lo strano caso di stoccolma - christoffer carlsson

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Lo strano caso di StoccolmaChristoffer Carlsson

Newton Compton editori (2010)

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Titolo originale: Fallet Vincent Franke© Christoffer Carlsson 2010

By agreement with Pontas Literary & FilmAgency, Spain

Traduzione dallo svedese di Mattias Cocco

Prima edizione ebook: novembre 2010© 2010 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-2666-4

www.newtoncompton.com Edizione elettronica realizzata da Gag srl

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Christoffer Carlsson

Lo strano casodi Stoccolma

Vincent Franke e la donna

venuta dal nulla

Newton Compton editori

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Ai miei genitori e a mio fratello.Per il vostro sconfinato amoree per tutto il vostro sostegno.

Grazie.

«Oh my, how the world still dearly loves acage».

Maude, Harold and Maude (1971)

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UNO Vedo il mio riflesso nel vetro scuro della

vetrina. Ecco come tutto ha inizio.L’immagine è deformata, bugiarda. Le mie

mani inquiete come uccelli. Dalla tasca internadella giacca estraggo goffamente un pacchettodi sigarette mezzo pieno, ne tiro fuori una e laosservo. Poi la infilo tra le labbra e con un clicla accendo, senza esitazioni.

Non chiudo gli occhi da due settimane.Probabilmente sono due settimane che nondormo. L’insonnia mi rende insicuro di mestesso e del mio corpo.

Comincio a camminare. Il riflesso scuro misegue, esce dal margine della vetrina e poiscompare. La locandina di un’edicola miinforma su come bisogna vestirsi e apparire

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quest’anno. La sigaretta ha un effettomeraviglioso su di me e lentamente torno unessere umano. Mi sento distaccato, frescocome l’odore di banconote nuove di zecca,libero da quello che ero una volta.

I movimenti e i pensieri fluttuano.Ecco come tutto ha inizio. Una fermata dell’autobus a Gullmarsplan,

non voglio prendere la metro. Sono uscito diprigione da meno di due ore e adesso mi ritrovoqui, come una persona qualsiasi, ad aspettareun autobus. Sto per addormentarmi. Oscillaretra euforia e stanchezza indescrivibile èpericoloso, questo lo so. Non mi sono fatto labarba e non voglio nemmeno pensareall’aspetto dei capelli. La suola della miascarpa uccide la sigaretta.

Odore di gasolio. L’autista dell’autobussembra una rana che si è imbrattata di rossettola parte inferiore del muso. Il viaggio verso sudprocede sotto un cielo che va scurendosi. Sulsedile accanto al mio c’è un quotidiano con unarticolo dal titolo La banda dei vigilantes

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colpisce ancora. Oggi è un giorno qualsiasi. Lepersone man mano abbandonano l’autobus,scendendo lungo la strada. Quando sonoabbastanza solo chiamo Marko. È uno di quegliidioti che al telefono rispondono “bubù settete”.

«Bubù settete».«Indovina chi è».«Vincent». Marko sospira. «Maledizione»,

sibila.In questo mondo un detenuto in attesa di

giudizio è peggio delle scorie radioattive.Nessuno vuole toccarti finché ogni sospettonon sia stato allontanato, e, a giudicare dallavoce, la paura di Marko sembra autentica. Daltelefonino si sente un brusio, come se stesse almare.

«Non hanno nessuna prova contro di me»,dico per tranquillizzarlo.

«Dove sei?»«Fuori».«Ti vengo incontro, ci vediamo?»«Non adesso. Prima vorrei tornare a casa e

verificare gli effetti della perquisizione di questofine settimana. Eventualmente sdraiarmi sul

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letto e dormire un paio di giorni».«Ma vuoi riprendere, giusto? Ho certa roba

che aspetta solo te». Sembra teso e stressato.Mi chiedo se c’è qualcuno che gli tiene unapistola puntata alla nuca in questo momento.

«Certo», dico. «Proprio come al solito».Termino la conversazione e guardo fuori dal

finestrino. Il mondo scorre veloce come lapellicola di un film. Arrivato alla porta di casa,esito a girare la chiave. Per qualche motivo misento agitato. Un ricordo dal Kronobergshäktet1. Sto fissando delle lettere scritte con unpennarello da chissà chi. Quei maledetti mivogliono incastrare. Dopo qualche giornodall’inizio della cura disintossicante mi rendoconto che potrei essere stato io stesso ascrivere quelle lettere. Ho passato diverse nottisospeso tra incubi orribili che hanno quasi fattodi me un aspirante suicida, contorcendomi nelmio stesso vomito che è sempre più bileacquosa che altro. Mi passa la stitichezzacausata della morfina e mi devono trascinareall’infermeria del carcere. Tremo per i brivididella febbre, mi sono cagato e vomitato

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addosso, grido che mi vogliono fregare, che mivogliono incastrare. Riesco a dare una sberla infaccia a un secondino e, nelle orme dietro dinoi, vedo gocce di bile, sangue e merdaverdastra, malata.

Non è una bella cosa, ma il secondinosanguinante, un uomo in carne con un viso dabulldog, mi ha rivolto uno sguardo dicommiserazione e nel suo rapporto hatralasciato di citare l’accaduto. Gliene sonograto. Un’infermiera si è presa cura di me, mi hamesso la flebo e si è preoccupata di impedireche mi ingoiassi la lingua. Si chiama Lisbeth oElisabeth, non ricordo bene, ma ricordo di averaddirittura provato a corromperla per farmi daredel Ketogan, una forma sintetica di morfina chea dire il vero non mi piace nemmeno. Si èrifiutata di darmelo e per questo l’ho odiata.

Due settimane stremanti sono giunte altermine e ho bisogno di un po’ di calma, disonno e qualcosa che mi faccia smettere dipensare ai mostri nella mia mente.

Il nastro blu e bianco è stato strappato viadalla porta, ma ne posso ancora scorgere i

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resti. La casa in cui abito è il tipo di casa che sitrova in tutte le città svedesi. Si trova a dueminuti a piedi dalla stazione della metroBjörkhagen, ha lo stesso colore del palmo dellamia mano ed è costruita in freddo cemento,quattro piani che si innalzano verso il cielosenza ascensore. Le persone che ci abitanohanno cognomi come Pettersson, Szopek eYang2 . Hanno mogli e figli e a volte li vedo nelcortile. Il silenzio nella tromba delle scale mi fapensare che, a eccezione del sottoscritto, quidentro potrebbero essere tutti morti.

Ho comprato quest’appartamento sei mesifa, dopo aver guadagnato abbastanza damettere insieme una caparra di centomilacorone.

La porta si apre con un sibilo. Sembra che nel mio appartamento sia

scoppiata una bomba. Qualsiasi idiota sa chese sei uno spacciatore e tieni le scorte in casaprima o poi ti beccheranno. Lo svantaggio neltenerla da qualche altra parte è che dopo unaperquisizione domiciliare la casa sembra una

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zona di guerra, dal momento che la polizia nonè riuscita a trovare quello che cercava. Sulpavimento in cucina hanno addirittura rimossouna delle piastrelle. Credo abbiano usato unpiede di porco, perché accanto al buco ci sonosegni simili a ferite. Evidentemente eranodisperati.

A pensarci mi viene quasi da ridere.Apro tutte le finestre, lascio entrare il mondo

nel mio appartamento. L’aria qua dentro èmarcia e il vento fresco mi purifica la mente,calmandomi.

La libreria è stata svuotata, i libri, gettati inun mucchio sul pavimento, sembrano pronti perun rogo. Tutti i vestiti sono sparsi davanti alguardaroba che è rimasto aperto. Stoviglie rottein cucina. Mi torna in mente una mia fidanzatadi qualche anno fa, una feticista delle stovigliedi ceramica. Ogni volta che litigavamo me lelanciava addosso. Era una relazione moltodispendiosa, ma stavo con lei perché potevofregarle dei soldi. Ho chiuso semplicementesmettendo di rispondere alle sue chiamate.

Il letto è capovolto, le gambe puntano verso

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il soffitto come antenne, sembra un insettomorto. Comincio a mettere a posto, ma benpresto perdo interesse per l’impresa.

Rigiro il letto, infilo i libri nella libreria echiudo l’anta del guardaroba. Il fatto che i vestitisi trovino dove sono forse rappresenta unvantaggio. Sono troppo stanco per pensare inmaniera logica e sento la pelle elettrica ecarica, come se fossi stato al sole troppo alungo.

Chiudo le finestre, fisso il cielo per unmomento e mi sdraio supino sul letto. Il soffittonon smette di muoversi. L’immagine del cielo,troppo vasta per essere afferrata in un unicosguardo, è fissa sulle mie retine quando miaddormento.

Dal sonno passo allo svenimento, profondo

come una morte apparente.Il suono del campanello mi riporta in

superficie. Non so quanto ho dormito. Potrebbetrattarsi di un quarto d’ora come diventiquattr’ore.

Marko. I suoi capelli castani e ricci ricordano

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il pelo di un cane, lo sguardo inquieto vagaavanti e indietro. Indossa una giacca militareverde chiaro, jeans consumati e scarponi chesembrano aver camminato nel fango.

«Cazzo, che bello vederti, Vincent». I suoiocchi mi scrutano. «Sembri stanco».

«Sto dormendo. Credo». Quando chiudo gliocchi sento un bruciore dietro le palpebre e ilcuore che batte contro la spina dorsale. «Nonne sono proprio sicuro».

«Quando si tratta di te non c’è niente disicuro, Vincent», sentenzia Marko e mi èdifficile stabilire se sia contento di vedermi o piùche altro preoccupato. Sembra ancora agitato equesto mi innervosisce, ma è lui quello che mirimedia la roba da spacciare. Devo tenermelobuono.

I pensieri tornano lentamente alla realtà. Miallunga un pacchetto marrone, grande comeuna scatola di scarpe e chiuso con dello scotchargentato.

«La roba della settimana», dice.«E...»Sorride. I denti di Marko sono storti quanto

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le lapidi di un vecchio cimitero, quando sorridela sua bocca sembra quella di un morto. Dallatasca pesca un contenitore abbastanza grandeda ospitare un rullino fotografico.

«Per te», dice, mettendomelo in mano.Finalmente. Due settimane sono un periodotroppo lungo. Sul contenitore c’è un’etichettaadesiva bianca, con una scritta in russo o forseucraino. Non ho la minima idea di cosasignifichi. Con una certa apprensione chiedo aMarko se è roba sintetica. I preparati sinteticisono più difficili da trovare, e quindi piùrichiesti. Questa è la logica. Ma a me la morfinasintetica non piace. L’ho presa un paio di voltee l’unico effetto è stato un intorpidimento dellalingua che per diversi giorni mi ha reso difficileparlare in maniera intellegibile e sentire isapori. Improbabile che faccia bene alla salute.

«No», risponde. «No, questa è la buonavecchia merda di una volta». Annuisco e glidico che ho bisogno di dormire. Che non dormoda due settimane.

«Posso immaginarlo». Annuiscelentamente. «Il carcere è un incubo».

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Non posso fare a meno di ridere.«Come se ne sapessi qualcosa, tu».Marko fa spallucce e allarga le braccia.«Forse passo da te più tardi», dice. «Pare

che dobbiamo fare una cosa e se si mette malepuò darsi che avrò bisogno del tuo aiuto».

Aiuto significa più droga e più drogasignifica più soldi, il che è una cosa buona.Sono più povero di una pornostar cui sia statoamputato il sesso.

«Certo».Marko sembra esitare. Piega la testa di lato,

guarda il contenitore nero nella mia mano e poigiù verso il pavimento.

«Vedi di rimanere lucido», dice infine,facendo un cenno con la testa verso ilcontenitore.

«Almeno fino a domani».«Certo», ripeto alzando le spalle.Gli chiudo la porta alle spalle e appoggio il

pacchetto vicino al letto per ricordarmi diportarlo via da casa non appena mi sveglio.

Marko dovrebbe sapere che non è possibilelasciarmi un contenitore e pretendere che non

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lo tocchi. Ne estraggo una capsula e mi sdraiodi schiena. Socchiudo gli occhi e soppeso lacapsula nella mano. Dovrei valutare leconseguenze, ma vengo colto da una stranasensazione, come una striscia argentata disperanza sulle palpebre, e mi rendo conto chetutto, entro poco, soltanto un attimo, misembrerà gestibile. Tutto andrà bene, bastaingoiarla.

La capsula si muove attraverso il miosistema digerente e sento un bruciore nellostomaco vuoto quando la morfina trova il suoposto, da qualche parte in quel buio profondo.

La botta, la calma euforica, arriva dopo untempo che sembra durare una notte intera, mache in realtà non può essere più lungo di unpaio di minuti, la stanchezza si trasforma intranquillità e io svanisco, svanisco.

Mi riporta alla vita un rumore martellante che

mi fracassa i timpani. Ho l’impressione ditrovarmi ancora in carcere e provo laclaustrofobica sensazione di vivere in un cubo.L’angoscia mi avvolge come una nebbia. Poi

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mi rendo conto che mi trovo nel mioappartamento e provo un sollievo indescrivibile.

La vista mi trema, un’immagineframmentaria di mio padre, il suo viso vuoto, unricordo che mi fa irrigidire.

La porta. I colpi provengono dalla porta. Èbuio intorno, ma i pochi colori che riesco adistinguere sono tanto forti da sconvolgermi.Una bella opera d’arte. Sono ancora fatto inmaniera curiosa. Vacillo di nuovo fino alla portae la apro senza riflettere.

Marko fa entrare qualcuno a spintoni nel mioappartamento, una figura nera. Mi oltrepassasenza emettere suono e sparisce.

«Vincent», sibila. «Ti avevo detto...».Il suo respiro è pesante come quello di un

cane rabbioso. I capelli ricci luccicano per lapioggia o per il sudore. O entrambe le cose.

Mi guardo i piedi, vergognandomi.«Devi occuparti di lei», prosegue. «Una

settimana al massimo, finché le acque non sisaranno calmate. Mi faccio sentire appenaposso. Ma non farla uscire, ok? Hai capito?».

Nello stato in cui mi trovo farei qualsiasi

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cosa per continuare a dormire. Non riesco acontrollare i muscoli della nuca, è come se lamia testa fosse fissata a una molla nonsufficientemente tesa.

«Hai capito, Vincent?»«Cosa?»«Hai capito?»«Sì, certo».Qualsiasi cosa purché se ne vada. Mi

guarda esitante un’ultima volta prima di voltarsi.Quando chiudo la porta, sento i suoi passi perle scale, veloci e pesanti.

Ritorno a letto e prima di addormentarmi dinuovo mi chiedo cosa stia succedendo,cosciente solo in parte del fatto che unasagoma silenziosa e scura si trova nel mioappartamento.

1 Struttura carceraria nella zona centrale di

Stoccolma (n.d.t.).2 Il primo è un tipico cognome svedese, gli

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altri due stranieri (n.d.t.).

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DUE Scintille nelle fibre nervose. Sono sveglio, o

quanto meno cosciente. La luce diurna èintensa e celestiale. Ho dormito sdraiato sulbraccio e ora non riesco a usarlo. Non ha piùforza e non gli è rimasta una goccia di sangue.Sulla lingua sento sapore di ferro e alle naricimi arriva odore di spezie dolci e acqua marina.

Mi alzo a sedere sul letto, il sangue miformicola nel braccio e mi sento davvero unuomo nuovo. Con la coda dell’occhiopercepisco un movimento rapido, un fantasma,e un attimo dopo una persona si getta verso lafinestra. Lo slancio non ha forza sufficiente e ilvetro non fa altro che oscillare un po’. Segue untonfo pesante come quando si lascia cadere aterra un sacco di fertilizzante.

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Questa visione mi confonde.Mi alzo in piedi e mi gira la testa. Quando

sono fatto i ricordi si fanno imprevedibili e notosempre dei dettagli insignificanti. Lasensazione che un’ombra mi sia passatadavanti nell’apertura della porta, movimentileggeri come sussurri. Poi i ricordi sidispiegano come carte da gioco nel Black Jack.

Marko. Vincent fatto. Non farla uscire.Il corpo sul pavimento si contorce come un

pesce in agonia. Mi avvicino con l’incertezza eil battito accelerato di un poliziotto che entra nelcovo di un sospetto assassino.

È una donna giovane, forse diciotto ovent’anni, ma sono un disastro nell’indovinarel’età delle persone. I capelli sono talmente neriche assumono riflessi blu alla luce del giorno,la pelle ha il colore dell’oro sporco. È legata.Diversi giri di scotch intorno alle caviglie e allemani, un pezzo di largo nastro adesivoargentato sulla bocca. Nastro adesivoargentato. L’arma numero uno per chi voglia fartacere qualcuno.

Quell’odore di spezie dolci e di acqua

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marina proviene da lei.Ha smesso di contorcersi e giace immobile

sul pavimento. Gli occhi sono tanto scuri cheappaiono neri anche alla luce, oppure ha lepupille talmente spalancate da aver copertol’iride. Mi fa pensare agli occhi intensi e senzafondo di un soldato in guerra. Il respiroattraverso il naso è un sibilo pesante. Quellavista mi fa sentire male, ma forse non quantodovrebbe.

«Calma». La blocco con un gesto dellamano. «Vado a prendere delle forbici»,aggiungo con un cenno in direzione dellacucina.

Dal momento che la polizia ha rovistato tra imiei utensili da cucina alla ricerca di improntedigitali o droga, mi ci vuole un po’ di tempo pertrovare le forbici. Quando lei le vede, ricominciaa dimenarsi. Sento le sue grida soffocate dalnastro, mi fissa come se stessi per traghettarlanell’aldilà.

«Ma sta’ calma, cazzo, calma».Si contorce così tanto da farmi venire in

mente la volta in cui, a quindici anni, volli fare il

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bagno a Elsa, il gattino di casa. Considerol’idea di infilarle in gola una capsula di morfinaper farla calmare, ma non voglio sprecarle. Allafine faccio pressione con un ginocchio sul suostinco e comincio a tagliare lo scotch attornoalle caviglie.

È scalza. I piedi sono piccoli e ben modellatie la carnagione è scura, ma le unghie dei piedisono sporche, come se avesse camminato alungo in un campo.

Quando riesco a rimuovere lo scotch, laaiuto ad alzarsi. Il suo corpo è leggero mastranamente debole, sorreggerla è come tenerein braccio un bimbo assonnato. Le indico ildivano e rimetto a posto uno dei cuscini inmodo da permetterle di sedersi. Si muove pianoe sembra che soffra a ogni passo, ma la suaandatura è perfetta e regolare, una linea dirittale percorre la schiena dal basso fin su allanuca.

Mi meraviglio del suo silenzio. Si siede suldivano e questa volta mi porge ubbidiente lemani affinché possa recidere lo scotch. Le ditasono lunghe e affusolate, mi chiedo se sappia

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suonare il pianoforte.Sembra non avere sensibilità nelle mani, le

muove goffamente intorno allo scotch sullabocca finché non si arrende e lascia che l’aiutia rimuoverlo. Un istante prima che lo strappivia, chiude gli occhi e, dopo, fa un respiroprofondo per sopportare il dolore.

Mi siedo al lato del tavolo davanti al divano,a mezzo metro da lei. Per qualche motivo sonotimido, come se fossi a scuola e una ragazzacarina appena arrivata mi avesse salutato nelcorridoio. È come se la mia testa fossediventata di gomma, non so cosa dire. Così laguardo e basta.

«Che succede? Perché sei qui?».Quando sente la mia voce ha un sussulto e

si raggomitola sul divano. Ha le gambe comequelle di una cavalletta, lunghe e snelle. Nonindossa altro che un vestito giallo pulcino chele arriva alle cosce. Il colore vivo mi ferisce gliocchi.

«Come ti chiami?».Fissa un punto fuori dalla finestra. Mi irrita.

Non sono un dannato baby-sitter e certo non ho

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tempo per queste cose. Accanto al letto c’è ilpacco con la roba della settimana e dovreimettermi in moto, chiamare i miei caritossicodipendenti. Dopo due settimane dicarcere quasi mi mancano.

«Come ti chiami?».I suoi occhi osservano il mondo lì fuori,

soltanto tetti e cielo blu.«Com’è che conosci Marko?».Silenzio. Niente.Nessuna speranza. Mi chiedo se sia

autistica, forse sa contare le carte e potrebbefarmi arricchire al Black Jack. Mi avvicino alletto, prendo il cellulare e chiamo Marko. Laragazza, seduta sul divano a proteggere il suocorpo, sembra una bambina abbandonata.

Gli impulsi elettrici del telefonino rimbalzanocontro una parete elettronica invisibile eritornano verso di me. Nessuna risposta. Mirimetto a sedere sul divano, la guardo e dentrodi me qualcosa si stringe.

«Mi ricordi qualcuno che non vedo da tanto,tanto tempo», sussurro e sento tremare la miavoce.

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È in quel momento che mi molla un ceffone,il palmo della mano aperto e freddo, e correverso la porta. Grida qualcosa che noncomprendo, probabilmente parolacce. I suoimovimenti sono trascinati, quasi disorientati. Ipiedi nudi danzano sul pavimento e quandoarriva alla porta l’ho già raggiunta. Sento laguancia calda e dolente e avrei voglia direstituire il colpo. La porta è chiusa a chiave,ma lei tenta di aprirla in maniera maldestrafacendo pressione sulla maniglia.

«Calmati porca miseria, non voglio farti delmale», grido afferrandole le braccia. Nel tragittodi ritorno verso il divano cerca di prendermi acalci, a ginocchiate nel basso ventre e più volteriesce a centrare il bersaglio e a sputarmi infaccia. Le grido qualcosa e la scaravento suldivano con una forza di cui mi pentoimmediatamente. Ma non appena finiscedistesa sul divano, una calma istantanea siimpadronisce di lei e la ragazza si mette asedere, con lo sguardo rivolto ai palmi delleproprie mani.

«Vuoi rimanere legata o cosa?», sbotto,

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indicando i resti del nastro argentato sulpavimento. Non risponde e vado ad asciugarmila faccia.

«My name is Vincent. What is your name?».Ancora niente. La luce è accesa, la TV

anche, e il cibo è pronto in tavola, ma non c’ènessuno in casa.

«Ma santo Dio. Cosa c’è che non va in te?».Fuori dalla finestra il cielo è azzurro come la

camicia di un poliziotto e il sole è un grandeocchio gonfio che ha dimenticato come si fa achiudersi. In lontananza vedo la metropolitanaandare e venire.

Mi piazzo di nuovo in piedi davanti a lei e mirollo una sigaretta. Valuto la situazione. La miafaccia è ancora calda e dolente, mi vergogno diaverla trattata con tanta durezza. Mi porto unamano al petto e cerco di guardarla negli occhi,ma lei distoglie lo sguardo. Sembra essereallergica al sottoscritto.

«Vincent». Indico me stesso e mi sento unidiota. «Vincent Franke».

Con l’indice puntato verso di lei inarco le

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sopracciglia.Niente. Ripeto l’operazione un’altra volta,

pronuncio ancora il mio nome e la guardo. Efinalmente, dietro il velo di fumo che nasconde isuoi occhi, intravedo una scintilla.

«Maria».«È il tuo nome? Is that your name? Maria?»,

le chiedo indicandola.«Maria Magdalena», dice lentamente.Noto qualcosa sul suo avambraccio, proprio

sopra il gomito. Un brutto livido con sfumaturescure, grande quanto un pugno. Ne ha più diuno, ed è impossibile che la causa sia stata lamia stretta sul suo braccio.

«Che cazzo...».Ha un livido ancora più grande sul collo e

tre su una delle cosce. E l’occhio destro non sichiude bene quanto quello sinistro. Primapensavo fosse una specie di grande voglia, maora mi rendo conto che proprio sotto l’occhio haun segno violaceo, grande e rotondo come unamoneta da cinquanta öre3 .

«Che cazzo ti è succes...».Mi piego in avanti e inavvertitamente le

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poggio una mano sullo stinco. La sua pelle èmorbida e liscia come seta, ma il mio gesto la fasobbalzare come se avessi tirato fuori uncoltello. Sposto la mano sul cuscino del divano.

«Che cazzo ti è successo?».Niente. Il silenzio è sconvolgente. «Vincent».Sentendole pronunciare il mio nome mi

irrigidisco. Nonostante sia stato un sussurro opoco più, la sua voce ha un timbro marcato eforte. Mi trovo in cucina e sto cercando di capireche cazzo devo fare.

«Sì?», dico con voce stanca.Da un bicchiere invisibile nella mano beve

un invisibile sorso d’acqua.«Cosa? Sì, ok, hai sete, ho capito».Verso dell’acqua in un bicchiere piuttosto

pulito, nel senso che dentro non ci galleggiadella merda. Lei prende il bicchiere con tutte edue le mani e beve sorsi profondi. Quando ilbicchiere è vuoto torna a fissare qualcosa fuoridalla finestra. Le sue ciglia scure mi fannopensare alle ali di una falena morente.

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«Devo andare», dico. «Ci sono delle coseche devo fare, ma tu rimani qua. Capito?».

Faccio schioccare le dita davanti al suoviso, lei alza la testa e mi guarda.L’espressione di Maria ricorda quella di unapersona che desidera che la pioggia smetta dicadere.

«Devo andare». Indico me stesso e la portacon il dito. «Ma tu rimani qui, ok? Non capiscoperché sei qui. Però adesso devo lavorare edevo anche parlare con Marko».

Maria mi guarda come se le avessi appenarecitato l’alfabeto. Tutta questa situazione miirrita e mi innervosisce. Devo sforzarmi perresistere alla tentazione di prendere un’altracapsula di morfina per calmarmi. Certo, sono ingrado di spacciare quando sono fatto, madivento troppo stupido e buono. Vendo tutto aprezzo di favore, mi prendo sempre qualcosaanch’io e dopo, con un sorriso ebete sullelabbra, mi chiedo dove siano andati a finire isoldi e la roba.

«Ok?».Il viso di Maria è meno espressivo di una

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parete rocciosa. Gli occhi marroni si aprono e sichiudono rapidi, mi chiedo se conosca il codicemorse e stia cercando di lanciarmi unmessaggio. Ma a parte questo, niente.

C’è qualcosa in Maria, come quando unodore ti provoca un clic nella testa e quasi fauscire dall’oblio un ricordo, che però non riescea raggiungere la superficie.

Forse l’ho già vista prima, oppure somiglia aqualcuna che conosco. La fisso finché non miaccorgo che la sto spaventando.

Svito la serratura dal lato interno della portaper impedirle di uscire. Ma forse non ha alcunsenso, dal momento che, quando si è lanciatacontro la finestra, non sembrava importarlemolto il fatto che abito al quarto piano.

Dopo aver chiuso a chiave dietro di merimango in ascolto con l’orecchio premutocontro la porta. Esco in strada e l’aria delmondo esterno ha un effetto liberatorio sui mieipolmoni, soprattutto in contrasto con lamancanza di ossigeno nell’appartamento. Irumori quotidiani colpiscono le mie orecchie daogni direzione come un brusio bianco. Noto che

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ho ancora la sigaretta in mano, raggrinzita estorta dopo averla rigirata tra le dita goffe, ma ècomunque rimasta intatta. Rinuncio adaccenderla.

Il pacchetto di merce che ho in mano è unvecchio amico. Ho già dimenticato Maria esono pronto a far soldi.

Prendo il cellulare per fare la primachiamata, quando il motore di una Toyotaargentata romba proprio davanti a me e laportiera posteriore si apre. Da dentro lamacchina sento una voce maschile, pacata atal punto da farmi supporre che il cuoredell’uomo cui appartiene potrebbe smettere dibattere da un momento all’altro.

«Salta dentro, Vincent».Nel buio dell’abitacolo scorgo un indice che

mi fa il gesto di avvicinarmi. Il dito è ornato daun anello con un grande diamante rotondo. Uncampanello mi suona nella testa e rivedo il visodi Maria.

Il segno sotto il suo occhio destro èun’impronta esatta di quell’anello.

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3 I centesimi delle corone svedesi (n.d.t.).

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TRE Avrei dovuto portarmi dietro la morfina.Mi accascio sul sedile della macchina ed è

come sedersi su una nuvola, tanto è comodo.Un odore di cuoio e uva raggiunge le mienarici. Mi piacciono le automobili come questa,ma non mi verrebbe mai in mente di comprarneuna. So guidare abbastanza bene, ma non hola patente e inoltre le macchine sonopericolose. Non è opportuno possedere unatarga e un certificato di proprietà, se poil’automobile si trova nel posto sbagliato e vieneidentificata. Non compro altro che impersonaliabbonamenti mensili per la rete di trasportolocale di Stoccolma. Finché non vieni notatonon esisti, ed è impossibile beccare chi nonesiste.

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L’aria condizionata è tanto fresca da farmirizzare i peli della nuca. Ho l’impressione chel’uomo che ho accanto sia un po’ più vecchio dime, ma probabilmente non quanto immagino.Indossa jeans neri e una T-shirt attillata verdemuschio. Ha la pelle abbronzata e liscia, icapelli sono neri e la barba di qualche giorno èparticolarmente bella. Vorrei toccarla, ma dubitoche si rivelerebbe una buona idea. Questo tipodi impulso, toccare le persone, non so da dovemi venga. Forse si tratta di un retaggiod’infanzia. Forse sono un ritardato mentale, unLennie morfinomane di Uomini e topi.

Il viso dell’uomo è schiacciato e duro, comela suola della mia scarpa. Sono piuttosto certoche sarebbe bene averne timore, masensazioni del genere sono sopite da troppotempo in me. L’anello che porta al dito èipnotico. L’autista non è altro che una nucalarga e grassa e non riesco a scorgerne il volto.

«Portaci a fare un giro, Mick».La voce mi fa pensare al suono soffocato di

un temporale. La nuca grassa, cheevidentemente risponde al nome di Mick, mette

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in moto e il motore comincia a rombare.«Quindi, Vincent».L’uomo accanto a me gira la testa, i muscoli

del collo sono fasci di metallo sotto pelle. I dentisono talmente bianchi che di sicuro non li hamai usati se non per sorridere.

«Sì?», faccio io.«Sei fortunato».«Non dal mio punto di vista».«Lo posso ben capire».Ha un accento leggero, appena percettibile,

ma quando parla è come se giocasse con leconsonanti e avesse in mente una melodia. Lesue labbra grosse mi fanno innervosire. Comeho già detto, avrei dovuto portarmi dietro ilcontenitore con la morfina.

«Non credo di averti mai incontrato», dico.«Naturalmente, scusa. Pastor». Mi tende la

mano.«Ti chiami Pastor?».Alza le sopracciglia sottili e dalla linea

morbida. Credo che se le curi, cosa che trovoridicola.

«Sì», dice.

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Guardo fuori dal finestrino, incerto.Quest’uomo è troppo rilassato, troppocontrollato. È un agente di borsa con unamotosega insanguinata nella ventiquattrore. Hogià sentito parlare di Pastor. La sua posizionenella piramide della criminalità è piuttostoelevata, forse al vertice. La sua presenza mi hasfiorato in diverse occasioni, ma sempre comeun nome in un sussurro spaventato. Ne avevoricavato l’impressione che fosse un tipoimpossibile da incontrare, da toccare. Ora chegli sto seduto accanto, situazioneinimmaginabile in via teorica, la cosa mi rendeancora più nervoso.

«Hai una donna nel tuo appartamento»,dice Pastor.

«Sì, lo so». Mi balena in mente il viso diMaria, poi vedo l’anello di Pastor e penso allivido sul braccio di lei, grande come un pugno.

«Maria».«Sì, è possibile. Il suo nome non è

importante».«Che storia è questa?». Voglio uscire dalla

macchina al più presto. «Io devo lavorare».

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«Questo è lavorare», dice lui con tonopacato.

Pastor ha in mano una moneta che rigira trale dita con eleganza. Quando la moneta arrivaall’indice tintinna contro l’anello. Mi è difficiledistogliere lo sguardo dalla sua mano e provouna sensazione di soffocamento. Sonocostretto a deglutire diverse volte perché non lonoti. Quando abbasso lo sguardo vedo le suescarpe marrone chiaro e sono quasi certo chesiano di pelle di alligatore.

«Voglio che la tieni nel tuo appartamentoper un po’», dice Pastor. «Una settimana almassimo. Non deve scappare».

«Quindi è una prigioniera?»«Dipende», risponde mordicchiandosi

impercettibilmente il labbro inferiore.Sospiro.«Da dove viene?».Pastor alza leggermente le spalle larghe.«Non ne ho la più pallida idea. Sud

America, Medio Oriente? Chi se ne importa».«A me importa», dico, eccessivamente

concitato. «Devo pur essere in grado di parlare

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con lei».Alza di nuovo una delle sue finissime

sopracciglia, sembra che mi stia facendo lacorte. Gli guardo il collo, vorrei avere un coltellocon me.

«Devi?»«Sì. Certo che devo». La macchina svolta a

sinistra, imbocca una strada che non conosco.«Non lo so».

Passiamo lentamente attraverso un centroresidenziale con le case simili a cubi di legnodisposti in file inespressive. La distanza tra mee le persone normali aumenta sempre di più eho smesso da tempo di oppormi a questacondizione. Ormai non so neanche se avreivoglia di relazionarmi con le cosiddette“persone normali”, ammesso tra l’altro che nesia ancora capace.

«Un po’ più veloce, per favore», dice Pastorbussando sulla spalla di Mick. «Non vogliamoattirare l’attenzione inutilmente».

Passiamo accanto a un muro pieno di graffitidove qualcuno ha scritto “chi vigila suivigilantes?” con una bomboletta spray rosso

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sangue. La vernice è colata a rivoli dalle letteree conferisce a quella domanda il carattere diuna minaccia.

«Mi raccomando, non lasciare che scappi»,dice Pastor, con un improvvisa nota taglientenella voce. «Se si agita la devi calmare. Ma nonprocurarle segni visibili».

«Non devo portare anelli, quindi». Faccio uncenno con la testa in direzione della sua mano,ma me ne pento subito. Pastor serra la boccacarnosa in una sottile linea rosa chiaro e alza dinuovo le spalle.

«Non riuscivamo proprio ad andared’accordo», dice.

«Capisco».«La situazione è semplice, Vincent. Non

lasciarla uscire. E se stai a questo patto...».Tira fuori una bustina a zip con una bella

polvere bianca. Eroina, senza dubbio.«Duemila al grammo, Vincent. Come

minimo. E potrai tenerti tutti i soldi».Sventola la bustina davanti a miei occhi

come un pendolo.«Ma se non stai ai patti», continua, «se le fai

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del male e si dovesse vedere, o se dovessefuggire...».

Dal nulla estrae come per magia una speciedi mostro nero di pistola. È talmente grande damozzarmi il fiato. Pastor sarebbe in grado di farfuori una motocicletta con quella dannata arma.

«Allora io ti trovo e la tua piccola vita dafattorino è finita».

«E questa tu la chiami scelta?», domandoguardando prima la pistola, poi l’eroina e poi dinuovo la pistola.

«Non l’ho mai detto».Mi meraviglio della sua calma e della sua

arroganza. È come se portasse l’intero mondosulle spalle e se ne fregasse dell’eventualitàche gli cada. La bustina bianca in una mano ela pistola nera nell’altra sono come verginità eodio; nascita e morte, una dicotomiaimpossibile.

Non so esattamente cosa farò, ma laprospettiva di accettare la proposta di Pastorvale almeno il doppio rispetto a quella di esseremorto. Tendo la mano e lui ci lascia cadere labustina bianca. Il suo peso è caldo e mi sento

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quasi felice.«Come mai è qui?», provo a chiedere con

un tono più rassegnato di quanto desideri.«Cosa hai intenzione di farne?».

Pastor sorride vagamente.«Mi è difficile vedere in quale modo le tue

domande possano avere una qualsiasirilevanza».

Lo guardo in maniera imbecille. È come sela mia testa si fosse riempita di cotone nero.Pastor si piega in avanti e poggia la mano sullaspalla di Mick.

«Qui andrà benissimo, grazie».La macchina rotola lentamente avanti fino a

fermarsi, e mi ci vuole un po’ di tempo prima direalizzare che siamo di nuovo davanti casamia. Rimango seduto, incerto su cosa ci siaspetti da me. Il silenzio nella macchina ètotale, sembra quasi di essere sottovuoto.Qualcosa spunta dalla tasca posteriore deijeans di Pastor, ha l’aspetto di un biglietto deltreno o aereo, ma potrebbe anche trattarsi di undépliant pubblicitario.

«Un’ultima cosa, Vincent».

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«Mmh?».Dall’altra tasca posteriore Pastor estrae un

biglietto da visita con il testo rivolto verso ilbasso. Me lo mette in mano.

«La gente è prevedibile», dice quindi conuna voce melensa, come se si rivolgesse al suoanimale domestico. «Non provare a fregarmi».

Un momento dopo mi ritrovo sulla strada.Fumo una sigaretta e guardo la bustina nellamia mano. La polvere bianca risplende davantiai miei occhi. Sotto il braccio tengo il pacchettodi Marko. Ho in mano la carta da visita di Pastorma ancora non l’ho voltata. La macchina partecon un verso da predatore.

Presumo sia inevitabile, per cui giro la cartabianca e lucida e vedo un numero di cellularescritto con una grafia che mi fa pensareall’acqua. Niente è come dovrebbe essere e imiei pensieri si dissolvono in un’eco.

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QUATTRO Una cosa alla volta. Vado alla casella

postale dove tengo le mie scorte. Secondo lacasella mi chiamo Leonard. Il nome di miopadre era Leonard. La casella postale non è piùgrande di una normale cassetta delle lettere emi ha già salvato la vita fin troppe volte.

Chiuso in un gabinetto che puzza come seci avessero appena macellato un grossoanimale, verso dieci grammi della polvere diPastor su una piccola bilancia digitale. Con unacarta di credito rubata e bloccata la spartisco indiverse bustine. È un’operazione moltopericolosa, pesare la droga in un gabinettopubblico è un’esperienza che non raccomandoa nessuno, ma finora ha sempre funzionato esono troppo pigro e privo di fantasia per

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inventarmi qualcosa di meglio.Non ho nemmeno bisogno di pensare

quando eseguo la pesatura e i calcoli. Il miocorpo gestisce ogni fase del processo inmaniera automatica e provo una sensazioneche si potrebbe definire routine. Secondoquesto ragionamento dovrei essere libero dipensare a qualsiasi cosa, ma il suo nome mi siè fissato nella mente come gomma damasticare appiccicata tra i capelli.

Maria Magdalena.Non sono un tipo superficiale. Diverse volte

mi è capitato di invaghirmi delle crepe nellafacciata di una persona, di ciò che èincompleto, difettoso, di ciò che più di ogni altracosa ci rende umani. Ne sono affascinato, mastavolta sento troppe minacce, troppi puntiinterrogativi. Per funzionare ho bisogno dielementi bidimensionali, di cose semplici.Intuisco qualcosa in Maria, lei è molto più dellasemplice luce che vedo quando socchiudo gliocchi. Ma ho paura di guardarla, temo diintravedere le crepe. Sarebbe più di quantoriuscirei a sopportare. Mi illudo che sia perfetta,

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integra, l’ho messa su un piedistallo. Nessunomeglio di me sa che la rimozione è un efficientemeccanismo di autodifesa. Mi vergogno un po’di allontanare le sfumature, ma sono costretto afarlo. Sono troppo vicino al limite per avere ilcoraggio di vedere le cose come sono. Se larealtà tornasse da me urlando probabilmentescoppierei come un fusibile sovraccarico.

E poi questa sensazione che non miabbandona: Maria mi ricorda qualcuno.

Prendo anche un paio di bustine dalpacchetto di Marko, visto che in effetti è quellala merce che dovrei vendere. Sono già pronte,misurate e pesate. L’ha fatto Marko per meperché sa che io non sono bravo.

Poi sono pronto. Mi immagino come unuccellino che per la prima volta dispiega le ali eprova la sensazione di volare.

Comincio il mio giro dal posto meno

glamour, se il concetto di glamour si puòadattare a questo contesto. Il sole è allo zenited è una bella giornata, quel tipo di giornatache di solito riesco a rendere migliore

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facendomi un po’ di morfina, al sole, con unsorriso ebete sulle labbra.

La mia prima tappa è un appartamento aMariatorget. La tromba delle scale mi ricorda lamia testa in questo momento. Disordinata,confusa e con un’inconfondibile puzza di muffa.Non c’è l’ascensore e faccio le scale a passipesanti, lo sguardo fisso sulla punta dellescarpe.

L’appartamento verso il quale sono diretto èquello senza buca delle lettere e senza nome.La porta è di un marrone brutto e muto. Bussotre volte e faccio in tempo a cantarmi metà diHere Comes the Sun in testa prima di ottenereuna reazione. La prima cosa che vedo quandosi apre la porta è la bocca argentata di unapistola, profonda e nera come la mia gola.Dietro la pistola intuisco un volto con unaleggera barba e gli occhi spalancati, iniettati disangue.

Ecco Ted, il più paranoico tra i tossici diStoccolma. Indossa una vestaglia blu e i capellicolor topo sono talmente unti che sembra averlilavati con l’olio. Sono contento che indossi una

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vestaglia, almeno nasconde le centinaia dibuchi che ha sulle braccia.

«Ciao Ted».«Non fare il mio nome». La sua voce è un

sussurro inquieto e sibilante.«Scusa».«Dove cazzo sei stato? Siamo stati costretti

a farci con roba di merda per più di duesettimane».

Agita la bocca della pistola davanti a me inmodo preoccupante. Dubito che sia vera. Tedspende tutti i soldi in droga e al gioco, ma nonsi sa mai.

«Mi dispiace», faccio con un gesto di scusa.«Sono dovuto andare all’estero per trovare robanuova».

Mai dire che la polizia ti ha fermato perchésospetta che spacci. È più o meno come dire diavere l’AIDS a una ragazza con la quale vuoidavvero fare l’amore.

«Non puoi andare all’estero così senza direniente». Ted parla con tono ferito e disperato, lavoce vibra come un rasoio elettrico e puzza dialcool e aceto. Faccio un cenno con la testa in

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direzione della pistola.«Togli quella cosa e fammi entrare», dico.Ted sembra esitare, poi abbassa l’arma e

con un cenno indica l’internodell’appartamento, che in realtà consiste in unnumero imprecisato di sacchi a pelo e di letti.La scena mi farebbe pensare a un campeggioscolastico, se non fosse per gli accendini, lecannule e le macchie sospette sul pavimento.

Il tipico appartamento del drogato è moltopiù pulito di quanto immagini la maggior partedelle persone. I tossici ci tengono all’igienequanto tutti gli altri, probabilmente anche di piùper il rischio di beccarsi qualche malattia. Ciònonostante l’appartamento di Ted è disgustoso.

Gli agito davanti agli occhi una delle bustinecon l’eroina di Pastor.

«Questa è come perdere la verginità unavolta dopo l’altra», dico. «È messicana, nuova epotente».

Non so assolutamente se ciò che hoappena detto risponda a verità, ma potreiaffermare che viene fabbricata su Giove e lui micrederebbe.

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«Max, svegliati», strilla Ted. «Svegliati,cazzo».

Ted dà uno spintone a un sacco buttato sulpavimento che evidentemente contiene unessere umano che risponde al nome di Max.Una specie di copia di Ted, solo con le rugheun po’ più marcate e gli occhi un po’ piùstanchi. Non lo conosco.

«Max, guarda».Ted indica la bustina con la sua mano libera

e tremante; ha l’aria di aver appena trovato ilSacro Graal.

«Non è la cosa più bella che tu abbia maivisto?».

Max non risponde, i suoi occhi fissanoinebetiti la bustina che tengo tra pollice eindice.

Se ti trovi davanti due tipi di eroina bianca èimpossibile notare delle differenze, ma solofinché hai a che fare con un prodotto ordinario,realizzato secondo la tradizione, che procura ilsolito vecchio effetto. Ma se si tratta di qualcosadi eccezionale, un prodotto raffinato a un talegrado di purezza che sembra sia stato Dio a

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metterci mano, allora emana una luce bianca evirginale, come un abito da sposa maiindossato.

«Quanto?», chiede Ted.«Molto», faccio io. La lingua di Ted gioca

sulle sue labbra come se stesse godendo.«Quanto?», chiede di nuovo. Semplice. Per ogni grammo dell’eroina di

Pastor ne vendo due di quella di Marko. Intasca ho otto biglietti da cinquecento. Mi sentoeccitato, spensierato e ricco. Stoccolma misembra accogliente e apprezzo il ronzio dellatecnologia, il rimbombo delle macchine e deltraffico, lo scoppiettio delle voci. Mi muovo nelverso della corrente, rinato. Non riesco acredere che ventiquattr’ore fa stavo in carcere,tanto è estraneo questo pensiero allesensazioni che provo adesso.

Ho momentaneamente dimenticato che aogni salita segue una discesa. Che al silenziodi un’eco sonnolenta segue l’urlo del risveglio.

Nel corso della giornata ho tempo di

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pensare, cosa che non è mai positiva. La primavolta che ho realizzato che il tempo nonguarisce ogni ferita è stato quando sono morti imiei genitori. Cerco di tenere i ricordi adistanza, ma tintinnano come un sonaglio nellamia testa. Pensieri ossessivi. Qualcosa stacambiando.

Il giorno passa ed è inevitabile, non c’èmargine di errore. Vendo la mia merce in quasitutta Södermalm. Una volta amavo Södermalm,ma ormai mi ci sono abituato e ora tutti quegliedifici eleganti e quella gente mi appaiono grigicome una stradina in ottobre. Così funziona conla maggior parte delle cose alle quali ci siabitua.

Dolore, amore, felicità, odio. Prova unasensazione abbastanza a lungo e vedrai chene perderai il colore.

Maria. Speriamo sia ancoranell’appartamento. In caso contrarioprobabilmente sono morto. Immagino la suapelle, liscia come seta e bruna come oroseppellito sotto terra.

Chiamo Marko con oltre ventimila corone in

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contanti in tasca.«Bubù settete».«Dobbiamo parlare», dico io.«Di cosa?»«Di Maria».«Chi cazzo è Maria?»«Lei, la ragazza che hai scaricato a casa

mia».Marko non risponde e il silenzio cresce tra

di noi. In lontananza intravedo un treno dellametro sparire nella gola buia alla fine dellapiattaforma.

«Vieni a casa mia tra un’ora, Marko».«Non posso, ho delle... cose da fare».«Vieni a casa mia, altrimenti la faccio

uscire», dico io, interrompendo laconversazione.

È in quel momento che mi viene in mentechi mi ricorda Maria. Una consapevolezza cheè un pugno nello stomaco.

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CINQUE Felicia è forse l’unica donna che abbia mai

amato e lei non l’ha mai saputo. A meno che imorti siano in grado di leggere nel pensiero,cosa di cui dubito. La prima volta che la vidiavevo appena incontrato due imbecilli. Avevosedici anni, ero al liceo da una settimana edurante la pausa pranzo mi si erano avvicinatimentre me ne stavo in disparte a fumare. Mifacevano venire in mente Bill e Bull4 , duegemelli grossi e imbranati con le fronti larghecome schermi cinematografici e una risata dacavallo. Mi si erano seduti accanto e perqualche attimo eravamo rimasti in silenzio aosservare le macchine correre frenetiche lungoKarlavägen. Sul viale camminavano adulti eanziani in pantaloncini e canottiera. Era agosto,

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faceva caldo e i gemelli mi si erano sedutitroppo vicino.

«E tu come ti chiami?».La voce di Bull ricordava il muggito di un

toro, il suo respiro era pesante e profondonell’afa di quel cielo caldo. Puzzava di pepe esudore. Ero piuttosto sicuro che volesseroriempirmi di botte e rubarmi il portafogli o ilwalkman. Mi era difficile figurarmi come avreipotuto impedirlo.

«Vincent».«E quanti anni hai?»«Vado in prima».Sembrava che Bill cercasse di calcolare il

significato della mia affermazione. Dal taschinodella camicia Bull tirò fuori una bustina con trespinelli marrone scuro. Somigliavano a sessimutilati.

«Ne vuoi?», mi chiese.«Certo».In quel periodo ero piuttosto dentro alla

morsa della morfina e uno spinello non avrebbecambiato il mio stato mentale in manierasostanziale, quindi ne presi uno, lo accesi e feci

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tre tirate a brevi intervalli. In quel momento vidiFelicia.

Usciva da un negozio, attraversòKarlavägen ed entrò nel cortile della scuola. Inun primo momento non avevo visto altro cheuna capigliatura nera e voluminosa. I movimentidi Felicia avevano la magnifica eleganza dellamoglie di un soldato americano anniCinquanta, ma con una punta di nervosismoche mi faceva pensare al filo spinato.

«Lei», mormorai. «Chi è lei?»«Chi? Senti qualcosa, eh?». Bull

ridacchiava. Con un cenno del capo indicaiFelicia.

«Lei, con i capelli neri. Eh sì, roba buona».La vista mi si era appannata e il cuore mi

martellava in petto, non più rapido del solito matanto forte da farmi paura. Feci un cenno indirezione dello spinello che Bill teneva inmano.

«Roba buona», ripetei.I gemelli ridevano a più non posso.«È erba di prato, idiota», disse Bull.I due imbecilli non smettevano di ridere e io

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non capivo, ma neanche me ne fregava niente.«Hai capito?», rideva Bill. «Normalissima

cazzo di erba di prato».Bull indicava il viale erboso dietro di noi che

conduceva all’edificio scolastico.«Sembri un maledetto coglione e fai pena,

Vincent».Un paio di giorni dopo incontrai Bill e Bull a

una festa nei pressi di Odenplan. Ancoraridevano per la storia dell’erba, io suggerii lorodi andare a fare sesso con la madre e finì chemi spaccarono il naso.

Io e Felicia frequentavamo le stesse lezioni

di svedese e storia. A volte la incontravo neicorridoi della scuola, ma per lo più mi capitavadi vederla con due amiche nella caffetteria.

Bevevo quantità di caffè rischiose per lasalute soltanto per avere la possibilità divederla sorridere.

Quando rideva lo faceva con tutto il volto ela sua pelle aveva la morbida sfumatura di unavita passata sotto il sole del Mediterraneo.

La prima volta che mi rivolse la parola fu per

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chiedermi se mi sentivo bene.Si era seduta accanto a me durante una

lezione di storia e il mio corpo era diventatodifficile da gestire. Tutti i movimenti si erano fattiesagerati e avvolgenti, mio padre mi avevarecentemente centrato una spalla con un vasodi ceramica e dovevo stringere i denti per nonlamentarmi. A volte non ci riuscivo e gemevorumorosamente. Senza dubbio era questo chel’aveva fatta reagire.

«Sì», dissi. «O non lo so. No. Ciao».Lei rise. I denti di Felicia erano leggermente

macchiati, come se qualcuno ci avessedisegnato sopra un paio di linee a matita. I suoiocchi erano celesti e mi facevano pensare acalda acqua di mare.

«Ciao».Non sapevo cosa dire, quindi feci come al

mio solito e dissi la prima cosa che mi passavaper la mente.

«Che ne pensi della Bomba?».Avevamo iniziato quel semestre leggendo

dei racconti su Hiroshima, il che rendeva la miadomanda un principio di conversazione poco

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adatto, dal momento che non era affatto quellala bomba alla quale mi riferivo.

«Cioè non la bomba atomica, voglio direAdriana».

Adriana, l’insegnante, era talmente grassache sembrava potesse esplodere in qualsiasimomento. Felicia sembrava perplessa. Unaruga leggera le apparve tra le sopraccigliascure.

«La Bomba?», disse pensierosa. «Lachiamano così?»

«Sì», confermai.Provai a sorridere, ma di sicuro sarà

sembrato più che altro che stessi per mettermi apiangere. Soltanto alla fine della lezione uncompagno di classe mi informò che la Bombaera la zia di Felicia.

4 Personaggi dei libri per bambini di Gösta

Knutsson; nella fattispecie, due gatti gemellicattivi (n.d.t.).

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SEI Quando arrivo a casa mi sento ancora male,

come se avessi ingoiato metà del cielo e orasentissi il bisogno di vomitarlo, e non sonoproprio sicuro di cosa mi attenda. Mi immaginoMaria che armeggia con la porta per cercare diuscire. Maria, sdraiata sul letto dopo avertentato di fuggire e aver fallito. Maria, in piedi aifornelli con un grembiule a fiori e le padelle sulfuoco.

Nessuna di queste immagini corrispondealla realtà.

Quando apro la porta, mi colpisce l’odore dispezie dolci e acqua di mare, ma sembra chequell’odore sia tutto ciò che resta di lei, dalmomento che l’appartamento è vuoto esoffocante quanto lo è stata la mia infanzia.

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Maria, sparita. Riesco già a sentire la boccadell’enorme pistola di Pastor contro la miatesta.

«Cazzo». La mia voce suona indifferente, ilche mi sorprende un po’.

Entro in bagno per nascondercimomentaneamente i soldi e vedo Maria. In unprimo momento penso sia morta ma poi,quando vedo la fresca pianura tra i suoi seninudi sollevarsi e ridiscendere, mi rendo contoche sta facendo un bagno.

È sdraiata nella vasca, i capelli scurigalleggiano sull’acqua come un ventaglio rotto.Gli occhi sono chiusi e la bocca mezza aperta,la nuca piegata all’indietro. Il corpo è maldissimulato dall’acqua e le sue linee sonobelle, belle al punto da farmi venire le vertigini. Imuscoli sono più forti di corde di pianoforte esottili come funi.

La scena è tanto pacifica che mi vien vogliadi piangere. Se ne fossi capace impedirei alsole di muoversi in cielo, bloccherei ognimutamento e rimarrei qui per sempre, impietritoin questo attimo eterno.

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Provo vergogna. Non è giusto che io me nestia qui a guardare Maria, nuda e vulnerabile.Ma voglio ancora studiarne il volto, rilassato esincero. Vorrei non doverla svegliare perriportarla alla superficie di questo mondo, doveuno spacciatore imbecille e malato di mente latiene prigioniera.

Alla fine mi accovaccio accanto alla vasca eabbasso la testa, fisso lo sguardo a terra comese avessi quindici anni. Con estremadelicatezza poggio una mano sulla sua spalla.

Naturalmente si impaurisce, svegliandosi, eovviamente io mi sento come, non so, unostupratore. Sobbalza all’indietro come ungattino spaventato. In un batter d’occhio miimpietrisce, allungando il braccio esventolandomelo davanti con la mano chiusa apugno.

Mi colpisce la spalla e per qualche motivomi sembra giusto essere picchiato, non tentoneppure di difendermi. Sibila e sputa paroleche non capisco, gli occhi scuri scintillano perqualcosa che potrebbe essere sia paura cheodio.

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«Scusami, I’m sorry, Maria, scusami».Le parole mi cadono di bocca mentre, tra i

colpi, tento di allungarle un asciugamano. Leimi urla contro, mi strappa l’asciugamano dallemani e si copre velocemente la parte superioredel corpo.

Poi mi sputa di nuovo in faccia. La saliva èpesante e mi rimane appiccicata alla guancia.Quando smette di gridare, l’asciugamano tremaleggermente tra le sue mani. Chiudo gli occhiper un istante e il volto di Maria si trasforma inquello di Felicia deformato dal dolore e dallasofferenza.

«Scusa», ripeto, come se potesse servire amigliorare le cose. In quel momento, Markobussa alla porta dell’appartamento.

Quando mi alzo mi gira la testa, come se

fossi rimasto fermo con gli occhi chiusi troppo alungo.

«Bubù settete».Mi asciugo la saliva di Maria dalla faccia e

lascio entrare Marko. Si guarda intornomuovendosi a scatti, ricorda un uccello che ha

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perso i suoi amici.«Dov’è?», si agita. «È sparita? Se n’è

andata?».Panico nella sua voce, proprio sotto la

superficie.«È in bagno. Calmati».Marko spalanca la porta del bagno e

intravedo Maria trasalire, farsi rigida come unastatua.

«Falla rivestire in pace, Marko».Mi guarda come se gli avessi proposto di

andare alla polizia a costituirci.«Le hai fatto fare il bagno?»«Stava facendo il bagno quando sono

tornato», dico allargando le braccia.Marko mormora qualche parola

indistinguibile. Mi piacerebbe dargli unoschiaffo per farlo calmare un po’. Si guardaintorno nell’appartamento.

«Che cazzo è successo qui?», dice. «Sonovenuti a cercarla?»

«La polizia, perquisizione domiciliarequesto fine settimana. E poi di chi cazzo parli?Chi è che la sta cercando?».

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Non mi risponde. Invece sospira e siaffloscia sull’unico cuscino del divano giratoper il verso giusto, quello su cui stava sedutaMaria stamattina. La sento rivestirsi, i suoimovimenti sono freschi mormorii nel buio.

«Come stai, Vincent?», chiede Marko, esembra seriamente preoccupato.

«Male», mormoro. «Mi sa che sto pervomitare».

«È la tua maledetta morfina. L’ho visto millevolte».

«Lascia perdere», sento me stesso sbuffare.«Non è niente».

Mi metto a sedere su una poltrona che nonricordavo di possedere. Sta in un angolodell’appartamento, cuoio lacero e polvere.

«Non va bene, Vincent. Vedi cose che nonesistono e ti sale la paranoia». Marko appoggiai gomiti sulle cosce e incrocia le dita davanti alvolto. Sembra stanco e cupo. «Non provocompassione per i tossici», dice poi. «Hanno lefacoltà cerebrali di un ragno, forse neanche. Eun ragno si guarda comunque intorno con unacerta fierezza. A volte, quando vedo un tossico,

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mi viene voglia di prenderlo a bastonate».Serro le labbra e faccio un cenno con la

testa in direzione del bagno.«E cosa ha a che fare questo con Maria?

Perché è per lei che sei qui».«Non preoccuparti di lei adesso», dice

agitando le mani. «Voglio solo dire che se haiintenzione di prendere quella strada mi deviavvertire».

«Non ti preoccupare, Marko. Me la cavo.Non vomito da almeno tre ore».

«Magnifico». Sembra quasi triste, il che nonè da lui.

«Se devi proprio prendere quella merda,fallo in modo controllato. Così continuerò aessere il tuo migliore amico».

«Il mio unico amico, piuttosto».Marko alza le spalle.«Non è un mio problema».Non rispondo. Inizio invece a riflettere sul

significato della parola “autonomia”.«Insomma, spiegami questa maledetta

storia», dico io indicando il bagno. Vedo ilvestito giallo di Maria passare nell’apertura

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della porta. Marko aggrotta le sopracciglia e sigratta la guancia.

«È una faccenda complicata», dicelentamente.

«Lei chi è?». Le parole suonano piùinteressate di quanto vorrei.

«Non ne ho la più pallida idea. Non sonemmeno come si chiama».

«Maria. Te l’ho già detto».«Sì, sì. Ma non è importante, Vincent. Non lo

capisci? Chi è, da dove viene, dove staandando, queste cose non sono importanti.Non ne so più di te. So solo che ha bisogno diprotezione per un certo periodo».

«Ma questa non è una buona idea», insisto.«Sono appena uscito dal carcere. Aprescindere dal motivo per il quale si trova qua,sicuramente interesserebbe alla polizia».

L’espressione di Marko non rivela nulla.Non mi piace. Mi sento come Josef K. nelProcesso.

«Se ci accorgiamo che le cose si mettonomale provvederemo a spostarla, ovviamente»,dice Marko e dalla voce sembra che stia

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cercando di convincere se stesso almenoquanto cerca di convincere me. «Non ti devipreoccupare».

Maria cammina in punta di piedi e si fermasulla porta del bagno. Dai lucidi capelli scuricadono piccole gocce, come lacrime, chescivolano giù lungo il suo petto.

«Perché non la tieni legata?», sibila Marco.«Dovevo pur parlarci, no?», mormoro con lo

sguardo fisso sulla parete. «Aveva perso lasensibilità nelle mani».

«Cosa che per noi rappresenta unvantaggio».

«Non è un animale, Marko», ribatto alterato.«È un essere umano. Che storia è questa? Echi cazzo è Pastor?».

Con la coda dell’occhio noto che Maria siirrigidisce, come se qualcuno le avesse puntatoun coltello alla gola. Marko fissa il nulla davantia sé, lo sguardo vaga da destra a sinistra comese stesse seguendo una partita di tennis tra dueamici immaginari.

«Lui è il capo del progetto», dice quindi conun tono più grave del previsto.

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«Quale progetto?».Mi alzo per tirare fuori il biglietto di Pastor

dalla tasca posteriore dei pantaloni e leginocchia mi tremano, rendendomi instabile.

«Questo numero», dico. «Sai di chi è?».Gli porgo il biglietto con le cifre

elegantemente inclinate, quasi sospese. Markolo scruta con una profonda ruga tra gli occhi.

«No», dice. «No, non ne ho la minimaidea».

«Lo immaginavo». Credo stia mentendo.«Dov’è che deve andare Pastor?». Tento unbluff.

«Cosa?». Gli occhi di Marko si fanno vuoti egrandi.

«Ho visto un biglietto nella tasca dei suoipantaloni. Aereo o treno, non saprei dire, ma dicerto era un biglietto».

«Ne sei sicuro?»«Sì». No, non lo sono affatto. Ma

l’indecisione non porta quasi mai a ottenererisposte utili.

«Pastor non va da nessuna parte», diceMarko con calma. «Credimi, io lo so».

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«Come fai a saperlo?»«Non te lo posso dire. Ma so che non va

proprio da nessuna parte».Cazzo. Quindi si trattava di un opuscolo

pubblicitario o qualcosa del genere, e non misono avvicinato di un solo centimetro né aPastor né a Maria. Oppure Marko sta mentendo,ma non credo.

Il mio naso è sensibile a un paio di cose e lebugie rientrano tra quelle. Mi sento moltofrustrato e devo farmi una capsula di morfinaper calmarmi. Non so perché la droga micolpisca così forte, forse non mi ci sono ancorariabituato dopo esserne stato senza per duesettimane. Non appena metto la capsula sullalingua è come se una meravigliosa oscurità,morbida, lentamente cominciasse adabbracciarmi.

Marko mi ha chiesto qualcosa, ma noncredo di avergli risposto. Invece scivolo semprepiù distante, ogni minuto che passa, finché tuttoè silenzio e calma, come velluto.

Mi sento scuotere e sto per svegliarmi. Masono ancora stravolto e comincio a sognare mio

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padre.

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SETTE Le settimane precedenti la morte di mio

padre furono strane. Avevo appena iniziato alavorare alla mia tesi di laurea in letteratura,l’argomento era la ricerca dell’utopia nellatrilogia newyorkese di Paul Auster. Spacciandoguadagnavo abbastanza da poter fare a menodel sussidio agli studi e restituire parte deldebito accumulato fino a quel momento5 .

Agli occhi degli altri ero diventato unospettro, meno di un fiato. Non parlavo quasi connessuno a eccezione di Marko, che miprocurava la merce da vendere, e dei tossiciche frequentavo. Diverse volte fui sul punto dichiedere loro di abbracciarmi. Avevo incontratoMarko a una festa un mese prima. Avevamodeciso di fare affari insieme, o meglio, lui mi

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aveva offerto la possibilità di spacciare.Precipitavo in un abisso, mi perdevo nellatrilogia newyorkese e nel mondo della droga.Non dormivo per giorni, mi tenevo sveglio conuna variante leggera di anfetamina che rendevai miei occhi secchi come sabbia e mi facevaballare la lingua sulle labbra.

Non incontravo mai mio padre, e mia madreera gravemente malata di cancro. Era talmentedebole che accanto a lei non avevo neppure ilcoraggio di respirare. Ricordo un letto diospedale a Södersjukhuset, il suo corpo chesembrava un soprabito di pelle a rivestimento diuno scheletro. Lei non c’era più.

Una sera me ne stavo seduto in unacaffetteria, fissando una finestra scura come sestessi guardando un programma noioso in TV efossi troppo pigro per cambiare canale. Eraautunno, quel tipo d’autunno tanto lungo efreddo che ti dimentichi la sensazione dei raggidel sole sulla pelle.

Attraverso la vetrata del locale vidi miopadre dall’altra parte della strada. Il suo corpoera talmente appesantito da qualcosa, forse dal

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dolore, che mi venne l’impulso di precipitarmifuori ad abbracciarlo. Si fermò e fissò lacaffetteria, puntando dritto verso il punto in cuime ne stavo seduto nella penombra. I nostrisguardi si incrociarono tanto intensamente etanto a lungo che pensai che i miei occhiavrebbero cominciato a sanguinare. Quelmomento sembrò eterno, vidi la mia infanziascorrermi davanti agli occhi come un film.

Ogni cosa iniziò a girare e mi costrinsi achiudere gli occhi per fermare il mondo.Quando li riaprii era sparito. Fu l’ultima voltache lo vidi in vita e una settimana dopo morìanche mia madre. Lei non venne mai a saperecome era morto, non conobbe mai lecircostanze in cui divenni orfano. Interruppi glistudi dal momento che non vedevo alcunmotivo per proseguirli. Quella sera stessa andaia Malmskillnadsgatan per incontrare uno deimiei pochi amici, una certa Janina, chelavorava in un locale con lo pseudonimo diJacqueline. Portava una parrucca nera comeuna cornacchia. Janina era una prostitutatossica alla quale una settimana prima avevo

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venduto della cocaina in cambio di una scopatadalla durata vergognosamente breve, in un lettoche cigolava come un treno che si stafermando. Fu poco prima che perdessi ildesiderio sessuale, evento che attribuii allamorfina, ma che forse dipese semplicementedal fatto che mi annoiavo. Fare sesso èmonotono e poco interessante, qualcosa di cuidisponiamo soltanto per illuderci di condividerequalcosa di profondo ed essenziale, quando difatto non fa altro che allontanarci.

Janina amava la trilogia newyorkese ecredo di aver fatto scattare in lei una sorta diistinto materno per quella merda sofferente cheero. E che sono.

Mi faceva sentire meno solo. Rimanemmo aparlare fino a quando una Mercedes nera cipassò davanti in strada. Non riuscivo ascorgere nessun volto all’internodell’automobile. Jacqueline si aggiustò laparrucca e mi lasciò la sigaretta che stavamocondividendo.

Tornai a casa, solo. Vivevo in una casadello studente dalle parti di Västra Skogen, da

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qualche tempo non sopportavo più di abitarenella casa dove avevo trascorso l’infanzia.L’odore di mia madre, del suo profumo e dellasua pelle, era rimasto attaccato alle pareti chemi avvolgevano come le spire di un serpente.

5 In Svezia gli studenti universitari possono

prendere in prestito dallo Stato una determinatasomma, pari a circa 1000 € al mese, permantenersi durante il periodo degli studi (n.d.t.).

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OTTO Riemergo con la sensazione di stare per

soffocare. Nel sogno mi trovo in una stanzapiena d’acqua e ogni mio movimento ècontrollato e calmo, come se stessi fluttuandonello spazio. Mio padre è qui nell’acqua,proprio accanto a me. Sento la sua vocebenché ci troviamo sotto la superficie.

«C’è qualcosa che non va, Vincent».Nell’attimo di un battito di cuore vedo la vita

spegnersi nei suoi occhi, come quando sistacca una spina dalla presa della corrente, emi rendo conto che non riesco a respirare, lottoper raggiungere la superficie. Mi alzo a sederenel letto e ansimo rumorosamente, panico nelrespiro, il cuore come un rullo di tamburo nelmio petto.

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Non è la prima volta che mi sveglio inquesta maniera.

Sulla pelle sento una mano, fresca comel’ombra nel sole estivo. Riposa sul mio cuore emi calma al punto che torno a distendermi. Unasensazione che si diffonde in me come unasostanza chimica. Maria è sdraiata accanto ame sul letto. Mi guarda e sono quasi sicuro chesia preoccupata.

La sua mano è morbida, morbida e lisciacome immagino sarebbero le sue guance sottola punta delle mie dita. Tento di sorridere ma imuscoli sono estranei a un simile gesto, la miafaccia è come un impasto ben lavorato.

Ho freddo, la mia pelle mi sembrainsufficiente, un po’ come se indossassi vestititroppo attillati. Sono madido di sudore. Labocca è asciutta e riesco a malapena apercepire le mie mani. Maria mi poggia unamano sulla fronte e mi domando perché sia cosìgentile con me. Il suo viso è serio e bello, gliocchi scure pozzanghere di inchiostro.

Facciamo colazione in silenzio. Mi

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meraviglio del mattino. C’è sempre lapossibilità che Dio si svegli e annulli lagiornata. Che Dio dica «Cazzo no!» e scelga diinterrompere tutto il progetto.

Mi è venuta una fame incredibile, non miricordo quand’è l’ultima volta che ho mangiato.Maria beve una tazza di tè mentre io ingurgitotre scodelle di yogurt e due fette di pane secco.Sono convinto che tra un attimo vomiterò quellamerda, ma con mia sorpresa tutto mi rimanenello stomaco.

«I’m sorry about this», oso dire.Maria annuisce rigida e beve un sorso del

suo tè.«I know».Quelle parole mi provocano sollievo, ma

anche dolore. Come se il senso di colpa miavesse abbandonato, ma fosse stato sostituitodall’impotenza.

Quando la saluto svitando di nuovo laserratura della porta sono sicuro che mi sorrideleggermente. I denti di Maria sono perfette filedi vetro. Non so interpretare il suoatteggiamento. Mi confonde. Le sue improvvise

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esplosioni seguite da qualcosa che potrebbeessere calma o addirittura una sorta ditenerezza. O rassegnazione. Non so dove corrail confine, se poi un confine del genere esiste.Ma ho già sentito parlare di questo tipo dicomportamento. Ragazze che hanno subitotraumi veramente pesanti, un secondo primapossono chiederti se ti piace essere leccato sulcollo, l’attimo dopo ti staccano un orecchio amorsi. Tutto questo mi preoccupa e mi mette adisagio.

Ho addosso un senso di insicurezza chenon mi lascia. Sono attratto da lei nel modo incui ci si sente attratti dalle cose proibite. Misento come un sessantenne che durante ilmatrimonio del figlio non può fare a meno disbirciare nella scollatura della nuova nuora.Maria si muove nei miei pensieri tra gli estremidi ciò che non è concesso e di ciò che èdisponibile, e mi è difficile gestire la cosa. Ilmistero che la circonda e le ombre della suapersonalità, i contrasti tra l’estroversione e lachiusura, mi affascinano e mi attraggono.

Pentimento e vergogna.

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Sergels Torg, un pomeriggio tardo e morto.

Sopra la mia testa gli uccelli fluttuano comebuste di plastica nel vento.

Sto lavorando o facendo qualcosa chedovrebbe assomigliare a un lavoro, ma lo facciosenza grande entusiasmo. I miei pensieri sonoaltrove, celati tra serpentine grigie di nebbia. Hodifficoltà ad allontanare i pensieri da Maria. Ilgiorno si muove con lentezza, come se avessepreso un po’ della mia morfina e stesse distesosotto l’intensa luce anestetizzante del sole.Immagino cani che lottano per la loro vita, poimi rendo conto che i cani sono persone che sicontorcono nell’odio.

Il sacro non esiste ed è facile renderseneconto.

Squilla il cellulare ma non riconosco ilnumero. Di solito in questo caso non rispondoper paura delle intercettazioni telefoniche, mastavolta faccio un’eccezione per purasprovvedutezza.

Me ne pento immediatamente. È impossibilenon riconoscere la voce dall’altra parte. È

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gorgogliante e cruda come se avesse appenafatto un pompino a una motosega.

«Dobbiamo parlare».«Perché?», chiedo.«Per quell’angioletto che sono abbastanza

sicuro che ti tieni in casa».Vedo Maria come un angelo. Ha più o meno

lo stesso aspetto di questa mattina e hoqualche problema a gestire un’immaginesimile. Forse dipende dal fatto che, sel’immagine evocata fosse reale, terreiprigioniero un angelo, cosa che non èassolutamente di buon auspicio.

«Non so di cosa stai parlando».«Certo che lo sai. Incontriamoci a

Kolingsborg tra un quarto d’ora». Ho fatto brutte esperienze a Kolingsborg.

Sotto le strade di Slussenkarusellen si snodanocunicoli che ricordano un girone dell’inferno diDante. In quel posto sono stato ubriaco, misono drogato e mi hanno riempito di botte. Miricordo di una serata in un synth-club qualcheanno fa. Alla fine il mio cervello era talmente

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intossicato d’alcool che mi è apparso miopadre. L’ho spinto contro una parete e gli homollato una testata, ma mio padre non era lì,era già morto e sepolto. Avevo preso a craniateuna parete di cemento. L’ultima cosa chericordo è di aver scritto “chi ha paura del lupocattivo” con un pennarello sulla parete, lettereirregolari e scure come ombre, mentre il sanguedella ferita alla testa tingeva il mondo di rosso.

Jack è in anticipo, il suo profilo è nero controla luce del sole a Södermalmstorg. Entro nellapenombra, chi cammina tra le ombre nondiventa altro che ombra e per il momento,nonostante le mie brutte esperienze, mi sento inun certo senso al sicuro.

Ho già detto che le persone che conoscosono per la maggior parte tossici. Jack non faeccezione, ma con lui non te ne accorgi. Primafaceva il poliziotto, lavorava nei dipartimenti piùtosti, droga e poi violenza, e alla fine era finito,come uno spettro, alle indagini interne. Era uncamaleonte, aveva più nomi che mutande. Erasparito per un mese per poi ricomparire neldipartimento furti della polizia della capitale,

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fingendosi un poliziotto fallito di Malmö a cuiera stata data una seconda possibilità aStoccolma. La sua vera missione consistevanell’indagare all’interno del dipartimento furti,dove quattro poliziotti erano sospettati di unaffare losco del valore di diversi milioni dicorone. In un primo momento i media e la gentelo avevano chiamato il “caso della squadra”.Poi, quando la situazione si era dilatata neltempo e aveva assunto risvolti troppocomplicati perché si potesse semplicementechiamare “caso”, era stato rinominato“scandalo”. Lo “scandalo della squadra”.

Jack è poi scomparso dal mondo dellapolizia in seguito a una storia che ha fatto moltomeno rumore. Una storia in cui c’erano unapoliziotta, dell’elettricità, un manganello e unesperimento che a grandi linee riguardava laresistenza al dolore. La poliziotta era morta, manessuno ne ha mai parlato. Da allora non si sacosa combini, oltre a farsi di eroina con lastessa ingordigia con cui un bambino mangia lecaramelle. Probabilmente continua a ricattarequelli della Direzione Nazionale della Polizia,

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dal momento che è in possesso di un ampiofascicolo contenente un sacco di merda sui loroaffari, che utilizza ben volentieri per ottenerequello che vuole. È anche molto probabile chelavori ancora per la polizia, come informatore oinfiltrato. Le persone che gli stanno intornohanno una certa tendenza a morire comemosche.

Jack non mi piace. È furbo e freddo, brutalecome un macellaio di cattivo umore. Qualsiasicosa voglia da me, non c’è dubbio che èconvinto di trarre qualche tipo di profitto dalnostro incontro.

Indossa jeans neri, scarponi e un cappottolungo, inarca le sopracciglia quando mi vede.Jack ha la faccia di un serpente, gli occhi sonopuntini neri dentro piccole fessure, e la suapelle è talmente rovinata e piena di cicatrici chesembra aver dormito sotto una pioggia dichiodi.

«Sei in ritardo», sbuffa.«E tu sei in anticipo».Mormora qualcosa, la sua voce è un motore

ruggente. Prendo una sigaretta dal pacchetto e

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gli chiedo un accendino. Jack ne pesca unonella tasca con l’espressione di chi apre ilfrigorifero e ci trova solo cibo ammuffito.

«Il fumo fa male alla salute».«Anche l’eroina».«Meglio per te se hai la roba addosso,

stronzo». Jack odia tutti gli spacciatori.«Ovviamente».«Ovviamente mi aspetto che me la dai

gratis».Mi accendo una sigaretta e faccio un tiro

profondo prima di rimettergli l’accendino inmano e guardarlo storto.

«Che cazzo vuoi da me, Jack?», gli chiedosoffiandogli il fumo in faccia. Jack non reagisce.

«Ho la possibilità di mettere le mani su dellabuona roba in cambio di qualche informazione.Non mi lascio mai sfuggire un’occasione delgenere».

«Che tipo d’informazione?».Qui giù, lontano dalla luce del giorno, c’è un

rumore che non avevo mai sentito prima.Rumore di tubi al neon freddi che ronzanocome calabroni, ma mi rendo conto che il

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rumore è soltanto nella mia testa.Improvvisamente mi sento insicuro, paranoico.

«Prima la roba, poi una passeggiatina»,sibila.

Gli allungo una delle bustine di Pastor.Oggi, nel bagno, con la bilancia e tutto il resto,stavo per far cadere bustina ed eroina per unvalore di quasi cinquantamila corone.

«Quel che ho da dire vale parecchio piùdi...». Esamina la bustina. «Presumo cheavresti voluto mettercene due grammi, ma chece n’è finita molta di più».

«Ho avuto una giornata di merda oggi»,mormoro con tono lamentoso.

Uno spacciatore che non è in grado dipesare la roba non vale proprio niente.Nessuno lo sa meglio di Jack.

Camminiamo verso Gamla Stan,attraversiamo il ponte6 . L’aria è fredda comeneve e il cielo è infinitamente vuoto.

«È arrivato un carico di roba un paio di nottifa», dice Jack. «Tutto avrebbe dovuto filareliscio, doveva passare per la Svezia e arrivarein Norvegia, se ho capito bene».

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La voce rantolante di Jack rosicchia i mieitimpani procurandomi un forte mal di testa. Èmezza testa più alto di me e mentre parla nonmi guarda. Il vento sul ponte è forte e ho lasensazione che il mio corpo sia tanto esile chepotrei essere trascinato via in un soffio comeuna foglia accartocciata e moribonda.

«Ah sì?», dico io. «E allora? Di che tipo dimerce si trattava?»

«Dammi un’altra bustina».«Dovrai pure darmi qualche altra

informazione».«Brutto stronzo».Continuiamo a camminare, svoltiamo a

sinistra in direzione della metropolitana. Leattività quotidiane intorno a Slussplan sonoconcitate e sembrano avere uno scopo benpreciso, ricordano dei preparativi di guerra.

«Qualcosa è andato storto. Non so cosa, male merce non è mai arrivata a destinazione.Immagino che qualche cazzo di infame avràfatto una soffiata a qualche cazzo di sbirro chene avrà fatto buon uso cercando di bloccarel’affare».

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La mia testa echeggia di incomprensione.«Che tipo di merce? Droga, o che cosa?»«No, testa di cazzo».Rimane in silenzio un paio di secondi e per

la prima volta incontra il mio sguardo, purrimanendomi accanto.

«Persone», dice a bassa voce.«Ce n’erano altre oltre a lei, quindi?»«Sono sempre più di una. Probabilmente

dieci, come minimo».«E dove si trovano le altre?».Mi guarda di nuovo, schifato.«Secondo me stanno nascoste in diversi

posti qui a Stoccolma, da teste di cazzo fallitecome te».

Rimane in silenzio per un po’.«Dammene altri due grammi altrimenti butto

il tuo schifoso culo inculato nel Mälaren». «E lei che deve fare? Che è venuta a fare

qui?».Jack fa spallucce, ma il vento è freddo e le

nostre teste sono tanto affossate che non sinota alcuna differenza.

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«Fare le pulizie, trasportare droga, scopare.Cucire vestiti, farsi manipolare geneticamente,farsi clonare. Che cazzo ne so. La gente ècapace di fare qualsiasi cosa oggigiorno. Quelche è certo è che va tenuta nascosta. Di sicuronon è qui per portare a termine gli studi. Miricorda certi altri froci che conosco, tra l’altro».

«Sai da dove viene?».Ci fermiamo a un angolo e capisco che le

nostre strade si dividono qui.Si è fatta sera e il nostro fiato è fumo

puzzolente, bianco e freddo. Jack solleva unsopracciglio e allunga la mano. Ci facciocadere un’ultima bustina.

«No. Non ne ho la minima idea».Se ne va con passo veloce e scompare tra

la gente. Se avessi con me una pistola mimetterei a sparare alla cieca tra la folla e con unpo’ di fortuna riuscirei a portargli via unorecchio.

6 Gamla Stan, letteralmente “la città vecchia”

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è il quartiere più antico di Stoccolma e si trovasu un’isola al centro della città (n.d.t.).

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NOVE La seconda volta che mi capitò di parlare

con Felicia ero ubriaco. Mi consolava il fattoche anche lei lo fosse, talmente ubriaca chedovevo sembrarle sobrio. Eravamo a una festain un appartamentino a pochi passi daMariatorget.

La seconda volta che parlai con Felicia, leimi vomitò sulle scarpe.

Per qualche motivo indossavo una magliettacon la scritta “titanic swim team of 1912” e congrande impegno stavo cercando di convinceretutti i partecipanti alla festa a trasferirci in unrave club a Nacka, quando il mio sguardocadde su di lei.

Stava fumando in cucina, sporgendosi dallafinestra sulla Wollmar Yxkullsgatan. Vedevo

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solo il suo sedere, tondo e sodo, sotto la gonnanera.

In quei giorni e in quelle notti avevo difficoltàa concentrarmi. È strano, da adolescente si hal’impressione che tutta la vita giri attorno allapersona di cui si è innamorati. Anche per me ilmondo girava intorno a un unico centro e quelcentro coincideva con il punto in cui si trovavaFelicia. Quando la vedevo tutto il mondoscompariva. Era come se le emozioni miconfluissero nelle mani e all’improvviso quellemani non riuscivano più a stare ferme.

«La bottiglia. Dove cazzo è la bottiglia?».Un tipo di nome Jesper mi aveva passato

una bottiglia di plastica piena di assenzio, neavevo mandati giù tre sorsi e mi sembrava cheschegge di vetro mi stessero lacerando leinteriora. Mi spostai con la bottiglia in cucina,dove Felicia aveva appena richiuso la finestra. Igenitori di Jesper erano cattolici e sulla pareteavevano appeso una croce dorata grossa epesante. Con la mano destra mi feci il segnodella croce e iniziai a ridere. La croce era lindae nell’immagine distorta del riflesso di uno

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specchio la mia bocca sbilenca e sorridentesembrava quella di un pesce.

Felicia inciampò goffamente e cominciò aridacchiare.

«Troppo ubriaca», mormorava.«Decisamente troppo ubriaca».

Probabilmente lo diceva a se stessa, unaspecie di constatazione.

«Ciao Felicia».Si voltò, e all’inizio era parecchio confusa,

ma poi apparve un fievole barlume diriconoscimento che fece atterrare qualcosa dicaldo nel mio stomaco.

«Oh, ciao, Vincent». Alla vista della bottigliache avevo in mano i suoi occhi si erano fattigrandi e rotondi. «Dio che bontà. Me ne faiassaggiare un po’?».

Aggrottai le sopracciglia mentre le porgevol’assenzio. Felicia ne prese un sorso troppogrande, il tipico sorso che il giorno dopo ti portaa dover smaltire una bella sbornia. Aveva fattoappena in tempo a mandarlo giù che il suo visocolor miele si raggrinzì in una smorfia e divennerosso peperoncino.

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Poi cominciò a sputare, in parte nellavandino ma soprattutto sul pavimento.

«Che cazzo, Vincent», sibilò. «Maledizione,che era quella roba?». La sua voce era confusae strascicata.

«Era... assenzio, ma io... io pensavo...».«Assenzio. Credevo fosse acqua. Assenzio,

ma non è roba fortissima?».Infilò la testa sotto il rubinetto della cucina e

prese a mandar giù grossi sorsi d’acqua.Indossava un top bianco e in quella posizione,più o meno distesa sul lavandino, vedevo lasua pelle nuda tra il top e la gonna. Mi chiedevocosa sarebbe potuto succedere se avessiprovato a toccarla. Probabilmente Felicia miavrebbe piazzato un ginocchio liscio e brunoproprio all’altezza dell’inguine.

Presi a grattarmi la testa imbarazzato, avreivoluto spararmi. Ci sono diversi tipi egradazioni di assenzio, ma dato che Jesperl’aveva rubato al padre marinaio ero piuttostosicuro che quella roba contenesse almeno ilsettanta per cento di alcool.

Il profondo sorso di Felicia corrispondeva

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all’effetto di una mezza bottiglia di whisky.«Sì, è... piuttosto forte», precisai con molta

cautela.Felicia si alzò barcollando mentre io

cercavo di non guardarla. Dopo parecchisecondi di silenzio scoppiammo in una risata.Fu proprio liberatorio, come se niente potessetoccarci. Come se nessuno potesse più privarcidi quell’attimo.

Uscimmo dall’appartamento per comprarci

le sigarette. Mi chiese se avessi la cartad’identità e le risposi che avevo quella di Bill.Un paio di giorni dopo che lui e Bull miavevano pestato a Odenplan gliel’avevo rubatanello spogliatoio della palestra. Il nome di Bill inrealtà era William e la cosa ci pareva piuttostobuffa7 .

Seduti sulle scale davanti al portone cidividemmo alcune Marlboro rosse. L’aria erafresca, come se soltanto un attimo prima fossestata purificata da una pioggia scrosciante, eFelicia profumava di cannella e di unafragranza fruttata che mi faceva pensare alle

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caramelle. Seduto accanto a lei nella seratafresca di Södermalm provavo una sensazionedi quiete. Nei confronti di mio padre nonprovavo nulla, né amore né odio, e neppurealcun sentimento collocabile tra questi dueestremi. Non avvertivo più alcun bisogno didistruggere o di creare. Mi sentivo, forse, felice,e mi chiedevo cosa ciò potesse eventualmentesignificare.

«A scuola ogni tanto mi capita di vederti»,mi disse.

Gli occhi di Felicia avevano, nonostante lanebbia dovuta all’alcool, una vivacità e unacuriosità che mi faceva pensare alla fiammaintensa di un fiammifero. Rimase in silenzio perun po’ prima di continuare.

«Sembri un tipo solitario. Sempre cosìperso».

Considerai la possibilità di raccontarle che ascuola ero sempre fatto e le rare volte in cui nonlo ero avevo un disperato bisogno di farmi.Risposi semplicemente con: «Perché penso adelle cose, presumo».

Due cose. Felicia e la morfina.

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«A che tipo di cose?».Fece un tiro profondo e mi passò la

sigaretta. Poi, improvvisamente, fu come sequalcosa risucchiasse il colore dal suo viso emi mise una mano sulla spalla.

«Dio quanto sto male».Un attimo dopo, un istante troppo breve

perché avessimo il tempo di reagire, Feliciavomitava sulle mie Converse nere.

7 Bill in inglese è il diminutivo di William

(n.d.t.).

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DIECI Il pensiero che Maria dovrà patire delle

sofferenze mi spezza il cuore, come quandouna corda bruciacchiata viene tesa fino a che lesue fibre non cedono. L’universo è nemico e sifonda su premesse sbagliate. Quanto di peggioriesci immaginare corrisponde a verità e le cosepiù brutte hanno sempre un controvalore indenaro. Il caos non assomiglia a Dio. Il caos èun ragazzino di quindici anni che ha subito unpesante mobbing, ha il grilletto facile, glipiacciono i videogiochi violenti e a volte miverrebbe voglia di mettergli in mano un’arma,più che altro per vedere cosa potrebbesuccedere. Così è il mondo, in qualsiasi altromodo te l’abbiano descritto, be’, ti hannoraccontato una balla.

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La giornata volge al termine, la città dovesono cresciuto e dove vivo sta peraddormentarsi. Qualcosa sta cambiando, mitornano in mente tutte le belle peccatrici cheamavo qualche anno fa. Ormai sono morte oincinte.

Metto una capsula di morfina sulla lingua espero di riuscire a rimanere sveglio durante ilviaggio in metropolitana, non posso perdereconoscenza prima di arrivare a casa, prima diarrivare da Maria.

Quando apro la porta, la mia vestaglia

volteggia nell’appartamento. Sento una musica,archi di qualche tipo, dai toni leggeri comeciglia. Una sensazione di calore mi avvolge laspina dorsale e si diffonde in tutto il corpo.

Maria sta danzando al suono di una sinfoniaproveniente dalla TV. Mi sorprende che ancorafunzioni, che la polizia non l’abbia fatta a pezzidurante la perquisizione. I poliziotti sono per lamaggior parte degli imbecilli maldestri.

Maria ha indossato la mia vecchia vestagliasopra il vestito giallo. Tiene gli occhi chiusi ma

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sono convinto che riesca a vedere attraverso lapelle sottile delle palpebre, i suoi movimentisono troppo precisi perché li stia eseguendo albuio. I capelli scuri accompagnano le movenzecome un mantello accompagna il vento, le manisi tendono e si rilassano, ho l’impressione chesia Maria a condurre la musica e non viceversa.

È una danza diversa rispetto a quelle chesono abituato a vedere. Donne anoressichedella potente malavita che bevono champagnee agitano i loro culi scheletrici avvolti in cortegonne rosa. La loro pelle finta, marrone comecuoio, i cui movimenti sembrano spasmiregolari ritmati da batteria e sintetizzatoreinvisibili. Luci e suoni tipici di certe discoteche,odore di marijuana e zucchero bruciato.

Sono talmente rapito che la giacca mi cadedi mano e questo fa sobbalzare Maria come seavessi appena esploso un colpod’avvertimento.

«Scusa Maria», biascico.Lei fa un sospiro profondo, il suo petto si

alza e si abbassa in un’onda morbida.«You make me scared».

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Il suo inglese ha un accento straniero moltoforte ed è difficile capire cosa dica. Spegne laTV e si siede sul divano. La raggiungo e misiedo accanto a lei, accasciandomi in manieragoffa e pesante.

«I’m sorry», dico.«Don’t like when you look like that. Don’t...».

Volge il viso nella mia direzione. «I’m sorry.I...». Si morde il labbro inferiore, sembra cercarela parola giusta. Poi alza la mano verso il mioviso e sembra volermi dare uno schiaffo. Sonofatto e la mia reattività è pari a zero, non fareiassolutamente in tempo a reagire, ma non micolpisce comunque. «I’m sorry about that. But Idon’t like when you look... at me».

Non dico niente. Non è questa la reazioneche ho di solito dopo aver spaventato qualcuno.Il mio stomaco è in agitazione e la testa si fapesante, terribilmente pesante, il mio triptranquillo si sta intensificando.

«Norvegia», mormoro. «Ne sai qualcosa, tistanno portando in Norvegia? Quante altrepersone c’erano con te?». Non risponde, nonho ancora realizzato che non capisce quello

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che le sto dicendo. «Jack è matto, matto dalegare», proseguo, farfugliando parole senzasenso. «Ma per quanto riguarda la tuafaccenda, mi fido di lui».

Mi alzo a fatica e barcollo verso il bagno,

nascondo i soldi di oggi accanto a quelli di ieri.Provo uno strano senso di colpa ma ne homomentaneamente dimenticato il motivo.

Maria solleva lo sguardo dalle sue mani, gliocchi sono pungenti e scintillanti come lametteda barba sotto tubi al neon. Sembra così fragilee ciò nonostante dotata di una forza ancestrale,viva. Non riesco a capire cosa stia succedendo.La vita non è altro che droga e caos.

Maria è silenziosa, respiri lievi come pioggiaestiva sulla pelle. Un impulso deciso mispingerebbe a prendere un’ulteriore capsula dimorfina, ma per qualche motivo lascio stare.Perdere il controllo sulla mia dipendenza èl’ultima cosa di cui ho bisogno. E dato che houn debole per le dipendenze, probabilmentefinirei ammazzato da un poliziotto durante unarapina in cui minaccio la cassiera con una

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pistola ad acqua per rimediare i soldi per laroba, ed è uno scenario che non apprezzerei.

Restiamo seduti nel buio uno accanto

all’altra. In TV danno un film con Jackie Chan,non è un granché ma non saprei cos’altro fare.È ancora meno interessante dal momento cheho tolto il sonoro, visto che la morfina hacominciato ad abbandonarmi per lasciar postoa un macabro mal di testa. Un tizio con la testarasata con degli avambracci più grossi dellemie cosce molla calci spaventosi a Jackie suuna barca che scivola lentamente sul mare,chissà poi quale. Jackie rifila un calcio sul nasoal tizio pelato, guadagnando un irragionevolevantaggio sull’avversario.

Non saprei dire quanto tempo rimaniamoseduti così. Maria non ha più detto una solaparola da quando si è scusata. È il silenzio fattopersona, respira silenziosamente, si muovesilenziosamente, esiste silenziosamente. Lasua testa scivola piano sulla mia spalla, lelabbra sono leggermente dischiuse, le palpebresi chiudono, il suo seno si alza e si abbassa in

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maniera ritmica come un’onda radio.Ho di nuovo tredici anni e sono al cinema

della scuola con tutta la classe, il film ètalmente noioso e stupido che la ragazzacarina, l’unica della classe che finora abbiafatto sesso, si è addormentata sulla mia spalla.Mi spavento e mi irrigidisco, l’unica cosa cheriesco a fare è provare a chiudere gli occhi epensare a qualcosa che non siano i suoi capelliche profumano di lacca e di estate.

Fuori dalla finestra Dio spacca il cielo con

un colpo d’ascia e la pioggia inizia a cadere.Un diluvio. Con estrema delicatezza facciopassare il braccio intorno al collo di Maria epoggio la mano sul suo torace, provo a seguireil ritmo del suo respiro e a non pensare che stotoccando qualcosa di proibito.

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UNDICI La sera dopo che Felicia aveva vomitato

sulle mie scarpe squillò il telefono di casa.Sentii mio padre rispondere in salotto.

«Sì», disse. «Ok. Chi è? Ah, capisco. Unattimo».

Passi pesanti, sembravano appartenere auna persona con gravi problemi alle anche. Miopadre era bravo a camuffare la voce quandoera ubriaco, ma i movimenti rivelavano semprele sue condizioni reali.

Me ne stavo disteso sul letto con lo sguardofisso sulla libreria guardando il dorso logoro diun libro. Il titolo, dalla scritta parzialmenteconsumata, era The Ballad of Reading Gaol.Rimasi sul letto mentre la porta lentamente siapriva, teso e immobile alla presenza di mio

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padre come un muscolo bloccato da uncrampo.

«Per te. Felicia», disse, lasciando il telefonosul pavimento, come se con quel gesto volessedimostrare qualcosa, poi si voltò e uscì. Feci unprofondo sospiro guardando l’apparecchio. Inun istante la stanza si era fatta calda e umida.

«Sì, pronto?»«Ciao, sono Felicia».«Ciao».E poi cosa si dice? Si schiarì la voce in

maniera troppo improvvisa e rumorosa,facendomi sobbalzare.

«Volevo soltanto chiederti scusa per ieri»,disse.

«Sono io quello che deve chiedere scusa».«No, sono stata io a vomitare».«Sono stato io a farti bere l’assenzio».Dopo un po’ convenimmo che la colpa era

di Jesper. Era sua la festa e suo l’assenzio. Ineffetti la colpa era probabilmente del padre diJesper. Suo padre però faceva il marinaio enon si dovrebbe mai accusare un marinaio,secondo Felicia.

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«Porta sfortuna», spiegò, e io mi scopriid’accordo.

La sentii fare un rumore simile a quello chesi fa quando ci si sveglia con dei dolorimuscolari dopo un allenamento troppo duro e cisi mette seduti sul letto.

«Scusa», disse a voce bassa.«Di cosa?».Rimase in silenzio per alcuni lunghi

secondi. Nella mia testa trasformai queisecondi in lunghe strisce, nastri nei qualiavvolgere Felicia e me. All’interno di questisecondi eravamo al riparo da chiunque e daqualsiasi cosa.

«Mia madre. Quando non le do ragione disolito finisce che... mi faccio male», disse, e iochiusi gli occhi pensando a mio padre.

«Capisco».«Sul serio?», disse lei.«Sì, pure mio... pure mio padre».«Quanto spesso succede?»«Ogni volta che si ubriaca, più o meno».«La stessa cosa vale per me», disse Felicia

e la sua voce, di solito tanto vivace, aveva un

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timbro cupo e serio.Era strano parlare di un tale argomento

senza menzionarlo apertamente. Era come seesistesse e non esistesse allo stesso tempo.Tutto ciò che esiste ha un nome e questa erauna zona grigia, una terra di nessuno alla qualestavamo dando un nome.

Non ne avevo mai parlato prima di allora, eripensandoci credo che Felicia sia stata l’unicaad averlo mai saputo.

Tuttavia il giorno dopo, a scuola, era come

se tra noi non fosse successo niente. Come senon mi avesse mai telefonato, come se nonavessimo mai condiviso quel momento e queisegreti. Passandomi vicino mi degnò solo di uncenno della testa, proprio come avrebbe potutofare con qualsiasi estraneo che le avesserivolto un gesto di cortesia.

Ecco cosa ero. Un estraneo. Tornai a casalungo strade dai negozi eleganti con lasensazione di essere invisibile.

La sera chiamò di nuovo.«Scusa per oggi», disse.

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«Per cosa?», risposi tentando di apparire,come dire, indifferente.

«È soltanto che», continuò come se stesserecitando una poesia a memoria. «È soltantoche nessuno lo sa. A parte te. Mi è sembratocosì...».

«Strano».«Sì, precisamente, così strano».«Per me è lo stesso».Rimanemmo in silenzio per un po’. Poi mi

chiese se mi piacevano i Pulp e se avevosentito la canzone Common People.

«Certo», risposi. «Che domande». Avevagià qualche anno, ma era ancora uno dei braniche passavano più spesso alla radio e su MTV.

«Amo quella canzone», disse. «Quandopenso a te, penso a quella canzone».

Volevo domandare se ciò significava cheamava anche me, ma per fortuna, o purtroppo,non lo feci.

Quella sera mi addormentai con il telefonopremuto contro la guancia, al suono del respirodi Felicia.

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DODICI Mattino presto. Le prime volte che andavo

sulla tomba di mia madre mi mettevo sempre ingiacca e cravatta, nonostante la mia avversioneper i completi.

Quando indosso un completo mi sentonudo, come fossi allo stesso tempo l’imperatorecon i vestiti nuovi e uno dei sudditi che losbeffeggiavano8 . Ma ormai non mi prendonemmeno la briga di farmi la doccia. I morti nonhanno il senso dell’olfatto.

Sono fatto ma il trip è sotto controllo. Hopreso della morfina per zittire le cazzate cherimbalzavano nella mia testa, sul pavimento hotrovato una piccola pasticca di cui la polizia,chissà come, non si è accorta durante laperquisizione domiciliare. Forse ci è finita dopo,

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ma anche questo sarebbe quanto menocurioso. Non le ho trovato un nascondigliomigliore della mia bocca e immagino sitrattasse di qualche tipo di sostanzaaccelerante, dal momento che mi sento su digiri più di quanto dovrei.

Maria sta dormendo sul divano. Di puroistinto potrei averle dato un bacio sui capelliquando mi sono svegliato, ma non ne sonosicuro. Questo dubbio mi spaventa e miinnervosisce.

Per un po’ resto seduto sul pavimentodavanti a lei. I suoi occhi hanno la forma dipiccoli limoni. La luce del mattino che entradalla finestra le accarezza il viso. Sareidisposto a uccidere per poterla sfiorare, mivergogno di questo pensiero. Cerco di fissare lasua immagine nella memoria, ma quandochiudo gli occhi mi rendo conto che non ce n’èalcun bisogno. Maria mi è ormai familiarequanto un sogno ricorrente.

Forza, alzarsi e poi via. Dovrei prendere untreno per una destinazione lontana escomparire. Dovrei andare al commissariato più

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vicino e farmi vedere alla reception, dovreitornare a casa. Dovrei fare tante cose.

La metropolitana, quel serpente di latta blu egrigio, arriva veloce alla piattaforma, non hovoglia di sedermi. Una curiosa sensazionecresce nel mio stomaco, la sensazioned’essere pedinato. I miei pensieri corrono comeelettroni impazziti. Pastor, la polizia, Jack,Marko. Sembra siano in molti a interessarsi ame e mi è difficile apprezzare queste attenzioni.Mi guardo intorno nella carrozza della metro.Non c’è nessuno, sono solo, studio concuriosità un giornale con un articolo dal titolo Isoldi della banda dei vigilantes nella malavita.

Il concetto di malavita e le inerenticonsiderazioni mi disturbano da sempre. Lamalavita non è il buio che inizia dove finisconole luci della città e i poliziotti di pattuglia. Non èun luogo oscuro del mondo. La malavita è unabella donna di mezza età con un bel vestito euna borsetta di lusso. Si muove in mezzo auomini che portano occhiali da sole neri, uominiinfluenti con ventiquattrore piene di soldi e dicontratti, e nella borsetta tiene una scintillante

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rivoltella d’argento. Quando incontra qualcunoesibisce un sorriso rosso sulle labbra, e condue unghie ben curate apre la borsetta confreddezza e decisione.

Si misura con chiunque: istituzioni, impresegrandi e piccole, persone di ogni ceto. Calma,lucida e sensuale. Sussurra promesse, adescae conclude contratti durante cene costosissimee aperitivi, in letti d’albergo quando cala il buio.Non è dato distinguere né limitare la suainfluenza. In una sala conferenze si confondetra la gente. È capace di grandi favori. Larivoltella d’argento si intuisce soltanto, visibileeppure invisibile nella borsetta aperta poggiatasul tavolo.

Tutti ottengono denaro, informazioni epotere l’uno dall’altro, non c’è più nulla di certo.Così va il mondo e così continuerà ad andare.E io non sono altro che una ciglia posticcia chesi è staccata da un occhio della malavita e checontinua a restare aggrappata alla sua guancia.

Nel cimitero gli alberi crescono così alti e fitti

che il cielo sembra verde, le ombre qui dentro

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sono calde e danno il benvenuto. Come se mistessero aspettando. Ho un brivido. Il miopasso si fa agitato e irregolare, devo sforzarmiper proseguire.

La trovo quasi subito. Tra una fila di lapidi,uguali a qualsiasi altra lapide di qualsiasi altrocimitero, riposano i miei genitori. Davanti allatomba di famiglia crescono fiori ben curati,alcuni nei vasi, altri piantati in terra, tutti dicolore viola.

Il colore preferito di mia madre. Non ho laminima idea di quale fosse il colore preferito dimio padre.

Mi siedo davanti alla loro tomba, la terrasotto di me è fresca e asciutta. Stare qui mi dàla sensazione di sprofondare in acque senzafondo. Sulla pietra il nome di mio padre stascritto sopra quello di mia madre. Uniti perl’eternità. Vorrei non vedere il nome di lui ma miè impossibile, un po’ come è impossibiledistogliere lo sguardo durante le scene più trucidi un film dell’orrore. Per quanto ci si possaprovare, ci si sente costretti a guardare il peggiofino in fondo.

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Leggo il nome sopra quello di mia madre,Leonard Franke.

La terra intorno a me ha il colore del ferroarrugginito. I ricordi vanno e vengono. Non socosa fare delle mie mani, quindi tiro fuori unasigaretta e la fisso. Poi, come sempre, laaccendo con decisione. Il fumo della sigarettasale serpeggiando e sento che lo stordimentodel mattino comincia lentamente ad attenuarsi.

Di mia madre ricordo le cose più strane.Quando non lavorava non si toglieva mai didosso la vestaglia prima delle dieci del mattino.Le piaceva leggere biografie storiche e faresegni con la penna rossa quando le pareva chele fonti fossero poco chiare o imprecise. I suoicapelli odoravano di mentuccia e di gatto.

Aveva gli occhi erano vivaci, pozze dipioggia appena caduta. Quando erapreoccupata aveva l’abitudine di stringere tra lemani la sua collana preferita, una pietra nera aforma di cuore. Conservo quella collana in unascatola nera sotto il mio letto, proprio in fondocontro la parete.

Ricordo la sua voce e a volte non

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desidererei altro che distendermi accanto a leie sentire la sua mano che mi accarezza icapelli mentre mi sussurra frasi tenereall’orecchio.

Guardo la lapide un’ultima volta prima dialzarmi.

Ulrika Franke.Poi spengo la sigaretta sulla pietra, uccido il

mozzicone sul nome inciso di mio padre e mene vado senza voltarmi indietro.

Quando lascio il cimitero mi sento

stranamente sollevato, ho la sensazione chemia madre possa continuare a riposare ancoraun po’ senza preoccuparsi per questo suo figliosciagurato e per quello che fa per rovinarsi lavita.

Sulla strada di casa decido di comprare unregalo per Maria, ma non ho la minima idea dicosa prenderle. I vestiti sono esclusi, il miocervello conosce in tutto tre cose e la modafemminile non rientra tra quelle. Non vorrei fareuna stupidaggine, come comprarle un gioiello oqualcosa del genere. Vorrei soltanto

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dimostrarle che non ce l’ho con lei.Fiori. In effetti si tratta di una scelta patetica,

ma se evito di comprare rose bianche, i fiori nondovrebbero sortire un effetto negativo. Entro daun fioraio proprio accanto alla stazione dellametro. Il negozio non è più grande di unosgabuzzino e le pareti sono coperte di specchiin modo da sembrare più grande. Il truccofunziona, almeno un po’. Il profumo di centinaiadi fiori mi fa girare la testa. Dietro un banconedella misura più piccola possibile c’è unacommessa con gli occhiali viola e unacamicetta a fiori. I suoi capelli sono biondi comequelli delle attrici dei film anni Settanta ed ètalmente sovrappeso che le nocche della manoe i gomiti sono invisibili.

«Posso esserti utile?».Ha la voce di una gazza ladra affamata e

sembra insicura, come se avessi in mano unarivoltella e una bottiglia di whisky mezza piena.

«Non so», esito. «Avevo intenzione dicomprare dei fiori, ma non sono sicuro deltipo».

La commessa incrocia le due salsicce che

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ha al posto delle braccia e mi esamina da capoa piedi. Si esibisce in una serie di smorfiementre esamina quel bell’esemplare che èVincent Franke.

«Per chi sono i fiori?».Aggrotto le sopracciglia e il mio sguardo si

fa irrequieto.«Cosa si compra a una persona con la

quale non puoi parlare?».La commessa fa qualche altra smorfia e la

sua faccia rossa e spiegazzata mi fa pensare aun neonato sovrappeso e arrabbiato.

«Una gerbera, forse?».Dice qualcosa sull’origine della pianta, ma

mi gira troppo la testa perché sia in grado diascoltarla. Sto riprendendo coscienza del miocorpo e non sono affatto contento della cosa.

«Sì, sì, va benissimo».Evidentemente ho detto di sì a dei fiori rossi

che la commessa mi avvolge in qualcosa chesomiglia a carta da forno. Mentre esco dalnegozio mi raggiunge la sua voce.

«Senti? Posso darti un consiglio?».Faccio spallucce.

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«Sì, certamente».Mi scruta di nuovo da capo a piedi.«Fatti una doccia».Poi scompare spaventata dentro un buco

ancora più piccolo nella parete dietro ilbancone. Esamino me stesso in uno degliinnumerevoli specchi del negozio.

Devo ammettere che ho un aspetto terribile.I miei capelli neri e spettinati sono lucidi disporcizia e la pelle del volto è così pallida chesembra ritagliata da un foglio bianco.

Intorno agli occhi ho delle occhiaie che allaluce del negozio sembrano ancora più scure, ei vestiti che indosso sono luridi e pieni di terra edi qualcosa che preferisco non identificare. Nonfaccio una doccia e non mi cambio da quandosono uscito dal carcere. Puzzo di latte rancidomisto a urina e me ne vergogno.

Quel bell’esemplare che è Vincent Franke. Maria non riceverà mai i fiori dal nome che

ho già dimenticato.L’appartamento è vuoto, vuoto come

quando qualcuno è stato a casa tua e ti ha

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portato via qualcosa. Qualcosa a cui tieni, laprima cosa che salveresti se scoppiasse unincendio.

In quel momento ricevo un SMS da Marko ei fiori mi scivolano lentamente di mano,cadendo a terra.

«Grazie dell’aiuto. Ora è tutto a posto. Cisentiamo».

8 L’autore si riferisce alla favola I vestiti

nuovi dell’imperatore di Hans ChristianAndersen (n.d.t.).

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TREDICI Sento dei rumori. Frammenti di vetro che

piovono a terra. Un temporale in lontananza, ilsoffocante tramestio di tuoni che si avvicinasempre più. Ma non c’è alcun tuono. Il suonodel vetro viene dai denti che digrigno e i tuonisono lo stupido sangue che mi martella nellevene.

Irresoluto, ecco come mi sento. Amo questaparola ma è raro che abbia occasione diutilizzarla.

Mi tolgo i vestiti e li butto su un mucchio dialtri vestiti sulla tavoletta del water. Poi riempiod’acqua la vasca da bagno. Quando chiudo gliocchi mi appare l’immagine di Maria, ogni lineadel suo corpo, distesa nella vasca. Quieta.

Mi chiedo chi sia veramente.

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Se sia ancora viva.Quando mi immergo nella vasca l’acqua è

bollente. Sullo specchio dell’armadietto siforma uno strato di condensa. Scopro di avereuna capsula di morfina in mano e un momentoprima di ingoiarla i sensi di colpa mi colpisconocome un martello di piombo. I miei peli del pettoneri e bagnati si aggrappano alla pelle. Lostomaco è gonfio, costipato. Non vado di corpoda quando sono uscito di prigione. Guardo inalto verso la lampada bianca sul soffitto equando chiudo gli occhi è ancora lì, come sefosse rimasta inchiodata al mio cervello.

I miei pensieri corrono. Mi viene in menteuna frase dal sapore politico stampata su unamaglietta che avevo tempo fa, “l’amore vincerà”,ma non la sento più mia, alle mie orecchiesuona ormai solo come una brutta menzogna.Sto aspettando una salvezza che non arriveràmai.

Il tempo che passa per me è una

circostanza irrilevante. Il tempo non ha alcunvalore per chi è disperato. Mi torna alla mente il

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biglietto da visita di Pastor con le cifre in bellagrafia, il numero di cellulare, e presumo cheabbia qualcosa a che fare con tutto questo,quindi lo compongo. Le mani mi tremano edopo il bagno mi sento accaldato, disidratato eaffamato. Gli impulsi elettrici arrivano adestinazione.

«Vincent. Aspettavo la tua chiamata».Mi blocco la testa tra le mani come se

volessi impedirle di decollare. Non ho idea dicosa dire a Pastor.

«Ecco, sono rimasto sorpreso», gracchio,tentando di sembrare il più possibiledisinteressato. «Non si era detto unasettimana?»

«La faccenda si è risolta più facilmente diquanto mi aspettassi. Ora potrai tornare alla tuavita normale, se così la si può chiamare».

La sua voce è talmente vicina che hol’impressione che mi stia proprio accanto. Sto inpiedi in cucina, fatto e nudo, e sento il bisognodi piangere.

Recupero i fiori da terra e me li rigiro tra lemani mentre considero la possibilità di chiedere

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a Pastor se ha intenzione di sparire dallacircolazione, più che altro per vedere comereagisce.

«Per pura curiosità», faccio. «Com’è che èarrivata da queste parti, in Svezia?».

Pastor scoppia a ridere. Mi figuro i suoi dentie un martello che li spezza come fossero divetro.

«Niente domande cretine, Vincent. Non èuna cosa degna di te».

Ma io non sono degno di nulla. Non parlopiù, ma sono piuttosto certo che Pastor sia ingrado di leggere i miei pensieri.

«Non fare idiozie», dice. «È andata comedoveva andare».

Resta in silenzio il tempo di un battito dicuore e quando parla la voce è una lamaaffilata, un movimento fulmineo che richiamal’immagine del sangue.

«Altrimenti andrà a finire male».«Va sempre a finire male comunque».«Forse ho un lavoretto per te», dice Pastor

come se non mi avesse sentito. «Ti richiamodomani».

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Interrompe la conversazione e io rimango lì,irresoluto e nudo, fatto, con il telefoninopremuto contro l’orecchio, a ricordare gli occhidi Maria, scintille nell’oscurità.

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QUATTORDICI Era stato a causa della violenza,

dell’aggressività che mi assaliva a ondate esenza preavviso, che Felicia non aveva piùvoluto avere niente a che fare con me.

Non ricordo quando la cosa ha avuto inizio.

Forse è sempre stato così. Allo stesso modo incui alcune persone sin alla nascita rientrano incerte categorie considerate vulnerabili dalpunto di vista medico, forse l’aggressività èsempre stata scritta nel mio DNA, anche se ho imiei dubbi al riguardo. Il destino non è giàscritto alla nascita. Viene scritto e riscritto nellepersone a ogni respiro, ogni giorno della lorovita. Il fattore sociale è l’unico elemento a cuil’uomo possa far riferimento o a cui può

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attribuire la colpa.Visione a cannocchiale9 . È così che me la

immagino, una specie di visione acannocchiale che impedisce di vedere ogniazione eccetto quelle distruttive. Non c’era maila volontà di far del male, solo quella di agire.

Me lo ricordo sin da quando ero piccolo. Ero

un bambino quieto e silenzioso. All’asilo lemaestre annotavano lo sviluppo di tutti ibambini e ricordo che di me scrivevano che eromolto silenzioso. Ma anche che, nelle occasioniin cui mi sentivo sotto pressione o preso in giro,mi capitava di reagire con esplosioni di rabbiaincontrollate. Urlavo, piangevo e mi mettevo atirare giocattoli. Poi, improvvisamente, michiudevo di nuovo in me stesso, come sequalcuno avesse premuto un interruttore.

«Sono i bambini introversi quelli chebisogna tenere d’occhio», dicono talunisedicenti esperti. E a volte può essere vero. Mamentre tieni d’occhio il ragazzino silenziosopuoi star sicuro che uno di quelli rumorosi tipunta una pistola giocattolo alla schiena. Ecco

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come stavano le cose.La situazione non peggiorò quando

cominciai le elementari, sebbene moltiritengano che sia così che accade, ma neppuremigliorò. Le cose rimasero semplicemente tali equali. Le crisi continuavano a manifestarsi aintervalli, quando venivo contraddetto o quandoqualcuno mi provocava, ad esempio dicendoche i miei genitori erano strani. Ero capace direagire colpendo la spalla di quel qualcuno conuna mazza da bandy10 o tirandogli addosso unlibro pesante.

Passata la crisi stavo malissimo e provavovergogna per quel che avevo fatto. Si potrebbepensare che questi attacchi mi capitasserospesso, ma non era così. Al massimo una voltaogni due mesi e in ogni caso le maestre non viattribuirono mai particolare importanza, inoccasione degli incontri con i genitori neparlavano come di una sciocchezza. Larappresentante scolastica sorrideva a mammae papà e vi accennava di sfuggita.

«Non è niente di grave, sono cose senzasenso che fanno i bambini quando litigano».

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Così diceva, senza rendersi bene conto dellasituazione. «Di certo non rappresenta ungrosso problema, a ogni modo vi terrò informatise dovesse capitare di nuovo».

Come avrei appreso in seguito, la violenzaha sempre un senso. La violenza siaccompagna all’odio, al dolore, al pentimento,e ha sempre un significato.

Ma nessuno lo dice ora e nessuno lo dicevanemmeno allora.

Ragion per cui le cose sono rimaste tali equali.

Con il tempo ci sono stati dei cambiamenti

apparenti, ero più calmo, probabilmente perchénon venivo più preso in giro e non mi sentivomesso all’angolo. I bambini possono esserecrudeli nei confronti degli altri bambini, maquesto atteggiamento scompare con il tempo,almeno a livello di manifestazioni esteriori.Tuttavia, quando un problema di fondo non èstato effettivamente superato, gli impulsinegativi migrano verso l’interno e ti rimangonodentro. Forse nel mio caso si trattò di un

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processo di questo tipo. Con l’aiuto dellamorfina imparai a indirizzare quelle emozioniverso me stesso.

Continuavo ad avvertire un’insensata formadi pentimento, ma almeno non aggredivo più glialtri. Non che provassi una continua tendenzaall’aggressività. Semplicemente non sapevocome gestire certe pulsioni.

Un pomeriggio, nel corridoio del liceo, micapitò di sentire tre ragazzi dare della puttana aFelicia, la più bella puttana della scuola.

Quel genere di espressioni che può capitaredi sentire in una scuola e alle quali di solito nonsi reagisce. A meno che la persona inquestione non sia tua sorella oppure l’unicoessere al mondo in grado di comprendere i tuoisentimenti.

Presi la rincorsa puntando alla schiena diuno di loro e gli piazzai la spalla tra le scapole.Sentii qualcosa spezzarsi e la spinta fecevolare a faccia avanti il ragazzo, che finì perassestare una testata all’amico sghignazzanteche gli stava di fronte. Purtroppo, ma questo lovenni a sapere solo in seguito, quella testata

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provocò un notevole danno all’incisivo del tizioche se la rideva fino a un istante prima, equell’incisivo, a sua volta, determinò unafrattura della scatola cranica del primo ragazzo.

Prima che riuscissero ad abbozzare unareazione feci anche in tempo ad assestare unpugno in faccia al terzo tipo, un colpo che micausò una frattura alla mano.

I tre urlavano piegati in due dal dolore, chi ciavesse visti dall’alto avrebbe potuto pensare aun fiore di cui loro erano i petali e io il centro.

Poi, mentre cercavo di picchiarli ancora,senza tuttavia riuscire a colpire altro che le lorobraccia, arrivò gente nel corridoio e qualcunomi sbatté a terra urlandomi «stai calmomaledetto idiota!».

Quando riaprii gli occhi intorno a me si eraformato un cerchio di gente, notai un paio diConverse nere e sporche. Scorrendo losguardo lungo quelle gambe dal basso versol’alto mi resi conto che certe volte non c’èniente di peggio di un viso familiare.

Solo una o due settimane prima Felicia e io

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ce ne stavamo seduti sui gradini dellaKonserthuset a Hötorget. La sera era fresca,nella piazza non c’era nessuno e tutte le stelledel cielo brillavano.

Avevamo preso l’abitudine di ripeterequesto genere di brevi incontri la sera tardi, conuna curiosità e un’esitazione che da allora nonho mai più provato.

Avevamo cominciato ad avvicinarci.Attraverso le nostre frequenti e lunghechiacchierate al telefono e i nostri appuntamentisi era venuto a creare un legame tra di noi. Unarelazione celata da ombre che noi stessicreavamo per nasconderci allo sguardo delmondo circostante. Se qualcuno mi chiamavaper chiedermi di andare a una festa inventavouna balla. Rimanevo sempre più spesso acasa. Era sempre lei a chiamarmi. Chissà se hamai provato qualcosa nei miei confronti. Con iltempo mi sono convinto di no, dovevo essermiinventato tutto quanto.

Felicia mi passò la sigaretta che stavamodividendo. Mi era difficile evitare di guardarla.

«Odio veramente la violenza», disse

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improvvisamente. «Sono, come si dice...»«Pacifista?»«Sì, precisamente».«Capisco», risposi prendendo una boccata

di fumo. «Per me è lo stesso».«Ti è mai capitato di picchiare qualcuno?».Avrei voluto toccarle la mano e feci un altro

tiro prima di passarle la sigaretta. Nel prenderlail palmo della sua mano sfiorò il dorso dellamia.

«No», risposi. «No, non l’ho mai fatto».La menzogna mi bruciava nel petto mentre

Felicia soffocava la sigaretta sotto una dellesue Converse nere.

Era l’inizio della fine. 9 Restringimento del campo visivo

provocato da un danneggiamento del nervoottico. In genere questo effetto è laconseguenza di una patologia della retina(n.d.t.).

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10 Sport invernale simile all’hockey sughiaccio, diffuso soprattutto in Scandinavia, chesi gioca con una speciale mazza (n.d.t.).

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QUINDICI Quel giorno non rividi Felicia, e quando la

sera mi chiamò le cose peggioraronoulteriormente.

Poi migliorarono un po’, ma un paio di giornipiù tardi avvenne una rottura troppo graveperché fosse possibile rimediare.

Quando Felicia mi chiamò, io avevo un granmal di testa. Mi chiedevo se quei tre idiotiavrebbero sporto denuncia alla polizia e, in talcaso, cosa avrei potuto fare per convincerli aritirarla. Più tardi venni a sapere che non miavevano denunciato. Non so perché, forsepensavano che avessi già abbastanza problemiper conto mio. Oppure, più probabilmente, nonlo fecero perché non volevano che si sapessela ragione per la quale li avevo picchiati. La

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causa del mio mal testa era dovuta altrattamento che avevo subito dopo l’incidentenel corridoio della scuola. L’unica cosa cheavrebbe potuto darmi sollievo era la morfina,ma mio padre si era barricato nel suo studioprima che tornassi da scuola, per cui non avevomodo di entrarci.

«Pronto», feci a bassa voce. Lei nonrispondeva. Il telefono restituiva un silenziodoloroso. «Pronto?»

«Sì». La sua voce era dura, chiusi gli occhi.«Scusa», dissi.«Di cosa?»«Lo so che tu non... hai detto che odi la

violenza».«È vero».«Anch’io», risposi con un filo di voce. Era la

verità. E infatti odiavo me stesso, nelleoccasioni in cui non riuscivo a controllarmi.

Mi raccontò che era venuta a sapere ilmotivo per cui avevo picchiato i tre ragazzi eprese fiato per aggiungere qualcos’altro, ma poilasciò perdere. Io non parlavo.

«Mi hai fatto pensare a mia madre», disse.

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«Il fatto che tu mi abbia fatto pensare a lei mi hamesso addosso una tristezza infinita».

«Scusa», dissi di nuovo, con un groppo ingola.

«Devo poter... devo potermi fidare di te.Capisci?»

«Sì».«Non puoi comportarti così. Non è stato

bello né eroico. Io non ho bisogno di undannato idiota che si mette a combattere perme, me la cavo bene da sola. La tua reazione èstata patetica. Come se tu non fossi neancheun po’ meglio di mia mamma o... o di tuopadre».

In quel preciso attimo, dopo quel paragone,avevo voglia di buttare giù la cornetta e di nonsentire mai più la sua voce. Ma mi controllai enon lo feci. Di sicuro Felicia era consapevoledegli effetti che quella frase avrebbe avuto su dime. Credo fosse una sorta di prova.

«Me ne rendo conto», dissi invece.«Raccontami qualcosa», chiese con un tono

improvvisamente più allegro.«Cosa vuoi che ti racconti?»

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«Qualsiasi cosa. Basta che mi raccontiqualcosa. Mi piace quando mi racconti dellecose».

A quelle parole chiusi di nuovo gli occhi, maquesta volta un enorme, rasserenante sollievosi era diffuso nel mio petto.

Il club S era un locale clandestino tra i

quartieri Hornstull e Zinkensdamm, gestito datre poco di buono sui diciott’anni. Vendevanobirra, hascisc e anfetamina in un angolonascosto, dietro un tavolo basso come unbanco delle scuole elementari. Era il tipo diposto frequentato dai sedicenni e da chi avevavoglia di divertirsi senza dover passare la serain un parco grigio come una giornata di ottobrebevendo birra che si freddava al punto da farperdere la sensibilità alle dita.

Oltrepassato il portone, una scala achiocciola (alla quale il locale doveva il suonome) conduceva giù al club. Il fumo dolciastroe intenso si spandeva in pesanti volutegrigiastre verso il soffitto mentre gli altoparlantimuggivano l’ultimo singolo degli Oasis.

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Avevo appena sgranocchiato una capsuladi anfetamina per svegliarmi e la mia mascellamasticava in maniera misteriosa, come sestessi cercando di macinare dei sassolini con identi.

Non mi sarei dovuto trovare là. Ma eravenerdì, avevo sedici anni e, non avendochiesto a Felicia cosa avrebbe fatto durante ilweek-end, non avevo alternative. Con ilpassare del tempo diventava sempre piùdifficile controllare i pensieri. L’intricata rete dinei e lentiggini sul petto di Felicia mi erarimasta impressa nella mente e quandochiudevo gli occhi rivedevo quella miacostellazione personale. Il suo viso eraattraversato da due linee che le correvano daciascun lato del naso fino agli angoli dellabocca e che diventavano profonde quandosorrideva o rideva.

I piccoli dettagli che nessun altro nota e checi fanno innamorare.

Comprai una birra dai ragazzi dietro il bancodi scuola e mi misi per conto mio in un angolo.Gli Oasis erano stati sostituiti dai Suede, seguiti

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dai Red Hot Chili Peppers e quindi dai BroderDaniel. Avevo finito la mia birra e l’anfetaminaaveva reso la mia lingua del tutto insensibile algusto. Era cupamente intorpidita come sedormisse e io me ne stavo semplicemente lì,con lo sguardo fisso, a tentare di sentire i denticon la lingua senza riuscire nell’impresa.

Tra le schiene e i capelli, nell’odore di birraversata e il fumo di hascisc, notai due profili. Unragazzo e una ragazza. Lui la tirava per lebraccia e cercava di abbracciarla in modo datrattenerla. Sembrava che lei cercasse didifendersi ma che fosse troppo ubriaca perfarcela. Non potevo sentire cosa si stavanodicendo, vedevo le loro labbra muoversi, quelledi lui in modo suadente e quelle di lei rigide,come per tenerlo a distanza.

La ragazza alzò lo sguardo e, nel voltare latesta verso sinistra, il suo sguardo si fissò nelmio.

Il ragazzo abbassava le mani sul suosedere, mentre le premeva la sua faccia controil collo.

Mi resi conto troppo tardi che lei era venuta

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in quel posto per incontrare proprio me. Avevasentito dire che mi sarei trovato lì.

A seguito di quell’incontro il ragazzo ebbe

problemi all’udito per un bel po’ di tempo. Nonricordo bene cosa successe ma mi spezzai dueossa della mano, suppongo di avergli assestatouna bella botta alla tempia. Non ricordo bene.

I gestori del locale si fecero aiutare da duegrossi bisonti sorprendentemente somiglianti aBill e Bull per trascinarmi fuori. Felicia rimasenella penombra a guardare mentre miportavano via, con un’espressione infinitamentetriste dipinta sul suo viso dolce.

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SEDICI Pastor mi chiama il giorno dopo mentre sto

incassando quattro biglietti da cinquecento daun tossico schizzato. Lo vedo da più di un annoe ancora non conosco il suo vero nome. Ognivolta che ci incontriamo usa uno pseudonimodiverso. Non è più alto di un bambino e sulleunghie porta uno smalto blu cielo. Lo squillo delcellulare lo fa sobbalzare, e scompare tra leombre del parco Fatbursparken.

Non mi sento affatto bene e sudo come unmaiale, troppe sigarette e troppo poca morfina.Sono nervoso, preoccupato per Maria. Fa maleammetterlo ma sembro un pagliaccio. Tutti imiei vestiti sono sporchi, tranne quelli che hotrovato in una busta di plastica dei tempi in cuifumare le sigarette faceva ancora bene alla

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salute. Li ho indossati, mi sono guardato e hoiniziato a sospirare. I pantaloni sono troppolarghi, per tenerli su mi serve la cinta. La giaccaè troppo corta, le mani penzolano come pesciappesi alla canna da pesca e le scarpe troppolunghe puntano in avanti come un paio di sci.Sono pallido come un cadavere, un pagliacciogiocattolo defunto pronto a essere lavato eriposto in un cassetto dove verrà dimenticato.

Il mio telefonino squilla.«Pronto?». Per qualche ragione rispondo

ansimando.«Ho bisogno di un autista stasera, amico. Il

mio sta male».«Sta male?».Dalla voce immagino che Pastor se ne stia

rilassato in poltrona, occhi socchiusi e unsorrisetto arrogante dipinto sulle labbra.

«Aveva le mani leste. Adesso le mani non leha più e sai com’è, diventa molto più difficiletenere il volante e cambiare le marce, senza».

Deglutisco rumorosamente e mi guardo lemani.

«Dove vuoi che ti porti?»

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«Non me, Vincent. Due spogliarelliste».Capisco di cosa si tratta. Una volta, tanto

tempo fa, una spogliarellista imbrogliò ancheme. «Ma non ho la patente», rispondo io. «Soguidare, ma non mi sembra comunque unabuona idea farlo senza patente».

«Per uno con i tuoi contatti non sarà unproblema trovare un autista con la patente, veroVincent? Alle undici, davanti al Diérs. Allamacchina pensiamo noi».

Riattacca e capisco che sta chiudendo gliocchi. Ho la lingua secca, qualcuno me l’hatagliata e l’ha scambiata con un pezzo di legno.Sospiro, conosco solo una persona con lapatente che accetterebbe un lavoro del genere.La persona che meno di tutte ho voglia diincontrare. Quando chiamo Jack, al posto delcellulare mi sembra di tenere in mano unserpente velenoso.

La sera è fredda. Davanti al Diérs passa

una macchina, una Saab rosso scuro con unadonna al volante e dei bambini sul sedileposteriore. Nella penombra dell’abitacolo

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intravedo le labbra della donna,abbondantemente dipinte con un rossetto colorruggine.

Il suo viso è immerso nel sangue. I bambinisul sedile posteriore sono ombre imprigionate,sussurri torturati. Premono le mani contro ifinestrini, i volti piagati dall’isolamento e dallasolitudine.

Mi stropiccio gli occhi e i bambini tornanonormali. Se ne stanno seduti sul sedileposteriore ciascuno con il proprio libro. Ladonna è la loro mamma, nella mia testaqualche ingranaggio è saltato.

Il Diér Club è conosciuto semplicementecome il Diérs e ha un elegante insegnaluminosa blu scuro.

All’ingresso cordoni rossi e un buttafuori piùgrosso di Hulk con le braccia incrociate sulpetto, probabilmente fa colazione con un piattodi scorpioni. La sua testa rasata riflette la lucedell’insegna.

All’interno del locale i bassi iniziano arimbombare come i battiti di un gigantescocuore. Il Diérs ha appena aperto e nessuno è

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tanto disperato da essere già qui. Maarriveranno.

Aspetto dall’altra parte della strada, misforzo di rimanere cosciente. Dato che non saròio a guidare sono andato su di giri. Troppo.

Barcollo e mi viene da ridacchiare. Miimpegno per non perdere l’equilibrio.

Una macchina sportiva nera mi si avvicinalentamente e accosta.

Il motore fa le fusa come un gatto. L’uomoche esce dalla macchina ha la visiera delcappellino talmente abbassata che non riesco aintravederne le sopracciglia.

«Vincent?». Pronuncia il mio nomeViintzent.

«Sì?».I miei movimenti sono rallentati, la chiave

che lancia verso di me mi colpisce la guancia ecade in terra.

«Scusa». Pronuncia Szcusza. Poi mi dà lespalle, abbassa la visiera ancora di più e infilale mani nelle tasche della giacca. Scomparenel buio in direzione di Odenplan, mi chiedo sesappia dove si trova Maria. Valuto l’ipotesi di

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pedinarlo ma mi rendo conto che sicuramentemi farei scoprire.

Raccolgo la chiave e la esamino. In realtànon è una chiave ma una spessa schedaplastificata. Questa non è una Volvoqualunque. La macchina brilla, di sicuro costaquanto un piccolo appartamento.

«Ciao cazzone».Quella voce cupa e gorgogliante e una

mano pesante sulla spalla mi fanno sobbalzare.È irritante, non voglio farmi trovare agitato.

Jack non sembra contento di vedermi. I suoiocchi sono neri, quando gli passo la schedaplastificata la esamina come se gli avessimesso in braccio un bambino con tre occhi. Èsu di giri anche lui.

«Sei in grado di guidare, Jack?»«No. Non ancora».Aggrotto le sopracciglia, mi domando se

posso fargli una ramanzina senza che mirompa il naso. Probabilmente no.

Mi tende la mano.«Non prima di aver ricevuto la mia

ricompensa», sibila.

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Esito.«Te la do se prometti di non prenderti più

niente fino a quando abbiamo finito».Jack sembra soppesare la proposta. Non

riesco a vedere bene il suo volto, scorgosolamente ombre e cicatrici. Se mi facesse lalinguaccia non me ne accorgerei.

«Certamente».Gli allungo un sacchetto di eroina grande

come una confezione di sementi da fiori.«Cinque grammi?». Studia la bustina con

espressione offesa.«Hai la mia parola».Jack sbuffa.«Che per me vale meno di zero». Mi siedo in macchina e aspetto. C’è un forte

odore di pelle nuova e la tecnologia èall’avanguardia. Chiudo gli occhi.

Il sedile è talmente comodo che dopotuttonon sarebbe così tragico se Jack uscisse distrada e ci ammazzasse tutti. Ci sono modipeggiori di morire.

Sento il suono scandito di tacchi sull’asfalto

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e della porta posteriore che si apre.«Signore», sento dire a Jack. «Benvenute».Non capisco se il tono sia sinceramente

cortese oppure canzonatorio.Mi riesce difficile pensare che Jack abbia

più rispetto per le spogliarelliste che per glispacciatori.

Quando si siedono in macchina non mi gironeanche. Nello specchietto retrovisore vedodue acconciature bionde fonate e due paia diseni tanto grandi che sembrano esplodere nellecamicette bianche con la scritta “DIÉRS” alettere nere che entrambe le ragazzeindossano. Le bretelle sottili come strade suuna carta stradale e le spalle scuritedall’abbronzatura artificiale.

«Siete i nostri autisti, vero?», domanda unadelle due.

«No, i vostri genitori. Che cazzo ticredevi?».

Jack alza i suoi occhi da rettile verso il cielo,me lo immagino con la lingua biforcuta, piùserpente che uomo.

«Chissà quanto ci sarà da divertirsi», fa una

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in tono sarcastico e concordo pienamente conlei. Sembra annoiata, il timbro della voce mi èfamiliare ma sono troppo stanco per curarmene.Jack inserisce la scheda plastificata in unafessura a destra del volante.

«Dove si va?», chiede scorbutico.La destinazione è un club a Stureplan. Tutta

questa situazione ancora non mi convince.«Sei sicuro di essere in grado di guidare?»«Chiudi il becco».Jack mette in moto la macchina, poi fa

bruscamente retromarcia su Odengatan senzausare gli specchietti retrovisori. Gli faccio notareche è senso unico e che sta andando nel sensodi marcia sbagliato ma mi risponde conun’alzata di spalle.

Il gioco è molto semplice. Nessuno sa chi

sia realmente il proprietario del Diérs, forsePastor ma probabilmente no.

Ci paga per portare in giro queste duespogliarelliste in tre o quattro locali a pescare iclienti giusti per il Diérs. Loro entrano,rimorchiano oppure si fanno rimorchiare da

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uomini troppo brutti, troppo ubriachi o troppotimidi per prendere l’iniziativa. Un sorrisoseducente, un’occhiata ammiccante. Una manosul petto, i seni contro il suo braccio o magarinella sua mano.

E poi un sussurro, una lingua umida cheesegue la sua abile danza sul lobo di lui. Chesi immagina già il sapore di quella lingua inbocca, sul petto, sul membro.

«Ci vediamo al Diérs», gli sussurra lei.Lui paga cinquecento corone di ingresso

per vederla ballare. Ammesso che la trovi là, tral’altro.

Funziona meglio di quanto si pensi. Parolamia. Lo so per esperienza. Una brunetta con ildialetto dello Skåne e le caviglie sottili, la manofresca sulla mia fronte sudata per la cocaina, lesue dita tra i miei capelli. Gli occhi da reginadell’antica Grecia. Pensava di adescarmisemplicemente con una proposta fetish e miaveva chiesto se avessi mai indossato dellecalze a rete.

«Una volta», le risposi. «Sopra la faccia. Peruna rapida... visita a un chiosco».

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Non credo abbia capito. È andata che pagaiprima cinquecento corone di ingresso e poialtre cinquemila per un’ora di show privato. Lamia serata si concluse sul marciapiede con unasigaretta in bocca dopo che il suo ragazzo, ilbarista, mi aveva pestato di brutto perché leavevo proposto, in maniera discutibilmentegalante, di tornare a casa con me. Le suenocche erano come zoccoli di cavallo e lesapeva piazzare con grande precisione nelbasso ventre. Pisciai sangue per unasettimana.

Ce ne stiamo in macchina in silenzio. Lo

sguardo di Jack vaga sulla strada di fronte a noie il locale a Stureplan splende nella notte comeun diamante fasullo. In giro passeggia genteinsonne. Sono stufo di stare in macchina. Sentola pelle tesa come se contenesse due persone,e mi prude, sono convinto che tra poco vedròdelle formiche cadere giù dalle maniche dellamaglietta.

«Devo fumare».Jack mi guarda come fossi un cane che

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abbaia senza motivo apparente.«E allora fallo», dice atono, con lo sguardo

fisso sul volante.«Ancora non mi è arrivato l’accendino».«Sei il cazzo di fumatore più sfigato del

mondo».Jack sembra faticare molto per estrarre

l’accendino dalla tasca. È come se ognimovimento gli procurasse dolore e, quandoinfine me lo porge, ansima come un vecchio.

«Grazie».Esco chiudendo la porta, e vedo la mia

immagine riflessa nei finestrini. La mia pelle halo stesso colore poco sano che hanno i muribianchi della stanza di un fumatore. La notte diStoccolma è carica di aspettative, vibrante.

Odore di smog e lacca per capelli, l’aria èumida e fredda. Faccio un paio di tiri ma inrealtà non ne ho voglia, rientro in macchina.Sembra che Jack dorma ma so che i suoi occhisono aperti, vigilano.

«Finché ce n’è conviene godersela»,mormora.

«Che?»

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«Niente».Soppeso una domanda sulla punta della

lingua.«Cosa sai di Pastor?».Jack sbircia verso di me prima di tornare a

sorvegliare la strada. La mano nella tascasicuramente sta giocherellando con la bustinadi eroina.

«Lascia perdere, Vincent».«Che cosa?».Jack preferirebbe saltare fuori dalla

macchina e sdraiarsi sull’asfalto piuttosto cheproseguire la conversazione.

«Lei non c’è più, so che è dura. Ma lasciaperdere».

Il suo fiuto per le intenzioni delle persone èquello di un cane poliziotto per l’eroina.

«È colpa sua se ci troviamo qua», faccio io.«Voglio solo sapere chi è».

Jack sospira.«Hai mai sentito l’espressione bad

motherfucker?», mi chiede.«Sì».«Ecco, Pastor è un bad motherfucker, e con

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questo non intendo che non è bravo a scoparsila madre, ma che è un bastardo scaltro e senzascrupoli. Sfrutta i falliti come te facendovicredere che contate qualcosa. Poi se nesbarazza. In un modo o nell’altro».

Sono piuttosto sicuro che Jack abbia fattoaffari con Pastor e che ne abbia paura. Mi vienedi nuovo voglia di fumare ma mi trattengo. Misento come se avessi una pasticca in gola.Ingoiare morfina per me è diventato un riflessoincondizionato, non ci penso neanche piùmentre lo faccio. Mi balena alla mente la miainfanzia, quasi mi pare di sentire quel dolorealle costole, mio padre sopra di me con unbicchiere d’acqua e la mano aperta.

«Si dice in giro che è a capo della bandadei vigilantes. Che è lui quello che gestisce isoldi».

La banda dei vigilantes. I media ne hannoparlato molto. I giornali ne scrivono come fosseun romanzo a puntate. Rapinano banche aStoccolma e dintorni travestiti da guardie.Nessuno sa che fine faccia il bottino.

«La banda dei vigilantes», borbotta. «Che

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cazzo di nome per un paio di rapinatori».Mi passo la lingua sulle labbra, le sento

screpolate dal freddo.«Sai se sta partendo per andare da qualche

parte?».A questa domanda annuisce lentamente.«Così dicono. Ma nessuno ne sa niente».«Dov’è che va?»«Non ne ho idea, ma pare che starà via

per... un periodo di tempo indefinito».«Chi lo dice?»«Fregatene di chi lo dice».«C’è un collegamento tra la banda dei

vigilantes e la partenza di Pastor?»«Chiudi il becco, Vincent».«Lo conosci?».Jack si lascia sfuggire una risata che

sembra quella di un ottantenne con i polmonipieni di catrame.

«Allora sei un bastardo cocciuto... e nellasituazione in cui ci troviamo non c’è cosapeggiore. Non provare a chiedermi quanto èlontana la Norvegia. Se lo fai ti pesto».

Mi chiedo se Maria si trovi in Norvegia.

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Chissà se è viva.Le due spogliarelliste escono dal locale,

stavolta è il mio turno di aprire loro la porta. Misento come un cameriere ubriaco la sera dicapodanno. Il mondo ondeggia come unacanoa e per poco non cado in acqua. Lespogliarelliste non sono che la copia l’unadell’altra, sembra che siano uscite dalla paginacentrale della rivista «Slitz» per entrare inquesta macchina.

La notte è ancora giovane.

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DICIASSETTE Con il tempo i ricordi si frammentano. I pezzi

cadono nell’ordine sbagliato e il puzzle non sicompone. La superficie del tavolo risplendeattraverso i buchi dove volti e avvenimentidovrebbero giacere in maniera ordinata. Misento preso in giro.

Mio padre fu la seconda persona morta che

mi capitò di vedere.La prima era stata una ragazzina di dodici

anni, investita su Klarabergsgatan sotto un solecosì grande che mi sembrava potesseesplodere in qualsiasi istante.

Di ombra in giro quasi non ce n’era.Stavo andando in un appartamento a

Hötorget, correva voce che un profugo

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iugoslavo vendesse alcolici di contrabbando aventi corone il litro. Ricordo la madre dellaragazzina. Si precipitò in strada per strappareciò che restava della figlia da sotto l’autocarroche continuava a ruggirle davanti come unmostro.

Le lacrime della madre cadevano sul voltodella figlia mischiandosi al sangue. Laragazzina indossava un vestito bianco con unmotivo di fragole e macchie di gelato alcioccolato. Avevo sedici anni. Ogni amore è uncancro che rende la vita fragile e la finedefinitiva.

Ricevetti il mio primo bacio a quindici anni,

il primo pompino a quattordici. Si chiamavaCamila ed era cilena.

La sua famiglia era molto cattolica,immagino che inginocchiarsi davanti a medurante una puntata di Beverly Hillsrappresentasse per lei un gesto di protestacontro le rigide regole familiari.

Non ci conoscevamo granché. Avevamoun’ora di buco a scuola, era inverno e il cielo

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pareva una coperta sporca. I volti dei passantierano bianchi come cadaveri. Camila iniziò alavorare il mio membro gonfio di ormoni.Sembrava nata per fare quello. Ricordo i suoicapelli scuri sulle mie cosce pallide e pelose.Brandon e Dylan litigavano in TV, mi tornano inmente l’inverno grigio e il silenzionell’appartamento.

Lasciò che le venissi in bocca e per quellole dissi che la amavo. Avevo quattordici anni.

Ne avevo dodici quando, per la prima volta,

mio padre mi trattò come uno dei suoi pazienti.Mi aveva spinto contro lo spigolo di un tavolocon tale forza da rompermi tre costole.

In sottofondo una puntata di E.R. I medicisvedesi guardavano con grande interesse leprime serie TV americane ambientate negliospedali.

Respirare mi faceva male, come se le miecostole fossero di porcellana frantumata e ognirespiro allargasse le incrinature. Mi rintanainella mia stanza con la coda tra le gambe, latesta annebbiata dal dolore. Io, lo stupido

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dodicenne, per la prima volta mi ponevodomande sulla malvagità umana.

Poco dopo mio padre entrò nella miacamera. L’odore di whisky lo avvolgeva comeuna sciarpa.

«Fammi dare un’occhiata, Vincent».Mi tolsi la maglietta con cautela e la misi sul

letto. Le sue mani erano fresche come lenzuolaappena lavate. Non erano le mani di un padrequelle che mi toccavano, erano le mani di unmedico.

«Perdonami», disse con un filo di voce.Mi disse che non era niente di grave, che

questo genere di cose si metteva a posto da sé.«Però mi fa male. Malissimo».«Torno subito», sussurrò accennando un

sorriso.Uscì e lo udii cercare freneticamente

qualcosa nel suo studio dalle pareti tappezzatedi libri, diplomi incorniciati e fotografie di untempo in cui il mondo era bianco e nero.

Avevo dodici anni e non mi ero mai rotto unosso prima. Ero sicuro che sarei morto.

Mio padre tornò con un bicchiere d’acqua e

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una compressa bianca.«Questa ti aiuterà a dormire».Era straordinaria la sua capacità di passare

dalle cure amorevoli all’ira, dalla calmaall’angoscia. Ingoiai la compressa e di lì a pocomi accorsi che qualcosa stava cambiando inme. Mi pervase la sensazione surreale che nonpotesse accadermi mai nulla, che ogni cosa sisarebbe sistemata, tutto sarebbe andato bene.Il dolore scivolava via come lo sporco sotto ladoccia. Tutti i colori erano diventatistraordinariamente intensi, come quando ci si èappena svegliati da un sonno profondo. Misentivo libero e al sicuro, un rapace che volavain alto nel cielo. Indistruttibile. Etereo. Eterno.

Per la prima volta avevo sperimentato glieffetti della morfina. Da allora ne ho fatta distrada, l’anfetamina mi ha sostenuto negli studi,ho fumato eroina in appartamenti vuoti inperiferia e ho preso benzodiazepine in localinotturni sordidi e rumorosi. Tuttavia, come perun destino ineluttabile, sono sempre tornatoalla morfina.

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DICIOTTO Volge le spalle a Birger Jarlsgatan mentre

guarda attraverso una delle vetrine morte.Quando le passiamo accanto, in mezzo a unafila di taxi, si volta e ne intravedo il profilo.Capelli neri, un borsone rosso sangue e stivalicontro il freddo.

«Fermati».Mi accorgo che sto gridando e che la mia

voce è stridula come quella di un adolescenteche manda a quel paese il padre.

Jack non fa in tempo a pensare. Le ruotestridono sull’asfalto quando blocca la macchinadi colpo.

«Ma che cazz...?», sibila.Ma io ho già aperto la portiera. Sento le

orecchie pulsare furiosamente, il mio cuore è

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un sacchetto pieno di veleno. Sono su di giri efrastornato, il mondo gira e appoggio male ilpiede. Un vago dolore attraversa i miei nerviparzialmente anestetizzati, mi trascino fuori. Lamacchine in fila dietro di noi ci dedicano unfurioso concerto di clacson.

La gente mi fissa, sono disperato.Corro verso di lei, che nel frattempo ha

proseguito verso Kungsgatan. I suoi movimentisono rilassati ed eleganti.

Urlo il suo nome ma non reagisce, la miavoce annega tra le macchine. Il suono deiclacson è quello delle sirene chepreannunciano i bombardamenti, l’irritazionedegli automobilisti è più che evidente. Miaspetto quasi che qualcuno scenda perprendermi a pugni.

Ho la visione a cannocchiale, i contornisono indistinti. La raggiungo zoppicando e leafferro il braccio. Mi sento come in quei film perbambini in cui il protagonista si rende conto chesta per succedere qualcosa di straordinario, dimagico.

«Maria».

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Si irrigidisce e si gira verso di me, mi scruta.Per un attimo è lei. Le sue pupille sono duebuchi neri.

«Chi sei?», grida spaventata. «Lasciami».Prova a liberarsi dalla presa ma la mia

mano è una morsa d’acciaio. Davanti ai mieiocchi Maria si trasforma in una persona priva diimportanza. Sono deluso. Questa donna miricorda Maria ma è più grigia, più ordinaria. Neisuoi occhi manca la scintilla che vedo in quellidi Maria. Allento la presa, lei si libera e siallontana rapidamente.

La gente continua a fissarmi. I clacson mistanno anestetizzando le orecchie. Zoppico finoalla macchina.

La portiera è ancora aperta, sprofondo nel

sedile desiderando solo di volatilizzarmi. Ilpiede mi fa un male del diavolo.

«Vincent», sospira Jack.Mi giro verso di lui, il suo viso è

inespressivo e grigio come uno zerbino.Una delle spogliarelliste lancia un urlo

quando un mattone mi centra la guancia

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mandandomi a sbattere contro la portiera dellamacchina. La velocità di Jack è innaturale.Quando mi rendo conto che il mattone in realtàè il suo pugno è già tornato al volante, ci staportando verso Kungsträdgården. Mi fischianole orecchie, domani avrò una guancia gonfiacome un pallone. È come se tutto il sangue cheho in corpo fosse rifluito nella mia faccia, sentoun rimbombo simile a quello della campana diuna chiesa e mi sembra che i miei occhivogliano saltare fuori dalle orbite.

«Maledetto spacciatore del cazzo»,impreca. «Te l’ho già detto, lascia stare».

«Scusa», riesco a biascicare.Sono convinto che Jack non aspettasse

altro. Cala un silenzio teso e pesante. Chiudogli occhi.

Penso a Maria. Noi due insieme.

Passeggiamo per Södermalm lungo strade checonosco come il palmo della mia mano. Leiindossa un vestito nero senza bretelle, abbiamofatto shopping nei negozi di abbigliamento, ilsole ci scalda la schiena. La luce dona riflessi

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dorati alla sua pelle. Stringo la sua mano nellamia e sorrido.

Potremmo comprarci un appartamento. Leimi chiede della mia infanzia e io della sua.Facciamo sesso sfrenato ma dolce nella docciae diventiamo genitori.

Un uomo che stringe la mano della suadonna non è necessariamente felice, però dàl’impressione di vivere una bella vita.

«Vincent? È questo il suo nome?»Una voce dal sedile posteriore mi riporta a

una realtà desolata e deprimente, soprattutto separagonata alla passeggiata con Maria aSödermalm. Forse sono stato via un secondo,forse un minuto oppure un’ora. È ancora buio eJack è seduto al volante. Sbircia una dellespogliarelliste nello specchietto retrovisore.

«Sì. E allora?»«Ma...».Sento una mano sulla spalla e mi giro. Due

occhi blu sbarrati mi esaminano. Li riconosco.Tutto il resto è cambiato, i suoi occhi però me liricordo esattamente quanto il rumore del letto

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cigolante.«Janina?».Sembro sorpreso. O per lo meno sembrare

sorpreso è la mia intenzione. Non riconosco ilmio volto paralizzato.

«Jacqueline», mi corregge, non usa mai ilsuo vero nome quando lavora.

«Scusa».«Sembra proprio che vi conosciate». Jack

alza lo sguardo al cielo. Lo ignoro e guardoJanina. A malapena la riconosco.

«Sei cambiata», le faccio.Si è rifatta. Le labbra, i seni e forse anche il

naso. L’ultima volta che l’ho vista, aveva unnaso leggermente curvo, niente che rovinasse ilsuo aspetto, anzi, le dava un tocco di fascino edi personalità in più. Ricordo però che volevafare la modella e diceva che i fotografi di modanon avrebbero avuto una visione tantoromantica di un naso storto. La bellezza non ènegli occhi di chi guarda, è nell’obiettivo di unamacchina fotografica. Adesso la sua faccia èdritta e simmetrica, un dipinto perfetto.

«Anche tu», dice sbattendo le palpebre un

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paio di volte.Riconosco l’istinto materno nei suoi occhi.

Mi giro e guardo la capitale scorrercilentamente accanto.

«Forse».Lo dico più che altro a me stesso.

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DICIANNOVE Sogno di nuovo la mia infanzia e mio padre.

Potrei anche essere sveglio, gli occhi chiusi eun film proiettato sulle palpebre. Il mio stato dicoscienza è incerto, ho preso più morfina delsolito per attenuare il dolore al volto. Forse stomollando la presa.

Da piccolo sognavo di fare il poliziotto. Era il

sogno di ogni bambino. Poi siamo cambiati,abbiamo fatto sesso e ci siamo ubriacati. Cisiamo iscritti a un partito politico per cambiare ilmondo ma alla fine non ci siamo riusciti. Non ciriesci mai. È sempre il mondo a cambiare te.

A casa ci stava raramente. E quando c’era

era ubriaco o incazzato, oppure entrambe le

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cose. Mio padre aveva la miccia corta, eraviolento a ondate. Oscillava tra pacatezza eaggressività come il pendolo di uno di queivecchi orologi a cucù. Potevo parlarci quandoera di buonumore, vale a dire quando eraubriaco al punto giusto. Parole vuote sui mieiamici, sulla scuola. Quando era lucido o inhangover cercavo di tenermi a debita distanzasprofondando nei libri di scuola.

Immaginavo di trasformarmi in un’ombra, unfantasma. Un fantasma vigliacco.

Dopo la mia prima esperienza con la

morfina, la volta che mio padre mi avevaspezzato la costole, mi ero ritrovato in unmondo nuovo. La quotidianità era cambiata. Aimiei occhi era ormai grigia, monotona einutilmente costellata di sofferenza. Fin quandonon hai alcun termine di paragone non haimotivo di lamentarti, ma io avevo intravisto unmondo meraviglioso, soffice come ovatta e nerocome la notte. Sapevo che era a portata dimano e ne avevo nostalgia.

Ne volevo ancora. Iniziai a provocare mio

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padre nella speranza che mi picchiasse, che miprendesse a calci e che mi tirasse degli oggetti,e quando accadeva non mi scansavo.Purtroppo quando era ubriaco la sua mira erapessima. Io mi buttavo come un portiere dicalcio per farmi colpire da lampade, tazze elibri.

Quando le mie provocazioni non sortivanol’effetto desiderato, mi facevo male da solo einventavo una balla. Mi fratturai il pollice con unmartello per poi raccontargli di essermi feritodurante la lezione di artigianato11 .

Mi colpivo il volto fino a sentire il sapore delsangue, poi raccontavo di essere caduto per lescale.

Una volta mi scagliai un mattone sul piedecon tutta la forza che aveva il mio piccolo corpo,per poi raccontare che mi ci era caduta soprauna macchina da scrivere. Non possedevamouna macchina da scrivere.

Agli occhi di mio padre dovevo sembrare unragazzino maldestro e perseguitato dallasfortuna.

Facevo tutto ciò per l’esperienza di

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qualcosa di più, di diverso.Un bicchiere d’acqua e una pasticca bianca

come neve nel palmo della mano di mio padre,le sue dita tra i miei capelli. Dopo la violenzaera premuroso e ansioso. Dopo la violenza eraun padre.

I segni che portavo addosso iniziarono adattirare l’attenzione degli insegnanti e degliassistenti sociali. Cominciarono a chiedermi seper caso c’erano dei problemi in casa.

Rispondevo di no.Ma mi ero spinto troppo oltre, andare avanti

con quella strategia era diventato rischioso.Allora iniziai a sgattaiolare nello studio di miopadre durante il giorno. Nella libreria, tra leopere preferite di mio padre, l’Odissea,Familjen H12 e l’Ulisse, c’erano una ventina dilibri di medicina, grossi come scatole di scarpe.Passavo ore e ore a sfogliarli e a studiare idiversi tipi di morfina che poi cercavo nel suoarmadietto.

Prendevo nota di nomi come Maxidon,Oramorph e Dolcontin. Ero un piccolo detectivealla ricerca della perfezione.

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Di sicuro lui aveva capito. Avevo dodicianni.

Devo essermi addormentato, di sicuro ho

sognato perché quando apro gli occhi la lucedel giorno mi colpisce e ho un mal di testaassurdo. Le vene nel mio volto pulsano, misento bruciare come se avessi una ferita aperta.Non riesco a controllare i brividi di freddo eannego nel mio stesso sudore.

Bussano ma nelle mie orecchie i colpi sullaporta risuonano come spari da distanzaravvicinata. Incespico, raggiungo la porta e laapro.

È Maria. È riuscita a scappare ed è tornatadalla Norvegia.

La pioggia ha bagnato i suoi capelliscintillanti. Non è lei.

Si trasforma davanti ai miei occhi, il suo visodiventa acqua e viene attraversato da onde.Quando torna di carne e sangue mi ritrovo afissare un bel volto simmetrico.

«Janina», dico io cercando di dissimulare ladelusione. «Ciao».

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La mia voce è un rantolo che non riconosco.Janina ha una ruga profonda tra le sopraccigliae mi guarda con gli occhi socchiusi. Sembramolto preoccupata, il suo sguardo vagainquieto tra il mio naso e il pavimento.

«Ciao Vincent. Posso entrare?»«Certo, certo. Scusa, mi sono appena

svegliato».Inarca un sopracciglio sottile, perfetto.«Sono le tre e mezza del pomeriggio».«Come sai dove abito?»«Me l’hai detto ieri. Non ricordi?».I ricordi del giorno prima non confermano né

smentiscono la sua affermazione che a ognimodo è plausibile. Scrollo le spalle e la faccioentrare. Janina è una persona completamentediversa da Jacqueline. Janina indossa unamaglietta nera a maniche lunghe che fasembrare il seno più piccolo di quanto non siain realtà e un paio di jeans a vita alta che lemettono in risalto i fianchi, è vero, però lo fannoin maniera elegante. Ha una piccola borsettanera e profuma di bagnoschiuma. Un velo ditrucco sui suoi lineamenti perfetti. Janina ha

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reso il suo viso perfetto, è una bambola.«Che cazzo è successo qui?», chiede

guardandosi intorno nel mio caoticoappartamento.

«Una perquisizione, niente di che».«Perquisizione? Mio Dio, Vincent».«Non preoccuparti, non hanno trovato

niente».«Ma è pur sempre una perquisizione».Non so cosa rispondere, faccio di nuovo

spallucce e accendo il bollitore del caffè. Cercodi controllarmi ma non riesco a smettere ditremare, me ne vergogno e avrei voglia diandare a nascondermi.

«Come va la tua faccia?», domanda.Ho problemi a gestire la macchina del caffè,

per cui la risposta si fa attendere.«È ok».«Mi ricordi Due Facce».«Preferirei essere Joker», rispondo io con

una risatina. Cerco di comportarmi in modonormale, cimentandomi in qualcosa di tantosemplice come fare il caffè, ma dimentico dicontare i cucchiai, ormai ne avrò versati sette

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oppure tredici13 . «Allora, come ti trovi alavorare al Diérs?», le chiedo invece.

«È ok. Si guadagna bene, però i clienti sonomolesti. Sanno benissimo che possono farsitutte le seghe che vogliono senza toccarmi, maper qualche strana ragione pare che durante glishow privati se ne dimentichino. È difficilerecitare la parte della pornodiva quando inrealtà vorresti solo sputargli in faccia».

«Prendila come se ti stessero facendo uncomplimento».

Janina abbozza un sorriso. Credo abbiasbiancato i denti. Sono troppo splendenti.

«È difficile prenderla come un complimentoquando un capoufficio qualsiasi, così grassoche l’ultima volta che è riuscito a vedersi ilpisello Palme era primo ministro, prova atastarti».

Rido. Una sensazione familiare e positiva.Verso due tazze di caffè e ne allungo una aJanina. Le sue unghie finte battonoritmicamente contro la ceramica, è pensierosa.

«Che è successo ieri?», mi domanda.Si siede e io prendo posto sul divano

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dall’altra parte della stanza.«Cosa vuoi dire?»«Sei completamente impazzito. Ti sei

precipitato fuori urlando “Felicia”. Cos’èsuccesso?».

Mi irrigidisco.«Non ho gridato “Felicia”».«Sì che l’hai fatto».Mi sento confuso. Qualcosa non quadra. Mi

invento che non era niente, credevo solo diaver riconosciuto una persona che non vedevoda molto tempo.

«Chi?», mi domanda.«Nessuno».Janina sembra anestetizzata. Mi chiedo che

aspetto abbia io. Beve rumorosamente un sorsodi caffè e mi rivolge un’espressione contrariata.

Con lo sguardo fisso sulla tazza dice chenon sono bravo a mentire, io temporeggiomandando giù un sorso e mi rendo conto cheprobabilmente ne avrò messi anche più ditredici, di cucchiai.

Il caffè è denso e sa di ferro.«Si chiama Maria», le dico facendo

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spallucce. «È semplicemente una checonoscevo. Adesso è in Norvegia».

La fronte incipriata di Janina è un po’sudata, lei mi guarda di sguincio.

«Norvegia? Com’è che si trova lì?»«Non credo ci sia andata di sua spontanea

volontà», dico esitante.«Cioè è stata costretta?».Non rispondo. Non voglio raccontarle

troppo, Janina rappresenta un collegamentocon Pastor, che meno sa di me meglio è. Vorreichiederle se sa qualcosa di Pastor, magari seha sentito che sta per andarsene per un periodoindefinito, ma lascio perdere. Forse c’è unaconnessione tra Pastor e Maria che ancora nonho afferrato.

Questo pensiero mi fa sentire debole,debole e sottomesso. Voglio che Janina se nevada, che mi lasci in pace. Voglio starmene dasolo e fatto, provare a dimenticare per andareavanti.

Squilla il cellulare. È Marko. Lo ignoro, bevoun sorso troppo grande di caffè al ferro e mibrucio la lingua. Il telefonino smette di squillare.

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«Oggi devo lavorare», dico.«Volevo solo vedere come stavi», risponde

lei a voce bassa.Potrei implodere in qualsiasi momento. Restiamo in silenzio a bere il caffè. Mi

domanda se leggo ancora molto e le rispondodi no, non da quando è morto mio padre. Le suelabbra si schiudono lentamente a formare unagrande O di silicone.

«Io di certo non sono una che legge molto».Scuoto la testa e guardo fuori dalla finestra.

Peggio. Va sempre peggio. 11 Materia prevista nei primi nove anni di

scuola dell’obbligo in Svezia (n.d.t.).12 Opera dell’autrice Fredrika Bremer (1801-

1865), tra le madri del femminismo svedese,che nei suoi romanzi si cimenta con ladescrizione di ambienti familiari e domestici,ponendo al centro l’interesse per la questione

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femminile (n.d.t.).13 Un dosaggio standard per il caffè lungo

svedese corrisponde a cinque o sei cucchiai dicaffè (n.d.t.).

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VENTI Quello stesso giorno ricevo una chiamata

da un poliziotto che vuole delle informazioni dame. Ho appena dato una parte dei soldi aMarko e mi trovo in mezzo a un fiume dipersone sulla piattaforma della metropolitana.Dante, il poliziotto, ha una voce tranquillizzanteche mi fa pensare a un padre che racconta unafavola al figlio.

Probabilmente sa che spaccio e avrà attesoche avessi dei soldi addosso prima dichiamarmi.

«Informazioni su cosa?»«Non posso parlarne in questo momento».Me lo immagino seduto a una scrivania,

fogli di appunti macchiati di caffè, adesso sitoglie gli occhiali. Chiude gli occhi e si

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massaggia il dorso del naso.«’Fanculo», impreco, interrompo la

telefonata e mi avvio verso casa con lasensazione di aver fatto il passo più lungo dellagamba. La catena di avvenimenti in cui miritrovo forse è davvero una catena. E io sonolegato ad essa, il corso degli eventi èdeterministico. Il libero arbitrio si concretizzaunicamente nella possibilità di scegliere trapseudo-alternative che portano al medesimoesito finale. Forse il libero arbitrio non esiste.

Il pensiero delle ultime parole di mio padremi attraversa la mente come un proiettile. Nonresta altro che la fuga.

Fuori dalla mia porta c’è un’ombra, esile e

minuta come uno scheletro.Non so perché non mi volto. Spero sia

qualcuno che viene a prendermi, Maria, Pastoroppure la morte.

Quando mi avvicino ha ancora il cellulare inmano e mi rendo conto di essere statoincastrato. La disperazione mi si abbatteaddosso come un’onda.

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«Abbiamo qualcosa di importante di cuidiscutere, Vincent».

Dante mette via il cellulare, nell’altra manoha due bicchieri di caffè da asporto. Ne spostauno nella mano libera.

«Uno di quelli è per me?», dico indicando ibicchieri con un cenno del capo. Dante siguarda le mani.

«In realtà no. Nelle notti come questa disolito ne prendo due, ma potrei anche esseregeneroso». Sbircia verso di me e piega la testadi lato. «Che è successo alla tua faccia?»

«Sono caduto dalle scale», rispondo. La stanza degli interrogatori è molto diversa

da come la si immagina. È una camera calda eaccogliente, la gamma cromatica spaziadall’arancione al rosso mattone. Quadri appesialle pareti, una grossa pianta in un angolo,tazze di caffè e un thermos sul tavolo. Unasedia comoda con tanto di cuscinetto morbido.Un orologio a parete ticchetta sopra la miatesta.

L’unica cosa che non quadra è che qui

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dentro ogni cosa è artificiale, di plastica.Niente vetro o maiolica. Il vetro spezzato è

pericoloso, ti ci puoi tagliare le vene oppurepuoi recidere la carotide di qualcuno. Anche sescagliassi in terra la tazza con tutte le mie forze,l’unico risultato che otterrei sarebbe quello disporcare il pavimento. Verrebbe risciacquata eriposta sul tavolo per essere nuovamenteutilizzata. Mi irrita il pensiero che quella tazzavivrà più a lungo di me.

Ho bevuto il caffè di Dante, mi ha svegliatoun po’ ma in realtà avrei proprio bisogno di unacalmante dose di morfina. Vorrei essereinvisibile e privo di sostanza, vorrei che fosseimpossibile vedermi e toccarmi.

Dante, non so ancora se mi piace o no. Ègiovane, probabilmente ha solo qualche annopiù di me ma potrebbe anche essere piùanziano di quanto non sembri. I capelli nerisono tagliati corti, ricorda un po’ uno squalodella finanza. È furbo. Una delle poche coseche mi riescono veramente bene è capire seuno è furbo oppure no. Questo qui comepoliziotto è un milione di volte più bravo di quel

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bastardo della narcotici che mi ha sbattutodentro.

Mi rendo conto che stavolta si tratta di unaquestione molto più seria di un po’ di droga. Hopaura.

La porta, un solido mostro bianco chepotrebbe tranquillamente resistere all’attacco diun carro armato, si apre con un soffio e Danteentra con due raccoglitori sotto il braccio. Hal’aspetto di uno che non dorme da un anno. Socome si sente e sono tentato di suggerirgli dilasciar perdere il lavoro di poliziotto, pursapendo quanto suonerebbe ridicola una cosadel genere detta da me.

Dante mi ricorda Jack. A prima vistasembrerebbero completamente diversi, maqualcosa mi dice che non è così. Se Danteavesse vent’anni di più e tre matrimoni fallitialle spalle, una fedina penale zeppa di reati eavesse abusato di svariate droghe per moltianni, allora sarebbe proprio Jack. Tra loro c’èmolta meno differenza di quanto si possacredere. Sono pochi i poliziotti che nonsconfinano dai limiti della legge nel corso della

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loro carriera. Sono in molti a fallire, tra quelliche pensano di poter fare la differenza. Gliagenti di polizia sono come equilibristi in bilicosu una lunga fune sottile dalla quale è facilecadere. E quando perdono l’equilibrio, lacaduta è rapida e dolorosa. Dante è senzadubbio uno di quelli che non ce la faranno.

Si siede dall’altra parte del tavolo, stasistemando i nostri due microfoni. Mormoraqualcosa in uno dei due, nome, data e luogo, emi dice che ho il diritto di chiedere la presenzadi un avvocato. Poi mi guarda. I suoi occhi sonomarroni e grandi. Non voglio un avvocato.Voglio solo tornare a casa.

Dante inizia precisando che si tratterà di uninterrogatorio breve e semplice, nel corso delquale verificherà ciò che so su una certafaccenda.

Mi chiedo cosa intenda. Ad ogni modoannuisco.

«Sai perché sei qui, Vincent?»«No». È vero solo in parte. Posso intuirne la

ragione ma spero di sbagliarmi.«Maria Ljubova».

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Quel nome mi stordisce con una forza chenon mi aspettavo. Davanti ai miei occhi calal’oscurità, devo poggiare entrambe le mani sultavolo per mantenere l’equilibrio. È morta.Hanno ritrovato il suo corpo e lei non c’è più.

«Sì?». La mia voce è un sussurro strozzato.«Non sembra la prima volta che senti

questo nome».Mi schiarisco la voce.«No, mai sentito. Chi sarebbe?»«Non l’hai mai incontrata?».Scuoto la testa e Dante indica il microfono.«No», dico a voce alta.«Non è mai stata a casa tua?».Mi torna in mente l’immagine di Maria

distesa sul divano con indosso la mia vestaglia.La pelle che riluce nella mia vasca da bagno.Mi sembra di sentire la sua mano sulla guancia.

«No».Dante inarca un sopracciglio e resta in

silenzio. So come funzionano gli interrogatori.Domande brevi allo scopo di ottenereinformazioni. Non farmi capire quanto sa,altrimenti mi troverei in posizione di vantaggio.

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Un interrogatorio è una questione di potere,controllo delle informazioni e capacità dimentire. Un vero esperto può ottenere unaconfessione senza che l’altro nemmeno se nerenda conto.

«Qual è il nesso tra Maria Ljubova e laNorvegia?».

Fisso lui, il microfono, le mie mani. Ilsilenzio pesa come un macigno.

«Non so di cosa tu stia parlando».Mi costringo a non sorridere. È viva.È difficile nascondere un cadavere, se

nessuno l’ha trovata e la stanno cercandosignifica che probabilmente è viva.

Dante apre una cartella pressata tra dueraccoglitori.

La studia, potrei giurare che è affascinatodal suo contenuto.

«Hai una fedina penale di tutto rispetto,Vincent. Nessuna condanna, tuttavia sei statosospettato di minacce, detenzione di narcotici,spaccio, lesioni, maltrattamenti, resistenza apubblico ufficiale, furto, furto d’auto e disturbodella quiete pubblica, e tutto in soli dieci anni. E

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la sai una cosa? Di solito in questodipartimento i sospettati risultano effettivamentecolpevoli».

Dante chiude la cartella e la ripone. Misento rigido e mi sembra di avvertire puzza digomma bruciata.

«Non deve essere facile riuscire a vivereuna vita da persona rispettabile con uncurriculum come il tuo».

«Molto più facile di quel che pensi».Sono sicuro che sta trattenendo un sorriso.

La mia bugia è evidente.«Non posso far sparire queste accuse con

la magia». Accuse, non sospetti. Dante è sicurodella mia colpevolezza. Con l’indice batte sullacartella. «Però ti posso aiutare a rifarti una vita.Certo, non una sequela di successi, ma saràsempre meglio di ciò che hai adesso».

Tento di assumere un’espressioneintelligente e collaborativa, rispettosa e cortese,ma non credo che i muscoli del mio voltoriescano a gestire tante richieste allo stessotempo.

«Stai provando a corrompermi?», sussurro.

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Dante sospira, appoggiandosi alloschienale della sedia. Chiude gli occhi e limassaggia con gli indici. Quando li riapre sonorossi e sembra che le sue palpebre pesinocome marmo.

«Sto tentando di salvare una vita, Vincent.Probabilmente più di una».

Quindi sa che Maria non era sola. Ma hocomunque l’impressione che non ne sappia piùdi me. L’idea di una vita diversa mi tenta. E nonho alcun senso morale che mi freni.

Ce l’avessi, a quest’ora di sicuro sareimorto. Mi sforzo di apparire imperturbabile main realtà sono scosso come il suolo durante unterremoto.

Lo guardo. L’orologio ticchetta, vorreiscaraventargli la tazza in mezzo agli occhi.Quando mi parla di nuovo la sua voce èdiversa, più fredda.

«Io verrò a capo di questa faccenda,Vincent. E se tu non collabori ti farò arrestare.Ciò che hai fatto, a prescindere dal fatto chesapessi o meno a cosa sarebbe andataincontro quella povera ragazza, è sufficiente a

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sbatterti dentro per almeno cinque anni, ma iofarò in modo che siano di più».

Scrollo le spalle e faccio una risatina.Un urlo rimbomba nella mia testa. Non è

facile scomparire, non basta volerlo.«Ma se non ho la più pallida idea di ciò di

cui stai parlando».«Sì che ce l’hai».«No».Dante sospira. Fissa il tavolo.«È tempo perso». La voce di Dante ha un

tono frustrato. Sta parlando con qualcuno chenon sono io. Qualcuno che ascolta da fuori.Cala un silenzio preoccupante, i miei pensieriscivolano via. Mi attraversa la mentel’immagine del mio cuore in mezzo a un marenero, sbattuto dalle onde come un salvagenteinsozzato.

Dante alza lo sguardo su di me, le mascelletanto serrate da fargli pulsare le vene all’altezzadelle tempie.

«So benissimo che Maria Ljubova è stata acasa tua. Voglio sapere chi ti ha incaricato disorvegliarla. Dammi solo un nome. È tutto ciò

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che chiedo. Oppure un indizio. Un numero ditelefono. Qualsiasi cosa».

Il pensiero di Pastor mi stringe lo stomaco.«Posso andare a casa adesso?».La voce mi trema. Lui si appoggia allo

schienale della sedia e mi esamina, incerto sucosa dire. Strappa un pezzo di carta e scrive unnumero di cellulare. Dante è quel tipo dipoliziotto che non usa biglietti da visita.

«Se cambi idea... Vincent, si tratta della vitadi Maria e di altre nove ragazze».

Prendo il bigliettino e lo infilo nel portafogli.Mi sento confuso perché Dante mi piace,sembra una brava persona. In un’altra vitaavremmo potuto essere amici. Vorrei dirglielo,ma mi torna in mente il mio sogno di bambino difare il poliziotto. La situazione è cosìparadossale che devo mordermi il labbro pernon scoppiare a ridere.

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VENTUNO Dopo la sera al club S non parlai mai più

con Felicia. Quando la chiamavo trovavooccupato oppure era uscita. Seppi dai suoiamici che quello che avevo pestato era dasempre il suo grande amore, lo amava fin dallescuole medie. Era gentilissimo, inoffensivo epremuroso, ma quando beveva diventavaappiccicoso e molesto.

Non saremmo più andati ad abitare insiemee non avrei mai sfiorato la sua pelle. Passaidiverse ore in camera mia a ridere. Poi la risatasi trasformò in un urlo.

Quale poteva essere la modalità di suicidioche facesse al mio caso? Mi sarei meritato divenire legato a due corde fissate a due camionpronti a partire in direzioni opposte.

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Avrei potuto tagliarmi le vene, con o senzal’elegante opzione vasca da bagno. Questimetodi, tuttavia, richiedevano una forza divolontà e una determinazione che nonpossedevo.

Avrei potuto spararmi, bastava indirizzarebene il colpo. All’altezza della tempia,angolando la traiettoria un poco all’indietro inmodo da fracassare le zone vitali del cervello.Ma non ne avrei mai avuto il coraggio. Uncolpo, uno solo e poi il nulla. Nel migliore deicasi! Ma l’idea di una fine estemporanea, unatesta spappolata e uno scoppio, era qualcosache mi spaventava sin da bambino...Sicuramente non avrei mantenuto la calma eavrei fatto fiasco.

Mi sentivo proprio un fallito, incapacepersino di togliermi la vita.

L’unica possibilità erano le pasticche. Unamanciata di morfina e mezza bottiglia di whiskyavrebbero rappresentato una soluzione pulita etranquilla per farla finita. C’era però qualcosache mi tratteneva. Una sensazione curiosa,come una mano invisibile poggiata sul petto a

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bloccarmi.Trascorsi molti giorni in stato catatonico. Ero

sicuro di avere la febbre, l’immagine di Feliciadelusa si rifiutava di lasciarmi in pace.

Non volle mai più incontrarmi faccia a

faccia. Nonostante non le avessi fatto niente, inverità, avrei voluto che bussasse alla mia portacon un coltello, una pistola oppure una mazzada baseball per minacciarmi di morte. Cosìforse avremmo pareggiato i conti. Ad ogni modonon lo fece mai. Sapeva bene che la punizionepeggiore sarebbe stata non parlarmi più e farein modo che si sapesse in giro che tipo dipersona ero.

Quando mi capitava di vederla provavo

vergogna. Degli anni del liceo ho ricordi confusie agitati, come una festa che entra nel vivo.Siamo cambiati, siamo cresciuti. Quando laincontravo distoglievo lo sguardo. Una speciedi riflesso condizionato, e lo stesso valeva perlei.

Certe cose erano imperdonabili e lo sono

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tutt’ora. Un’immagine dice più di mille parole, èvero, ma uno sguardo dice più di milleimmagini. Quando Felicia abbassava losguardo in mia presenza mi sentivo come unestraneo che si stesse avvicinando troppo.

Felicia proseguì gli studi specializzandosi indiritto penale. Ironico, considerato chel’evoluzione della mia vita somigliava a quelladi un incidente automobilistico al rallentatore.Forse la motivazione stava nella suaadolescenza: faceva di tutto per punire gli altriperché avrebbe voluto punire sua madre. Unopsicologo se ne sarebbe potuto uscire con unateoria del genere. Personalmente non houn’opinione precisa e in fondo neanche miinteressa. Mi dissero che si era sposata con ilragazzo a cui avevo dato quella ripassata, ilsuo eterno amore. Dopo aver studiato dirittoaziendale, lui aveva iniziato a lavorare comeavvocato e intanto scriveva romanzi, e nel girodi un paio d’anni gli bastarono i diritti d’autoredei libri per mantenersi.

Morì alcuni anni prima dei miei genitori in unincidente d’auto insieme al marito scrittore e al

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figlio appena nato. Stavano andando nella lorocasa di campagna a Bergslagen, quando laBMW su cui viaggiavano si scontrò con untreno in corsa. Il semaforo non funzionava.Chiamai Jesper, un vecchio compagno diclasse, per sapere del funerale. Sapevo cheJesper era un alcolizzato di vecchia data edubitavo che potesse essermi di aiuto, ma conmia grande sorpresa, sebbene con la vocerantolante di uno che sta per vomitare, riuscì adarmi una data e un luogo.

Gli anni avevano lentamente rimarginato laferita lasciata da Felicia. Ancora mi tornava inmente certe volte che mi capitava di ripensareai tempi del liceo, ma per il resto mi ero ripresopiuttosto bene. Le coordinate precise della suadipartita definitiva però mi si bloccavano in golacome pezzi di vetro.

Giunsi al funerale lercio e con una sigaretta

tra le labbra. Il cielo aveva il colore del latteschiumato e le cime degli alberi creavano unalto muro verde intorno al cimitero. Sopra di me,dietro un velo di nuvole, il sole splendeva

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inutilmente. Il suo calore non riusciva araggiungere la compagnia vestita di nero che siera raccolta per commemorare una famiglia.Notai due anziani che dovevano essere i nonnimaterni di Felicia. Parlavano tra loro con vocerotta e si stringevano le mani così forte che lenocche avevano assunto lo stesso colore delcielo.

Io vagavo per il viale di ciottoli come undisadattato, incapace di prendere parte al lorodolore. La campana della chiesa risuonòfacendomi vibrare come un diapason.

Fu un bel funerale, intenso come una messa

cattolica. Ero teso, agitavo nervosamente lemani e avevo voglia di fumare, ma mi sembravafuori luogo in una situazione come quella.Ripiegai su una penna che avevo nella tascainterna della giacca, iniziando a giocherellarci ea mordicchiarla. Il funerale mi toccò cordeprofonde, il mio cuore cominciò a battereall’impazzata. All’improvviso mi ritrovai sullemani fiumi di lacrime.

Abbandonai Felicia in chiesa prima della

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fine della cerimonia.Sull’autobus di ritorno fissavo il palmo della

mia mano e vedevo le parole che, a quantopare, ci avevo scritto sopra mentre sedevo suibanchi della chiesa.

For his mourners will be outcast men.And Outcasts always mourn14 . Chissà che senso aveva tutto questo. 14 “Avrà i lamenti degli uomini esiliati, / per

gli esiliati esiste solo il pianto”. Da La ballatadel carcere di Reading di Oscar Wilde, nonchéepitaffio scritto sulla sua tomba (n.d.t.).

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VENTIDUE Il pallido cielo del mattino ha il colore delle

labbra di un cadavere. Chissà perché sono giàsveglio. Attraverso la finestra osservo il soleche torna alla vita. Una nebbia densa comefumo di sigaretta si spande sui tetti delle case.

Resto immobile mentre i pensieri miattraversano come corrente elettrica a bassatensione. I minuti mi tormentano come piccolidenti aguzzi. Passa un minuto oppure un’ora,raccatto il necessario, devo andare alla casellapostale. Esamino il mio volto allo specchio. Si èimpercettibilmente sgonfiato rispetto a ieri.Quando sorrido mi duole, ma per fortuna nonsorrido spesso.

L’aria è fredda e umida. Il respiro si

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condensa non appena esce dalla bocca, inizioa tremare. Mi dirigo verso la metropolitana,ricevo un SMS da un numero sconosciuto. Unasola parola.

«Rispondi».Un messaggio incomprensibile, lo ignoro fin

quando passo accanto a una cabina telefonicavandalizzata. I vetri infranti sparsi sul pavimentosembrano neve, su una parete qualcuno hascritto “MTV mi ha salvato la vita” con unpennarello nero. Odore di vomito e piscio. Trale schegge di vetro spunta un cellulare. Squillain mezzo alla neve artificiale.

Mi sento come un bambino che ha appenascoperto un nuovo animale in giardino e non èsicuro se abbia intenzioni buone o cattive. Miguardo intorno inebetito. Mi chino e accetto lachiamata.

«Pronto?», bisbiglio, come se ci fosse miopadre in ascolto.

«Vincent». La voce è quella di Pastor. Iltono è tranquillo come l’istante che seguel’esplosione di un colpo di pistola. Esterno ciòche penso per filo e per segno.

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«Che cazzo sta succedendo?»«Il tuo telefono cellulare, amico mio. Sono

piuttosto certo che sia stato messo sottocontrollo, dopo il breve incontro che hai avutoieri».

Gelo nello stomaco, il quartiere inizia agirare vorticosamente. Tossisco per riprenderearia.

«Non ho detto nulla».«Lo spero vivamente. Maria non è unica,

Vincent. È sostituibile. Se dovessi avere anchesolo il sospetto che qualcosa non quadra milibererò di lei. Se poi intuisco – e tu sai quantosia sviluppato il mio intuito, Vincent – che staicercando di fregarmi, mi libererò anche di te».

Non rispondo. Non posso.«Hai capito, Vincent?».Annuisco in silenzio, gli occhi chiusi. Ho la

sensazione che mi stia osservando.«Comportati bene e non ti succederà nulla.

Non ci sarà alcun bisogno di incontrarci. Ticonsiglio di vendere l’eroina che ti ho dato, senon l’hai già fatto. Tra una settimana arriverà unnuovo carico e la città verrà coperta di bianco».

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Così termina la conversazione. Con la codadell’occhio scorgo una Toyota argentata. Faun’inversione a U e si dirige verso sudsparendo tra gli edifici. Il mio cervello non faquello che gli dico, memorizza il numero ditarga per quanto cerchi di dissuaderlo.

Il mio polso è accelerato e irregolare. Ognibattito insegue quello precedente senzariuscire a raggiungerlo. Sul marciapiedecammina un uomo che tiene un bambino permano. Il bambino ha grandi occhi azzurri ecapelli neri che sembrano le setole di unpennello. Ricorda il me stesso di venticinqueanni fa. Dall’altra parte della strada una coppiamattiniera; sorrisi autentici e bianchi.

Lui ricorda me.Getto il cellulare in una pattumiera ma mi

rendo conto di averne bisogno, il mio è sottocontrollo, avvelenato ormai. Dirigo alcuni passiesitanti verso la pattumiera, l’idea di rovistaretra i rifiuti non mi attira. Mi mancano una tazzadi caffè vuota, un paio di monetine e unabottiglia di vodka in tasca per essere un perfettosenzatetto.

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Il telefonino è impiastricciato di un liquidogiallastro che mi ricorda una zuppa, poi mirendo conto che deve trattarsi di vomito. Ilcellulare mi cade, vengo assalito dai conati, lorecupero, barcollo fino alla metropolitana. Fossiun senzatetto non sopravvivrei più di un giorno.

In un’edicola della stazione noto un trafiletto

di giornale che annuncia che la “banda deivigilantes” ha colpito ancora. Ripenso a Pastor,alla telefonata, alla sua enorme pistola eall’anello altrettanto sproporzionato. Mi chiedocosa abbia intenzione di fare con i soldi, se poiè veramente lui il capo della banda. Chissà sesta veramente per sparire dalla circolazione.Non riesco a capirne la ragione. Fa girarequantità inimmaginabili di denaro con i suoiloschi affari e di solito a quelli che hanno moltisoldi non piace spostarsi.

La notizia che mi colpisce però è un’altra.Una famosa attrice si è suicidata, mi informanolettere grandi come l’insegna di un negozio, edè la goccia che fa traboccare il vaso.

Crollo come un castello di carte, mi

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accascio contro una parete accanto ai tornellidella metro e inizio a piangere disperatamente,come se tutto il male del mondo stessefuoriuscendo dai miei occhi.

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VENTITRÉ Quella che segue è la ricostruzione che la

polizia fece dell’ultimo giorno di vita di LeonardFranke. Me la raccontarono in ospedale mentretenevo la mano di mia madre. Un fantasmainvisibile sembrava divorarla da dentro. Forsedormiva oppure si trovava in uno stato dicoscienza prossimo alla morte, in ogni casonon si accorse di nulla.

Leonard si era svegliato verso le sette. La

sveglia era stata messa a quell’ora. Non sisapeva esattamente cosa avesse fattonell’appartamento tra le sette e le otto meno unquarto, presumibilmente aveva seguito la suaroutine abituale. Aveva indossato un paio dijeans neri e una camicia verde scuro. Aveva

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fatto colazione con uova sode e pane tostato.Se quella mattina avesse o no bevuto alcool èincerto, l’autopsia certificò un tasso alcolicoappena superiore all’uno per mille,probabilmente l’assunzione risaliva a un’orapiù tarda.

Non beveva di mattina. Mio padre non

beveva mai quando doveva andare al lavoro. Leonard aveva letto «Dagens Nyheter»15 .

Aveva preso la metropolitana, aveva cambiatolinea alla fermata Slussen, era sceso aSkanstull e aveva preso l’autobus numero treper Södersjukhuset16 . Tra le otto e le quattroaveva visitato otto pazienti.

Per tornare a casa aveva fatto lo stessopercorso dell’andata. Era arrivato a casa aÖstermalm intorno alle cinque, doveva avercimesso molto a causa del traffico dell’ora dipunta. Aveva preparato una cena leggera, risoe pollo.

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Il suo piatto preferito. Aveva acceso il computer e pagato on-line

l’affitto e un paio di bollette. A quell’ora dovevaaver bevuto.

Mio padre beveva sempre quando c’erano

da pagare le bollette. Leonard aveva cancellato alcune visite in

programma per il giorno successivo,affidandole a un altro medico. Aveva preso unacorda resistente che teneva nell’armadio.

Una di quelle funi che si usano per

rimorchiare le macchine in panne, indistruttibili.Scelse quel metodo per due ragioni.Innanzitutto, non aveva la più pallida idea dicome rimediare un’arma da fuoco. In secondoluogo, la casa dove avevo vissuto la miainfanzia era un bell’appartamento con il soffittoalto, attraversato da una grossa trave di legnosolida come un binario ferroviario.

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Aveva fatto un nodo scorsoio e assicurato lacorda alla trave. Aveva preso una delle sediedella cucina. Poi era andato in camera da lettoe lì aveva indossato una giacca blu scuro, unacamicia bianca e un paio di pantaloni neri.

Gli stessi vestiti del mio battesimo. Li

riconobbi da una vecchia fotografia. Infine, era salito sulla sedia. Con il sostegno

di mezza bottiglia di whisky aveva scritto su unfoglio:

«Non resta che la fuga». Aveva firmato il foglio con la lettera “L”.

Nulla più. Avrà buttato giù altri due o tre sorsi,lasciando la bottiglia a metà. Era pronto.

Dopo aver infilato la testa nel cappio si erasporto in avanti in modo da perdere l’appoggiodella sedia.

La sedia era scivolata via da sotto i suoipiedi.

L’ultima volta che mia madre aprì gli occhi,

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le raccontai che era morto in un incidentestradale.

La ricostruzione della polizia venne ricavata

principalmente sulla base delle miedichiarazioni. Ero rientrato verso le nove, circaun’ora dopo il gesto di mio padre.

Non lo sentivo da alcuni giorni, volevosapere come stava.

Secondo la ricostruzione della polizia ero“preoccupato”.

Ero entrato in casa e l’avevo trovato appesoal soffitto. Avevo chiamato SOS Alarm17 e miero messo ad aspettare. La polizia mi avevachiesto se avessi tentato di salvarlo.

«Non vedete che si è impiccato?», avevodetto lentamente, indicando in direzione dellatrave con il capo. «Ho capito che era morto nonappena l’ho visto».

Questa fu la ricostruzione che la polizia fecedegli eventi di quel giorno.

Una ricostruzione quasi esatta. Avevo passato una giornata orribile. La

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visione di mio padre in strada, il giorno prima,mi aveva lasciato confuso e disorientato. Nonavevo più morfina e nessuno dei miei contattime ne aveva rimediata. Mi fregavonervosamente le mani per non prendere apugni la parete, non riconoscevo più la miafaccia.

Disperato com’ero avevo deciso di andareda lui.

Mi sembrava che la gente mi guardasse incagnesco, ero incapace di controllarmi e avevospaventato una vecchietta nella metropolitana.Credo di averle bisbigliato qualcosa ma nonricordo cosa.

È incredibile quanto aumentino le capacitàintuitive delle persone quando c’è qualcosa chenon va. Proprio come accade con i cani.Ricordo di aver borbottato tra me e me.

Lo avevo visto ancor prima di chiudermi allespalle la porta dell’appartamento. Piùprecisamente avevo visto una parte di lui. I suoipiedi, sospesi a mezzo metro dal pavimento.

Non so quali sensazioni sia normaleprovare quando il proprio padre si suicida.

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Mentre stavo in salotto non avevo provatonulla. Ma avevo fatto qualcosa.

Avevo riso. Proprio come accade quandouno sta per avere un crollo. Ma non ero crollato.

La testa era piegata in modo curioso, comese mi guardasse. Gli occhi iniettati di sangue ela pelle giallastra, lo stesso colore delle ossa.Una scena immobile come una fotografia.

Una cosa per volta. Ero entrato nello studioe avevo rovistato nell’armadietto dellemedicine. Avevo trovato una confezione dimedicine dal nome che mi faceva pensare aglioppiacei e ne avevo buttato giù due compresse.Mi ero infilato in tasca la confezione. Il tempopassava e la mia immaginazione mi facevacredere di avere la visione a cannocchiale.Scorgevo solo una luce bianca avvolta nel buiototale, più forte di qualsiasi luce che avessi maivisto prima. Mio padre pendeva morto e io mene stavo lì, fatto e anestetizzato. Non eroconsapevole delle mie sensazioni, ammessoche ne avessi. Tutto d’un tratto avevo realizzatodi cosa si trattava: sollievo melanconico.

Avevo chiamato SOS Alarm con il cellulare.

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Quando erano arrivati si erano accorti chenon ero lucido. Avevo raccontato loro di averpreso due compresse di Valium dall’armadiettodi mio padre per riuscire a reggere l’incontrocon la polizia.

Secondo la polizia avevo subito uno shock.Ma non era vero. Mi sentivo sollevato, come

se mi fossi gettato da una rupe e avessiscoperto di poter galleggiare in aria. Di esserein grado di volare.

Quella notte, per qualche ragione, dormii ilsonno di un bambino.

15 Quotidiano svedese (n.d.t.).16 Struttura ospedaliera nella parte

meridionale di Stoccolma (n.d.t.).17 Numero nazionale svedese da chiamare

in caso di emergenza (n.d.t.).

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VENTIQUATTRO Dove cazzo mi trovo? Sto andando ad

aprire la mia casella postale. Sono unospettatore del mondo, indifferente agliavvenimenti e ai moti dell’anima delle personeche ci si muovono. I loro volti sono grigi e rigidicome teste di statue.

Pazzo. Sono piuttosto sicuro di stareimpazzendo.

Nella metropolitana noto due ragazze.Indossano scintillanti corpetti laccati e nonhanno sopracciglia. I volti truccati di bianco lefanno assomigliare a due cadaveri, portanounghie lunghissime e gioielli di metallo.

Sono vestite di pelle, velluto e gomma. Unadelle due ha la lingua tinta di nero. Spiega latecnica di tintura all’altra ragazza e le mostra la

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lingua. Ridono. Mi viene l’istinto di afferrarle lalingua tra pollice e indice ma mi trattengo.

Mi guardo intorno, sento lo stomaco che misi stringe. Stavolta ne sono sicuro. Qualcuno mista pedinando. Dall’altra parte del vagone c’èun uomo con la testa rasata, pallida come il miosedere. L’esteso tatuaggio che ha in faccia recail motivo più complesso che abbia mai visto.Linee sottili e delicate. Rimango ipnotizzato aguardarle finché non mi rendo conto che inrealtà non sta osservando il buio fuori. Stainvece fissando la mia immagine sfocatariflessa sul finestrino, esaminandomi dall’altraparte dello scompartimento.

Una cosa è certa, non è uno sbirro.Potrebbe essere un trafficante d’armi o unsicario, o nessuna delle due cose.

Cerco di comportarmi in maniera normale,ovvero mantenere il controllo e non fareassolutamente nulla. Ma non mi riesce moltobene. Le mie mani si muovono da sole, sfioranonervosamente le labbra e le mie gambecambiano posizione accavallando escavallando senza sosta.

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Sarebbe proprio da idiota andare ad aprirela casella postale adesso. Decido di scenderedal treno.

Sulla piattaforma della fermata Hötorget miaccorgo che è sceso anche l’uomo dalla facciatatuata. Sta studiando la mappa dellametropolitana con un’espressione vaga. Èfurbo, discreto. Forse dovrei andare da lui echiedergli una sigaretta per vedere comereagisce.

Hötorget è un vortice di persone e colori18 .Mi dirigo verso una fermata dell’autobus perraccogliere i pensieri e fingere di essere direttoda qualche parte. Qualcosa mi tira per ilbraccio.

È un senzatetto calvo con il volto arrossatodal sole e dall’alcool sta seduto in terra; hopestato la sua giacca.

«Scusa», gli faccio spostando il piede.«Mi sono perso».La sua pelle ha un brutto colore, sembra che

il viso stia marcendo. Intorno alla bocca piagherossastre.

«Come?»

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«Mi sono perso», ripete.Mi guardo intorno.«Questa è Kungsgatan. Dove devi

andare?»«Tutto scompare», mormora. «Un anno fa

avevo moglie e figli e una casa. Oggi vivo inuna dannata comune dove sono tuttimoribondi».

Vorrei dargli qualcosa ma non ho droghecon me.

Gli do invece un biglietto da cento corone egli suggerisco di spenderlo in cibo. Poi lo lasciolì, solo.

L’uomo tatuato è sparito. Inizio acamminare, pian piano mi rilasso. Accendo unasigaretta. Un manifesto esorta alla resistenzacontro il governo. Vi è raffigurato il primoministro con due corna rosse, coda e forcone.

Squilla il cellulare. Perché non mi lascianoin pace? Due SMS, il primo di Ted, mi chiedese posso incontrarlo alla stazione T-Centralentra un quarto d’ora, l’altro da Janina.

Cancello il messaggio di Ted e apro quellodi Janina.

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«Ho dato un’occhiata in giro. NorwegianWood».

Mi blocco in movimento in mezzo aKungsgatan, confuso. Norwegian Wood.Beatles, e fin qui ci siamo.

I once had a girl, or should I say, she oncehad me.

Kungsgatan mi rende nervoso. Lasensazione di aver vissuto troppo a lungo inuna terra di nessuno fatta di droga e angosciami blocca il respiro. Un passante mi urta. Lofisso come fosse un demone.

Mi chiede scusa terrorizzato. Proseguopensieroso per la mia strada.

Cosa intende Janina? Tutto a un tratto mene rendo conto.

Il Norwegian Wood è una caffetteria dalleparti di Malmskillnadsgatan, su una traversasenza nome. Ci sono stato. Il gestoreprecedente era un consumatore regolare dianfetamine. È morto, non ho idea di chi sia ilproprietario attuale.

Chi se ne frega della casella postale. Mi

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avvio verso Malmskillnadsgatan con una certaesitazione. Avvisto l’uomo tatuato su unatraversa di Sveavägen. Viene dritto verso di me.

La strada è stretta e buia come una grotta.Pozzanghere di pioggia acida riflettono leombre. Mi sposto dall’altra parte della strada elui fa lo stesso. Il suo passo è cadenzato eleggero, il cappotto di pelle nera che gli arrivaalle ginocchia sembra un sipario. La testa rilucecome una palla da bowling. Attraverso di nuovoe ancora una volta mi imita.

Perdere la testa. Vincent è a un passo dalperdere la testa. Adesso vado da lui e gli dicodi spararmi o di fare quel che cazzo ha inmente.

Non lo faccio. Continuo a camminare con lemani in tasca, inebetito. Mi attraversa unbrivido, una sensazione che non provavo damolto tempo.

Paura?Quando ci troviamo l’uno di fronte all’altro

mi lancia uno sguardo che incenerisce lascena.

Occhi freddi, grigi come asfalto, sotto

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sopracciglia castano chiaro. Stazza enorme. Ungatto contro un topo.

Il suo sguardo minaccia scintille e pallottole.I tatuaggi sul suo viso iniziano a girarevorticosamente. Mi passa accanto, mi costringoa non voltarmi.

Paura. 18 Hötorget è una piazza centrale di

Stoccolma in cui ogni giorno c’è un mercatoall’aperto di frutta e verdura (n.d.t.).

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VENTICINQUE Il Norwegian Wood si trova tra un

parrucchiere e un locale notturno. L’insegna dilegno consumata riporta il nome del localescritto a mano con della vernice bianca. È unbuco nel muro e niente più. Lo oltrepasso edentro in una pasticceria poco più avanti.L’odore di marzapane e panna rancida mi dà ilvoltastomaco, esco per riprendere aria. Poitorno indietro ed entro nella caffetteria.

Il Norwgian Wood è il posto ideale in cuipresentarsi con un coltello in mano e lamaglietta insanguinata per ordinare un caffè. Ilposto in cui nessuno fa caso a te. Sui muriingialliti dalla nicotina pendono cornici prive diquadri. Tavoli e sedie in disordine. Un piccololavandino appena dietro la porta. Sul cristallo

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del bancone c’è uno spesso strato di polvere,vorrei scriverci sopra “Maria” con il dito, masarebbe infantile. Un foglietto scritto a manoincollato sul bancone è il menù del locale.Caffè, cappuccino, latte macchiato, qualchealtra variante e poco più.

Oltre me due avventori che sembranomembri di una banda criminale e che puzzanocome netturbini. Il barista ricorda AlfredHitchcock, testa rasata enorme, occhi grandi,palpebre pesanti, bocca carnosa e un doppiomento che pare strozzarlo. Ho l’impressione diconoscerlo ma non riesco a mettere a fuoco.

«Un caffè e un bicchiere d’acqua, grazie».È muto oppure non ha nessuna voglia di

parlare. Mi allunga una tazza nera e unbicchiere incrinato. Tratta le cose come se laodiasse. Sembra che abbia un problema allamano destra, è avvolta in una spessa bendabianca al cui interno la mano sembra chiusa auncino, come fosse un moncherino. Fa tutto conla mano sinistra. I suoi movimenti sonoinnaturali.

Mi siedo a un tavolo in un angolo in fondo

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per avere una visuale completa del locale.L’acqua sa di vodka ma mi sforzo di buttarlagiù. Bevo un sorso di caffè. Sa di pece e mibrucio la lingua. Non sono un gran bevitore dicaffè, l’unico piacere che provo è dato dallacaffeina che entra in circolo. Svegliarsi emettersi in cammino, lasciare che ti scivoliaddosso.

Mio padre beveva caffè. Lo correggeva conil whisky, prima di iniziare a correggere ilwhisky con il caffè. Un intruglio grumoso colormuffa che mi dava la nausea solo a vederlo.

Cerco di concentrarmi sull’interno del localema sono troppo agitato, i pensieri vagano perconto loro e quasi dimentico perché sono qui.Fa freddo e sto per perdere il controllo. Hobisogno della mia morfina.

Attraverso la finestra osservo la stradasbiadita. Non riesco ad accettare chel’immagine riflessa nello specchio sia la mia. Èuna brutta copia di me stesso. Il mio gemello.No, sono figlio unico.

Il tempo passa. Quando Marko entra nel

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locale rimango di sasso. Afferro un giornale pernascondermi. Ho la sensazione che sia megliose non mi vede qui. Dopo qualche istante miaccorgo che il giornale è girato sotto sopra.

Marko sembra stressato come al solito, ciòche ha di diverso stavolta è un sorrisettodiscreto. Fa un cenno all’uomo dietro albancone e inizia a salire una scala dietro laporta d’ingresso. I suoi passi si arrestano esento una porta aprirsi e richiudersi.

Senza rendermi conto di cosa sto facendo,mi alzo e lo seguo. Quando salgo il primogradino mi raggiunge la voce del barista. Leprime parole che gli sento pronunciare.

«Dove cazzo pensi di andare?»«Io...». Vuoto mentale. Nella testa di

Vincent, il nulla. «Stavo cercando il bagno».«Il bagno è rotto. Ti tocca pisciare fuori».Chiedo scusa e guadagno l’uscita in fretta,

di sicuro si è accorto del mio bluff. Osservo il mio volto nello specchietto

retrovisore di una macchina, ho un aspettopietoso. La mia bocca è un buco nero. Migliaia

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di pensieri mi ronzano in testa. Il barista habloccato me ma ha lasciato passare Marko,come se lui salisse quelle scale ogni giorno.Trattandosi di Marko sicuramente c’è dietroqualcosa di losco e illegale.

Cerco di identificare un passaggio sul retro,dovrebbe esserci un cortile interno. Il quartiereperò è come una fortezza, nient’altro cheportoni, calcestruzzo e finestre alte. Su un murola scritta “Silver rulez!” con spray nero e ilvolantino di una manifestazione contro laviolenza.

Mi sento come un nano imbranato. Sonotroppo stupido per questo gioco, troppoimpulsivo e non abbastanza furbo. Cerco discacciare la frustrazione con una sigaretta. Unanziano mi oltrepassa arrancando e apre unaporta accanto al Norwegian Wood. È calvo evestito in modo trasandato. Tenta di inserire ilcodice di apertura ma la sua vecchia mano nonesegue i comandi. Batte sul display conviolenza, come se quell’apparecchiatura loavesse offeso a morte e se ne volessevendicare. Mi avvicino abborracciando un

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sorriso stentato, le labbra mi tirano come seavessi in bocca il morso di un cavallo.

È l’uomo di prima, quello perso a Hötorget.«Come va?», gli chiedo.Puzza di alcool. Non ha speso il biglietto da

cento in cibo. Il suo odore mi ricorda mio padre,mi sale un conato di vomito.

«Merda», mormora. «Tutto scompare».«Hai bisogno di aiuto?»«Non riesco a inserire questo dannato

codice, ho un problema con i nervi».Mi offro di farlo al posto suo. Sembra che

Dio mi abbia messo una mano sulla spalla: lequattro cifre che biascica forse potranno salvarela vita di Maria.

«Grazie», mi fa.«Grazie a te».Gli tengo aperta la porta fin quando

scompare nell’ombra barcollando. Dall’altraparte del corridoio, oltre l’oscurità, intravedo unluminoso cortile interno incorniciato in unafinestra dalla struttura robusta.

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VENTISEI Il cielo mi appare come un’esplosione di

bianco e nero, poi mi rendo conto di avere gliocchi chiusi e che i lampi che vedo non sonoaltro che impulsi elettrici che mi attraversano lepalpebre. Sto davanti al portone nel crepuscolo.L’uomo di Hötorget è stato risucchiato dallacasa. Mi sento fragile e disperatamente solo.

Maria però è vicina. Riesco quasi a sentire ilsuo respiro caldo.

Lentamente mi ricompongo. Una scala, unascensore, una legenda dei cognomi perciascun piano, la porta che conduce al cortile.L’ingresso di un qualsiasi palazzo della city.

Nel cortile una pallida luce elettrica miacceca. Mi appoggio, cerco di capire quale siala finestra del piano superiore del Norwegian

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Wood.La localizzo, in un primo momento ho

l’impressione che le luci siano spente. Poirealizzo che è stata oscurata con sacchi diplastica e tendaggi pesanti. Sotto le finestreuna porta, forse conduce alla stanza di raccoltadei rifiuti. Mi sposto costeggiando il muro perpaura di essere notato. Afferro la maniglia e conmia grande sorpresa la porta si apre. È pesantee struscia rumorosamente contro il pavimento,un frastuono che si sentirà fino a Sveavägen.

Mi accorgo che non si tratta di una stanzadei rifiuti. È un cubo di cemento cavo immersoin una luce rossastra. Una lampadina avvolta inun telo rosso illumina l’ambiente. Mi fa venire inmente gli schizzi di sangue dei fumetti. L’unicaombra è la mia, e quando entro diventa enorme.Cresce fino a trasformarsi in un mostro dallefauci insanguinate, ma un attimo prima che quelmuso mi inghiotta chiudo gli occhi e il mostrosparisce. Ho le allucinazioni.

A sinistra dell’entrata salgono delle scale.Sono larghe poco più della mia testa esembrano essere state scavate nel cemento.

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Salgo camminando rasente al muro. Dopoalcuni metri mi ritrovo su una scala a chiocciola.Lo capisco troppo tardi, inciampo e sbatto ilginocchio e la mano. Borbotto qualcheparolaccia e mi accorgo di essermi bagnato lamano. C’è qualcosa di liquido sulla scala mapreferisco non sapere cosa sia. Continuo adavanzare nonostante il terrore, il mio cuore avràle dimensioni di un acino d’uva.

Alla fine della scala c’è un’altra porta. Misento come in un videogioco. Forse possopremere il tasto Esc e tornare alla realtà. Sfiorola porta con la mano e il cuore inizia a battermipiù forte. È grigia e massiccia, mi ricorda lalapide di una tomba. La fisso come se il miosguardo potesse provocare una qualchereazione.

La maniglia è gelida.La porta si apre rivelando un lungo corridoio

immerso nella stessa angosciante lucerossastra delle scale. Su una parete, lampadineavvolte in altrettanti drappeggi rossi. Portelungo entrambi i lati.

Quando gli occhi si abituano a quella strana

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luce, intravedo dei movimenti indistinti in fondoal corridoio. Accanto all’ultima porta simuovono due ombre. Un uomo e una donna.Lei indossa una minigonna minuscola, nondistinguo se stanno parlando oppure se siesprimono solamente a gesti.

Mi torna in mente il profilo di Maria, sinuosoe tagliente allo stesso tempo, come un rasoioavvolto nel cotone.

E mi accorgo che è proprio lei. La donna inminigonna. Un attimo prima di lasciar entrarel’uomo si gira e guarda dritto verso di me. Misento un idiota. Maria non mi sorride.

La serratura della porta si richiude dietro dilei e il mio cuore va in frantumi, come unalettera d’amore mai letta gettata nella pioggia.

Dalla porta di fronte alla stanza in cui èentrata Maria un uomo esce di corsa. Inizia abattere furiosamente sulla porta.

Marko.La porta si riapre e Marko comincia a

gridare. Grida a Maria ricordandole quante voltele ha detto che i soldi glieli deve dare prima,non dopo.

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Maria lo fissa disorientata. Vorrei andare làe colpirlo. Sono agitato, serro la mascella cosìforte che la sento scricchiolare.

Marko continua a urlare, ma senza toccarla.Non può permettersi di procurarle segni visibili.Mi sento mancare, davanti a me si materializzal’immagine dell’anello di Pastor.

«E tu». Afferra l’altro uomo, più anziano dilui e più alto di quasi una testa. «Tu i soldi me lidai prima, hai capito?». Marko lo fissa come uncane da combattimento. «Prima i soldi, poiscopi quanto ti pare. Hai capito?».

L’uomo annuisce senza parlare, tiene latesta bassa come se si vergognasse. Marko sizittisce, sembra inquieto e ho l’impressione chevoglia andarsene da qui più di ogni altra cosa.

La speranza si riaccende in me quandoMarko scompare e Maria chiude la porta dietrodi sé. Non chiude a chiave e pare che io sial’unico ad accorgersene.

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VENTISETTE Colui che non può salvare se stesso salva

qualcun altro. Avanzo nel corridoio con lagrazia di una bestia ferita. Da dietro le portesento grugniti e cigolii di letti sfondati. Aemettere i grugniti sono solo uomini. Maria nonè venuta in Svezia da sola. Ed ecco dove sonole altre ragazze. A pensarci mi viene la nausea.

Alla fine del corridoio c’è una scala chescende sulla sinistra. È la piccola scala dellacaffetteria.

Esamino la porta in cui ho visto entrareMaria. Faccio un respiro profondo, mi concedoil tempo di pensare che ci lascerò le penne esfondo la porta.

Non hanno avuto il tempo di fare granché.

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Lui si è tolto la giacca e si è seduto sul letto,Maria gli sta davanti in piedi, con la gonna tiratasu all’altezza della vita. Le mani pelosedell’uomo insudiciano i suoi fianchi, stascendendo con la lingua dalla pancia al sesso,scuro come l’ala di un corvo. Maria ha losguardo vuoto di chi non è neanche più ingrado di piangere.

Faccio appena in tempo a registrare lascena nella mente che già mi sonoscaraventato sull’uomo.

Lo colpisco con un calcio alla spalla, equando cade gli sono immediatamente sopra,le ginocchia a bloccargli le braccia.

Gli assesto colpi pesanti al volto. Tonfisordi. Il suono delle mie nocche scricchiolanti simescola a quello delle ossa rotte: la mascella ela mandibola di lui. Gli parte un dente. Un altrocolpo e la radice gli trapassa la guancia,spuntando fuori dalla pelle come la punta di uniceberg. Una fontana di sangue gli colora dirosso la camicia bianca.

Geme e invoca aiuto, e in quell’istanterealizzo che devo portare Maria fuori di qui e

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salvarla.È in piedi a un passo da me con i suoi

grandi occhi, confusa.La prendo per mano e la trascino fuori dalla

porta. Con la coda dell’occhio vedo il voltobasito di Marko mentre tiro Maria giù per lescale.

Improvvisamente riconosco il barista. ÈMick, l’autista di Pastor. L’uomo dalla mano auncino. L’incrociarsi dei nostri sguardi sembradurare un’eternità, ma in un attimo sono fuorisulla strada, la mano di Maria ancora nella mia.

Mi sento euforico. Maria, le nostre mani chesi stringono, i nostri corpi riuniti, accanto a me sisente calma come lo è solo chi ha capito cheniente è per sempre. Che ogni cosa finisce.

L’euforia scompare un attimo dopo, nelmomento in cui una forza invisibile mi strattonain avanti per la spalla sinistra, preceduta da unbotto che mi anestetizza le orecchie.

Per poco non perdo l’equilibrio, i miei piedinon rispondono bene ai comandi. Maria lanciaun grido, ho appena il tempo di sbattere lepalpebre un paio di volte prima di rendermi

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conto che il sangue che scorre sulla mia manosinistra è proprio il mio.

Arriva il dolore.

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VENTOTTO La mattina dopo la morte di mio padre, mi

svegliò un’immagine che mi attraversava lamente. Forse un ricordo lontano o forse ilframmento di un sogno. Mi provocò lesensazioni più intense che avessi mai provatoe per questo lo conservo, sebbene i contornisiano confusi.

Non so esattamente quanti anni avessi, madato che vivevo ancora a casa dovevo essereadolescente. Sedevamo a un tavolo da pranzoin legno finemente lavorato. Eravamo solo lui eio. Non parlavamo, anzi, il silenzio cresceva alritmo in cui si riempiva il bicchiere.

«Perdonami», disse con voce impastata. Ionon rispondevo.

«Perdonami», ripeté.

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«Per cosa?»«Io... non lo so». Il suo sguardo vagò dal

bicchiere al piatto vuoto, poi di nuovo albicchiere, che venne riempito ancora una volta.

«Dovresti saperlo. Perché chiedermi diperdonarti se non sai perché lo fai».

Non riuscivo a trattenermi, pur sapendo chenon era una buona idea parlare con lui in modocosì diretto. Con mia grande sorpresa non fecealtro che annuire con la testa, appoggiandosiallo schienale della sedia. Afferrò il bicchiere.Quel gesto sembrava tranquillizzarlo.Suppongo gli desse la sensazione di avere ilcontrollo della situazione.

«Mia madre», biascicò. «Ti ho mairaccontato della nonna?»

«No».Mia nonna era avanti con gli anni quando

aveva avuto mio padre ed era morta un paiod’anni prima che nascessi io. «Non ha sensoparlare dei morti», aveva detto mio padre ognivolta che gli avevo chiesto della nonna.

«Non ha senso parlare dei morti», risposeanche quella volta.

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«No, lo so. L’hai detto tu».Sono sicuro di averlo sentito tirare su col

naso, ma non potevo vederlo e lui non potevavedere me. Guardavo le mie mani e luiguardava il suo bicchiere.

«Non è morta d’infarto», mormorò. «È mortadi cancro al fegato».

Non sapevo cosa dire. Non che facesse unagran differenza, non l’avevo mai incontrata.Neanche il fatto che mio padre mi avessementito mi sorprendeva.

«Perché mi avete mentito, allora?».Dovevo pur chiederglielo, dopotutto, ma lui

continuava a borbottare suoni senza senso,consonanti strozzate. Non ho mai capito perchésia lui che mia madre mi avessero semprementito al riguardo.

Talvolta le bugie seguono il bugiardo nellatomba. Probabilmente per vergogna o perpaura.

«Le piaceva usare la cinta di papà», dissepoi, lentamente. «Ogni fine settimana. Perinsegnarmi l’educazione. Era il suo modo dipunire papà, credo».

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Il nonno morì due anni prima della nonna.Lo so perché ho trovato un necrologio ingiallitoe impolverato in fondo a un cassetto pieno diricordi.

Aveva lasciato la nonna e si era trasferito inInghilterra per ragioni a me sconosciute. Untempo noi svedesi eravamo gli ebrei sfuggitiall’Olocausto. Ma ormai non eravamo più nienteda molto tempo. La religione non era oppio, eraun ricordo di cui vergognarsi ma che ormai eramorto insieme ai miei nonni. Sono cresciuto inuna casa senza Dio. Nelle zone d’ombra tra legenerazioni, il ricordo e la storia conducono iloro traffici con discrezione, ma la storiagenerale del massacro è velata, confusa e,proprio come il novantanove per cento di tuttele storie di massacri, francamente pocointeressante.

«Dovresti smettere».«Lo so».Serrai le labbra e feci un respiro profondo. In

fondo mi faceva pena. Avrei voluto consolarlo.«Lo so!», esplosi, alzai lo sguardo e vidi non

il suo, ma il mio bicchiere compiere una

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traiettoria oltre la mia spalla. Si infranse controuna credenza con gran fracasso.

«Lo so», disse combattuto, lasciando lapresa intorno al bicchiere.

«La colpa è dell’alcool se fai del male a mee alla mamma».

Nel dire queste parole le corde vocali mitremavano. Poi, una sensazione inattesa. Sentiiun’unica, tiepida lacrima percorrermi laguancia.

«Non ne sono così sicuro, Vincent», dissesprofondando il volto tra le mani chesembravano abbronzate, al confronto dellesfumature violacee che il suo viso aveva ormaida diversi anni. «Non sono sicuro che sia solocolpa dell’alcool».

Iniziò a respirare affannosamente mentre iocontinuavo a fissarlo.

«Faccio dei sogni», biascicò singhiozzando.«Incubi in cui vedo me stesso».

«Anche quello può dipendere dall’alcool».«No!».Ebbi uno scatto, riparandomi istintivamente

con le braccia. Ma nessun bicchiere mi colpì.

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«Non penso che le cose stiano così». Il tonoera rassegnato, come se si rendesse conto diaver perso qualcosa per sempre.

«Da che cazzo pensi che dipenda, allora?Tu ci odi?».

Non rispose. Non riuscivo a guardarlo negliocchi e mi colse un senso di vertigine. «Non èmica possibile provare odio per la propriafamiglia, no?».

Rimase a lungo in silenzio, e la risposta chediede l’ho sempre portata nel cuore conrammarico, come accade quando uno si rendeconto che le cose sarebbero potute andare inuna maniera completamente diversa.

Mi tornò in mente mio padre. Noi due

insieme. La memoria tuttavia è selettiva eingannevole. Si dice che l’essere umano abbiala tendenza a conservare i ricordi positivi.Chissà cosa si intende per “positivi”, tra l’altro.Per me non è così. Ciò che ricordo e che hasignificato qualcosa nella mia infanzia è il buio.Le ombre e gli specchi, le maschere e una sortadi nebbia. Per trovare dell’altro devo scavare in

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profondità. Se lo faccio riesco a vederlo.Lui che si mette in porta tra due alberi del

cortile per pararmi i rigori e ogni tanto mi lasciafare gol. Il suo odore dopo le nostre partite, unmisto di profumo maschile pregiato e sudore,intenso ma non sgradevole.

Lui e mia madre che passeggiano fino aGärdet sotto il sole estivo, mia madre con unagonna chiara a righe e un cesto sotto il braccio.Mio padre le tiene la mano.

Lui che mi aiuta a fare i compiti dimatematica i primi anni di scuola e mi arruffa icapelli quando gli racconto le cose con gliocchi di un bambino, cose tanto illogiche chedevono per forza essere vere.

Lui davanti agli scaffali delle librerie,insieme a me che ancora non sapevo leggere,che mi lascia scegliere il libro per lui. Passa ledita sui dorsi dei libri di Pynchon, Roth,Doctorow e Woolf guardandomi con unsopracciglio aggrottato. Io scelgo il libro piùcolorato, lui sorride e me lo fa notare. Dice chefaccio bene a utilizzare quel sistema perché perle persone i colori sono importanti.

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Lui, che su uno dei traghetti diDjurgårdsfärjorna per Gröna Lund19 cantainsieme alla radio la strofa della canzone Meand Bobby McGee: «Freedom is just anotherword for nothing left to lose».

Mi tornò in mente. La mattina dopo la suamorte, appena sveglio, fissando il soffitto, mitornò in mente. Ma solo per un breve istante.Poi mi resi conto che ci sono cose che nonpossono essere perdonate. Furti che nonpossono essere risarciti.

La felicità è fugace, l’infelicità è costante.Cicatrici che non scompariranno mai. 19 Parco di divertimenti nell’area centrale di

Stoccolma (n.d.t.).

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VENTINOVE Il mondo è bianco e spietato.Dietro di me sento passi infuriati e grida

prive di parole. Avanzo barcollando con ilsostegno di Maria. Dalla mia mano cadonogocce di sangue che macchiano l’asfalto,trasformandosi in una traccia evidente. Senzadubbio morirò da un momento all’altro.

«Da Mika», biascico. «Dobbiamo andare daMika».

Mi guardo intorno. Marko ci insegue ma nonè abbastanza veloce. Strano, io e Maria siamocosì lenti. Avrebbe tranquillamente il tempo dirientrare nel Norwegian Wood, bere un caffè,chiacchierare con Mick, andare a pisciare, poiprendere la dannata pistola con cui Mick mi hasparato, uscire di nuovo in strada, prendere la

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mira e ammazzarci entrambi. Non avremmocomunque fatto più di cinquanta metri. Forseperò Marko vuole lasciarci fuggire.

Dopo Marko in strada esce Mick. Èsorprendentemente rapido per un uomo dellasua stazza. Il suo sguardo vola dall’altra partedella strada, nella mano sinistra impugnaquella che credo sia un’arma, ma non faccio intempo a vederla. Un uomo che spinge unacarrozzina gli passa davanti spaventandosi, eanche il bambino lo osserva incuriosito.

Un battito di ciglia e Mick è sparito.Il sole inonda le strade facendole fondere

con il cielo.Devo socchiudere gli occhi per orientarmi, il

dolore alla spalla è così intenso che mi mordo illabbro e sento il sapore del sangue.Probabilmente non mi sarebbero d’aiutoneanche le mie capsule di morfina. Ho bisognodi qualcosa di più forte.

Arrivato all’incrocio successivo la spalla mifa così male che devo vomitare, e finisco perriversare succhi gastrici e acqua su unamacchina parcheggiata.

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La macchina è provvista di un allarme cheadesso mi assorda. Mi fissano tutti, quelli con lebuste della spesa, le coppie che passeggianomano nella mano, uomini e donne solitari.

Peggio. Va sempre peggio. Ho conosciuto Mika durante un progetto di

ricerca al Karolinska Institutet20 . Facevamoentrambi da cavie in un test di intelligenza cheavrebbe dovuto migliorare il mondo. Il nostroera un gruppo particolare. Un paio di studentiuniversitari, ma per la maggior parte alcolizzatio tossicodipendenti come me. Nessuno però loaveva dichiarato, dal momento che uno deirequisiti era “buone condizioni fisiche ementali”.

Un modo burocratico per dire che se eriubriaco o fatto non eri ammesso a partecipare.

Mika aveva aderito all’iniziativa perchéfaceva parte del programma di un corso chestava seguendo, mentre io ero là perché lapartecipazione veniva retribuita: cinquecentocorone e la tessera di una palestra.

Con i soldi ci ho comprato un pezzo di

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hashish grande come l’unghia del mio pollice.Dubito che qualcuno abbia ritirato la tessera

della palestra.Eravamo seduti accanto nella sala d’attesa

e abbiamo iniziato a parlare. Mi ha raccontatodi avere un QI superiore a centosessanta, ma ionon ci ho creduto. Più avanti ho capito che, alcontrario, la sua era stata una stima al ribasso.

Mika aveva diversi amici meno ligi allalegge di lei che le consigliavano metodialternativi per fare soldi. A parere loro laprofessione di medico non era abbastanzaremunerativa. E Mika era molto esperta inmaterie come chimica, laboratorio ematematica. Competenze ben quotate, in certiambienti. Inoltre che senso aveva lavorarecome medico, cercando di salvare delle vite,quando comunque, prima o poi, tutti dobbiamomorire? Interruppe quindi gli studi, proprio comeme. Mika venne risucchiata in un mondofrenetico che l’ha resa ricca e diffidente, ma infondo ha sempre un gran cuore.

Virtù molto rara nel mio ambiente.

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Abita in un appartamento su due piani aÖstermalm21 . Nello stesso edificio vivonomembri dell’Accademia Svedese22 e personeinfluenti nella vita economica del paese. Nondialogano molto tra vicini, cosa che posso bencomprendere.

Uno spacciatore malridotto della periferiasud, che barcolla insanguinato lungoSturegatan in compagnia di una donna con unagonna oscenamente corta, rappresentaun’immagine inusuale. Attiriamo gli sguardidelle persone ricche e stressate, ma èprobabile che abbiano cose più importanti a cuipensare.

Comincio a sentire freddo, batto i denti. Ilrumore diventa il battito irregolare di untamburo. Avanzo zoppicando per le stradevicino Humlegården, non riesco a credere chesiamo ancora vivi. Imbocco una traversa, poigiro a destra. Non manca molto per casa diMika, ma vengo assalito dalle mie paranoie.Senza dubbio mi stanno seguendo. Chiunquequi intorno potrebbe essere l’uomo con

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l’ombrello.Sulla lingua ho un sapore di ferro, ferro e

spezie dolci, un profumo che proviene daMaria. Se muoio adesso va bene così. Semuoio adesso probabilmente il mondo sarà unposto di gran lunga migliore.

Nell’ascensore dell’edificio in cui abita Mikaperdo l’equilibrio e cado in ginocchio. Non vedoil pavimento sotto i piedi ed è come se unabenda nera mi ostruisse la vista.

Davanti alla porta di Mika in qualche modomi riprendo.

È un bel portone marrone scuro, il cognomeè inciso su una targhetta dorata. Credo se la siafabbricata da sola.

Apre la porta e sgrana gli occhi.«Vincent, che cazzo è successo?».Indossa una vestaglia rosso scuro che fa

pendant con i capelli rossi che le cadono sullespalle in morbidi riccioli. Si gira verso l’internodell’appartamento.

«Fuori di qui», dice, e arriva correndo ungiovane mezzo nudo che sembra uscito da unapubblicità di biancheria intima.

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«Allora mi chiami tu?», domanda con unavoce che, non appena mi vede, si trasforma inuno squittio. Si lancia giù per le scale con inmano i vestiti appallottolati.

In qualche modo mi diverte l’effetto che hosulle persone in questo momento. Mika alza losguardo al cielo. I suoi occhi hanno un coloreindefinibile, sfumature cangianti di marrone,grigio, blu e verde.

«Sembra simpatico», faccio io senzariconoscere la mia stessa voce.

Credo che mi ci dovrò abituare.«Entra, così posso darci un’occhiata. Chi è

lei?».Mika indica Maria con un cenno della testa.

Mi sorregge per il fianco, il mio equilibriovacillante ci fa dondolare insieme.

«Maria».Pronuncio il suo nome come una coppia di

sposini pronuncia la parola amore. L’appartamento di Mika è un gioiello di

inizio secolo. Soffitto alto, tutti gli spigoli e gliarchi recano eleganti rifiniture in legno. Muri

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ricoperti di libri che farebbero invidia allamaggior parte dei bibliotecari universitari.

Mika non apparirà mai in un reportage di unmensile della serie “a casa di”. In una dellestanze c’è un tavolo chirurgico in acciaio,illuminato da tubi al neon che emettono un lieveronzio. Sotto il tavolo ha fatto installare unpozzo collegato al sistema fognario. È qui cheeffettua gli interventi, curando ferite da arma dafuoco, coltellate, ustioni... esegue persinoamputazioni. I latitanti e i disperati vengono quida Mika per ricevere aiuto in situazioni nellequali non ci si può semplicemente presentare alpronto soccorso, ad esempio immersi nelproprio sangue e ricercati dalla polizia.

Da qualche parte nell’appartamento c’è unascrivania che sembra quella di un presidente,invasa da fili e contenitori metallici, orologidigitali, componenti elettroniche e strumentivari. Tutto ciò che occorre per costruire unamacchina. O una bomba. È la sua attivitàsecondaria, fabbricare ordigni esplosivi didimensioni ridotte per conto di rapinatori ebande. E si fa pagare bene. Sicuramente fa

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anche altro, ma nessuno sa esattamente dicosa si occupi Mika.

Mi fa sdraiare a pancia sotto sul tavolooperatorio e mi chiedo quanti altri derelittimorenti ci si siano sdraiati prima di me, ilsangue di quanti sia scorso qui come adesso ciscorre il mio. Sotto la mia guancia la superficieè piatta e fredda come il ghiaccio. Devo averela febbre.

«Devo cambiarmi», dice Mika e scomparedalla mia vista, ma Maria è qui. Sento il suoodore e sembra che mi stia poggiando le labbrasulla guancia. Sento un suono che non puòessere altro che il mio stesso battito cardiaco,irregolare com’è.

«Con cosa cazzo ti hanno sparato?».Mika è di nuovo qui, indossa una gonna

nera e una blusa rosso scuro. Le sue guancesono arrossate e si sta mordendo il labbro.

È bassina e minuta, ma nonostante ciòincute grande rispetto. Mi prende il polso, miesamina gli occhi con una lampadina e taglia lamia maglietta lungo la schiena per osservare laferita. Per fortuna sono steso a faccia in giù.

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Vorrei vedere la ferita, pur sapendo che miverrebbe di nuovo da vomitare. Che idiota chesono.

«Non lo so».«Per prima cosa ti do qualcosa contro il

dolore».«Non chiedo di meglio».Si gira e in un batter d’occhio prepara

un’iniezione. Sbatto le palpebre ed è giàtornata. Dà un paio di colpetti alla siringa e miimmagino di riuscire a sentire le bolle chesalgono attraverso la cannula. Osservo lacannula fin quando non mi convinco di riuscirea sentire le bolle che esplodono, nonostantesappia che in realtà è impossibile.

Il frastuono che sento sono i battiti del miocuore.

«Riesco a sentire il mio cuore».«Zitto ora».Mi infilza con abilità, le sue mani sono

fresche. Il dolore scivola via come il ricordo diun sogno quando ci si è appena svegliati.

«Vuoi restare sveglio oppure ti spengo? Inrealtà non ci sarebbe bisogno di

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addormentarti».«Dormirei volentieri».Desidero fortemente un sonno lungo e

artificiale. Alzo la testa e guardo Maria. Haschizzi di sangue dappertutto e i suoi capellisono arruffati e sporchi.

«Se non mi sveglio, fa’ che non le succedaniente».

«Ti hanno sparato alla spalla, mica allatesta».

Come per magia Mika fa apparire unamascherina collegata a un tubo. Mi applica lamaschera sul volto.

«Respira profondamente e conta allarovescia partendo da cento».

I respiri mettono in circolo qualcosa di caldonel mio sangue. Faccio in tempo a pensare chenon sarebbe un problema abituarmi a esserecoccolato in questa maniera, poi il mondoimplode davanti ai miei occhi.

20 Università medica nella città di Solna, a

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pochi chilometri da Stoccolma (n.d.t.).21 Quartiere esclusivo di Stoccolma (n.d.t.).22 Una delle Accademie Reali di Svezia, si

occupa di promuovere la lingua svedese(n.d.t.).

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TRENTA Il funerale di mio padre venne celebrato tre

settimane dopo la sua morte. Si occupò di ognicosa un suo collega, mi procurò persino uncompleto nero. Io odio i completi.

Fu una cerimonia particolare. Diciottopersone sedute sui banchi della chiesa con losguardo vuoto rivolto alla bara bianca. Era statachiusa su mia richiesta. Avevo detto che nonsarei stato in grado di guardarlo ed era vero,anche se la ragione era diversa rispetto aquello che aveva inteso il collega di mio padre.La bara era decorata con fiori e ghirlande,l’ultimo saluto, riposa in pace e tutte quellecazzate. Venne suonata la canzone LångsamtFarväl di Lisa Nilsson, una scelta ironica dato ilcontesto23 .

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I capelli della gente avevano il colore deldolore.

Tutto sembrava irreale. Un padre dovrebbeveder crescere suo figlio, fare del suo meglioper aiutarlo lungo il cammino, prenderlo permano e trasmettergli le migliaia di esperienzeche ha del mondo.

Quando il padre invecchia, il figlio dovrebbesedergli accanto e renderlo orgogliosoraccontandogli della sua vita, dei suoi successie dei suoi fallimenti. Ogni padre sa chedovrebbe anche essere fiero dei momentaneiinsuccessi del figlio, perché lui stesso è andatoincontro a delle sconfitte, è stato anche lui figliodi un padre, è stato un bambino. È così chedovrebbero andare le cose.

Ma così non era stato.Le cose spesso non vanno come

dovrebbero andare.Ci avvicinammo alla bara. Il suono freddo di

tacchi sul pavimento di pietra echeggiava nellachiesa, e tra le mura le lacrime e i singhiozzicrescevano al punto che era impossibileignorarli.

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Avevo un fiore in mano. Il collega di miopadre aveva pensato anche a quello. Lo deposisulla bara. A un tratto sentii il mio visodeformarsi mentre in gola mi cresceva unsuono animalesco. La crisi mi colse in manieradel tutto inattesa, come un fulmine in un cieloestivo senza nuvole. Caddi in ginocchio,qualcuno mi aiutò a rialzarmi.

Tutti guardavano in silenzio. Tutti credevanodi capire.

23 Canzone d’amore che parla di due

persone che si lasciano (n.d.t.).

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TRENTUNO Vedo dei volti. Il volto di mio padre si

trasforma nel volto di Pastor che si trasformanel volto di Dante. Si scompongono comeun’animazione computerizzata, i pixel sifrantumano e si ricompongono generandoun’immagine in metamorfosi continua.

Quando riapro gli occhi non ricordo dove mitrovo. Ho la nausea e mi gira tutto.

È come se la mia testa stesse fluttuandoverso un altro luogo, forse sono morto.

«Bentornato».La voce di Mika.«Come stai?», chiede.«Come se... mi avessero sparato». Mi rendo

conto che mentre parlo devo riprendere fiatospesso, come se, in caso contrario, qualcosa

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dentro di me potesse rompersi. «Cos’è questa...puzza?»

«Mentre dormivi hai vomitato, per poco nonrimanevi soffocato».

Riprendermi è un processo faticoso. Laspalla torna lentamente, presentandosi nellaforma di un pulsare doloroso poco a nord-ovestdel cuore.

«Ti ho dato una gran bella dose dianestetico, non stupirti se ti senti un po’strano».

Vorrei dirle che questo è più o meno il miostato psicofisico abituale, ma ho la gola cosìsecca che non riesco a parlare.

Mentre dormivo, Mika mi ha rigirato. Tubiluminosi mi pungono gli occhi come aghi.Cerco di alzarmi a sedere ma sbatto la testacontro i tubi e sprofondo lentamente all’indietro.

Mika sta pulendo i ferri chirurgici nellavandino.

«Dov’è... Maria?»«Sta riposando in salotto». Mika evita di

guardarmi. «Tu e io dobbiamo parlare».Mi rilasso e tento di fare spallucce. Il dolore

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è affilato come una lama e mi sfugge unlamento. Mika si avvicina al tavolo.

«Fermo, Vincent. Ho estratto la pallottola easportato i tessuti morti, ma hai perso moltosangue e ho dovuto metterti un sacco di punti.Appena ti alzi ti girerà la testa, e chissà seriuscirai ancora a usare la spalla in manieradecente».

Non riesco a pensare a cosa potrebbe faredi decente la mia spalla.

«Grazie».«Nessun problema». Mika non sorride.«Acqua», biascico.Da un armadietto estrae una bottiglia dal

contenuto blu chiaro.«Bevi questo e resta immobile un paio di

minuti. Non è acqua, ma ti farà bene».Mi avvicina la bottiglia alla bocca e bevo

alcuni sorsi profondi. Il liquido blu è fresco e midà sollievo alla gola. Mi chiedo cosa possaessere. È troppo denso per essere acqua etroppo rinfrescante per essere altro, decido ditenermi il dubbio. Da un angolo della stanzaMika tira fuori una sedia e si piazza accanto a

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me. Fuori dalla finestra è buio. Non saprei direquanto tempo sono stato via, ma sono quasisicuro che ci fosse ancora luce quando mi sonoaddormentato.

«Chi è lei?».Chiudo gli occhi.«Nessuno».«Cazzate, Vincent. Non raccontarmi bugie».Non rispondo. Trovo rilassante il ronzio dei

neon, e sprofondo nella mia mente, tra i mieipensieri.

«È fatta di qualcosa, inoltre continua atoccarsi la pancia».

Sollevo un sopracciglio e giro la testa asinistra, tentando di mettere a fuoco lo sguardosu Mika. Sembra preoccupata. Con la mia vistasfocata intuisco una spessa benda biancaintorno alla mia spalla.

«Sono piuttosto sicura che abbia qualchetipo di benzodiazepina nel sangue».

Benzodiazepine, rapide e pericolosissime,io lo so bene. La preoccupazione per Maria miinfiamma, mi appoggio al tavolo con la manosinistra per mettermi seduto. Ma sono ancora

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troppo stordito e ripiombo all’indietro.Mika non cerca neanche di fermare la mia

caduta. Si sporge in avanti invece, il suosguardo è gelido.

«Ha delle brutte lesioni alla vagina. Checazzo le hai fatto?»

«Non sono stato io», mormoro con vocetremante. «Come cazzo puoi credere che siastato io?».

Avrei voglia di picchiarla.«Ma che cazzo devo pensare? Chi è stato

allora?».Non rispondo. Non voglio dire troppo, Mika

potrebbe chiamare un centro di sostegno perdonne vittime di violenza o qualcosa delgenere, cosa che voglio assolutamente evitare.

Ho paura che possano separarmi da Maria.Mika si zittisce mentre gratta via un po’ dibrillante smalto verde muschio dall’unghia delpollice.

Poi fa un respiro profondo, tanto profondoche capisco che sta per dirmi qualcosa chepreferirei non sapere.

«È incinta».

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Mika mi aiuta ad alzarmi, scendo dal tavoloe pianto entrambi i piedi in terra. Mi sistemaaddosso una benda triangolare a cui fissa il miobraccio, poi mi fascia con altre bende il fiancosinistro in modo che non possa combinarepasticci e riaprirmi i punti. Funziona, non riescominimamente a muoverlo.

Mi guardo le mani. Sono coperte di sanguerappreso al punto di sembrare due guantisporchi di vernice color ruggine. Impossibiledire quanto di quel sangue sia mio e quantodell’uomo che ho picchiato. Il sangue è solosangue.

Maria dorme sul divano di Mika, un grandemobile rosso in stile rococò. Al posto dellaminigonna indossa ora dei pantaloni di tuta blue una maglietta scura. Il contrasto fa apparire lasua pelle più pallida. I lividi sulle sue braccia mifanno male agli occhi.

La piccola testa di Maria riposa sul braccioloe i folti capelli le cadono sulle guance comeinchiostro colato nero.

«Vi hanno seguiti?».Mika mi si piazza davanti a braccia

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conserte. Non può permettere che la sua attivitàvenga danneggiata da questa storia. Se lefanno irruzione in casa una decina di idiotiarmati per lei è la fine. Il business di Mika sibasa su discrezione e segretezza.

«Sì». Esito. «No. Non lo so. Cosa sai diPastor?».

Mika si irrigidisce e il suo sguardo si facupo.

«Vi ha seguiti Pastor?». Mika non ha maipaura, non è proprio da lei, ma stavolta non cisiamo lontani.

«No». Rafforzo la negazione con un gestoincerto della mano e Mika lascia cadere lebraccia in un gesto esasperato. «No, noncredo».

In realtà è molto probabile il contrario. Mikasi gratta la guancia, l’unghia contro la pelleliscia produce un suono ruvido.

«Lo conosci?», chiedo io.«No».«Ma sai chi è?»«Lo sanno tutti, Vincent. Se non lo sai

significa che sei un eremita oppure un

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ritardato».«Ho solo sentito il suo nome».Alza le spalle.«Come tutti. Sono pochi quelli che

veramente ne sanno qualcosa. Girano voci sudi lui e sulla banda dei vigilantes. È lui ilburattinaio, controlla che gli iugoslavi non siscannino troppo con i cileni e che gli altri stianoal loro posto. A essere in buoni rapporti con luici si guadagna e lui tiene tutti sotto scacco. Maè un soggetto imprevedibile e questo lo rendepericoloso».

«Hai per caso sentito se ha intenzione disparire dalla circolazione?».

Mika incrocia le braccia ancora una volta, michiedo se non mi stia nascondendo qualcosa.

«Spero di no. Ma ho sentito di sì».«Perché?»«Non ne ho idea. Nessuno lo sa. Lei ha

qualcosa a che fare con Pastor, vero?». Mika faun cenno con la testa in direzione di Maria cheancora dorme sul divano. «È una prostituta».

«Non è una prostituta», ribatto, e Mikaabbassa sia lo sguardo che il tono della voce,

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come se non mi volesse ferire.«Tu vuoi che lei sia qualcosa che non è,

Vincent».«No, ma non è una prostituta». Quella

parola mi brucia nella bocca, voglio sputarla.Mika sospira e allarga le braccia.«Avrei fatto meglio a fare il medico

ospedaliero, mi sarei evitata questa merda».Scompare borbottando. Sprofondo in un

divano accanto alla poltrona, vorrei nondovermi svegliare mai più. Con delicatezzapoggio la mano sulla testa di Maria, leaccarezzo i capelli.

Il suo respiro è regolare. Rallento il ritmo delmio al punto che è come se respirassimo congli stessi polmoni.

I miei pensieri vagano. Mi chiedo chi siastato a metterla incinta e dove ce ne andremoadesso. Se ci hanno seguiti e se dovrei dire aMaria che è incinta.

Quando si sveglia si guarda intorno finché

non mi vede, più o meno morto, seduto inpoltrona. Ho bisogno di altro antidolorifico, il

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mio corpo è una lampada a incandescenza chepuò spegnersi in qualsiasi momento. Poso lamano sul ginocchio di Maria ma lei sobbalza esi gira dall’altra parte. Serra le cosce, intrecciale dita e resta a guardarsi le mani.

«Don’t touch me».Rimango fermo a guardarla, incerto su cosa

fare. Quando infine incontra il mio sguardo, ilsuo viso è il ritratto del dolore e dellarassegnazione.

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TRENTADUE «Una macchina. Una macchina e... un’arma,

magari una pistola... oppure qualcos’altro, nonso».

Non riesco a rendermi conto che lo stofacendo davvero. Dall’altro capo della lineatelefonica, Jack ascolta in silenzio mentre io mimangio le unghie. Ho ancora macchie disangue rappreso sui denti e parlo a scatti.

«E io che cazzo ci guadagnerei?».Il suo tono di voce è annoiato. Questa cosa

non andrà in porto. Dall’altra parte della lineasento il frastuono di una metropolitana chepassa e Mika mi porge due compresse e unbicchiere d’acqua. Le ingoio mentre cerco difarmi venire in mente qualcosa che non lofaccia scoppiare a ridere.

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«Ti do un quarto dell’eroina... rimasta», glidico, con il risultato di farlo sbuffare.

«Stai cercando di fregarmi, eh? Mi fido piùdi un mitomane che di te. Tre quarti, e poi checazzo è successo alla tua voce?»

«Mi hanno sparato».Jack non ha alcuna reazione a questa

informazione, per lo meno non verbale.«Tre quarti», rantola infine.«Se arrivi qui entro un’ora».«Ehi, ma che opinione hai di me?».Non rispondo perché di Jack non ho proprio

alcuna opinione, per lo meno nessuna che sia ilcaso di condividere con lui in questo momento.Termina la telefonata.

Maria sta facendo la doccia e Mika stalavando via le tracce di sanguedall’appartamento. Vedere una parte di sestessi che viene cancellata, diluita nell’acquaper poi scomparire in un secchio, procura dellesensazioni particolari.

«E che ci devi fare con una macchina eun’arma?», chiede Mika, e so che non vale lapena di provare a mentirle. Il suo sguardo

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penetrante dà l’impressione di potertiattraversare, sono certo che mismaschererebbe subito.

«Non ne ho idea».Tutto ciò che so al momento è che se

rimaniamo a Stoccolma sia io che Maria siamomorti. Pastor non è stupido, sa bene che seMaria parlasse con Dante o con qualcun altrodella polizia, loro troverebbero un interprete eprima o poi la convincerebbero a sussurrare ilsuo nome in un microfono.

«Da qualche parte avrà dei genitori,Vincent. Forse anche un fidanzato. E magari inquesto momento si stanno chiedendo se siaviva oppure morta. Dovresti scoprire da doveviene».

Mika è molto più furba di me, credo abbiaintuito come stanno le cose e perché Maria sitrova in Svezia. Questo mi rende nervoso.

«Non appena avremo lasciato questoposto», dico io tentando di annuire. «Me neoccuperò allora». Io stesso non so se sonosincero o se sto mentendo, forse è proprio perquesto che Mika mi guarda in modo intenso,

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come se stesse cercando di prendere unadecisione, poi sospira e si allontana.

Il tempo si solidifica lentamente, comesangue che si coagula, fin quando si ferma deltutto.

Sono preoccupato e impaziente. Da unmomento all’altro mi aspetto di sentire il rumoreritmico delle pale degli elicotteri e poi poliziottiche si lanciano attraverso la finestradell’appartamento di Mika per togliermi Maria euccidermi. Contemporaneamente Pastor e isuoi scagnozzi fanno saltare la porta e siprecipitano all’interno per vendicarsi, perriprendersi ciò che mi sono portato via. Vengoaccerchiato, sono perduto. Questi pensieri miatterriscono, inizio a tremare dalla paura.

Maria esce dalla doccia con indosso ipantaloni della tuta e la maglietta di Mika. Sipotrebbe pensare che stia per fare un salto inpalestra prima di andare al lavoro.Un’impressione di normalità.

Via da Stoccolma. In qualche mododobbiamo lasciare Stoccolma. Probabilmentesiamo due prede facili in qualunque luogo, ma

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fuori da Stoccolma prenderci dovrebbe essereun po’ più complicato. La Svezia è un paeselungo e oscuro, pieno di ombre. Mentre ragionocosì Maria mi sta accanto. Ha poggiato la manocon cautela, molta cautela, sulla mia spallasana. Riesco quasi a percepire la sua paura.

«Non voglio sapere cosa diavolo ti è

successo».Sono le prime parole che dice Jack quando

Mika gli apre la porta. Non devo avere unbell’aspetto, con una ferita da arma da fuoco epallido e smagrito come un malato di cancro.D’altra parte sembra che io sia in grado dipronunciare frasi complete e prendo la cosacome un segnale di miglioramento.

«Ho un gran mal di testa».È la seconda cosa che dice Jack, con un

rantolo di voce. È vestito di nero e la sua pelle,se possibile, sembra ancora più piena dicicatrici rispetto all’ultima volta che l’ho visto.Gli occhi da serpente sono affilati come lame,sono sicuro che non ha la colonna vertebrale, èsolo muscoli e pelle ruvida.

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«Il furgone è giù», mormora.«Furgone? Io avevo chiesto una macchina,

non un furgone».Jack mi guarda, le sue mascelle masticano

senza sosta e i denti stridono.«Non è proprio come andarsi a comprare un

paio di scarpe, ok?»«E la pistola?».Maria mi raggiunge in corridoio e si ferma

accanto a me. La sua vicinanza mi fa vibrare.Vorrei che mi toccasse.

Jack mi guarda con disprezzo.«Che cazzo ti avevo detto di lei?», mi fa

Jack indicando Maria con un cenno del capo.Mika si piazza tra di noi. Gli arriva al petto, i

suoi avambracci hanno le dimensioni dei pollicidi Jack. Ma Jack ammutolisce e la cosa non misorprende. Mika incute rispetto come pochi.Mentre mi aiuta a infilarmi un’ampia camicianera, Jack rimane a fissare il vuoto, poi riapre labocca.

«La pistola sta sotto al sedile».

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TRENTATRÉ Un furgone è uno degli animali più piccoli

che si possono utilizzare per un trasloco. Sulcassone, in consumate lettere azzurre risalentia un’epoca in cui l’effetto serra era ancora unfenomeno sconosciuto, c’è scritto “Mangia lasalsiccia di Gustaf”.

A quest’ora Gustaf sarà morto e sepolto. Ilfurgone è così sporco che l’azzurro è diventatomarroncino e sembra che le ruote abbiano unaqualche forma di cancro. Guardo Jack.

«Mille grazie».«Chiudi il becco».Il tempo è ripartito, il percorso della terra

intorno al sole prosegue e all’orizzonte ilmattino inizia a spandere il suo primo rossore.Le mie tasche sono piene zeppe di cose

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importanti che ho ricevuto da Mika, siringhe conantidolorifici, pastiglie di morfina, bende,cotone, cerotti. Non avevo mai sentito primache fosse possibile utilizzare cerotti per curarele ferite da arma da fuoco, ma mi astengodall’esprimere dubbi. Non si sa mai, è faciletagliarsi con il bordo di un foglio di carta.

Prima o poi dovrò ricompensare Mika inqualche modo.

Questa consapevolezza mi tranquillizza.Provo ad aggrapparmi al pensiero che ungiorno potremo fare ritorno, vorrebbe dire chesiamo riusciti a sopravvivere.

Lungo il tragitto dal portone al furgone mivolto indietro più volte. Con la coda dell’occhiomi sembra di intravedere un’ombra, un motivovorticoso tatuato su di una testa rasata e unosguardo di ghiaccio. Ma non c’è nessuno.

Mi siedo al posto del conducente, incerto.L’ultima volta che ho guidato mi trovavo aJärvafältet24 , al volante di una Opel rubata. Erofuori come un balcone, e io e tre altri tossicistavamo sfasciando la macchina per dare untono alla serata. Per completare l’opera

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qualcuno aveva scritto “bevi coca-cola!” sulcofano. Non ricordo perché. È stato tanto tempofa.

L’aria nella cabina di guida è fredda eumida come vestiti bagnati. Il mio bracciosinistro è completamente fuori uso e midomando come facciano a guidare quelli chehanno un braccio solo. Maria si siede sul sedilecentrale e Jack si arrampica dalla parte oppostaalla mia. Mi piego, e con la mano frugo sotto ilsedile fin quando incontro qualcosa di freddo eduro che deve essere un’arma da fuoco. Lalascio lì dov’è.

«Adesso l’eroina», esige Jack.Gli do la chiave della casella postale e gli

dico che quando saremo a Rådmansgatanpotrà scendere a prendersela da solo, quellamerda. Mi guarda storto.

«Se riusciamo ad arrivarci», dice Jackscettico. «Non è meglio se guido io?»

«Devo imparare a gestire il mezzo».Giro la chiave e la radio suona uno strano

death blues. Sembra che a Jack piaccia, batte iltempo con i suoi grossi stivali. Viaggiamo al

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buio e in silenzio e la mia guida è pococonfortevole. Sono piuttosto sicuro che non siauna buona idea guidare, con tutte le sostanzeche ho in corpo. Immagino più volte che mi stiavenendo la visione a cannocchiale. Maria dà lespalle a Jack come se non volesse guardarlo.Non posso biasimarla.

Il primo notiziario del mattino interrompe illungo death blues mentre mi fermo aRådmansgatan con uno scossone involontario.

Una delle notizie principali presentate dauna voce androgina è quella che parla di colpid’arma da fuoco nel centro di Stoccolma. Lapolizia non ha ancora trovato traccia dellapersona ferita, nonostante ci siano le prove chel’uomo è stato raggiunto da un proiettileesploso da un’arma ancora sconosciuta. Non èancora stato identificato alcun sospetto.

«Il tuo attimo di celebrità», dice Jackindicando la radio con un cenno del capo primadi uscire dal furgone.

Alla notizia del mio ferimento ne segue unasulla banda dei vigilantes: la polizia ha ricevutouna segnalazione anonima riguardo alla

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destinazione del bottino. In tutto sono staterapinate undici banche e nessuno vuoleazzardarsi a stimare l’entità della cifra rubata,ma la polizia adesso ritiene di sapere che finefaccia il denaro.

Smetto di ascoltare. I miei pensieri sonovuoti come tele per dipingere dimenticate.Rimango seduto in silenzio accanto a Maria,cerco di vedere i suoi occhi e di capire cosa stiapensando.

Jack torna e dalla tasca della giacca estrael’eroina, così incredibilmente bianca e bella. Lamia ricompensa per essere stato il carceriere diMaria. Me ne vergogno e non vorrei prenderlama è l’unica cosa che abbia imparato ascambiare per denaro, per cui evito di pormi ilproblema. Guardo Jack con un’aria da idiotamentre con fare esperto travasa l’eroina che mispetta in un’altra bustina e me la passa.

«Un quarto a te». Esamina il contenuto.«Più o meno».

«Non fa niente. Grazie».Prendo la bustina, rassegnato. Jack è

immobile al suo posto, soppesa l’eroina che ha

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in mano e osserva la strada davanti a noi.«È stato Pastor», dico io, e mi sembra di

essere un bambino che tira fuori un argomentotabù di fronte al padre.

«Lo so», dice Jack. «Lo so bene».«Sta per sparir...»«Stanno succedendo cose laggiù», mi

interrompe come se niente fosse. Non riesco acapire se sta rispondendo alla mia domanda oparlando a se stesso. «È cominciata già unanno fa, forse te ne ricordi, se non ti sei fottutodel tutto la memoria a lungo termine. Unragazzino di massimo vent’anni che si fachiamare l’Americano».

Annuisco. La mia memoria di sicuro èbruciata, ma mi ricordo di quel nome. Jack silecca le labbra, nella penombra la sua linguasembra nera.

«Dopo di lui è arrivato Silver, lo iugoslavo diVällingby. Poi un altro tipo, uno svedese diAlby, non mi ricordo come si chiama».

«Hugo», dico io.«Chiudi il becco. Giusto, Hugo. È così che

funzionano le cose con questi bastardi,

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diventano più potenti attraverso gli agganci e lafama. Ad esempio si dice che un paio d’anni fa,in riformatorio, Silver abbia strappato la linguadi un tipo a morsi. Hugo, Silver e l’Americanonon hanno paura, hanno allargato il loro raggiod’azione e hanno diversificato le attività. Presisingolarmente non sarebbero un problema perun figlio di puttana potente come Pastor, ilquale però si ritrova a gestire quattro fronti, oltrea tenere a bada quei tre pazzi deve mantenere isuoi buoni rapporti con la polizia. Controllagran parte dello spaccio di droga in città, è acapo del contrabbando dell’elettronica, è ilnumero uno del lavoro nero nell’edilizia einoltre, a quanto pare, è il re dei magnaccia».Jack assume un’espressione disgustata.«Possiede la maggior parte dei locali e si fapagare il pizzo da una quantità incredibile dipiccoli commercianti».

Fa una breve pausa mentre osserva labustina che tiene in mano. Noto che statrattenendo il respiro, poi lascia uscire l’arialentamente, come se quell’atto avesse unsignificato decisivo.

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«Ma per quanto riguarda le altre attività»,prosegue, «quei tre brillanti casi di fallimentodei servizi sociali hanno cominciato aguadagnare terreno. Hanno la possibilità discalare posizioni di potere e lo fanno. Non glibasta avere tanto, vogliono tutto. Uno come tequeste cose le sa bene, vero Vincent?».

Si sporge in avanti e guarda il cielo.«Non ho più tempo per te adesso».«Ma...».«Non so altro». Apre la portiera e

nell’abitacolo entra puzza di gas di scarico e difrittura. «Vai in pace, bastardo». Lanciaun’occhiata a Maria. «E buona fortuna».

La porta si chiude con un botto che mi fasobbalzare. Lo intravedo nello specchiettoretrovisore ma in un batter d’occhio è giàsparito, risucchiato dal nero mattino diStoccolma. Cerco di mettere insieme i pezzi diinformazione che mi ha dato Jack, ma ancorauna volta scorgo un’ombra scura nel miocampo visivo e sento un gelo nella testa che mifa rabbrividire e perdere la concentrazione. Nonc’è nessuno e mi arrabbio con me stesso.

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Provo a fare un’inversione a U ma il furgoneha la stessa manovrabilità di un carrello dellaspesa, quindi rinuncio e continuo nella fila incui sono incastrato. I fari delle macchine miurlano in faccia e i conducenti si accanisconosui clacson senza alcun risultato. Per qualcheragione sono momentaneamente sordo, riescosolo a sentire il battito del mio cuore. Quandouna macchina mi passa accanto, siamo cosìvicini l’uno all’altro che schegge di vernice sistaccano e iniziano a svolazzare come nevenel vento. Quando riprendo il controllo dellasituazione sono ormai quasi arrivato a Hötorget.

Maria alza un sopracciglio e sorridespaventata. Borbotto tra me e me, respirandopesantemente e con grande affanno.

Dio si sveglia e il cielo con lui. Sprazzi di

giallo e rosso lo colorano e mi illudo di riuscirea vedere l’orizzonte, dove la terra finisce einizia un precipizio senza fondo.

In un momento di debolezza immagino cheil precipizio stia sussurrando il mio nome.

Ho la sensazione che qualcosa di più

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grande, di invisibile ma immensamente potenteruoti attorno alla mia vita. Tutto ciò che mi stasuccedendo, piccole coincidenze, troppeperché siano solo coincidenze. In un altrocontesto non significherebbero niente. Maproprio in questo frangente potrebberorappresentare qualcosa di più, che va al di làdel caso, qualcosa di intenzionale. Allo stessotempo ne dubito, potrebbe trattarsisemplicemente del desiderio che la vita siaqualcosa di più, che le mie azioni abbiano unsignificato più grande di quanto non abbiano inrealtà. Non riesco a capire e questo mi rendeinquieto. Il mio agire diventa imprevedibileprima di tutto per me stesso. L’unica cosa piùpericolosa del fatto non potersi fidare dinessuno è non potersi fidare di se stessi, e secomincio a dubitare del senso delle mie azionipuò accadere qualsiasi cosa.

La realtà. Devo agganciare i miei pensieri aciò che chiamano realtà. Fermo il furgone.Casa mia è un paio di incroci più avanti ma nonvoglio avvicinarmi troppo. Maria se ne staseduta in silenzio accanto a me, nell’oscurità

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della cabina i suoi grandi occhi sembrano neri.«Vuoi che...». Le mie parole muoiono da

sole, scorrono via nel nulla. Chiudo gli occhi eme li massaggio con la punta degli indici.

«Vuoi che ti aiuti a tornare a casa?».Le labbra di Maria sono impercettibilmente

dischiuse e le unisce un velo di salivatrasparente.

«Do you want to go home?». Come vorreiche parlassimo la stessa lingua. «Do youunderstand me?»

«Understand», dice lei utilizzando ognilettera della parola, che soppesa sulla puntadella lingua. La sua voce è meravigliosa.

«Do you want to go home?».Mette la sua mano sulla mia e scuote la

testa.«I have no home».«But... parents. You have parents».Il suo viso diventa gelido, sotto le pelle

regolare e scura i muscoli si irrigidiscono.«They sent me here, to become... a model».L’ultima parola sembra ferirla. Posa le mani

sulle ginocchia e le guarda con espressione

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vuota.«I have no parents», ripete.So come ci si sente. La sua voce è un

sussurro e dà l’impressione che stia ricordandoun incubo.

«Ma...». Esito e fisso lo sguardo fuori dalfinestrino. «Are you sure you want to do this?Sei sicura di volerlo fare?».

Maria non risponde. Poi però ha un brivido,mi rendo conto che avremmo dovuto chiedereuna giacca in prestito a Mika.

«I have a jacket», dico indicando casa mia.Con la mano destra tiro fuori l’arma da sotto

il sedile e ne percepisco il peso. È un revolvergrigio sporco e la canna è arrugginita. È moltopiù pesante di quel che credevo e dubito chefunzioni. Maria lo fissa e si scosta. Unospacciatore pazzo e inaffidabile con in manouna pistola inaffidabile almeno quanto lui. Michiedo cosa le passi per la testa in questomomento.

Il pesante revolver pende goffamente dalla

mia mano mentre saliamo le scale. Prima di

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andarcene devo prendere un paio di cose, coseche non voglio lasciare. Forse in realtà vorreisolamente entrare nell’appartamento erimanerci. Il futuro spaventa le persone con ilcuore esitante e il mio cuore è piccolo e fragile.

La spalla mi pulsa in maniera preoccupante,mi fermo per mettere un’altra capsula di morfinasulla lingua. Maria aspetta paziente e mi chiedoperché non scappi via, semplicemente. Non socosa stia cercando, ma io di certo non sono uncavallo su cui puntare.

Quando giro la chiave nella serratura sentoun click che non riconosco. Nell’appartamento,a due passi dall’ingresso, giace un corpotroppo, troppo immobile.

Sul cadavere pallido non c’è sangue, vedoun volto di donna perfettamente simmetrico.Occhi vuoti fissi sul soffitto.

Le sue labbra perfette sono bianche.Janina.È rigida, una bambola rotta che qualcuno ha

buttato sul pavimento. Dal suo petto provieneun ticchettio. Un timer digitale pieno zeppo diesplosivo e fili metallici riposa su quello che

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identifico come materiale esplosivo.Il timer indica 00:10 e noto un filo che mi

corre accanto fino alla porta, sicuramente eracollegato alla serratura che ho aperto.

Mi sento stupido e ingannato.00:09.00:08.Perderò ogni cosa.00:07. 24 Estesa area pianeggiante nei pressi di

Stoccolma, fino agli anni Settanta zona diaddestramento militare (n.d.t.).

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TRENTAQUATTRO Ignaro di dove poggio i piedi e in preda al

panico mi precipito giù per le scale, le vene mipulsano nelle orecchie e appena giungo alpiano terra, ecco l’esplosione.

La bomba che ticchettava sui seni enormi emorti di Janina è tanto potente da scuoterel’intero edificio. Da fuori deve sembrare unterremoto estremamente localizzato. Cado aterra e i punti della spalla iniziano a urlare. Miattraversa la mente l’immagine di un fungoatomico, un lampo di luce bianca che faimpallidire il sole e l’arma che ho in mano mivola via. Ci piovono addosso calcinacci epolvere. Il suono è quello di un aereo cheprecipita per poi schiantarsi al suolo. Mariagrida e cade vicino a me.

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Il mondo ha smesso di girare, verifico diavere ancora due piedi e dieci dita. Maria è giàin piedi e mi tende le mani per aiutarmi adalzarmi. Quando riprendo il revolver mi chiedoche senso abbia avere un’arma da fuoco se poicercano di farti fuori con le bombe.

Pastor. Questa dev’essere opera di Pastor.In strada l’aria è fresca e frizzante e faccio

diversi respiri profondi per non svenire. Ipassanti mattinieri fissano la casa sbalorditi, eindicano con un dito mentre portano l’altramano davanti alla bocca spalancata.

Come se potesse cambiare qualcosa.Durante il tragitto fino al furgone mi volto e

osservo gli effetti dell’esplosione. Colonne difumo e polvere salgono in cielo come fossero lebraccia di Dio, e dove una volta c’era il mioappartamento adesso resta solamente un buco.Lingue di fuoco lambiscono la facciatadell’edificio. Sembrano serpenti velenosi.

Janina, il suo corpo ridotto a polvereinsanguinata. La sua pelle aveva lo stessocolore smorto di quella di mia madre quandol’ho vista per l’ultima volta. Mi vengono le

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lacrime agli occhi e la vista mi si offusca.Inizio a singhiozzare in maniera

incontrollata e ho difficoltà a camminare. Ilmondo crolla. Maria mi aiuta a entrare nelfurgone, osservo il fumo e il panico intorno allacasa. I singhiozzi si esauriscono, le lacrime sifondono con la mia pelle come se non fosseromai esistite.

La pelle di Janina e quella di mia madreavevano la sfumatura di colore di una personaormai irraggiungibile, andata per sempre.

Metto in moto il furgone, che parte con un

sospiro esitante.In lontananza sento il suono delle sirene dei

vigili del fuoco. È tempo di muoversi. Il sole èormai un enorme sfera sopra di noi, ma ancoranon dà calore.

Mi rimane solo Maria, quando non resta chela fuga. La guardo di nuovo e lei schiudelentamente le labbra, sembra stia pesando leparole sulla lingua.

«Going to be okay», dice e io annuisco,inerme ma convinto.

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Le strade di Stoccolma sono le arterie delle

città, numerose e difficili da seguire, ma ilnostro viaggio è sorprendentemente tranquillo.La radio trasmette un brano di musica classicae Maria la accompagna canticchiando efacendo schioccare la lingua sul palato. Non sosu che strada siamo, ma leggo nomi di periferiea sud di Stoccolma e quattro file corrono suogni lato della strada. Le macchine avanzanocome insetti metallici. Mi pervade la falsacertezza che, in fin dei conti, niente è persempre.

Maria mette i suoi bei piedi sul cruscotto estudia il paesaggio che le scorre accanto. Lagrande città si trasforma in campagna ma ilmutamento è brusco e incongruente.Metropolitane e treni locali scompaiono,sostituiti da un paesaggio svedese morto.

Quello che volevo recuperare da casa mia,oltre alla giacca per Maria, ormai esiste solo informa di frammenti della dimensione di ungranello di polvere. Si trattava di una sola cosa,niente di più.

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Una scatola nera grande abbastanza dacontenere pistola, fondina e caricatore. Latenevo sotto il letto, ci conservavo quattrooggetti.

Il primo era la collana preferita di mia madre.Una collana di tessuto nero con una pietralavica vesuviana intagliata a forma di cuore. Avolte, quando sogno mia madre, la vedo mentreporta la mano alla collana e stringe quel cuore,accarezzandolo con un’espressionepreoccupata. Non appena lo lascia mi sveglio.

Il secondo oggetto era un volto ritagliato dauna foto di classe del liceo. Il viso sorridente diFelicia. Frequentava il primo anno all’ÖstraReal, avevamo appena iniziato a conoscerci.Nella foto di classe dei due anni successiviFelicia non sarebbe più comparsa.

Anche il terzo oggetto era una fotografia.Era stata scattata al reparto maternitàdell’ospedale quattro ore dopo che ero venutoal mondo, urlante e insanguinato, durante unanotte di temporale. L’infermiera avevascherzato con mia madre sul fatto che unfulmine era caduto a poca distanza nel

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momento in cui avevo aperto gli occhi per laprima volta. L’infermiera aveva riso e le avevafatto l’occhiolino.

«È un buon segno».Se solo sapesse.La foto raffigurava mia madre sotto una

coperta arancione chiaro mentre mi teneva inbraccio. Mio padre ci sedeva accantosporgendosi sopra di noi, e con la mia piccolamano avevo istintivamente afferrato il suo ditoindice. La luce dal fondo della stanza nonarrivava a illuminargli il viso, che era rimasto inombra al momento dello scatto.

Il quarto oggetto era una bustina di plasticache un tempo conteneva dieci capsule dimorfina. Ogni tanto aprivo la scatola, prendevodue capsule e me ne stavo lì a guardare lefotografie e a stringere la collana al petto,proprio come faceva mia madre nei miei sogni.

Un’edizione straordinaria del notiziario

interrompe la musica e comunica che unedificio è in fiamme nella parte sud diStoccolma. Si è sviluppata una densa nube di

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fumo, gli abitanti della zona sono pregati dirimanere in casa oppure di allontanarsi al piùpresto. Ancora si ignorano le cause e sequalcuno sia rimasto ferito.

Date una definizione di “rimasto ferito”.Le ruote girano monotone. Il vento frusta le

nuvole splendenti nel cielo e oltre l’autostradagiacciono paesaggi vuoti come bocchespalancate. Nel momento in cui quasi travolgouna macchina nella corsia accanto mi rendoconto di quanto sono nervoso e fatto. Quandoho ormai invaso metà della sua corsia ilconducente dell’auto si getta sul clacson.

Strattono il volante senza rendermi conto diquello che sto facendo. Riprendo il controllo ecerco di fare il conto della quantità di morfinache ho preso, ma il mio cervello non misostiene nell’impresa. La macchina mi supera eil conducente mi guarda in cagnesco. Ilbambino sul sedile posteriore mi mostra il ditomedio. Un attimo dopo la macchina è sparita,mimetizzata tra centinaia di altre macchinedavanti a noi. Maria se ne sta zitta e rigida conla bocca spalancata.

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«Sorry», dico cercando di sorridere, ma hole labbra gonfie e pulsanti, mi è tornata lavisione a cannocchiale e non controllo bene imovimenti. Via dalla strada principale, devofermarmi prima di svenire.

Siamo a sud di Södertälje, evidentemente.

Incredibile essere riusciti ad arrivare cosìlontano, ma d’altra parte la mia percezione deltempo è molto incerta. Svolto in direzione diuna strada di campagna, tremo come unafoglia. L’uscita dalla strada principale è unlungo giro che mi fa venire la nausea. Alla finedel giro ci attende la stradina di campagna,dritta e piatta come un righello in entrambe ledirezioni. Decido di svoltare a sinistra.

Il numero delle auto diminuisce fin quandorimaniamo completamente soli, poi la strada dicampagna ne incrocia una sterrata senzanome. Questo mi innervosisce.

Le strade senza nome sono sconosciute eimprevedibili. Questa va a finire in un boscomorto, mi chiedo quando sia stata l’ultima voltache una macchina è passata di qui. Costringo il

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furgone a percorrere la strada dissestata perriposare nella frescura del bosco, i rami nudidegli alberi ci attorniano come le pareti di untunnel.

Tutto d’un tratto sento il rombo di un motoree una macchina bassa e nera si lancia sullastrada bianca come se il conducente fosseinseguito. O come se stesse inseguendo.

La macchina è veloce, per un istante miisolo nel mio mondo, semi-incosciente cheMaria mi abbia preso la mano e la stiastringendo così forte che le nostre ossascricchiolano le une contro le altre.

Troppo tardi per tentare la fuga. Lamacchina è così vicina che riesco a leggere latarga, e nell’abitacolo mi pare di intravedereuna testa rasata ornata da eleganti tatuaggi.

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TRENTACINQUE La macchina nera sorpassa il furgone di

Gustaf e ci si piazza davanti di traversobloccando la strada. La carrozzeria splendentecome uno specchio riflette le immagini dei ramidegli alberi. L’uomo tatuato si getta fuori dallamacchina e il suo cappotto nero gli ruotaintorno con un movimento che ricorda un vestitodi Marilyn Monroe. La pistola che ha in manosembra eccessivamente lunga, poi mi rendoconto che ha un silenziatore montato sullacanna.

Una corda intorno al tuo collo, un cancroche ti divora da dentro, una pistola silenziata.La morte è così, inesorabilmente discreta esilenziosa.

L’uomo si piazza davanti al furgone con

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un’espressione che non lascia dubbi sulle sueintenzioni.

«Fuori!», grida puntandoci contro l’arma.«Fuori!».

La sua voce è stridula e spigolosa, il versodi un rapace troppo cresciuto. È impaziente estressato, pensa che ci stiamo mettendo troppoe viene dalla mia parte, apre la portiera conviolenza e mi colpisce in fronte con il calciodella pistola. Il dolore arriva a esplosionismorzate, ma ciò nonostante per un attimo vedosolo bianco. Quando vengo gettato fuori dalfurgone, la mano di Maria scivola dalla mia efinisco a terra sulla ghiaia a faccia avanti. Lapresa dell’uomo sembra una morsa tanto èsalda, sono impotente come un topo nellabocca del gatto.

Là dove giaccio posso percepire tutti i coloridella natura. La terra nera, l’ira rossa, la calmaverde e distante. La ghiaia è fredda e da dietrosento la voce dell’uomo.

«È finita», dice con la calma e la freddezzadi un manichino parlante. «Pastor mi ha detto didarti un messaggio: “era meglio se non ficcavi il

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naso”».Chiudo gli occhi, sereno, sto per iniziare un

sonno eterno e mi figuro davanti il dito che staper premere il grilletto.

Un colpo. Il frastuono è tremendo ma nonsento alcun dolore. Esamino l’interno delle miepalpebre e il mio primo pensiero è che forsesono già morto.

Poi sento qualcosa di pesante cadermiaddosso.

Questo significa che sono vivo. I morti nonhanno il senso del tatto e possono essereammucchiati in pile.

Qualcosa di caldo mi scorre lungo laguancia e mi entra negli occhi. È rosso, cerco diliberarmi. Quando riesco a voltarmi sentol’aroma di profumo maschile. E vedo Maria, lesue mani bianche strette sul vecchio revolver,un filo di fumo che esce dalla canna e sui suoiocchi è calato il buio.

Vedo rosso e davanti a me ho i tatuaggi diun cranio morto. Tento di allontanarlo mainvano, sono troppo debole e vengo preso dalpanico. Il mio grido d’aiuto muore in un rumore

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raschiante e il cielo sopra di me appareminacciosamente vicino.

Il primo progetto è quello di piazzare il

cadavere dietro al volante del furgone. Con unpo’ di fortuna potrebbe sembrare che si siaaddormentato e che sia andato a sbattere. Conuna ferita da arma da fuoco alla nuca. Non misono mai trovato a dover gestire il cadavere diun essere umano prima d’ora, e scopro a miespese che è praticamente impossibile daspostare. È come se le braccia, le gambe e latesta non avessero più articolazioni, oscillanoavanti e indietro. Le mie mani si bagnanoancora di sangue diventando viscide comepesci. Lotto senza tregua per non pensare eimpazzire. Tengo il corpo come se gli stessipraticando una manovra di Heimlich25 persalvargli la vita. Le sue gambe scivolanoall’indietro, se qualcuno ci vedesse potrebbepensare a una danza ridicola. Il foro che hasulla nuca mi si apre davanti. Il corpo è troppopesante, cado all’indietro. Il cadavere siappoggia a me in un abbraccio morto e senza

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forza e i punti sulla mia spalla ricominciano aurlare.

Arriva il vento e i rami nudi sferzano l’ariacome fossero pale. I capelli di Maria ruotano inun vortice mentre mi aiuta con il cadavere.Vorrei vedere il suo sorriso, i denti bianchirischiarerebbero il morto paesaggio svedeseche abbiamo davanti, ma le sue labbra nonsono altro che una linea dritta e incolore.

Alla fine decidiamo di metterlo nel cassonee in un momento di rabbia decido di bruciarequel maledetto furgone. Inizio a guardarmiintorno cercando qualcosa per appiccare ilfuoco. L’unica cosa infiammabile nei dintorni èla benzina ma l’unica benzina che abbiamo èquella dei serbatoi nei due veicoli. Facile checombini un casino che poi si concluderebbecon un’esplosione.

Inizio ad agitarmi, sento i rumori della stradaprincipale in lontananza e mi aspetto che ciscoprano da un momento all’altro.

«Go», dico. «We must go».Prima di allontanarci entro nel cassone, mi

siedo accanto al cadavere e frugo nelle tasche

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in cerca di sigarette e denaro. Le mie maniinsanguinate, tremando, trovano mezzopacchetto di Marlboro e quattro biglietti dacento. Esco e indico la macchina sportiva aMaria.

Non appena mi siedo al posto di guida mi

rendo conto che non è la prima volta che vedoquesta macchina. È l’automobile in cui io eJack abbiamo scarrozzato Janina e la suacollega. Maria si siede in silenzio sul sedile delpasseggero. So dove siamo diretti. C’è unvillaggio turistico con delle casette in mezzo albosco, un po’ più a sud, ci sono stato una volta.

«A sud», dico io. «We go south».Maria non reagisce. «I killed him. I really

killed him».Squilla un cellulare, il segnale è il ritornello

di una melensa hit degli anni Ottanta. Suldisplay c’è scritto “Pastor”.

Nell’abitacolo cala un fitto silenzio quandointerrompo la suoneria e rispondo allachiamata. Porto il telefonino all’orecchio edall’altra parte della linea arriva un’unica

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domanda pronunciata con voce suadente.«È finita?».Trattengo il respiro.«Pronto? È finita?»«Dammi una definizione di “finita”», dico io

espirando.Pastor ansima. Sospira e si allontana dal

cellulare. Sento voci sommesse. Quando tornala sua voce è stanca.

«Vincent. È veramente seccante sentire latua voce».

Non rispondo, la lingua mi cresce in boccafino a diventare inutilizzabile.

«Ti darò una possibilità, amico mio. Vieni alNorwegian Wood e arrenditi. Adesso.Possiamo risolvere questa situazione,Vincent».

Cerco di tirare fuori una capsula di morfinama la mano di Maria mi blocca. Penso abbiaragione. Non è una buona idea essere fattoquando guidi una macchina sportiva. Ripiegosu una Marlboro. Nel pacchetto c’è un piccoloaccendino e mi accendo la sigaretta di un uomomorto.

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«Vogliamo solo starcene in pace. Lasciacistare».

«Non posso», dice, e sono quasi sicuro chesia deluso per quanto è successo e per quelloche sta per accadere. «Sarebbeeccessivamente rischioso».

Non so cosa dire, aspiro il fumo marcio neipolmoni, immagino me stesso uscire dalla testadi Pastor spingendogli fuori gli occhi con ipollici per poi schiacciarglieli con grandesoddisfazione.

«Sarai mio nel giro di un giorno, Vincent.Arrenditi».

Non rispondo. Chiudo la telefonata e mettoin moto la macchina, mi pervade unasensazione sconosciuta, credo si tratti dipotere.

25 Tecnica di primo soccorso per rimuovere

un’ostruzione delle vie aeree (n.d.t.).

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TRENTASEI Mia madre venne seppellita una settimana

dopo il mio collasso sulla bara di mio padre inchiesa. Ero a malapena cosciente, grazieall’effetto composito della morfina edell’anfetamina.

I partecipanti erano meno numerosi rispettoal funerale precedente, mia madre non avevatanti amici e parenti quanti ne aveva mio padre.Furono versate poche lacrime.

Sedevano tutti nei posti più esterni deibanchi della chiesa, come se aspettasserosolamente il momento buono per fuggire da lì.Mi sentivo confuso. Abbandonato. La volontà diDio era legge e io non riuscivo a capire lavolontà di Dio. Mentre me ne stavo seduto lì,realizzai quanto mia madre fosse sempre stata

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invisibile, nei miei pensieri. Ogni persona puòpercepire una limitata quantità di emozioni,oltre la quale vede il mondo semplicementecome qualcosa che esiste e che va avanti perconto proprio. Non proviamo nulla. Le nostrevite sono piccole, molto piccole, e la mia non èmai stata più grande di quelle degli altri. Nellavita che avevo vissuto non c’era mai statospazio per lei.

Solo per mio padre.Me ne ero reso conto troppo tardi, e questo

pensiero stava per distruggermi la vita. Le vie ele case della grande città per poco non miaffogavano, all’aperto mi mancava l’aria. Lecase erano animali grigi a sangue freddo e lestrade provavano a ingannarmi aprendosi sottoai miei piedi.

Nei giorni peggiori, quando rischiavo diandare in overdose di qualsiasi droga ocomposto, Marko si stabiliva da me. Si curavache ogni tanto mangiassi e che non soffocassinel mio stesso vomito.

Guardavamo film asiatici violenti, potevovedermi un film intero senza accorgermi che

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non c’erano i sottotitoli.Marko mi aveva parlato di un piccolo

villaggio fuori Södertälje, in mezzo al bosco.Veniva gestito da una vecchia che in un primomomento aveva messo su una sorta dilaboratorio tessile, poi lo aveva trasformato inun villaggio turistico. Si diceva che la donnafosse sola e muta.

Un’idea del genere mi sembrava orribilealmeno quanto quella di rimanere a Stoccolma.La sera stessa Marko mi aveva messo inmacchina e portato fin là.

«Bevi molta acqua», aveva detto Markoprima di ripartire. «E non ti prendere troppamerda».

Certo, certo. Acqua. Nella mia borsa c’erauna bustina piena di anfetamine, un po’ diecstasy, due dosi di cocaina e due dozzine dicapsule di Oramorph.

Il villaggio si trovava in una raduracircondata da un muro di alberi tanto fitto cheall’interno sembrava notte fonda. Nell’areac’erano cinque o sei casette non più grandi didieci metri quadrati, e al limitare della radura un

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edificio un po’ più grande con l’insegna“reception e prenotazioni”. Dominava iltradizionale colore rosso scuro delle case dicampagna svedesi con gli infissi verniciati dibianco.

Marko era sparito, la donna muta allareception mi faceva paura. Mi sento poco a mioagio con le persone che non possono o chenon vogliono parlare. Mi diede una chiave e miguardò come fossi un serpente velenoso.

La casetta era vuota, a eccezione di un letto,un tavolo e delle tende alle finestre. Sul tavoloc’era una vecchia macchina da cucire, una diquelle che si vedono nelle fotografie in bianco enero della Parigi di inizio secolo.

Svuotai la bustina con le capsule e lecompresse sul tavolo e decisi che sarei rimastolì fin quando non fossero finite le scorte.

L’ambiente del villaggio turistico migliorò

lievemente le mie condizioni. L’aria era buonae fresca, sembrava di respirare ossigeno puro,e c’era un silenzio che mi tranquillizzava.Facevo sempre dei bei trip e parlavo con gli

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altri ospiti. Si trattava per lo più di gente chefuggiva da qualcosa, coppie giovani conmacchie rosse sui vestiti, uomini soli consorprendenti quantità di contanti, signori di unacerta età in giacca e cravatta in compagnia didonne giovani che non fornivano quasi mai leproprie generalità.

Mi piaceva.All’inizio.Ero abituato a urla e motori, gas di scarico e

centinaia di lampioni che tengono lontano ilbuio. In questo villaggio faceva tanto buio chechiudere gli occhi o meno non faceva alcunadifferenza.

Il silenzio era così intenso che avrebbepotuto far venire una psicosi. Sogni e ricordirisalivano lungo il mio corpo come insetti earrivavano alla mente. Mi svegliavo per le feriteche mi infliggevo graffiandomi il petto e lebraccia. Mi tornava alla mente mia madre,l’espressione del suo viso quando tornavo dascuola. Solo chi è stato picchiato dal propriopadre può capire quell’espressione.

Stoccolma mi faceva diventare pazzo e mi

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faceva diventare pazzo anche il bosco. Non eraun problema di natura geografica ma disentimenti. I giorni arrivavano strisciando. Nonricordo il momento in cui decisi che era ora difar ritorno a casa.

La notte prima di ripartire per Stoccolma fu

una delle peggiori. Ingurgitai una dose diecstasy di gran lunga troppo forte per poterlabilanciare con le capsule di morfina che mirimanevano. Avevo perso il controllo e riusciread addormentarmi era impensabile.

Esaminai le tende della casetta. Eranotremendamente brutte, reliquie degli anniSettanta con un motivo di frutta su sfondobianco.

Mi venne l’idea di farci un abito. Non sareistato capace neanche di fare un cuscino, madopo aver scoperto che la macchina da cucireeffettivamente funzionava, mi misi all’opera.

Ero talmente fatto che la casetta avevaassunto una forma circolare e i coloridell’arcobaleno, divenendo così una pallaallegramente colorata. Canticchiando tirai giù le

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tende e ne stesi una sul pavimento. Mi cisdraiai sopra e con una penna a sfera disegnaii contorni delle mie gambe.

Ripetei l’operazione con la seconda tenda,tagliai lungo i contorni disegnati e cucii insiemele due parti. Con mia grande sorpresa scopriiche i pantaloni erano troppo stretti, nonpassavano neanche per i polpacci. Avevotralasciato di considerare che il corpo umanoha uno spessore.

Mi alzai in piedi per osservare la miaimmagine riflessa nel buio vetro della finestra.Ero esile come un pesce appena nato,immaginavo di poter vedere il mio stesso cuorepompare attraverso la pelle.

Con le parti rimanenti delle tende avevopensato di cucire una giacca, ma ormai eranoinutilizzabili. Se non ero stato capace di fare unpaio di pantaloni, non aveva senso cimentarmicon un’opera ancora più complessa. Alloracucii insieme i due frammenti e mi ci avvolsi,utilizzando il risultato come mantello.

Mi aggiravo nervosamente nella casetta,fatto e disperatamente solo. Ero un super-eroe

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triste con un vestito fruttato, un eroe che nonpoteva salvare nessuno, e il dramma era che lavita sembrava non dover mai finire.

Al mattino ero ancora sveglio. Me ne stavo

disteso sul letto in preda alle allucinazioni,accanto a me c’era mia madre che miaccarezzava i capelli. Era bellissimo starlevicino, averla lì accanto a me. La sua voceleniva le mie sofferenze.

«Stai tranquillo, andrà tutto bene. Non seimai solo. Non sei mai solo».

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TRENTASETTE Onde radiofoniche ci aggiornano sulla

bomba nel mio appartamento. Mi sono perso einnervosito, non riesco a ritrovare la strada peril villaggio. Intorno non ci sono che strade,boschi e automobilisti stressati. Maria si èaddormentata, ha la pelle d’oca e si stringe lebraccia intorno al corpo. L’aria condizionatadella macchina ci sta congelando e io non socome spegnerla.

Una voce femminile ci informa che la poliziasospetta che nell’appartamento ci fosse unadonna, al momento dell’esplosione. C’è unindiziato, un uomo di circa cinquant’anni. Lapolizia non intende rivelare ulteriori dettagli.

Pastor. Spengo la radio, sollevato. È laprima volta che mi capita di apprezzare

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l’operato della polizia. Osservo Maria. Si èrannicchiata, il suo corpo è rigido. Le bracciaincrociate all’altezza del ventre, mi chiedo senon sappia di essere incinta.

Il mondo si basa sulla teoria del caos, ilbattito d’ali d’una farfalla provoca un terremotoche uccide milioni di persone e tra nove mesiun bambino aprirà gli occhi e si chiederà in chediavolo di mondo si è svegliato. Questopensiero mi opprime, mi assale una fittalancinante alla spalla, purtroppo ogni tanto ladevo usare per guidare e di sicuro non le fabene. Cerco un cartello con l’iscrizione“villaggio turistico” e un vortice di astinenza micresce dentro, inizio a tremare e ad avvertireuna crescente sensazione di angoscia.

Squilla un cellulare. È il mio, ci armeggio inmodo maldestro prima di riuscire a rispondere.

«Vincent? Vincent, ci sei?».Dante. La sua voce mi tranquillizza, la

associo all’immagine di un padre che raccontaal figlio cose importanti da sapere nella vita.

«Sì».Mi chiede dove sono e gli rispondo che è

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davvero un’ottima domanda.«Devo parlarti», dice lentamente.Svolto a sinistra su una strada sterrata che

potrebbe essere quella che conduce alvillaggio turistico, ma non mi stupirebbe troppose invece ci portasse in Norvegia.

«Il tuo appartamento, Vincent. Pensiamoche ci sia morta una donna».

Janina. Qualcosa dentro di me si contorce, ilcuore mi si stringe.

«Lo so», rispondo con voce rotta.«Dove ti trovavi stamattina alle sette?»«Non lo so, io... ho qualche problema con la

cognizione del tempo».«La donna nell’appartamento, sospettiamo

che le abbiano sparato alla schiena». Sospiraprofondamente. «E ci sono testimoni cheaffermano di averti visto lasciare l’edificio conun revolver in mano pochi istanti dopo ladetonazione».

Capisco dove vuole arrivare. Ma è statoPastor a uccidere Janina. Non c’è alcundubbio. Mi tornano in mente la sua enormepistola e l’anello al dito altrettanto spaventoso.

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Proseguo sulla strada sterrata, il piede sulpedale del gas mi trema e la voce nel telefoninoinizia a diventare metallica.

«Sei solo in macchina?», chiede.«Sì», gli rispondo rigido e troppo in fretta.«Dubito che tu stia dicendo la verità». Mi

sembra quasi di sentire Dante masticarenervosamente.

«Perché?», dico con tono ancora più rigido.Pastor. Deve averglielo detto Pastor. Ma èimpossibile, Dante non si fiderebbe mai di unasua soffiata. Improvvisamente qui dentro l’aria ègelida.

«Sono innocente, non ho fatto nulla». Devosforzarmi di controllare la voce per nonsvegliare Maria.

«Sappiamo del cadavere dell’uomo a sud diSödertälje. Il tuo amico, Vincent. Ti suonaqualche campanello?»

«Non era mio amico», sbuffo e oscilloinvolontariamente avanti e indietro sul sedile.«Proprio non era mio amico».

«Capisco».Non credo capisca veramente, ma tengo il

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dubbio per me.«Non penso sia stato tu, Vincent», dice

Dante.«Certo che lo pensi, non mentire».«No, non penso che sia stato tu, ma

abbiamo bisogno di parlarti».Sono indeciso: non so se credergli o meno.

Forse sta mentendo per guadagnarsi la miafiducia. Sembrerebbe contraddittorio ma è cosìche fa la polizia.

«Dove sei, Vincent? Torna a Stoccolma,possiamo risolvere questa situazione».

Le stesse parole di Pastor, la cosa midiverte ma mi fa perdere tutta la fiducia cheavevo in lui. Non è altro che un poliziotto.

«È stato Pastor», rantolo io con voce rotta.Una sensazione claustrofobica mi assale evengo preso dal panico.

Nell’oscurità vedo un cartello conl’iscrizione “villaggio turistico”. Riesco abalbettare il numero di targa della macchinaargentata di Pastor e quello del suo cellulare,nella speranza che possano servire a Danteper rintracciarlo.

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«Lascia perdere, Vincent. Rassegnati etorna a casa, troveremo una soluzione».

Casa mia è saltata in aria, quando ci pensomi chiedo se l’ho mai avuta davvero, una casa.Maria si è svegliata e mi guarda stupita, gliocchi assonnati. Faccio un respiro profondo etento di riflettere.

«La banda dei vigilantes», dico in untentativo disperato. «Oggi la polizia ha ricevutouna segnalazione anonima su dove si trovano isoldi. A gestirli è Pastor. Credo che stia persparire dalla circolazione, vuole far perdere leproprie tracce. Fai un controllo e chiamamiquando hai conferma. È la mia condizione perarrendermi e tornare».

Dante resta in silenzio. In sottofondo sisente il rumore di una penna che scrive su unfoglio.

«Vincent...».Più di questo non dice e mi rendo conto che

andrà tutto a rotoli, continuo a parlare nelcellulare ma invano, siamo ormai arrivati alvillaggio e la copertura di rete va diminuendofin quando la telefonata si interrompe.

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Peggio. Va sempre peggio.Sono a un passo da una crisi e Maria mi si

avvicina, poggia la mano sulla mia nuca condelicatezza. La esamino attentamente, ogniparte del suo viso, il movimento di ognimuscolo. Il modo in cui le sue sopracciglia sialzano quando è stupita e come si rabbuiaquando pensa.

Come mi guarda, quando noi siamo l’occhiodel ciclone e il ciclone è il mondo intorno a noi.

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TRENTOTTO L’aria è così umida e fredda che lungo il

tragitto tra la macchina e la reception inizio abattere i denti. Attraverso la finestra intravedo ladonna muta e vengo proiettato in un’altra epocadivenendo un involontario viaggiatore neltempo e ricordandomi del mio unico tentativo dicucirmi un abito. Il tempo guarisce tutte le ferite,eccetto quelle del cuore. Cingo il fianco diMaria in modo da farci apparire una coppietta,ma in realtà mi sta sorreggendo.

Nella reception la vecchia guarda conespressione ingrugnata una piccola TV chedeve essere arrivata in un momento posteriorealla mia precedente permanenza. L’immaginesfoca a intervalli irregolari. Il mio naso vieneraggiunto da un odore di legno vecchio. I

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capelli grigi della donna sono un unico bloccodi riccioli.

La pelle è talmente rugosa da sembrarecoperta da cicatrici.

«Una notte, grazie».Nessuna reazione. Il suo sguardo resta fisso

sulla TV. Quando sbircio lo schermo rimangoimpietrito. Al notiziario della sera una voceaccompagna, con uno studiato livello dicoinvolgimento, il video di un uomo. Si ritienesia l’attentatore dell’appartamento nella zonameridionale di Stoccolma. Due turisti lo hannoripreso con una videocamera.

Ecco come ci si sente a essere unacelebrità.

Sul marciapiede di una strada del centro diStoccolma una giovane donna danza e ride,tende le braccia al cielo e guarda gli alti edificicon un sorriso ampio e pieno d’amore. Ognicosa brilla, e splende il sole. Nel microfonoamatoriale della telecamera portatile i rumoridel traffico e della grande città risuonanolontani. È una bella scena, la donna sembrainnamorata del cameraman come può esserlo

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un’adolescente. Poi il cameraman scorgequalcosa in un angolo dell’obiettivo. Un uomosanguinante attraversa la strada zoppicando incompagnia di una donna bruna. Arranca con lemani insanguinate, entra nel bel filmato deituristi rovinandolo. Poi scompare dietrol’angolo.

Non ho alcuna consapevolezza di esserestato ripreso, mi sento ridicolizzato come unundicenne a cui un compagno di classe abbiaabbassato i pantaloni davanti alle ragazzedurante l’intervallo. Il fatto che qualcuno miabbia filmato quando mi avevano appenasparato mi appare come una violazione,un’intrusione.

Batto sul banco con disperazione e lavecchia sobbalza e si rivolge a me.

«Una notte, grazie. Per due».La donna sbircia lo schermo sul quale è

tornato il viso truccato dell’anchorman della TV.Poggio due biglietti da cinquecento sul banco eli spingo verso di lei, in modo che non facciadomande. Non ne fa. È muta. Sulle banconoteci sono schizzi di un sospetto colore rosso.

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Ricevo una chiave e riesco a biascicare unostentato “grazie”.

La casetta è quasi identica a quella della

volta precedente. L’unica differenza degna dinota sta nei due asciugamani blu sul letto e nelbiglietto plastificato ingiallito che informadell’esistenza di una doccia nell’edificioprincipale.

Che lusso sfrenato!Devo dare un’occhiata alla mia spalla e non

so se sia il caso di farmi una doccia o meno,per quel che ne so i punti potrebbero marcire oroba del genere...

Maria si guarda intorno con curiosità. L’ideache si è fatta della Svezia deve essere moltoparticolare, per non parlare dei suoi abitanti. Leprendo la mano, ci metto un asciugamano ealzo un sopracciglio.

«Yes», mi dice. «That would be... nice».Usciamo nel buio e ci dirigiamo verso

l’edificio principale. La donna sta ancora sedutaal bancone a guardare la TV, il che èpreoccupante. La stanza della doccia è sul

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retro, in una parte nuova costruita in legno, ègrande come una bara e priva di luce. L’internoè piastrellato di mattonelle nere e nell’insiemec’è qualcosa di fastidioso dal punto di vistaestetico.

Prima di entrare nel buio, Maria si gira e siavvicina a me, sento l’odore dei suoi capelli e isuoi seni sfiorano le mie costole. I nostri respiricondensati per il freddo si mescolano nell’aria.Con una mano mi accarezza la guanciaseguendone i lineamenti e mi scopro timidocome un bambino.

Le sue labbra atterrano con lentezzastraziante sulla mia guancia.

Sono morbide e calde. Il tempo si blocca,chiudo gli occhi.

«Grazie».Lo sussurra pronunciando le consonanti nel

fondo della bocca, il risultato è un suonomorbido, simile a una goccia che cadenell’acqua26 .

Ritorno alla casetta, confuso. La sensazione

delle labbra di Maria è ancora sulla mia

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guancia. Non c’è alcuno specchio, perrimuovere le bende utilizzo il riflesso dellafinestra.

Ho messo a dura prova il bendaggio, sonostato costretto a muovermi. In alcune parti si èallentato e macchiato di rosso.

Con dita tremanti metto una capsula dimorfina sotto la lingua, non per farmi ma permantenere la calma.

Il sangue non può essere il mio, deveappartenere all’uomo nel furgone. Una voltarimosse le bende noto che i punti sono ancorastretti e puliti, sembrano formiche morte. Cigiocherello con le dita ma quando mi rendoconto che sto toccando l’unica cosa che miimpedisce di morire dissanguato smettoall’istante.

Maria ritorna. Si è rivestita e si è annodatal’asciugamano blu intorno alla testa. Pareavvolta in un pezzo di mare, il blu le sta bene.Senza i capelli a incorniciarle il viso laregolarità dei suoi lineamenti è ancora piùevidente. Risplende nella luce calda dellacasetta.

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Entro nella buia stanza della doccia e mi

sorprendo che ci sia l’acqua calda, la lasciotamburellare sul mio petto e scorrere giù lungoil corpo. Quella di fare la doccia senza bagnarele spalle è un’arte complessa, mi ci vuole unpo’ prima di trovare un’angolazione cheimpedisca all’acqua di cadere sui punti. Mipulisco il sesso con ritrovato fanatismo.All’improvviso vengo preso dalla sensazioneclaustrofobica di essere sepolto vivo, per cuibagno l’asciugamano, lavo la spalla condelicatezza e mi precipito fuori.

Lungo il tragitto di ritorno verso la casettafischietto per evitare di pensare.

Maria si è tolta l’asciugamano, si è messa a

letto e si è avvolta in una coperta. Non mi reggoin piedi dalla stanchezza e crollo accanto a lei.Si sdraia di lato e mi esamina la schiena e laspalla passeggiando con i polpastrelli sullapelle.

«Looks good».La sua voce è soffice come velluto e i suoi

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occhi sono svegli e scuri.Tendo la mano verso l’alto e la guardo.

Maria si irrigidisce e io non oso respirare. Leaccarezzo la guancia con la punta delle ditausando tutta la delicatezza di cui sono capace.È morbida e soffice come quella di un bambino,sotto le mie dita fredde la sua pelle è caldacome se avesse la febbre.

Non so cosa dire per cui non dico niente elei annuisce lentamente, seria. Le mie dita sullesue spalle, sulle scapole. Maria è nuda eleggera, linee meravigliose e migliaia di odori, ilsuo corpo è fuoco vivo. Quando penso a quelloche le hanno fatto passare stringo i denti.

Quando scosta la mia mano lo falentamente e con calma, poi accenna un sorrisoe si gira dall’altra parte. Rimango fermo, incerto,ad ascoltarci respirare. Dopo qualche istante lasua mano cerca la mia e lascia che io laabbracci. Poggio la mano sul suo seno, sentola sua schiena contro il mio torace. Chiudo gliocchi e rimango immobile fin quando siaddormenta. Nel sonno ha degli scatti e sistringe a me, la sua mano non lascia la mia.

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26 Pronuncia la parola svedese tack (n.d.t.).

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TRENTANOVE «Che pagliaccio».Seduto in poltrona davanti alla TV mio

padre mandava giù il suo whisky. Scuoteva latesta come se stesse commiserando la morte diqualcuno, sospirando alle parole vuote di unpolitico impegnato in un dibattito televisivo.

«Che tristezza pensare che la gente ascoltaqueste scemenze, e poi ci credono pure».

Fece un cenno in direzione della TV ebevve un altro sorso di whisky. Avevo quindicianni e la finestra era aperta. Sentivo il brusio diStrandvägen in lontananza, il suono della notteestiva sembrava un sussurro malinconico cheparlava di futuro. Le mie mani sapevano ancoradi ferro.

Ogni volta che ho pulito via del sangue dalle

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mani ci sono volute molte ore per mandare vial’odore ferrigno. È una traccia dura a venir via,come un batterio resistente. Con il tempo hoimparato a conviverci.

Il film alla TV era Rocky IV, i protagonistierano un Sylvester Stallone assetato divendetta e un Dolph Lundgren decerebratonella parte di un pugile sovietico di nomeDrago. Nelle scene degli allenamenti cheprecedono l’incontro decisivo si vede DolphLundgren collegato a una serie di computer permezzo di elettrodi applicati sul corpo. La suaespressione è granitica e il sudore scorrecopioso mentre un’équipe di allenatori locirconda. Rocky si allena nel bosco tagliandolegna, trasportando tronchi e tirando slitte comefosse un cane. La simbologia è evidente. Dragoe l’Unione Sovietica sono una macchina,Rocky e gli Stati Uniti sono una persona. Laloro lotta è uno scontro tra titani, tra l’uomo e ilmostro, tra natura e macchina.

Mio padre indicò la TV con un cenno.«È facile capire per chi vogliono che

facciamo il tifo, quelli».

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Seduto sul pavimento accanto alla poltronadi papà mi chiedevo chi fossero “quelli”. Miamadre, seduta accanto a lui, gli posòlentamente la mano sulla nuca.

«Leonard».La sua voce era bassa e ansiosa, e io ne

conoscevo la ragione. Dall’altra parte dellaparete della mia stanza sentivo le botte, dinotte, sibilanti e improvvise come unammazzamosche contro un muro. Contavo icolpi come si contano i secondi tra il fulmine e iltuono, milleuno, milledue, milletre fin quandonon ricominciavano. Cominciava ad averepaura di lui.

«Ma è vero, Ulrika».La sua voce era impastata e grave. Mia

madre non si arrendeva.«Che importanza può avere se è vero o

meno».Anziché risponderle, mio padre voltò

lentamente la testa fino a incontrare il suosguardo e la fissò. Mia madre lo fissò a suavolta per un paio di secondi, prima diabbassare la testa. Poi si guardò intorno,

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irrigidendosi come un poliziotto che si apprestaa caricare.

«Dov’è Elsa?».Né io né mio padre rispondemmo, anche se

per motivi completamente diversi.Mio padre perché era ubriaco, io perché

l’avevo vista due ore prima. «Merda».Stavo accanto al ripiano della cucina nel

nostro appartamento. Davanti a me, sullavandino, c’erano una tazza di caffè ed Elsa, ciera salita mentre rispondevo al telefono per direche papà purtroppo non era ancora tornato dallavoro.

Nessuno di noi aveva mai espresso ildesiderio di avere un gatto.

Un collega di mio padre aveva una gattache aveva appena partorito quattro piccoli. Nonsi sapeva bene come fosse rimasta gravida, macerto doveva pur essere accaduto ciò cheprecede la nascita di ogni essere vivente. Ilcollega aveva chiesto a mio padre se volevacomprare un cucciolo e lui gli aveva risposto di

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no. Quando poi glielo aveva offerto gratis, miopadre era tornato con Elsa. Aveva solo dodicisettimane. Ma quando un gatto entra in unacasa avviene qualcosa, prima o poi si stabilisceun’intesa tra l’animale e uno dei familiari. Unosoltanto sviluppa un rapporto più forte con ilgattino e ne rivendica il possesso. Nel nostrocaso fu mia madre. Elsa era la gatta di miamadre.

Ben presto scoprimmo che Elsa non eracompletamente a posto. In primo luogo avevaun problema di equilibrio. Quando era cucciolanon utilizzava le zampe posteriori, avanzavacon quelle anteriori trascinando il sedere sulpavimento. Tempo dopo, quando ebbeimparato a usarle tutte e quattro, accadevacomunque che a volte la sua parte posteriore siafflosciasse, come spinta al suolo da una manoinvisibile. Il secondo problema era che nonsapeva miagolare. Apriva la bocca senzaemettere alcun suono. Non ho mai sentito il suoverso. Infine, se provavi a giocarci insieme, leinon ne capiva bene il senso. Qualunque gattinoimpazzisce quando gli si agita davanti un

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pezzetto di carta o un filo di lana. Iniziano acombatterci, a rincorrerlo, e la situazione lieccita tanto che sembrano indemoniati. Elsainvece non faceva altro che guardarci come sele avessimo messo davanti coltello e forchetta ele avessimo chiesto di tagliare una pizza.

Sul pavimento, accanto ai miei piedi, c’eraun mortaio verde muffa dal quale era cadutauna fine polvere bianca. Era l’unica morfina chemi rimaneva e sapevo che mia madre sarebbetornata da un momento all’altro. Era raro cheutilizzassi la morfina come dolcificante per ilcaffè ma la cosa capitava, quando desideravouna sensazione di benessere decisa ecrescente. L’effetto eccitante del caffè eracomplementare a quello calmante dellamorfina, e l’insieme mi dava una sensazione diserenità.

Tirai fuori una spatola da uno dei cassettiper cercare di recuperare la polvere caduta. Miaccorsi però che la polvere aveva iniziato acambiare colore, dal bianco della neve a ungrigio simile ad acqua di risciacquo. Accostai lafaccia e sentii l’odore acre dell’urina. Elsa non

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era che un cucciolo, e chiunque abbia un gattosa che un cucciolo non si fa alcun problema afare pipì nel proprio cibo. L’ultima morfina chemi rimaneva galleggiava sul pavimento in unapozzanghera di piscio di gatto.

Neppure io ero disperato al punto dicompiere quel gesto. O per lo meno non lo eroallora.

Ciò nonostante persi il controllo. In preda auna crisi di rara intensità mi accasciai e sentiitutti i muscoli del corpo tendersi. Imprecai cosìforte che sembrava mi si stessero spaccando lecorde vocali. Mi rialzai, mi caricai come unamolla ed esplosi un calcio disperato in aria.

Ma non colpii l’aria. «Batman ha tutti i marchingegni più

gagliardi, tutti i trucchi e i gadget. Chipreferiresti essere, lui o il Joker?».

Mio padre esigeva una risposta. Miscervellavo per riuscire a trovarne una che nonlo offendesse mentre mia madre continuava aperquisire ogni stanza dell’appartamento allaricerca di Elsa, una gattina di sei mesi.

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«Batman ha tutti gli aggeggi. Joker ha solo...il suo cervello».

«Non hai capito cosa intendo».In quelle parole c’era qualcosa di

minaccioso. Un mondo privo d’amore alimentaazioni e parole prive d’amore.

«Da piccolo eri esattamente come seiadesso, Vincent. Non volevi mai essere thegood guy. D’altronde non va praticamente anessuno. Tutti vogliono sempre essere ilcattivo. E sai perché, Vincent?».

Nello slancio il mio piede si scontrò con

qualcosa. Qualcosa di morbido, che aderì alcollo del piede per alcuni istanti, prima che laspinta aumentasse al punto di scagliarla via.Sia il tatto che l’udito mi suggerivano chequalcosa si stava spezzando. Una palla sfocatae ovale schizzò in alto a sinistra, poi la gravitàne vinse il peso e la palla cadde verso il basso,sbatté contro un fornello e atterrò infine con untonfo sordo e lieve.

Gli occhietti di Elsa erano chiusi, la boccauna fessura, e intorno a lei, sul pavimento di

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legno bianco della cucina, si spandeva unliquido viola.

Piansi in silenzio provando una vergognaindescrivibile, mentre infilavo il corpo in unsacchetto nero di plastica e la portavo nellastanza dei rifiuti. Pesava così poco, come fosseun peluche.

Passai lo straccio sul pavimento dellacucina in preda al delirio, e quando mia madretornò a casa avevo appena finito di vuotarel’ultimo secchio. L’acqua che scorreva nellavandino era ormai quasi trasparente, soloosservando con grande attenzione sarebbestato possibile distinguere un debole riflessorosa.

Mio padre abbassò lo sguardo su di me,

seduto sul pavimento, e mi rivolseun’espressione di superiorità. I suoi occhi eranoacquosi, rossi e duri.

«Sai perché vogliono tutti stare dalla partedel male, Vincent?».

Scossi la testa, improvvisamente misembrava di avere la metà dei miei anni. Mio

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padre sorrideva.«Perché il lato oscuro vince sempre».Più tardi, la sera, dissi a mia madre di aver

visto Elsa accanto alla finestra aperta dellostudio di papà. Forse era atterrata sulle zampe,come fanno i gatti di solito. Con quelle parolecercai di consolarla. Non ha mai saputo, mivergognavo troppo per raccontarle la verità.

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QUARANTA La notte è ovunque, sulla mia pelle, nella

mia bocca, nella mia testa.I miei pensieri girano vorticosamente. Vivo

in un mondo in cui Pastor può agire come fosseDio, il suo cielo è la Stoccolma criminale e lui,come Dio, allunga i suoi tentacoli e trasforma lepersone in marionette. Difficile pensare a unposto dove non arrivi. Non ha neanche bisognodi essere presente per controllarmi.

La frequenza cardiaca di Maria è bassa.Passa tanto tempo tra un respiro e il successivoche faccio in tempo a spaventarmi,chiedendomi di continuo se non sia morta nelsonno. Sbatto le palpebre e immagino unquadretto familiare. Io e Maria sorridiamodavanti all’obiettivo della macchina fotografica,

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e in braccio tengo il nostro bambino, unmaschietto. Quando lo osservo noto che ha gliocchi di Pastor e questa scoperta mi sconvolge.

Il buio nella casetta è ancora più totaledell’ultima volta. Il silenzio mi si piazza in gola,soffocandomi. Cerco di sgattaiolare via dal lettoil più silenziosamente possibile ma le braccia ele gambe sono intorpidite. Sembrano spaghetticinesi scotti, la spalla non sta affatto bene eogni cosa fa troppo rumore. Maria si sveglia emi avvicino a lei. Il riflesso della luna attraversola finestra dipinge macchie bianche sui suoiocchi neri.

Le sussurro di non preoccuparsi, sarò diritorno tra poco. Poi mi chino su di lei, esito alungo prima di darle un bacio sulla guancia einspiro l’odore dei suoi capelli. Mi offre unsorriso che scompare rapidamente, comescacciato da brutti ricordi. Sento sapore di ramesulla lingua e mi chiedo come finirà questastoria. C’è una voce nella mia testa che diceche non ho idea di chi lei sia, di cosa abbiapassato, di come stia in realtà. Devo esseredelicato con lei.

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Rimango seduto ad aspettare finché non siriaddormenta.

Mi infilo i pantaloni ed esco all’aperto. Il

cervello rifiuta di tacere, i pensieri mi tengonosveglio. Fuori è buio, ma grazie alla luce dellaluna vedo le macchine degli altri ospiti accantoalle casette. In quella più vicina a noi la luce èaccesa, distinguo le sagome di due persone, unuomo e una donna si stanno picchiando oppurestanno facendo sesso. Quale che sia il caso,l’azione è violenta, dall’interno provengonorumori veloci e duri come colpi di frusta.

Nella tasca dei pantaloni squilla il cellularee mi sorprendo dei progressi dell’era digitale.C’è campo.

Il telefonino mi chiede se desidero avviareuna video-chiamata con Pastor.

Mi accovaccio dietro una macchina perchénon capisca dove mi trovo. Mi viene in mente laparola “Dio”. Sono certo che rispondere siaun’idea idiota, ma mi sento inquieto e continuoa mordicchiarmi il labbro inferiore. La chiamataparte e l’immagine resta sfocata fin quando la

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mano in cui tengo il telefonino si stabilizza, poidiventa limpida come quella di uno specchio.

Pastor sta puntando la videocamera delcellulare. La testa riccioluta e sudata di unuomo si contorce come un pesce e si sentonogrida attutite.

Il corpo al quale appartiene la testa èinginocchiato in una posizione inconfondibile,quella di uno che sta per essere giustiziato.Indossa una maglietta con il volto di CheGuevara, ha le mani legate dietro la schiena edè immerso nel buio. Sullo sfondo non vedo checontorni sfocati di pareti, forse due porte ofinestre. La fievole luce che illumina l’ambienteproviene da una piccola torcia elettrica chePastor tiene in mano.

«Vincent, sono felice di trovarti sveglio. Staizitto adesso, Marko».

Gli assesta un calcio nello stomaco. Il suonodi una costola che si rompe è simile a quello diun ramo che si spezza. Come vorrei che questastoria fosse già finita. La voce di Pastor è quelladi un Dio moderno, avvolto nel fumo e pieno disoldi.

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Rimango nel buio a fissare il display delcellulare come un malato di mente guardaattraverso una finestra. Non riesco a rendermiconto che stia accadendo davvero.

Pastor ruota la videocamera in modo chepossa guardarlo in faccia.

Mi saluta con un cenno e un sorriso disuperiorità gli si dipinge sul volto. Le parole dimio padre mi balenano alla mente e mi rendoconto che aveva ragione. Il lato oscuro vincesempre.

«Hai un giorno di tempo», dice. «Arrenditi».Pastor estrae la pistola in un battito di ciglia

e la preme contro la nuca di Marko. Il suogrosso anello risplende.

«Altrimenti per lui è finita». Poi abbassa losguardo. «Ah, Marko, forse vuoi dire qualcheparola?».

Marko tace. Il suo corpo è rigido e trema, lacamicia è zuppa di sudore. Quando Pastorsposta la telecamera mi sembra di intravedere,sullo sfondo, valigie piene di banconote e paretispesse come quelle di un bunker. Forse una odue porte o finestre, ma non ne sono sicuro.

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Pastor si accovaccia davanti a Marko.Un pezzo di nastro isolante gli tappa la

bocca e sulla fronte ha bernoccoli grossi comepugni. Ogni suo respiro è un sibilo dolorante.So come ci si sente a respirare con le costolerotte.

Alla vista di Marko mi manca l’aria. Nonriesco a distinguere il panico dall’ansia, maforse non ha più importanza. Tengo il telefoninocosì vicino al volto che il mio naso ne sfiora itasti.

Pastor gli strappa via il nastro isolante dallabocca e Marko inizia a gridare parole incoerentie vuote fin quando l’altro gli rompe il naso conun pugno. Marko lancia un urlo privo di parole.

«Basta gridare, Marko».Pastor gli afferra il volto come si fa con un

cane che non risponde a un comando. Guardonella videocamera e Pastor guarda me. Dalnaso di Marko piegato in una direzioneinnaturale il sangue esce a fiotti, gli scorre nellabocca aperta e gocce di sudore gli cadono daicapelli come piovesse. Ha gli occhi sbarrati e lavoce è raschiante come se qualcuno gli avesse

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grattugiato le corde vocali.«Vincent». Il tono è quello di

un’implorazione. «Torna qui. Per tutto quelloche ho fatto per te... me lo devi».

«Ho saputo che lo hai lasciato andare»,dice Pastor. Si rivolge a lui come se stesseparlando a un bambino. «È la verità, Marko?».

Marko scuote la testa creando una doccia digocce di sudore intorno a sé.

«Non dire bugie. Fuori dalla caffetteria. Lohai lasciato andare. Perché?».

Marko strizza gli occhi e si scuote come sevolesse scacciare un incubo dalla mente.

«Perché è mio amico».Stringo il cellulare tanto forte da farne

scricchiolare la plastica.Pastor ruota la videocamera e mi guarda

inespressivo.«Ventiquattr’ore, Vincent».«Perché vuoi andartene?».Sulla bocca di Pastor compare un ghigno,

rimette il nastro adesivo sulla bocca di Marko egli dà uno schiaffetto sulla guancia. Scruto ilsuo volto alla ricerca di qualcosa che lo

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smascheri, qualcosa che testimoni che anchelui è umano, ma invano.

Il ghigno scompare in un batter di ciglia ePastor mi esamina con un’espressione chedenota uno stato d’animo difficilmentedecifrabile, ma che potrebbe essere curiosità.

«Ventiquattr’ore».Il display si fa nero e Pastor svanisce.

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QUARANTUNO È mattino e il cielo è come quarzo, bianco

con lievi venature di rosa. Non ho chiusoocchio e ho osservato la luce del giornoaumentare di intensità con gli occhi che mibruciavano. Un incredibile mal di testa mi pulsanei timpani e respiro, ma per il resto le miefunzioni vitali sono ibernate. Mi accendo unasigaretta ma me ne dimentico immediatamente,a ricordarmelo è la bruciatura provocata dalmozzicone, che lascio subito cadere sulla terraumida. Rientro nella casetta e le domande chemi rimbalzano nella mente sono troppe perchépossa riuscire a concentrarmi.

Maria si sveglia e si mette seduta sul letto.Con un inglese dall’accento straniero mapiacevole mi chiede che ore sono e io scuoto la

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testa.È nuda e nasconde il corpo avvolgendosi

nella coperta.Ho davanti l’immagine di Marko e mi rendo

conto che ogni volta che penso alla violenza miviene in mente mio padre.

Se è stato Pastor a mettere la polizia sulle

mie tracce, avrà anche detto dell’auto cheabbiamo preso all’uomo dalla faccia tatuata. Lacoppia nella casetta accanto alla nostra haparcheggiato la macchina, una Volvo dei primianni Novanta rossa come un’autopompa deivigili del fuoco, a mezzo metro dalla nostra.Mentre accendo un’altra sigaretta rifletto sullapossibilità di bussare alla loro porta. Decido difarlo e mi sorprendo di quanto siano decisi icolpi, come se le mie nocche sapesseroqualcosa che io non so.

Ad aprire è una donna, indossa blue jeanslarghi e una T-shirt trasparente che lasciaintravedere i capezzoli. È anoressica egiovane, i capelli sono color blu elettrico e haun grosso anello al naso. Mi guarda in

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cagnesco come fossi un professore che la staper interrogare. Sull’anulare sinistro ha unanello sottile e ci armeggia come se lestringesse troppo il dito. Intravedo sul collo isegni violacei di una stretta e tento didistogliere lo sguardo.

«Be’?», mi fa.«Ciao», dico io esitante. Un saluto poco

convenzionale mi mette sempre a disagio.Indico la macchina sportiva nera dietro di me.«Facciamo cambio di macchina?».

Noto un movimento all’interno e sento deipassi che devono per forza essere quelli di unuomo, goffi e pesanti come sono. La donna tirasu con il naso, sembra che mi stia annusandocome un cane.

«Tu spacci, vero?», mi chiede.Come un idiota annuisco e le dico che ho

un po’ di eroina da vendere. Parla un dialettodella Svezia del sud, Skåne o forse Blekinge.Sul braccio ha buchi di punture fitti come quellidi una saliera. Si irrigidisce e afferra unquotidiano da dentro la casetta. In prima paginac’è la mia faccia, proprio sopra al testo

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“Indiziato di omicidio ricercato per l’attentatoesplosivo a Stoccolma”.

Intorno a me ogni cosa inizia a girarevorticosamente e per poco non perdol’equilibrio. Chiudo gli occhi e cerco dimantenere la calma. Sopra la mia faccia c’è unriquadro con altri tre volti, fotografie grandicome carte da gioco. «Tentano la scalata almondo criminale», spiega la rubrica, e misembra che uno dei tre sia l’Americano oppureHugo.

«Fantastico. Dove posso comprare ilgiornale di oggi?».

La donna indica l’edificio principale con uncenno. La vecchia sta ancora seduta a fissarela TV. Mi sento costretto a dire qualcosa, acommentare il mio ritratto sul giornale.

«Sono innocente».Lei fa spallucce.«Dieci grammi».Fingo di valutare la proposta.«Solo se scambiamo le macchine».Inizia a passarsi le dita tra i capelli blu, mi

chiedo se lo faccia come reazione alla paura o

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semplicemente perché sta pensando. Soppeso l’eventualità di spiaccicarle la

pistola in faccia e di minacciarla di morte sechiama la polizia o i media, ma sia lei che il suofidanzato, o quel che è, mi sembrano piuttostoabituati a vivere nell’ombra, per cui decido dilasciar perdere. Il tipo continua a camminareall’interno dell’appartamento mormorandoqualcosa tra sé e sé e non vedo mai il suovolto.

Ci scambiamo le chiavi delle macchine e ledo metà dell’eroina che mi rimane. Sono più didieci grammi ma non ho la forza di curarmene.

Rientra chiudendo la porta dietro di sé ed èl’ultima volta che la vedo.

Poco dopo la vecchia si allontana dalla suapostazione e ne approfitto per sgattaiolarenell’edificio principale e rubare un giornale. Losfoglio lungo il tragitto verso la casetta.L’articolo sull’Americano, Hugo e Silver, i treastri nascenti, non occupa che una colonna inquarta pagina, e a grandi linee dice quello chemi ha raccontato Jack. Il cappello spiega che le

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tre bande, di questo evidentemente si tratta, sistanno preparando a una faida per il controllodella malavita di Stoccolma.

L’articolo che parla di me invece è a doppiapagina, una delle quali totalmente coperta dallamia faccia, stesa lì ben bene come una tovagliaappena stirata.

Nonostante tutto mi sorprendo di come igiornali costruiscano la loro verità per poiproporla come assoluta.

Sono sospettato di tenere in ostaggio unadonna, la cui identità è ancora sconosciuta,dopo averla tenuta prigioniera nel mioappartamento.

Avrei ucciso Janina quando è venuta a farmivisita e avrei fatto saltare in aria casa mia percancellare le tracce del delitto. Soffoco unarisata. A sud di Södertälje avrei incontrato unamico che aveva provato a dissuadermi dalcontinuare la mia follia e avrei ucciso anche luiper rubargli la macchina. La polizia ha trovato ilcadavere in un furgone poco prima dellamezzanotte. Nessuno sa chi sia la donna, ma lapolizia non esclude che si tratti di una vittima di

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trafficking. Un professore di psicologia avanzal’ipotesi di un caso di sindrome di Stoccolma.

Al momento, conclude l’articolo, mi trovereida qualche parte in Svezia insieme alla donnaterrorizzata. I media, la polizia, la società, tuttitemono per la vita della povera vittimainnocente ed è stato diramato un avviso dicattura a livello nazionale. Il responsabile delleindagini, Dante Thomsen, rifiuta di rilasciareinterviste, e chissà perché questa informazioneaccende in me un barlume di speranza.

Quando leggo di quanto Maria sarebbeterrorizzata non posso fare a meno di pensareche ieri sera mi ha permesso di sfiorarle il visoe le spalle. Mi domando se il mondo non siadefinitivamente impazzito; uomini potenti cinascondono la verità e non si fanno scrupoli ausare la violenza, se lo ritengono necessarioallo scopo.

La mia prima reazione è pensare che siastata una fortuna per mia madre morire prima divedere suo figlio ridotto nelle mie condizioniumilianti, poi però mi rendo conto che se leifosse ancora viva probabilmente tutto questo

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non starebbe accadendo e mi cresce dentro lavoglia di urlare. Quando penso a tutto il casinocon Marko, Pastor, i tre astri nascenti dellacriminalità organizzata e Dante, ho comel’impressione che qualcosa di importante stiaper succedere. Avvenimenti che potrebberoavere ripercussioni su molte persone oltre a mee Maria.

Maria sale sulla Volvo e si siede al posto

del passeggero. Sembra più riposata, si èsistemata i folti capelli in una crocchia e gliocchi sono svegli e pimpanti. Ho in testa unamelodia ma non riesco ad afferrarla. Quandochiudo la portiera, Maria annusa l’aria e faun’espressione schifata. La macchina puzza dicane morto.

«Lo so. I’m sorry».Mentre armeggio per mettere in moto, Maria

guarda fuori dal finestrino.Prima di lasciare la casetta mi ha rifatto il

bendaggio alla spalla, l’ha fatto bene ma mi habloccato il braccio sinistro e ora mi ci vuole unpo’ per trovare una posizione adatta per

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guidare. Sparse sul tappetino giaccionoconfezioni vuote di wafer alla cioccolata e digelatine al lampone, lattine sul sedile posterioree cannule sparse qua e là. Proprio un belporcile.

Quando vede il giornale sul cruscotto i suoiocchi si spalancano e mi interrogano. Non soquanto riesca a capire di quello che c’è scritto,ma meno è tanto meglio sarà per tutti.

Il motore parte con un suono che ricorda lefusa di un gatto.

La radio è accesa e lo speaker sta parlandodi noi, dell’assassino e della donna dall’identitàsconosciuta, una versione moderna e brutale diBonnie e Clyde.

Usciamo dal villaggio e imbocchiamo lastrada di campagna dalla quale siamo arrivati.Un cartello ci informa che abbiamo trascorso lanotte in una località chiamata Aska27 . Ironico,la mia mente oscilla tra estasi e paranoia.

Cerco un cartello con la scritta “Örebro” eimmagino volanti della polizia ovunque. Mariami poggia delicatamente la mano sulla coscia emi guarda. Nei suoi occhi vedo inquietudine. In

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quel momento mi sovviene la canzone che mironzava in testa.

It’s All Over Now, Baby Blue. 27 In svedese “cenere” oppure “battere la

sigaretta per far cadere la cenere” (n.d.t.).

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QUARANTADUE Pastor ha chiamato la polizia da una cabina

telefonica a Björkhagen. Di sicuro la stessacabina in cui mi ha chiamato per minacciarmi,alcuni anni luce fa.

La segnalazione è pervenuta nelpomeriggio di ieri e Dante non sa altro.

O, per lo meno, questo è quanto sostienedurante la nostra conversazione telefonica.Rimaniamo in silenzio, poi mi chiede di tornareindietro.

«E il numero di cellulare?», insisto io. «E lamacchina? Ti ho dato una targa».

«Ci stiamo lavorando, Vincent».Stringo la presa sul volante della Volvo e le

mie nocche sbiancano.«Porca miseria. Non basta. Ha preso Marko

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in ostaggio».«Chi è Marko?», Dante sembra confuso.«È un mio amico», dico a voce bassa.«Qual è il cognome del tuo amico?».Non rispondo. È una tipica domanda da

poliziotto e in ogni caso non conosco larisposta.

«Pastor mi ha chiamato stanotte, una video-chiamata», dico invece. «Si trova in una stanza-bunker con le pareti di cemento armato, daqualche parte in centro».

Non riesco a immaginare che la grandiosauscita di scena di Pastor possa iniziare da unluogo che non sia il cuore della Svezia.

«E la stanza è piena zeppa di soldi»,aggiungo.

Dante resta in silenzio. Ha già capito dovevoglio andare a parare.

«Non è facile scovare la banda deivigilantes, Vincent».

Sospiro.«Se trovi Marko ancora in vita ti giuro che ci

arrendiamo».«Hai letto i giornali? Ti stanno dando la

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caccia. Tutti. Non ce la farai mai». La vocepacata di Dante va su di giri, diventa decisa econcitata. Cerco di non farmi turbare.

Inizio a tamburellare con la lingua sulpalato, mi lascio ipnotizzare dalla strada chescompare sotto di me.

«Trovalo».Interrompo la chiamata e un brivido mi

percorre la schiena come se avessi la febbre.Oltrepassiamo un fienile grigiastro inapparenza abbandonato, una parete è copertada uno striscione bianco con un testo cheevoca una sensazione spiacevole. Percepiscoquella sensazione principalmente in gola.

“NON TI PREOCCUPARE. È TUTTOSOTTO CONTROLLO”.

Marko. La lancetta dei secondi recide

impietosa brandelli di tempo, avvicinandomialla mezzanotte e alla telefonata di Pastor. Miauguro che Dante sia un buon poliziotto,altrimenti Marko muore. Penso a lui come segià fosse morto, ripenso alle cose che abbiamofatto insieme e al suo «Bubù settete!» quando

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risponde al telefono. A come si è preso cura dime dopo la morte dei miei genitori.

Il paesaggio che ci circonda è morto emonotono. Superiamo un cartello conun’indicazione per Örebro. La strada è stretta etortuosa ma il traffico è scorrevole.

Ci troviamo in una zona della Svezia che èda sempre avvolta nell’ombra, le strade sonopoco battute e immagino che questo possarappresentare un vantaggio per noi. Losvantaggio è che non ci vuole molto a perdersi,da queste parti. Non so dove ci troviamoesattamente, ma so che dobbiamo fare benzinaentro breve.

Mi chiedo se sarà possibile ricominciare, inqualche modo. Forse abbiamo una possibilità.Se solo riuscissi a risolvere questa faccenda.Può darsi che le grandi decisioni si rivelerannosecondarie, mentre le decisioni minori, inapparenza insignificanti, potrebbero risultaredecisive. Il problema è che non ci è dato disapere a priori a quale categoria appartengano.

Maria mi guarda e il suo profilo appare

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netto, sullo sfondo sfocato che scompare dietrodi lei.

«Where to go?».Mi mastico l’interno della guancia, il mio

sguardo altalena tra la strada e lo specchiettoretrovisore alla ricerca di eventuali luci blu aintermittenza, poi le dico che a Göteborg c’è ungrande porto dove partono navi per la Francia eper la Danimarca. Una volta là potremoricominciare da zero.

Forse riuscirò a trovare un lavoro. Forseriuscirò a combinare qualcosa di buono, forseriuscirò a sistemare tutto con la polizia, conMarko e Janina e Pastor. Un giorno, presto,potremo fare ritorno. Sono disposto a scontarela mia pena se necessario, a prescindere dalfatto che la meriti o meno.

Annuisce con un’espressione riflessiva, mipiace osservare i tendini della sua nuca e delcollo tendersi sotto la pelle liscia.

«England?».Annuisco, anche se non so se ci sono

traghetti tra Göteborg e l’Inghilterra. Credo mistia dicendo che ci sarebbe sempre voluta

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andare. Mi rivolge un sorriso e per poco nonsbando e andiamo a sbattere.

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QUARANTATRÉ È un mondo senza pietà quello in cui i

bambini vengono picchiati dai loro padri eMaria viene mandata in Svezia dai proprigenitori per fare la modella. È un mondo neiconfronti del quale sto via via perdendointeresse, un mondo dal quale tanto valefuggire.

Queste strade mi sembrano infinite. Sononato con una pessima capacità diconcentrazione e anni di abuso di droga ealcool non hanno certo migliorato le cose. Dopoun paio d’ore di guida vengo presodall’agitazione. Sento formiche camminarmisulla pelle, Maria mi guarda come se avessiappena gridato e forse l’ho fatto veramente.

La sensibilità alla spalla sta tornando e il

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dolore mi lacera ogni volta che tendo i muscolidel braccio. Ho bisogno di morfina, butto giùdue capsule e un sorso d’acqua. Maria nonprova a impedirmelo.

Quando riprendo il controllo inizio a pensareche c’è di peggio che viaggiare in macchinainsieme alla donna della quale mi sonoinnamorato.

Stiamo comunicando. Il silenzio è la nostra

lingua. Maria mi racconta che viene da unpiccolo paese dell’Ucraina meridionale.Vorrebbe studiare per insegnare danza, ama lamusica e l’arte. Poi tace e si gira dall’altra parte.

«I used to love people», dice con una voceche ricorda il suono del vetro che si infrange.

Spengo la radio e intravedo il sole inlontananza, ma non arriva mai a scaldarci.Poco dopo scompare, in attesa che torni dinuovo il suo momento. Ci muoviamonell’ombra, in silenzio.

Maria, quando le pongo una domanda, fapassare molto tempo prima di rispondere.Chissà se è perché ci mette molto a trovare le

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parole in inglese. Più probabilmente la ragioneè che le risposte, per lei, sono sempre moltoimportanti.

È un aspetto affascinante del suo carattere,Maria è talmente meravigliosa che potrebbeavere chiunque, ma ha scelto me.

Poi però realizzo che probabilmente non hamai avuto la possibilità di scegliere.

Non mi è nuova la notizia che ci sono deimalviventi che ingannano le donne,spedendole in giro per il mondo a fare sessocon i perdenti di questo o di quel paese.

La prima volta che ho vissuto questasituazione in prima persona è stato a una festaanfetaminica a Karlavägen. Il padrone di casami aveva raccontato di avere un nuovogiocattolo nella camera da letto. Avevovent’anni e pensavo si trattasse di un computero qualcosa del genere, invece nella stanzac’era una donna nuda, giovane, minuta, con uncaschetto di capelli neri e lisci e la pelle dorata.Veniva dalla Thailandia. Lasciai la festa ilprima possibile. Di donne vittime di trafficking èpieno il mondo, ma è qualcosa a cui proprio

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non riesco ad abituarmi.«Non lo sapevi? Didn’t you know?»«Yes, but... didn’t want to know». Fa un

respiro profondo ed espira lentamente.La maggior parte di quello che un tempo

veniva chiamato l’Est Europa, mi racconta,durante la guerra fredda viveva di un’economiasotterranea. Quando hanno aperto i confini, leautorità hanno completamente perso il controllosu questo genere di economia. È stato comeliberare un cane rabbioso senza museruola néguinzaglio. Il suo paese era corrotto, i villaggierano numerosi e poveri, e da bambina Mariaaveva sentito parlare di donne che avevanolasciato le loro case per tentare la fortunaall’estero. Mi spiega che molte di loro sapevanoche cosa sarebbero andate a fare, ma nonerano coscienti di quanto sarebbe statapesante la situazione in cui si sarebberoritrovate. Modella, cantante, ballerina...

Nomi di mestieri che in realtà sono parole incodice più o meno edulcorate per direprostituta, tutte ne conoscevano il verosignificato ma non lo ammettevano

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apertamente.«But it works. Because people dream».Il trucco che utilizzano per convincere le

famiglie, prosegue, sta nel raccontare che ledonne che partono poi guadagneranno tanto dapotersi permettere di inviare a casa una partedei soldi. Scopriranno solo in seguito qualegrottesco destino le attende e che gli sfruttatori,il Marko o il Pastor di turno, tengono per sé lamaggior parte del denaro. Per le ragazze chenon riescono a fuggire l’unico modo disopravvivere diventa quello di passare dall’altraparte, ovvero occuparsi loro stesse ditrafficking. In Ucraina e sul camion che laportava in Svezia, Maria ha sentito di donnedivenute socie dei loro ex protettori. E seriescono a fuggire, l’eventualità più probabile èche vengano rimandate in patria dove verrannoemarginate a causa della vergogna, rifiutatedalle famiglie. Accade anche che, dopo uncerto periodo, vengano di nuovo vendute etrafficate.

Maria chiude gli occhi e volta la testa di lato.«Vicious circle», dice. «I think it happened

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to many friends». Dopo un tempo che sembra durare giorni,

anche se in effetti non possono essere passatepiù di alcune ore, svolto su una strada sterratache non sembra condurre in alcun luogo, eparcheggio. Ho bisogno di respirare aria chenon sia quella che continua a circolare nellamacchina e il sedile della Volvo è comodocome la panchina di un parco.

Qui gli alberi crescono radi, come se ilbosco fosse stato sfoltito. Per lo più i tronchisono infestati da funghi che li fanno marcire el’impressione generale è di un ambientegrigiastro e sgradevole. Esco dalla macchina,accendo una sigaretta e aspiro un paio diboccate. Improvvisamente mi pervade unasensazione di libertà e per un istante dimenticoche tutta la Svezia conosce la mia faccia.

Maria esce e mi volto, mi è sembrato divedere un’ombra muoversi ai limiti del miocampo visivo. Ma è solo la mia immaginazione.Il posto è vuoto, morto. Ci siamo solo noi qui.

Si siede sul cofano. Intorno a noi il vento

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soffia e i suoi pantaloni della tuta neri fruscianocome foglie. Mi avvicino, le poggio la manosulla nuca. Esita a lungo, rannicchiata sulcofano osserva le mie mani. Poi apre le gambee mi lascia entrare.

Il motore mi scalda le gambe e i capelli diMaria mi accarezzano il volto. Posadelicatamente le mani sui miei fianchi, poi miabbraccia. Il suo viso sulla mia maglietta,percepisco il suo respiro attraverso il tessuto, ècaldo come l’aria in una sauna. Chiudo gliocchi, e quando Maria sussurra che ha fame migira la testa.

Mi guardo intorno come un’idiota, come sepotesse esserci un fast food tra gli alberi.

Ad ogni modo dobbiamo fare benzina, mene stavo quasi dimenticando. Non guidospesso e il livello della benzina non ha mairappresentato una preoccupazione per me. Lepoche volte in cui ho portato la macchina, ildivertimento cominciava proprio quandofinivano la benzina oppure la droga.

Quando torno al posto del conducenteun’immagine mi attraversa la mente come un

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fulmine, il volto insanguinato di Marko e la suavoce implorante. Cerco di scuotermela di dossoma non mi lascia, anzi mi risucchia.

E le lancette corrono. Dalla sommità di una collina scorgo una

stazione di benzina Statoil all’orizzonte e mirilasso. Appena svolto nell’area di sosta vedouna macchina bianca e blu con la scritta“polizia” sul cofano che si muove lentamenteverso di noi.

Panico. Vengo preso dal panico, e quandoci passa accanto mi sforzo di apparireindaffarato, fingo di armeggiare con l’ariacondizionata o qualcosa del genere. La volanteesce sulla strada e scompare senza fare caso anoi. È evidente che siamo sul filo del rasoio, stocamminando su una lastra di ghiaccio sottileche inizia a incrinarsi sotto i miei piedi.

Parcheggio accanto ai distributori dibenzina. Il sole sta tramontando e le luciartificiali accese sopra le pompe ne sfocanol’immagine in una foschia bianca. Ci sono solodue macchine parcheggiate e non vedo più di

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quattro persone nel negozio. Preferireiaspettare fin quando non saranno andati tuttivia.

Le macchine però vanno e vengono, ognivolta che una parte ne arriva un’altra, non haalcun senso continuare ad attendere. Inoltre hofame, potrei uccidere un maiale per un hot dog.

Accosto accanto a un distributore con lascritta “95 Blyfri” senza sapere se sia ilcarburante giusto, dopotutto ci sono incommercio più tipi di benzina che dicaramelle28 , ma ne metto comunque sessantalitri. Spero che la Volvo abbia uno stomacoresistente e che accetti quel che le vieneofferto.

Dico a Maria di aspettarmi in macchina edentro nel negozio tentando di non guardare letre locandine con la mia faccia stampata sopra.L’aria all’interno è ronzante, elettrica erinfrescante, ma non riesco a liberarmidall’impressione che tutti mi stannoosservando. Vorrei avere un cappello e unabarba finta, magari anche un bastone.

Le stazioni di benzina sono luoghi

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particolari. I mobili e gli attrezzi da giardinostanno accanto al bancone del latte, e i filmd’azione li trovi nello scaffale davanti a quellodei biscotti. Chissà come sopravviveva la gentequando le stazioni di benzina vendevanosolamente benzina.

Mentre cammino accanto agli scaffali midimentico cosa avevo intenzione di comprare eafferro qualche prodotto a caso, un paio diconfezioni di caramelle e una bottiglia diaranciata. Mi metto in fila e ho l’impressioneche gli altri clienti ci stiano mettendodecisamente troppo a fare quello che devonofare.

Mi hanno scoperto. Per poco nonscaravento via il tipo davanti a me nella fila percolpire il commesso con la bottiglia eprecipitarmi fuori con il cuore che batteall’impazzata e il sapore del panico in bocca.Sirene blu lampeggianti vorticano intorno a me,mi riparo dietro la Volvo ed esplodo alcuni colpiin aria fin quando non rispondono al fuoco, migiustiziano e al diavolo, almeno questa storiafinirà una volta per tutte!

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Tocca a me e porgo gli articoli alcommesso.

«E due hamburger, grazie».Il commesso, un ragazzo lentigginoso dalle

movenze ridicole, annuisce lentamente esocchiude gli occhi come se avesse il sole infaccia. Un lampo attraversa il suo volto. Losguardo cerca qualcosa ma invano, dietro albancone non ci sono locandine.

«Certamente».«E una carta stradale della Svezia».Silenzio.«Ho anche fatto benzina».«Che pompa?»«Cosa?».Il commesso mi sta fissando, faccio uno

sforzo sovrumano per sostenere il suo sguardosenza perdere il controllo.

«A quale pompa ha fatto benzina? La uno ola due?».

Meccanicamente e a scatti sposto losguardo dal commesso alla vetrata.

«La due».Annuisce lentamente. Secondo la targhetta

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il suo nome è Sven-Erik. Chi mai chiama ilproprio figlio Sven-Erik? Qualcuno si piazzadietro di me mentre Sven-Erik prepara i mieihamburger e mi innervosisco. Pago in contantie le banconote mi frusciano in mano. Sven-Erikmi guarda troppo, troppo a lungo ed esco dalnegozio il più rapidamente possibile.

Salgo in macchina e do un hamburger a

Maria, lei lo prende senza dire una parola.Tira fuori il pezzo di carne e me lo fa

penzolare davanti tenendolo tra l’indice e ilpollice.

«Meat is murder».Rimango sorpreso da questa affermazione,

afferro il suo pezzo di carne e lo infilo nel miopanino. Che ora sembra la bocca di un mostro.

Metto in moto, senza volerlo parto di scatto ein curva le ruote si lamentano. Impreco tra me eme. Raggiunta la strada Maria ha già finito dimangiare. La sua fame mi fa venire i sensi dicolpa, non sono un’ostetrica ma sono piuttostosicuro che per le donne in gravidanza siapericoloso mangiare male.

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Le porgo la bottiglia di succo e unaconfezione di ciucci alla coca-cola. Quando livede fa una risatina e butta giù mezza bottigliain un sorso.

Un cartello ci informa che siamo ancoralontani da Göteborg e cala l’oscurità, dentro efuori.

La sera ammutolisce le strade e le case.

Considerando che siamo ricercati in tutta lanazione è sorprendente quanto sia scarsal’attività in giro. È una sera qualunque.Guidiamo attraverso comunità costituite dapizzerie, negozi di alimentari e vecchi ufficipostali.

Le droghe e il crepuscolo mi rendono stancoe assonnato. Un motel potrebbe rivelarsi unascelta troppo rischiosa. La radio è accesa eproprio quando comincio a rilassarmi inizia unnotiziario. Non dicono niente di nuovo su di noi.

Mi sembra di sentire il fiato di Dante sulcollo e quando chiudo gli occhi mi apparel’immagine di cani da caccia neri e ringhianticon la bava bianca alla bocca.

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«You’re back».Non capisco cosa Maria voglia dire.

Tornato? Sono stato seduto qui tutto il tempo,per lo meno fisicamente. A tratti i pensieri miportano lontano, mi sono immaginato la mortein piedi sul ciglio della strada, bella come unamodella e senza un solo pelo superfluo.Indossava un completo tre pezzi, sulla testabianca e pallida aveva un grande cappello e ilati dell’abito svolazzavano nel vento come alid’uccello. Aveva un vassoio d’argento in manocome a voler offrire un drink di benvenuto.

Rispondo a Maria che sono stato seduto quitutto il tempo.

«No, your back29 ».Una mano mi accarezza la nuca, scende

lungo la schiena e quando si rialza risplende dirosso. Maria è scioccata. Inarco unsopracciglio.

«Is it mine?». La domanda è curiosa, è vero,ma senza alcun dubbio è anche decisiva, inquesto frangente.

«I think so. Does it hurt?».

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Mi guarda come se stessi morendo. Epotrebbe anche essere questo il caso, non hoidea di quanta benzina possa perdere il corpoprima che il motore si fermi.

«No. I don’t know».Barcollo come se avessi le vertigini, la

macchina inizia ad andare per conto suo versola carreggiata opposta e Maria afferra il volantecon entrambe le mani. La sua mano incontra ildorso della mia bagnandola di sangue.

«Sorry».Il sangue sulla mano non è un problema. Il

sangue sulla schiena sì. Maria mi apre condelicatezza il colletto della camicia e micomunica che la ferita ha iniziato ad aprirsi.

Mi vedo davanti l’immagine di un bicchiereinfranto e di gocce d’acqua che cadono su untavolo finché il bicchiere, infine, si svuotacompletamente.

«Must stop».«No».«Must stop, Vincent».«No...».All’improvviso realizzo che è il mio stesso

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cuore che, pompando, fa fuoriuscire il sanguedal corpo. Una goccia per ogni battito.

E questo pensiero, ovviamente, fa schizzarein alto la mia frequenza cardiaca.

28 Nei distributori di benzina in Svezia è

sempre possibile scegliere tra almeno duediversi tipi di benzina senza piombo condifferente numero di ottano (n.d.t.).

29 Gioco di parole tra le espressioni yourback, “la tua schiena”, e you’re back, “seitornato”, che in inglese hanno un suono moltosimile (n.d.t.).

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QUARANTAQUATTRO Un’ora più tardi oltrepassiamo l’indicazione

di un motel e inizio a cercare l’uscita.Il motel è grigio e piatto, proprio come

l’interno della mia testa. L’edificio è costruito sudi un unico piano e ricorda una scuolacomunale. Parcheggio vicino alla reception echiedo a Maria di aspettare in macchina. Puòdarsi che il motel sia pieno zeppo di poliziotti,non si sa mai, conviene sempre scegliere lasoluzione più sicura. Preferisco moriredissanguato in macchina con Maria piuttostoche farmi riempire di piombo da poliziotti dicampagna dalle pettinature idiote e dai dialettidimenticati. Maria mi guarda a lungo, come setemesse di non vedermi tornare.

La reception non è che un buco nella parete

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coperto in parte da un bancone. Su una sediada scrivania siede un vecchietto con i capelliradi e bianchi. Cosa che mi tranquillizza un po’,le persone anziane hanno cattiva memoria enon si sorprendono mai di nulla. Nellareception non c’è computer né telefono, non c’ènulla oltre a una pila di libri. Il vecchietto leggeindisturbato un libro di Roald Dahl eprobabilmente non ci sente molto bene.

«Una camera per due, grazie».Quasi grido per farmi sentire. Quando alza

lo sguardo tento di sorridere, ma mi ricorda miopadre, stessi occhi vuoti e labbra asciutte, e miirrigidisco. Fissa un punto appena dietro di me.

«E l’altra persona dov’è?», chiede con voceroca.

«La mia ragazza è in macchina. È incinta epreferisce muoversi il meno possibile».

Sorprendo me stesso, quello che ho dettoquasi corrisponde a verità. Il vecchietto apre uncassetto tintinnante pieno di chiavi e inizia arovistare svogliato fin quando ne sceglie unaapparentemente a caso, poi la lancia sulbancone, annoiato.

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«Stanza undici. Pagamento al check-out».Tento di apparire, come dire, innocente.«C’è un mini-bar in camera?»«Perché?».Reazione curiosa, l’impulso è quello di

spaccargli i denti.«Mi ci vorrebbe un whisky o due. È stata...

una lunga giornata».«Ho dell’assenzio».Assenzio. Una bevanda del passato, mi

ricorda una vita precedente.«Fantastico», dico io. «Basta che bruci».Il vecchietto punta i piedi a terra e spinge

con forza, facendo rullare la sedia fino a unarmadietto contro la parete. Apre quello chesomiglia a un deposito di alcool molto sospetto.Ci sono solo bottiglie di plastica senzaetichetta. Contengono liquidi dalla gammacromatica ampia, dal trasparente al nero.

«Quella nera cos’è?»«Olio motore usato».«Capisco», dico io.Estrae una delle bottiglie dal contenuto

trasparente e la fissa, come se volesse

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spaventarla oppure capire cos’è. Dopo un po’,non meno di mezzo minuto, la sbatte sulbancone.

«Dieci corone al centilitro».La voce è atona, disinteressata. L’ospitalità

e la qualità del servizio non conosconoveramente confini. Esco senza ringraziare.

Ci sono quattro, cinque macchineparcheggiate e quattro, cinque ospiti possoanche sopportarli. Infilo le nostre cose nellabusta della Statoil, il revolver sul fondo in modoche Maria non sia costretta a vederlo. Neltragitto verso la stanza la tengo per mano. Cadeuna pioggia sottile e sembra notte, ma secondoil cellulare non sono neanche le quattro e aMarko restano ancora otto ore di vita.

Il pavimento è coperto da una moquette e

ogni passo si trasforma in un sospiro. Le paretisono pallide come quelle di un ospedale e nonc’è né televisione né telefono. Il letto rusticoconsiste di pezzi di legno assemblati.Suppongo che sarebbe stato eccessivoaspettarsi una camera doppia.

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Vuoto la busta di Mika, lascio il revolverdov’è e spargo gli oggetti sul pavimento. Suuna siringa le maiuscole grandi e tondeggiantidi Mika compongono la scritta “anestesialocale” e la porgo a Maria.

Su una piccola bottiglia bianca sta scritto“disinfettante per ferita” con lo stesso stile. Nonha battezzato il pacchetto con ago e filo. Mirivolgo a Maria e indico.

«For the pain. Clean. Needle».Scuote la testa.«First clean. Then painkiller. Needle».Mi costringo a buttare giù mezza bottiglia di

assenzio e mi ritrovo in un appartamento suWollmar Yxkullsgatan, sento il risolino diFelicia e un attimo dopo sono a un funerale,emarginato e tremante. Butto giù due capsule dimorfina, incurante degli eventuali effetti del mixdi droga e alcool che sto assumendo, e mistendo sul letto.

Le mani di Maria sono abili, decise ma

prudenti, e non fa particolarmente male. Lasiringa punge ma sono intontito e oscillo tra lo

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stato cosciente e uno più buio che tenta senzasosta di risucchiarmi verso il basso. Lo scalcioimmaginandomi di scalciare via i tentacoli di unmostro marino.

Poi Maria mi sorregge fino allo specchio delbagno. I suoi punti grossolani si alternano aquelli puliti e professionali di Mika.

Ad ogni modo ha fatto un lavoroeccezionale, le dico che dovrebbe fare la sarta.

Mi risponde che da bambina la madre le hainsegnato a cucire, poi tace.

Nonostante l’alcool e la morfina ho difficoltà

ad addormentarmi. Mi chiedo se quella delmotel sia stata una buona idea. Non c’è predapiù facile di quella che non si muove. Ansia,paura. Ogni volta che sento una macchina mipiazzo alla finestra fin quando non passa oltre.La situazione è snervante. Chiamo Dantediverse volte, ma non risponde.

Ammazziamo il tempo, seduti uno di fronteall’altra sul letto giochiamo a Gomoku. Maria èmolto più intelligente di me e vince sempre.

«You are very bad», dice e nei suoi occhi

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intravedo un fievole bagliore.Poggio una capsula di morfina sulla lingua,

ma prima che faccia in tempo a deglutirla, Mariasi fa seria e scuote la testa. Tende il braccio inavanti con il palmo della mano rivolto versol’alto e mi sento come un bambino che haappena infilato in bocca un pezzo di Lego.

«You already high. More is bad».Gliela sputo in mano, lei la getta nel WC e

tira lo sciacquone.«Good boy».Provo a fare un po’ di teatro per distrarre

Maria e me stesso, ma non mi riesce ungranché. Punto una lampada contro la parete ecerco di proiettare con le mani l’ombra di uncane che abbaia. Ma somiglia più a unrinoceronte. Maria scuote la testa e viene dallamia parte, gioca con le mani anche lei. Quandoosservo l’ombra vedo il profilo di un canedelineato con precisione.

«It really looks like a dog».Scuote ancora la testa.«It is a cat».Esamino ancora l’ombra e con la mano

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faccio il gesto di scansare qualcosa.«Non è un gatto, è un cane». Per qualche

ragione non voglio mollare e mi esibisco in unululato curioso, potrebbe sembrare quello di uncucciolo bagnato e impaurito.

Questo fa sorridere lei e rende me quasifelice.

Il tempo avanza inesorabile. Mi chiedo se

Maria sia consapevole o meno di ciò che staaccadendo, in ogni caso sembra preoccupata.Una ruga superficiale le è apparsa sulla pelleliscia tra le sopracciglia. Vorrei sussurrarleparole tranquillizzanti ma non ne trovo.

Chiamo Dante. Non risponde. Rifletto sulcomportamento di Pastor ma i pezzi del puzzlenon compongono altro che indovinelli. Haveramente intenzione di andarsene? Non credosia tipo da piegarsi di fronte alle nuove stelledella criminalità. Ma se davvero sta per spariredalla circolazione e teme che io o Mariapossiamo collaborare con la polizia, perchénon prova semplicemente a comprare il nostrosilenzio? Oppure c’è un disegno più oscuro, più

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torbido? Forse sa di aver messo incinta Maria?Può essere questa la ragione, il fatto che leiporta in grembo il frutto avvelenato del suoseme?

Queste domande mi urlano in testa comesirene e non ci sono risposte che le possanozittire. A mezzanotte, l’inizio di un nuovo giornoper la Svezia, accarezzo la schiena di Maria eguardiamo il mio cellulare. Il battito dell’orologioci impedisce quasi di respirare.

E Pastor telefona.

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QUARANTACINQUE «Vincent. Amico mio».A volte non c’è niente di peggio di un viso

familiare. Pastor. I suoi occhi sembrano quelli diuna vecchia fotografia, sono morti ed esangui.Lo sfondo è buio, sullo schermo del cellularenon vedo che ombre rigide, rabbrividisco.

«Dov’è Marko?».Pastor gira il telefonino, nella rotazione la

lente inquadra l’immagine sfocata di mucchi dibanconote. Ed eccolo seduto là, su una sediaWindsor, con lo scotch a bloccargli braccia egambe al telaio della sedia. La striscia di nastroadesivo gli tappa ancora la bocca e lacanottiera bianca è talmente insanguinata cheChe Guevara non si vede più. Respira piano ea fatica, ed è questo l’unico indizio che mi fa

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pensare sia ancora vivo. Il corpo cade privo diforze, il mento appoggiato sul petto. Sembrache Marko non abbia muscoli né volontà. Lasua è l’immagine di uno che se n’è già andato.

«Comprenderai che è un poco scosso»,dice Pastor. «Inoltre non sta troppo bene, credo.Dall’ultima volta che vi siete visti si è pisciato ecagato addosso».

Pastor zooma sui jeans sdruciti di Marko, laluce è poca ma mi pare di intravedere dellemacchie sui pantaloni.

Per la prima volta sento Pastor ridere e lasua risata suona come la raffica di un’armaautomatica. Gli dà un buffetto sulla guancia eMarko non reagisce.

«Povero Marko», sospira Pastor.Maria mi stringe l’avambraccio così forte che

le sue unghie scavano profonde mezzelunenella mia pelle. Rimaniamo sul letto, immobili,abbiamo spento la luce dentro e acceso il cielofuori. Le stelle sembrano tanto vicine cheimmagino di aprire la finestra e raccoglierle perpoi infilarmele in tasca.

Pastor compare di nuovo nella telecamera

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come la versione macabra di un pupazzo amolla che salta fuori dalla scatola.

«Come ti senti, Vincent? Sei un novello VIP.Non dev’essere una situazione facile dagestire».

«Vai al diavolo».«Ci sto andando».Saluta con la pistola sproporzionata e Maria

sobbalza.«Pastor». Inquadro Maria. «È incinta».Scorgo qualcosa nel profondo dei suoi

occhi, l’ombra di un’emozione.Ma si spegne, e il suo volto scompare dalla

telecamera.«Lo so», dice semplicemente. «Un’ultima

chance, ora. Arrenditi».Preme la canna della pistola contro la

tempia di Marko, che ha un sussulto. Alza latesta di scatto e si appoggia all’indietro,scostandosi dall’arma come se fosseattraversata dalla corrente elettrica. La pelle diMarko è diafana, quasi trasparente. Vedo i suoiocchi sbarrati, pieni di confusione e panico. Labocca aperta, ansimante, e la saliva che gli

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cola ai lati, giù fino al pizzetto. Inizia asinghiozzare senza controllo dimenandosicome un bambino disperato.

Vedo tutto questo attraverso gli occhi diPastor, che lo inquadra di fronte. La mano cheimpugna la pistola è marrone, sembra ritagliatain un pezzo di cuoio. Ed è così ferma, cosìsalda. Non è che un effetto dovutoall’angolazione della telecamera, ma per unistante mi sembra di vedere me stesso conl’arma in mano premuta contro la testa diMarko. Posso scegliere tra la vita e la morte, maal tempo stesso sono cosciente della miaimpotenza, la mia è una scelta ininfluente.Pastor è Dio e la volontà di Dio è legge. Itendini della mano si contraggono mentrestringe la pistola. È un gesto di cui haesperienza.

Quando torna, la voce di Pastor mi fapensare a pugnali insanguinati.

«Vincent».Un momento lungo un battito di ciglia si

prolunga e mi percorre la spina dorsale perrimanerci attaccato, per sempre, nella forma di

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un ricordo raccapricciante, chiudo gli occhi esussurro nel telefonino.

Il colpo è il suono di una cinghia di cuoio

che frusta pelle umana. La testa di Marko si torce e una pioggia

rossa tinge l’oscurità ma non faccio in tempo avedere l’ultimo fotogramma, Marko morto. Sentorumori confusi in sottofondo, da qualche partealle spalle di Pastor. Si gira con il telefonino inmano e vedo la porta che viene sfondata. Oltrelo stipite brilla una luce. È giallastra, comequella di un ospedale, ma ai miei occhi apparedivina, e i profili che vedo hanno aureole sulcapo. L’immagine è mossa e sfocata ma sentoun grido di sorpresa che può proveniresolamente da Pastor. Dalla porta irromponodiverse persone e tra loro riconosco un volto,una vista che mi rallegra il cuore come ilcrescendo di un’orchestra.

Il volto di Dante.Lo schermo si fa nero.

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QUARANTASEI Fisso impietrito il display nero. Questa è la

conseguenza della mia scelta. La stanzasembra rimpicciolirsi e gonfiarsi a suopiacimento. Siamo sepolti nello stomaco di unmostro ansimante. Maria mi accarezzadelicatamente la schiena e c’è un silenzio dimorte.

Entriamo nudi nella doccia. Lacrime le

scorrono lungo le guance e respira piano. Io mimuovo come un automa. Il mio corpo funzionama non ho colonna vertebrale né sistemanervoso.

L’acqua scroscia su di noi, sulla spalla e suipunti vecchi e nuovi, ma non ho la forza dicurarmene.

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Ogni cosa marcisce e muore, presto o tardi.Abbraccio Maria e sento il suo corpo aderire

a me, le sue scapole contro il mio petto, il suosedere contro la mia pancia, l’odore dei suoicapelli. Le mie mani sui suoi fianchi soffici, inostri corpi bagnati dall’acqua. Mi aspetto disentirmi sfiorare una mano, un segnale da partesua, ma il pensiero di una nuova vita che verràal mondo mi atterrisce.

Trovo una saponetta e gliela passo sulcorpo, intorno ai seni e sulle spalle, giù sullapancia; poi la saponetta bagnata mi sfugge dimano, e dato che la spalla mi tira quando michino è lei a raccoglierla. Le viene la pelled’oca e si stringe a me, la sua mano sul miosedere. L’acqua che scorre mi offusca la vista eaffondo il volto nel suo collo, sento sapore disapone sulla lingua.

Un senso non c’è. Si siede nuda sul bordo del letto e io scivolo

verso di lei. La vicinanza è come una droga e ionon resisto alla maggior parte delle cose checreano dipendenza. Men che meno adesso. Le

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nostre mani lentamente si trovano e le ditabrune di Maria si intrecciano alle mie, bianche. Icapelli bagnati le cadono sul viso e sulle spallecome nastri.

«Finirà. It will end».Maria non reagisce, come se non mi avesse

sentito. Poi però, con calma, annuisce. L’odoredi sapone mi solletica il naso. Maria dice chenon vuole più rimanere qui.

«Domani sarà tutto finito», dico io. «Te loprometto».

Mi guarda. Mi chino su di lei in modo goffo eimpacciato, e lei posa la sua mano sulla mianuca con esitazione. Quando con una mano lesfioro le cosce si irrigidisce e le stringe.

I nostri sguardi si incontrano e mi concedodi lasciarmi andare nel vuoto, una volta sola.Quando la bacio è la prima volta, mi sentoinsicuro e non so come si fa. Il suo labbroinferiore trema e il cuore mi batte così forte chesento il sangue pulsarmi nella punta delle dita.

Sto sdraiato sul letto, nudo e al buio. Lo

sguardo si è bloccato sul soffitto, i miei pensieri

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sono schegge di cristallo. È accaduto inmaniera naturale. È stato così intenso, possoancora sentire Maria in bocca, un saporesalato. Ci muovevamo come un unico essere,uno strumento meccanico dal movimentoripetitivo. Tentavamo di evitare di guardarcinegli occhi, forse per una sorta di vergogna o dipaura.

Le sue mani fredde sulle mie spalle, laconfusione e il silenzio.

La stanza è ancora calda e umida dopo ladoccia e la finestra che dà sul parcheggio si èappannata un’altra volta. Il mio sesso èanestetizzato, grigio e raggrinzito. ChiamoDante e rifletto su quanto mi trovo lontano maallo stesso tempo vicino a ogni cosa. Il cellularesquilla ma qualcuno interrompe la chiamata,Dante, Pastor. Mi chiedo cosa stia accadendo.

Mi alzo in piedi e la stanza gira, devosedermi sul letto fin quando non si ferma, poiprendo la carta stradale della Svezia che mi erodimenticato di aver comprato.

Maria sta in piedi alla finestra e con il ditoindice disegna nella condensa sul vetro.

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Disegna un cuore, un sole, una croce.Disegna con una tale intensità e decisione dafar pensare a una forma di terapia. Forse lo è. Isuoi lunghi capelli riposano su una spalla.

Mi avvicino e per un breve istante guardo lefigure sul vetro, prima di aprire la mappa pertrovare il posto che ho in mente.

«Maria».Guarda la carta tenendo una mano tra i miei

capelli. Le sue unghie sulla pelle mi fannovenire sonno. Batto con l’indice incorrispondenza di un incrocio a T nei pressi delporto di Göteborg.

È un luogo in cui sono già stato un paio dianni fa in occasione di uno scambio di drogafallito. Il posto perfetto.

«Qui. Qui finisce. This is the end».La guardo e alzo un sopracciglio. Maria

serra le labbra in una linea e pare soppesare ilsenso delle mie parole.

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QUARANTASETTE È la mattina dell’ultimo giorno e a svegliarmi

è il cellulare. Prima di aprire gli occhi cerco diconvincermi che sto ancora sognando. Houndici anni, due bei genitori e mi attende unavita meravigliosa.

Ma è questa la mia realtà. Maria è distesasulla pancia con la bocca socchiusa. Possovedere i suoi denti. Sembra che dorma, glisquilli del telefonino non l’hanno svegliata.

«Dante», dico io.«Buongiorno, Vincent».La voce di Dante è quella di uno che non

dorme da una settimana. Mi torna in mente lamorte di Marko e un pugno invisibile micolpisce allo stomaco.

«Siete arrivati tardi. Non ho intenzione di

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tornare».Dante non risponde. La linea non è buona e

ho paura che cada.«Avete interrogato Pastor? Pronto?»«Vincent, ci è sfuggito».Le parole di Dante congelano la stanza, da

un momento all’altro immagino di vedere unapellicola di ghiaccio ricoprire il pavimento. Illato oscuro vince sempre.

«Sfuggito?». La mia voce è un bisbiglio.«Abbiamo fatto tutto il possibile, Vincent. La

cantina aveva due uscite. La maggior parte deinostri era sul retro, ma probabilmente lui loaveva previsto ed è uscito dall’altra parte. Làc’erano solo due agenti. Di buono c’è che unodi loro è riuscito a ferirlo prima che Pastor... Idue ragazzi stanno al reparto di terapiaintensiva del Karolinska. Ad ogni modo non hafatto in tempo a prendere i soldi».

Dubito fossero gli unici soldi che aveva.Chiudo gli occhi e mi chiedo quale sia l’altezzaminima da cui saltare per essere sicuro dimorire.

Aveva intenzione di sparire e lo ha fatto.

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«Ferito quanto gravemente?»«Dovrebbero averlo preso a una coscia».Da una parte ne sono felice. Significa che

Pastor è di carne e ossa, non è immortale.Dall’altra sono deluso.

Pastor meno una coscia è senza dubbiomolto più autonomo di qualsiasi altra personasana.

«Ma vi ho visti, eravate un cazzo di mare dipoliziotti. Come avete potuto fallire?».

Mi brucia la gola, Maria allontana il sonnocon un battito di ciglia e ora è perfettamentesveglia. Ruota dolcemente sul fianco e lacoperta le cade di dosso.

Vedo i suoi capezzoli del colore del cuoiobagnato. Si avvolge nella coperta.

«Qualcuno lo aspettava lì vicino. Ci hannosegnalato una Toyota nera».

«Argentata. Devono averla riverniciata, inrealtà è argentata».

«Lo so, Vincent. Lo sappiamo».Qualcosa mi solletica la guancia ed è una

piccola lacrima trasparente. Gli occhi mibruciano e singhiozzo.

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«Trovalo», dico, quasi implorando.«Il mio compito è trovare te, Vincent».Vengono commessi talmente tanti crimini e

della maggior parte di essi io non sonocolpevole. Ma la Svezia funziona così. Seavessero catturato Pastor avrei avuto lapossibilità di discolparmi, scontare la mia penae ricominciare. Sarei potuto diventare un’altrapersona.

Dante interrompe la chiamata e io resto afissare il cellulare. La batteria è quasi scarica equel telefono non può più tornarmi utile in ognicaso, per cui lo getto in un cestino dellaspazzatura. Lo scopo delle ultime parole diDante è quello di spaventarmi, nessuno lo sameglio di me, ma il mio sistema nervoso hasmesso da tempo di prevedere una similereazione. Ho una strana sensazione alla spalla,ha cominciato a prudermi in modo moltosospetto.

È la mattina dell’ultimo giorno. Il mondo è nero in una cornice bianca.

Nell’oscurità intravedo dei puntini chiari. Mi

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sembra di riconoscere la linea costieraoccidentale della Svezia e accanto la forma diSödermalm.

Stelle e schegge giacciono le une accantoalle altre. Lentamente realizzo.

Quello che vedo non è il mondo. Chiudo gliocchi e immagino un’ecografia della pancia diMaria, il profilo che distinguo è la comparsadella progenie di Pastor. Quando apro gli occhila prima cosa che vedo è lei. Sta seduta albordo del letto e mangia caramelle alla gelatinadei colori dell’arcobaleno. Mi chiedo quantianni abbia.

«È ora di andare. Time to leave».Maria annuisce con un movimento lento e

cadenzato.Vorrei dirle che forse la amo, ma qualcosa

mi stringe il cuore e non lo lascia fin quandonon ho più aria, e non dico niente.

Ricordo che le sono venuto dentro, stavo

per uscire ma lei con la mano me lo haimpedito. Forse per una questione di potere.Uno psichiatra sosterrebbe senz’altro questa

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ipotesi spiegandola in funzione di eventirisalenti all’infanzia di Maria, ma io rifiuto diriempirmi la testa di simili paranoie. Preferiscotagliarmi una mano piuttosto che frugare inquella testa.

«Ha per caso una sorella?».Mentre pago per la notte e la bottiglia di

assenzio ormai quasi vuota, cerco dichiacchierare per sembrare più naturale. Ilvecchietto alla reception non mi ricorda solomio padre, ma anche la vecchia del villaggioturistico. Fissa inespressivo il liquido mancantenella bottiglia di plastica e la mette via. Le suemani sono secche e screpolate e le banconotefrusciano contro la sua pelle quando le conta.Quel suono mi taglia le orecchie.

«Io non ho niente».Non so cosa rispondere, rimango in

silenzio. Quando esco mi raggiunge una stranafrase di congedo.

«Ci vediamo».«No», dico io, ma dubito che mi abbia

sentito.

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Nella macchina armeggio maldestramente

con la carta stradale. È grande come un tavoloe non riuscirò mai a ripiegarla. La esamino erabbrividisco per il freddo nell’abitacolo. Cidovrebbero volere al massimo tre ore perGöteborg, se riesco a non sbagliare strada. Selanciassi la Volvo sull’autostrada ci saremmo inun’ora e mezza, ma voglio evitarla, per quantopossibile. Impreco tra me e me. I nostrispostamenti sono stati lenti come quelli di unalumaca ferita. E la colpa è mia.

Sono debole, limitato.Cerco di memorizzare uscite e nomi di

strade ma invano: il mio cervello non èall’altezza di compiti tanto complessi.

Accartoccio la carta e la getto sul sedileposteriore. Estraggo il revolver dalla busta diplastica e lo infilo nel portaoggetti della portieradel conducente quando Maria non mi vede.Voglio averla a portata di mano, sonoingenuamente convinto che sia possibileottenere sicurezza attraverso le armi.

«I’m sorry».

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La guardo con espressione interrogativa. Miaccarezza la guancia con l’indice ed esita.

«Marko», dice poi.Gli occhi mi bruciano. Metto in moto ed esco

con prudenza sulla strada, volto a sinistra e ilviaggio prosegue in un’atmosfera tesa.Ascoltiamo il notiziario del mattino. La speakerci informa che le ricerche di Maria e meproseguiranno nel corso della giornata. Siamoconsiderati estremamente pericolosi.L’informazione successiva mi coglieimpreparato. Numerosi giornali della serahanno pubblicato nome e foto del criminale.Vincent Franke. Non sono noti i dettaglidell’ingresso della donna in Svezia, mapresumibilmente si chiama Maria MagdalenaLjubova.

Sentire il mio nome pronunciato in uncanale radiofonico nazionale è una sensazionemolto particolare. Quando Maria sente laspeaker guarda la radio come si guarda unosconosciuto.

A parte me, nessuno sa che anche laseconda notizia mi riguarda. Nel centro di

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Stoccolma ha avuto luogo uno scontro in cui èrimasto coinvolto un ostaggio. In seguito a unintenso lavoro di indagine la polizia ha fattoirruzione in una cantina, dove un criminaleteneva prigioniero un uomo. Tra la polizia e ilsequestratore c’è stato uno scontro a fuoco el’ostaggio è rimasto ucciso. La vittima era datempo nota alla polizia. La mattina successiva,il responsabile delle operazioni era moltoreticente in merito ai risultati dell’intervento. Alleore nove il colpevole non era ancora statoarrestato.

Dopo un paio di minuti di musica letrasmissioni vengono nuovamente interrotte etorna la voce della speaker che stavolta ha unaltro tono, sembra esausta. Come se ne avessefin sopra i capelli della sconfinata malvagità delmondo. Stato d’animo che condivido. Con voceincerta ci informa che nel corso della notte èstata sgominata un’organizzazione criminalededita al trafficking che aveva base nel centrodi Stoccolma. Non sono note le identità deicriminali coinvolti.

Immagino quelle donne chiuse a chiave in

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una stanza senza finestre. La porta si apre e laluce del giorno si riversa sui loro corpi comefosse acqua. Libertà. Tra loro c’è Maria.

Poso la mano sulla sua.Quando guardo nello specchietto retrovisore

vedo le nuvole tanto basse e veloci che sembrache anche il cielo mi stia dando la caccia.

In mezzo al nulla passiamo un grande

cartellone pubblicitario dell’Ufficio diCollocamento. Sotto al cartello qualcuno hascritto “lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”con una bomboletta di vernice rossa e misorprendo che l’odio contro il sistema fioriscapersino da queste parti.

Un uccello grande come un aereo a elicavolteggia sopra di noi e Maria lo indica.

«A... what is the name... eagle». Non sonoun ornitologo ma credo sia quantomeno insolitoavvistare aquile nelle vicinanze di Göteborg.

«Looks so free».Il tono di Maria è quasi felice e io non dico

niente. Mi volto a guardarla e mi viene dapensare al Norwegian Wood, che a sua volta

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mi fa pensare a Marko, alla violenza e alsangue. Associazioni avvelenate.

La voce dolce di Maria che intona Chiquitita

mi culla in un mare di serenità. Ha una bellavoce. La immagino con un vestito rosso su unpalco davanti a un microfono, il suo corpo comeuna lama affilata. Tutta la bellezza del mondo inun unico pensiero.

Mi sono distratto e reagisco in ritardo.Su una desolata stradina di campagna, a

un’ora e mezza dalla periferia di Göteborg, unamacchina bianca sta parcheggiata da un lato.Accanto alla macchina il profilo di una persona,e più di questo non faccio in tempo a vedereprima di accorgermi che la macchina non è solobianca, è anche blu. L’uomo esce in strada e mifa cenno di accostare.

Gelo e impotenza. Poso la mano sullapancia di Maria, non so cos’altro fare. Misembra di sentire un movimento provenire da lìdentro. Un segno di vita.

Sulla strada ci siamo solo noi. Intorno,nient’altro che bosco svedese morto. Ci

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troviamo dentro una bolla. Freno, la macchinasi ferma in modo brusco. L’asfalto ammutoliscee leggo la parola scritta sul veicolo.

“Polizia”.

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QUARANTOTTO Una soffiata. Qualcuno deve avergli detto

della macchina. Che è una Volvo, che è rossa,la targa, non so. La vecchia muta forse non eramuta. Forse i due drogati del villaggio turisticohanno ricevuto una ricompensa per lasegnalazione. È anche possibile che il sistemanervoso del commesso lentigginoso abbia unsenso della giustizia molto sviluppato.

Il vecchietto che leggeva Roald Dahl. Maifidarti di uno che legge Roald Dahl.

Ma non fa alcuna differenza.L’agente in piedi sulla strada tende il

braccio mostrando il palmo della mano, comese stesse dirigendo il traffico. Pare sia solo. Èraro che lavorino in coppia da queste parti. Sisuppone che non ci sia pericolo a lavorare

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senza partner.Maria mi sta dicendo qualcosa ma io non

sento. I suoni sono attutiti.Esamino il poliziotto. Un uomo alto con la

faccia da bambino. Un po’ di pancia gli tende ladivisa. Sicuramente ha moglie e figli e animalidomestici. Dice qualcosa nel walkie-talkiefissato a destra sul petto e si avvicina allanostra macchina.

Nella mia testa sto urlando. La mia manoscivola fino al revolver.

Viene dalla mia parte. Si china e bussa sulfinestrino, mi fa cenno di abbassarlo. Il suorespiro sul vetro si trasforma in un cerchioirregolare di vapore condensato. La distanza trai nostri volti corrisponde alla lunghezza delrevolver. Fisso l’agente, terrorizzato.

Assaggio l’aria e sento un sapore metallico

nella parte posteriore della lingua.Abbasso il finestrino, piano, e i suoni del

mondo esterno si infilano strisciandonell’abitacolo: il fruscio del vento, lo scricchioliodelle scarpe del poliziotto sull’asfalto sozzo.

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«Salve».Il suo tono è sommesso e ha un aspetto

serio. Le palpebre sono cappucci pesanti e lesbatte con lentezza.

«Salve», rispondo con un filo di voce.«Il fanale sinistro non funziona, e...».Quando mi vede un lampo gli attraversa gli

occhi. Sbircia verso di me, la sua intuizione ètalmente palese che mi sembra di poterlatoccare.

«Un attimo», dice e indietreggia di duepassi, poi dice ancora qualcosa nel walkie-talkie. Non distinguo bene le parole ma ilconcetto chiave è “rinforzi”. Riceve unarisposta, forse una tempistica.

Perduto. Vincent è perduto. L’agente sirivolge ancora a me, si china in avanti. La suaespressione è mutata. È tesa in manierainnaturale e se portasse l’orologio il suosguardo farebbe avanti e indietro tra quello eme come una pallina da tennis durante unoscambio serrato.

«Il fanale sinistro. È rotto».Si sforza di controllare la voce e gli riesce

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piuttosto bene. Per quanto mi riguarda devodeglutire diverse volte prima di rispondere.

«Che strano. Stamattina quando siamopartiti era a posto, vero amore?».

Guardo Maria e spero che lei capisca.Sorride all’agente e annuisce. Alzo unsopracciglio mentre cerco una battuta calzante.

«Può capitare che la lampadina si fulminidurante il viaggio».

Sembra che stia cercando le parole. Miaccorgo che gli tremano le mani.

«Non appena troviamo una stazione diservizio ne compro una nuova e la cambio»,dico io.

Il poliziotto ruota la testa a sinistra, poi adestra, con lo sguardo cerca qualcosa. Non c’ènessuno. Siamo soli.

«È molto raro che una lampadina si fulminiin viaggio», mormora.

Lo ignoro e giro la chiave di avviamento.Questo gesto lo fa sobbalzare e arretrare di unpasso, la sua mano cerca in maniera maldestrala pistola nella fondina. Siamo entrambi nudi egiochiamo a carte scoperte. Provo una

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sensazione di intimità. Lui sa chi sono io e io socosa lui sta cercando di fare.

Ma non fa in tempo.Mi getto sul revolver e davanti ai miei occhi

cala l’oscurità. Miro contro un punto a caso delfinestrino e la sensazione del mio dito chepreme il grilletto è irreale, così diversa daqualsiasi altra sensazione abbia provato. Laresistenza opposta dal grilletto è molto più fortedi quanto si pensa comunemente, come se nonvolesse arrendersi. Ma cede.

Il rinculo è potente. La mia mano viene

catapultata indietro e si incastra nella spalla. Oper lo meno è questa la sensazione che ho.Polvere da sparo sulla mano e odore dibruciato, un odore mortale. In strada, l’agente siè portato le mani alla gola. Ha del sangue sulledita. Cade pesantemente in ginocchio, sbatte latesta contro la porta della macchina e siaccascia sull’asfalto, immobile.

Mi scaravento fuori dalla macchina e migetto accanto a lui. Il mio grido è stridulo e privodi parole, mi prende il panico e premo la mano

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sul buco che ha nel collo. Il suo sangue scorresu di me, scorre sull’asfalto intorno a noi, densocome inchiostro.

Sento una mano sulla spalla e sobbalzo, migiro e vedo Maria. Scuote piano la testa.

Non volevo farlo, è stato il rinculo a farmialzare la traiettoria e a farmelo colpire alla gola.Siamo perduti.

Lascio il revolver accanto al corpo e glilancio un’ultima occhiata. Nei suoi occhi vuoti emorti vedo il riflesso delle nuvole che simuovono sopra di noi.

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QUARANTANOVE «Il mio nome è Vincent Franke».In mano ho un cellulare. Stava nella busta e

credo appartenesse al sicario di Pastor, l’uomoche ha provato a ucciderci. È viscido e bagnatodel sudore delle mie mani e del sangue delpoliziotto. La radio trasmette un programma incui gli ascoltatori possono chiamare ecommentare notizie di attualità. Prima di me hachiamato un ragazzo allarmato per l’incapacitàdella polizia di contrastare l’ascesa di Silver,dell’Americano e di Hugo, e per leconseguenze violente che la loro rivalitàprovoca nel mondo della malavita.

La donna che filtra le telefonate da mandarein onda fa un respiro profondo.

«E tu di che vorresti parlare?». La sua voce

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è uno squittio eccitato.«Mandami in onda».Maria se ne sta seduta immobile, i suoi

grandi occhi fissi sulla strada.«Pronto? C’è qualcuno? Pronto?».È strano sentire la propria voce alla radio. Il

ritardo è minimo, quasi impercettibile. E là fuorici sono persone che non possono vedermi mache ascoltano. Ascoltano e sognano.

«Abbiamo un nuovo ascoltatore in linea. Dicosa ci vuoi parlare?». La voce dello speaker èbrillante, modulata in maniera professionale.

«Il mio nome è Vincent Franke», dico io. «Eho appena ammazzato un poliziotto».

Le mie parole tremano e la cordialità nellavoce dello speaker scompare all’istante. Nonrimane che curiosità mista a sgomento.

«Parliamo del Vincent Franke ricercatodalla polizia in tutto il paese?».

Non rispondo. Non riesco a credere chepossa aver fatto una domanda tanto idiota.

«Tra un’ora mi troverò a Göteborg. Hointenzione di arrendermi. Voglio che ci sia piùgente possibile».

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La mia voce mi infastidisce, suona artefattae falsa. Lo speaker ribatte subito con unadomanda, come se mi volesse impedire diinterrompere la chiamata.

«Più precisamente dove a Göteborg intendiarrenderti?».

Gli do un indirizzo.«E perché vuoi che ci sia tanta gente là,

Vincent?»«Nel caso dovessi cambiare idea». Faccio

un respiro profondo. «Ho paura che potreicambiare idea».

Il resto della conversazione mi scivolaaddosso, il mio interlocutore è sciocco e cercadi trasformarmi in qualcosa che non sono.

«Perché hai ucciso quell’agente?».Strizzo gli occhi. Ogni parte del mio corpo

duole in modo insopportabile.«Non volevo».«Stai insieme alla donna che tieni in

ostaggio?»«Cosa significa “insieme”?»«C’è qualcosa che vuoi dire ai nostri

ascoltatori?».

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Spera in una spiegazione, una richiesta diperdono. Che questa diventi la mia redenzione,la mia salvezza.

«No».

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CINQUANTA Le due persone più sole della Svezia si

ritrovano all’improvviso al centro dell’attenzionedi tutto il paese. È un pensiero che mi provocavertigini e nausea. La spalla mi prude ma nonho difficoltà a rimanere seduto. È comparsa inme una calma rilassata, quasi spirituale. Per laprima volta sono sicuro di qualcosa.

Attraversiamo la periferia di Göteborg. Lecase e le strade sono grigiastre come ogni altracosa nel nostro campo visivo. La Svezia è unpaese brutto, abitato da persone brutte chehanno inventato regole e leggi brutte. Maria sigira verso di me e il suo sguardo è caldo. Michiede con tono pacato e melodico se tra pocosarà finita e io annuisco.

Man mano che procediamo la città cresce.

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Le case si alzano, le strade si moltiplicano e iltraffico si intensifica. Visti dall’alto, come se Diocalasse il suo sguardo possente su di noi,sembreremmo insetti laboriosi e lucenti.

Squilla il cellulare. È un cronista di ungiornale della sera che vuole l’esclusiva dellamia storia.

«Chi ti ha dato questo numero?», glidomando.

«Parlami della tua infanzia».Riattacco. Un famoso avvocato chiama per

proporsi come difensore. Il telefonino nonsmette di squillare e lo spengo.

Siamo nell’occhio del ciclone. Quando svolto l’ultimo angolo, il traffico

intorno a noi sparisce all’improvviso. La stradaè una striscia di asfalto piatta, due ampie fileper ogni direzione e siamo ormai soli. Nellospecchietto retrovisore noto che le macchinevengono bloccate da uomini in uniforme egiubbotti catarifrangenti gialli.

Clacson e grida si mescolano prima discomparire, nella macchina regna il silenzio.

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Ripenso al piccolo dentro al corpo di Maria,provo a utilizzare tutte le mie energie mentaliper comunicare con la parte di lei che ancora èperfetta, incontaminata. La parte che non possotoccare, vedere né sentire. Non ci riesco. Ilbambino dorme e continuerà a dormire.

Da un elicottero ci stanno filmando. Il

rumore delle pale ricorda raffiche di armiautomatiche e mi torna in mente Pastor, che sitrova da qualche parte in un altro mondo,ansimante e ferito e nascosto da qualcosa dipiù grande della sua stessa ombra. L’elicotterovolteggia sopra di noi e mi chiedo quantetelecamere siano incollate alla nostra macchinae quanti spettatori stiano seguendo le nostrevicende in questo momento.

La situazione è totalmente irreale. Ogniavvenimento viene filtrato da una miriade dimedia e di esperti di marketing fin quando nonprende la forma che loro desiderano,divenendo così un veicolo per trasmettere laverità. La loro verità. La nostra storia verràricordata dalle macchine e non dalle persone.

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La gente dimenticherà, ma l’eradell’informazione ha memoria inesauribile evita eterna. Per ogni istante che passa, per ognibattito del nostro cuore, il mondo perde partedella propria realtà, fin quando non lo lasciamo.

Lungo la strada spunta altra gente.

Indossano giacche e pantaloni pesanti e ciguardano con occhi sbarrati. Mancano lebandierine in mano e un po’ di entusiasmo perfarmi sentire un presidente neoeletto. Invece ciosservano con un misto di sdegno e curiosità,come se fosse arrivato in città colui che portatutti i peccati del mondo sulle spalle. Il giudiziocade su di lui come pioggia battente.

Scorgo in lontananza l’incrocio a T dove lastrada termina e proprio in quel punto intravedoun gran numero di persone.

Sono stati furbi. Non posso girare né adestra né a sinistra: hanno chiuso la strada inentrambe le direzioni. E davanti a noi unaparete rocciosa grigio scuro, alta come unachiesa, che incombe come un mostromillenario.

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Gli spettatori aumentano. Sono talmente

numerosi che gli agenti sono costretti atrattenerli. I poliziotti. Non riesco a guardarli. Leloro divise mi ricordano la morte e mi sforzo dinon guardare la mia mano, rossa del sangue diquel poveraccio.

Una calma spettrale riposa su Göteborg.Sono già stato qui una volta, era inverno.Chissà, forse d’estate è una bella città. È comese la tensione schiacciasse l’aria, ogni cosa simuove al rallentatore.

Dietro al perimetro isolato dalla polizia, unamoltitudine di mezzi di intervento è prontaall’azione. Volanti, autopompe dei vigili delfuoco, ambulanze e furgoncini dei mass mediastanno ammassati come se fosse appenaavvenuto un terribile incidente.

Le telecamere seguono ogni movimentodella macchina, non perdono un solocentimetro dell’asfalto che mettiamo sotto dinoi.

Una radio trasmette in diretta dall’incrocio aT.

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La voce è esaltata come se stessecommentando la finale dei mondiali di calcio.Racconta che la macchina ha un fanale rotto eche intravede i nostri volti.

Cosa che in realtà è impossibile, siamotroppo lontani perché possa vederci, è unabugia evidente e sgradevole. Spengo la radio.

Ci togliamo le cinture di sicurezza e rallento.La gente sbircia nella macchina e le lorofotocamere digitali lampeggiano come fuochid’artificio. Io sono l’uomo elefante e Maria è lamoglie che nessuno capisce cosa ci faccia là.

Proietto nella mia mente il film di me chefermo la macchina, gli agenti corrono verso dinoi con le armi spianate. Abbraccio Maria,inspiro il profumo dei suoi capelli bellissimi efolti. Quell’odore mi fa ricordare come tutto èiniziato, quando è venuta da me quella notte,leggera come l’ombra di una farfalla. Vedo mestesso con i flash delle macchine fotografichenegli occhi e uno sciame di microfoni premuticontro la mia faccia.

Capisco che un giorno ogni cosa potrebbetornare a posto.

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Forse potrebbe andare così. Tuttavia questofinale non è che un’illusione. Non so chi siastato a far precipitare le cose al punto in cui,infine, ogni cosa va in pezzi per sempre. Forsela colpa è mia, ma può anche darsi che il corsodegli eventi fosse già scritto.

Guardo Maria per l’ultima volta.Sorride, il suo è un sorriso prudente che non

so come interpretare.Mi torna in mente quando danzava nel mio

appartamento e come dirigeva la musica con isuoi movimenti. È una delle immagini più belleche abbia mai visto e mi accompagna quandomi volto nuovamente verso la strada davanti anoi.

L’incrocio a T e la parete rocciosa siavvicinano inesorabilmente.

Non c’è nulla di bello in tutto questo maneanche nulla di spaventoso.

Tendo la mano e Maria ci poggia la sua condolcezza.

Affondo il piede sul pedale del gas e lamacchina manda un urlo. L’accelerazione èviolenta e la roccia compatta e irregolare ci

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viene incontro a una velocità tale che nonfaccio nemmeno in tempo a sbattere lepalpebre. Maria stringe la mia mano. Con lacoda dell’occhio mi sembra di vederlasorridere. La sua mano è fresca e mi arriva allenarici un odore che ricorda l’asfalto bagnato. Lavelocità rende il mondo sfocato. Acceleroun’ultima volta.

Ogni amore è un cancro e nulla è persempre.

Nell’istante prima che tutto finisca mi appareuna bianca luce divina e intuisco i profili dellepersone che mi sono mancate, quelle che hoferito e quelle che non sono mai riuscito aperdonare.

Trattengo il respiro. Mi torna in mente una scena dalla mia

infanzia. Gioco con una barchetta nella vascada bagno e i miei genitori sono lì vicino daqualche parte. La violenza è sempre sottile,controllata. Le vele della barca sono bianche.Naviga in un perimetro circoscritto, ma nellamia immaginazione veleggia lontano, fino a

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raggiungere un paese straniero. Il mio nome è Vincent Franke ed è così che

tutto ha inizio.

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RINGRAZIAMENTI Sono così tante le persone che hanno

contribuito alla realizzazione de Lo strano casodi Stoccolma che tu tieni in mano. Ci vorrebbetroppo tempo per esprimere gratitudine aognuno di loro nella maniera che meriterebbe,ma da alcuni ringraziamenti non possoesimermi.

Mela, il mio miracolo, il mio mistero, la miaspina e la mia rosa. Non ho parole perdescrivere cosa significhi per me, quanto seiimportante e quanto lo sei sempre stata. Grazie.

I miei genitori e mio fratello, ai quali questolibro è dedicato. Grazie. Di tutto.

I soci e gli amici che appaiono e cheruotano intorno al primo capitolo: BjörnCalander, Jan Bryme, Alexandra Thomas,Christine Ljungqvist, Fredrik Hoffman, Kjell-ÅkeHansson, Christin Ljungqvist, Tony Kein,

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Johanna Tysk, Kristina Grahn e tutti gli altri.Grazie.

E niente di tutto ciò sarebbe stato possibilese Ola Lauritzson non avesse avuto l’idea per ilprimo capitolo, mantenendo l’entusiasmo neiconfronti miei e di Vincent.

Ho goduto del privilegio delle amicizie piùstupende. Non è possibile nominare tutti, masarebbe altrettanto ingiusto non citare Karl,Martin, Tobias, Johanna, Molly, Hanna, Emilia,Anna, voi che tanto spesso avete sentito, esentirete in futuro, la risposta «No, oggi nonposso, devo scrivere». Grazie per la vostrapazienza, l’entusiasmo e il sostegno. E grazie aMikael Fant, per aver letto il mio libro incircostanze decisive e per avermi detto cosa glipiaceva e cosa no. Ho condiviso (quasi) tutte lesue opinioni.

Grazie all’Istituto di Criminologiadell’Università di Stoccolma che per anni e annimi ha mostrato, volta dopo volta, quanto lanostra realtà sia e sarà sempre interessante,triste, allegra, meravigliosa, orribile, multiformee complessa. Vi ringrazio per il vostro sapere,

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per l’ispirazione e il sostegno.E ringrazio gli spiriti creativi della

Piratförlaget, che fin dal primo momento mihanno accolto come uno che torna a casa daun lungo viaggio. Ringrazio Ann-Marie Skarp,Sofia Brattselius Thunfors, Mattias Boström,Anna Hirvi Sigurdsson, Madeleine Lawass,Lars Jexell, Anna Carin Sigling, Cherie Fusser,Jenny Palmblad, Jonna Holmgren e LottisWahlöö. Siete fantastici. E un grande grazie aEric Thunfors, autore della copertina che trovoeccezionale.

E grazie a te che hai letto questo libro e chehai seguito Vincent fino all’ultimo.

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INDICE Capitolo unoCapitolo dueCapitolo treCapitolo quattroCapitolo cinqueCapitolo seiCapitolo setteCapitolo ottoCapitolo noveCapitolo dieciCapitolo undiciCapitolo dodiciCapitolo trediciCapitolo quattordici

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Capitolo quindiciCapitolo sediciCapitolo diciassetteCapitolo diciottoCapitolo diciannoveCapitolo ventiCapitolo ventunoCapitolo ventidueCapitolo ventitréCapitolo ventiquattroCapitolo venticinqueCapitolo ventiseiCapitolo ventisetteCapitolo ventottoCapitolo ventinoveCapitolo trentaCapitolo trentunoCapitolo trentadueCapitolo trentatré

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Capitolo trentaquattroCapitolo trentacinqueCapitolo trentaseiCapitolo trentasetteCapitolo trentottoCapitolo trentanoveCapitolo quarantaCapitolo quarantunoCapitolo quarantadueCapitolo quarantatréCapitolo quarantaquattroCapitolo quarantacinqueCapitolo quarantaseiCapitolo quarantasetteCapitolo quarantottoCapitolo quarantanoveCapitolo cinquantaRingraziamenti