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Gian Nicola Bisciotti 9 1 1.1 Introduzione Il muscolo scheletrico umano è composto da un’eterogenea tipologia di fibre muscolari (McComas, 1996; Pette e Staron, 1997; Staron, 1997). Que- sto ampio range di tipi di fibre permette al muscolo la sua ricca eterogeneità di capacità funzionali. Inoltre, le fibre muscolari possono adattarsi al cam- biamento della domanda funzionale sia grazie a un cambiamento delle pro- prie dimensioni che attraverso una modificazione della tipologia. Questa plasticità costituisce il presupposto fisiologico sul quale si basano numerosi piani di terapia fisica, il cui scopo è l’incremento della forza e/o della resi- stenza muscolare del soggetto. Un cambiamento della composizione delle fibre può anche risultare parzialmente responsabile di determinate meno- mazioni e disabilità funzionali osservabili in alcuni pazienti che abbiano subito un decondizionamento muscolare, causato da un’inattività prolun- gata, da un’immobilizzazione degli arti oppure da una denervazione del muscolo (Pette e Staron, 1997). Nel corso degli ultimi anni, il numero delle tecniche utilizzabili per la classificazione delle fibre muscolari è notevol- mente incrementato, sino a rendere possibile la classificazione stessa at- traverso numerosi metodi d’indagine. In effetti, la tipologia delle fibre muscolari può essere descritta prendendo in considerazione le loro caratte- ristiche istochimiche, biochimiche, morfologiche e fisiologiche; per cui, come d’altronde è logico aspettarsi, i diversi tipi di classificazione, effettuati con i differenti metodi d’indagine, non sempre collimano tra loro. Pertanto, alcune fibre, seguendo un certo tipo di classificazione, possono ritrovarsi al- l’interno di un medesimo gruppo oppure essere ripartite in diverse catego- rie nel momento in cui si utilizzi un altro criterio classificativo. Tuttavia, in osservanza a un principio basilare di razionalità, occorre adottare un fon- damento comune di concettualizzazione della struttura muscolare e della sua fisiologia, se si vogliono comprendere nella loro pienezza le diverse tecniche di classificazione muscolare. 1.2 Una visione storica I primi studi relativi alla diversa colorazione di preparati muscolari di ori- gine animale, nello specifico di coniglio, sono da attribuirsi all’italiano Lo- renzini nel 1678. Lorenzini classificò due tipologie di muscolo scheletrico: i muscoli “bianchi” e i muscoli “rossi”, pensando che questi ultimi fossero più ricchi di sangue rispetto ai primi. Questa ipotesi fu confutata nel 1896

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Gian Nicola Bisciotti

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Page 1: Le lesioni muscolari

Gian Nicola Bisciotti 9

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1.1 Introduzione

Il muscolo scheletrico umano è composto da un’eterogenea tipologia difibre muscolari (McComas, 1996; Pette e Staron, 1997; Staron, 1997). Que-sto ampio range di tipi di fibre permette al muscolo la sua ricca eterogeneitàdi capacità funzionali. Inoltre, le fibre muscolari possono adattarsi al cam-biamento della domanda funzionale sia grazie a un cambiamento delle pro-prie dimensioni che attraverso una modificazione della tipologia. Questaplasticità costituisce il presupposto fisiologico sul quale si basano numerosipiani di terapia fisica, il cui scopo è l’incremento della forza e/o della resi-stenza muscolare del soggetto. Un cambiamento della composizione dellefibre può anche risultare parzialmente responsabile di determinate meno-mazioni e disabilità funzionali osservabili in alcuni pazienti che abbianosubito un decondizionamento muscolare, causato da un’inattività prolun-gata, da un’immobilizzazione degli arti oppure da una denervazione delmuscolo (Pette e Staron, 1997). Nel corso degli ultimi anni, il numero delletecniche utilizzabili per la classificazione delle fibre muscolari è notevol-mente incrementato, sino a rendere possibile la classificazione stessa at-traverso numerosi metodi d’indagine. In effetti, la tipologia delle fibremuscolari può essere descritta prendendo in considerazione le loro caratte-ristiche istochimiche, biochimiche, morfologiche e fisiologiche; per cui,come d’altronde è logico aspettarsi, i diversi tipi di classificazione, effettuaticon i differenti metodi d’indagine, non sempre collimano tra loro. Pertanto,alcune fibre, seguendo un certo tipo di classificazione, possono ritrovarsi al-l’interno di un medesimo gruppo oppure essere ripartite in diverse catego-rie nel momento in cui si utilizzi un altro criterio classificativo. Tuttavia, inosservanza a un principio basilare di razionalità, occorre adottare un fon-damento comune di concettualizzazione della struttura muscolare e dellasua fisiologia, se si vogliono comprendere nella loro pienezza le diversetecniche di classificazione muscolare.

1.2 Una visione storica

I primi studi relativi alla diversa colorazione di preparati muscolari di ori-gine animale, nello specifico di coniglio, sono da attribuirsi all’italiano Lo-renzini nel 1678. Lorenzini classificò due tipologie di muscolo scheletrico:i muscoli “bianchi” e i muscoli “rossi”, pensando che questi ultimi fosseropiù ricchi di sangue rispetto ai primi. Questa ipotesi fu confutata nel 1896

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1Distrofina: la distrofina è una proteina e rappresenta una parte importante di un com-plesso di proteine che connette il citoscheletro di una fibra muscolare alla matrice extra-cellulare circostante attraverso la membrana cellulare. La sua deficienza è una delle causedella distrofia muscolare. È stata identificata nel 1987 da Louis M. Kunkel, dopo la sco-perta, nel 1986, del gene mutato che causa la distrofia muscolare di Duchenne (DMD). Iltessuto normale contiene piccole quantità di distrofina (circa lo 0.002% della quantitàtotale delle proteine muscolari), ma la sua assenza porta sia alla DMD che alla fibrosi, unacondizione di indurimento del muscolo. Una diversa mutazione dello stesso gene deter-mina una distrofina difettosa, portando alla distrofia muscolare di Becker (BMD). La dis-trofina è il più lungo gene finora conosciuto.

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2.1 Introduzione

L’evento lesivo a livello muscolare costituisce uno degli eventi traumaticipiù ricorrenti in ambito sportivo. L’entità della lesione può andare dal sem-plice stiramento, spesso associato a rottura dei piccoli vasi, con comparsadi dolore e tumefazione, sino allo strappo muscolare completo. Le conse-guenze per lo sportivo, che appaiono ovviamente correlate all’entità dellalesione subita, sono sempre comunque sgradevoli e comportano in ognicaso una sospensione, più o meno lunga, dell’attività agonistica, nonchél’attuazione di un’idonea terapia fisica.In questo capitolo cercheremo di chiarire i diversi quadri fisiologici chenormalmente caratterizzano l’evento traumatico e di descrivere, seppursommariamente, i meccanismi di riparazione muscolare.

2.2 La connessione dell’apparato contrattile

alla matrice extra-cellulare

La giunzione delle fibre muscolari al tendine o alla fascia deve avere la ca-pacità di resistere a forze considerevoli che possono superare i 1000 kg du-rante sollecitazioni di tipo massimale (Tidball, 1991; Tidball e Daniel,1986). Per possedere una così gran forza tensile, ogni fibra contiene dellespecifiche catene di molecole: l’integrina e il complesso distrofina1-glico-proteina (Mayers, 2003; Michele e Campbell, 2003). Questi due complessiproteici connettono l’apparato contrattile miofilamentoso alla matrice ex-tracellulare (ECM) attraverso il sarcolemma (Brown, 1996; Chargé e Rud-nicki, 2004; Chiquet, 2003; Ervasti, 2004; Giancotti e Rouslathi, 1999;Kääriäinen e coll., 2000; Sunada e Campbell, 1995). Occorre ricordare bre-vemente che l’ECM è costituita da un’intricata rete di macromolecole for-mata da proteine fibrose incluse in un gel di polisaccaridi. L’ECM, oltre a

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3.1 L’ingegneria tissutale

Soltanto dieci anni fa, parlare di ingegneria dei tessuti e poter ipotizzareche un giorno si potessero letteralmente “costruire” dei tessuti viventi, gra-zie appunto a tecniche ingegneristiche che riuscissero a combinare tra lorocellule viventi e materiali inerti, poteva sembrare del tutto inverosimile. Adoggi la situazione è del tutto cambiata, basti pensare che solo negli StatiUniti quasi cinquanta milioni di persone vivono grazie a organi artificialiconcepiti e attuati grazie all’ingegneria dei tessuti e che nei paesi indu-strializzati, tra la popolazione degli ultra sessantacinquenni, un individuo sucinque sta attualmente usufruendo della sostituzione di organo.Un tessuto ingegnerizzato può essere costituito da un semplice aggregatocellulare oppure da un aggregato di sottili strati di cellule, ma anche daspesse e complesse strutture cellulari, in un crescendo di complessità tec-nologica e biologica che si sublima nell’ultima sfida dell’ingegneria tis-sutale: la costruzione di un intero organo funzionante. Attualmente, tessutiartificiali come ossa, vescica, cornea e vasi sanguigni sono in fase di trialclinico. Gli incredibili progressi registrati in questi ultimi dieci anni sonoessenzialmente ascrivibili alle nuove conoscenze acquisite nell’ambitodella naturale costruzione organica dei tessuti, che avviene sia durante losviluppo embrionale che durante i processi di guarigione spontanea delleferite.Lo scopo dell’ingegneria dei tessuti è quello di creare dei tessuti viventiche siano in grado di riparare, incrementare o sostituire i tessuti patologici(Huard e Fu, 2000). Il nuovo tessuto può essere creato grazie ad una tecnicainteramente “in vivo”, oppure creato “in vitro” per poi essere impiantato nelpaziente. Indipendentemente dal tipo di tecnica utilizzato, debbono esserecomunque presenti tre componenti essenziali: un fattore trofico - ossia unostimolo che sia in grado di indurre la crescita tissutale -, la presenza di cel-lule adeguatamente responsive ed un’idonea struttura di sostegno per laformazione del tessuto stesso. L’ingegneria tissutale si basa sull’utilizzodei fattori di crescita e sulla terapia genica; in quest’ambito è noto da tempocome una specifica sottoserie di citochine - piccole proteine solubili capacidi influenzare il comportamento cellulare -, note come fattori dì crescita(GF), sia in grado di promuovere la mitosi cellulare. I recenti progressi ot-tenuti nell’ambito della biologia molecolare hanno permesso il sequenzia-mento dei geni delle differenti citochine. In tal modo si è reso possibileinserire le sequenze genetiche così ottenute in cellule animali, ottenendo

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4.1 Introduzione

L’uso dei fattori di crescita (GF) nel trattamento delle lesioni da sport è unapratica in continua espansione, a tal punto che, non soltanto la comunitàscientifica ma anche i media stanno dimostrando una crescente attenzionesu questo nuovo metodo di trattamento (Schwarz, 2009).Il marcato incremento dell’utilizzo nell’ambito della medicina sportiva diquesta innovativa terapia è principalmente basato su una larga aneddoticadi buoni risultati e trova un razionale di applicazione sia nel trattamento dipatologie chirurgiche in sede intraoperatoria che nella cura di patologie mu-scolo-tendinee già trattate attraverso un metodo conservativo. A fare dacontraltare all’entusiastico sviluppo ed alla diffusione di tale metodica vi ètuttavia una scarsa evidenza scientifica. In effetti, nonostante il fatto che laricerca sulla terapia con i GF abbia fatto registrare, negli ultimi anni, unadecisa ed indubbia accelerazione, sussistono relativamente pochi studi cli-nici randomizzati presenti in letteratura e la situazione è comunque tale dagiustificare la richiesta di ulteriori approfondimenti soprattutto su alcuniparticolari aspetti della terapia basata sull’utilizzo dei GF.Inoltre, l’impiego dei GF da parte di atleti professionisti è ostacolato dallaWADA, l’agenzia mondiale antidoping, che continua a mantenere una po-sizione decisamente ambigua, vietandone l’uso come prodotto derivato dalplasma estratto, lavorato e re-iniettato (WADA, 2009) ma prendendo, nellostesso tempo, in considerazione eventuali esenzioni per uso terapeutico(TUE) (Hamilton, 2009). Rimangono comunque poco chiare quali siano legiustificazioni terapeutiche che possano portare alla decisione di accettareuna TUE, considerando l’assenza di evidenza scientifica del trattamento inquestione.Non è possibile, infine, non prendere in considerazione le enormi poten-zialità economiche legate al trattamento con GF, che hanno indotto moltioperatori a intraprendere un loro utilizzo massivo, soprattutto per ciò checoncerne le patologie croniche degenerative, vero tallone d’Achille del-l’attuale stato dell’arte della medicina muscoloscheletrica, troppo spesso,però, con palese noncuranza nei confronti della scarsa evidenza scientificaa riguardo della metodica in questione.A tutt’oggi, secondo alcuni Autori, questa tecnica è considerata in grado dirivoluzionare non soltanto la traumatologia dello sport ma anche l’ortope-dia in generale.

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5.1 Introduzione

Un ematoma è per definizione una lesione di tipo traumatico, generalmentecausata da un corpo di forma larga e smussata, che senza provocare lace-razioni a livello dell’epidermide causa una compressione dei tessuti mollisottostanti. A fronte di tale meccanismo traumatico, il sangue può infiltrarsinei tessuti sottostanti e dar luogo, in tal modo, a un’ecchimosi o raccogliersiin preesistenti cavità del tessuto connettivo interstiziale, in tal caso si par-lerà di suggellazioni oppure diffondersi nel tessuto cellulare lasso, dandoluogo al fenomeno della suffusione o ancora formare una raccolta sia a li-vello tissutale che in un organo, in quest’ultimo caso si tratterà di ematomapropriamente detto (Klein, 1990; O’Donoghe, 1984). Clinicamente, i traumicontusivi sono classificabili in tre diversi gradi, dei quali il primo è carat-terizzato dalla presenza di ecchimosi, il secondo dalla presenza di ematomi,mentre il terzo è contraddistinto da necrosi cutanea che esiterà nella for-mazione di una piaga con possibile presenza di febbre, accompagnata, neicasi di maggior gravità, da shock. Tuttavia, un ematoma muscolare può es-sere causato, oltre che da un trauma contusivo diretto, anche da una rotturadelle fibre muscolari stesse (Hutson, 1996; Klein, 1990; Williams, 1980).In entrambi i meccanismi lesivi descritti, trauma diretto o lacerazione in-diretta delle fibre muscolari, si verifica un danno strutturale a carico sia deltessuto connettivale che di quello vascolare, che si associa alla formazionedell’ematoma stesso (Bird e coll., 1997; Hutson, 1996). In ambito sportivo,questi tipi di trauma sono più frequenti negli sport di contatto come il rugby,il calcio o la lotta (Rothwell, 1982) e i distretti muscolari che fanno regi-strare la maggior frequenza d’insorgenza sono rappresentati dal bicipitebrachiale e dal quadricipite femorale (Gray, 1977; Hutson, 1996; Williams,1980).

5.2 I diversi tipi di ematoma

Esistono sostanzialmente tre possibili tipi di ematomi muscolari: intramu-scolare, intermuscolare e intramuscolare-intermuscolare misto.L’ematoma intramuscolare è caratterizzato dall’integrità strutturale dellafascia connettivale che riveste il muscolo stesso e che, di conseguenza, con-fina lo stravaso ematico all’interno del ventre muscolare interessato daltrauma (Bird e coll., 1997). Questa situazione provoca un aumento della

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6.1 Introduzione

Nell’uomo gli effetti metabolici e meccanici di un esercizio muscolare in-tenso si osservano molto precocemente, sin dalle prime ore (in genere dalle8 alle 24) successive all’esecuzione dell’esercizio che ne è stato la causa(Tiidus e Ianuzzo, 1983). I sintomi, che sostanzialmente si identificano inindolenzimento muscolare, gonfiore e impotenza funzionale, sono in gradodi perdurare per periodi piuttosto lunghi, che possono arrivare a due-tre set-timane (Evans e Cannon, 1991; Sjöström e Fridén, 1984). L’origine di que-sta sintomatologia algica muscolare è essenzialmente di naturamicrotraumatica ed è da imputarsi al verificarsi di microlesioni a livellodella miofibrilla, indotte essenzialmente dalla contrazione eccentrica, che,in ultima analisi, testimoniano uno stato di sovraccarico meccanico del mu-scolo a seguito di un esercizio particolarmente intenso (Bigard, 2001; Pro-ske e Morgan, 2001).

6.2 Le alterazioni ultrastrutturali

I primi lavori incentrati sulle lesioni muscolari indotte dall’esercizio ec-centrico intenso sull’uomo risalgono al 1981 (Fridén e coll., 1981). In que-sto primo lavoro, Fridén e collaboratori evidenziarono, tramite biopsiamuscolare, come un esercizio eccentrico intenso - rappresentato dalla di-scesa effettuata di corsa da una rampa di scale - causasse delle importantimodificazioni nella struttura miofibrillare del muscolo soleare. L’osserva-zione al microscopio elettronico del campione bioptico rivelò, in partico-lare, una rottura della banda Z, contestuale a un allargamento delle fibrestesse. Queste modificazioni dell’ultrastruttura delle miofibrille si manten-nero evidenti per circa sette giorni. A fronte di queste osservazioni, gli Au-tori avanzarono l’ipotesi che tali microlesioni ultrastrutturali avesserocausato la liberazione di enzimi lisosomiali che, a loro volta, avessero pro-vocato un processo infiammatorio. In seguito, ulteriori ricerche, semprecondotte dallo stesso Autore (Fridén e coll., 1983), confermarono questeipotesi. A questi primi studi seguirono ulteriori ricerche, condotte soprat-tutto nell’ambito della corsa su lunghe distanze (Hagerman e coll., 1984;Sjöström e Fridén, 1984; Warhol e coll., 1985), che, oltre ad avvallare iprecedenti risultati ottenuti da Fridén, evidenziarono come le lesioni mu-scolari indotte dell’esercizio intenso fossero molto simili a un processo di

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7.1 Introduzione

Il metabolismo dei radicali liberi (RDL) fu scoperto nel 1968 da Mc Corde Fridovich, da allora, in questo campo, si sono susseguiti numerosi lavori,che hanno permesso, a tutt’oggi, la scoperta di diversi tipi di RDL e deiloro meccanismi d’intervento sui processi fisiologici. I radicali liberi sonosostanze prodotte naturalmente dall’organismo che determinano un grannumero di funzioni cellulari, tra le quali si può ricordare la sintesi dell’a-cido arachidonico , il transfert degli elettroni a livello della catena mito-condriale oppure la loro partecipazione nel meccanismo di difesa organicanell’ambito del fenomeno della fagocitosi, solo per citarne alcune. L’RDLè una molecola, o un atomo, che possiede uno o più elettroni non appaiatio singoli, a livello dei suoi orbitali esterni. La sua caratteristica peculiare èquella di reagire spontaneamente, con altri atomi o altre molecole, per for-mare nuovi RDL, innescando in tal modo una catena che viene interrottasoltanto nel caso in cui due RDL reagiscano tra loro. Gli RDL sono dellemolecole instabili, molto reattive, che possiedono un emi-vita estrema-mente corta, nell’ordine di 10-9 -10-6 secondi. Le reazioni che portano allaformazione degli RDL possono essere schematicamente riassunte nelle mo-dalità riportate di seguito.

Addizione:

X° + Y → (XY)°

Cessione di elettrone:

X° + Y → X + + Y°-

Prelevamento di elettrone:

X° + Y → X- + Y°+

Nelle quali ° indica la presenza di un elettrone non appaiato.

L’interruzione della reazione a catena avviene solo nel caso in cui due RDLreagiscano tra di loro secondo lo schema:

X° + Y° → XYX° + X° → X2

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8.1 La sarcopenia

Nell’uomo l’invecchiamento è indissolubilmente associato a una progres-siva perdita di massa magra e a una contestuale atrofia muscolare genera-lizzata, che comporta uno scadimento delle capacità di forza dell’individuo(Evans e Campbell, 1993; Rosemberg, 1997). Tutti questi fenomeni invo-lutivi sono inquadrabili in un più ampio contesto fisiologico denominatosarcopenia (SP), termine che deriva dal greco sarx, carne vivente, e penia,ossia povertà, penuria. La sindrome sarcopenica nell’uomo è generalmenteassociata a tutta una serie di fenomeni anatomo-fisiologici interdipendenti,di cui i più rilevanti sono costituiti dall’osteopenia (progressiva diminu-zione del contenuto minerale a livello scheletrico), da un aumento dellamassa grassa, da un abbassamento della temperatura basale nonché da altresindromi dismetaboliche come ad esempio il diabete di tipo II. La SP è cor-relata a diversi fattori scatenanti di ordine sia genetico che ambientale iquali, in ultima analisi, comportano un difetto di sintesi proteica associatoa un aumento dei processi catabolici (Rall e coll., 1996; Short e Nair, 1999;Nair, 2000). La SP è sostanzialmente identificabile come un fenomeno diatrofia muscolare progressiva di eziologia multifattoriale. I fattori che pos-sono maggiormente influenzare la sindrome sarcopenica sono infatti di di-versa natura e vanno dall’attività fisica ai cambiamenti ormonali, all’aspettodietetico, allo stress ossidativo oppure ad aspetti concernenti la denerva-zione muscolare (Evans, 1995a, 1995b., Roubenoff, 2003). La sindromesarcopenica nell’uomo costituisce un fenomeno indissolubilmente legatoall’invecchiamento; numerosi studi, infatti, dimostrerebbero come il 100%del corredo genico nell’anziano ne sia implicato (Castillo e coll., 2003; Gi-lette Guyonette e coll, 2003; Kyle e coll, 2001b) e come la sua diffusionenon faccia differenziazioni dal punto di vista razziale (Baumgartner e coll.,1998). Tuttavia, molti Autori hanno proposto una definizione più precisa erestrittiva del fenomeno sarcopenico, che, secondo questi criteri, sarebbeidentificabile e definibile come tale soltanto nel momento in cui la dimi-nuzione della massa muscolare sia perlomeno di due volte superiore alla va-rianza misurata su una popolazione di individui giovani e sani (Wang ecoll., 1989). Seguendo questo criterio, la SP sarebbe riscontrabile soltantonel 24% dei soggetti compresi in una fascia d’età che va dai 60 ai 70 annie supererebbe il 50% d’incidenza negli ultraottantenni. L’incidenza dellaSP, inoltre, sarebbe maggiormente a carico della popolazione maschile(78%) rispetto a quella femminile (45%) (Baumgartner e coll., 1998); la

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9.1 Introduzione

Lo stretching si può annoverare senza dubbio come una delle metodiched’allenamento più utilizzate nell’ambito delle più svariate discipline spor-tive; la sua capillare diffusione non ha infatti conosciuto soste, sin dal mo-mento in cui la pratica è stata diffusa e razionalizzata, soprattutto daAnderson (Anderson, 1978), il più noto dei suoi promulgatori, tanto da es-serne praticamente considerato il “padre fondatore”, ma anche da altri Au-tori, come ad esempio Sölveborn (Sölveborn, 1983) oppure Heyward(Heyward, 1984), che hanno contribuito alla sua promulgazione. Tuttavia,nonostante questa crescente diffusione e l’innegabile successo riscosso nellamaggioranza delle discipline sportive, lo stretching è oggi l’oggetto di nu-merose controversie interpretative che ne stanno mettendo in discussionesia l’efficacia che l’effettiva utilità. Il termine di “controversie interpreta-tive” non è stato utilizzato casualmente: in effetti, molte delle divergenze diopinione sull’efficacia e l’utilità della pratica dello stretching nascono dauna diffusa “confusione concettuale” che molti dimostrano di avere nei con-fronti delle basi fisiologiche e metodologiche dello stretching stesso (Björ-klund e coll., 2001). Lo scopo di questo capitolo è appunto quello di cercare,per quanto possibile, di fare chiarezza, in termini metodologici e fisiologici,sullo stretching, mettendo a confronto le due “linee di pensiero dicotomiche”oggi esistenti a questo riguardo, chiarendo anche quanto sia giusto atten-dersi da una pratica regolare e razionale di questa metodica di allenamento.

9.2 Il concetto di flessibilità

Per poter ben comprendere i meccanismi d’ordine fisiologico alla base dellostretching non è possibile esimersi da una chiarificazione del concetto di“flessibilità muscolo-articolare”. Per flessibilità muscolo-articolare s’in-tende la capacità di movimento di un muscolo e/o di un articolazione nel-l’ambito della loro totale estensione di movimento - full range of motion(Alter, 1996; Björklund, 1999). Tuttavia, spesso il concetto di flessibilità èassunto come sinonimo di elasticità, il che costituisce, da un punto di vistabiomeccanico e fisiologico, un grossolano errore. Meccanicamente, infatti,l’elasticità è definibile come la proprietà di un corpo, che subisce una de-formazione causata da una forza esterna, di riprendere, almeno parzial-mente, la forma e il volume iniziali. In ambito fisiologico, quindi,

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10.1 La classificazione delle lesioni

Le lesioni muscolari sono classificate in due categorie in funzione della na-tura diretta oppure indiretta del trauma stesso (Craig, 1973). Si possono percui suddividere in:

- lesioni muscolari da trauma diretto, che per la loro stessa natura impli-cano l’azione diretta sul ventre muscolare di una valida forza esterna;

- lesioni muscolari da trauma indiretto, la cui eziologia prevede l’accadi-mento di meccanismi più complessi che comportano l’esistenza di diffe-renti forze lesive.

10.2 La classificazione delle lesioni da trauma diretto

Fermo restando che il danno anatomico e le susseguenti fasi di riparazionebiologica dell’area lesa, in caso di lesione da trauma diretto non differi-scono sostanzialmente da quanto sia osservabile nelle lesioni da trauma in-diretto (Armstrong e coll., 1991a, 1991b), le lesioni da trauma direttopossono essere classificate, in base alla loro gravità, in tre gradi:

- grado lieve, nelle quali è consentita oltre la metà dell’intero arco di mo-vimento;

- grado moderato, nelle quali è consentita meno della metà ma comunquepiù di 1/3 dell’intero arco di movimento;

- grado severo, nelle quali è concesso un arco di movimento inferiore a 1/3dell’arco di movimento totale.

10.3 La classificazione delle lesioni da trauma indiretto

Nell’ambito della classificazione delle lesioni muscolari da trauma indi-retto esiste, malauguratamente, in ambito bibliografico, una certa confu-sione lessicale. I vari Autori, infatti, utilizzano differenti terminologieclassificative, che spesso non si rivelano altro che sinonimi, ma che, in ognicaso, generano una non indifferente confusione interpretativa. Ritenendoche la classificazione delle lesioni rivesta in ambito riabilitativo un’impor-tanza centrale, si riporta di seguito la classificazione delle lesioni da traumaindiretto che sembra risultare di maggior razionalità sia dal punto di vistadei criteri anamnestici e sintomatologici adottati che dal quello di ordineanatomo-patologico.

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11.1 Introduzione

Il bicipite femorale (BF) è un flessore del ginocchio e un estensore del-l’anca; inoltre, come tutti gli altri flessori della gamba, impedisce, se lagamba è estesa, di forzare l’elevazione dell’arto inferiore oppure di flettereil busto in avanti: i muscoli flessori, infatti, non possono essere allungatioltre una certa misura, che costituisce, di fatto, il loro limite di estensibilità.Il BF è uno dei muscoli maggiormente insultati nell’ambito sportivo gene-rale. In ambito calcistico, ad esempio, i danni al BF rappresentano il 13%di tutti i traumi e causano una perdita di lavoro pari a ben il 16% dell’alle-namento totale (Sewar e coll., 1993), mentre nell’atletica leggera rappre-sentano il danno più ricorrente agli atleti dediti alle discipline di velocità(Drezner, 2003). Un recente studio condotto da Askling (Askling e coll.,2003) mostra come, nell’ambito del football australiano1, ben il 47% deitraumi muscolari indiretti subiti durante le gare o gli allenamenti siano a ca-rico dei muscoli flessori della coscia (bicipite femorale, semitendinoso esemimembranoso, indicati nella letteratura inglese con il nome collettivo dihamstring). La maggioranza degli studi nell’ambito del calcio si attesta in-vece su un’incidenza lesionale a carico degli hamstring pari al 12-15%, ilche significa una media di sei incidenti per club professionistico nell’arcodi una stagione (Hawkins e coll., 2001; Orchard e Seward, 2002; Woods ecoll., 2004).

1 Football australiano: Il football australiano (australian football, australian rules, aus-sie rules, footy) è lo sport nazionale australiano e l'attività atletica di gran lunga più pra-ticata e seguita in Australia. È giocato fra due squadre di 18 giocatori (con quattrogiocatori di riserva con sostituzioni volanti) sui campi di cricket o altri campi in erba sem-pre di forma ovale. Questi campi variano nelle dimensioni: possono essere lunghi fino a185 metri e larghi fino a 155, dunque rappresentano i campi da gioco più grandi tra tuttiquelli utilizzati nelle diverse forme di football: quasi quattro volte più grande in superfi-cie del campo di calcio. I giocatori possono passarsi il pallone in due modi: con un calcio(kick) o con un passaggio alla mano (handball). Il calcio è la propulsione del pallone conuna qualsiasi parte della gamba al di sotto del ginocchio; un handball è il lancio del pal-lone tenuto in una mano colpendolo con l'altra chiusa a pugno. Ogni altro modo di pas-sarsi la palla è vietato, a meno che non sia fortuito o costretto dalla situazione di gioco (adesempio nella conquista di un pallone vagante da parte di più giocatori). Non esiste fuo-rigioco: quindi i passaggi possono avvenire in ogni direzione, così come i giocatori pos-sono disporsi sul campo a loro piacimento.

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Introduzione

Il muscolo retto femorale (RF) prende origine con il suo capo diretto dallaspina iliaca antero-inferiore, mentre il capo riflesso origina dal solco sovra-acetabolare a livello del margine superiore dell’acetabolo. Si inserisce allapatella tramite un tendine comune agli altri capi del muscolo quadricipite. Il RF è l’unico muscolo biarticolare dei quattro capi del muscolo quadri-cipite, essendo sia un flessore della coscia che un estensore della gambasulla coscia. Durante la deambulazione la sua azione è sinergica rispetto aquella del muscolo ileopsoas, del sartorio, del tensore della fascia lata edel m pettineo. È innervato dal nervo femorale (L2, L4). Il fatto di essereun muscolo biarticolare e particolarmente ricco di fibre veloci ne fa unadelle locazioni lesive più ricorrenti in ambito sportivo. Inoltre, il suo ten-dine riflesso presenta una vasta aponeurosi centrale e profonda, frequentesede di lesioni soprattutto in alcune categorie di atleti come ad esempio icalciatori. Le lesioni dell’aponeurosi profonda centrale sono inoltre piut-tosto subdole e di difficile diagnosi clinica. Questo tipo di danno, infatti,spesso non è associato alla retrazione del muscolo e alla tumefazione delmoncone, oppure in altri casi la tumefazione del muscolo può fuorviare ladiagnosi (Bianchi e coll., 2002). Per capire appieno il meccanismo lesivoche porta all’insulto traumatico della muscolatura estensoria dell’arto in-feriore, è interessante capire che cosa avvenga biomeccanicamente durantela fase eccentrica di un movimento effettuato grazie a un ciclo stiramento-accorciamento (stretch shortening cycle, SSC). Si prenda ad esempio un ti-pico cambio di direzione effettuato a media velocità di corsa compiuto daun atleta la cui massa corporea (BW) sia pari a circa 70 kg. Prima, però, oc-corre riassumere velocemente la sequenza biomeccanica di un movimentoeffettuato tramite un SSC. Un ciclo di SSC ha inizio con la fase eccentricadel movimento stesso, a cui fa seguito un tempuscolo minimo e tendentea zero, ma comunque meccanicamente misurabile, in cui l’unità muscolotendinea (UMT) ha un comportamento isometrico - è la fase che alcuniAutori denominano come coupling-time - a cui fa seguito la fase concen-trica del movimento. Per cui, a tutto rigore, l’SSC, visto che la fase ec-centrica e quella concentrica sono divise da un momento di condizioneisometrica, dovrebbe essere denominato stretch-isometric-shortening cycle.

A sua volta, la totalità della fase eccentrica può essere ulteriormente sud-divisa in tre parti.

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13.1 Introduzione

I muscoli flessori della coscia, oltre a essere i più insultati in ambito spor-tivo, presentano anche un’alta incidenza di recidive che, ad esempio, nel-l’ambito del calcio professionistico, è pari a circa il 12% (Orchard e Best,2002; Woods e coll., 2004), ma in altre discipline sportive, come il footballprofessionistico australiano, può raggiungere anche una percentuale di benil 30% (Orchard e Steward, 2000, 2003; Orchard e Best, 2002).Inoltre, è importante notare che le lesioni a carico del bicipite femorale pre-sentano una prognosi peggiore rispetto alle lesioni del semimembranosoe/o del semitendinoso (Connell e coll., 2004). È altrettanto interessante sot-tolineare il fatto che se l’entità della lesione presenta una forte correlazionecon i tempi di recupero (Pomeranz e Heidt, 1993; Slavotinek e coll., 2002;Connell e coll., 2004; Gibbs e coll., 2004) altrettanto non si può dire per ciòche riguarda il rischio di recidiva (Gibbs e coll., 2004).Il fatto che il deficit di forza sia un importante parametro per ciò che ri-guarda il rischio di recidive della muscolatura flessoria dell’arto inferioretrova, in bibliografia, un unanime consenso (Burkett, 1970; Heiser e Weber,1984; Yamamoto, 1993; Jonhagen e coll., 1994; Orchard e coll., 1997; Croi-sier e coll., 2002; Drezner, 2003). Pertanto, al fine di minimizzare tale ri-schio, si consigliano i seguenti punti.

- Non ricominciare l’attività di corsa sino a che il valore di forza dei fles-sori non raggiunga un valore pari ad almeno il 70% del baseline o un va-lore di ratio flessori/estensori pari ad almeno 0,55 (Heiser, 1984).

- Non ritornare all’attività sportiva specifica prima che il valore di forzadei flessori lesi (sia in modalità eccentrica, che concentrica) non sia ritor-nato al 90-95% del valore dei flessori dell’arto controlaterale (Croisier ecoll., 2002; Drezner, 2003).

- Il picco di forza misurato sia in modalità concentrica che eccentrica do-vrebbe essere prodotto, nell’arto leso, allo stesso angolo articolare in cui siregistra nel controlaterale (Brockett e coll., 2001, 2004).

- Dal momento che l’attività maggiormente a rischio per la muscolatura deiflessori è lo sprint, ancor più di quanto non sia il calciare (Orchard, 2002),occorre essere particolarmente prudenti nel reinserimento di quest’ultimonell’ambito del programma riabilitativo.

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