m.a.d gallery milano

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Art & Photos


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“Non c’è nulla da dire” così affermava un nichilista Piero Manzoni sull’Arte quasi mezzo secolo fa in una Milano allora manifestamente dinamica, produttiva e in espansione, fucina non solo di oggetti da consumo e di benessere ma anche di cultura. E oggi questa metropoli che ha cambiato aspetto dai favolosi anni ’60 diventando un po’ più distratta, un po’ più lontana dalle vicende culturali e artistiche ha dimenticato del tutto l’arte? No pare proprio di no e M.A.D. Gallery con gli artisti che propone ne è una testimonianza. Qui proprio nel cuore della vecchia città, non quella certo del lusso e dello sfoggio, ma in un borgo che fu di lavoratori, pescatori, lavandaie e piccoli commercianti, lungo l’argine del Naviglio Pavese, si è aperta nel febbraio scorso un’“officina” di artisti, siano essi pittori scultori o designer.

Apparentemente non hanno una linea comune né paiono volerne avere ad un primo sguardo. Infatti tanti e disparati sono i temi e i soggetti che affrontano, molteplici le tecniche e svariati i supporti, eppure tutti, nessuno escluso, comunicano senza dubbio il loro sentire, il loro modo di vedere il mondo come loro lo intendono. Se proviamo ad entrare nel loro campo di battaglia, pardon di esposizione, si fa avanti ai nostri occhi una miscellanea di colori, di forme, di immagini: immediato e certo è lo stupore.

Forte, vorticoso, vivace e caotico ma divertente è il mondo di Ghada Darwish, giovane artista egiziana, che colpisce con le sue tinte accese il nostro occhio e, immantinente, ci catapulta lì con lei nel deserto, in quel paesaggio caldo e polveroso dove la mente si offusca in neri vortici. Quand’ecco che in un'altra tela, in un battito d’ali, ci ritroviamo in una riposante oasi, rilassante e fresca dove metaforicamente, e concretamente sul piccolo pannello, emerge un piccolo fiore, delicato ma tenace, sintomo di una speranza di riposo e di pace in una lunga traversata fra deserti reali e dell’anima.

La serenità che proviene dall’ambiente ritorna in modo splendido nelle opere di Paola Zaccari, la quale con tratti semplici, perfino elementari, delinea l’uomo odierno nella natura, nell’ambiente. Se cromaticamente domina un tenue verde pastello, nelle forme, in particolare nel lungo pannello verticale momentaneamente esposto, domina l’uomo. Uomo scisso fra coscienza popolare e crescente sentire di come la Natura vada

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rispettata e tutelata e stantio lassismo; per cui la scelta di spendersi per salvaguardare il creato, francescanamente parlando, si potrebbe procrastinare alle generazioni successive, in un’ottica egoistica e individualistica della propria esistenza. Questo dilemma, vera e propria dicotomia, si avverte a chiare lettere in quel vortice, violentemente rosso, che si dirama dal centro della figura umana, si noti bene non dalla mente, dalla razionalità, ma dalla pancia di quell’essere perché la difesa della natura non deve essere una scelta ponderata ma un istinto primitivo, feroce, atavico, in una parola ancora e di nuovo “naturale”.

Concetto ribadito, propugnato e ridotto all’essenziale nell’opera di Monika Allenbach-Hommel, dove sulla tela non c’è più posto per le riflessioni, per creare ponti di dialogo fra l’uomo ed il suo ambiente, vi è solo l’urgenza, estrema ed ultima, di conoscere la Natura, di proteggerla e di ammirarla così come è. I legni concretamente si dispongono sulla tela, che, come un grosso tronco di quercia, si fa tutta marrone. La forza dirompente e inamovibile dell’elemento vegetale prende il sopravvento. Lo

scontro con lo spettatore è diretto; non potrebbe essere altrimenti, in palio c’è la vita.

Una possibilità di riconciliazione è proposta da Michelle Dietiker in un momento di panismo. L’uomo si fa albero e la vegetazione prende forma umana. Così quella schiena un tempo bianca, nitida, perfetta e immacolata si sporca di verde, di edera, di marrone e di terra. Non solo il corpo umano assume i colori dello flora ma diventa esso stesso strumento di supporto per celebrarla. Come un banale vaso, come in un metaforico abbraccio, l’umanità sostiene e riscalda l’indifesa foglia.

Giallo. Abbagliante. Un’apertura all’ entusiasmo: così Shpresa Tolaj Gjonbalaj invia dalla tela un invito a rallegrarsi, ad aprirsi con gioia alla spazio circostante. Non vuole dare né risposte né consigli: è giallo, è colore, è vita. Chiunque osservi la sua tela non voglia dall’artista

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albanese risposte ma si convinca che la felicità esiste, è sufficiente abbassare le difese ed esserne travolti; non è un semplice astrattismo che richiama a mondi privati dell’artista, è una dichiarazione di resa: non alla fine ma all’impeto di un cambiamento.

Un cambiamento che può essere tangibile, chi mai ipotizzerebbe di creare lampade con i propri capi? La risposta è facile se si conosce Alessandra Corti, che con sicurezza e con un pizzico di follia, tanto ci vuole per rompere le barriere del consueto, ha reso i propri indumenti di lingerie veri e propri punti luce. Una sottoveste, una mini – gonna, un paio di calze, solidificate dai processi creativi di Alessandra, diventano lampade. Un design funzionale e un’attrattiva intrigante per chi voglia conoscere l’artista entrando direttamente dalla porta principale.

Pensa a valorizzare l’aspetto femminile con creazioni originali e ricercate Renata Poccia, con la grazia di un orafo ottocentesco ma con il gusto di una designer contemporanea. I suoi non sono gioielli, non sono accessori, sono piccoli tesori. Le raffinatissime creazioni, rivelano una linea deliziosa, una rara maestria artigianale, un modo per svestirsi dei propri abiti banali e per indossare la magia di uno scintillante sogno.

La delicatezza femminile e le espressioni poetiche della parte rosa del cielo sono magistralmente riassunte da Melinda Barwanietz Bezeredy. Le tinte leggere e acquerellate che movimentano le sue opere di estremo ordine compositivo aggiungono una nota di tortuosità a ciò che altrimenti sarebbe così perfetto da apparire stucchevole. La sintesi finale lascia attoniti per la completa commistione di sensazioni: un colpo viola all’anima in un universo lattescente.

Vita che è fatta di trame, d’incroci, di sovrapposizioni e di contatti con gli altri e con sé finché in un computo ipotetico dei propri giorni non si comprende più con chiarezza ciò che si era all’inizio da soli, ma nitido è solo ciò che si è

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diventati grazie a questa miriade di fili intrecciati e così appare spiegata la visione che Motoko Oyomada esprime nei suoi lavori. Stralci di colore che, ordinati all’inizio come testimoniano quei rigidi segni grafici, si sono fusi e

mescolati fra loro al punto che scinderli sarebbe impossibile e sacrilego.

Se qualcuno, d’altro canto, un giorno ci chiedesse chiarezza, nitore, linee essenziali e pure per viaggiare sulla trama di un immaginifico telaio dell’Arte non farebbe di meglio che imbattersi in Stefania Carrano. Per lei la definizione di “artista a tutto tondo” non sarebbe una lode, ma un requisito

minimo per cominciare a raccontarla. Lei crea e assembla, ricorda e rinasce e così si formano fitte trame di linee e oggetti, che, incastonati su grezzi fili di ferro o ruvide corde, ricordano il suo passato, rivelano la sua esperienza e ci spingono a vedere oltre: il filo non è che un appiglio per spostare lo sguardo al di là dell’ orizzonte.

Caotici, vorticosi, perfino opprimenti sono i disegni realizzati da Sung Nam Lee, dove il mondo degli opposti, il bianco e il nero – colori pressoché esclusivi nelle sue chine – s’intrecciano continuamente in segni grafici squisiti, testimoni di una grande perizia tecnica, di un evidente virtuosismo nell’uso del tratto, di un tormento interiore dell’ artista. Non potrebbe essere altrimenti se dal viso della giovane ritratta, come una novella Gorgone, si dipanano innumerevoli fili, che lasciano stordito e attonito chi è incappato nella trappola grafica di Sung.

Ampio respiro e possibilità di riscatto ce la regala Niko Sadonkov con la sua personalissima strategia d’uscita dalle mere piccolezze quotidiane. Sulla delicatezza dei suoi vetri come in un’apparizione si materializza il volto di una donna dai tratti schematici e nitidi.

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Spirituale è il richiamo a una Madonna bizantina, un gancio di salvezza per lui, per uno spettatore che in quel distaccato ma saldo sguardo materno, sia essa una divinità o una semplice madre, può trovare consolazione.

E due volti resi con pochi tratti scuri e decisi, nella loro bellezza primigenia si confrontano fra loro e con lo spettatore. Non sono abbelliti o ingentiliti dalla mano di Suad Ellaba, anzi si mostrano sfrontatamente allo sguardo di chi li osserva, con sicurezza emergono su un catalizzante azzurro intenso. Non hanno inibizioni, né cercano di adeguarsi a una nutrita folla di altri milioni di abitanti del pianeta: sono loro due, un uomo e una donna e questo deve bastare. Un pesante tratto rosso però li accumuna, segnale forse che non possono

essere scissi, perché l’esistenza dell’uno è intrinsecamente connessa a quella dell’altro e quel fil rouge li unisce e li condanna, perché per entrambi quel lembo rosso, pesante come un macigno, chiude un loro occhio e li vincola a ricercarsi per sopravvivere.

La contrapposizione fra due esseri, due monti e differenti identità emerge pure nella produzione di Arlette Delevallée, in cui la tensione che si genera fra due entità opposte è portata allo stremo. C’è dolore in quella corda

tesa con rabbia dai contendenti, come se i due fronti non volessero perdere terreno, eppure sono complementari e lo testimoniano i loro colori. Ora sono nemici, ma è evidente che furono uniti. La lotta è solo un passaggio, la speranza e la certezza dell’artista stanno in una conciliazione finale.

Contraddizioni e conciliazioni possibili che possiamo ritrovare in Stefanie Seiler. Ricchi di colori luminosi e di texture patinate sono alcuni

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lavori della giovane. Blu e gialli, verdi e rossi si contrappongono in opere singole o dialogano in quadretti di piccolo formato, dominati da una sola tinta. Il risultato non è per niente deciso o categorico, come in un’avvincente partita l’avversario controbatte sempre; a volte, ma solo a volte, la partita si conclude con un pareggio e lì i colori e le forme si cristallizzano.

Eppure l’uomo non è solo un essere rinchiuso in sé o proteso esclusivamente ai grandi ideali ma è il protagonista dell’oggi, colui che si interroga del proprio presente, registrandone i fatti o lasciando emergere i propri timori. E Tadeusz Machowski registra la propria realtà, ripropone sulla tela il suo paesaggio di

città del nord Europa con il gruppo di case ben definito, anche se solo tratteggiato, eppure la riflessione, la paura, l’angoscia sulla propria contemporaneità non rimangono fuori dalla tela ma la segnano con violenza, con rabbia e con un segno purpureo, che tracciato con foga e decisione al centro della composizione, spezza l’ equilibrio, annienta un cosmo predefinito e ben ordinato, distrugge le certezze: c’è sgomento. L’uso del colore come veicolo di messaggio segnala un richiamo chiaro e potente all’ Espressionismo, che proprio nel nord Europa, in un periodo di incertezze sul presente, terminati i gran balli delle Belle Epoque, marchiò la sensiblerie degli artisti che allora operavano o che da lì a qualche decennio sarebbero nati come Tadeusz.

La carica emotiva riguardo l’oggi, affiora nelle opere di Bjorn Borge - Lunde, che non rinuncia né a un nitido legame con lo scenario politico attuale, mettendo in risalto in un cupo e tenebroso panorama medio – orientale, i volti chiari, sorridenti e luminosi delle donne locali, né tralascia la riflessione sugli

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archetipi e sulla provenienza dell’umanità in quelle uova, forse cosmogoniche, che affiorano in un mare di nebbia nera.

Un terreno di conciliazione fra passato e presente nel grande tormento è esposto nelle tele di Dania Gentili; quei segni frenetici, nervosi se non nevrotici gettati d’impulso dall’artista sulle ampie tele rivelano una volontà di fare pace con i propri odierni timori, ostacolata però dalle ombre scure e pesanti del passato. E così un fazzoletto di colore vermiglio sta per essere

divorato da un’inquietante maschera: enorme, biancastra, malata. I denti in un ghigno mostruoso vorrebbero divorare il presente. Riuscirà quel volto, proiezione di così tanti rovelli interiori, a distruggere le certezze? Non lo sappiamo, non lo sapremo finchè Dania forse un giorno, se vorrà, ce lo esprimerà in un rettangolo di un pannello dipinto.

E arriva l’acqua e dilava tutto. Così sciacquate come dopo un diluvio si mostrano le opere di Werner Kramer: il colore cola letteralmente dalla sommità alla base della tela, tutto è fosco, il paesaggio si nasconde, l’incertezza domina sulla nitida visione. Come nelle ultime opere di un Monet ormai cieco i confini sono frastagliati, intuibili solo i colori di un quid indecifrabile per noi, ma chiarissimo nel sentire di Werner. Quel ponte, quel bivio di strade che riusciamo a leggervi ci siano sufficienti perché diventiamo noi costruttori del nostro scenario.

L’attanagliarsi dell’animo umano sugli aspetti più reconditi, irrazionali, misteriosi torna in altre modalità nelle esecuzioni di Federico Pisciotta che se da un lato ritorna all’ordine, ad una esecuzione nitida e pulita del disegno, di impostazione rinascimentale, dall’altro mette l’enigma al centro al centro della sua riflessione, la consapevolezza che esista un quid di sfuggevole alla logica, sebbene da esso sia mosso. Ed è il

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caso degli scacchi, gioco machiavellico per eccellenza, dove le pedine procedono ordinatamente e in modo lineare sulla griglia di gioco, ma sono mosse dalle riflessioni inafferrabili e subitanee dell’abile scacchista. La sapiente tecnica “artigianale” del giovane romano, che si esprime sia nel disinvolto uso delle tecniche pittoriche sia nel crescente utilizzo di “espedienti tecnici” quali installazioni di fasce al neon entro il perimetro della tela, caratterizza in modo inequivocabile l’azione di Federico nel mondo artistico.

Prove di grande capacità artigianale e di volontà di ritorno alla figuratività sono avanzate da Suki Maguire, artista americana di ascendenza nipponica, che colloca il nudo femminile al centro di una parte della sua produzione, il quale con soavità e leggerezza, tuttavia non del tutto scevro di drammaticità, si dipana lungo la tela. L’atmosfera leggiadra, cauta, i pochi colori tenui e dalla gamma molto contenuta e la linea del disegno appena tracciata sullo spazio rimandano a quell’atmosfera orientale, pacata perché ordinata, da cui l’artista proviene, sebbene un rosso segno dirompi nella tranquilla composizione e sporchi quel corpo

femminile sul collo, lì dove dovrebbe esserci un volto ma al contrario vi è solo colore.

Tutt’altro clima, ben più spensierato e divertito, ricorre nelle opere di Thomas Franchina, che, come un abile prestigiatore, fa ritornare fanciullo lo spettatore inviandolo in un mondo parallelo, fatto di colori sgargianti ed irriverenti, popolato di personaggi fantastici dove le nuvole sono rosa, soffici, pronte da gustare come zucchero filato e dei cavallini danzano ininterrottamente nella più classica delle giostre. Il gioco è

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subito fatto: chi osserva perde ogni buona coordinata, scioglie i freni della propria razionalità ed entra nel mondo fatato in cui Thomas alberga.

Galoppa invece indomito e a briglia sciolta nel prato della fantasia di Saad Almelheam un cavallo blu, viola, verde. Così veloce che i tratti delle pennellate non sono stati nemmeno terminati; un vero vortice di energia, di dinamismo, di velocità. Difficile star dietro a questo animale non solo con lo sguardo, ma soprattutto con la mente, travolta dall’ansia di conoscenza e di indagine di Saad: un duello con il tempo.

Strappano un sorriso e regalano una diffusa leggerezza all’animo le opere fotografiche di Yuhei Isoya. Sicuramente merita una seria riflessione il tema di tutela alla fauna, che pare sotteso alle opere visti i soggetti animalistici, tuttavia l’irriverente cornice a pois che contrassegna le opere della medesima porta una ventata di divertimento generale, poiché l’Arte deve e può anche essere divertimento.

Immersione in un mondo altro che può avere inizio anche con Estela Orellana Martìnez, che trasformandoci in provetti subacquei ma con i piedi ben asciutti ci mostra l’intima atmosfera in cui lei vive, fatta di luminosissimi blu e celesti, dove ampie e delicatissime bolle di sapone, il più innocente dei giochi dei bambini, salgono verso l’alto; laddove il blu si stempera e la fantasia deve cedere il passo alla realtà.

Così come appena usciti da un incantato giardino delle favole paiono provenire gli abiti, i cappelli a gran tesa e le calzature “movimentate” dalle creazioni di Alex Mariani in cui pesanti

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gocce, d’oro o d’argento, scivolano sugli accessori travolgendo penne, piume e fiori che lì sono stati appoggiati.

Le creazioni delle designer possono incrociarsi con il gusto, il favore e la genialità dei complementi d’arredo di Salvo Giglio, in cui la materia legnosa è trattata per levare, rimane così segnata da vuoti ovali, ma contenuta da rigide forme ortogonali portanti, come una marea la materia si alza, si restringe, respira. A noi il dovere e la scelta di trattarla con cura.

Ad una sfera onirica, i cui contorni non sono quelli del sogno edulcorato ma di un incubo tenebroso, sono legate le teste in polimerklei create da Martin Rangelov, su ispirazione dell’opera cinematografica Alien. Tortuosi, inquietanti, fiammeggianti, rigidi ma modellabili sono questi volti umanoidi. La paura è assicurata, il volo in pianeti lontani galassie è già prenotato. Non rimane che rompere gli indugi dell’ignoto e intraprendere un viaggio nell’oscurità del non conosciuto. Impossibile sapere cosa o addirittura

chi incontreremo.

A riportarci sulla terra ci vuole uno scultore e qui Ivano Zanzi con le sue composizioni concrete come il legno ma fragili come il vetro raggiunge l’obiettivo: l’uomo è terra, è legno, può essere duro e coriaceo, con l’animo inspessito dalle difficoltà quotidiane, ma mai smetterà di tendere a qualcosa di più alto, di più vero, di più giusto anche se terribilmente fragile come solo una gigantesca bolla in vetro blu può essere.

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E sulla terra se vogliamo trovare una nostra collocazione noi scegliamo Milano, noi andiamo lungo i navigli, noi ci riflettiamo in quei deliziosi quadretti di Giuseppe Faraone, che, come l’ ultimo degli impressionisti, tratteggia così delicatamente la nostra città, il nostro piccolo ma aperto mondo, dove tutto è un po’ folle ma dove tutto ha posto, perché come concludeva il nichilista Piero “ c’è solo da essere, c’è solo da vivere”.

Elisa Domenichetti