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L’USO DELLA FORZA E LA TUTELA DEI DIRITTI UMANI NEGLI INTERVENTI UMANITARI

LA RESPONSABILITA’ A PROTEGGERE

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Premessa – Concetto di responsabilità a proteggere

In occasione del vertice mondiale tenutosi dal 14 al 16 Settembre 2005 per celebrare il 60°

anniversario dell’ONU, venne approvato un documento nel quale si faceva strada l’idea

che,nell’ambito delle relazioni internazionali, debba esistere un principio in base al quale si possano

determinare le condizioni in presenza delle quali sia “giustificato” e quindi moralmente e

giuridicamente doveroso intervenire da parte di uno Stato e/o della Comunità Internazionale in

presenza di specifiche violazioni di diritti umani all’interno di uno Stato o in una determinata zona

geografica.

Si tratta di un concetto ampio che prevede l’utilizzo da parte sia dei singoli Stati che della Comunità

Internazionale di misure diverse, di natura prevalentemente pacifica, ma senza escludere anche

quelle di carattere militare.

Venne quindi definita la nozione di “responsability to protect” o “responsabilità a proteggere”

abbreviata con l’acronimo “r2p”. In estrema sintesi tale principio è costituito da una norma che mira

alla protezione della popolazione mondiale da eventi quali il genocidio, la pulizia etnica, i crimini di

guerra e più in generale, i crimini contro l’umanità.

Questa responsabilità incombe in primo luogo sullo Stato sovrano in riferimento ai propri cittadini;

solo se detto Stato non possa o non voglia proteggere i propri cittadini o sia lo stesso Stato che li

danneggia, allora la Comunità Internazionale è tenuta ad intervenire e agire di conseguenza per

difendere i diritti umani violati.

Tale responsabilità mira ad evitare che possano ripetersi disastri umanitari quali i genocidi del

Ruanda o nella Bosnia e Kossovo o ancora in Somalia, in quanto è senza dubbio fondamentale

sensibilizzare la Comunità Internazionale su tale tema, rafforzando l’idea che sulle istituzioni grava

la responsabilità di prevenire ed impedire tali accadimenti.

Nel report del Segretario Generale dell’ONU del 21 Marzo 2005, si evidenzia che la “responsabilità

a proteggere” rileva nell’ambito del perseguimento del fine della libertà di vivere in condizioni di

dignità quale esplicitazione del più generale principio di “libertà dalla paura”.

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Si è posta così la necessità di implementare, soprattutto nell’ambito della Nazioni Unite, il ruolo

attivo della Comunità Internazionale nell’istituire e rendere effettivi i principi della democrazia in

tutti gli Stati.

E’ intuibile che la “responsabilità a proteggere” è strettamente collegata con il più noto principio

dell’intervento umanitario, ossia il diritto di intervento umanitario, quando si rende necessaria

l’azione militare di uno Stato o di un gruppo di Stati in presenza di gravi, persistenti e sistematiche

violazioni dei diritti umani che riguardano appunto situazioni di genocidio, pulizia etnica, crimini

contro l’umanità cioè situazioni nelle quali la violazione dei diritti umani fondamentali riguarda il

diritto alla vita ed al benessere fisico e mentale.

In relazione a ciò, si è constatato come la Carta delle Nazioni Unite non preveda strumenti adeguati

di tutela di tali diritti, anzi espressamente proibisca all’art. 2 par. 7 l’intervento dell’ONU in materie

che attengono alla competenza interna degli Stati. L’elaborazione di questo principio quindi,

costituisce il tentativo di superare tali incertezze e difficoltà, anche se occorre segnalare sin da

subito che il documento citato non ha apportato nessun contributo di rilievo

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Diritto internazionale per il mantenimento della pace ed evoluzione nella carta

dell’ONU.

Principi fondamentali del diritto internazionale riguardano:

- principio del rispetto dell’integrità territoriale degli Stati (concetto di sovranità);

- principio di garanzia dei diritti universali umani e di autodeterminazione.

Scopo dell’esistenza dell’ONU riguarda il mantenimento delle frontiere e della sicurezza globale e

quindi il mantenimento dello status quo e la protezione dei diritti umani al di là della questione della

sicurezza allo scopo di promuovere società giuste e pacifiche. Infatti l’idea che ha ispirato e tuttora

ispira l’istituzione dell’ONU, riguarda proprio “salvare le generazioni future dal flagello della

guerra con l’impegno dei popoli delle Nazioni Unite” ad assicurare che non verrà utilizzata la forza

delle armi per dirimere le eventuali controversie sorte tra gli Stati.

Infatti l’art. 2 par. 4 pone agli Stati l’obbligo di astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla

minaccia o dall’uso della forza sia contro l’integrità o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato sia

in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.

L’art. 1 par. 1 della Carta sancisce quale fine primordiale dell’ONU il mantenimento della pace e

della sicurezza e pone la sua realizzazione in connessione con l’adozione di efficaci misure

collettive dirette a prevenire e rimuovere la minaccia alla pace; in considerazione di quanto sino ad

ora esposto, si può ricavare che scopo dell’ONU, per il mantenimento della pace, sia stabilire un

sistema di sicurezza fondato sulla proibizione dell’uso della forza unilaterale. La Carta a tale

proposito stabilisce un sistema centralizzato incentrato sul ruolo del Consiglio di Sicurezza,

disciplinato dal Cap VII ed un meccanismo di decentralizzazione fondato sull’attività delle

organizzazioni regionali in base a decisioni dello stesso Consiglio di cui si occupa il Cap. VIII della

Carta.

Il divieto all’uso della forza nelle relazioni tra gli Stati è una delle conquiste del diritto

internazionale contemporaneo; infatti nel periodo antecedente l’entrata in vigore della Carta delle

Nazioni Unite, gli Stati godevano della possibilità quasi illimitata di ricorrere alla forza armata

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nonostante le numerose convenzioni internazionali adottate per contenere l’uso della forza quale

strumento di tutela dei propri diritti.

Se però l’art. 2 par. 4 della Carta sancisce l’astensione dal ricorso alla forza nelle relazioni tra gli

Stati, è anche vero che il significato del termine “forza” non è specificato in questa norma e non

viene data una definizione esaustiva di essa, assumendo tale termine numerosi significati.

La maggior parte della dottrina ritiene che il divieto riguardi la sola forza armata impiegata a livello

internazionale; secondo altri autori però il termine potrebbe anche riferirsi alle coercizioni di tipo

economico e politico anche se ciò non troverebbe conferma da quanto accaduto durante i lavori

preparatori per la redazione della Carta, in quanto venne rifiutata la proposta brasiliana di includere

nell’art. 2 il riferimento alla coercizione economica. Inoltre all’art. 44 si prevede la possibilità per il

Consiglio di Sicurezza di usare la forza attraverso l’impiego di contingenti di forze armate.

Meno dibattuta è la questione inerente la definizione della “minaccia” dell’uso della forza, poiché

anche tale termine non è specificato nella Carta. Alcuni autori ritengono che in un’accezione molto

ampia la minaccia della forza potrebbe anche riguardare la corsa agli armamenti ed il possesso di

mezzi ai fini di quella che può essere definita la dissuasione nucleare.

Poiché il divieto all’uso della forza di cui all’art. 2 si riferisce all’uso diretto contro l’integrità

territoriale o l’indipendenza politica, alcuni autori hanno sostenuto che non sarebbe vietato dalla

Carta l’uso della forza che non abbia per oggetto l’integrità territoriale o l’indipendenza; è stato

però osservato che il divieto, nelle intenzioni dei redattori della Carta, era quello del carattere

assoluto di proibizione di ogni forma di uso della forza.

Le eccezioni al divieto dell’uso della forza sono sostanzialmente tre:

1. legittima difesa di cui all’art. 51, da parte dello Stato che è stato attaccato, fino a quando il

Consiglio di Sicurezza non intervenga e decida quindi di agire direttamente contro

l’aggressore. Occorrerebbe però determinare cosa s’intenda per attacco armato per stabilire

in quali occasioni si possa ricorrere alla legittima difesa. Si dovrebbe allora procedere

all’elenco di quegli atti che costituiscono un’aggressione di cui all’art. 3 della risoluzione

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3314 del 1974 e la sentenza della Corte internazionale di giustizia del 27.06.1986. In

considerazione di ciò si può affermare che un attacco armato è un atto compiuto con

l’utilizzo di qualsiasi arma diretto contro il territorio o altri beni che sono la manifestazione

di segni della sovranità dello Stato, condotto sia attraverso le forze regolari di uno Stato sia

con altre forze non inquadrabili nell’apparato militare dello Stato, ma che agiscono di fatto

in suo nome.

Una volta stabilito cosa indichi il termine “attacco armato”, si pone il problema di accertare

in concreto come l’attacco sia stato sferrato. Spetta agli Stati il compito di valutare

l’esistenza di un attacco armato di cui si ritengano vittime. La Corte internazionale ha altresì

stabilito che affinché il ricorso alla legittima difesa sia da considerarsi lecito,lo Stato che ha

subito l’attacco deve dichiarare di esserne vittima e chiedere l’aiuto di uno o più Stati.

La legittima difesa deve comunque essere proporzionata alla violazione subita.

2. azioni coercitive che il Consiglio di Sicurezza può intraprendere di cui al Cap. VII della

Carta.; si prevede quindi l’istituzione di un sistema di sicurezza collettivo dell’ONU. Il

Consiglio di Sicurezza infatti può intraprendere ogni azione navale, aerea o terrestre

necessaria al mantenimento della pace o ristabilirla quando si ritiene sia stata violata. Poiché

sino ad oggi non è stato stipulato alcun accordo tra gli Stati membri ed il Consiglio di

Sicurezza, a partire dagli anni novanta il Consiglio ha trovato nella prassi

dell’autorizzazione concessa ai singoli Stati membri a ricorrere all’uso della forza contro

altri Stati, l’alternativa alla procedura di cui all’art. 42 della Carta.

3. in base ad accordi o organizzazioni regionali.

In tema di norme positive in materia di uso della forza si può quindi affermare che il divieto della

minaccia e dell’uso della forza, oltre ad essere contenuto nella Carta delle Nazioni Unite, è oggi una

norma consuetudinaria di diritto internazionale. Gli Stati possono derogare a tale divieto in base alla

norma consuetudinaria che riconosce il diritto di qualunque Stato di ricorrere all’uso della forza per

legittima difesa. Oggi, oltre alle altre eccezioni costituite dalla decisione del Consiglio di agire

contro uno Stato che ha violato questo divieto e quando questo uso è esercitato dalle organizzazioni

regionali dietro autorizzazione del Consiglio, vi è l’ulteriore eccezione al divieto costituita dalla

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prassi di quest’ultimo decennio di autorizzare il ricorso all’uso della forza concessa dal Consiglio ai

singoli Stati.

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Concezione di Guerra Giusta

L’espressione “guerra giusta” viene ancora oggi utilizzata ed è presente nel linguaggio attuale allo

scopo di giustificare determinati episodi o situazioni dove si è in presenza di attacchi da parte di

alcuni Stati o della stessa Comunità Internazionale nei confronti di altri Stati, colpevoli di

determinate condotte che hanno provocato tale intervento.

In effetti non sempre il significato di tale espressione è stato univoco, partendo dal concetto

teleologico dell’aggettivo “giusto” secondo cui la guerra è intrapresa per eseguire il comando divino

o per la difesa di valori umani universali.

Ma in effetti è la pace il concetto da tenere sempre presente nell’analisi della guerra; quando infatti

si pensa alla pace occorre abbandonare l’idea tradizionale di “non guerra” che per secoli l’ha

relegata ad un rango subordinato nei confronti della guerra, privilegiando la concezione di pace

positiva che consiste nel “dominio della giustizia, nell’esistenza di reali condizioni di eguaglianza

sociale e di benessere diffuso,nonché nell’assenza di quella “violenza strutturale” che, provocando

tensioni e conflitti all’interno del corpo sociale, pone le premesse per l’insorgere di conflitti violenti

tra gli Stati” (Norberto Bobbio). Nella tensione tra la natura dell’evento bellico e la costruzione di

uno stato di pace positiva, trova spazio ancora oggi l’idea di “guerra giusta” nonostante il tramonto

delle situazioni originarie che l’hanno prodotta.

Questa espressione, ha una lunga storia che ancora oggi ne condiziona il significato; infatti

l’espressione “bellum iustum” venne forgiata nel diritto romano, allo scopo di valutare forme di

relazioni tra comunità straniere e Roma.

Dalla lettura di alcuni passi del De repubblica e del De officiis di Cicerone, si apprende che si aveva

bellum iustum quando i Romani muovevano guerra secondo l’antico rituale posto in essere dai

sacerdoti Feziali ad un popolo straniero qualora questo non avesse risposto positivamente o

adempiuto entro trenta giorni alla richiesta di soddisfazione per l’eventuale danno temuto o subito.

La guerra giusta quindi, per i Romani, consisteva in una procedura rigorosamente fissata dal diritto

a cui per motivi di ordine giuridico-religioso, soprattutto nel periodo della formazione della civitas,

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bisognava attenersi per il buon esito dell’evento bellico. L’aggettivo “iustum”, in questo contesto,

richiamava non un valore etico di giustizia, ma rigorosi criteri giuridici. La guerra quindi era

secondo le regole del diritto,ossia una guerra giuridicamente legittima, interna alla sfera del diritto.

Questa concezione subì una torsione sostanziale sotto la spinta delle riflessioni di Sant’Agostino

che, nel tentativo di traghettare la cultura classica romana nel pensiero cristiano, riportò

l’elaborazione ciceroniana della guerra all’interno della propria visione teleologica del mondo.

Infatti oltre i conflitti generati dall’esistenza di popoli nemici o dalla brama di potere e dalla

diffidenza si era in presenza di “bellum iustum” a cui il sapiente deve suo malgrado partecipare per

rispondere all’’ingiustizia portata; in tal caso la guerra è ispirata da Dio per punire la corruzione dei

popoli.

L’aggettivo iustum si riferisce quindi alla giustizia divina, unica fonte giustificatrice del conflitto.

La concezione di Agostino determinò l’inizio della concezione etica della guerra offuscandone la

valenza giuridica.

Tommaso d’Aquino nel 1300 riprese quanto già esposto da Sant’Agostino e fissò tre condizioni per

il bellum iustum:

- autorictas principis, ossia la guerra doveva essere dichiarata dall’autorità legale;

- iusta causa, la guerra doveva essere dettata da una giusta causa;

- recta intentio, la guerra doveva perseguire il bene contro il male.

La guerra diventava così uno strumento della volontà divina e quindi erano giuste solo le guerre dei

cristiani contro gli infedeli.

Ugo Grozio, giurista olandese, mette in secondo piano la giustificazione etico-religiosa della guerra

per concentrarsi sulle procedure del combattimento. La guerra giusta era intesa come “solenne”

dove la solennità era conferita dalla decisione presa dalle massime autorità istituzionali. Da questo

momento in poi si afferma la teoria dello Stato-potenza per cui la guerra viene intesa come

espressione della sovranità statale finalizzata al perseguimento degli interessi economici e

territoriali del singolo Stato.

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Si giunse quindi a considerare il fatto che la guerra non era più distinta tra giusta o ingiusta poiché

era sempre considerata come una procedura lecita.

Questo principio restò dominante sino alla Prima Guerra Mondiale dove si consumò il passaggio

dalla legittimità alla legalità della guerra. Il diritto bellico internazionale non era più interessato alla

giustificazione del conflitto ma alla regolamentazione del medesimo con riferimento all’uso della

violenza tra i belligeranti. In questa direzione si assiste al graduale intento di codificare attraverso

convenzioni e protocolli norme consuetudinarie e accordi tra gli Stati in tale materia.

La sistematizzazione che ne deriva può essere riassunta in quattro regole generali per cui l’uso della

forza in un conflitto armato deve essere:

- limitato ai belligeranti e solo collateralmente interessare la popolazione civile;

- essere circoscritto agli obiettivi militari;

- escludere armi particolarmente insidiose e micidiali;

- essere delimitato alle zone di guerra.

A questo riguardo, si deve osservare che, la codificazione delle norme attinenti la regolamentazione

dei conflitti ha portato alla redazione di quelle che vengono definite come le “Convenzioni di

Ginevra”; queste consistono in una serie di trattati sottoscritti a Ginevra e costituiscono nel loro

complesso, un corpo normativo di diritto internazionale noto anche come “diritto di Ginevra”,

diritto delle vittime di guerra” e “diritto internazionale umanitario”.

Dal punto di vista storico, la redazione delle convenzioni, fu dovuta principalmente allo sforzo di

Henry Dunant, un imprenditore svizzero considerato il fondatore della Croce Rossa, il quale giunto

a Solferino al termine della battaglia, nel 1859, si trovò di fronte al terribile scenario di migliaia di

feriti di entrambi gli schieramenti che erano stati abbandonati senza alcuna cura . Egli iniziò a

prestare i primi soccorsi ai soldati di entrambe le parti senza alcuna distinzione.

Nel 1863, insieme ad altri quattro cittadini svizzeri, Gustave Moynier, un giurista, Herny Dufour,

un generale e due medici, Louis Appia e Theodore Maunoir, creò il Comitato ginevrino di soccorso

dei militari feriti, antenato del Movimento internazionale della Croce Rossa.

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Fu però a seguito della guerra tra Danimarca e Prussica del 1864 che il Governo Elvetico organizzò

una conferenza diplomatica cui parteciparono i rappresentanti di 12 nazioni e che si concluse con la

ratifica, il 22 agosto di quello stesso anno, della prima Convenzione di Ginevra per il miglioramento

delle condizioni dei militari feriti in guerra.

A questa seguirono altre convenzioni, in tempi diversi, quali:

- Convenzione per il miglioramento della sorte dei feriti e malati negli eserciti di campagna del 6

Luglio 1906;

- Convenzione per l’adattamento alla guerra marittima dei principi della Convenzione di Ginevra

del 1906 del 18 ottobre 1907;

- Convenzione per il miglioramento della sorte dei feriti e malati negli eserciti di campagna del 27

Luglio 1929

- Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra del 27 Luglio 1929.

Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale erano state evidenziate alcune lacune delle

convenzioni sino a quel tempo redatte ed infatti nel 1929 ne vennero formulate altre due, come

sopra riportato.

Durante la Seconda Guerra Mondiale la popolazione civile venne coinvolta totalmente nelle ostilità

con le tristi conseguenze che ci furono. In considerazione di ciò, alla fine del conflitto, si avvertì

fortemente l’esigenza di rivedere le convenzioni vigenti e nel 1946 venne convocata a Ginevra, dal

Consiglio Federale Svizzero, una conferenza diplomatica che il 12 agosto 1949 adottò quattro

convenzioni che andarono a sostituire quelle precedenti.

Queste quattro convenzioni, cui si aggiungeranno nel 1977 due Protocolli aggiuntivi e nel 2005 un

terzo, costituiscono oggi la base del diritto internazionale umanitario; esse perseguono l’obiettivo

principale di proteggere in primo luogo le persone che non partecipano o non partecipano più ad un

conflitto armato, ossia i civili ed i prigionieri. Vengono enunciate delle regole precise a protezione

degli internati civili, i diritti e doveri di una potenza occupante, vengono bandite le rappresaglie e le

deportazioni. Gli stati firmatari si impegnano a curare i feriti senza alcuna distinzione, a rispettare

l’essere umano ed a vietare trattamenti disumani o degradanti Si stabilisce anche che gli ispettori

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del Comitato Internazionale della Croce Rossa vengano autorizzati a visitare i campi dei prigionieri

di guerra, gli internati ed ad intrattenersi con i detenuti senza testimoni.

Le quattro convenzioni adottate il 12 agosto 1949, sono così articolate:

- I Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze

Armate in campagna;

- II Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi

delle Forze Armate sul mare;

- III Convenzione sul trattamento dei prigionieri di guerra;

- IV Convenzione sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra.

Il processo di decolonizzazione e l’estendersi dei conflitti locali portò all’integrazione delle quattro

convenzioni di Ginevra mediante due Protocolli Aggiuntivi che vennero adottati a Ginevra l’8

giugno del 1977. Essi riguardano:

- 1° Protocollo Aggiuntivo, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati

internazionali; completa le regole contenute nella IV Convenzione di Ginevra in materia di

conflitti armati internazionali e contiene regole sulla conduzione della guerra, come il

divieto di attaccare persone ed oggetti civili e la limitazione dei mezzi e metodi autorizzati;

- 2° Protocollo Aggiuntivo, sempre in materia di protezione delle vittime dei conflitti armati

non internazionali; in particolare completa l’unico articolo delle Convenzioni di Ginevra

applicabile anche in tali conflitti armati (art. 3 della IV Convenzione di Ginevra) ove

occorre distinguere gli obiettivi militari dalle persone ed oggetti civili.

Poiché la sottoscrizione e la ratifica di questi Protocolli ha incontrato forti opposizioni soprattutto

tra le nazioni più forti, le norme contenute non hanno sino ad oggi assunto valenza di diritto

internazionale consuetudinario.

Inoltre a causa dei recenti avvenimenti che in alcuni paesi hanno coinvolto in atti di violenza le

strutture della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, è stato adottato un 3° Protocollo Aggiuntivo.

Infatti nel dicembre del 2005 è stata convocata dalla Svizzera una conferenza diplomatica che ha

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approvato il 3° Protocollo Aggiuntivo; in esso si è introdotto un nuovo emblema che la Croce Rossa

dovrà utilizzare per identificare le proprie strutture ed il proprio personale, ossia un cristallo rosso

che dal 14.01.2007 deve essere utilizzato in aggiunta alla Croce Rossa ed alla Mezzaluna Rossa.

Le norme contenute in tali convenzioni e protocolli, nella massima parte, sono state riconosciute

quali norme consuetudinarie e costituicono quello che viene definito “jus cogens”.

Quello che oggi viene definito come “diritto internazionale umanitario” in sostituzione

dell’originario diritto bellico, deriva quindi da tale intensa attività di codificazione e

regolamentazione.

Occorre infine aggiungere che il concetto di guerra giusta, messo in ombra dal positivismo

ottocentesco riemerse durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, come strumento teorico per

opporsi alle teorie belliciste, ma anche come giustificazione di alcuni regimi totalitari per la politica

di espansione ed aggressiva nei confronti degli stati confinanti.

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La tutela dei diritti dell’uomo

La tutela giuridica dei diritti dell’individuo in passato rientrava nella competenza domestica di uno

Stato; nel XIX secolo molti Stati si dotarono di ordinamenti che tutelavano i propri cittadini da

eventuali abusi perpetrati dai pubblici poteri.

La presa di potere da parte di regimi totalitari ed i successivi avvenimenti della Seconda Guerra

Mondiale, mostrarono chiaramente la connessione esistente tra il mantenimento della pace

internazionale ed il rispetto dei diritti dell’uomo. Le atrocità commesse nella prima metà del XX

secolo fecero emergere la necessità di una tutela internazionale dei diritti dell’uomo. Si avviò così

un processo di codificazione internazionale di norme e tutela dei diritti dell’uomo.

Dal 1945 in poi le violazioni dei diritti umani non sono più considerate solo faccende di competenza

interna degli Stati, ma questioni che riguardano l’intera Comunità Internazionale

Oggi si considerano due diverse generazioni di diritti dell’uomo; la prima è quella dei diritti civili e

politici, costituita da obblighi tipicamente negativi e di immediata implementazione da parte degli

Stati. Vi sono poi obblighi imposti dalla seconda generazione di diritti, vale a dire dai diritti

economici, sociali e culturali, che richiedono un’azione positiva dello Stato.

L’applicazione di questi diritti, tra i quali sono elencati il diritto al lavoro, i diritti sindacali, il diritto

alla salute, non è immediata ma subordinata al progresso economico dello Stato. Si può parlare di

diritti di natura programmatica.

A partire dagli anni settanta inoltre, alcuni autori considerano una terza generazione di diritti

dell’uomo che si è sviluppata grazie soprattutto alle iniziative degli Stati in via di sviluppo, che

hanno promosso i diritti collettivi o di solidarietà, ossia i diritti delle collettività quali il diritto di

autodeterminazione dei popoli, il diritto allo sviluppo ed il diritto alla pace ed alla tutela ambientale.

Per poter parlare di diritti veramente universali e superare così le barriere culturali e religiose tra gli

Stati, occorre individuare un nucleo essenziale di diritti dell’uomo che deve sussistere in ogni Stato

indipendentemente dal livello di sviluppo economico e senza distinzioni razziali, culturali e

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religiose. Le norme di questo nucleo dovrebbero corrispondere quelle esigenze ed aspirazioni

essenziali di ogni individuo che non discendono dalla cultura, dalla religione o dallo stadio di

sviluppo di un paese come il diritto alla vita, ad esprimersi liberamente e praticare la propria

religione.

Si nota come il rispetto di questi diritti non discende solo da norme di diritto internazionale

generale, ma anche da norme consuetudinarie e quindi le violazioni di tali diritti genera obblighi per

gli Stati da considerarsi erga omnes. Il concetto di obblighi erga omnes, poggia sulla convergenza

degli attributi dell’universalità e della solidarietà, ossia tali obblighi sono vincolanti per tutti gli

Stati senza eccezione alcuna e caratterizzati dall’attributo della solidarietà poiché ogni Stato ha un

interesse giuridico alla loro protezione indipendentemente da chi sia lo Stato leso. Quindi il diritto

all’intervento nel caso di violazioni spetta ad ogni Stato o meglio all’intera Comunità Internazionale

Nei decenni che seguirono la fine della Seconda Guerra Mondiale caratterizzati dall’equilibrio

bipolare fondato sull’antagonismo tra URSS e USA, la mutua accettazione delle aree di influenza

avrebbe favorito il rispetto del principio classico della sovranità degli Stati ed il rafforzamento del

principio della non ingerenza in tutte le vicende dei due blocchi. Infatti le due superpotenze

garantivano l’ordine all’interno dei rispettivi blocchi.

Oggi con la scomparsa dei due blocchi, accanto all’esigenza di un nuovo diritto internazionale o

meglio ad un suo aggiornamento con riferimento alle nuove situazioni createsi ed ai nuovi equilibri

sviluppatisi, si deve anche osservare un rinnovato interesse per i diritti dell’uomo, anche per

l’attività compiuta da numerose organizzazioni non governative. Si deve anche considerare che

attualmente la sovranità statale non può più essere considerata quale barriera protettiva all’interno

della quale i diritti dell’uomo possono venire impunemente violati.

E’ in un certo senso naturale che le violazioni dei diritti umani siano frequenti nel quadro dei

conflitti armati, sia essi interni o internazionali; in genere nel caso di conflitti interni, complice la

tradizione del dominio riservato, le violazioni assumono proporzioni difficilmente quantificabili e

contrastabili.

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Il rispetto dei diritti umani durante i conflitti armati è stato affermato con decisione nella risoluzione

XXIII adottata nel corso della Conferenza di Teheran del 12 Maggio 1968; questa risoluzione infatti

contribuisce a chiarire quali sono i rapporti tra diritto internazionale umanitario e diritto

internazionale dei diritti umani, che sono due corpi normativi distinti ma complementari. Infatti

molti diritti fondamentali durante i conflitti armati sono tutelati in via indiretta dagli strumenti di

diritto internazionale umanitario,la cui funzione è quella di limitare gli effetti della violenza bellica

regolamentando l’uso dei mezzi e dei metodi di combattimento e la protezione dei civili.

In linea di principio infatti, il diritto internazionale dei diritti umani si occupa dei rapporti tra lo

Stato e l’individuo ed è fondato sul principio generale secondo il quale le sorti degli individui che si

trovano sul territorio di uno Stato o che sono sottoposti alla sua giurisdizione non sono da

considerare affari interni dello Stato.

Il diritto internazionale umanitario tutela l’individuo dalla violenza bellica, da qualunque soggetto

essa provenga e si distingue per la generale applicabilità extraterritoriale delle norme protettive,

mentre l’applicabilità extraterritoriale delle norme poste a tutela dei diritti umani rappresenta

un’eccezione poiché il luogo di elezione della tutela dei diritti umani rimane infatti il territorio dello

Stato.

Secondo una parte della dottrina vi sarebbe un diritto umanitario in senso stretto, costituito dalle

norme contenute nelle Convenzioni di Ginevra ed un diritto umanitario in senso ampio, intendendo

con ciò anche i principi e le norme poste a tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

La concezione del diritto umanitario in senso ampio non è accolta da quegli autori che rilevano che

l’applicazione dei diritti dell’uomo prescinde da situazioni specifiche dove la vittima si trova.

In effetti lo scopo del diritto internazionale umanitario è costituito dalla protezione dell’individuo,

ma la protezione non si esprime nella forma del riconoscimento di diritti dell’individuo, ma in

quella di obblighi reciproci tra gli stati belligeranti. La relazione tra il diritto internazionale

umanitario ed il diritto internazionale dei diritti umani si fonda sul principio di specialità. La

distinzione non è intrinseca ma riguarda il contesto ossia le diverse circostanze che ne richiedono

l’applicazione; a livello sostanziale le norme si compenetrano e si completano in particolare durante

i conflitti armati non internazionali. A livello procedurale si deve osservare che gli strumenti a

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tutela dei diritti umani contengono sofisticati meccanismi di enforcement che sono più efficaci di

quelli propri del diritto internazionale umanitario, caratterizzati da un approccio essenzialmente

State-oriented.

Il diritto internazionale umanitario si è sviluppato molto in questi ultimi sessanta anni, ossia dalla

fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi ma occorre notare come la regolamentazione e

codificazione di tali principi non ha prodotto i risultati attesi.

Nell’arco temporale sopra considerato, possiamo distinguere tre periodi.

Nel primo periodo che ricomprende gli anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ai primi anni

’60, l’evento più importante riguarda l’adozione nel 1949 delle Convenzioni di Ginevra. La

revisione delle preesistenti convenzioni non comportò l’intervento delle Nazioni Unite poiché si

pensò che la partecipazione al processo di revisione avrebbe minato la fiducia nelle capacità

dell’ONU di mantenere la pace; le Nazioni Unite esercitarono però una consistente influenza nei

lavori di redazione dei testi delle suddette convenzioni che si può ravvisare nell’attenzione dedicata

ai diritti umani che permise di trasformare il diritto di guerra in un diritto più orientato al rispetto

dei diritti umani. Venne infatti introdotto per la prima volta il termine “diritto internazionale

umanitario” che soppiantò largamente i termini “diritto bellico”, diritto di guerra” e “diritto dei

conflitti armati”.

Si deve osservare che in questo primo periodo le Convenzioni non provocarono un grande interesse

nell’opinione pubblica mondiale poiché non erano considerate di immediata rilevanza, anche se

svolsero un certo ruolo nella guerra di Corea o di Indovina.

Un secondo periodo di sviluppo ricomprende i primi anni ’60 sino alla fine della guerra fredda ossia

al 1989. In questi anni scoppiarono numerose guerre come quella del Vietnam, tra gli stati arabi ed

Israele e varie guerre di liberazione nazionale soprattutto nel continente africano. Questi conflitti

furono densi di conseguenze sul piano internazionale e provocarono un considerevole aumento delle

attività dell’ONU per cercare di mantenere la pace e la sicurezza o riportare le varie situazioni alla

normalità. Proprio in questo periodo vennero adottate alcune risoluzioni dell’ONU nelle quali si

affermava che le guerre di liberazione nazionali dovevano esser considerate come conflitti armati

internazionali ai quali dovevano essere applicate le convenzioni di Ginevra e conseguentemente i

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combattenti dei vari fronti dovevano essere considerati quali combattenti regolari e prigionieri di

guerra.

Un terzo periodo di sviluppo del diritto internazionale umanitario, inizia alla fine della Guerra

Fredda ; i conflitti che si sviluppano in questo periodo sono conflitti interni.

Infatti durante la Guerra Fredda il conflitto tra le due superpotenze aveva messo in ombra tutti gli

altri conflitti; quando terminò il periodo della Guerra Fredda, questi conflitti, sino ad allora sopiti

esplosero con tutta le loro violenza venendo a mancare i regimi che sino ad allora li avevano

repressi sul nascere. La aspettative che la fine della Guerra Fredda avrebbe portato ad un periodo di

pace ed all’instaurarsi di regimi democratici in tutto il mondo scomparve presto.

I vari conflitti interni iniziarono a creare problemi umanitari e si diffuse la sensazione che solo la

Comunità Internazionale avrebbe potuto risolvere tutte le situazioni. Si moltiplicarono le missioni

organizzate dall’ONU di peace-keeping anche se presto le stesse si dimostrarono inadeguate o

impossibili.

Il Consiglio di Sicurezza giunse quindi ad affermare che il rispetto dei diritti umani costituisce un

elemento necessario del sistema di sicurezza e quindi la violazione di questi diritti costituisce una

minaccia alla pace internazionale. Implicitamente il Consiglio di Sicurezza ha assunto il ruolo di

supremo guardiano del diritto internazionale umanitario.

Inoltre la differenza tra conflitti armati internazionali e conflitti interni è sempre più scemata

proprio per il fatto che anche nel caso dei conflitti interni si devono ravvisare serie ripercussioni a

livello internazionale. Ciò ha portato a considerare applicabili, anche in queste situazioni, i

complessi di norme sviluppati dal diritto internazionale umanitario e dal diritto internazionale dei

diritti umani.

Il fatto che oggi la maggior parte dei conflitti armati siano conflitti interni porta all’inosservanza del

diritto internazionale umanitario e a quanto disposto nelle convenzioni di Ginevra. Infatti le

previsioni contenute nelle Convenzioni di Ginevra male si adattano ai sempre più numerosi conflitti

interni che in questi ultimi anni si sono sviluppati. In genere tali conflitti sono molto difficili da

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gestire e la situazione diventa molto spesso incontrollabile. Riveste allora importanza primaria

l’adozione per tempo di misure di prevenzione.

Da tutto ciò emerge però che le norme contenute nelle Convenzioni di Ginevra sono ancora

considerate efficaci ed applicate; infatti i loro effetti positivi sono stati riconosciuti da più

osservatori ed in particolare da uno studio del Comitato della Croce Rossa sulle esperienze della

guerra.

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Interventi umanitari

Come si è già visto, il diritto internazionale vieta agli Stati di intervenire nelle vicende interne di

altri Stati. Si può parlare di principio di non intervento anche se la carta dell’ONU non sancisce

espressamente questo principio in quanto si impone agli organi dell’ONU l’obbligo di astenersi da

ogni intervento nelle materie che rientrano nella domestic jurisdiction degli stati membri, fatta

eccezione per le situazioni dove il Consiglio di sicurezza può adottare misure coercitive di fronte ad

una minaccia della pace e sicurezza internazionale.

Il principio di non intervento viene enunciato in alcuni documenti ONU come la Dichiarazione sulle

relazioni amichevoli tra gli Stati adottata con risoluzione n. 2625 del 1970. In considerazione di ciò,

si può invece considerare intervento: le minacce e le azioni armate contro la sovranità, personalità o

gli elementi politici, economici e culturali di uno Stato; l’uso della forza al fine di privare i popoli

della loro identità nazionale; l’organizzazione, il finanziamento, l’assistenza o la tolleranza di

attività sovversive o terroristiche volte a rovesciare il regime di un altro Stato. Inoltre l’intervento

sarebbe realizzato per ottenere vantaggi di qualsiasi tipo e comprende non solo attività armate ma

anche altre forme di interferenza.

Nell’intervento è comunque implicita l’idea di coercizione ed è possibile una distinzione tra

interventi in base al grado di coercizione: intervento leggero, con semplici discussioni e verifiche,

intervento forte con l’adozione di misure penetranti ed incisive ma senza l’uso della forza, come ad

esempio sanzioni economiche o di altra natura e l’intervento armato che riguarda tutti gli atti che

comportano l’uso della forza.

Il principio di non intervento si basa invece sul principio della sovranità assoluta degli Stati; tale

principio che è una norma fondamentale del diritto internazionale venne enunciato anche prima

della carta delle Nazioni Unite come ad esempio nella costituzione francese del 1793 all’art. 119

dove si diceva che la Francia non sarebbe intervenuta negli affari di un altro stato né avrebbe

permesso che altri stati intervenissero nei suoi. Tale principio rimase inalterato anche con la

creazione della Società delle Nazioni.

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Come si è già visto, oggi questo divieto non è più assoluto ma relativo per l’accresciuto numero di

limiti che gli obblighi del diritto internazionale pongono all’azione dello Stato. Ciò significa che è

possibile individuare delle forme lecite di intervento negli affari interni o esterni di uno Stato.

Si può affermare la liceità dell’ingerenza umanitaria ossia interventi condotti allo scopo di fornire

assistenza umanitaria nei casi di emergenza. Si tratta di forme di intervento previste dal diritto

umanitario ossia da quell’insieme di norme che secondo la definizione che individua il contenuto

del diritto umanitario in senso stretto sono dirette a proteggere in modo immediato tutti gli esseri

umani che si trovano, senza loro colpa, in situazioni di emergenza per fatti commessi dall’uomo.

Se è vero che l’intervento umanitario può costituire un’eccezione al principio imperativo di non-

intervento, nel diritto internazionale non sembra esservi una nozione di diritti umani e pertanto

l’intervento umanitario è discrezionale. E’ certo che l’abuso di ciò comporterebbe ripercussioni

alquanto gravi in molti paesi.

Secondo alcuni studiosi pertanto, il concetto di intervento umanitario non ha alcun fondamento

legale nel diritto internazionale e qualificarlo quale eccezione comporta l’affermarsi di un principio

contrario alle norme di diritto internazionale; infatti non si può parlare legalmente di intervento

umanitario per tre ragioni:

- è un diritto che non esiste nella carta dell’ONU e nel diritto internazionale;

- negli ultimi due secoli e ancora di più dal 1945 non si rinvengono casi veri di intervento

umanitario;

- l’abuso di tale diritto è più pericoloso di ogni altra considerazione.

L’espressione “intervento umanitario” è stata impiegata per indicare numerose e disparate

circostanze; tutte le definizioni però susseguite dal XX secolo ad oggi sono accomunate dall’uso

della forza.

Si potrebbe quindi definire l’intervento umanitario come “uso della forza da parte di uno Stato o un

gruppo di Stati nel territorio di un altro Stato esercitato senza il consenso del governo di

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quest’ultimo o l’autorizzazione dell’ONU per le sole ragioni di tutelare i diritti fondamentali

dell’uomo e reprimere tutti quegli atti perpetrati dal governo dello Stato oggetto dell’intervento”.

I principi tutelati sono costituiti dai diritti fondamentali dell’uomo sulla cui universalità e validità

esiste un diffuso consenso all’interno della comunità internazionale. L’intervento umanitario è una

risposta alle violazioni di tali diritti fondamentali.

Un altro aspetto che deve essere considerato riguarda i soggetti coinvolti nell’intervento umanitario

ossia i belligeranti, mentre tutelati dall’intervento umanitario sono gli individui che patiscono

materialmente le violazioni dello Stato all’interno del cui territorio si sviluppa l’intervento, quindi

non solo i cittadini di tale Stato,ma tutti coloro che sono presenti in quel momento al suo interno.

Dal punto di vista della dottrina, in merito all’intervento umanitario, sono sorte una varietà di

posizioni, anche se la paternità di tale concetto viene attribuita al giurista olandese Ugo Grozio, con

la sua teoria della guerra giusta.

Lo studioso francese Rougier, facendo riferimento all’intervento francese in Siria nel 1860, affermò

che in un epoca nella quale gli Stati non sono più isolati e liberi di fare ogni cosa al loro interno,

vige la “loi de solidarité” per cui gli Stati possono intervenire per reprimere crimini efferati .

L’americano Stowell individuò cinque situazioni in cui si può esercitare il diritto di intervento

contro uno Stato terzo: la persecuzione, cioè l’intolleranza di uno Stato verso le minoranze

religiose; l’oppressione ossia ciò che attualmente si definirebbe come il mancato rispetto del diritto

all’autodeterminazione; la presenza di una guerra civile; l’ingiustizia ovvero la violazione di quelli

che oggi sono indicati quali diritti civili e politici; infine il mancato rispetto dei diritti

dell’individuo, termine con il quale lo studioso indica il diritto minimo di protezione degli stranieri

la cui violazione permette ad uno Stato di intervenire a tutela dei propri cittadini all’estero.

Tra le varie posizioni della dottrina circa la legalità dell’intervento umanitario, deve essere

segnalata la tesi di coloro che cercano di comprimere la portata del divieto dell’uso della forza.

Infatti secondo tali studiosi il divieto di cui all’art. 2 della Carta non è assoluto ma sussisterebbe una

deroga quando l’uso della forza non è diretto contro l’integrità territoriale dello Stato o

l’indipendenza politica o risulta compatibile con la realizzazione di un fine delle Nazioni Unite.

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Tale interpretazione parrebbe però smentita da alcuni documenti dell’ONU e dai lavori preparatori

della Carta dove comunque l’uso della forza è in contrasto con i fini della stessa Organizzazione

delle Nazioni Unite.

Altri studiosi ritengono però che questa impostazioni possa portare al paradosso che una buona

norma produca un cattivo risultato in quanto il divieto dell’uso unilaterale della forza in senso

assoluto può produrre in determinate circostanze di gravi violazioni dei diritti il risultato appunto

paradossale di lasciare al proprio destino le vittime di una tragedia umanitaria; è per questo motivo

che alcuni studiosi hanno avanzato l’idea che l’uso della forza unilaterale in caso di emergenze

umanitarie sebbene illegale dal punto di vista formale possa essere considerato legittimo e quindi

giustificato sul piano morale. Lo strumento giuridico attraverso il quale sarebbe possibile colmare il

gap tra ciò che impone la lettera della legge ed il senso comune della morale è tratto dall’esperienza

degli ordinamenti penali nazionali ed in particolare dal concetto di circostanza attenuante.

Coloro che sono chiamati ad applicare ed interpretare il diritto internazionale applicabile

dovrebbero considerare non solo il testo della norma ma anche il contesto specifico di una

situazione che potrebbe non essere stato contemplato all’epoca della sua redazione. La valutazione

della validità della circostanza attenuante in relazione ad un illecito ma giustificato uso della forza

spetterebbe certamente ai tribunali internazionali, ma considerata la realtà dell’ordinamento

giuridico internazionale, la stessa sarà di competenza degli organi politici delle Nazioni Unite, come

ad esempio l’Assemblea Generale dell’ONU. Deve essere cioè dimostrato che l’intervento armato è

in grado di conseguire risultati che sono significativamente migliori rispetto a quelli conseguenti

alla mancanza di intervento.

Secondo altri autori, un intervento umanitario è tale solo se l’unico motivo di azione è la

soppressione delle violazioni dei diritti dell’uomo. Si tratterebbe quindi di un intervento

“disinteressato” ma se si dovesse considerare solo questo valore quale movente dell’intervento

umanitario, allora si arriverebbe alla conclusione inevitabile che l’intervento umanitario è una

fattispecie impossibile. Infatti poiché un qualsiasi intervento costituisce uno sforzo per ogni Stato,

sia economico che militare, che può anche avere serie ripercussioni politiche interne, è utopistico

ritenere che uno Stato possa agire militarmente al solo fine di rimuovere in altri Stati crisi

umanitarie non relative ai propri cittadini. E’ altrettanto chiaro che ogni Stato è mosso da ragioni

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inerenti gli interessi economici o strategici, che lo portano ad assumere determinate decisioni o

intraprendere alcune missioni con le proprie forze armate.

Si può quindi affermare che la legittimità dell’intervento umanitario discende non tanto da norme

giuridiche positivamente esistenti ma da scelte morali che talvolta gli Stati possono compiere.

In assenza di precise norme di diritto, gli interventi umanitari vengono realizzati quando gli Stati lo

ritengono opportuno, giusto e moralmente giustificato, ossia legittimo. Si è però avvertita la

necessità di individuare dei parametri o criteri che regolino il ricorso all’uso della forza a tutela dei

diritti dell’uomo, allo scopo di prevenire gli abusi ed i rischi connessi.

I criteri più frequentemente menzionati in dottrina sono 4:

1) Si richiede che vi sia l’evidenza della commissione ripetuta di gravi e massicce violazioni dei

diritti dell’uomo come il genocidio o i crimini contro l’umanità; tali crimini devono generare una

situazione per la quale è necessaria una soluzione immediata ed urgente allo scopo di evitare il

peggioramento della condizione umanitaria.

2) si dovrebbe ricorrere all’intervento umanitario solo in caso di impasse dell’ONU, ossia quando

l’assenza di accordo tra i membri del Consiglio di Sicurezza o l’esercizio del potere di veto da parte

di un membro permanente impedisce al Consiglio di agire per porre termine ai massacri. In base a

tale criterio si riafferma il ruolo del Consiglio di Sicurezza quale unico organo competente ad

autorizzare l’uso della forza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

3) si richiede che l’intervento venga realizzato da più di uno Stato affinché gli interessi specifici di

uno solo Stato non prevalgano sul fine umanitario.

4) si richiede il limite della proporzionalità nell’uso della forza.

In considerazione di ciò, si può asserire che questi criteri pur fornendo uno strumento utile per

l’analisi di tutti gli interventi condotti al di fuori del sistema di sicurezza collettiva dell’ONU, non

consentono di comprendere se tali interventi siano leciti o meno secondo il diritto internazionale e

quindi resta il problema connesso all’intervento umanitario e cioè che il conflitto che esso genera

tra due norme imperative del diritto internazionale ossia il divieto all’uso della forza e la tutela dei

diritti dell’uomo.

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Permane quindi un vuoto normativo che rende difficile stabilire se tale forma d’intervento sia

conforme o meno al diritto internazionale; gli Stati quindi, in occasione di emergenze umanitarie,

sono chiamati ad effettuare una scelta sia giuridica che morale, tra l’applicazione di norme del

diritto classico che vietano l’uso della forza ed impongono la sovranità territoriale degli Stati e il

recente imperativo di reagire alle violazioni dei diritti dell’uomo.

Per colmare tale lacuna, secondo l’Istituto Danese di affari internazionali, le vie percorribili sono

quattro:

1. Status quo strategy: consiste nella preservazione dell’ordine giuridico esistente per mezzo di

una rigorosa applicazione delle norme positive vigenti. Quindi la realizzazione di interventi

umanitari senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza è totalmente esclusa. In caso di

impasse dell’ONU non sono previsti mezzi alternativi.

2. Strategia ad hoc: prevede la possibilità di realizzare interventi umanitari anche al di fuori

della legalità secondo le norme dell’ONU ma solo in circostanze di estrema urgenza.

L’intervento umanitario resterebbe quindi una fattispecie illecita ma giustificabile solamente

sul piano morale e politico. Anche questa teoria tende a mantenere la situazione esistente. In

effetti nel breve periodo questa strategia consente di realizzare rapide operazioni necessarie.

3. Strategia dell’eccezione: riguarda l’introduzione nel diritto vigente di un emendamento alla

Carta dell’ONU, di una norma che consenta l’uso della forza a tutela dei diritti dell’uomo

quando il Consiglio non sia in grado di agire per reprimere le violazioni già in atto. Il fine di

questa strategia è quello di creare una base giuridica alternativa nell’eventualità di paralisi

del sistema dell’ONU, attraverso la formalizzazione di ragioni politiche e morali che

sottendono l’intervento umanitario.

4. Strategia della facoltà generale: riguarda la creazione di una norma che riconosca la piena

facoltà degli Stati di usare la forza per la tutela dei diritti dell’uomo ma al di fuori del

sistema dell’ONU. Si lascia però ampia discrezionalità ai singoli Stati in merito

all’intervento e quindi si priverebbe il Consiglio di una sua importante prerogativa,

accrescendo la possibilità di abuso dell’uso della forza da parte degli Stati.

Si nota quindi che attraverso l’applicazione delle prime due strategie si nega la liceità

dell’intervento umanitario secondo il diritto internazionale. Il divieto dell’uso della forza

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prevarrebbe sulla tutela giuridica dei diritti; al contrario le altre due strategie consentono di

eliminare il confine tra legittimità intesa come valenza etica e politica e liceità dell’intervento

umanitario rendendo quest’ultimo pienamente conforme al diritto.

In considerazione di quanto riportato sopra, si può affermare che oggi l’intervento umanitario

sarebbe illecito, ma secondo un ordine giuridico che non si è ancora adeguato ai profondi

cambiamenti storico/politici intercorsi nell’ultimo decennio del ventesimo secolo.

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Strumenti e modalità operative degli interventi ONU

Dalla mancata attuazione delle disposizioni della Carta si è sviluppata una prassi di interventi ONU

sostanzialmente articolata in due tipologie quali:

1) Peace-keeping operations:

Queste sono costituite da operazioni decise dal Consiglio di Sicurezza con il consenso dello Stato

dove le forze devono andare ad operare. Le forze, sia militari che civili, vengono fornite

volontariamente dagli Stati membri e controllate dal Consiglio attraverso una catena di comando

che fa capo al Segretario Generale dell’ONU.

Sul piano operativo tali forze devono agire con imparzialità ed utilizzare le armi per la difesa

personale o per fronteggiare azioni militari dirette ad impedire la realizzazione del loro mandato.

La Carta dell’ONU non menziona questo genere di attività ed infatti sono sorte teorie differenti ai

fini di un loro inquadramento giuridico. Per alcuni studiosi sarebbero da ricondurre all’art. 36 della

Carta e quindi relative alle raccomandazioni del Consiglio per la soluzione pacifica delle

controversie; tuttavia l’esistenza di un corpo militare armato che partecipa alle operazioni, fa

propendere per gli artt. 39 – 40 – 42 e quindi alle azioni previste dalla Carta per il ristabilimento

della pace.

Tale modello d’intervento è oggi diffusamente accettato dagli Stati; in effetti si deve sottolineare

come la decisione del Consiglio nasca dal consenso sempre espresso dello Stato dove tali forze

andranno ad operare e quindi l’operazione non viene mai percepita come coercitiva Dall’atra parte

le modalità di costituzione dell’operazione, la gestione ed il controllo della stessa da parte

dell’ONU, sono tutti elementi che contribuiscono a valorizzare il carattere collettivo di questo tipo

di intervento che è certamente molto vicino a quello immaginato dalla Carta dell’ONU.

Lo stesso Segretario dell’ONU Boutros-Ghali, nel 1992 definì tali operazioni come

“quell’invenzione delle Nazioni Unite che ha portato stabilità in numerose aree di tensione nel

mondo”.

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In effetti dare una definizione esatta delle operazioni di peace-keeping è difficile anche perchè si

vuole evitare di cristallizzare un concetto che segue un evoluzione imprevedibile.

Storicamente queste operazioni ebbero origine negli anni cinquanta come una risposta improvvisata

a determinate situazioni di crisi, ma si svilupparono successivamente adattandosi di volta in volta a

tutte quelle circostanze che l’ONU non ha mai potuto gestire direttamente proprio per la mancanza

di una forza armata dell’Organizzazione.

Alle prime operazioni volte al mantenimento delle frontiere e loro controllo ed al monitoraggio

degli accordi di armistizio o di cessate il fuoco, si è passati ad operazioni sempre più complesse ed

anche per questo motivo è difficile dare una definizione unica ed esaustiva di peace-keeping.

Le operazioni di peace-keeping sono realizzate sotto la direzione del Segretario Generale dell’ONU

previa delega del Consiglio sempre per un tempo determinato. E’ il Segretario che deve costituire la

forza militare ed individuare gli Stati che possono fornire volontariamente i contingenti armati. Il

Segretario nomina poi un comando sul territorio.

Un aspetto problematico riguarda la responsabilità dei vari contingenti rispetto ai loro paesi

d’origine e nei confronti dell’ONU. Infatti le truppe sono sottoposte all’autorità del Segretario

Generale, ma dal punto di vista amministrativo e logistico dipendono dal loro paese e quindi non

cessano di appartenere alle forze armate nazionali. Ciò diventa importante nell’eventualità che si

siano verificati atti illeciti e quindi in tema di responsabilità giuridica.

2) Autorizzazioni

Diverso è il discorso per ciò che concerne le autorizzazioni in quanto si tratta di operazioni

coercitive in senso proprio e ciò infatti ha creato non pochi problemi in merito al loro

inquadramento giuridico. Alcuni autori ritengono tali interventi illegali dal punto di vista del diritto

dell’ONU, mentre altri ricavano la legalità ricorrendo o a sviluppi del diritto internazionale generale

o ad interpretazioni estensive di norme del Cap. VII della Carta e ferma restando la necessità del

rispetto dei principi e delle condizioni generali di operatività del sistema di sicurezza stabilito dalla

Carta.

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Secondo l’art. 53 della Carta, il Consiglio di Sicurezza può utilizzare accordi o organizzazioni

regionali sotto la sua direzione, ma nessuna azione coercitiva può essere intrapresa da tali

organizzazioni regionali. Secondo una corretta interpretazione dell’articolo citato, non è possibile

che si svolga un intervento dell’ente regionale senza la preventiva autorizzazione del Consiglio di

Sicurezza; in effetti nella prassi vi sono stati dei casi dove l’autorizzazione è stata successiva

all’intervento dell’organizzazione regionale.

Le operazioni che sottendono ad una autorizzazione sono di natura militare-coercitiva e condotte da

uno Stato o da una coalizione di Stati membri , contro un altro Stato in situazioni di grave

emergenza dove non è possibile ottenere il consenso dello Stato sovrano perché o questo viene

negato o non esiste un’autorità che può concederlo. Inoltre queste operazioni si differenziano da

quelle di peace-keeping proprio perché comportano un uso della forza di carattere sanzionatorio che

non può essere svolto solo da forze di pace ma da un vero e proprio esercito. E’ evidente che tale

uso della forza si allontana dalla difesa legittima.

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Alcuni interventi ONU nel mondo dal 1945 ad oggi

E’ interessante analizzare alcuni interventi che vi sono stati dal 1945 sino ad oggi . Certamente

dopo la caduta del sistema bipolare si sono avuti più interventi proprio per le mutate condizioni

politiche e la possibilità da parte dell’ONU e quindi del Consiglio di Sicurezza, di agire più

liberamente, anche se non sono mancati esempi di interventi di carattere umanitario, pur

sussistendo il bipolarismo tra le due superpotenze.

Corea 1950

In effetti a fronte dell’attacco della Corea del Nord contro la Corea del Sud, il Consiglio, in assenza

del delegato sovietico, riuscì ad autorizzare l’utilizzo della bandiera ONU da parte della coalizione

di Stati che intervenne a fianco della Corea del Sud.

Sono poi da segnalare tre casi di intervento umanitario cui la dottrina fa riferimento durante il

periodo della guerra fredda che sono ormai diventati casi di scuola.

Pakistan orientale – India 1971

In seguito alla vittoria nelle elezioni dell’ottobre 1970 del partito autonomista del Pakistan

orientale, territorio da sempre soggetto al predominio economico e militare del Pakistan

occidentale, il governo centrale pakistano, decise di non riunire il nuovo parlamento ritenendo che

questo costituisse una minaccia per l’integrità territoriale del paese. La reazione della popolazione

del Pakistan orientale a tale decisione fu costituita dal diffondersi di proteste che furono brutalmente

represse dalla truppe inviate dal Pakistan occidentale soprattutto a Dacca nella capitale della

regione.

Ciò coincise con una serie di massacri che provocarono la migrazione di circa 10 milioni di persone

nella vicina India, che subì, nel dicembre del 1971 un attacco aereo da parte del Pakistan. Il governo

indiano, constatata l’inerzia della Comunità Internazionale, sempre il 5 dicembre del 1971, ordinò

l’invasione del Pakistan riconoscendo lo stato indipendente del Bangladesh. Dopo circa due

settimane di combattimenti l’esercito pakistano fu costretto a ritirarsi dal Pakistan orientale.

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Tale intervento fu espressamente giustificato anche in ragione delle gravi violazioni dei diritti

umani che avevano provocato una situazione simile al genocidio, ad opera dell’esercito pakistano.

Fu questo però l’unico intervento nel periodo considerato che venne considerato per ragioni

umanitarie.

Cambogia 1975

In Cambogia a partire dal 1975 le gravi violazioni dei diritti dell’uomo commesse da parte del

governo dei Khmer rossi, sfociarono in un vero e proprio genocidio della popolazione locale; Le

Nazioni Unite non imposero sanzioni o adottarono raccomandazioni per far cessare tale massacro.

Nel 1978 i ribelli del Fronte unito di salvezza nazionale e dell’esercito regolare del Vietnam, che

aveva avuto numerosi scontri di frontiera con unità cambogiane, entrarono nel paese mentre i

Khmer rossi erano costretti a rifugiarsi nelle zone montuose. Con l’aiuto dell’esercito vietnamita

quindi venne instaurato un nuovo governo guidato dal Fronte Unito e cessarono i massacri della

popolazione civile.

Tanzania – Uganda 1978

Nel 1978 le truppe tanzaniane entrarono in Uganda dove combatterono congiuntamente con il

Fronte Ugandese di liberazione nazionale contro le forze regolari; i due paesi da tempo erano

protagonisti di scontri armati per la contesa della regione del Kagera che faceva parte della

Tanzania. Nel 1978 però tale territorio era stato occupato dalle truppe ugandesi e quindi l’esercito

della Tanzania intervenne e contribuì alla caduta del dittatore ugandese Amin che era noto a livello

internazionale per le brutali violazioni dei diritti umani, senza che la Nazioni Unite o

l’Organizzazione per l’unità africana intervenissero. Le truppe tanzaniane vennero ritirate dopo la

presa di Kampala capitale dell’Uganda.

Libano 1982 – 1984

Entrambe le missioni videro per la prima volta l’impiego delle forze armate italiane in misura

considerevole; sia per la prima che per la seconda missione vi era stata una richiesta da parte del

governo libanese. La prima missione aveva come scopo di assicurare l’incolumità fisica del

personale palestinese in partenza da Beirut e degli abitanti della regione e favorire il ristabilimento

della sovranità e dell’autorità del governo libanese.

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La seconda missione che inizio sempre nel 1982 e durò sino al 1984, venne richiesta dal governo

libanese a seguito dei tragici avvenimenti accaduti nei campi palestinesi di Sabra e Chatila ed alle

consultazioni tra il governo libanese ed il Segretario Generale delle Nazioni Unite, in applicazione

della Risoluzione n. 521 del Consiglio di Sicurezza.. L’Italia partecipò alla missione in Libano con

un contingente di circa 2300 uomini insieme con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia.

Dopo la fine del periodo della Guerra fredda si possono evidenziare le seguenti operazioni

internazionali volte al ristabilimento della pace e della sicurezza violate:

Iraq 1991

IL 2 agosto 1990 l’Iraq invase ed occupò il confinante Kuwait, accampando rivendicazioni

territoriali ma soprattutto per ragioni economiche. Il Consiglio di Sicurezza autorizzò l’invasione

dell’Iraq da parte delle forze di una coalizione internazionale per ripristinare la sovranità dello stato

del Kuwait: La guerra terminò con la Risoluzione n. 687 dell’ONU per il cessate il fuoco. Le forze

della coalizione si erano limitate a liberare il Kuwait ma a non invadere l’Iraq; in ogni caso la

sovranità dello Stato venne notevolmente ridotta e limitata. Infatti venne stabilita a nord ed a sud

del paese una “no-fly zone” a protezione della minoranza curda e sciita che già erano state oggetto

di repressione da parte del regime di Saddam Hussein. Inoltre il governo iracheno dovette

concedere ampia autonomia ai distretti curdi e riconoscere il confine con il Kuwait. A ciò si

aggiunsero misure di disarmo e restrizioni nella vendita del petrolio per cui una parte venne

destinata a ripagare i danni inflitti al Kuwait.

Somalia 1992

Viene indicata come il caso più genuino di intervento umanitario delle Nazioni Unite.

L’operazione denominata “Restore Hope” risulta essere il primo intervento di “ingerenza

umanitaria armata” per rendere più sicuri i porti, gli aeroporti ed i centri di assistenza umanitaria in

Somalia e per mantenere l’embargo sull’importazione delle armi.

A seguito delle insurrezioni contro il governo repressivo di Siad Barre, la Somalia era precipitata in

una fase di anarchia che aveva provocato una crisi umanitaria senza precedenti.

La risoluzione n.794 del Consiglio di Sicurezza nel 1992, approvata all’unanimità, ratificava una

coalizione di forze di pace delle Nazioni Unite sotto la guida degli Stati Uniti allo scopo di

assicurare la distribuzione degli aiuti umanitari e ristabilire la pace nel paese.

L’Italia partecipò alla missione con un contingente di circa 3600 uomini.

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In merito alla partecipazione USA alla missione, si era sostenuto che il coinvolgimento statunitense

mirasse al controllo delle concessioni petrolifere poiché prima che fosse deposto Siad Barre circa i

due terzi del territorio somalo erano stati assegnati in concessine petrolifera alla Conoco, Amoco,

Chevron e Phillips.

Nel 1995 si dovette procedere al ritiro dei contingenti della missione senza che l’ordine fosse stato

restaurato nel paese.

A tale prassi si è soliti riportare anche l’operazione Turquoise condotta prevalentemente dalla

Francia in Ruanda a seguito della Risoluzione ONU n. 929 del 1994, allo scopo di garantire la

sicurezza e la protezione dei dispersi, dei rifugiati e di altri civili.

Sempre a tale tipologia di intervento deve essere riportata l’Operazione Alba condotta sotto il

comando italiano in Albania, a seguito di Risoluzione n. 1101 del 1997, con il compito di garantire

la pronta e sicura consegna dell’assistenza umanitaria nonché contribuire a stabilire un ambiente

sicuro per facilitare l’attività delle organizzazioni umanitarie internazionali presenti nel paese.

Timor Est 1999

Anche in questo caso si segnala tale intervento a tutela dei diritti dell’uomo.

Infatti nel maggio del 1999 un accordo concluso tra Indonesia, stato occupante e Portogallo, ex

potenza coloniale che si era ritirata da quelle terre nel 1974, aveva dato l’avvio ad un processo di

autodeterminazione culminato nell’agosto del 1999 con un referendum sull’indipendenza della

regione. La vittoria schiacciante degli indipendentisti fu immediatamente seguita da violenze,

deportazioni e massacri della popolazione cattolica da parte di milizie integraliste con la complicità

delle forze armate indonesiane. Sull’isola si era quindi verificata la condizione necessaria per la

realizzazione di un intervento umanitario proprio per le gravi violazioni dei diritti umani.

Con la Risoluzione n. 1264 del 1999 il Consiglio di Sicurezza autorizzava una forza militare

multinazionale guidata dall’Australia per la repressione delle violenze, il ripristino della pace, e la

tutela di civili e personale ONU. Tale decisione veniva assunta con il consenso del governo centrale

indonesiano che sino allora era rimasto inattivo e si era dimostrato incapace di porre termine a tali

violazioni. In effetti più che di peace-keeping, questo intervento era inquadrabile come peace-

enforcement.

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Kosovo 1999

Il Kosovo, è sempre stato abitato da cittadini di etnia albanese; per questo motivo, all’indomani

della morte di Tito e del disfacimento della federazione iugoslava la popolazione era entrata in

tensione con la popolazione di etnia serba.

A fronte della revoca dell’autonomia della regione, la popolazione d’etnia albanese aveva messo in

opera una campagna di resistenza non violenta ; dopo la fine della guerra con la Bosnia Erzegovina,

tra i kosovari di religione musulmana si costituirono formazioni armate guidate dai veterani di

quella guerra con intenti indipendentisti.

La guerra del Kosovo si può dividere in due fasi distinte:

- 1996 – 1999: i separatisti albanesi dell’UCK (Esercito di liberazione del Kosovo), operarono

contro postazioni militari ed entità statali. Successivamente ci fu una repressione sempre più

dura da parte della polizia e delle forze paramilitari ispirate da estremisti serbi.

- 1999: intervento della NATO contro la Serbia. Infatti nel 1998 mentre la guerriglia si

espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva sempre più pesante e

sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della

Iugoslavia guidato da Milosevic. Esercitando forti pressioni la NATO ottenne l’avvio dei

negoziati di Rambouillet che si conclusero positivamente nonostante la resistenza dei

rappresentanti dell’UCK nel sottoscrivere un documento dove si garantiva l’autonomia del

Kosovo ma non la sua piena indipendenza . Successivamente però, la delegazione serba

abbandonò la sede dei negoziati rimettendo in discussione gli esiti politici della trattativa,

poiché non poteva accettare quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da

autonomia. La NATO prese atto del fallimento dei negoziati ed iniziò le operazioni militari

contro la Serbia con il bombardamento di Belgrado e di altre località. Le operazioni

iniziarono senza alcun provvedimento dell’ONU a causa del minacciato veto di Russia e

Cina.

La Nato iniziò un escalation di bombardamenti per oltre due mesi; gli aerei dell’Alleanza

partivano dalle basi italiane e veniva quindi utilizzato lo spazio aereo italiano. La guerra si

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tenne sempre sul livello aereo senza presenza di truppe terrestri. Da notare che questo fu il

secondo intervento militare italiano a carattere offensivo dalla fine della Seconda Guerra

Mondiale, dopo la prima guerra del Golfo nel 1991.

Nel corso del conflitto ci furono anche episodi gravi come il bombardamento di un

convoglio di civili in fuga, la distruzione della torre della televisione ed il bombardamento

dell’ambasciata cinese di Belgrado. L’esercito serbo, sotto la pressione degli attacchi NATO

aumentò la pressione contro la popolazione del Kosovo di etnia albanese che iniziò a

spostarsi verso la Macedonia e l’Albania. La capitolazione del governo serbo portò al

dispiegamento della missione ONU KFOR disposta dal Consiglio di Sicurezza.

Una conseguenza della pace riguardò il ritorno della popolazione di etnia albanese ma nello

stesso tempo, l’esodo di quella di etnia serba che temeva le rappresaglie albanesi.

Miolsevic fu arrestato nel 2001 su mandato del tribunale internazionale dell’Aja ed accusato

di crimini contro l’umanità. Nel 206 il processo si è interrotto per la morte dell’imputato;

nello stesso anno a Vienna sono iniziati i colloqui bilaterali tra il governo serbo e quello

kosovaro per la definizione dello status della provincia del Kosovo.

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Conclusioni

Le riflessioni di cui si è parlato, del vertice del 2005, che hanno portato all’elaborazione del

concetto di “responsabilità a proteggere”, in effetti inziarono nel 2003, in un momento di massima

crisi di autorità per il ruolo delle Nazioni Unite, determinato dall’intervento anglo-americano nel

Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein.

A fronte di genocidi, pulizie etniche, crimini contro l’umanità, si riconosce che ciò non sia altro se

non una minaccia interna alla pace ed alla sicurezza internazionale. A fronte di tali fatti quindi, si

riconosce non tanto il diritto di intervento di qualsiasi Stato, quanto quella che viene definita la

“responsabilità a proteggere” che ogni Stato ha verso i suoi cittadini.

Solo di fronte all’incapacità dello Stato di agire a protezione dei suoi cittadini, questa responsabilità

a proteggere viene assunta dalla Comunità Internazionale attraverso molteplici azioni, preventive,

diplomatiche, di assistenza, diversificate e comportanti anche l’uso della forza. In tali situazioni il

Consiglio di Sicurezza può autorizzare interventi militari in situazioni che costituiscono una

minaccia alla pace.

In effetti si deve rilevare come, quanto enunciato nel vertice del 2005 era già emerso nel passato

nella prassi e nella dottrina. Il rifiuto dell’unilateralismo militare assume un valore più alto nel

momento in cui si propone come fondamento della responsabilità di proteggere un quadro teorico

che presenta elementi di novità con riferimento al bilanciamento tra sovranità degli Stati e tutela dei

diritti umani.

Le iniziative di elaborazione del principio della responsabilità a proteggere testimoniano lo sforzo

considerevole di ancorare la sua affermazione allo sviluppo di un quadro concettuale in linea con

l’evoluzione sistemica della realtà internazionale attuale dove la tutela dell’individuo assume una

dimensione sempre più significativa.

L’adozione di tale principio ha chiarito che la Comunità Internazionale non riconosce la legalità

degli interventi militari unilaterali anche per scopi umanitari, rinviando la responsabilità di quelli

collettivi al Consiglio di Sicurezza; però è proprio sul ruolo del Consiglio di Sicurezza che durante i

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lavori del vertice non sono state proposte soluzioni attinenti ad una maggiore credibilità dell’ONU

di far fronte alla sua primaria responsabilità di garantire la pace e la sicurezza mondiale. In sostanza

non vi sono state reali proposte in merito al funzionamento degli organi delle Nazioni Unite per

evitare le impasse del passato e la sua inazione a fronte di situazioni di emergenza umanitaria come

ad esempio nel caso del Darfur.

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Riflessioni su : Guerra giusta - Responsibility to Protect –Riforma delle Nazioni Unite

6 marzo 2010

Norberto Bobbio, nella Prefazione al suo libro “Il problema della guerra e le vie della pace”, sostiene la tesi

che la bomba atomica abbia prodotto “una trasformazione radicale” rispetto alla concezione tradizionale

della guerra1.

Il pericolo termonucleare ha così fatto giustizia delle molteplici teorie giustificatrici della “guerra giusta”,

della “guerra come male minore”, della “guerra difensiva”; da qui la proposta del filosofo italiano di formare

“una coscienza atomica”2 contro la guerra.

Il superamento della contrapposizione tra i due blocchi dell'Est e dell'Ovest, simbolicamente fissato nelle

date del 9 novembre 1989 e 25 dicembre 19913, se ha ridotto di molto il rischio di una guerra termonucleare

non ha però affatto inciso sul contenimento dei conflitti convenzionali, come stanno a dimostrare, per

limitarsi agli esempi più recenti di coinvolgimento dell'Occidente europeo, le vicende del Golfo, dell’area

balcanica (Bosnia 1991-1995 e del Kosovo 1999) e dell’Afghanistan4.

In special modo il conflitto armato nel Kosovo (24 marzo-10 giugno 1999) ha sollevato problemi che hanno

spostato su un terreno nuovo la riflessione sulla guerra e sui quali, in questa sede, intendo riflettere.

Gli elementi tipicamente innovativi, che fanno del Kosovo un esempio di conflitto postmoderno, possono

sintetizzarsi nei seguenti tre:

� nel Kosovo si è combattuta la prima guerra mossa da un gruppo di Stati, alleati

sotto il cartello della NATO e senza mandato dell’ONU, contro “uno stato sovrano reo di violenze politiche

interne”. L’intervento è stato giustificato con la difesa dei diritti umani fondamentali5 e, per questo, definito

“umanitario”6;

1 N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, 19913

2 N. BOBBIO, Il problema della guerra, cit., p. VII della Prefazione alla quarta edizione.

3 Rispettivamente la caduta del muro di Berlino e la rimozione della bandiera sovietica dal Cremlino.

4 Nel periodo dal 1945 al 1989 i conflitti “tradizionali” sono stati stimati nel numero di 138 (cfr. E. LUTTWAK, Toward Post-Heroic Warfare, in Foreign Affairs, may-june, 1995); solo nel 1989, fase conclusiva della “guerra fredda”, le guerre in atto furono diciannove (cfr. P. WALLENSTEEN – M. SOLLENBERG, Armed Conflict and regional Conflict

Complexes 1989-1997, in Journal of Peace Research, 35, 1998, n. 5) e tredici nel 1998 (cfr. P. WALLENSTEEN – M. SOLLENBERG, Armed Conflict and regional Conflict Complexes

1989-1998, in Journal of Peace Research, 36, 1999, n. 5).

5 “Sono ‘diritti fondamentali’ tutti quei diritti soggettivi, che spettano universalmente a ‘tutti’ gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di persone capaci di agire; inteso per 'diritto soggettivo' qualunque aspettativa positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per 'status' la

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� il motivo ufficiale del conflitto è stata la necessità di bloccare l’operazione di

“pulizia etnica” praticata dal governo serbo di Milosevic contro la minoranza etnica e religiosa albanese.

Uno scontro tra etnie, che conferma la tendenza all’aumento dopo la conclusione della “guerra fredda” di

conflitti nei quali si contrappongono gruppi etnici e culture7, segnando un definitivo allontanamento dalla

logica tradizionale della contrapposizione di interessi tra Stati sovrani8;

� sono state evidenziate dal conflitto, in modo inequivocabile, una serie di

“imperfezioni”9, quali la mancanza di norme internazionali legittimanti10, la sproporzione tra fini e mezzi

bellici, il significato di “guerra chirurgica” in relazione alla perdita di vite umane tra la popolazione civile11.

condizione di un soggetto prevista anch'essa da una norma giuridica positiva quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio” (L. FERRAJOLI, Diritti fondamentali (1998), Roma-Bari, 2001, p. 5. Tale categoria di diritti è stata individuata da Norberto Bobbio (L’età dei diritti, 1990, p. VII) come uno dei tre problemi fondamentali (gli altri due sono la democrazia e la pace) con cui il mondo contemporaneo deve necessariamente confrontarsi.

6 Per una visione sintetica degli "interventi d'umanità" prima del Kosovo, vedi N. RONZITTI, Uso della forza e intervento di umanità, in N. Ronzitti (a cura di), NATO,

conflitto in Kosovo e Costituzione italiana, Milano, 2000, pp. 6-12. Giustifica, con le dovute cautele, l'intervento A. Cassese, 'Ex iniuria ius oritur': Are We Moving towards

International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World

Community?, in European Journal of International Law, 1999, p. 23 ss. Per una “politica dei diritti umani” che superi il riferimento etico a favore di una loro “giuridificazione”, vedi J. HABERMAS, Umanità e bestialità: una guerra ai confini tra diritto e morale, in L’ultima

crociata?, cit. pp. 83 ss. Per contro, una critica radicale al principio universalistico della protezione dei diritti fondamentali degli uomini, avvertito come l’avvio di “una nuova ideologia occidentale”, è in D. ZOLO, “Chi dice umanità”. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, 2000. Sulla questione, in relazione alla “ingerenza umanitaria” della NATO nel Balcani, vedi già S. SENESE, L’insanabile contraddizione tra guerra e tutela dei diritti

umani, in Questione giustizia, 3, 1999, pp. 393-399.

7 Esempi di guerre per l’identità etnica e/o religiosa sono: la guerra civile in Somalia a partire dal 1991; lo scontro Hutu-Tutsi in Rwanda riacutizzatosi dal 1996; il conflitto algerino tra fondamentalisti ed esercito regolare a partire dal 1992.

8 Sarebbe questa, secondo la recente polemologia, la caratteristica delle guerre post-moderne: scontri devastanti con molti morti, animati da etnie diverse per lo più appartenenti allo stesso Stato (insiste unicamente su questo aspetto C. RISÉ, La guerra postmoderna, Gorizia, 1996, infra, mentre, come scrivo nel testo, possono individuarsi altri elementi peculiari della guerra post-moderna). Mette in guardia dall’uso dell’aggettivo ‘etnico’ per descrivere i fenomeni bellici (‘conflitto’, ‘guerra’, scontro’, ‘pulizia’), C. MARTA, Guerre

etniche: metafora del nostro tempo?, in Parolechiave, 20/21, 1999, pp. 259-279. Mi servo del termine ‘etnico’ esclusivamente per sottolineare l’inadeguatezza del paradigma moderno che intende la guerra come esclusiva manifestazione degli interessi dello Stato-nazione. Una critica, questa, condivisa dall’autore dell’articolo appena citato.

9 Il termine è usato da G. BOSETTI, I lati oscuri della guerra umanitaria, in L’ultima

crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, cit., pp. 5-15.

10 Anche chi, in forma molto esplicita, sostenne l’intervento armato nel Kosovo non mancò però di rilevare la distanza dalle limitanti prescrizioni della Carta delle Nazione Unite circa l'uso della forza (vedi, in particolare, A. CASSESE, Le cinque regole per una

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Nonostante tali diversità, il termine ‘giusto’12 è stato spesso utilizzato per definire lo scontro, quasi a voler

indicare nella difesa di diritti primari dell’uomo, universalmente riconosciuti, una necessità, un bisogno

prioritario travalicante lo stesso principio di sovranità, “attributo naturale” degli Stati13.

Si tratta di una motivazione che, sebbene non sia direttamente riconducibile alla classica teoria del “bellum

justum” di stampo tomistico, la richiama molto da vicino.

guerra giusta, in L’ultima crociata?, cit., pp. 25-28); anche chi in maniera realistica, come Norberto Bobbio (cfr. gli interventi riportati in L’ultima crociata?, cit., pp. 16-24 e pp. 115-125), non metteva sullo stesso piano la forza militare della NATO e l’esercito serbo, nondimeno giudicava “non lecito” l’intervento sulla base della Carta delle Nazioni Unite (tornerò più avanti sul rapporto tra la normativa delle Nazioni Unite e il ricorso legittimo alla forza armata). Per un sguardo generale sui problemi di diritto costituzionale in relazione al Kosovo, vedi N. RONZITTI (a cura di), NATO, conflitto in Kosovo e

Costituzione italiana, cit., in particolare il saggio di Cesare Pinelli (pp. 193-208).

11 Esempi eclatanti: una bomba NATO colpisce, per errore, un treno a Grdelica, , provocando 55 morti tra i civili (12 aprile); un aereo della NATO colpisce, per errore, un autobus di linea vicino Pristina, provocando circa 47 morti tra i civili (1° maggio); l'ospedale civile e il mercato di Nis sono colpiti, 20 i morti tra i civili (7 maggio); l’ambasciata cinese viene bombardata per errore dalla NATO, 3 i morti (8 maggio); l'ospedale di Surdulica è colpito, 20 i morti (31 maggio). Casi questi, che rimandano ai principi di “proporzionalità” e di “discriminazione” (emersi e discussi ampiamente già al tempo della guerra del Golfo), determinanti per la conduzione di una guerra secondo le regole (= ius in bello) e fondanti, insieme ad altre condizioni, per riformulare, a detta di una parte della dottrina, una teoria attuale della “guerra giusta” (cfr. L. BONANATE, La

rivoluzione internazionale, in Teoria politica, 1991, 2, pp. 3-20. Riflette in modo critico sull’argomento G. PONTARA, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Torino, 1996, pp. 44-53).

12 L’espressione “guerra giusta” è stata spesso presente nei mass-media di quel periodo. Alcuni esempi in: La Repubblica del 19 aprile 1999; Corriere della Sera del 20 aprile e 25 maggio 1999; Panorama del 7 maggio e 4 giugno 1999.

13 Il rapporto tra i diritti fondamentali dell’uomo e la sovranità degli Stati, fu ripensato dalla politica del Vaticano con la teorizzazione,della tesi della “legittimità-doverosità della più diretta ‘ingerenza umanitaria’ che preveda anche l’eventuale uso delle armi”, perché i crimini contro l’umanità non si possono considerare affari interni di una nazione (cfr. C.M. MARTINI, La guerra moderna e i diritti dell’uomo, in La Repubblica, 13 luglio 2000). Sottolinea l’emersione di “una nuova era in cui la nozione tradizionale di sovranità non riesce più a rendere giustizia ai popoli di ogni parte del mondo che aspirano a conseguire le libertà fondamentali” il segretario generale dell’ONU in un passaggio centrale del testo inviato al Vertice del Millennio a New York (riportato in H. SONNENFELDT, La pace

mondiale a rischio e il vertice del millennio, in La Repubblica, 30 agosto 2000); vedi già KOFI ANNAN, Two Concepts of Sovereignty, in Economist, 18 settembre 1999.

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Le Nazioni Unite ed il Principio di intervento umanitario

Principio di intervento umanitario: il caso del Kosovo

Principi fondamentali di diritto internazionale sono:

1) principio del rispetto dell’integrità territoriale degli Stati (concetto di “sovranità”);

2) principio di garanzia dei diritti universali umani e di autodeterminazione.

Scopo dell’esistenza delle Nazioni Unite:

a) ruolo delle N.U. finalizzato al mantenimento delle frontiere e delle sicurezza globale, e percio’

mantenimento dello status quo

b) protezione dei diritti umani aldilà della questione della sicurezza, con il fine di promuovere società

giuste e pacifiche.

Coloro che sono contrari all’intervento delle Nazioni Unite, sembrano trovare fondamento nell’art. 2 (4)

della Carta14, ove peraltro sono contemplate eccezioni, quali:

14 Articolo 2 L’Organizzazione ed i suoi Membri, nel perseguire i fini enunciati

nell’art. 1, devono agire in conformità ai seguenti princìpi:

1. L’Organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri.

2. I Membri, al fine di assicurare a ciascuno di essi i diritti e i benefici risultanti dalla loro qualità di Membro, devono adempiere in buona fede gli obblighi da loro assunti in conformità al presente Statuto.

3. I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo.

4. I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.

5. I Membri devono dare alle Nazioni Unite ogni assistenza in qualsiasi azione che queste intraprendono in conformità alle disposizioni del presente Statuto, e devono astenersi dal dare assistenza a qualsiasi Stato contro cui le Nazioni Unite intraprendono un’azione preventiva o coercitiva.

6. L’Organizzazione deve fare in modo che Stati che non sono Membri delle Nazioni Unite agiscano in conformità a questi princìpi, per quanto possa essere necessario per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.

7. Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato, né obbliga i Membri a sottoporre tali questioni ad una procedura di regolamento in applicazione del presente Statuto; questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a

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- l’uso della forza per ragioni di autotutela (eccezione non applicabile in Kosovo, Macedonia ed

Albania, in quanto non furono attaccate da Stati terzi);

- allorché l’uso della forza sia stato autorizzato da parte delle N.U. (nel caso del Kosovo non vi

furono risoluzioni in tal senso)

Vi è un articolo della Carta che impedisce alle N.U. ed agli Stati di intervenire “in questioni che siano

essenzialmente di competenza e giurisdizione domestica dei singoli Stati”, articolo che, peraltro, supporta

anche il concetto di intervento umanitario.

Dal 1945, ed in particolare dal Processo di Norimberga, le violazioni dei diritti umani non sono piu’

considerate solo faccende di competenza interna, ma questioni che riguardano l’intera comunità

internazionale.15

Il principio di intervento umanitario era già noto a Grozio nel XVII° Sec.; oggi è sempre piu’ attuale e

laddove uno Stato non è in grado di proteggere i diritti umani o lo stesso ne commetta abusi, i diritti umani

non possono essere garantiti senza erodere il vecchio principio di sovranità dello Stato.

Una delle ragioni che comportano cautela nell’uso del principio di intervento umanitario, è dato dal fatto che

nei periodi coloniali e della Guerra Fredda, lo stessa avrebbe potuto divenire pretesto per intervenire da parte

degli Stati piu’ forti in Stati piu’ deboli, anche se qualche teorico del diritto internazionale includerebbe in

questa fattispecie gli interventi americani a Grenada del 1983 ed a Panama del 1989.

Prima della II Guerra Mondiale, il diritto internazionale proibiva l’intervento da parte di qualsiasi Stato nel

territorio di un altro Stato, senza il consenso di questo ultimo; proibiva interventi unilaterali in conflitti

interni e proibiva anche interventi per concordati scopi umanitari.

Nel 1945, viene redatta la Carta delle Nazioni Unite e viene esteso l’art. 2 (4), in forza del quale, comunque,

l’intervento resta proibito, senza tenere in considerazione l’ideologia politica (democratica o meno) o la virtù

norma del Capitolo VII.

15 Capitolo IX – Cooperazione internazionale economica e sociale

Articolo 55 Al fine di creare le condizioni di stabilità e di benessere che sono necessarie per avere rapporti pacifici ed amichevoli fra le nazioni, basate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti o dell’autodecisione dei popoli, le Nazioni Unite promuoveranno: a) un più elevato tenore di vita, il pieno impiego della mano d’opera, e condizioni di progresso e di sviluppo economico e sociale; b) la soluzione dei problemi internazionali economici, sociali, sanitari e simili, e la collaborazione internazionale culturale ed educativa; c) il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.

Articolo 56 I Membri si impegnano ad agire, collettivamente o singolarmente, in cooperazione con l’Organizzazione per raggiungere i fini indicati all’articolo 55.

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morale del governo; vi era pertanto un accordo generale sul fatto che la Carta delle N.U. proibisse interventi

per scopi umanitari.

Secondo alcuni, anche oggi l’intervento per fini umanitari è illegittimo, ma non perché il principio di

sovranità dello Stato abbia piu’ valore del rispetto dei diritti umani di chi vi abita.

Il punto è che è problematico permettere ad un solo Stato di intervenire per ragioni umanitarie, e

conseguentemente si è cercato di costruire una forma di “intervento collettivo”; una ricerca questa che è

iniziata con la fine della Guerra Fredda e che, ad esempio, nel 1991 e 1992 ha portato il Consiglio di

Sicurezza delle N.U. ad autorizzare l’intervento per ragioni umanitarie in Iraq ed in Somalia, anche se in

questi casi gli interventi non furono giustificati da ragioni umanitarie, ma basati sul presupposto che guerre e

conflitti interni, almeno quando accompagnati da crimini di guerra e massicce violazioni dei diritti umani ed

altri crimini contro l’umanità, anche se non correlati a conflitti, possono mettere in pericolo la pace

internazionale e percio’ rientrano nella giurisdizione delle N.U. (vedi Capitolo VI e VII della Carta).

Pertanto l’intervento umanitario da parte di un singolo Stato risulta vietato, mentre è permesso se autorizzato

da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza della N.U. , ove peraltro il meccanismo del veto, ossia la

possibilità da parte di uno dei cinque Paesi fondatori del sistema, puo’ bloccare qualsiasi velleità.

Nella fattispecie del conflitto in Kosovo, l’intervento NATO avvenne senza alcuna risoluzione da parte del

Consiglio di Sicurezza della N.U., e cio’ per timore del veto da parte della Russia e della Cina.

Ci si è chiesti, percio’, se si sia trattato di un intervento legittimo.

Per il sistema delle N.U. , come si è già detto, qualora l’intervento per scopi umanitari sia effettuato da parte

di un singolo Stato e da parte di piu’ Stati non autorizzati da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, lo

stesso si configura quale intervento unilaterale e percio’ illegittimo.

A questa impostazione la NATO oppose il fatto che si trattava di un’eccezione, peraltro con un intervento

non unilaterale, ma collettivo ed a garanzia della pace internazionale, ed in effetti le N.U., con la Risoluzione

1244 del 1999, hanno, a posteriori, ratificato l’operato della NATO.

Il dibattito è se possano esistere eccezioni quali quella del Kosovo e comunque, visto il funzionamento del

Consiglio di Sicurezza delle N.U. ed il problema dell’esercizio del diritto di veto, se sia possibile una nuova

teoria sul principio del diritto di intervento umanitario, anche perché la conseguenza del far assurgere a

sistema l’eccezione è che diverrebbe probabile che uno o piu’ Stati intervengano per scopi umanitari, senza

una preventiva risoluzione delle N.U. e poi cerchino la ratifica del proprio operato.

Per quanto concerne la necessità di rivedere la procedura di adozione delle risoluzioni e bypassare il

problema dell’esercizio del diritto di veto, bisogna partire dalla lettura degli articoli 52 (1) e 53 (1) della

Carta.16

16 Articolo 52 1. Nessuna disposizione del presente Statuto preclude l’esistenza di

accordi od organizzazioni regionali per la trattazione di quelle questioni concernenti il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che si prestino ad un’azione regionale, purché tali accordi od organizzazioni e le loro attività siano conformi ai fini ed ai

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In base all’art.52, è permesso che la NATO e simili istituzioni regionali possano essere utilizzate per la

soluzione pacifica di conflitti nella regione; lo stesso dicasi per l’art. 53.

Sarebbe pertanto possibile immaginare che corpi regionali riconosciuti, possano intervenire, se previamente

autorizzati dal voto del Consiglio di Sicurezza, non soggetto a veto.

La guerra in Kosovo puo’ avere posto la parola fine alla teoria classica del Consiglio di Sicurezza – la

credenza comune che gli usi necessari e legittimi della forza al di fuori delle decisioni del Consiglio di

Sicurezza, devono necessariamente trovare accoglienza all’interno del paradigma di autodifesa interstatuale.

Nasce un diritto limitato e condizionato di intervento umanitario, che permette l’uso della forza per

proteggere la vita di popolazioni minacciate, allorché la decisione sia presa da quella organizzazione che la

maggior parte dei Paesi riconosce quale legittimata ed il Consiglio di Sicurezza non vi si opponga.

Oggi un intervento per ragioni umanitarie deve essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni

Unite, senza che venga posto il veto da parte di uno dei cinque membri permanenti; il che, come detto, rende

perlopiù inefficace la procedura.

Il principio di non-intervento è una delle norme fondamentali del diritto internazionale, è incorporato nella

Carta delle N.U. e fermamente applicato nella prassi di governo e del diritto internazionale consuetudinario.

Nel 1793 il principio è stato introdotto nella Costituzione francese: la Francia non sarebbe intervenuta negli

affari di un altro Stato, né avrebbe permesso che altri Stati intervenissero nei suoi (art. 119 Costituzione

1789).17

principi delle Nazioni Unite. 2. I Membri delle Nazioni Unite che partecipino a tali accordi od organizzazioni devono fare ogni sforzo per giungere ad una soluzione pacifica delle controversie di carattere locale medianti tali accordi od organizzazioni regionali prima di deferirle al Consiglio di Sicurezza. 3. Il Consiglio di Sicurezza incoraggia lo sviluppo della soluzione pacifica delle controversie di carattere locale mediante gli accordi o le organizzazioni regionali, sia su iniziativa degli Stati interessati, sia per deferimento da parte del Consiglio di Sicurezza. 4. Questo articolo non pregiudica in alcun modo l’applicazione degli articoli 34 e 35.

Articolo 53 1. Il Consiglio di Sicurezza utilizza, se del caso, gli accordi o le organizzazioni regionali per azioni coercitive sotto la sua direzione. Tuttavia, nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa in base ad accordi regionali o da parte di organizzazioni regionali senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, eccezion fatta per le misure contro uno Stato nemico, ai sensi della definizione data dal paragrafo 2 di questo articolo, quali sono previste dall’articolo 107 o da accordi regionali diretti contro un rinnovarsi della politica aggressiva da parte di un tale Stato, fino al momento in cui l’organizzazione potrà, su richiesta del Governo interessato, essere investita del compito di prevenire ulteriori aggressioni da parte del detto Stato. 2. L’espressione “Stato nemico” quale è usata nel paragrafo 1 di questo articolo si riferisce ad ogni Stato che durante la seconda guerra mondiale sia Stato nemico di uno dei firmatari del presente Statuto.

17 DEI RAPPORTI DELLA REPUBBLICA FRANCESE CON LE NAZIONI STRANIERE Art. 118 – Il popolo francese è l’amico e l’alleato naturale dei popoli liberi. Art. 119 – Esso non s’ingerisce nel governo delle altre nazioni, e non sopporta che le altre nazioni s’ingeriscano nel suo. Art. 120 – Esso dà asilo agli stranieri banditi dalla loro patria per la causa della libertà. – Lo rifiuta ai tiranni. Art. 121 – Esso non fa la pace con un nemico che occupa il suo territorio.

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Il principio rimase inalterato anche con la creazione della Società delle Nazioni (art. 15 paragrafo 8).

La Carta delle Nazioni Unite, come visto, lo ha ancor piu’ sviluppato nell’art. 2 (7) e pertanto il principio di

non-intervento è diventato uno dei sette principi base delle N.U. e dell’intera comunità internazionale: oggi si

estende agli affari interni che sono esclusivamente ed essenzialmente di competenza interna.

Per il sistema della Società delle Nazioni, lo scopo della competenza interna veniva determinato

congiuntamente dallo Stato interessato e dal Consiglio.

Nel sistema delle N.U. , o le stesse N.U. o lo Stato in oggetto possono unilateralmente determinare se una

disputa ricade essenzialmente nella giurisdizione interna.

Sola eccezione al principio di non-intervento è l’implementazione di misure adottate in base al Capitolo VII,

per la finalità di mantenere la pace e la sicurezza internazionale.

Il principio di non-intervento è stato ribadito in piu’ occasioni a livello internazionale, ad esempio nell’Atto

Finale della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa, tenutasi ad Helsinki nel 1975, o nelle

Risoluzione della Assemblea Generale delle N.U. n. 2131 (XX) del 21 dicembre 1965.

Il principio di non-intervento è una necessaria conseguenza del principio della sovranità dello Stato, in forza

del quale ogni Stato è sovrano ed ha la stessa forza di legge di fronte ad ogni altro Stato; non puo’ essere

soggetto a forme di interferenza dall’esterno, se non previo suo consenso e pertanto, nessuna forma di

intervento economico, politico, militare od altro è ammessa e tollerabile, senza un esplicito consenso

preventivo.

Inoltre gli interventi militari o altri tipi di intervento che comportino l’uso della forza, sono proibiti dal

principio di non uso della forza.

Il principio di non-intervento non puo’ essere modificato o derogato dal mero consenso di due o piu’ Stati,

nella forma di una nuova prassi o di un nuovo trattato; il principio di non-intervento è divenuto parte dello

jus cogens (diritto imperativo).

Talora l’intervento umanitario è stato ritenuto essere e costituire eccezione al principio imperativo di non-

intervento, come, ad esempio, come visto prima, nel caso della crisi del Kosovo nel 1999.

L’intervento umanitario, specialmente l’intervento con l’uso di forza militare, sembra essere parte di un

deliberato progetto che sopravvaluta i diritti umani a spese della sovranità nazionale e della indipendenza

politica, e pur essendovi chi è veramente attento al problema, oggi si tratta essenzialmente di una questione

di interessi, potere e dominio.

Inoltre le Nazioni piu’ potenti hanno, da sempre, una certa pericolosa tendenza ad esagerare il bisogno di

avere a che fare con il problema dei diritti umani delle popolazioni degli Stati del Terzo Mondo, cosi’ come

tendono a non valutare la sovranità di questi Stati.

Nel diritto internazionale, peraltro, non sembra esservi una nozione di diritti umani e pertanto l’intervento

umanitario è discrezionale.

E’ certo che l’abuso del concetto porterebbe gravi danni ai Paesi del Terzo Mondo.

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Secondo alcuni studiosi del diritto internazionale, l’intervento NATO in Kosovo avrebbe causato una

catastrofe umana, invece che essere risolutore di conflitti etnici; mentre, sostengono gli stessi autori, le N.U.

si sarebbero dovute muovere, se interpellate, cosi’ come avvenuto in East Timor, frapponendosi come forza

di pace multinazionale.

E’ certo che, da un punto di vista di mera applicazione delle regole esistenti, il concetto di intervento

umanitario non ha alcun fondamento legale nel diritto internazionale e qualificarlo come eccezione comporta

l’affermarsi di un principio contrario alle norme di diritto internazionale; solo qualora il Consiglio di

Sicurezza delle N.U. determini che vi sia stata una imponente violazione dei diritti umani all’interno di un

Paese, e cio’ comporti una minaccia alla pace, richiedendo ed ottenendo l’autorizzazione, un intervento

umanitario con mezzi militari è ammissibile.

In caso contrario, vi è una violazione dell’art. 2 (4) della Carta delle N.U.

Inoltre, va ricordato che se la crisi umanitaria non esce dai confini del Paese interessato e non comporti

attacchi militari contro altri Stati, non si puo’ far ricorso all’art. 51.

Pertanto, non si puo’ parlare legalmente di intervento umanitario per tre ragioni:

1) è un diritto che non esiste nella Carta delle N.U. e nel diritto internazionale;

2) negli ultimi due secoli, ed ancor piu’ dal 1945 ad oggi, non si rinvengono casi veri di

intervento umanitario;

3) l’abuso di tale diritto è piu’ pericoloso di ogni altra considerazione.

Il diritto contemporaneo non proibisce completamente l’intervento; quando si sviluppi una crisi umanitaria in

uno Stato od in una regione, la comunità regionale od internazionale puo’ offrire assistenza umanitaria in

maniera neutra ed imparziale, ad esempio con l’invio di cibi e medicinali; solo in circostanze eccezionali si

puo’ far ricorso alle armi e solo in osservanza delle norme delle N.U.

La NATO, così come altri organismi regionali, non puo’ unilateralmente invocare la Convenzione sui

Genocidi (1948), la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) ed altre leggi umanitarie.

Serve sempre l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza.

Coloro che sostengono invece la possibilità di far ricorso al principio di intervento umanitario affermano che

l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica degli Stati è tecnica e non incorpora

tutte le modalità di uso della forza e, in particolare, non include il concetto di inviolabilità territoriale, ma

anzi è stato circoscritto al fine di prevenire la perdita permanente di parte del territorio.

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L’art. 2 (4) viene percio’ interpretato come norma che proibisce l’uso della forza contro l’integrità territoriale

di uno Stato e contro l’indipendenza politica di uno Stato, o, in ogni modo, non consistente con gli scopi

delle N.U. , ma l’uso della forza sarebbe lecito al di fuori di queste tre qualifiche.

Secondo questa tesi l’azione in Kosovo non è stata contro l’indipendenza politica della Yugoslavia, né contro

la sua integrità territoriale, bensi’ si colloca all’interno dei fini delle N.U. , che sono di promuovere ed

incoraggiare il rispetto dei diritti umani.

Si tratta, evidentemente, di un’interpretazione restrittiva dell’art. 2 (4), contraria ai principi codificati e

pericolosa, perché, ad esempio, forze di polizia messicane potrebbero entrare sul territorio del Texas, al fine

di catturare sospetti criminali, senza con cio’ violare l’integrità territoriale degli Stati Uniti .

In conclusione, il principio di non-intervento ed il rispetto per la sovranità territoriale, sono principi

fondamentali del diritto internazionale e prevalgono su ogni altro trattato in caso di conflitto (vedi art. 103

Carta N.U.)18 e possono essere modificati solo da nuove norme che abbiano pari valore.

Gli interventi armati unilaterali e multilaterali, senza la preventiva adozione di una risoluzione da parte del

Consiglio di Sicurezza delle N.U. , non sono permessi, specialmente se per fini umanitari.

Peraltro già in relazione al conflitto del Golfo (1990-1991) si discusse aspramente, non soltanto in Italia, se

definire “giusta” l’offensiva militare che gli Stati Uniti e i loro alleati, dietro l’autorizzazione dell’ONU19,

portarono contro l’esercito di Saddam Husseim in seguito all’invasione del Kuwait. La polemica prese

spunto da un’intervista al filosofo torinese Norberto Bobbio20, il quale ai due interrogativi sulla natura della

guerra, “se giusta o efficace”, rispose in modo perentorio al primo (“è una guerra giusta perché è fondata su

un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa”) mentre

problematizzò il secondo ponendo tre condizioni (“la guerra sarà efficace … se vincente, rapida e limitata”).

L’attenzione dei mass-media e il dibattito che ne seguì furono, però, incentrati esclusivamente sul tema della

“guerra giusta”.

Ancora, a proposito dell’azione bellica in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, Osama Bin Laden e gli

ideologi dell’organizzazione terroristica Al Qaeda motivavano la resistenza armata all’attacco militare anglo-

18 Articolo 103 In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle

Nazioni Unite con il presente Statuto e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dal presente Statuto.

19 La risoluzione 688 dell’aprile 1991 giustificava l’intervento armato richiamando la “minaccia alla sicurezza internazionale”.

20 N. BOBBIO, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Venezia, 1991, pp. 39-40, nel libro sono raccolti i reiterati interventi del filosofo sull’intera questione.

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americano chiamando in causa la figura religiosa di jihad, la “guerra santa”21. Di contro, in un documento22 a

sostegno dell’offensiva americana, sottoscritto da un nutrito gruppo di intellettuali statunitensi, si legge, tra le

diverse giustificazioni alla risposta bellica, il richiamo alla “guerra giusta”, in quanto “war not only morally

permitted, but morally necessary” 23.

L’espressione “guerra giusta” è, quindi, decisamente presente nel linguaggio attuale, anche se, come

ricaviamo dagli stessi esempi qui riportati, i significati ad essa attribuiti non sempre sono identici24. Si oscilla

da un contenuto strettamente giuridico dell’aggettivo “giusto”, come nell’uso fattone da Bobbio a proposito

21 Sulla complessità del termine jihad, cfr. in generale J.T. JOHNSON-J. KELSAY (eds.),

Just War and Jihad. Historical and Theoretical Perspectives on War and Peace in Western

and Islamic Traditions, New York-London, 1991; R.F. PETERS, The Jihad in Classical and

Modern Islam, Princeton, 1995. Ho presente la distinzione tra “guerra santa” e “guerra giusta” (N. BOBBIO, Una guerra giusta?, cit., pp. 14-15 e 59-65) anche se il confine tende a scomparire nella sostanza quando al termine ‘giusto’ viene attribuito un significato etico-teologico e per niente giuridico (un esempio attuale è riportato alla nt. 26).

22 Il documento, What We're Fighting For, è leggibile via internet al seguente indirizzo http://www.propositionsonline.com/html/fighting_for.html.

23 Cfr. il cap. A Just War? Il documento dei sessanta intellettuali statunitensi vuole essere una giustificazione dell’uso della forza bellica contro il nuovo terrorismo. Non si disconosce la necessità di una risposta ‘forte’, occorre però precisare che, affinché questa sia efficace, le forme della stessa debbono essere idonee allo scopo, riducendo nell’immediato le azioni terroristiche e rimuovendone le cause nel medio-lungo periodo. Al riguardo, il passaggio obbligato, su cui poco si è dibattuto nonostante l’11 settembre, è il modo di intendere questo nuovo terrorismo internazionale. In una recente interpretazione, esso è stato definito “una forma di guerra” a cui “si può rispondere solo con la guerra” (così C. CARR, Terrorismo, Milano, 2002, pp. 7 e 11. Si noti che in precedenza il termine usuale era quello di ‘lotta’). Si può essere d’accordo o meno sull’affermazione dell’opinionista statunitense (non è possibile discutere di ciò in una nota); ritengo però corretta l’impostazione della questione: per dare una risposta efficace alle nuove manifestazioni terroristiche dobbiamo innanzi tutto intenderne la natura (spunti in F. CARDINI, La paura e

l'arroganza, Roma-Bari, 2002, pp. XXVII ss.) Per limitarci ad un esempio ancora in atto, la guerra “totale” condotta contro l’Afghanistan ha sì prodotto la caduta del regime filo-terrorista dei Talebani ma a prezzo di alti costi umani tra la popolazione civile di quel paese e senza pervenire alla cattura dei capi dell’organizzazione terroristica di Al Qaeda, ritenuta dall’amministrazione Bush l’obiettivo principale dell’intera operazione (la giudica una “risposta sbagliata” S. SENESE, Guerra e nuovo ordine mondiale, in Questione giustizia, 2, 2002, p. 472); un pericolo questo, che sembra corrersi di nuovo, con conseguenze ben più tragiche, nella proposta del governo statunitense di muovere una “guerra preventiva” contro l’Iraq, in quanto “Stato canaglia” (rogue state) e per il rapporto stretto tra le reti terroriste e il regime di Saddam Hussein (in verità un rapporto finora non dimostrato).

24 La bibliografia sulla “guerra giusta” è vasta, oltre a quella riportata nei saggi del presente volume, si citano qui i classici L. LE FUR, Guerre juste et juste paix, Paris, 1920; R.H.W. REGOUT, La doctrine de la guerre juste de Saint Augustin à nous jours, Paris, 1934, rist. Aalen, 1974; il saggio di J.T. DELOS, Sociologie de la guerre moderne et

théorie de la guerre juste, in Guerre et Paix, 1953, pp. 201-224; M. WALZER, Guerre

giuste e ingiuste (1977), trad. it., Napoli, 1990; e ora il libretto didattico di G. BACOT, La

doctrine de la guerre juste, Paris, 1989.

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della guerra del Golfo25, a quello teologico, secondo cui la guerra è intrapresa per eseguire il comando

divino26, ad uno etico-morale, per cui l’evento bellico sarebbe finalizzato alla difesa di valori umani

“universali e pregiuridici”27.

Nonostante le molteplici sfaccettature, l’aspetto da privilegiare nell’approccio resta quello giuridico, nella

misura in cui, a proposito dell’interpretazione dei conflitti armati dopo lo sfaldamento della contrapposizione

tra i due blocchi, nuove regole debbono stabilirsi per le relazioni internazionali, tese a riconsiderare il

tradizionale principio di sovranità28, che, dal XVI alla fine del XX secolo, ha connotato il sistema degli Stati-

nazione, riducendo la guerra ad un problema interno del singolo Stato29. Cresce l’esigenza di una

25 Una guerra “giuridicamente lecita”, cioè “conforme alla legge” perché, come scrive

più avanti, “fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa” (il riferimento è all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite). Cfr. N. BOBBIO, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, cit., pp. 10-11 e p. 39.

26 Per il significato di “guerra santa” secondo la religione mussulmana vedi la nt. 20. Il contenuto, però, non si discosta dalla concezione cristiana di “guerra di religione”, che ebbe origine con Agostino.

27 Se ne ha un chiaro esempio nel citato documento degli intellettuali statunitensi, dove vengono indicati quattro generalissimi valori: 1) la convinzione che “all persons posses innate human dignity”; 2) l’esistenza e l’accessibilità per tutti i popoli di “laws of Nature and of Nature’s God”; 3) la possibilità che in caso di disaccordo sui valori si possa avere una “openness to other views, and reasonable argument in pursuit of truth”; 4) “freedom of conscience and freedom of religion”. La difesa di tali “American values”, che poi per un'incomprensibile proprietà transitiva diventano “in fact the shared inheritance of humankid, and therefore a possible basis of hope for a world community based on peace and justice”, può costituire il fondamento per una “just war" a prescindere da ogni valutazione da parte di istituzioni sopranazionali (nel documento l'ONU non viene mai citato e non c'è riferimento alcuno ad altri organismi mondiali). Non deve meravigliare questa “fuga” dal diritto. Il ritorno alla nozione di “guerra giusta” in un’ottica etico-morale è propria di Michel Walzer, uno dei promotori dell’appello, che nel suo libro Just and

Unjust Wars (trad. it. dell’edizione del 1977, Guerre giuste e ingiuste, Napoli, 1990) manifesta una grande sfiducia nella capacità del diritto di parlare di guerra: “I giuristi hanno costruito un mondo di carta, incapace di render conto, nei momenti cruciali, del mondo reale in cui viviamo” (p. 5 della trad. it.) Sulla posizione del filosofo americano, vedi ex

professo in questo libro il saggio di Danilo Zolo.

28 In questo senso, G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, pp. 4-5: “In quell’idea di sovranità – intesa originariamente come situazione efficiente di una forza materiale impegnata nel compito della costruzione e della garanzia della propria unicità e supremazia nella sfera politica – si trova insito, in nuce, il principio dell’esclusione e della belligeranza nei confronti dell’altro da sé. Da ciò deriva – all’interno – la necessità per lo Stato dell’annientamento dei suoi antagonisti e – all’esterno – la tendenza, alimentata dall’economia e dall’ideologia, all’imperialismo e alla ‘cattolicità’, nel senso della teologia politica di Carl Schmitt. Lo Stato sovrano non poteva ammettere concorrenti. Se si fosse aperta una concorrenza, esso avrebbe cessato di essere politicamente ‘tutto’ e avrebbe iniziato a essere semplicemente ‘parte’ di sistemi politici più comprensivi. Inevitabilmente, ciò avrebbe messo in discussione la sovranità e, con ciò, l’essenza stessa della statualità”.

29 Sull’esaurimento del ruolo dello Stato attuale, scrive lucidamente L. BONANATE, op.

cit., p. 22: “Sostenere che lo stato tradizionalmente inteso sia in declino, non implica

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rifondazione del diritto internazionale che abbandoni l’attuale sistema, frammentario e poco efficace, per

recuperare una piena giuridicità delle relazioni tra Stati, riducendo le regole consuetudinarie a vantaggio di

norme materiali e superare così l’insufficienza dell’apparato sanzionatorio. Si tratterebbe di un rinnovamento

che, nell’ambito specifico della gestione dei conflitti, abbandoni – come auspica Bobbio – “criteri puramente

morali per stabilire chi ha ragione e chi ha torto e sostituisca ai giudizi morali le regole giuridiche”.

Il terzo millennio è dunque iniziato all’insegna del fenomeno bellico, quasi a confermare la convinzione di

Raymod Aron secondo cui la guerra sarebbe compagna di tutte le civiltà30. Non si vuole con ciò sostenere il

luogo comune, cinico e immobilista, dell’ineluttabilità della guerra, quanto piuttosto sollecitarne un

rinnovato ripensamento.

La pace è concetto da tenere sempre presente nell’analisi sulla guerra.

Quando pensiamo alla pace, dobbiamo però abbandonare l'idea tradizionale di “non-guerra”, che per secoli

l’ha relegata ad un rango subordinato nei confronti della guerra31, privilegiando invece la concezione di

“pace positiva” che - come scrive Bobbio - “consiste nel dominio della giustizia, nell’esistenza di reali

condizioni di eguaglianza sociale e di benessere diffuso, nonché nell’assenza di quella ‘violenza strutturale’

che, provocando tensioni e conflitti all’interno del corpo sociale, pone le premesse per l’insorgere di conflitti

violenti tra stati”32. Nella tensione tra la natura dell’evento bellico e la costruzione di uno stato di pace

alcunché di catastrofico, ma piuttosto che esso, in cinque secoli, ha sviluppato e consumato tutte le sue potenzialità, dopo essersi esteso a ogni livello di attività e di penetrazione… Ciò non significa che la storia si sia arrestata, ma più semplicemente che lo stadio ‘finale’ dello stato è quello della sua compartecipazione a una società planetaria”.

30 R. ARON, La politica, la guerra, la storia, Bologna, 1992, p. 431. La visione dello studioso francese si iscrive, per la verità, nel tradizionale e multiforme filone di pensiero occidentale sulla guerra come principio indispensabile dell’esistenza, risalente alla famosa e antichissima definizione del filosofo greco Eraclito (VI sec. a.C.), per cui la guerra sarebbe il padre di tutte le cose regnando su tutto e facendo emergere la distinzione tra gli dèi e gli uomini, tra gli schiavi e i liberi (cfr. ERACLITO fr. 53). Sul frammento, interpretato quale “archetipo culturale” della teoria “dialettica” della guerra nel pensiero filosofico, vedi S. COTTA, Guerra e diritto a confronto, in C. Jean (a cura di), La guerra nel pensiero politico, cit., pp. 135-142. Per il significato eracliteo del termine guerra (Pòlemos), la cui comprensione (attraverso il Lógos) produce la cultura della pace effettiva, vedi R. GASPAROTTI, Alle origini delle categorie di “guerra” e “pace”, in C. Jean (a cura di), La

guerra nel pensiero politico, cit., pp. 154-160; per una sua accezione che trascende la "determinazione esclusivamente storico-politica", cfr. U. CURI, Pólemos, Torino, 2000, sp. pp. 110-122.

31 Chiarisce bene il punto N. BOBBIO, s.v. Pace, in Dizionario di politica, Milano, 1994, p. 737: “Pace viene definita negativamente come assenza di guerra, più brevemente come non-guerra. Si dice che dei due termini [= Guerra e Pace], il primo è il termine forte, il secondo è il termine debole”.

32 Ibidem.

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positiva trova spazio ancora oggi, come abbiamo visto, l’idea di “guerra giusta”, nonostante il tramonto delle

situazioni originarie, storiche e culturali, che l’hanno prodotta.

L’espressione “guerra giusta” ha una storia molto lunga dietro di sé33, che ne condiziona il significato anche

quando essa è riferita a episodi recenti. Si tratta di un passato risalente al periodo medievale, quando il

pensiero politico-religioso propugnò la dottrina del bellum justum ancorandola alla elaborazione giuridica e

filosofica romana dello stesso concetto, che per altro aveva in origine un senso diverso ed altre

implicazioni34.

Palesare l’uso e l'ambiguo fascino che ancora oggi esercita tale sintagma significa, da una parte, rilevarne le

metamorfosi e le contraddizioni di natura strutturale, dall’altra ripercorrerne, a grandi linee, il percorso

storico-concettuale risalendo fino al diritto romano, che fu il milieu culturale all’interno del quale

l'espressione bellum iustum venne forgiata.

L’uso dell’espressione “guerra giusta” per valutare forme di relazioni tra comunità straniere fu proprio della

cultura politico-giuridica dell’antica Roma35.

Se ne ha testimonianza in Cicerone.

Combinando la lettura di alcuni passi di due delle sue opere più mature, il De republica36 e il De officiis37,

apprendiamo che si aveva bellum iustum quando i Romani muovevano guerra, secondo l’antico rituale posto

33 Vedi A.A. CASSI, Dalla santità alla criminalità della guerra. Morfologie storico-

giuridiche del bellum iustum, in A. Calore (a cura di), «Guerra giusta»? Le metamorfosi di

un concetto antico, Milano, 2003, 101-158.

34 Vedi: I. LANA, Cicerone e la pace, in A. Calore (a cura di), «Guerra giusta»?, cit., 3-20; V. GIUFFRÈ, Ius e bellum come manifestazioni correlate della politica, in A. Calore (a cura di), «Guerra giusta»?, cit., 21-30.

35 Anche la cultura greca si confrontò con il complesso problema della guerra, lo fece però soprattutto in funzione politico-morale, come attesta la riflessione aristotelica. Per Aristotele (Pol 7,1333 b 37- 1334 a 10) la guerra è praticabile soltanto se è avallata da tre giuste cause (dìkaios pòlemos): 1) per difendersi da chi vuole assoggettarci; 2) per affermare un’egemonia per il bene degli assoggettati; 3) per ridurre in schiavitù chi merita di essere schiavo (vedi per tutti, V. ILARI, Guerra e diritto nel mondo antico, I, Milano, 1980, sp. pp. 220-237; e la prima parte del libro della S. CLAVADETSCHER-THÜRLEMANN, Pòlemos dìkaios und ‘bellum iustum’. Versuch einer Ideengeschichte, Zürich, 1986).

36 Cic., rep. 3,23,35: Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta. <Nam extra

ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum nullum potest.>

…Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi de repetitis rebus (sottolineature mie). Il passo appartiene a quella parte del De republica molto lacunosa il cui contenuto si ricostruisce grazie alle citazioni di autori antichi. Nel nostro caso si tratta dell’erudito ecclesiastico del VI-VII sec. d.C. Isidoro di Siviglia, che riporta il testo nelle sue Etimologie (18,1,2-3). La parte tra parentesi, dove si tratta delle “giuste cause” della guerra, è sospettata come non ciceroniana da L. LORETO, Il ‘bellum iustum’ e i suoi

equivoci, Napoli, 2001, pp. 27 ss., contrariamente alla totalità dei commentatori.

37 Cic., off. 1,36: Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure

prescripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus

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in essere dai sacerdoti Feziali, ad un popolo straniero qualora esso non avesse risposto positivamente o

adempiuto, entro trenta giorni, alla richiesta di soddisfazione per l’eventuale danno subìto o temuto38.

La “guerra giusta” per il popolo romano consisteva in una procedura rigorosamente fissata dal diritto, a cui,

per motivi di ordine giuridico-religioso soprattutto nel lungo periodo della formazione e del consolidamento

della civitas (VI-IV sec. a.C.)39, bisognava attenersi per il buon esito dell’evento bellico.

L’aggettivo iustum richiamava, in quel contesto, non un valore etico di giustizia quanto piuttosto rigorosi

criteri giuridici40.

L’espressione bellum iustum indicava la guerra secondo le regole del diritto: una guerra, diremmo oggi,

giuridicamente legittima, cioè tutta interna alla sfera del diritto.

Tale concezione subì una torsione sostanziale sotto la spinta della riflessione di Agostino, il quale, nel

tentativo, riuscito, di traghettare la cultura classica romana nel pensiero cristiano, riportò l’elaborazione

ciceroniana sulla guerra all’interno della propria visione teologica del mondo. Agostino corresse

repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum (sottolineature mie). Cicerone ricorda le regole, proprie dell’antico ius fetiale, in relazione all’indizione della guerra da parte dei Romani contro altri popoli.

38 Vedi F. SINI, Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-

religioso romano, in A. Calore (a cura di), «Guerra giusta»?, cit., 31-76.

39 La religiosità del popolo romano, anche grazie agli eventi bellici, subì profonde trasformazioni nel corso del III e II secolo a.C.

40 Tale conclusione non trova unanime la dottrina. La quasi totalità della stessa infatti se da una parte ammette, per il periodo arcaico della storia di Roma, l’accezione giuridico-formale di bellum iustum, dall’altra ne individua nella riflessione ciceroniana del I sec. a.C. il punto di svolta, dovuto all’introduzione della iusta causa belli, che avrebbe dato inizio alla concezione etico-sostanziale della “guerra giusta”, sviluppata poi dalla cultura cristiana del medioevo e ancora presente nella moderna polemologia (per alcuni significativi esempi, con sfumature interne, vedi S. ALBERT, ‘Bellum iustum’. Die Theorie des ‘gerechten

Krieges’ und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in

republikanischer Zeit, Kallmünz, 1980; A. WATSON, International Law in Archaic Rome.

War and Religion, Baltimore-London, 1993; K.-H. ZIEGLER, Völkerrechts-geschichte, München, 1994). A tale concezione si oppone ora L. LORETO, Il ‘bellum iustum’ e i suoi

equivoci, cit., il quale ritiene, imputando ai più un equivoco reiterato nella lettura di Cicerone, che la nozione di bellum iustum sarebbe stata, nel corso dell’intera esperienza romana, di carattere esclusivamente giuridico formale. Pur condividendo la critica di Loreto alla tesi dominante, non mi convince l’interpretazione della concezione ciceroniana sulla guerra, perché troppo appiattita su quella dei secoli precedenti (VI-IV sec. a.C.) quando le relazioni ‘internazionali’, la situazione di politica interna, il sistema giuridico-religioso di Roma erano profondamente diversi da quelli dell’ultimo secolo della repubblica. È mia convinzione che Cicerone sia stato, anche perché ispirato dalla filosofia greca, uno studioso attento dei problemi della pace e della guerra anche se, e in ciò ha ragione Loreto, la sua riflessione sistematizzante si muove tutto all’interno dell’orizzonte giuridico ben lontano da quello etico-religioso che in seguito sarà di S. Agostino.

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definitivamente la posizione di “pacifismo assoluto” espressa da Tertulliano un secolo prima per cui il

mestiere delle armi era ritenuto illecito41.

Nella sua opera più importante il De Civitate Dei e in altri suoi scritti42, la “città degli uomini” gode di uno

stato di pace incerta43 che può essere messo in crisi dalla guerra connessa all’attività umana44.

Oltre ai conflitti generati dall’esistenza di popoli nemici45, dalla brama di potere46 e dalla diffidenza47, può

aversi il caso del bellum iustum48, a cui il sapiente deve, suo malgrado, partecipare per rispondere

all’ingiustizia portata: iniquitatis partis adversae49. In questo caso la guerra è ispirata da Dio per punire la

corruzione dei popoli e per educare le genti alla vita pacifica50.

Il termine iustum si riferisce, quindi, alla giustizia divina, unica fonte giustificatrice del conflitto51. Sebbene

il vescovo di Ippona non esprima una visione sistematica della “guerra giusta”, l’aver introdotto il volere

41 Tert., cor. 11 e sp. pargr. 7: “…etiam militiae ipsius inlicitae”. Vedi pure apol. 37,5 e

idol. 19,3.

42 Quaest. in Hept. 6,10; Epist. 138,2,14; Contra Faustum 22,70,74.

43 Civ. 19,5. Nella città celeste, invece la pace è “plaenissima atque certissima” (Civ. 19,10 ma già in 1praef.)

44 Civ. 7,14: “bellum opus est hominum et optabilius non est”.

45 Civ. 19,7: Quamvis enim non defuerint neque desint hostes exterae nationes, contra

quas semper bella gesta sunt et geruntur.

46 La cupiditas dominandi (cfr. Civ. 3,10; 3,14,2; 4,6; 19,7 e 14).

47 Dovuta alla diversitas linguarum (cfr. Civ. 19,7).

48 Quaest. in Hept. 6,10: Iusta autem bella definiri solent, quae ulciscuntur iniuras, si

qua gens vel civitas, quae bello petenda est, vel vindicare neglexerit quod a suis improbe

factum est, vel reddere quod per iniuras ablatum. Sed etiam hoc genus belli sine

dubitatione iustum est, quod Deus imperat, apud quem non est iniquitas et novit quid

cuique fieri debeat (sottolineature mie).

49 Civ. 19,7.

50 Civ. 1,1. La funzione positiva della guerra giusta, mandata da Dio, è ribadita da Agostino in Civ. 7,30: “qui (= il Dio cristiano contrapposto agli dèi pagani) bellorum

quoque ipsorum, cum sic emendandum et castigandum est genus humanum, exordiis

progressibus finibusque moderatur”. Ancora in un altro passo del De Civitate Dei si legge che la divisione terrena tra vincitori e vinti discende dalla volontà divina: “… Dei

providentia, in cui potestate est, ut quisque bello aut subiugetur aut subiuget, quidam

essent regnis praediti, quidam regnantibus subditi” (Civ. 18,2,1).

51 C’è un testo (Enarr. in ps. XXXV,16) in cui si coglie bene la tensione di Agostino a conformare la volontà umana alla volontà divina, come giusta directio (da cui ‘diritto’ come ‘giustizia’) della vita quotidiana: “Illa (= volontà di Dio) recta est, sed tu (= volontà di umana) curvus; voluntas tua corrigenda est ad illam, non illa curvanda est ad te: et

rectum habebis cor”.

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divino come suprema giustificazione del conflitto armato determinò l’inizio della concezione etica della

guerra offuscandone la valenza giuridica.

La riflessione agostiniana fu ripresa e codificata da Tommaso d’Aquino nel 1300, il quale, richiamandosi

all’autorità di Agostino e facendo tesoro dei contributi della canonistica52 e civilistica53 medievale, fissò tre

condizioni per il bellum justum: l’auctoritas principis, la guerra doveva essere dichiarata dall’autorità legale;

la iusta causa, la guerra doveva essere dettata da una giusta causa; la recta intentio, la guerra doveva

perseguire il bene contro il male.

Il portato religioso introdotto da S. Agostino, che trasformava la guerra in strumento della volontà divina,

venne esaltato ed elevato a regola da S. Tommaso54.

Erano, dunque, guerre giuste solo quelle dei cristiani contro gli infedeli.

Un ripensamento strutturale fu introdotto dal De iure belli ac pacis (1623-1625) di Ugo Grozio. Il giurista

olandese, forte delle anticipazioni di Francisco de Vitoria (1485-1546)55 e Alberico Gentili (1552-1608)56,

mette in secondo piano la giustificazione etico-religiosa della guerra, la “vera justitia”, per concentrarsi sulle

procedure del combattimento.

52 Cfr. il Decretum di GRAZIANO (1140-1142), causa XXIII, quaestio II.

53 Cfr. CINO DA PISTOIA, In codicem et aliquot titulos primi pandectarum tomi id est

digesti veteris doctissima commentaria, in D. 1,1,5; e in particolare, nel secolo XIV, Baldo degli Ubaldi, con le sue cinque condizioni (sulla dottrina medievale relativa alla guerra, vedi ora L. BUSI, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, I, Roma, 2001, pp. 117-151).

54 S. TOMMASO, Summa Theologiae, Secunda Secundae, q. 40.

55 F. DE VITORIA nelle conclusioni della sua Relectio de iure belli (Corpus Hispanorum

de Pace, vol. VI, Madrid, 1981) indica tre “regulae belligerandi” generali, a metà strada tra lo ius ad bellum e lo ius in bello. La prima è che il principe, munito dell’autorità di muovere la guerra, deve ricorrere ad essa soltanto come extrema ratio, sforzandosi invece di vivere in pace (“Suppositio quod principes habent auctoritatem gerendi bellum, primum

omnium debent non quaerere occasiones et causas belli sed, si fieri potest, cum omnibus

cupiant pacem habere”); la seconda è che la guerra giusta sia finalizzata non allo sterminio del nemico ma alla pace e alla sicurezza dopo aver ripristinato il diritto leso e difeso la patria (“Conflato iam ex iustis causis bello, oportet illud gerere non ad perniciem gentis

contra quam bellandum est, sed ad consecutionem iuris sui et defensionem patriae, ut ex

illo bello pax aliquando et securitas consequatur”); la terza è che, conseguita la vittoria, il principe si comporti come un giudice che, con equità e misura, dia soddisfazione alla parte lesa e punisca il colpevole non oltre la misura (“Parta victoria et completo bello… oportet

victorem existimare se iudicem sedere inter duas respublicas: alteram, quae laesa est,

alteram quae iniuriam fecit, ut non tanquam accusator sententiam ferat, sed tanquam iudex

satisfaciat quidem laesae. Sed quantum fieri poterit sine calamitate reipublicae nocentis”).

56 Per Gentili il jus belli deve valere inter gentes, cioè anche per il nemico (Commentatio de jure belli, lib. I, cap. 1). Il diritto sopravanza così la morale. Da qui la famosa frase gentiliana: “Silete theologi in munere alieno” (op. cit., lib. I, cap. 3).

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Il bellum justum doveva essere inteso, alla stregua del testamentum justum o delle justae nuptiae, come

bellum solemne, dove la solennità era conferita dalla decisione presa dalle massime autorità istituzionali di

muovere guerra e dal rispetto delle ritualità belliche prescritte57.

Si supera così la concezione universalistica della respublica christiana a vantaggio dello Stato moderno

accentrato e unitario territorialmente58. Il potere non si fondava più sulla fede bensì sulla politica.

Il monopolio della forza legittima – come nota acutamente Weber – si trasferiva agli Stati.

Un riscontro della teoria di Grozio, sul piano degli eventi storici, può essere rintracciata nella pace di

Westfalia alla fine della Guerra dei Trentanni (1648-1649), dove le regole di politica internazionale,

destinate a restare in auge fino alla I Guerra Mondiale, furono espressione dei singoli Stati-nazione.

Da questo momento in poi, per tutta l’età moderna, si affermerà la teoria dello Stato-potenza, per cui la

guerra sarà intesa come espressione della sovranità (= imperium) statale, finalizzata al perseguimento degli

interessi economici e territoriali del singolo Stato.

L'attenzione di Grozio era rivolta non soltanto alla justa causa quanto piuttosto ai requisiti formali della

conduzione del conflitto, attuando quasi un rimando alla lezione più genuina del bellum iustum del diritto

romano (come attesta anche il suo stesso argomentare continuamente puntellato da citazioni di documenti

testuali giuridici ed extra-giuridici dell’esperienza romana), anche se l’interesse speculativo si spostava

decisamente dallo ius ad bellum allo ius in bello.

Fu con l’affermarsi del giuspositivismo che la teoria del bellum justum diventò uno strumento inutile per il

diritto internazionale del XIX secolo.

Come scrive Bobbio: “il positivismo giuridico, non prendendo in considerazione altro diritto che il diritto

positivo, che è il diritto effettivamente osservato in una determinata società, scisse nettamente il giudizio su

ciò che è giuridico dal giudizio su ciò che è giusto”59.

La portata della nuova concezione, applicata al conflitto bellico, determinò un comportamento tra gli Stati

“come se non esistesse di fatto alcuna regola comunemente accettata per distinguere guerre giuste da guerre

ingiuste. In altre parole, gli stati considerano la guerra come una procedura sempre lecita”60.

57 H. GROTIUS, De jure belli ac pacis, lib. I, cap. 3, § 4: Ut bellum solenne sit ex jure

gentium, duo requiruntur; primum ut geratur utrique auctore eo, qui summam potestatem

habeat in civitate; deinde, ut ritus quidam adsint, de quibus agemus suo loco (= lib. III, cap. 3, §§ 4-5). Per avere una “guerra giusta” occorre che: sia proclamata da soggetti muniti di imperium, inteso quest'ultimo come ‘sovranità’ (cfr. lib. I, cap. 3, § 17. Per cui i combattenti devono essere hostes giuridicamente riconosciuti: lib. III, cap. 1, §§ 1-2); sia indetta da un publice decretum e dichiarata pubblicamente, mediante denuntiatio (lib. III, cap. 3, § 5).

58 Per una visione di sintesi della formazione dello “Stato moderno” vedi P. SCHIERA, s.v. ‘Stato moderno’, in Dizionario di politica, Milano, 1990, pp. 1128-1134.

59 N. BOBBIO, Il problema della guerra, cit., p. 62.

60 ID., op. cit., p. 63.

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Il principio restò dominante fino alla I Guerra Mondiale, dove si consumò il passaggio dalla ‘legittimità’ alla

‘legalità’ della guerra61.

Il diritto internazionale bellico non era interessato più alla giustificazione del conflitto quanto piuttosto alla

regolamentazione della violenza tra i belligeranti.

In questa direzione, dal 1907 (Convenzioni dell’Aia) in poi, si assiste al graduale intento di codificare,

attraverso convenzioni e protocolli, norme consuetudinarie e accordi tra gli Stati in materia di ius in bello.

Tale sistematizzazione può essere riassunta in quattro regole generali, per cui l’uso della forza in un conflitto

armato deve: essere limitato ai belligeranti e, solo collateralmente, interessare la popolazione civile; essere

circoscritto agli obiettivi militari; escludere armi particolarmente insidiose e micidiali; essere delimitato alle

zone di guerra. Si tratta di una serie di limitazioni, che hanno indotto all’uso dell'espressione ‘diritto

internazionale umanitario’ in sostituzione dell’originario ‘diritto bellico’.

La “guerra giusta”, messa in ombra dal positivismo ottocentesco, riemerse durante e dopo la II Guerra

Mondiale come strumento teorico per opporsi alle teorie bellicistiche.

Tra i suoi più attenti fautori è da annoverare il giurista austriaco Hans Kelsen, il quale propugnando il

primato del diritto internazionale sui singoli ordinamenti statali, riutilizzò l’idea di “guerra giusta” come

diretta emanazione dell’ordinamento giuridico mondiale:

“la guerra è ammissibile, secondo il diritto internazionale generale, soltanto come reazione contro la

violazione del diritto internazionale, cioè contro la violazione degli interessi di uno stato, contro la quale

questo stato è autorizzato dal diritto internazionale generale a reagire con la guerra o la rappresaglia. Come

quest’ultima, la guerra stessa, se non è una sanzione, è un delitto. Questo è il cosiddetto principio del bellum

iustum”62.

Nella visione kelseniana, però, il “giusto” non ha nulla dell’accezione etica del jus ad bellum medievale,

essendo collegato al dettato normativo internazionale ma, a ben vedere, non può nemmeno essere ricondotto

unicamente al jus in bello della teoria moderna della “guerra giusta”. La categoria rigorosamente giuridica di

“guerra giusta”, usata da Kelsen, nasce nella koinè politico-culturale che, dalla fine della I Guerra Mondiale,

si è adoperata per bandire l’uso della forza armata dalla risoluzione delle controversie tra gli Stati.

Si pensi al Covenant della Società delle Nazione del 1920 o al Patto Briand-Kellogg del 1928; ma è

soprattutto la Carta delle Nazione Unite del 1945 che, ponendo come obiettivo prioritario il “vivere in pace

l’un con l’altro in rapporto di buon vicinato”, limita a due sole ipotesi l’uso della forza armata: la legittima

difesa (art. 51) e il mantenimento della sicurezza internazionale (art. 39 e segg.).

61 Il significato che attribuisco alla distinzione è quella prospettata da Bobbio (op. ult.

cit., ma già Guerra e diritto (1966) ora in N. BOBBIO, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, 1999, pp. 520-521), secondo il quale “il giudizio di legittimità della guerra riguarda il giusto titolo (la iusta causa) per cui è intrapresa; il giudizio di legalità riguarda esclusivamente l’esercizio o la condotta della guerra” (p. 64; vedi pure a p. 103).

62 H. KELSEN, La dottrina pura del diritto (1960), trad. it., Torino, 19753, p. 354

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A tutt’oggi, ben 191 Stati si sono impegnati a risolvere eventuali controversie in modo pacifico63, escludendo

il ricorso alla guerra se non nelle due eccezioni espressamente prescritte e autorizzate dal Consiglio di

Sicurezza.

Si tratta di un’acquisizione di non poco conto rispetto alla precedente filosofia dei rapporti tra Stati-nazione,

in base alla quale il ricorso alla guerra nelle controversie internazionali era percepito come un diritto

acquisito. La guerra è ripudiata64, come sancisce la stessa Costituzione italiana65. È evidente che la diversa

considerazione dell’evento bellico non sia sufficiente all’edificazione di uno stato di pace permanente, come

provano i tanti conflitti che dalla fine della II Guerra Mondiale ad oggi hanno interessato e interessano molte

zone del pianeta, ma l’orientamento scelto sembra essere fecondo: non l’utopistica e, forse, nemmeno

necessaria66 eliminazione dei conflitti quanto piuttosto una gestione non violenta degli stessi, sotto il diretto

controllo del diritto, ponendo l'accento sul rapporto guerra-diritto che, come già visto, costituisce un punto

nevralgico nella teoria della “guerra giusta”.

È questo uno degli aspetti teorici e pratici su cui si sono spesso soffermati gli studiosi della guerra e della

pace. Lo abbiamo intravisto a proposito del pensiero di Kelsen e potremmo risalire attraverso gli antecedenti

al ciceroniano “silent enim leges inter arma”67.

63 Art. 33 della Carta: “le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile

di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguire una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta”.

64 “Lo Statuto delle nazioni Unite […] si discosta dal Covenant [= Patto della Società delle Nazioni] in quanto interdice, mediante il divieto generale dell’uso o della minaccia della forza (art. 2 n. 4), ogni forma di guerra” (A. CURTI GIALDINO, s.v. Guerra (Dir.

Intern.), in EdD, p. 871.

65 Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”. Il nostro Stato-comunità, quindi, rinuncia ad usare il ‘fatto’ bellico contro altri popoli, anche se ciò non significa affermazione del pacifismo assoluto, perché, sempre nella Costituzione, è prevista la guerra di difesa (artt. 52 c. 1; 78 e 87 c. 9). Sulla dibattuta quaestio, anche in relazione all'intervento italiano in Kosovo, vedi le suggestioni in M. DOGLIANI-S. SICARDI (a cura di), Diritti umani e uso della forza, Torino, 1999.

66 Sulla inevitabilità dei conflitti, cfr. l’interessante libro di I. EIBL-EIBESFELDT, Etologia della guerra (1998), trad. it., Torino, 1999.

67 Cic., Mil. 4,11. La frase è pronunziata l’8 aprile del 52 a.C. da Cicerone durante l’arringa volta a scagionare il capo degli optimates Annio Milone dall’accusa di aver ucciso premeditatamente l’avversario politico, nonché capo dei populares, Clodio. Si invoca la legittima difesa (potestas defendendi): Milone avrebbe ucciso in funzione preventiva Clodio, che stava per assassinarlo. L’avvocato di Arpino argomenta che, in particolari situazioni, la necessità impone di respingere la violenza con la forza (“verum etiam cum vi

vis illata defenditur”) senza attendere (“exspectare”) l’autorizzazione delle leggi, che potrebbe essere tardiva per evitare il danno ingiusto (“iniusta poena”). Dunque, in questi casi, “il diritto cede il passo alla guerra”.

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Tuttavia, ai fini della nostra ricerca, è sufficiente richiamarsi ai quattro tipi di rapporto indicati da Bobbio68:

la guerra come antitesi del diritto; la guerra come mezzo per realizzare il diritto, che è alla base della teoria

della “guerra giusta”; la guerra come oggetto del diritto, dove è centrale il problema della regolamentazione

della condotta bellica; la guerra come fonte del diritto, per cui la violenza bellica è all’origine di un nuovo

ordinamento giuridico.

Soffermiamoci sul primo tipo di rapporto, perché in esso la costruzione dello stato di pace è posto come

obiettivo prioritario: il “diritto come insieme di regole ordinate al fine della pace: e la pace è l’eliminazione

della guerra”.

È necessario, per meglio comprendere la relazione descritta da Bobbio, chiarire il concetto di guerra, che è

qui intesa, giova ricordarlo, come conflitto tra gli Stati e non come guerra civile e/o rivoluzionaria.

Bonanate69 la definisce come “lo scontro volontario di molti che si schierano su due fronti opposti

nell'intenzione di piegarsi fisicamente l'un l'altro”. La costrizione violenta di uno dei due belligeranti

richiama la più antica definizione di Karl von Clausewitz (1780-1831): “la guerra è dunque un atto di forza

che ha per scopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà”70.

È la forza, quindi, il tratto predominante del fenomeno bellico. Una forza mortale, violenta: “la specificità

della guerra consiste nel mezzo usato: la violenza”. Un uso della forza privo di regole, legibus solutus, a cui

si contrappone la forza ordinata prodotta dal diritto grazie alla coercibilità delle norme. “Il diritto”, quindi,

“non ha a che fare con la guerra, ma ha a che fare con l’elemento costitutivo della medesima, ossia con la

forza”.

Proprio tale peculiarità consente al diritto di porsi come strumento privilegiato, tra altri, per ridurre gli spazi

della guerra favorendo l’espandersi della pace. Una pace, quindi, che è sì assenza della guerra ma in una

prospettiva progettuale71. È il problema della “pace positiva” che - come scrive Bobbio - “significa non

68 Vedi in particolare gli scritti del 1966, 1967, 1983 tutti ripubblicati in N. BOBBIO,

Teoria generale della politica, cit., pp. 520-535; e, ancora, ID., Il problema della pace e

della guerra, cit., pp. 99-118.

69 Per una breve ma puntuale panoramica su 'tipi', 'modi', e 'fini' della guerra rimando alle pagine di L. BONANATE, La guerra, Roma-Bari, 1998, pp. 5-10.

70 K. von CLAUSEWITZ, Della guerra, cit., p. 19.

71 Tradizionalmente la "pace viene definita negativamente come assenza di guerra, più brevemente come non-guerra (vedi quanto già detto alla nt. 33). Il termine pax deriverebbe da "due radici distinte che nel corso della loro storia, all'interno delle singole tradizioni linguistiche non si esclude che abbiano potuto avere contatti reciproci". La radice *PAG-/P∃G-, che ha il significato di "piantare", "conficcare", da cui "costituire"; la radice *PAK-/P∃K-, il cui primo significato è "unire", "legare", "congiungere" (cfr. M.L. PORZIO

GERNIA, Considerazioni linguistiche sulla famiglia del latino 'pax', 'paciscor', ecc., in I. Lana (a cura di), Le concezioni della pace a Roma, Torino, 1987, p. 208). Già Ulpiano, giurista romano del III sec. d.C., coglieva nel termine pax un collegamento con pactio e quindi con pactum, che indica l'atto di concludere un accordo. D. 2,14,1,1-2 (Ulpianus, libro quarto ad edictum): Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam pacis nomen

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soltanto cessare dalle ostilità o non fare più la guerra, ma anche instaurare uno stato giuridicamente regolato

che tende ad avere una certa stabilità”.

La guerra, in quanto forza mortale, è dunque negazione del diritto che, come mezzo di pacificazione, può

ritenersi suo antagonista ed essere utilizzato per arginarne l’uso. E’questa, la filosofia sottesa nella Carta

delle Nazioni Unite anche quando la stessa prevede l’uso della forza armata come extrema ratio per legittima

difesa e per tutelare la sicurezza internazionale.

Il fine del diritto può essere indirizzato alla riduzione degli spazi occupati dalla guerra, favorendo in questo

modo la realizzazione dello stato di pace.

Siamo nel campo d’azione di ciò che Bobbio definisce “pacifismo giuridico”, strettamente collegato all’idea

kelseniana della pace attraverso il diritto72. Per sottrarre l’uso della forza bellica al libero arbitrio dei singoli

Stati-potenza, è necessario rendere efficace la soluzione giuridica delle controversie tra Stati adottata dalla

struttura istituzionale sovranazionale. Il tutto necessita di una visione normativa dei rapporti internazionali,

che si traduca anche in un potenziamento non solo decisionale ma pure organizzativo-operativo degli

organismi. Si pensi, ad esempio, alla costituzione di uno Stato Maggiore dell’ONU, previsto dalla Carta (art.

47), che avrebbe il comando dell’azione di polizia deliberata dalla stessa ONU; all’accettazione dello statuto

della Corte penale internazionale (1998) da parte di tutti gli Stati; alla riorganizzazione della NATO da

struttura militare difensiva della superata alleanza atlantica a organismo per la sicurezza in Europa.

appellatum est) et est pactio duorm pluriumve in idem placitum et consensus. (trad.: "Il termine patto deriva da 'pactio' (da cui anche il significato di pace); la 'pactio' consiste nel consenso di due o più individui sullo stesso scopo". Sottolineature mie). Si tratterebbe di una "definizione (etimologicamente) persuasiva", come scrive A. CARCATERRA, Le

definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Napoli, 1966, p. 410. Vedi, di recente, F. SINI, ‘Bellum nefandum’, Sassari, 1991, pp. 244 ss. Da qui il verbo primitivo pacere, presente nelle XII Tavole col senso di 'concludere un accordo' (cfr. G. SEMERANO, s.v. 'pax', in Diz. etim. ling. lat.) Il termine latino pax significa "il presupposto e la premessa di un contenuto", al contrario del greco eiréne che invece indica "il contenuto e i frutti del tempo di pace" (I. LANA, L'idea di pace nell'antichità, cit., p. 56. Altra bibliografia in F. SINI, ‘Bellum nefandum’, cit., pp. 246-247). In conclusione, lo stato di pace sarebbe una conquista dell’umanità e non uno stadio, cui perviene meccanicamente l’evoluzione dell’umanità (si pensi alla “pace perpetua” propugnata da Kant).

72 Il concetto è descritto da N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, cit., pp. 65-66, all'interno della più vasta riflessione sulla guerra termonucleare: "dopo essere stata considerata, ora come un mezzo per attuare il diritto (teoria della guerra giusta), ora come oggetto di regolamentazione giuridica (nell'evoluzione del ius belli), la guerra ritorna ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di natura, l'antitesi del diritto", cui si contrappone il "pacifismo attivo" articolato in tre forme: "il primo strumentale, ovvero la pace attraverso il disarmo e la nonviolenza, il secondo istituzionale, ovvero la pace attraverso il diritto, il terzo etico e finalistico, ovvero la pace attraverso l'educazione morale" (per le varie forme di "pacifismo" storicamente determinato, vedi la breve ma chiara esposizione di N. BOBBIO, s.v. Pacifismo, in Dizionario della Politica, cit., pp. 745-747). Per un’esplicitazione del collegamento stretto tra la proposta del “pacifismo istituzionale” di Bobbio e la linea di un ordinamento giuridico come mezzo per garantire una pace stabile e universale di Kelsen, cfr. D. ZOLO, I signori della pace, Roma, 1998, in particolare il saggio n. 4.

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Si impone una rifondazione delle relazioni internazionali attraverso la codificazione di nuove regole

sovranazionali che introducano criteri di valutazione giuridica sull’uso della forza armata. In questa ottica

andava inteso lo sforzo di Antonio Cassese di individuare “cinque condizioni ben precise” per una nuova

legittimazione nel diritto internazionale dell’uso della forza, partendo dalla non legalità dell’intervento

militare nel Kosovo73.

Bobbio ha parlato, al riguardo, dell’istituzionalizzazione di “un nuovo diritto internazionale”74, richiamando

la tesi di Habermas del passaggio “dalla politica di potenza classica a uno stato di cittadinanza universale”75.

Il dato incontrovertibile, che emerge dall’analisi, è una forte contrazione del principio di sovranità dello

Stato-potenza.

Lo stesso recente fenomeno della globalizzazione neoliberista alimenta tale tendenza, spostando la sfera

decisionale dagli Stati al mercato76. Ma il mutamento, per essere in qualche modo utile alla formazione di

prerequisiti per un piano di pace, non deve essere subìto come portato oggettivo di mere leggi economiche

quanto piuttosto essere governato da una politica internazionale che affronti le disuguaglianze e punti a

ridurre la povertà. Che il mercato da solo significhi pace è un'illusione. Il Governo dell'economia

globalizzata non può essere lasciato alle istituzioni specializzate come il Fondo monetario internazionale, la

Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio, e alle burocrazie che le guidano. Il rapporto tra

economia e regole non può giocarsi tutto ed esclusivamente all’interno dell’economia. Il compito dell'ONU e

delle organizzazioni regionali tra Stati dovrebbe essere quello di rilanciare il ruolo della politica, come

fattore di equità: una politica rappresentativa su basi sovranazionali.

È evidente che il progressivo abbandono della guerra tradizionale a favore della costruzione di uno stato di

pace presuppone il primato dell'ONU e passa attraverso la concertazione di una molteplicità di strumenti:

73 A. CASSESE, Le cinque regole per una guerra giusta, in L’ultima crociata?, cit., p.

28: "1) lo Stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo, massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali; 2) il Consiglio di sicurezza ha ripetutamente invitato quello Stato a porre termine ai massacri; 3) è stata tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica; 4) l’uso della forza è sostenuto da un gruppo di Stati e non da una singola potenza e la maggioranza degli Stati dell’ONU non è contraria a tale uso; 5) il ricorso alla guerra non ha alternative rispetto alla prosecuzione dei massacri da parte dello Stato responsabile”.

74 N. BOBBIO, Gli intellettuali tra deprecazione e realismo, in L’ultima crociata?, cit., p. 119. L’idea era già presente nella riflessione del filosofoso torinese, come si evince dall’espressione “tappa della tappa” in Una guerra giusta, cit., p. 23.

75 Cfr. J. HABERMAS, Umanità e bestialità: una guerra ai confini tra diritto e morale, cit. p. 86. Il filosofo tedesco ha insistito molto sull’instaurarsi di un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali, vedi in modo particolare J. HABERMAS, L’inclusione dell’altro, Milano, 1998 e La costellazione postnazionale, Milano, 1999.

76 Per un’analisi degli effetti che il processo di globalizzazione in atto produce in ambito istituzionale e giuridico, vedi ora M.R. FERRARESE, Le istituzioni della globalizzazione

(Diritto e diritti nella società transnazionale), Bologna, 2000.

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politici, economici, culturali e diplomatici. Tra questi un ruolo determinante può essere svolto anche dal

diritto: l'obiettivo è che gli Stati e tutti i soggetti della politica internazionale prendano sul serio le norme su

cui si identifica e si regge la stessa comunità internazionale e che ne garantiscano la effettività. Nel rapporto

antitetico tra guerra e diritto, le istituzioni internazionali dovrebbero, in casi rigidamente circoscritti e come

extrema ratio, autorizzare e guidare l'uso della forza armata secondo principi universalmente riconosciuti,

conformi cioè al sistema normativo internazionale.

Da questo modello scaturisce una concezione della guerra 'giuridicamente lecita', vale a dire corrispondente

alla normativa internazionale codificata dalla comunità mondiale, che, per il carattere multilaterale delle

proprie scelte, è in grado di imporre criteri di giudizi condivisi. Comunque, è sempre una liceità circoscritta

entro limiti rigorosi quella che deriva dalla Carta delle Nazioni Unite. Non si tratta di recuperare antiquate

giustificazioni di ordine religioso, morale o etico, quanto piuttosto di valutare, conflitto per conflitto, la

conformità giuridica (considerando sia i fini, sia l'estensione e l'offensività dei mezzi impiegati)

dell'eventuale uso della forza armata all'ordinamento internazionale.

***

Negli ultimi tempi, e precisamente a far data dal 2005, in occasione del World Summit organizzato dalla

Nazioni Unite, si è fatta strada, nell’ambito delle relazioni internazionali, l’idea che debba esistere un

principio in base al quale si possano determinare le condizioni in presenza delle quali, sia “giustificato” e

moralmente e giuridicamente doveroso intervenire; nella Dichiarazione finale del citato World Summit, è

stata definita la nozione di “responsability to protect”77

77 Paragraphs 138-139 of the World Summit Outcome Document Heads of state and government agreed to the following text on the Responsibility to Protect in the Outcome Document of the High-level Plenary Meeting of the General Assembly in September 2005

138. Each individual State has the responsibility to protect its populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity. This responsibility entails the prevention of such crimes, including their incitement, through appropriate and necessary means. We accept that responsibility and will act in accordance with it. The international community should, as appropriate, encourage and help States to exercise this responsibility and support the United Nations in establishing an early warning capability. 139. The international community, through the United Nations, also has the responsibility to use appropriate diplomatic, humanitarian and other peaceful means, in accordance with Chapters VI and VIII of the Charter, to help protect populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity. In this context, we are prepared to take collective action, in a timely and decisive manner, through the Security Council, in accordance with the Charter, including Chapter VII, on a case-by-case basis and in cooperation with relevant regional organizations as appropriate, should peaceful means be inadequate and national authorities manifestly fail to protect their populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity. We stress the need for the General Assembly to continue consideration of the responsibility to protect populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity and its implications, bearing in mind the principles of the Charter and international law. We also intend to commit ourselves, as necessary and appropriate, to helping States build capacity to protect their populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing and crimes against humanity and to assisting those which are under stress before crises and conflicts break out.

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Il concetto della “responsibility to protect” (responsabilità a proteggere) – abbreviato con l’acronimo r2p – è

un principio di diritto internazionale umanitario elaborato e sviluppato nel corso degli anni più recenti.

Il principio è costituito da una norma che mira alla protezione della popolazione mondiale da eventi quali il

genocidio, la pulizia etnica, i crimini di guerra e, in generale, i crimini contro l’umanità.

Tale responsabilità incombe, in primis, sullo Stato sovrano in riferimento ai suoi cittadini. Solo qualora lo

Stato non possa o non voglia proteggere i propri cittadini, o addirittura sia lo Stato stesso a danneggiarli, la

comunità internazionale è tenuta ad intervenire e provvedere a difendere i diritti umani violati.

La “r2p” è stata enunciata in forma ufficiale, per la prima volta, nell’assemblea generale dell’ONU del

settembre 2005, in occasione della quale un gran numero di Paesi ha riconosciuto di avere una generale

“responsabilità a proteggere” gli esseri umani da accadimenti quali quelli sopra elencati.

Concepita dagli esperti di diritto internazionale umanitario, la r2p nasce dalla volontà di impedire che disastri

umanitari quali, ad esempio, i genocidi del Ruanda, gli omicidi di massa della Bosnia e crimini di tal genere

possano ripetersi.

Per tale ragione, è necessario sensibilizzare la comunità internazionale su questo tema, rafforzando l’idea che

sulle istituzioni grava la responsabilità di prevenire ed impedire tali accadimenti, approntando altresì gli

strumenti che, al ricorrere di determinati presupposti, rendono necessario e consentono l’intervento da parte

di soggetti terzi rispetto allo Stato sovrano.

Il riconoscimento e la condivisione del concetto della r2p ad oggi ottenuti sono il risultato di anni di studi,

approfondimenti, riflessioni, dibattiti, discussioni da parte dei maggiori esponenti e studiosi del diritto

umanitario internazionale.

Ufficialmente, come si è detto, l’evoluzione del riconoscimento del principio della r2p ha la sua pietra

miliare nel 2005.

Nel report del Segretario generale dell’ONU del 21 marzo 2005, si evidenzia che la “r2p” rileva nell’ambito

del perseguimento del fine di “libertà di vivere in condizioni di dignità”, quale esplicitazione del più generale

principio di “libertà dalla paura”.

Nonostante gli Stati membri dell’ONU avessero già dichiarato di non voler risparmiare i propri sforzi per il

riconoscimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali – quali condizioni essenziali per la creazione di

una condizione di giustizia e stabilità – la ricorrenza di fenomeni quali il terrorismo e la diffusione di armi di

140. We fully support the mission of the Special Adviser of the Secretary-General on the Prevention of Genocide.

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distruzione di massa hanno dimostrato che senza azioni concrete ogni dichiarazione sarebbe rimasta fine a sé

stessa, una promessa senza significato.

Si è così posta la necessità di implementare, sopratutto nell’ambito delle Nazioni Unite, il ruolo attivo della

comunità internazionale nell’istituire e rendere effettivi i principi della democrazia in tutti gli Stati del

mondo, abbracciando l’idea della “responsabilità a proteggere” ed agendo nel rispetto di essa a favore delle

vittime di episodi e atti di atrocità di massa.

L’aspetto proattivo del principio in esame è intensificato dalla considerazione per cui è giunto per gli Stati il

momento di prendere in considerazione l’importanza, sia a favore dei propri cittadini che di quelli stranieri,

del rispetto della dignità dell’individuo, in riferimento a cui troppo spesso si appronta soltanto una tutela

formale, a livello di mere enunciazioni.

È, invece, necessario passare da un’era della legislazione ad un’era dell’implementazione, condizione

imprescindibile per la tutela dei popoli.

Una simile impostazione diviene tanto più importante quando si tratta del ruolo della legge, che non può più

limitarsi ad una mera dichiarazione, ma deve effettivamente trovare esecuzione nella realtà.

Il “gap” tra la retorica e la realtà è particolarmente visibile in alcuni Stati, i quali, nonostante le dichiarazioni

e gli impegni assunti, continuano impunemente a violare tali principi, con conseguenze spesso tragiche per le

loro popolazioni.

Tale “gap” è tanto più evidente nel campo dei diritti umani; non c’è diritto sino a che la comunità

internazionale assiste, quasi impotente, a violazioni tanto efferate dei più elementari diritti dell’individuo.

Tali considerazioni sono il prodromo delle determinazioni assunte in merito nel corso dell’Assemblea

Generale ONU del settembre 2005.

La pubblicazione del report di tale assemblea (paragrafi 138 – 139) evidenzia, appunto, le fondamentali

risoluzioni adottate al riguardo, laddove si dichiara che: (traduzione non ufficiale) “ciascuno stato ha la

responsabilità di proteggere i propri cittadini da genocidi, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro

l’umanità. Tale responsabilità include la prevenzione di tali crimini e della loro incitazione, attraverso gli

appropriati e necessari mezzi. … “.

“ La comunità internazionale, attraverso le Nazioni Unite, ha anche la responsabilità di utilizzare gli

appropriati mezzi di natura diplomatica e umanitaria, in accordo con i Capitoli VI e VIII della Carta delle

Nazioni Unite, per proteggere i popoli da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro

l’umanità. In tale contesto, siamo preparati ad intraprendere azioni collettive, in modo tempestivo e deciso,

… in base alle caratteristiche della fattispecie e in cooperazione con le competenti organizzazioni regionali

qualora i mezzi di pace non siano adeguati e le autorità nazionali non siano in grado di proteggere le loro

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popolazioni … . Sottolineiamo la necessità che l’Assemblea Generale continui la riflessione sulla

responsabilità a proteggere le popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro

l’umanità … . Inoltre ci impegniamo … ad aiutare gli Stati a raggiungere la capacità di proteggere le loro

popolazioni da genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità e ad assistere quelli

sottoposti a tensioni prima che le crisi ed i conflitti esplodano.”

Da questi presupposti è nata e deve essere sviluppata l’idea che esiste una responsabilità collettiva a

proteggere; tale principio deve costituire la regola che imponga alla comunità internazionale, ed all’O.N.U.

in primis, che il dovere primario di ciascuno Stato è quello di proteggere i suoi cittadini, e che, qualora ciò

non accada, la responsabilità alla protezione di quella determinata popolazione si sposta in capo alla

comunità internazionale, la quale dovrà intervenire fisicamente mettendo in atto le azioni necessarie al

ripristino dell’efficacia dei diritti umani violati.

Il concetto della R2P, recentemente, è stato oggetto di un acceso dibattito tra i suoi sostenitori e coloro che, a

prescindere dalla strumentalità di tale posizione, considerano tale idea come una possibile giustificazione ad

interventi armati nei confronti di uno Stato terzo.

In sostanza, gli scettici temono che la responsibility to protect possa essere utilizzata quale mezzo per

giustificare indebite interferenze a livello internazionale, divenendo così un “right to intervene” (R2I). In tal

senso, il recente intervento anglo-americano in Iraq (giustificato quale “intervento umanitario”) ha costituito

un argomentazione di un certo impatto.

Tale posizione è stata presa da diversi Paesi, tra i quali: India, Cuba, Pakistan, Egitto, Sudan, Venezuela.

Tali contrapposizioni, al di là del merito della discussione, creano comunque un problema di tipo politico ed

istituzionale. Infatti, posto che l’applicazione del principio della R2P diviene essenzialmente oggetto di

discussione nell’ambito del Consiglio dell’O.N.U., il fatto che alcune tra le nazioni più forti e ricche del

globo (USA, Russia, Cina, Francia e Inghilterra) godano del privilegio di essere membri permanenti di tale

organo costituisce per gli scettici un argomento di critica a tale principio, che viene descritto come strumento

della volontà dei più forti contro la sovranità dei Paesi più deboli e, in quanto tale, potenziale pericolo come

presupposto di un nuovo colonialismo.

Questo è certamente paradossale, dal momento che sono proprio le popolazioni dei paesi più poveri e più

deboli a necessitare maggiormente dell’applicazione della responsibility to protect.

Il concetto della “r2p” è stato oggetto di dibattito anche nell’Assemblea Generale dell’O.N.U. del 27-28

luglio 2009.

Prima di tale avvenimento, i media avevano sottolineato le contrapposizioni sopra descritte su questo tema, e

vi era il timore che, proprio in considerazione di esse, l’esito delle discussioni avrebbe potuto causare un

indebolimento del principio, con la conseguenza di ostacolare il percorso di implementazione ed

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estrinsecazione pratica dello stesso, che aveva avuto inizio proprio in occasione dell’Assemblea Generale

O.N.U. del 2005.

L’esito si è invece dimostrato assolutamente positivo, con soddisfazione di coloro che cercano di diffondere

e consolidare il principio.

Dichiarazioni favorevoli al riconoscimento ed all’applicazione della “r2p” sono provenute da ogni regione

del pianeta, compresi gli stati del Guatemala, Costa Rica, Corea del Sud, Nigeria, Ghana, Randa, Francia,

Norvegia, U.E.

Ciò nonostante vi sono stati tentativi di taluni detrattori di sviare il dibattito e di far passare il concetto quale

strumento a favore dello strapotere dei Paesi occidentali.

Molti Paesi, inoltre, hanno collegato il loro supporto alla r2p con la richiesta di una riforma del Consiglio di

Sicurezza ONU e del rafforzamento dei poteri delle Nazioni Unite e dei singoli stati di intervenire per la

prevenzione dei crimini di massa contro l’umanità.

Simili proposte, unite a prese di posizione assolutamente favorevoli alla r2p, sono peraltro provenute da

Paesi che in precedenza avevano espresso timori in riferimento allo stesso principio, tra i quali: Indonesia,

Brasile, India, Algeria, Cina, Ecuador.

Sulla scorta dei riscontri assolutamente positivi e dei consensi al principio della r2p emersi nel corso del

dibattito dell’Assemblea Generale dell’ONU del luglio 2009, nell’ambito del forum delle ONG tenutosi

presso l’”African Center for Democracy and Human Rights Studies” dal 7 al 9 novembre 2009 è stata

adottata una risoluzione che invita gli Stati africani a dare priorità agli sforzi volti alla prevenzione dei

crimini contro l’umanità, a creare meccanismi per il monitoraggio di tali eventi, in collaborazione con le

Nazioni Unite e le organizzazioni regionali, a prestare assistenza tra gli Stati affinché ciascuno di essi possa

adempiere alle proprie responsabilità di protezione nei confronti dei cittadini, ad impegnarsi ad intraprendere

tempestivamente le azioni opportune in specifiche situazioni che le rendano necessarie.

Infine, si evidenzia che, sul piano internazionale, esistono alcune organizzazioni che promuovono

costantemente lo sviluppo e l’applicazione del principio della r2p.

Tra le varie organizzazioni di ambito umanitario, preme segnalare l’esistenza della ICR2P (acronimo di

“International Coalition for the Responsibility to Protect” - http://responsibilitytoprotect.org/), costituita nel

gennaio 2009 da otto organizzazioni non governative, regionali ed internazionali. Il suo scopo è quello di

collaborare con le ONG di tutto il mondo per promuovere il riconoscimento, il consenso e l’applicazione

della r2p.

***

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Da ultimo, alcune riflessioni sulla necessaria riforma del sistema delle Nazioni Unite; tema che, come

già scritto, emerge sia allorchè si parli di guerra “gusta” che di “r2p”.

Tutte le proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza dal 1945 in poi sono sostanzialmente riconducibili a

proposte di inclusione di Stati, gruppi di Stati od organizzazioni regionali come membri permanenti (con o

senza diritto di veto), non permanenti o in categorie intermedie tra questi due (semipermanenti).

Anche volendo mettere momentaneamente da parte le pur fondamentali divisioni ideali e reali, i vari giochi

di potere e tutto quanto abbia reso impossibile finora un accordo sulla riforma, il problema dei vari drafts, ma

anche di tutte le proposte d’inclusione formalmente e informalmente presentate dalla fine del bipolarismo,

risulta essere un irrisolvibile rompicapo teorico.

La questione che emerge implicitamente è: dove si ferma e rispetto a quali principi il meccanismo di

inclusione? Quali membri dovrà avere il Consiglio ? E quali parametri dovranno soddisfare tali membri ? Se

ad esempio si accetta la promozione a membro permanente di uno stato A con una popolazione di 80 milioni

(potrebbe essere la Germania), difficilmente si potrebbe privare dello stesso privilegio lo stato B con un

miliardo di abitanti (India); se si concede a quest’ultimo lo stesso privilegio di A, lo stato C potrà sempre

addurre il suo superiore potere economico, la sua industrializzazione, i suoi contributi finanziari

all’organizzazione (Giappone), ma di fronte a tutto ciò lo stato D (un qualsiasi grosso stato del terzo mondo)

chiamerebbe in causa il principio di equa rappresentanza geografica, dichiarando che certe aree del mondo

non possono essere sovra-rappresentate e così via in un processo che non avrebbe mai fine. Questo però per

inciso, è il timore di molti osservatori ed in particolare degli Stati Uniti che hanno già “ messo le mani

avanti” sostenendo il principio secondo il quale in ogni caso il Consiglio di Sicurezza non dovrà superare i

20 – 21 membri. Anche considerando accettato questo limite - e l’esistenza di varie proposte che lo

oltrepassano ci induce a essere cauti in proposito - rimangono da definire i criteri che portano ad includere o

escludere i vari possibili candidati all’allargamento. La strada è quindi lunga e in salita. In ogni caso

qualsiasi riforma delle Nazioni Unite che non comprenda una riforma del Consiglio di Sicurezza sarebbe

quasi universalmente avvertita come incompleta.

Rispetto al Consiglio, possiamo distinguere due diversi possibili parametri di inclusione: l’inclusione per

meriti che possono essere di volta in volta il peso economico, demografico, militare, l’impegno finanziario o

di altro tipo nell’ONU, che può prevedere o meno meccanismi di riequilibrio geografico e l’inclusione per

regionalizzazione, che privilegia la rappresentatività geografica sugli altri tipi di considerazione. Rientrano in

questo secondo caso le proposte di allargamento alle organizzazioni internazionali regionali (finora la più

concreta proposta ha riguardato l’Unione Europea) e l’istituzione di membri semipermanenti la cui rotazione

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sia organizzata su base regionale (proposta italiana). Occorre quindi distinguere tra l’ipotesi di una

regionalizzazione esterna e una regionalizzazione interna al Consiglio. Se la regionalizzazione esterna è un

processo che si sviluppa indipendentemente e autonomamente rispetto alle Nazioni Unite, la

regionalizzazione interna sarebbe un processo che deve almeno una parte delle ragioni del proprio sviluppo

allo scopo comune di mettersi d’accordo sul come auto-rappresentarsi tutti insieme, il che presuppone

perlomeno un accordo minimo sulla propria politica estera.

A cosa potrebbe portare in futuro l’adozione di un allargamento o addirittura di una riformulazione del

Consiglio di Sicurezza che si fondi sul principio dell’inclusione per regionalizzazione ? Se l’apertura fosse

rivolta direttamente alle organizzazioni regionali, essa potrebbe avere l’effetto di promuovere o accelerare lo

sviluppo della regionalizzazione. Le varie organizzazioni regionali potrebbero “fare a gara” per accaparrarsi

un maggior numero di stati, avere quindi più peso e promuovere una propria candidatura per un seggio

permanente nelle Nazioni Unite. Gli stati stessi potrebbero decidere di trasferirsi in base alla convenienza da

un’organizzazione regionale non rappresentata ad una rappresentata al Consiglio. Qualche paese dell’Africa

settentrionale, ad esempio, o Israele, potrebbero avvicinarsi all’Unione Europea, se questa arrivasse a godere

di un seggio permanente o addirittura del potere di veto.

Questi scenari di regionalizzazione sarebbero diversi invece nel caso dell’istituzione di membri

semipermanenti su scala regionale. Il meccanismo di rotazione potrebbe creare un nucleo di ulteriore

integrazione e favorire così la regionalizzazione in aree dove questa risulti debole o essere gestita

direttamente dalle organizzazioni regionali, laddove queste siano sufficientemente solide: l’Unione Africana,

ad esempio, potrebbe gestire l’intera rotazione dei membri semipermanenti del continente, dato che solo il

Marocco non fa parte dell’organizzazione.

L’Unione Europea è chiaramente la più probabile candidata per un seggio regionale al Consiglio di

Sicurezza, Tuttavia questo vantaggio storico di essere la più avanzata organizzazione internazionale

regionale dal dopoguerra ad oggi, appare ancora insufficiente. All’interno dell’Europa, almeno due dei paesi

più importanti non hanno mai dimostrato una forte inclinazione in favore di una politica estera comune: si

tratta ovviamente della Francia e della Gran Bretagna. E’ difficile pensare che l’Europa possa ambire ad un

seggio comune prima di aver dimostrato, almeno per un periodo di qualche anno, la volontà e la capacità di

formulare una politica estera unica sufficientemente condivisa dagli stati membri. Proprio l’obiettivo di un

seggio permanente sarebbe invece un movente considerevole in vista di un integrazione più stretta della

politica estera comunitaria per tutti i paesi europei, tranne ovviamente per quelli che già lo possiedono.

Viste le principali proposte di riforma del Consiglio di Sicurezza e tutte le proposte formalmente

concretizzate nel momento attuale, date le posizioni conservatrici di Russia e Cina, la posizione di una

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riforma limitata da parte degli Stati Uniti e le divisioni in seno all’Assemblea Generale, la riforma più

accessibile – forse l’unica possibile – in un futuro a noi prossimo, pare quella di un’espansione limitata del

Consiglio. Potrebbe trattarsi di un parallelo incremento dei membri permanenti e non permanenti, i primi

quasi certamente, almeno all’inizio senza potere di veto, oppure di un aumento dei soli membri non

permanenti, come già avvenuto nel 1965 o in alternativa, la creazione della categoria dei semipermanenti,

forse con la considerazione della proposta italiana sulla loro gestione regionale.

Rispetto alla decisione finale su queste varie ipotesi, il peso complessivo degli Stati Uniti sembra essere

destinato ad avere un ruolo più determinante di quello europeo una volta arrivati al momento cruciale.

L’Europa, divisa e senza una voce comune, priva di una linea di condotta stabile ed univoca, rispetto al tema

nel presente, come nel passato, difficilmente potrà essere attiva nella fase decisionale, nella stessa ampia

misura che l’ha vita protagonista nella fase propositiva.

Un allargamento del Consiglio di Sicurezza: che cosa potrebbe significare una riforma di questo tipo? Essa

renderà certamente più improbabile l’eventualità che i membri permanenti possano assumere una decisione

da soli, dato che avrebbero bisogno di maggioranze sempre più nutrite tra i membri permanenti e non,

qualora questo dovessero aumentare; ma in passato il problema del Consiglio non è certo stato quello di

evitare che i permanenti decidessero da soli, quanto il problema opposto e cioè che essi potessero bloccare

decisioni largamente condivise, teoricamente perfino condivise da tutti, tranne che da un membro

permanente con potere di veto (anche qualora questo fosse parte in causa).

Visti i precedenti nella storia dell’organizzazione internazionale, la questione è quella di facilitare, non di

bloccare ulteriormente il processo decisionale del Consiglio, Ci si chiede quindi: in un Consiglio allargato, ci

sarebbero più o meno possibilità di incentivare il potere effettivo del Consiglio? Se, ragionando per assurdo,

l’Indonesia fosse stata nel 1999 un membro permanente del Consiglio con potere di veto, è difficile pensare

che ci sarebbe stato un successo delle Nazioni Unite nella questione di Timor Est. D’altra parte è chiaro che

la questione della rappresentatività, finchè i grandi paesi in via di sviluppo come pure alcune importanti

potenze economiche e industriali saranno subordinate ai cinque membri permanenti, va a penalizzare

l’immagine e la fede che l’opinione pubblica ha rispetto alle Nazioni Unite, e questo non è un problema da

poco.

La forza anti-decisionale del veto, per quanto cruciale, è ben lontana dall’essere superata e lo testimonia

inequivocabilmente il fatto che nessuna delle principali proposte di riforma presentate dagli stati ha mai

osato evocarne la soppressione o la limitazione. Giuridicamente, solo gli attuali beneficiari di questo diritto

possono decidere sull’auto-limitazione del proprio potere, ma che cosa potrebbe mai portare le cinque

potenze vincitrici alla rinuncia del loro privilegio ?

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In altri tempi, il filosofo europeo Emmanuel Kant, campione dell’universalismo e del cosmopolitismo

moderno, nel suo “Per la pace perpetua” del 1795, presentava la nascita di una federazione di tutti gli stati

della terra, sviluppata a partire dall’Europa, portatrice di un diritto internazionale in grado di assicurare

ovunque la pace e la sicurezza. A tutto questo l’uomo, secondo Kant, è inevitabilmente destinato: a garantirlo

sarà l’esigenza di trarre dalle eterne discordie degli uomini, anche contro la loro volontà, la concordia.

La civiltà occidentale ha creato una prima federazione sulla sponda occidentale dell’Atlantico e in seguito

una seconda sulla sponda orientale. Queste due federazioni hanno già conosciuto al proprio interno

l’esigenza degli stati di auto-limitare il proprio potere per scongiurare il ripetersi della catastrofe. Se e

quando una nuova emergenza, o forse la preveggenza, porterà l’Occidente a limitare ulteriormente la

sovranità dei propri stati e, in concreto, il potere di veto nel Consiglio di Sicurezza, rimane al di fuori delle

possibilità di previsione di questa analisi.