdote cattolico figlio di padre indù e di madre catalana, teologo e scienziato umano attivo nelle università di tre continenti, ha spinto verso nuove frontiere il dialogo tra cultura cristiana-occidentale, induismo e buddismo. Ho avuto il privilegio di conoscerlo personalmente una ventina di anni fa, quando ancora non era diventato un uomo pubblico, e ricordo che allora rimasi colpito non solo dall’originalità del suo pensiero (che mi pareva anche per qualche aspetto sconcertante) ma anche dall’equilibrio che emanavano il suo volto sorridente e il suo corpo sorprendentemente giovanile. L’altra persona che ricordo qui con affetto è Luciano Erba, amico e collega in Università Cattolica e soprattutto poeta schivo dai versi essenziali, folgoranti e allusivi: lo ricordo soprattutto per la sua capacità di ridare in poesia la vita quotidiana nel suo volto dimesso, semplice, ordinario. Erba è stato poeta delle piccole cose che diventano grandi, perché ciascun essere umano può essere grande nella sua vita comune. A tutti un cordiale saluto e augurio di buona lettura del NewsMagazine. Gianni Gasparini

SSSOOOMMMMMMAAARRRIIIOOO 1. Incontri

- Cristina Pasqualini, Una lettura poetica del Ben-essere - Fabio Introini, La Natura: attorno a noi o dentro di noi?

2 Libri & Scritti - Francesca Rigotti, Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità

- Cristina Pasqualini, Edwige, l’inséparable di Edgar Morin

- Antonio Cocozza, (a cura di), Persone Organizzazioni Lavori

- Michela Bolis, Giovani coppie e modi di abitare - Laura Galuppo, Il gruppo in teoria e pratica di Cesare Kaneklin

3. Arte & Comunicazione - Francesco Tedeschi, Fine o morte del monumento? Il persistere della memoria fra le pieghe del vissuto

- Giovanni Gasparini, Film “Uomini di Dio”

4. Vita quotidiana - Giovanni Gasparini, Piccole cose interstiziali al Museo delle Arti e Tradizioni popolari di Tolmezzo (Udine)

- Domenico Secondulfo, Tempo e società – dal tempo del sole al tempo delle macchine

5. Rubrica “Le città interstiziali” - Roberta Cucca, Toronto (Canada)

- Italo Piccoli, Varanasi, un interstizio tra la vita e la morte

Pubblicazioni recenti

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Page 2: News n. 19 - Dipartimenti · 2015. 5. 28. · questi anni: Alberto Melucci (1943-2001), Alda Merini (1931-2009) e Giovanni Raboni (1932-2004). Se è vero che l’uomo è per natura

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1. Incontri � Una lettura poetica del Ben-essere Quale evento sociologico si è svolto a Milano nei giorni 23-24-25 settembre 2010? Sono certa che la maggioranza dei sociologi italiani saprà rispondere senza esitazioni. È innegabile che il IX Convegno Nazionale AIS ha rappresentato per la comunità sociologica nazionale un momento importante di confronto, oltre che di incontro. Un programma intenso, dedicato al tema degli Stati, nazioni e società globale, articolato in più giorni e distribuito su tre importanti sedi accademiche milanesi – Università degli Studi di Milano, Università degli Studi di Milano Bicocca e Università Cattolica del Sacro Cuore. All’interno di questo macro-evento vorrei soffermarmi su una iniziativa decisamente interstiziale, un evento collaterale, così è stato definito dagli organizzatori, in cui si è parlato di Ben-essere con molteplici linguaggi, differenti ma non lontani dalla sociologia. In particolare ho avuto l’occasione di assistere alla lezione del sociologo Sergio Manghi, che ha proposto una interpretazione sentita e appassionata del Ben-

essere attraverso la lettura di alcune poesie, alcune parole scelte di scrittori milanesi scomparsi in questi anni: Alberto Melucci (1943-2001), Alda Merini (1931-2009) e Giovanni Raboni (1932-2004). Se è vero che l’uomo è per natura sia sapiens che demens, è altrettanto vero che molteplici sono le forme espressive che è in grado di utilizzare. Questo significa che quando si prova a narrare, a restituire la complessità dell’esperienza umana la sociologia sicuramente può dare un contributo importante, ma da sola non basta. Non può prescindere infatti dal dialogo con le altre discipline, tanto meno con la poesia. Non solo: la scrittura poetica, come insegna anche Gianni Gasparini, “attraverso il suo porsi in modo possibilmente vergine davanti al mondo, è capace potenzialmente di recepire e di ridare tutta la gamma della condizione umana”. Talvolta una poesia, pochi versi possono aiutarci a comprendere, a cogliere il significato profondo di alcune questioni meglio di pagine e pagine di trattati scientifici. Su questa linea si muove da anni con determinazione Edgar Morin, una delle voci sociologiche più autorevoli nel panorama culturale internazionale contemporaneo: “La mia impresa è concepita come integrazione riflessiva dei diversi saperi concernenti l’essere umano. Si tratta, non di sommarli, ma di legarli, di articolarli e di interpretarli. La mia impresa non ha l’intenzione di limitare la conoscenza dell’umano

alle sole scienze. Considera la letteratura, la poesia e l’arte non solo come mezzi di espressione estetica, ma anche come mezzi di conoscenza” (Il Metodo 5, L’identità umana, 2000, p. XVII). In conclusione, vorrei ricordare la figura di Alberto Melucci, autorevole e stimato sociologo, che ha intravisto nella via poetica una possibilità ulteriore e complementare ad altre forme di scrittura per raccontare l’esperienza umana della malattia, tanto più difficile e dolorosa non solo da accettare ma anche da narrare, quando purtroppo questa è irreversibile. “È venuta la morte a visitarmi senza annunci né agende consultate in precedenza, un anticipo discreto del nulla che sarà Ero in ciabatte per niente preparato la paura non è stata poi grande e conoscersi fa bene intorno a un tè Se sarò un ospite più desto in occasione della visita ufficiale si vedrà”. (La Visita, di Alberto Melucci) Cristina Pasqualini, Università Cattolica,

Milano

� La Natura: attorno a noi o dentro noi? Nel caratterizzare la cifra dell’opera d’arte e dell’esperienza estetica contemporanee, Vattimo si rifà a Walter Benjamin e alla sua teoria dello shock. Esperienza, quella dello shock, tipicamente “metropolitana” come del resto suggerisce il paragone, suggerito dallo stesso Benjamin, tra la reazione all’opera d’arte e il senso di precarietà che un pedone vive movendosi nel traffico della grande città (G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, pp. 63-83). Forse è anche per questo legame tra esperienza estetica e contesto urbano che la natura sembra essere “sparita” non solo dai nostri vissuti quotidiani ma anche dallo “spazio privilegiato” dell’ispirazione artistica e della contemplazione che è in grado di suscitarla. Eppure, la Natura è intorno a noi, come recita il titolo dell’ultimo lavoro di Gianni Gasparini (La natura intorno a noi, Assisi 2010) presentato e discusso in una tavola rotonda tenutasi il 27 ottobre presso l’Università Cattolica

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di Milano e che ha avuto come relatori C. Segre, critico letterario e membro dell’Accademia dei Lincei, M. Venturi Ferriolo, paesaggista ed estetologo del Politecnico di Milano e Enrico M. Tacchi, sociologo del territorio dell’Università Cattolica. La natura è intorno a noi, ci raggiunge anche all’interno della sua “nemica” città, sottolinea Gasparini. Tuttavia renderla presente nei nostri discorsi, prestarle ascolto sembra oggi un gesto “rivoluzionario” o quanto meno in controtendenza. Eppure, come è stato sottolineato da tutti i relatori, la natura avrebbe ancora molto da dire all’uomo contemporaneo. Secondo i più pessimisti, come Segre, si tratterebbe però delle sue “ultime parole”, una sorta di suo testamento, tanta è la pervicacia con cui l’uomo ha cercato – riuscendoci – di metterla a tacere. Si tratta di una analisi suggestiva, forse però limitata nello spazio e nel tempo all’occidente moderno, che contrariamente ad altre parti del mondo molto raramente sperimenta le vendette che la natura è in grado di prendersi contro l’uomo distruttore. Per porre fine a questo braccio di ferro è necessario uscire dalla dualistica impostazione moderna che ha fatto della natura il “grande altro” e comprendere invece, come ha sottolineato Italo Piccoli intervenendo al dibattito, la nostra appartenenza, il nostro pieno radicamento in quella che Morin ebbe a definire la nostra “terra patria”. Il che equivale a dire che la natura, prima che intorno a noi, è dentro noi. Le vie verso un recupero dell’equilibrio uomo-natura sono tante quanti sono i linguaggi – quindi gli ambiti esperienziali – che la natura è in grado di attraversare con la sua trasversalità. Il percorso proposto da Gasparini, in piena coerenza con la sua poetica e la sua teoria sociologica, è quello della “conversione estetica” che la natura è in grado di suscitare nonostante – anzi forse proprio grazie a – il suo darsi interstizialmente nelle nostre esperienze. Fabio Introini, Università Cattolica, Milano

2. Libri & Scritti � Francesca Rigotti, Partorire con il corpo e

con la mente. Creatività, filosofia, maternità, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. Il periodo della gravidanza, quando il feto si forma e cresce nel ventre materno, è un tempo, anzi è il tempo interstiziale per eccellenza per la madre e per la creatura. E' il momento nel quale si realizza l’endiadi, l’essere in due uno, in uno due, e le vite di due persone, una fatta l’altra in fieri, si sovrappongono e si intersecano. Questo periodo

ho voluto riscattare, nel mio libro, dall'oblio nel quale lo ha lasciato la filosofia; ancor più fortemente ho cercato di far emergere dall'oblio il parto, ovvero il momento nel quale attivamente la madre espelle la sua creatura e la mette nel mondo. Questo perché l’universo filosofico (e ancor di più quello religioso, ma questa è un’altra storia) si è incantato a contemplare il nuovo nato, per esaltarlo o per piangere sul suo destino di Geworfenheit, l’essere gettato là, sulle sponde dell’essere, e ben poco ha preso in considerazione la puerpera. Se poi il partus era masculum, come nel caso della scienza per Francis Bacon, l'esultanza era ancora maggiore, tanto più che si trattava di un parto di mente e non di ventre, ben più nobile quindi e destinato a occupare un posto di rilievo nell’economia umana. E' tempo, scrivo, non soltanto di riconoscere alla mente femminile capacità creative, ma anche di cogliere proprio nella procreatività, che è lunga, pesante e faticosa, modelli teorici su cui modellare la creatività, smettendo di credere che essa giunga lievemente tramite il soffio dell’ispirazione a chi prima non ha duramente lavorato. L’atto mentale più creativo è avere un idea originale, l’atto fisico più creativo, avere un figlio, vediamo se a combinarli insieme sul piano della teoria non se ne possa cavare qualcosa di interessante. Francesca Rigotti, Università di Lugano

�Edgar Morin, Edwige, l’inséparable, Fayard, Paris 2009. Il racconto di una lunga storia d’amore, ma anche un libro sulla malattia e sulla morte, la narrazione

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di una esperienza personale, tanto personale quanto comune al genere umano: assistere giorno dopo giorno un proprio caro, sapendo che per lui non ci sono speranze di guarigione. Di libri autobiografici il sociologo francese Edgar Morin ne ha scritti tanti, a partire già dagli anni Cinquanta del XX Secolo. In più occasioni ha voluto espressamente ricordare la morte della madre, avvenuta tragicamente e inaspettatamente quando era ancora bambino, la perdita di amici e familiari durante la Resistenza, sottolineando l’importanza che rappresenta per lui la comunità, le relazioni sociali, come possibilità e luogo per generare calore e solidarietà. Tuttavia, rispetto agli altri, questo ultimo libro ha un respiro diverso, un respiro più grande, il respiro di un intellettuale, ma prima ancora di un uomo, che arrivato alle soglie dei novanta anni, deve rinunciare per sempre alla presenza della moglie Edwige, sua compagna per oltre trent’anni. Una donna che ho avuto il privilegio di incontrare negli anni passati e che ricordo con affetto come una figura silenziosa, premurosa e riservata. Nel suo libro Morin scrive che Edwige è stata per lui “moglie, amante, madre e figlia”. Mentre è facile intuire che cosa significhi essere moglie e amante, appare interessante il ruolo di madre e di figlia. È stata madre perché si è presa cura per tanti anni di Morin, facendolo sempre in maniera discreta, restando dietro le quinte. Orfano di madre, Morin ha eletto Edwige come figura femminile importante di riferimento nella sua quotidianità. Ma Edwige è stata anche figlia, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, quando aveva necessità di assistenza continua. Con la morte di Edwige, scrive Morin, sono diventato nuovamente orfano. Credo che questo libro rappresenti una sincera e toccante dichiarazione d’amore, un saluto commosso di un uomo ad una donna. Solo per questo, credo meriti di essere letto e apprezzato. Cristina Pasqualini

� Antonio Cocozza, a cura di, Persone

Organizzazioni Lavori. Esperienze innovative di

comunicazione d’impresa e valorizzazione delle risorse umane, Franco Angeli, Milano 2010. Il volume, attraverso il ricorso alla metodologia dei case analysis, alla maniera anglosassone, si propone di analizzare le interazioni esistenti tra diversi fenomeni emergenti, quali la necessaria valorizzazione del concetto di persona, nella dimensione economico-sociale e nella molteplicità di ruoli di lavoratore, consumatore e fruitore di servizi pubblici e privati, nell’ambito dei processi di evoluzione delle culture e dei modelli organizzativi, della crescente pervasività

dell’innovazione tecnologica nei processi sociali e lavorativi e nello sviluppo di politiche aziendali sempre più eticamente orientate ad un positivo coinvolgimento degli stakeholder. Il testo affronta le tematiche analizzate con un focus in cui si possono riscontrare diversi spunti di analisi degli “interstizi” e delle “interconnessioni disciplinari” di particolare interesse, della sociologia con l’economia e il diritto, ma anche delle teorie comunicative e organizzative con la musica e la psicologia. Si tratta di un processo evolutivo che, in questi ultimi anni, ha visto nelle realtà italiane ed internazionali più avanzate il superamento di un approccio istituzionale, produttivo, comunicativo e di marketing orientato a logiche uniformi di carattere collettivo, generiche e indistinte, a favore di una reale e più mirata personalizzazione delle politiche verso soggetti che diventano titolari di diritti e doveri, nella sfera della cittadinanza, ma anche attori e corresponsabili nel raggiungimento di determinati risultati nel campo delle relazioni economiche e sociali. I contributi presenti nel volume propongono approfondimenti che tendono ad analizzare casi empirici innovativi di rilievo nazionale ed internazionale, nel settore privato (Allergan, American Express, Nokia Siemens Networks, Sorgenia, Telecom Italia e Terna) e in pubbliche amministrazioni particolarmente virtuose (Agenzia spaziale italiana, Agenzia del territorio del Ministero dell'economia e delle finanze, Consorzio Comuni trentini e Comune di Reggio Emilia). Nelle realtà esaminate si possono riscontrare nuovi modelli di comunicazione d’impresa orientata strategicamente e culturalmente ad interagire sempre più con clienti maturi, consapevoli e responsabili, nonché esperienze di best practice nel campo delle politiche e degli strumenti di governo delle relazioni di lavoro correlati con lo sviluppo strategico del ruolo delle persone nei processi organizzativi e lavorativi, in una prospettiva di maggiore autonomia, partecipazione e responsabilità personale ed istituzionale. Antonio Cocozza, LUISS, Roma

� Michela Bolis, Giovani coppie e modi di

abitare, FrancoAngeli, Milano 2010. In una conferenza su “Uomo e spazio” tenuta nel 1951 a Darmstadt, in Germania, Heidegger affermava che «il modo in cui […] noi uomini siamo sulla terra è il Buan, l’abitare. Essere uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare. […] Il Bauen inteso in questo senso di abitare, cioè come essere sulla terra, rimane però l’esperienza quotidiana dell’uomo, ciò che il

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nostro linguaggio indica molto bene come quello che fin da principio è l’“abituale”». Per ogni individuo, la casa è il «proprio angolo di mondo», il «proprio primo universo». Alla continuità dell’esperienza dell’abitare, che non cambia nella sua fenomenologia, si contrappone il rapido mutare della struttura abitativa che invece evolve con la società, con la sua cultura e con i suoi consumi. L’abitazione è un luogo culturale: il

modo in cui gli abitanti scelgono la casa, la vivono, la arredano, la “consumano”, la riempiono di oggetti domestici dipende dalla cultura e, insieme, crea la cultura. A partire da questi presupposti, risulta particolarmente interessante analizzare il modo in cui si definisce il rapporto individuo-abitazione nella società contemporanea, dove l’individualizzazione e la differenziazione delle esperienze e, insieme, la sempre crescente importanza dell’esperienza quotidiana come spazio in cui i soggetti costruiscono il senso del loro agire rendono l’abitazione un oggetto di studio privilegiato. La casa parla dei suoi abitanti, racconta chi sono, come vivono, quali esperienze hanno fatto e quali si preparano a fare; in altre parole, l’abitazione rappresenta un importante strumento per raccontare l’identità individuale e familiare. In particolare, vengono presentati i risultati di una ricerca empirica attraverso la quale è stato ricostruito il percorso affrontato dai giovani che hanno deciso di staccarsi, non senza difficoltà, dalla propria “famiglia lunga” per costruire un nuovo nucleo abitativo e familiare indipendente. Quali sono i criteri che guidano le giovani coppie nella scelta di quella che diventerà la loro abitazione? E, una volta scelta la casa, come la personalizzano? Come la arredano? Come la “consumano”? Come la gestiscono? Come la vivono? Il volume, cercando di rispondere a queste domande, giunge alla costruzione di una tipologia di “stili del metter su casa”, ciascuno dei quali si caratterizza per un diverso modo di vivere nell’abitazione e di vivere l’abitazione. Michela Bolis, Università Cattolica, Milano

����Cesare Kaneklin, Il gruppo in teoria e in pratica, Raffaello Cortina 2010. Dopo sedici anni dalla prima stesura del testo, “Il gruppo in teoria e in pratica” di Cesare Kaneklin torna con una nuova edizione che ripropone tutta l’attualità e la complessità del parlare oggi di gruppi di persone che lavorano nelle organizzazioni. Le ipotesi “provvisorie” che avevano orientato la storia dei gruppi in Italia ed la prima ricerca in psicosociologia sono riproposte nel nuovo testo in modo più esplicito, illuminato dalle nuove conoscenze offerte in materia psicologica, sociologica, filosofica, delle neuroscienze. La prima ipotesi è quella per cui il gruppo sia il luogo elettivo della soggettività, che, in quanto inter-soggettività, costituisce l’unica condizione possibile per sostenere processi di conoscenza, “incontri emozionanti” con l’altro e con gli oggetti dell’esperienza. La seconda ipotesi è che, in conseguenza, il gruppo rappresenti non solo un fenomeno-oggetto di studio di rilevanza cruciale data la sua influente presenza nella realtà sociale e organizzata, ma costituisca soprattutto un dispositivo-strumento relazionale che consente di intervenire per produrre conoscenza e cambiamento nelle organizzazioni, nella comunità, nella società. A partire da queste due ipotesi, il testo affronta dunque la sfida di parlare oggi di gruppi in teoria, cioè attraverso i principali contributi teorici della psicologia sociale e della psicologia dinamica, e in pratica, cioè non scindendo ma tenendosi a stretto contatto con le esperienze dei “gruppi viventi”, cioè i gruppi che nascono come strumenti di lavoro, di formazione, di consulenza, di ricerca nelle organizzazioni e nel sociale. In questo modo il lettore è condotto attraverso una esplorazione che, tramite l’analisi di contributi scientifici e il confronto con racconti di esperienze professionali diverse, consente la messa a punto di costrutti psicologici utili alla prassi del lavorare e del condurre gruppi. Prassi che riguarda sempre il soggetto reale esistente in modo inscindibile dai contesti micro sociali di vita e di lavoro. L’esito è un quadro articolato e suggestivo che consente di interrogarsi sulla complessità, sui nuovi mandati e sui possibili sguardi in grado di orientare le pratiche di lavoro nei gruppi oggi. Gruppi, che si riconfermano i luoghi in cui l’intersoggettività, se opportunamente compresa, gestita e attraversata, può tradursi in forza produttiva, risorsa generativa di conoscenza e cambiamento, sempre più cruciale oggi per affrontare la sfida della modernità nelle organizzazioni e nelle comunità sociali. Laura Galuppo, Università Cattolica, Milano

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3. Arte & Comunicazione �Fine o morte del monumento? Il persistere

della memoria fra le pieghe del vissuto In un'intervista che apre il catalogo della mostra dedicata alla possibilità di reinterpretare l’idea di “monumento” nell'arte di oggi, Mikhail Gorbaciov giudica che sia sbagliato eliminare i monumenti che caratterizzano le varie epoche storiche, in quanto “il passato non si cancella mai nella memoria di quelli che lo hanno vissuto o subito”, e acutamente osserva che “Cancellarli significa dimenticare i nostri errori. Cioè significa aumentare le possibilità di ripeterli.”La coppia di artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov ha unito molte installazioni da loro concepite fra gli anni Settanta e Novanta nell'ambito di un progetto di “Monumento alla civiltà perduta”, comprendente la ricostruzione fedele di molti luoghi caratteristici del comunismo sovietico, dalle cucine collettive con gli utensili appesi alle pareti, alle camere da letto claustrofobiche per effetto di mobili troppo grandi rispetto allo spazio effettivo, oltre che ricordare le diverse possibilità di fuggire nella fantasia da quei luoghi che comunque hanno rappresentato la realtà di un'ideologia applicata alla vita quotidiana di alcune generazioni. Il loro lavoro non è stato chiamato in causa in questa occasione, anche perché ampiamente acquisito in una prospettiva dell'arte internazionale contemporanea, per quanto ancora estremamente attuale, ma diversi sono stati i contributi di artisti delle ex-repubbliche sovietiche, dal Kazakistan alla Lituania, che hanno dato il segno della possibilità di riflessione offerta dalla Biennale di Carrara, svoltasi quest'anno all'insegna appunto del “Post-Monument”, categoria che il curatore della rassegna, Fabio Cavallucci, ha saputo interpretare, coinvolgendo artisti che hanno dato versioni curiose, ironiche e interrogative di come si possa tentare non di rivitalizzare esteriormente la monumentalità, insieme con la pratica della scultura secondo la tradizione dei laboratori del marmo, ma piuttosto di rilanciare le riflessioni che l'arte contemporanea propone nel dialogare con la storia dalla quale proviene o come forma di comprensione e interpretazione del proprio tempo, al di là della sua celebrazione. Per questo la statua di Stalin sdraiata su un assito o il ritratto di Mussolini scolpito nel marmo di Wildt esposto in una scatola da imballaggio sono stati esposti nei laboratori ormai abbandonati della città, insieme a produzioni contemporanee, dove altrimenti veniva riproposto il ricordo del patibolo servito a mandare a morte alcuni anarchici alla fine dell’Ottocento (opera di Sam Durant) o dove un

semplice parallelepipedo di marmo offriva il basamento sul quale chiunque poteva interpretare la sua figura di monumento (parte dell'opera di Gillian Wearing) o due sculture di uomini in

marmo eseguite con l'uso di programmi informatici (di Anthony Gormley) convivevano con un deserto di rovine in una fabbrica in disuso. Un insieme di proposte che ha dimostrato la vitalità di un'arte che si nutre del confronto con le idee che la sorreggono, al di là delle provocazioni date dalla grande forma escrementizia in travertino lasciata da Paul McCarthy nella strada più elegante della città, o dalla proposta di dedicare un monumento convenzionale a Bettino Craxi, formulata da Maurizio Cattelan. Un tema, quello del monumento come reale contenitore di memoria e segnale di condivisione, che va al di là delle istanze politiche, provocatorie o anche semplicemente estetiche, per toccare il significato del rapporto fra l'arte e la dimensione pubblica dei modelli culturali, che questa mostra ha spinto a riprendere in considerazione in modo intelligente, senza dare risposte, ma sollevando domande capaci di toccare tutti. Francesco Tedeschi, Università Cattolica,

Milano

�Film “Uomini di Dio” (Des hommes et des

dieux di Xavier Beauvois, Francia 2010) Il tragico episodio del martirio di sette monaci trappisti del monastero di Notre Dame de l’Atlas a Tibhirine, nel 1996, nell’Algeria squassata dalla guerra civile scatenata dai terroristi islamici contro i militari al governo e la popolazione civile, diventa qui un lucido racconto dell’interstizio tra vita vissuta e morte violenta annunciata. Il film offre una ricostruzione attentissima alla vita ordinaria dei monaci, alla loro umanità ma anche alla profonda dimensione di “dono” che per essi ha comportato la loro vocazione. I due personaggi chiave sono Christian, il priore, e il monaco più giovane,

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Christophe, il “poeta” della comunità, che vive una grave crisi (mettersi in salvo o restare?) e poi la supera. Il gruppo dei monaci, così diversi tra loro, si presenta come una vera comunità in cui l’io e il noi si integrano nel dialogo che si svolge fino alla fine, quando tutti abbracciano la decisione di restare per condividere la condizione degli algerini, ben sapendo che si espongono alla morte da parte dei terroristi che già li hanno visitati e minacciati. Straordinari mi sono apparsi certi particolari: come quando Christian si reca nella stanza di Luc addormentato (l’anziano monaco-dottore che si prodiga da anni per tutti i poveri e i malati del villaggio), gli sfila delicatamente il libro e gli occhiali dimenticati e gli spegne la luce chiudendo piano la porta; o quando Christian abbraccia in silenzio Christophe che gli ha confessato la sua crisi…O ancora quando tutti i monaci riuniti in cappella subiscono il rumore assordante dell’elicottero che gira a bassissima quota sopra il convento e reagiscono cantando e mettendo ciascuno il braccio sopra la spalla dell’altro, quasi come uccelli migratori in formazione compatta e invincibile. Molto significativa è poi la scena dei monaci che, ormai alla vigilia della fine, si ritrovano a tavola con il loro confratello venuto da Algeri e festeggiano con due bottiglie di vino mentre sullo sfondo cresce e poi diminuisce una musica molto intensa: questo momento di lietezza e di gioia che nonostante tutto la comunità riesce ad esprimere e che si riflette sui volti di ciascuno ricorda in qualche modo la conclusione de Il pranzo di Babette (di Gabriel Axel, Danimarca 1987). E le parole finali del testamento scritto da Christian, che invocano la pace e il perdono anche sull’uccisore, non possono lasciare indifferenti credenti e non credenti, cristiani o islamici: “E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio da te previsto. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due” (v. Christian de Chergé e gli altri monaci di Tibhirine, Più forti dell’odio, Qiqajon, Bose 2010, p.231). Giovanni Gasparini, Università Cattolica,

Milano

4. Vita quotidiana �Piccole cose interstiziali al Museo delle Arti e

Tradizioni popolari di Tolmezzo (Udine) Il Museo Carnico delle Arti e Tradizioni popolari di Tolmezzo, uno dei più longevi (1964) e meglio

curati d’Italia, si può considerare il deposito privilegiato, quasi il centro della memoria della vita quotidiana e della storia dal basso della Carnia, una subregione del Friuli che presenta particolarità culturali oltre che paesaggistiche e ambientali che sono tuttora notevoli. Colpisce, visitando questo museo voluto da un eminente friulano quale fu Michele Gortani (1883-1966), geologo stimato e appassionato etnologo, nonché raccoglitore infaticabile di elementi della cultura materiale locale, l’attenzione ai dettagli e l’accuratezza sia estetica che funzionale di piccole cose costruite per servire ai bisogni dell’esistenza quotidiana. Accanto a tanti oggetti che trovano corrispondenza in analoghe raccolte museali di altre regioni e aree – quelli della cucina, della camera da letto, dei vestiti, degli strumenti da lavoro e così via – ve ne sono alcuni di una originalità sorprendente: come i sedonars, portaposate intagliati in legno da appendere in cucina, ciascuno di fattura diversa ed esteticamente molto curati; o come la lum di pin, una sorta di sostegno di ferro con una molletta che serve a reggere un legnetto di pino resinoso atto a fare luce quando arde. Ma la “piccola cosa” più stupefacente mi è sembrata l’arca battesimale per due bambini: si tratta di un oggetto di legno, tuttora provvisto al suo interno di cuffiette e fasce, che assomiglia in piccolo ad un’arca, con tanto di finestrelle e una colomba che la sovrasta (possibile richiamo a Noè ed anche allo Spirito santo che opera nel sacramento battesimale). L’arca era provvista di due ganci, davanti e dietro, per il trasporto da parte di due persone. E’ straordinario e commovente pensare alla cura che, evidentemente in tempo d’inverno e dovendo coprire distanze di una certa consistenza tra l’abitazione e la chiesa (un interstizio spaziale, si potrebbe dire), i parenti ponevano nel gesto che introduceva il neonato alla vita religiosa. Questo si faceva in Val Pesarina, una delle vallate carniche ancora oggi più intatte e tranquille delle Alpi, dove anche il viaggiatore frettoloso non può non essere colpito da una cura estetica che si scorge immediatamente nella decorazione di case, fienili, stradine e piazzette; e persino nei gerani esposti alle finestre con i loro “para-gerani” (non saprei definire altrimenti questi oggetti, in attesa che vengano raccolti dal Museo delle tradizioni popolari) che li riparano delicatamente ed efficacemente dalle intemperie e dal maltempo. Giovanni Gasparini

����Tempo e società – dal tempo del sole al tempo

delle macchine Cosa è la nostra vita se non il tempo che

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trascorriamo nel nostro esilio terrestre? E quale maggiore e perfetta semplicità misurarla attraverso la coincidenza ed il moto della luce del sole, proprio quella luce che ha reso e rende la nostra vita terrena possibile? L'arco che il sole disegna dall'alba al tramonto, oppure da un solstizio all'altro non è forse la migliore metafora dell'ascesa e del declino della nostra vita terrena, e quindi quale maggiore armonia dell'ingegno intrappolare questa luce magica nella precisione e nella cartesiana coercizione matematica di un orologio che proprio attraverso di essa misuri il fluire nel tempo della vita? Questa è la magia che gli orologi solari e le meridiane hanno sempre avuto agli occhi degli uomini, nella loro capacità di dare quasi l'impressione di poter controllare il volgere del sole e della vita ed al tempo stesso presentarsi come un sommesso omaggio dell'intelletto e della ragione alla sua potenza e al suo mistero. Una volta che l'uomo, nella sua incessante opera di addomesticamento della natura, è riuscito ad impadronirsi della misura del tempo, essa è sempre stata un tratto caratteristico e fondamentale della sua organizzazione sociale e ne ha accompagnato e favorito l'evoluzione. Il tempo della meridiana e dell'orologio solare, scandito unicamente dal sole e dall'intelligenza del costruttore, è l'espressione della società agricola, in cui la tecnologia ha un ruolo minimo e la produzione ed il funzionamento della società sono affidati a caratteristiche naturali non trasformate in macchine, la forza degli uomini, quella degli animali, il ciclo delle stagioni e la luce del sole. Il tempo si presenta ancora come un flusso indifferenziato, suddivisi in maniera grossolana a scandire il ritmo di una società che era ancora dipendente dai ritmi e dei cicli naturali. Il lavoro dei campi, la preghiera nei conventi segue un tempo lento, ripiegato su se stesso, ogni giorno uguale al precedente. La precisione della suddivisione del tempo è sempre stata fortemente legata alla capacità produttiva di una società e al suo livello di distanza dal dato naturale, far funzionare le macchine attuali, elettroniche, sarebbe assolutamente impossibile utilizzando la suddivisione del tempo che ci può dare un orologio solare, soltanto la tecnologia può produrre macchine che misurano il tempo sull'ordine dei nano secondi, e soltanto un tempo misurato sull'ordine dei nano secondi può far funzionare macchine che sono in grado di moltiplicare migliaia di volte la produttività del lavoro umano, l'infinitamente grande non può che reggersi sull'infinitamente piccolo. Anche storicamente, lo sviluppo delle macchine e la precisione con cui può essere misurato il tempo

vanno di pari passo, e ne è ben testimone l'evoluzione delle macchine che misurano il tempo: gli orologi; basti pensare al problema della longitudine, che venne risolto soltanto quando la tecnologia fu in grado di produrre orologi sufficientemente precisi, e basti pensare a cosa questo ha significato per sviluppo del commercio mondiale e per l'epopea del capitalismo coloniale. L'orologio incarna sia il nostro controllo sul tempo sia il grande significato che esso ha non soltanto per sviluppo delle macchine ma anche per il funzionamento complessivo di una società, attraverso l'orologio se noi controlliamo il tempo esso controlla noi, il suo controllo è tanto più raffinato quanto più il nostro orologio lo può spezzettare, e questa frase è valida in ambedue i sensi. Se l’orologio solare esprime l’adattarsi dell’uomo al ritmo della nature, l’orologio meccanico, figlio della τέχνη, esprime la volontà di dominio dell’uomo sulla natura, la sua illusione di controllarla e piegarla ai suoi scopi. L’ingranaggio, la ruota dentata diventa il nuovo sole, grazie alla ruota dentata l’uomo non ha più bisogno del cielo per governare il tempo, il tempo ora è dentro la macchina, e l’ingranaggio prende il posto del sole. Con la modernità anche il tempo cade dal cielo sulla terra, perde le sue ali e si piega anch’esso alla nascente civiltà delle macchine e del progresso produttivo. La ruota dentata frammenta il tempo in gocce sempre più piccole, ma capaci di combinarsi esattamente, proprio come i denti degli ingranaggi. Gli orologi permettono di trasformare la società umana in un meccanismo di perfette coincidenze, permettono di coordinare tutte le attività tra loro a patto che siano collegate da orologi che siano tra loro in armonia nella suddivisione del tempo, quanto maggiore questa suddivisione e quanto maggiore è questa armonia di coincidenze, tanto più veloce potranno funzionare le macchine e tanto più veloce potrà funzionare la civiltà delle macchine, che è poi quella in cui noi tutti viviamo. Non può sfuggire la poesia moderna di questo grande battito collettivo degli orologi del mondo che si richiamano gli uni con gli altri permettendo a tutte le attività, a tutte le persone, a tutte le macchine, di "battere a tempo" incontrandosi laddove serve e permettendo che tutto funzioni come un ben oliato gioco di ingranaggi. Ed anche dal punto di vista individuale, è ben difficile restare lontani ed esterni a questa armonia degli ingranaggi, restarne fuori significa essere esclusi, ed allora eccoci tutti a guardare l'orologio per sincronizzarci continuamente e nuovamente con l'armonia delle sfere che fanno girare la società. Solo chi è emarginato vive senza orologio, togliersi

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l’orologio produce un senso di vertigine, di timore, come essere in un terreno minato fuori dal sicuro recinto della società, senza nulla che ci tenga legati agli altri. Ecco il grande significato sociale del tempo e del modo e delle macchine con cui lo usiamo e cerchiamo, vanamente, di dominarlo. Domenico Secondulfo, Università di Verona

5. Rubrica “Le città interstiziali”

@ Toronto (Canada) Lunedì 25 ottobre 2010: oggi a Toronto è giorno di elezioni. L’aria freme di impazienza e anche nella città più multiculturale del mondo, la battaglia sembra correre sul il filo del rasoio dell’immigrazione. Già da stasera si saprà se lo spirito di questa metropoli globale continuerà a

rimanere quello dell’accoglienza. Gli interrogativi scorrono veloci: chissà se, anche dopo stasera, l’esercito dei migranti, ovvero dei nostri “extra”qualcosa, qui continuerà a essere definito come l’universo dei newcomers, dei neo-arrivati. Chissà se anche dopo stasera, Toronto continuerà a sorprendere i suoi visitatori per la vivacità del suo multiculturalismo, un mosaico di più di 158 etnie. Qui Chinatown, Little Italy, Greek Town, Little India, piccole e grandi enclaves si succedono in una down-town dove poco si respira l’aria viziata della segregazione e dove è possibile osservare molteplici incontri e intrecci fra i popoli del mondo. Incontri che ti sorprendono nei lineamenti indecifrabili dei bambini, nei profumi dei ristoranti e delle case dei vicini, nelle carnagioni dei colleghi che ti circondano in una delle università più prestigiose del mondo, nel senso di sicurezza che può provare una donna nel viaggiare da sola, su un autobus la sera. In questo breve interstizio che corre fra la Toronto di oggi e la Toronto che da domani verrà, mi piace celebrare questa città con speranza, per tutto quello che fino a oggi è riuscita a rappresentare e

per quello che ha da insegnare al nostro spaventato, stanco, vecchio continente. Roberta Cucca, Università di Toronto @ Varanasi, un interstizio tra la vita e la morte

Esistono dei luoghi, e dei momenti, in cui il sacro e il profano, la vita terrena e l’aldilà, il tempo e l’eternità si avvicinano fino quasi a toccarsi. L’interstizio, ovvero lo spazio e il tempo, che separa i due opposti si riduce a tal punto che le persone sono sospese tra l’uno e l’altro stato oppure possono passare da uno stato all’altro e vivere contemporaneamente nelle due dimensioni. Il film che ha vinto nel 2010 la Palma d’Oro al festival di Cannes, del regista tailandese Apichatpong Weerasethakul, si intitola significativamente “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti” e parla di un malato terminale che, quando si appresta a lasciare questa vita, si ricorda di quelle precedenti (era stato principessa, bufalo, guerriero) e ha la premonizione di quello che sarà nella prossima. Gran parte della cultura e della religione orientale è impregnata di questa idea di continuità e contiguità tra vite successive, per cui la vita che verrà è determinata da come è stata vissuta e da come è stata abbandonata la vita precedente. Il fiume Gange, che scorre da Ovest a Est lungo tutta la pianura dell’India del Nord, è per gli hindu il fiume sacro per eccellenza. Egli scorre maestoso dai luoghi dove il sole si nasconde a quelli in cui il sole nasce e diventa fulgido. È un grande privilegio fare la Puja (preghiera) quotidiana sulle sue sponde (e sulle sponde di uno dei suoi numerosi affluente); desiderabile morire guardando le sue acque e avere le proprie ceneri sparse nella sua corrente. La vita futura sarà sicuramente una vita buona e, forse, addirittura non sarà, perché la morte e la cremazione in riva al Gange promettono di purificarsi e di guadagnare molte vite rispetto all’obiettivo finale di riunirsi nel Divino Cosmico, nell’Anima Universale alla quale tutti gli spiriti (Atman) appartengono. Varanasi, la vecchia Benares, è la città (gli storici affermano che Varanasi sia stata la prima città della storia dell’umanità), il luogo per eccellenza dove la dimensione spirituale hindu si concretizza e il sacro fiume Gange, sulla cui riva Varanasi è stata edificata, ne è il simbolo. I Ghats, le terrazze di pietra affacciate sulle acque, sono il luogo dove la vita presente incontra quelle trascorse e quelle successive, passando attraverso il momento della preghiera, della morte, della cremazione e della dispersione delle ceneri nelle acque sacre. Specie all’alba e al tramonto, le terrazze si riempiono di folle di fedeli policrome e

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variegate, che pregano cantando insieme al ritmo di tamburi, di nacchere e di suoni, che avvolgono le persone e fanno sentire un tutt’uno con gli altri. E poi ci si immerge nell’acque per purificarsi e si abbandonano nella sua corrente lumini di burro accesi e coroncine di fiori per onorare gli antenati e il Grande Fiume della vita. E mentre si prega e ci si congiunge con lo Spirito, a poche decine di metri ardono le pire che bruciano corpi diventati inutili. Italo Piccoli, Università Cattolica, Milano

Pubblicazioni recenti

• Viator – n° 6-7- Giugno-Luglio 2010 - In questo numero Gasparini parla del “Camminare”, ovvero di riscoprire l’importanza di uno dei gesti più significativi e primordiali, simbolo di emancipazione.

• Viator – n° 9-10- Settembre-Ottobre 2010. In questo numero Gasparini parla del “Cantare”, un gesto naturale da rivalutare dopo le soffocanti inibizioni del mondo d’oggi. Scrive Gasparini: “Cantare per proprio conto, in fondo, non è molto dissimile dal parlare ad alta voce fra sé e sé, un’attività che come osserva con finezza il Manzoni è tipica delle persone sincere”.

• Rivista Riflessioni Sistemiche, n. 3, "Viaggio

attraverso ed oltre i confini disciplinari". Potete consultare il numero in oggetto gratuitamente (come già per i primi due numeri) presso il sito dell'AIEMS (Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche). Il numero è dedicato al tema della inter e trans disciplinarità. Il link é il seguente: http://www.aiems.eu/presentazione.html

• Laura Bovone, Tra riflessività e ascolto.

L’attualità della sociologia, Armando, Roma 2010.

• Maddalena Colombo, Dispersione scolastica

e politiche per il successo formativo, Erikson, Trento 2010.

• Duccio Demetrio, L’interiorità maschile. Le

solitudini degli uomini, Raffaello Cortina, Milano 2010.

• Antonio De Simone, L’inquieto vincolo

dell’umano, Liguori, Napoli 2010. • Martino Doni, Lorenzo Migliorati (a cura

di), La forza sociale della memoria.

Esperienze, culture, confini, Carocci, Roma 2010.

• Carla Lunghi, Maria Antonietta Trasforini (a cura di), La precarietà degli oggetti.

Estetica e povertà, Donzelli, Roma 2010.

Comunicazioni interstiziali…

• Siete tutti invitati – accademici e non, scrittori, scriventi e dilettanti allo sbaraglio, bambini e adulti - a scrivere dei Miniracconti di Natale da inviare alla Segreteria del Gruppo Interstizi & Intersezioni entro il 15 dicembre 2010, che saranno pubblicati sul prossimo numero del NEWSMagazine, il numero 20, che rappresenta per il Gruppo un traguardo importante e che, anche per questo, vuole essere un numero speciale. I miniracconti non devono superare (possibilmente) le 3.000 battute.

• Call for Photoes: inizia la raccolta di foto interstiziali, che saranno pubblicate nei prossimi numeri del NEWSMagazine e che andranno a costituire un archivio, gestito dal Gruppo Interstizi & Intersezioni. Se volete e se credete potete inviarle alla segreteria del Gruppo.

I nostri recapiti: Giovanni Gasparini (Il coordinatore) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.2547

Cristina Pasqualini (La segreteria) Dipartimento di Sociologia Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, 1 20123 Milano [email protected] Tel. 02.7234.3976

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Il Gruppo “Interstizi & Intersezioni”:

Piermarco Aroldi, Paolo Corvo, Giovanni Gasparini, Fabio Introini, Cristina Pasqualini,

Nicoletta Pavesi, Giovanna Salvioni, Paolo Volonté

I corrispondenti:

Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi (Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara (Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università Cattolica – Milano (Teatro); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia); Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française – Parigi; Giacomo Corna Pellegrini, Università degli Studi di Milano (Geografia); Cecilia De Carli, Università Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia); Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica); Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin, Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia); Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta, Milano (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica – Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A. Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago (Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca (Etica); Luigi L. Pasinetti, Accademia dei Lincei – Roma; Alberto Ricciuti, Milano (Medicina); Francesca Rigotti, Università della Svizzera Italiana – Lugano (Filosofia); Detlev Schild, University of Göttingen (Biologia); Cesare Segre, Accademia dei Lincei – Roma; Dan Vittorio Segre, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Politologia); Pierangelo Sequeri, Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Antonio Strati, Università di Trento (Teoria dell’organizzazione);

Pierpaolo Varri, Università Cattolica – Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Viaggio); Serena Vitale (Letteratura russa). Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia (www.ais-sociologia.it) e sul sito del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano (http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524). Il contenuto degli articoli è

liberamente riproducibile citando la fonte.

Numero chiuso il: 8 novembre 2010