le avanguardie russe

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1 Le avanguardie russe di Francesca Depalma

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autore: Francesca Depalmatitolo: Le avanguardie russefacoltà: Politecnico di Baricorso: Storia dell'arte contemporanea 1/Idocente: Francesco Moschinianno: a.a. 2005 - 2006email: [email protected]

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Page 1: Le Avanguardie Russe

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Le avanguardie

russe

diFrancesca Depalma

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Le avanguardie

russe

diFrancesca Depalma

Corso di Storia dell’Arte Contemporanea 1/Ia.a. 2005 - 2006

Prof. Arch. Francesco MoschiniFrancesco MaggioreAntonio Labalestra

Lino Sinibaldi

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Le avanguardie

russeINDICE

INTRODUZIONE........................................................................................................4

LA RUSSIA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO................................................5 - Primi rinnovamenti nell’arte: il realismo e il simbolismo.............................5-6

LA RUSSIA PRIMA DELLA RIVOLUZIONE: LE PRIME AVANGUARDIE - 22 gennaio 1905: la domenica di sangue..............................................................7 - Contatti con i movimenti d’avanguardia europei...........................................7-8 - La nuova poesia russa: Blok, l’Acmeismo.........................................................8-9 - Il Primitivismo......................................................................................................9-10 - Il Raggismo.........................................................................................................10-11 - Il Futurismo: poesia, arte, teatro....................................................................11-15 - Linee di ricerca alternative al Futurismo.....................................................15-16 - Il cinema prima della Rivoluzione........................................................................16

LA RUSSIA DELLA RIVOLUZIONE - La Rivoluzione d’Ottobre (1917)..................................................................17-18 - Avanguardia e potere.......................................................................................18-20 - La mostra 0,10: Malevič e Tatlin.....................................................................20-22 - Il Suprematismo................................................................................................22-24 - Il Costruttivismo...............................................................................................24-32 - Il teatro: Meyerhold e la biomeccanica dell’attore....................................32-34 - Il cinema: la nascita del cinema d’avanguardia............................................34-39

LA RUSSIA DI STALIN E LA FINE DELLE AVANGUARDIE............................40

BIBLIOGRAFIA...........................................................................................................42

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INTRODUZIONE

Le Avanguardie Russe si inscrivono all’interno del fervente panorama artistico e culturale dei primi anni del Novecento. Tutti i movimenti nati in questo periodo in Europa avevano come denominatore comune il desiderio di rottura con il passato, una grande voglia di rinnovamen-to e di sperimentare nuove vie per l’espressione artistica. Questo ha portato a denominare tali movimenti “avanguardie”, termine che nel linguaggio militare indica il reparto che precede il blocco forte del-l’esercito per aprirgli il varco, e nell’arte indica quei movimenti che aprono la strada a nuove espressioni artistiche, proiettandosi verso il futuro e lasciandosi dietro il passato e la rigida arte accademica.

La conoscenza diretta delle opere degli artisti d’avanguardia russi si è potuta avere solo quando nel 1957 la ventiduenne studentessa di dan-za classica, e figlia del direttore del British Museum di Londra, Camilla Gray, si reca in Russia ed esplora i depositi dei grandi musei sovietici, in particolare il Museo Russo di Leningrado e la Galleria Tret’jakov di Mosca, nei quali ritrova le opere rappresentanti un intero periodo del-la cultura russa prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre che era stato completamente occultato, nascosto, rimosso dalla dittatura stalinista. Nel 1932 la dittatura aveva posto fine alle associazioni artistiche indi-pendenti, che negli anni della Russia leninista erano fiorite in gran nu-mero, e Andrei Ždanov, responsabile della politica culturale stalinista, aveva ordinato la distruzione delle opere d’avanguardia presenti nelle grandi collezioni Ščukin e Morozov. Fu grazie al coraggio e al buon senso di curatori e custodi, che tali opere non vennero distrutte, ma nascoste nei fondi dei musei, dove venti anni più tardi saranno ritro-vate da Camilla Gray. La giovane inglese fu facilitata in quest’impresa anche dalle sue conoscenze all’interno dell’intelligencija moscovita, un mondo emarginato, ma elitario, nel quale riuscì ad entrare grazie al figlio del compositore Sergej Prokof’ev, che divenne in seguito suo marito. Camilla Gray fu inoltre incoraggiata in questa esplorazione dal grande conoscitore delle avanguardie storiche Alfred Barr Jr., direttore del Museum of Modern Art di New York, che proprio negli anni Venti aveva visitato l’Unione Sovietica e aveva conosciuto personalmente molti degli artisti le cui opere verranno riscoperte dalla Gray, opere che saranno inserite nel suo libro The Great Experiment: Russian Art 1863 – 1922, pubblicato nel 1962.

Ripercorriamo dagli inizi del secolo la storia dei movimenti artistici che fiorirono in Russia in quegli anni.

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LA RUSSIA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Alla fine dell’ Ottocento, l’impero russo comprendeva un territorio enorme: a differenza di Inghilterra, Francia, Spagna, le altre grandi po-tenze europee, che avevano cercato di conquistare terre lontane dal-la propria madrepatria, la Russia si era espansa oltre i propri confi-ni, andando a inglobare i territori vicini sottomessi (per esempio la Cecenia). La crescita territoriale della Russia però contrastava con la sua arretratezza economica e sociale. La Russia, in confronto agli altri paesi in cui ormai si era affermata la Rivoluzione industriale e il siste-ma capitalistico, era ancora un Paese legato all’agricoltura, un paese di contadini, anche se il regime zarista aveva iniziato a imporre una industrializzazione dall’altro, creando concentrazioni di fabbriche nelle maggiori città. La ricchezza del Paese era concentrata nelle mani di pochi, mentre il potere era totalmente nelle mani dello zar. I contadini non possedevano terre proprie, e gli operai delle fabbriche erano co-stretti a lavorare in condizioni inumane. Persino la borghesia chiedeva delle riforme, in quanto l’immobilismo dello zar impediva al capitalismo di affermarsi pienamente, e di portare quindi ricchezza alla borghesia e al paese intero. Libertà e diritti non erano garantiti: la Russia restava una monarchia assoluta, mentre nel resto d’Europa di faceva strada la democrazia grazie alla pressione dei movimenti di massa. Il regime zarista stesso stimolava un acceso antisemitismo di massa che si attuò sottoforma di pogrom, cioè stragi e saccheggi ai danni dei villaggi e dei quartieri ebraici. Gli ebrei subivano quindi una discriminazione “legale”: avevano ad esempio l’obbligo a risiedere in determinati territori. Qui si svilupparono una lingua e una cultura autonome, che si estendeva-no fino in Germania: l’yddish, cultura da cui nacquero artisti come ad esempio Marc Chagall..

PRIMI RINNOVAMENTI NELL’ARTE: IL REALISMO E IL SIMBOLISMO

Gli anni dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento vedono un susseguirsi in Russia di movimenti e ribellioni all’arte precedente, alla ricerca di un modo più nuovo e libero di esprimere la propria arte. I primi furono i cosiddetti pittori “Itineranti”, gruppo di 13 pittori e uno scultore guidati da Ivan Kramskoj (1837 – 1887) che per primi si ribel-larono all’Accademia d’Arte di San Pietroburgo nel 1863, negli anni in cui lo zar Alessandro il Grande aveva concesso l’affrancamento dalla schiavitù ai servi della gleba, e gli intellettuali e gli studenti russi sento-no il dovere di educare le plebi incolte delle campagne. I Peredvizhniki, cioè gli “Ambulanti” o “Itineranti”, contrastavano la pittura accademica, e giravano l’intero Paese per conoscerne e raccontarne la sua realtà, con un contenuto e una forma realistici comprensibili per tutti, anche per i più ignoranti. Artisti principali di tale movimento saranno Vasilij Perov (1883 – 1982) e Konstantin Makovskij (1877 – 1962).

Vassilij Perov, Ritratto di Dostoevskij, 1872

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Il realismo dei pittori “Itineranti” viene però contrastato dal gruppo del “Mondo dell’Arte” di Pietroburgo, cosmopolita ed elitario, che contrastava quelle “calzature di paglia intrecciata e gli stracci” presenti nelle opere di questi pittori. Il “Mondo dell’Arte” era più vicino alle tematiche degli scrittori simbolisti, in quanto nelle proprie opere vi erano riferimenti alla fiaba e mitologia russe, al mondo delle miniature settecentesche, al passato raffinato e pieno d’armonia. Fra gli artisti del “Mondo dell’Arte” ricordiamo Aleksander Benois (1870 – 1960), Nikolaij Roerich e Léon Bakst, che lavoreranno anche per le sceno-grafie del balletto russo di Diaghilev, in cui vi sono libere ricostruzioni storiche venate di surreale, in cui si rifanno agli acquerelli ambientati nella Francia seicentesca dell’epoca di Re Sole, con le rappresentazioni dei giardini di Versailles.

Nella letteratura, sempre in questi anni tra fine Ottocento e inizio No-vecento, si assiste a un contrasto tra autori realisti e simbolisti. A capo degli autori realisti, che si rifanno a moduli narrativi sostanzialmente ottocenteschi (Balzac, Tolstoj) ricordiamo Maksim Gor’kij; i simbolisti fanno invece capo a Aleksej Remizov.

MAKSIM GOR’KIJ, pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov (1863 – 1936), ebbe un’infanzia e una adolescenza avventurose di vagabondo e di autodidatta, che si riflettono nel libro che per primo gli dette il successo, Schizzi e racconti (1898). Appare qui una sorta di eroe ro-mantico e picaresco, sempre sulla strada e in lotta generosa contro le convenzioni del mondo. Entrato in contatto con la cultura marxista, Gor’kij venne arrestato e confinato in Crimea. Aveva cominciato nel frattempo a dirigere la casa editrice “Znanie”. Il prestigio e il seguito di cui godeva fra i giovani erano tali che i provvedimenti delle autorità provocarono vaste proteste. Liberato, Gor’kij scrisse alcuni drammi di grande successo. Di nuovo arrestato nel 1905, fu costretto a lasciare la Russia, fermandosi a Capri, in Italia, dove scrive il romanzo della sua svolta, La madre (1907), che segna il passaggio a un realismo impe-gnato anche in senso ideologico marxista. In questo romanzo, Gor’kij racconta la storia di una donna, moglie abbruttita e umiliata di un con-tadino ubriacone che, rimasta vedova, torna alla vita interessandosi ala vita del figlio Pavel, operaio e socialista, iniziando a seguire le riunioni politiche che egli organizza in casa. Quando il figlio viene arrestato, ella assiste lui e gli altri compagni. Al momento della loro condanna di deportazione in Siberia, distribuisce alla folla volantini con il discorso rivoluzionari pronunciato dal figlio nell’aula giudiziaria, ma accorrono i gendarmi, che la uccidono. Nel romanzo si assiste alla graduale presa di coscienza della donna, che diventa infine un esempio di comporta-mento rivoluzionario. Questo romanzo sarà poi portato al cinema dal film omonimo di Pudovkin, nel 1926.

ALEKSEJ MICHAILOVIC REMIZOV (1877 – 1957) non aderì esplicita-mente al simbolismo, ma di questa tendenza assimila alcune caratteri-stiche, come l’amore per l’antica terra russa, con il suo folclore, i suoi miti e i suoi simboli; l’estrema sensibilità linguistica con il tentativo di tornare a una lingua russa originaria, depurata dall’influenza europea; il riferimento a Dostoevskij.

Aleksandr Benois, scenografia per il balletto Petrushka, 1911

Aleksej Remizov

Maksim Gor’kij

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22 GENNAIO 1905: LA DOMENICA DI SANGUE

All’inizio del 1905 la situazione sociale ed economica della Russia era estremamente minata. A questi problemi, si sommarono quelli causati dalla guerra contro il Giappone, che terminò in modo fallimentare. La situazione interna precipitò il 22 gennaio 1905 a San Pietroburgo: una grande folla di operai guidata dal pope Gapon, prete ortodosso eret-tosi a portavoce delle istanze popolari per scongiurare l’influenza dei partiti dell’opposizione. La folla si recò di fronte al Palazzo d’Inverno, residenza dello zar Nicola II, per consegnargli una supplica in cui ri-chiedevano le libertà democratiche, la giornata lavorativa di otto ore e miglioramenti economici. Malgrado la dimostrazione fosse pacifica e composta da fedeli sudditi (molti dei manifestanti reggevano nelle mani il ritratto dello zar), le truppe di guardia caricarono la folla facendo uso di fucili e sciabole. Secondo dati della polizia, si contarono circa mille morti e duemila feriti. Quel 22 gennaio viene ricordato come “la domenica di sangue”, e fu la scintilla che portò allo scoppio di ulteriori manifestazioni e azioni contro il regime zarista. A San Pietroburgo e a Mosca gli operai scioperavano, nelle campagne vi furono sollevazioni di contadini, nell’esercito si ebbero ammutinamenti, come anche nella squadra navale del Mar Nero (episodio su cui è basato il film “La co-razzata Potemnkin”, del regista d’avanguardia Sergej Ejzenstejn, 1925). Nelle maggiori città gli operai promossero i primi soviet, “consigli”, formati esclusivamente da salariati e dagli strati poveri della popolazio-ne, col ruolo di centri di potere politico e amministrativo autonomi da quello ufficiale. Spaventato da ciò che stava accadendo, il regime fece delle concessioni per riportare l’ordine. Lo Zar Nicola II fu costretto a concedere una costituzione e l’elezione di un parlamento, la DUMA, un’assemblea eletta su basi censitarie ma con poteri piuttosto limitati. Una volta tornata la normalità, lo zar sciolse la DUMA, eleggendo un parlamento più asservito al regime. Tutto tornò quindi alla normali-tà, la Russia tornò una monarchia assoluta. Le contraddizioni interne continuavano comunque a crescere e a preparare il terreno per la rivoluzione del 1917.

CONTATTI CON I MOVIMENTI D’AVANGUARDIA EUROPEI

Nonostante il fallimento dei moti del 1905, essi avevano comunque fa-vorito un’aria nuova in campo culturale: sbocciarono movimenti, si for-marono associazioni, apparvero pubblicazioni che diffondevano nuove idee. In particolare si intensificò il contatto con il fervente panorama artistico e culturale occidentale, che fu possibile grazie alla diffusione delle opere e dei manifesti delle fiorenti avanguardie europee che na-scevano in Francia, Germania, e Italia, e ai sempre più fitti contatti con tali movimenti. Tale opera di divulgazione fu possibile sia grazie alle collezioni di opere d’arte dei fratelli Michail e Ivan Morozov e di Sergej Ščukin, sia grazie ai numerosi viaggi compiuti in Europa Occidentale da numerosi artisti russi, fra cui per primi Vassilij Kandinskij e Marc Cha-gall, e grazie anche alla diffusione delle pubblicazioni

LA RUSSIA PRIMA DELLA RIVOLUZIONE: LE PRIME AVANGUARDIE

Dimostranti che marciano verso il Palazzo d’Inverno, 1905

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letterarie d’avanguardia europee anche in Russia (fra cui ad esempio le opere di Martinetti).

I fratelli Michail e Ivan Morozov e Sergej Ščukin erano rappresentanti di spicco della nuova classe mercantile e industriale che si andava costi-tuendo in Russia. Gli inizi delle loro collezioni si collocano tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del nuovo secolo, e comprendono opere di Cézanne, Van Gogh, Gauguin e giunge alla produzione di avanguardia più recente, con Matisse, Derain, Picasso. Queste importanti collezioni si inseriscono in una già profonda cultura locale del collezionismo, ri-volta però soprattutto all’arte russa contemporanea e del passato. Ad esempio vi era la grande collezione di Pavel Tret’jakov, che documenta il realismo dei cosiddetti “pittori itineranti” ma che è anche ricca di antiche icone: essa rappresenta il modello di questa forma di interesse per l’arte insieme pragmatica e colta, e costituisce l’esempio dell’attri-buzione di un valore civile a tale attività. Tret’jakov, la cui collezione è aperta al pubblico, lascia in gran parte in eredità il suo patrimonio per la “costruzione a Mosca di un museo o di una galleria di quadri”, in vista della costituzione di una “galleria nazionale composta da quadri di artisti russi”.Alcuni artisti russi creeranno il loro percorso artistico fuori dal loro Paese, entrando quindi direttamente in contatto con i protagonisti del-le avanguardie occidentali, come ad esempio Kandinskij e Chagall, che vivranno per lo più tra Francia e Germania e verranno a contatto di-retto con Matisse, Derain e i cubisti, ma faranno ritorno in patria per assumere posizioni di una certa importanza all’interno delle istituzioni artistiche create dal governo rivoluzionario.

Altri artisti, invece, creeranno il loro percorso artistico in Russia, e avranno come denominatori comuni l’attenzione per le novità dell’Eu-ropa occidentale, soprattutto francesi, viste come il frutto di società più avanzate di quella russa, e un legame stretto con le tradizioni dell’arte contadina e delle rappresentazioni delle icone bizantine, proiettandosi quindi verso il mondo occidentale ma non assorbendone passivamente le novità artistiche, cercando sempre di non perdere le proprie radici artistiche e culturali.

LA NUOVA POESIA RUSSA: BLOK, L’ACMEISMO

La nuova poesia in Russia si sviluppa dal 1910, contrapponendosi al Simbolismo tradizionalista, legato al folclore popolare e ai temi del mondo contadino. La nascita di movimenti d’avanguardia segna fra l’al-tro l’ingresso della nuova civiltà industriale nei temi della poesia. Significativa di questo passaggio è la figura di ALEKSANDR BLOK (1880 – 1921), la cui opera poetica nasce entro le coordinate del Simbolismo decadente, confluendo soprattutto nella raccolta Versi sulla Bellissima Dama (1904), ispirata a dottrine misticheggianti e impregnata di ten-sione metafisica. Con due azioni teatrali rappresentate nel 1907, Blok rinnega la tradizione del Simbolismo, attaccandola con feroce gusto parodico: la Bellissima Dama è trasformata in una prostituta. La ma-schera di neve (1907) e IL mondo terribile (edizione definitiva 1916) raccolgono i testi lirici ispirati alla nuova poetica: lo scenario è quello espressionistico delle periferie cittadine, dapprima cantate con

Aleksandr Blok ritratto da Konstantin Somov, 1907

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dolente abbandono musicale, poi sempre più esplicitamente connotate in chiave deformante e grottesca.

L’intenzione di superare il misticismo e l’astrattezza, che alcuni rim-proveravano a Blok e ad altri meno significativi di lui, a favore di temi concreti e realistici caratterizza il movimento acmeista, fondato nel 1912 e conclusosi nel 1921.Accanto alla tensione civile, l’ACMEISMO pone l’esigenza della testi-monianza esistenziale, con una riflessione sul potere rappresentativo della parola, che deve saper raggiungere l’”acme”, cioè la verità intima, delle cose. Il movimento acmeista si organizzò in una Corporazione, cui aderirono, fra gli altri, Anna Achmatova e Osip Mandel’štam.

ANNA ACHMATOVA (1889 – 1966) aderì all’Acmeismo subendo l’influenza del suo rinnovamento formale e piegando la compattezza espressiva tipica del movimento a temi intimisti, centrati sull’esperien-za d’amore, rappresentata nella sua dimensione quotidiana e comune. A questo periodo appartengono le raccolte Sera (1912) e Rosario (1914). Un maggiore impegno civile, con venature religiose, si riscon-tra nei successivi Lo stormo bianco (1917) e Anno Domini MCMXXI (1922).

OSIP MANDEL’ŠTAM (1891 – 1938) aderì all’Acmeismo soprattutto nella prima fase della sua produzione poetica, producendo raccolte come Pietra (1913) e Tristia (19229, formalmente impeccabili e ispirate a un rigore classicheggiante. Tuttavia la tendenza al classicismo carat-terizzò sempre la ricerca di questo poeta, dotato di una eccezionale cultura classica e di una notevole competenza critica (scrisse anche un originale studio su Dante). In seguito sarà isolato dalla cultura ufficia-le postrivoluzionaria e perseguitato dalla burocrazia di regime per il disimpegno e l’individualismo. Questo lo porterà a conciliare l’amore per il classico a una più viva sperimentazione formale, più vicina al Fu-turismo. Mandel’štam verrà infine confinato in Siberia, fino a morire in un lager. Le sue poesie degli ultimi anni di vita sono testimonianza alta e toccante delle persecuzioni staliniane.

IL PRIMITIVISMO

Gli inizi formali dell’avanguardia figurativa russa vengono fatti coinci-dere con gli ultimi esiti del simbolismo, con il disfarsi estenuato delle forme nelle opere del gruppo “La Rosa Azzurra” dopo il 1907 e, come reazione a questo, con l’apparire del Primitivismo alle mostre del “Vel-lo d’Oro” del 1908, 1909, 1910. Nel 1907 abbiamo le prime tendenze di rottura.: il pittore David Burljuk organizza a Mosca un’esposizione di opere di giovani artisti sotto il nome di Stephanos (“Ghirlanda”), sotto il cui nome si organizzeranno altre esposizioni. Vi prendono parte le nuove personalità che animeranno l’avanguardia russa, come lo stesso David Burljuk (1882 – 1967) e suo fratello Vladimir (1886 – 1917), Georgij Yakulov (1884 – 1928), Natalija Gončharova (1881 – 1962) e Michail Larionov (1881 – 1917), di cui gli ultimi due saranno presenti anche alle mostre del “Vello d’Oro”. Le loro opere appaiono spogliate tanto del realismo ormai convenzionale degli “Itineranti”, quanto delle raffinatezze simboliste della cultura Art Nouveau seguita dal “Mondo dell’Arte”.

Anna Achmatova

Osip Mandel’štam

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Si presentano tutte, pur nelle differenze, con un’impronta di semplifi-cazione della forma tendente all’espressività elementare e con soggetti privi d’ogni aura colta o letteraria. Emerge quindi il PRIMITIVISMO RUSSO, che trova propri contenuti e radici autonome rispetto alle influenze provenienti dall’Occidente, influenze che tuttavia risultano determinanti. Il manifesto del futurismo,con la brutalità delle sue affer-mazioni antipassatiste e anticlassiche, incoraggia senza dubbio la matu-razione della cultura primitivista russa; questa procede però, diversa-mente dal Futurismo italiano, non tanto verso l’esaltazione della città moderna e industriale, quanto verso il recupero del mondo contadino e dei temi popolari. Inoltre, l’Impressionismo, i dipinti di Gauguin, Cé-zanne, e di Matisse, Picasso e Braque sono certo esempi determinanti, ma l’interesse per le antiche icone e la ripresa di forme d’espressione figurativa legate alla vita popolare, forme ancora presenti e vitali, è ini-ziativa originale dell’avanguardia russa, attraverso cui cerca di costruire una propria specifica identità culturale. Tale indirizzo matura ulteriormente nella successione di due gruppi artistici. Nel 1910 si forma Bubnovij Valet, il “Fante di Quadri”, che durerà fino al 1917. Il gruppo si presenta nel dicembre 1910 con una mostra che suscita indignazione e scandalo nel pubblico e nella stam-pa. Vi prendono parte i fratelli Burljuk, Larionov e la Gončharova, Il’ja Maškov (1881 – 1944), Petr Končalovskij (1876 – 1956), Robert Fal’k (1886 – 1958), Kazimir Malevič (1878 – 1935) e i cosiddetti “russi di Monaco”, cioè Kandinskij, Javlenskij e Marianne von Werefkin, e altri ancora.L’orientamento espresso dal Fante di Quadri, pur nelle differenze inter-ne che poi porteranno alla secessione del gruppo, si basa sulla compo-sizione di due elementi stilistici: quello derivato dalla pittura francese, soprattutto da Cézanne, e quello specificatamente russo, tratto dalle tradizioni dell’immagine che dipende dal comune riferimento all’imma-gine popolare: sia ai cosiddetti “lubki”, xilografie colorate, per lo più dei secoli XVIII e XIX, espressive, prive di struttura prospettica, umoristi-che, con soggetto religioso o politico, sia alle insegne dei negozi, dotate spesso in Russia di elementari raffigurazioni dei prodotti smerciati, sia ai vari aspetti dell’artigianato popolare, dai vassoi dipinti ai giocattoli contadini di legno.Nel 1911 si staccano dal gruppo, creando Oslinij Chvost, “La Coda del-l’Asino”, Larionov, Malevič e Gončharova, che prendono le distanze dal cézannismo dei compagni, per accentuare i valori del primitivismo e della tradizione orientale. A essi si aggiunge anche Vladimir Tatlin (1885 – 1953).

IL RAGGISMO

Nell’arte figurativa un primo salto dell’attività artistica nella direzio-ne di una completa astrazione si ha con il RAGGISMO di Larionov e Gončharova. Alla sesta esposizione dell’Unione della Gioventù a San Pietroburgo, tenutasi tra il 5 dicembre del 1912 e il 10 gennaio 1913, Larionov mostra le nuove opere e, per definirne l’indirizzo, redige poco dopo un manifesto teorico. Il raggismo è “una sintesi di cubismo, futu-rismo e orfismo”; dal futurismo mutua la centralità attribuita alla luce e il senso dinamico e l’apertura cosmica che vi si connettono, aspetti questi ultimi che si intrecciano anche con l’espressionismo tedesco.

Contadini che raccolgono mele, N. Gončharova, 1911

Venere ebrea, M. Larionov, 1912

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Le opere di Larionov, che sarà seguito nelle nuove ricerche dalla sua compagna Natalia Gončharova, all’inizio hanno ancora qualche riferi-mento alla realtà; in tempi rapidi, tuttavia, si svolgono in senso astratto. La luce si afferma come mezzo dell’autonomia del linguaggio pittorico; un mezzo che mantiene un’analogia tra la realtà naturale e la costru-zione artistica, ma che viene trattato per se stesso, per i suoi valori costruttivi ed espressivi specifici.Nel suo testo teorico sul Raggismo, Larionov afferma: “Lo stile della pittura raggista che noi promoviamo si occupa delle forme spaziali conseguite con l’intersezione dei raggi riflessi da vari oggetti e delle forme individuate dall’artista. In modo convenzionale, i raggio è rap-presentato da una striscia di colore. L’essenza della pittura è indicata dalla combinazione del colore, dalla sua maturazione, dal rapporto con le altre masse cromatiche e dall’intensità con cui è elaborata la super-ficie.”In Paesaggio raggista, del 1912, di Larionov, l’astrazione risulta uno svi-luppo del modo libero e vitale con cui Larionov irradia il colore sulla tela. Gli alberi non solo si rivelano come colore e luce, ma l’intero pae-saggio si mostra come realtà luminosa, come struttura di riflessi.Ne Il ciclista, di Natalia Gončharova, nel 1913, si rivela la ricchezza di motivi che anima lo svolgimento della pittura della Gončharova dal pri-mitivismo all’astrazione. La bidimensionalità essenziale dell’immagine, che l’artista derivava dal modello dei lubki e dalla tradizione delle icone religiose russe, si ritrova anche qui, ma ora è utilizzata all’interno di un linguaggio che si avvale delle indicazioni del futurismo e del cubismo. L’uomo, che con la sua bicicletta si dispone di fianco e occupa tutta la larghezza della tela, è concepito ancora secondo il criterio simbolico, di impostazione neomedievale, che caratterizza le opere primitiviste della Gončharova, come Due contadini, del 1911. inoltre, molti pas-saggi del dipinto continuano a richiamarsi al modello figurativo delle insegne. Il ciclista appare assorbito nel quadro, parte di un tutto entro cui ogni motivo si dispone sullo stesso piano, paratatticamente. Egli sta passando davanti alle vetrine di alcuni negozi. A destra, la forma di un cappello segnala appunto la presenza di un cappellaio. Compaiono an-che alcune lettere dell’insegna, “sla”, che stanno per “sljapa” (cappello). Al centro in alto, la parola di un’altra insegna, “selk” (seta). E sul fianco del ciclista, “nit” (filo); si tratta di una merceria. A sinistra, il bicchiere di birra segnala un bar, mentre “T 402”, che vi si sovrappone, è vero-similmente la sigla di un tram che passa e si riflette nella vetrina, anzi, viene percepito simultaneamente al resto degli elementi della scena. Oltre al tema della simultaneità d’ambiente, vi è quello del movimento, indicato dalla moltiplicazione delle forme del ciclista e della bicicletta. In particolare,la figura dell’uomo è resa con un fitto spiegamento di linee e piani spezzati.

IL FUTURISMO: POESIA, ARTE, TEATRO

Il Futurismo nasce in Russia negli stessi anni del Futurismo italiano. E’ infatti del 1908-1909 il primo poema che può essere ricondotto a que-sto movimento: L’incantesimo del riso di Velimir Chlebnikov, un’opera fortemente provocatoria caratterizzata da forme poetiche non tradi-zionali. Il 1909 è anche l’anno del primo Manifesto futurista di Filippo Tommaso Marinetti.

Paesaggio raggista, M. Larionov, 1912

Gallo, studio raggista, M. Larionov, 1912

Il ciclista, N. Gončharova, 1912

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Sia il movimento italiano che quello russo muovono da una volontà di aderire al presente, al mondo delle macchine e della tecnica; ma, mentre il Futurismo italiano finisce con l’esaltare gli aspetti aggressivi dell’Imperialismo economico e politico, quello russo vede nell’operaio il protagonista di una nuova civiltà industriale e aderisce per questo alla rivoluzione socialista. Il rapporto fra Futurismo italiano e russo fu mol-to forte agli inizi. Gli artisti russi ammiravano l’opera di Marinetti e dei Futuristi italiani: già dal 1905 circolava in Russia la sua rivista letteraria simbolista Poesia, promuovendo gli scambi culturali tra i due paesi; tra il 1910 e 1911 apparvero sulle riviste russe vari articoli sul Futurismo italiano; Balla espose le sue opere in quattro città russe in quegli stessi anni; tra il 1911 e il 1912 alcuni artisti cubofuturisti, fra cui Kamenskij, si recarono in Italia per approfondire la conoscenza di questo movimen-to e dei suoi rappresentanti; nel 1911 vennero pubblicati in francese i manifesti futuristi in una raccolta, permettendo a un largo pubblico di accedere alle teorie di Marinetti e compagni. Ma quando Marinetti giunse a Mosca il 26 gennaio 1914, non trovò nessuno ad attenderlo, a parte Sersenevič, militante nel gruppo egofuturista del “Mezzanino della poesia”. Gli altri artisti futuristi russi restavano diffidenti di fronte a un accoglimento acritico dei modelli occidentali e spesso, nella loro ricerca affannosa di innovazioni drastiche, preferivano rifarsi a remote e spesso fantasiose radici preistoriche e precristiane. Per esempio, il gruppo Gileja, fondato a Mosca dai pittori Kamenskij e Burljuk, prese il nome russo della Scizia, ossia delle pianure sarmatiche abitate, ai tempi di Erodoto, da popolazioni che lo storico greco considerava barbare e semiselvagge. L’influenza del Futurismo italiano si farà sentire di più nella letteratura e nella tecnica pubblicitaria, nel gusto dello scandalo e della provocazione.

Il Futurismo russo attraversa due fasi distinte, una prerivoluzionaria (1908-1915), l’altra postrivoluzionaria (1917 – 1930). Nasce in netta polemica con il Simbolismo che in Russia promuoveva il ritorno all’an-tico folclore, alla terra, al mondo contadino. Inizialmente i gruppi fu-turisti più importanti sono tre: l’Egofuturismo, d’impostazione ancora generica, nel quale era compreso il gruppo eclettico del “Mezzanino della poesia” di cui faceva parte Sersenevič; la Centrifuga di cui face-va parte Pasternak; e soprattutto il Cubofuturismo, il più importante, quello che si impone decisamente sugli altri.

Il CUBOFUTURISMO in letteratura esordisce nel 1910 con l’almanac-co poetico “Vivaio dei giudici”, in opposizione al Simbolismo, a opera di un gruppo di poeti (fra cui Kamenskij, Guro, Burljuk) che fa capo a Chlebnikov, e a cui presto si aggregherà Majakovskij, che ne diviene uno dei maggiori rappresentanti. VELIMIR CHLEBNIKOV (1885 – 1922) fu colui che diede vita al movi-mento. Nella sua opera, l’irruzione della modernità si sposa con il re-cupero delle grandi civiltà del passato, soprattutto asiatiche, condotto per mezzo di un impiego personalissimo del linguaggio: privato delle strutture logico-discorsive e affidato alle potenzialità evocative dei fo-nemi e della simbolicità delle lettere, il linguaggio si colloca a metà tra una dimensione magico-regressiva e una invece sperimentale e utopica. Da una parte quindi valorizza il sentimento della tradizione, intesa non come difesa delle convenzioni ma, al contrario, quale recupero

Velimir Chlebnikov

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dell’arcaico, dell’originario, del rimosso storico; dall’altra si sviluppa un’inquieta ricerca di nuove possibilità comunicative, di forme intenta-te di espressione, potenzialmente universali. La frammentazione del di-scorso poetico, fino all’elencazione di soli nomi, e perfino alla giustap-posizione di lettere dell’alfabeto o di monconi di parola, tocca il suo punto più estremo nelle composizioni “trasmentali” , cioè sottratte al controllo della logica razionale e protese alla ricerca di una nuova e inedita sensibilità linguistica. È proprio da questa disgregazione dell’or-dine razionale e compositivo che il movimento riceve la qualifica di Cubofuturismo, in riferimento al suo intrecciare variamente caratteri del cubismo e del futurismo.

Il manifesto più noto del movimento apparve nel 1912, nel secondo almanacco “Schiaffo al gusto corrente”, dove veniva dichiarato il com-pleto distacco dalle formule poetiche del passato la volontà di una rivoluzione lessicale e sintattica, l’assoluta libertà d’uso dei caratteri tipografici, formati, carte di stampa, impaginazioni: “Siamo il volto del vostro tempo. Il corno da tempo risuona nella nostra arte verbale. Il passato è angusto. L’accademia e Puškin sono più incomprensibili dei geroglifici. Gettare Puškin, Dostoevskij, Tolstoj dalla nave del nostro tempo. Chi non dimenticherà il primo amore, non conoscerà mai l’ul-timo. […] Ordiniamo che si rispetti il diritto dei poeti:ad ampliare il volume del vocabolario con parole arbitrarie e derivate;ad odiare inesorabilmente la lingua esistita prima di loro;a respingere con orrore dalla propria fronte altèra la corona di quella gloria a buon mercato, che vi siete fatta con spazzole del bagno;a stare saldi sullo scoglio della parola “noi” in un mare di fischi e indi-gnazione; e, se nelle nostre righe permangono tuttora i sudici marchi del vostro “buon senso” e “buon gusto”, in esse tuttavia già palpitano, per la prima volta, i baleni della nuova bellezza futura della parola au-tonoma”.

I poeti cubofuturisti ebbero l’apporto dei pittori raggisti e poi cubo-futuristi Larionov, Gončharova e Malevič. I giovani artisti cubofuturisti irrompevano negli scenari urbani cercando di sovvertire le vecchie regole fondendo arte, modo di vivere, performance di strada: essi per-correvano Mosca con gli occhi dipinti come fiori, o con il viso coperto di segni algebrici, o attaccavano manifesti fatti di carta igienica, vestiti in maniera pittoresca, o leggevano versi nelle situazioni e negli ambienti più improbabili, rifacendosi in questi atteggiamenti ai futuristi italiani. Gli artisti cubofuturisti inoltre organizzavano insieme ai poeti delle tournée in tutto il Paese, per diffondere ulteriormente le loro idee.

Il passaggio ulteriore al CUBOFUTURISMO nella pittura si ha nel 1913. La produzione di questi artisti realizza il passaggio da un’astrazione di solida componente geometrica, la quale tuttavia si integra con le po-tenze espressive e dinamiche tratte dal futurismo. Nel complesso in questa produzione si riflettono le tappe attraversate dal cubismo, la cui evoluzione formale sta influenzando anche i futuristi italiani. Così nelle opere pur originali degli artisti russi possiamo riconoscere il percorso compiuto da Braque e Picasso nel passaggio dal protocubismo di ma-trice cézanniana al cubismo analitico e poi a quello sintetico. Nell’atti-vità di Malevič l’assimilazione del cubismo è molto approfondita e allo stesso tempo determina esiti assolutamente peculiari.

La raccolta della segale, K. Malevič, 1912

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In uno scritto del 1913, riferendosi ai suoi dipinti Malevič parla per la prima volta di ‘cubofuturismo’, usando l’espressione di “realismo cubo-futurista”. Ma dal razionalismo cubista Malevič trae esiti di crescente spiritualismo. Egli definisce “alogismo” l’orientamento che sviluppa tra il 1913 e il 1914 a partire dal linguaggio cubofuturista. Il fine perseguito è la messa in crisi della ragione positiva, basata sul presupposto del-l’oggettività del reale. Nel dipinto Alogismo. Mucca e violino, del 1913, Malevič mette in rapporto tra loro una mucca e un violino. Il rapporto tra le due figure è il momento fondamentale del dipinto. La cassa del violino mostra striature che simulano le venature del legno; l’estremità superiore vede invece composta una redazione piatta e frontale del legno con l’illusione prospettica dei due perni. Sul violino campeggia il corpo della mucca, dipinto con realismo naturalistico. L’eterogeneità visiva di questa mucca rispetto a tutti gli altri particolari fa saltare la residua possibilità di leggere la rappresentazione secondo un ordine logico: l’artista riesce quindi a proporre un nuovo tipo di ragione di-versa da quella che prende atto del mondo come di una oggettività esterna, una ragione che comunque possiede un suo senso e una sua costruttività. Sul retro del quadro, l’autore sintetizza con queste parole il suo significato: “Confronto a-logico tra due forme ‘violino’ e ‘mucca’, come momento di lotta contro la logica, la naturalezza, il senso comu-ne e il pregiudizio borghesi.”

L’alogismo è il riflesso di un orientamento più vasto o caratteristico del futurismo letterario russo, designato con l’espressione zaumnoe “transrazionale” o zaum. Malevič è strettamente legato alle personalità guida di tale indirizzo. Nel 1913 infatti Malevič collabora con le sue sce-nografie alla realizzazione di un’opera teatrale, La vittoria sul sole, del poeta ALEKSEJ KRUČENYCH (1886 – 1968). Quest’opera fu rivolu-zionaria sia per il suo contenuto, sia per il suo allestimento organizzato da Malevič, per l’uso particolare delle luci e per le sue scenografie, nelle quali si è vista un’anticipazione del Suprematismo, in quanto proprio in quest’opera si ha un primo abbozzo di quello che sarà il suo lavoro più importante, in quanto appunto considerato come punto di inizio del Suprematismo: Quadrato nero su fondo bianco, a rappresentare un nuovo Sole costruito dall’uomo, una fonte di energia fisica e spirituale non debitrice né della religiosità tradizionale né della natura. L’opera si divide in due “agimenti” più un prologo, scritto da Velimir Chlebnikov, in cui esorta il pubblico a recarsi a teatro.Il primo “agimento” è la descrizione più o meno frammentaria della lotta vittoriosa dei “forzuti futuristi”, degli uomini nuovi, contro il sole. Nel secondo “agimento” è rappresentata la vita dell’umanità nel mon-do nuovo, un mondo alla rovescia, “liberato” dalla tirannia del sole. In quest’opera si ritrovano, intrecciati in forma originale, temi e forme che riflettono l’attitudine avanguardistica del periodo, dal cubismo al futurismo, e che anticipano molti aspetti del dadaismo e addirittura il teatro dell’assurdo. Centrale all’interno dell’opera è il motivo di stam-po futurista della lotta al sole come immagine-simbolo della tradizione poetica del passato. Ma se il futurismo italiano si limitava ad esaltare la conquista degli astri dell’universo come prova della superiorità del nuovo uomo tecnologico e ardito, in Russia, la “vittoria sul sole” por-ta alla costruzione di un mondo alla rovescia, dove sono trascesi i tradizionali confini delle dimensioni spazio-temporali e della forza di gravità.

Alogismo: mucca e violino, K. Malevič, 1913

Disegno per la Vittoria sul Sole, atto II, scena V, K. Malevič, 1913

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Il gioco di Kručenych è tutto linguistico, dove la lingua transrazionale, lo zaum, liberata dalle convenzioni e dalle catene delle regole gram-maticali e sintattiche, è il simbolo creazione dell’uomo del futuro, il budetljanin. Il messaggio ideologico di lotta alla tradizione e della crea-zione del mondo nuovo, libero della logica, è descritto da una serie di artifici poetici, frasi sgrammaticate e frammentarie, serie di parole slegate tra loro, che seguono i metodi futuristi delle “parole in liber-tà”, unendoli alla tecnica del cubismo pittorico: descrizione analitica e ricomposizione sintetica del materiale linguistico, frantumazione del-l’azione scenica e delle singole battute che perdono così qualsiasi lega-me casuale o temporale.

Sempre nel 1913, Kručenych pubblica un opuscolo dal titolo Dichia-razione della parola come tale, in cui formula in otto punti la teoria del linguaggio transrazionale: “L’artista è libero di esprimersi non solo nel linguaggio comune (concetti), ma anche in un linguaggio persona-le ( il creatore è individuale), e anche in un linguaggio che non abbia un determinato significato (non rappreso, cioè transrazionale. […]Una nuova forma verbale crea un nuovo contenuto, e non viceversa.Introducendo nuove parole, offro un contenuto nuovo, in cui tutto comincia a scivolare (spostarsi)”.

Quello stesso anno esordisce in teatro con la sua opera Vladimir Majakovskij, Tragedia. Majakovskij è appunto in questi primi anni del Cubofuturismo il maggior poeta e autore teatrale. VLADIMIR MAJAKOVSKIJ (1893 – 1930) nasce a Bagdadi, in Georgia. Sin da giovane si impegna nei movimenti rivoluzionari. Trasferitosi a Mosca nel 1906, è arrestato a più riprese, restando in carcere quasi un anno. Intanto, legge molti autori di poesia, restandone al contempo affascinato e infastidito; distrugge le sue prime composizioni poetiche (civilmente impegnate, ma rifatte su forme tardosimboliste). Nel 1912, entrato a contatto con i cubofuturisti, fima il manifesto Schiaffo al gu-sto corrente, mettendosi presto in risalto. Seguono anni di laborioso apprendistato letterario, vissuti con l’entusiasmo delle serate futuriste, delle redazioni di giornali d’avanguardia, dell’attesa di uno scoppio ri-voluzionario. L’esperienza della guerra lo inorridisce, e nel frattempo conosce Lilja Brik, della quale si innamora e alla quale resterà legato tutta la vita. Dopo vari lavori teatrali e poetici (tra cui La nuvola in cal-zoni, 1915), pubblica Il flauto di vertebre nel 1916. Con lo scoppio della rivoluzione russa, Majakovskij diverrà il poeta della rivoluzione.

LINEE DI RICERCA ALTERNATIVE AL FUTURISMO

Nel corso del 1914, VLADIMIR TATLIN (1885 – 1953) dà vita a una linea di ricerca che va oltre la rappresentazione figurativa. Anche nel suo caso, è il confronto con i risultati del cubismo che suscita la nascita di una nuova idea e di una nuova creazione. Tatlin, infatti, tra il 1913 e il 1914, si reca in viaggio prima a Berlino poi a Parigi. Qui, nel mese di marzo del 1914 visita gli studi di Picasso e Braque, dove può vedere le loro opere polimateriche del periodo del cubismo sintetico. Da questa esperienza ricava lo stimolo per abbandonare la pittura e produrre de-gli oggetti tridimensionali, per i quali utilizza materiali da costruzione: legno, ferro, pelle, viti, chiodi, corde. Espone per la prima volta queste composizioni nel suo studio di Mosca, nel mese di maggio.

Vladimir Majakovskij

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Compare così un’inedita generazione di “rilievi”, ottenuti con l’assem-blaggio di materiali per così dire “tecnici”; alcuni di essi sono concepiti in rapporto allo spazio ambientale. Il carattere artistico che si impone in queste opere è duplice. Da un lato, si verifica una radicalizzazione del linguaggio astratto cubista e, in definitiva, un suo oltrepassamento, in quanto viene superata la relazione ancora “riproduttiva” con le cose della realtà esterna; la creazione di questi rilievi, infatti, implica l’abban-dono del riferimento a oggetti reali. Dall’altro lato, tale più compiuta astrazione non è realizzata affidandosi ai segni della pittura, ma a ma-teriali corposi, spessi, ruvidi; materiali piuttosto della tradizione del costruire artigiano che di quella raffinata e formale dell’arte. Emerge dunque, in questa ricerca di Tatlin, una sorta di cultura delle materie povere, che apre un capitolo fecondo per tutta l’attività artistica no-vecentesca (ad esempio, Burri e Beuys), che avrà il suo effetto più rile-vante al di fuori della Russia sulle opere dell’artista dada-costruttivista tedesco Kurt Schwitters.

PAVEL FILONOV (1883 – 1941) è un altro importante artista d’avan-guardia che va menzionato. Appassionato conoscitore di etnografia, egli assume a modello, per la tipologia delle sue figure, antiche e primitive statue lignee. Ne deriva, nei suoi dipinti, la generazione di un’umanità popolare, rappresentata in momenti della vita che rivelano sempre uno straordinario clima di religiosità naturale, priva di ogni idealizzazione. E’ un mondo gremito di corpi. Corpi di esseri umani, di animali, di vegetali. Corpi viventi strettamente legati, documento di quella complessa, ma unitaria catena organica che è la vita. Infatti egli intende farsi interpre-te del fenomeno della vita, elaborando in questi anni il suo singolare linguaggio, da lui definito “PITTURA ANALITICA”, e che più tardi, al-l’inizio degli anni Venti, teorizza in scritti e riesce a comunicare a una cerchia di seguaci. Criticando la geometrizzazione cubista, egli vi oppone un diverso orientamento nella scomposizione analitica delle forme, volto a rap-presentare gli organismi viventi in crescita, come avviene nella natu-ra, per un processo ininterrotto di sviluppo molecolare. Così, in uno scritto del 1923, descrive la sua ricerca: “Sono l’artista della fioritura universale. Chiamo il mio principio naturalistico per il suo metodo puramente scientifico di riflettere l’oggetto, di prevedere in maniera adeguatamente esauriente, di intuire, fino a calcoli sub e sovracoscienti, tutti i suoi predicati, di rilevare l’oggetto nella soluzione in un modo adeguata alla concessione. “

IL CINEMA PRIMA DELLA RIVOLUZIONE

La prima società cinematografica russa fu fondata nel 1907. La nuo-va arte popolare ebbe notevole successo sia tra la nobiltà che tra il pubblico popolare e ciò favorì una sua rapida espansione. L’inizio della guerra nel 1914 e la chiusura degli uffici di importazione favorì la crescita impetuosa di una cinematografia nazionale. I film prodotti era-no melodrammatici, la recitazione fatta di lunghissime pause, il ritmo molto lento, e veniva dato grande risalto alla psicologia e alle capacità recitative di stampo teatrale. Altri film erano invece tratti da opere della letteratura russa, secondo la moda del film d’arte europeo. Nel 1916 in Russia esistevano più di 30 case di produzione. L’avanguardia non poteva ancora esprimersi però in tutta libertà.

Controrilievo d’angolo, V. Tatlin, 1914 - 1915

Fiori della fioritura universale, P. Filonov, 1915

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LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE (1917)

Nel 1914 la Russia decise di partecipare alla Prima Guerra Mondiale, a fianco di Francia e Inghilterra, contro Germania, Austria e Impero Ottomano, in quanto era desiderosa di consolidare ed espandere il proprio impero. A causa della propria arretratezza politica, industriale e militare, non era però in grado di competere con i paesi dell’Europa centrale. La Russia, così, subì ripetutamente delle sconfitte, i soldati (che erano contadini costretti ad una leva lunghissima) morivano a milioni, mentre si accresceva nel Paese la miseria, e si moltiplicavano le manifestazioni di scontento.L’agitazione toccò il culmine nel febbraio 1917, quando venne pro-clamato uno sciopero generale in tutta la Russia, mentre ovunque si costituivano i soviet. Lo zar tentò di reprimere la rivolta, ma i soldati si rifiutarono di sparare sulla folla. Nicola II fu così costretto ad abdicare e venne poi arrestato. Si formò un governo provvisorio con a capo Kerenskij. Nei fatti però in Russia si costituirono due poteri: uno era quello dei soviet, formati da soldati, contadini, operai e intellettuali, dove erano forti (ma minoritari) i bolscevichi (poi chiamatisi “comuni-sti”), i cui principali esponenti erano Lenin e Trotzkij, che volevano la cessazione immediata della guerra, la distribuzione delle terre ai con-tadini e il controllo delle fabbriche da parte degli operai. L’altro potere era quello del governo provvisorio, sostenuto dalla borghesia e dai partiti moderati che volevano la continuazione della guerra, uno stato democratico parlamentare e un sistema economico capitalista. Il governo provvisorio volle continuare la guerra, e ciò gli attirò lo scontento crescente della popolazione e l’aumento della popolarità dei bolscevichi, che volevano invece farla cessare. Fu così che i bol-scevichi guadagnarono la maggioranza nel soviet e, giudicando maturi i tempi, promossero nell’ottobre del 1917 una seconda rivoluzione, praticamente incruenta, che abbatté il governo provvisorio e instaurò un governo basato sui soviet, con Lenin alla presidenza e Trotzkij agli Esteri. Il governo bolscevico nazionalizzò le banche, favorì il controllo ope-raio delle fabbriche, tolse le terre ai latifondisti e le affidò ai soviet dei contadini, portò la Russia alla pace con la Germania (pace di Brest-Litovsk), che aveva occupato parte del suo territorio. Queste misure provocarono una forte reazione da parte delle vecchie classi domi-nanti, ma anche di fette della popolazione che per varie ragioni non approvava la politica bolscevica.

Nel 1918 dunque si scatenò una ferocissima guerra civile: da un lato le truppe in prevalenza filozariste appoggiate dai Paesi dell’Intesa (Fran-cia, Inghilterra, Russia, Giappone, Italia ecc, che non volevano il ritiro della Russia dalla guerra contro la Germania) e che venivano chiamate “bianche”; dall’altro l’Armata Rossa che era il nuovo esercito dello stato russo governato dai bolscevichi.Alla fine prevalse l’Armata Rossa, ma vi furono milioni di morti, anche causati dalle carestie che il conflitto produsse. La Russia, che dal 1922 si denominò URSS, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche,

LA RUSSIA DELLA RIVOLUZIONE

Occupazione del Palazzo d’Inverno, 1917

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era distrutta, completamente prostrata. Il governo bolscevico fu dun-que costretto ad avviare una politica che permetteva, anche se limi-tatamente, il commercio e l’iniziativa privata, e che venne battezzata NEP, Nuova Politica Economica. Il governo poi, attraverso i piani quin-quennali, progettò una serie di investimenti tesi alla modernizzazione del Paese. Cercava di stimolare la rivoluzione anche negli altri Paesi, e per coordinare i partiti comunisti nel mondo fondò la Terza Interna-zionale.

AVANGUARDIA E POTERE

Gli anni della rivoluzione e del governo di Lenin furono i più floridi e ricchi per le avanguardie. Infatti, Trotzkij e il commissario del popolo all’educazione Anatolij Lunačarskij furono molto disponibili nei con-fronti di tutte le manifestazioni dello spirito artistico. Sono noti, inoltre, gli interessi di Trotzkij (pseudonimo di Lev Davidovič Bronstein) per le questioni letterarie e artistiche, che lo portarono ad approfondire in modo particolare i rapporti che legano l’arte alla società, confluiti nel volume da lui dato alle stampe nel 1923 con il titolo significativo di Letteratura e rivoluzione. Instancabile organizzatore dell’Armata Ros-sa, teorico della rivoluzione permanente, si interessò del Futurismo e delle opere del suo poeta più rappresentativo, Vladimir Majakovskij, senza riuscire però ad apprezzarli in pieno, anzi criticandoli più volte quando questi si dimostrarono intolleranti nei confronti degli altri stili artistici. Infatti, per Trotzkij l’arte doveva essere manifestazione di un libero confronto, su di un terreno sgombro da ogni dogma e precon-cetto: come lui stesso scrisse, “L’arte non è il campo in cui il partito è chiamato a comandare”. Anche Lenin (pseudonimo di Vladimir Il’ič Ul’janov), anch’egli attento ai problemi culturali, dimostrò, i contra-sto con il suo intollerante atteggiamento politico, una certa indulgenza verso le avanguardie artistiche. E come Trotzkij, si dissociò da coloro che si dimostravano pregiudizialmente ostili a tutte le forme d’arte che non fossero di chiara ascendenza proletaria. Fu Lenin, del resto, al con-trario di quanto farà Stalin pochi anni dopo, a intuire che l’irrigidimen-to in arte avrebbe significato uno sterile livellamento, e fu sempre lui, nel 1920, a difendere contro i seguaci dell’arte proletaria l’importanza del retaggio della cultura borghese.

A molti giovani esponenti dell’avanguardia vennero affidati compiti di responsabilità: fondazione di nuovi musei (36 nei tre anni successivi alla rivoluzione), direzione di nuove scuole, capi della propaganda. Questi artisti, abituati ad essere considerati una minoranza ininfluente, si ri-trovarono di colpo con la possibilità di comunicare con le larghe masse russe, in gran parte analfabete, e in qualche modo speravano di poterne influenzare il gusto e favorirne la crescita culturale. Anche per questo passavano spesso da una forma di espressione all’altra: cinema, teatro, pittura, poesia, architettura,…e non disdegnavano affatto di occuparsi di attività artistiche considerate fino ad allora minori, come il design e la grafica. Venivano create immagini di propaganda e scenografie per le feste e le manifestazioni pubbliche, come ad esempio quella creata da Al’tman per celebrare in una piazza di Pietrogrado il primo anniversa-rio della Rivoluzione d’Ottobre.

Lenin

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VLADIMIR MAJAKOVSKIJ (1893 – 1930) fu il principale artista della rivoluzione. Egli stilò le regole di vita degli artisti rivoluzionari in quello che definì il Decreto n. 1 sulla democratizzazione dell’arte, stilato nel marzo 1918:“1. Da oggi, con la distruzione del regno zarista, è soppressa la presen-za dell’arte nei depositi, ripostigli del genere umano, nei palazzi, nelle gallerie, nei saloni, nelle biblioteche, nei teatri. 2. In nome della grande avanzata dell’eguaglianza di tutti di fronte alla cultura, la Libera Parola della personalità creatrice sia scritta sugli an-goli delle case, agli incroci degli steccati, dei tetti, delle vie delle nostre città e dei nostri paesi, sulle schiene delle auto, delle carrozze, dei tram e sui vestiti di ogni cittadino.3. Come radiosi arcobaleni, si distendano da un edificio ad un altro, nel-le vie e nelle piazze, quadri (colori) che rallegrino e nobilitino l’occhio (il gusto) del passante.Pittori e scrittori prendano subito i colori e i pennelli della loro arte per dare una nuova luce, per dipingere tutti i fianchi, le fronti, i petti delle città, delle stazioni e della moltitudine di vagoni eternamente in corsa.Da oggi in poi ogni cittadino, passando per la via, possa godere a ogni istante della profondità di pensiero dei suoi grandi contemporanei, possa contemplare ormai la variopinta vivezza di una bella gioia, ascol-tare ovunque musica – le melodie, il rumore, il fracasso – di eccellenti compositori.Le vie siano la festa dell’arte per tutti.”Al centro della ricerca poetica del poeta nato a Bagdadi, In Geor-gia, sarà la creazione di un’arte nuova, autenticamente liberata dalle convenzioni borghesi e disponibile alla nuova società proletaria. Nel 1920 esce anonimo il poema 150.000.000, dedicato alla rivoluzione socialista. Nel 1922 compone il poemetto Io amo e mette insieme due antologie della propria opera poetica, dedicandosi quindi a vari viaggi all’estero, toccando fra gli altri Berlino e Parigi. Nel 1923 diviene direttore della importante rivista “LEF”, Fronte di Sinistra delle Arti, che raduna i maggiori scrittori futuristi rivoluzionari, uniti dal rifiuto totale per la letteratura classica, per far posto a una fusione, la più stretta possibile, tra arte e vita, a un’analisi sociologica di ogni forma d’arte. Negli anni seguenti, Majakovskij si dedica a una frenetica attività di scrittore, agitatore, pubblicitario, illustratore di libri e di manifesti, sempre in nome del binomio poesia/rivoluzione, viaggiando in lungo e in largo per l’Unione Sovietica e recandosi spesso all’estero (nel 1925 compie un viaggio in America). L’allargamento esercitato da Majakovskij nei temi e nel lessico della poesia rispondono nel modo più rigoroso e complesso al programma del Futurismo russo. All’astrazione metafisica della tradizione simboli-stica e al ripiegamento folclorico dei poeti-contadini, Majakovskij con-trappone una poesia che scende nelle piazze, assume i bisogni delle masse proletarie (che nell’opera di Majakovskij assumono, per la prima volta nella storia, una posizione di soggetto) e la vita squallida delle periferie industriali, senza però alcun cedimento veristico. Majakovskij evita in ogni caso di trasformare la propria attività in amplificazione de-clamatoria della verità di partito, ritenendosi piuttosto investito di una funzione di verifica umile ma specifica, fondata sulla libertà di analisi e di critica. La ricchezza delle soluzioni formali adottate e la sperimenta-zione coraggiosa non ostacolano la comunicatività della poesia di

V. Majakovskij fotografato da A. Rodčenko

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Majakovskij, la quale presuppone sempre un uditorio con cui comuni-care, scartando ogni ragione elitaria o specialistica. E’ anche grazie al vigore, spesso rabbioso e combattivo, di questo impegno e di questa comunicativa che i testi di Majakovskij colpiscono anche oggi alla lettu-ra, tanto per l’originalità delle scelte espressive quanto per la perento-rietà dei temi e delle posizioni.

Il coinvolgimento delle avanguardie artistiche nella rivoluzione si ha an-che attraverso la istituzione di nuove istituzioni artistiche. Nel settem-bre 1918 si aprono gli Svomas, Liberi Atelier di Stato, che costituiscono le accademie e le scuole d’arte e il cui principio ispiratore è la libertà di sperimentazione. All’interno dell’istituzione che il governo mette a capo dei problemi della cultura, il Narkompros (Commissariato per l’Educazione Popolare), è costituita una sezione specifica per le arti, l’IZO, Dipartimento per le Arti Figurative, cui spetta la promozione di nuove scuole d’arte e nuovi musei.L’avanguardia sarà pienamente impegnata nello sviluppo delle attività di ricerca e di formazione artistica. Ad esempio, Chagall sarà direttore della vita artistica della regione di Vitebsk, e lavorò al teatro ebraico di stato di Mosca; Kandinskij, membro dell’IZO, insegnante agli Svomas, nel 1919 diventa direttore del Museo di cultura pittorica di Mosca, rinnovando la concezione classica del museo. Secondo Kandinskij, in-fatti, bisognava abbandonare l’ordine delle opere secondo un criterio storico-cronologico, cercando invece di convogliare l’attenzione e lo studio sulla storia dei procedimenti artistici, cioè sugli elementi formali e tecnici del lavoro artistico: “Il Museo di cultura pittorica cercherà di presentare non l’immagine esauriente dell’opera di un artista, né lo sviluppo dei problemi accennati (dei procedimenti artistici) solo nel-l’ambito di un paese o di un’epoca, bensì una serie di opere, indipen-dentemente dalla corrente a cui appartengono, che presentano metodi nuovi. In questo modo il Museo di cultura pittorica sottolinea lo svi-luppo storico della pittura dal punto di vista dei materiali, concreti e non, come puro fenomeno pittorico”. Nel 1920 Kandinskij partecipa alla fondazione dell’ INCHUK, Istituto di cultura artistica, diventando direttore della sezione arte monumentale. Nel Programma dell’istituto, Kandinskij afferma: “Scopo dell’attività dell’Istituto di cultura artistica è una scienza che esamini analiticamente e sinteticamente gli elementi fondamentali sia delle singole arti, sia dell’arte in generale”. Direttore dell’ Inchuk sarà anche Kazimir Malevič.Nel 1921, dopo aver dato le dimissioni dall’Inchuk, per il conflitto sorto con il nuovo Gruppo di lavoro di analisi oggettiva creatosi internamen-te all’ Inchuk e capitanato dal giovane Rodčenko, Kandinskij partecipa alla fondazione di un altro organismo, il RACHN, Accademia Russa di Scienze Artistiche, del quale dirige il Dipartimento fisiopsicologico.

LA MOSTRA 0,10 (1915): MALEVIČ E TATLIN

La mostra 0,10. Ultima mostra futurista di quadri, organizzata a Pie-trogrado dall’artista Ivan Puni (1892 – 1956) il 19 dicembre 1915, è fondamentale per lo sviluppo che avranno durante la rivoluzione le avanguardie. Si affermano qui due linee artistiche: il Suprematismo di Malevič, e l’arte come costruzione tecnica di Tatlin, idea che sarà poi alla base del movimento a cui l’artista parteciperà dagli anni Venti: il Costruttivismo.

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Malevič allestisce una parte della mostra con opere sue e di artisti coinvolti nel suo orientamento. In un’altra sezione sono esposti invece i rilievi di Tatlin e le realizzazioni di artisti a lui vicini. Tatlin non aveva accettato di affiancare le sue opere a quelle di Malevič; Malevič aveva fatto addirittura pressioni su Puni perché Tatlin non fosse ammesso alla mostra. Malevič affigge nella zona dei suoi dipinti un cartello con su scritto: “Supremazia della pittura, K. Malevič”. Tatlin, a sua volta, scrive sulla porta della sua sala: “Esposizione di pittori professionisti”, in quan-to criticava l’orientamento artistico di Malevič, che nella sua aspirazio-ne all’universale assumeva connotati filosofici. Tatlin riconosce subito l’intrinseca proiezione extrapittorica della pittura di Malevič, e proprio per questo la critica, rivendicando invece il carattere pragmatico e la specificità della produzione plastica. E’ appunto per muovere una cri-tica all’arte di Malevič che egli pone la scritta “Esposizione di pittori professionisti” sulla porta della sua sezione della mostra. A prima vista questa affermazione di Tatlin può sembrare paradossale, in quanto proprio lui stesso sembra essere ben avviato, con i suoi rilie-vi, tanto oltre la pittura quanto oltre la scultura, mentre Malevič esibi-sce solo un nuovo linguaggio pittorico. In sostanza però Tatlin continua a portare al centro della sua attività gli aspetti materiali della creazione artistica, anzi li trasforma da condizione necessaria dell’opera a suo tema plastico essenziale. Malevič, invece, tende la pittura verso un’ele-mentarità estetica in grado di trapassare in visione mentale, in coscien-za intuitiva dell’essere del mondo. In quest’ occasione nasce una duratura opposizione tra i due artisti e tra le diverse culture di cui dal 1915 si faranno portatori. Nikolaij Punin, critico e teorico d’arte russo vicino all’avanguardia, de-scrive con queste parole il conflitto tra i due artisti: “Essi ebbero un destino particolare. Non so quando fosse cominciato, ma, per quanto ricordo, essi si dividevano sempre il mondo, la terra e il cielo e lo spa-zio interplanetario, stabilendo dappertutto la sfera della loro influenza. Tatlin soleva riservarsi la terra, sforzandosi di spingere Malevič in cielo per la sua astrattezza. Malevič non rinunciava ai pianeti, ma non cedeva la terra, ritenendo giustamente che anch’essa fosse un pianeta e quindi potesse essere astratta”. Il confronto tra Tatlin e Malevič era quindi di tipo dialettico: ognuno dei due invitava l’altro ad approfondire meglio se stesso. Un altro dato di fondo che lega le loro divergenze in un nodo comune è l’assolutizzazione dell’opera, il suo divenire realtà in sé. Realismo era quello di Tatlin, ma realismo era anche quello di Malevič, entrambi basati sulla costruttività del linguaggio.Proprio grazie a questo scambio dialettico, nell’ambiente dell’avanguar-dia russa non si formano due campi d’azione separati e non comuni-canti; al contrario, pur nei contrasti, matura una feconda mescolanza di esperienze e soluzioni.

IVAN PUNI (1894 – 1956), l’artista che ha organizzato la mostra 0,10, è un esempio del tutto originale, in quanto egli si muove a cavallo dei due diversi orientamenti, ricavandone esperienze nuove: esse possono esesre confrontate con i ready-mades di Duchamp, sconosciuti allora in Russia, e più in generale con le esperienze che svolgerà, di lì a qualche anno, il movimento dada. Egli compone le istanze suprematiste, come il superamento dell’oggettività del mondo e la critica della ragione uti-litaria, con l’utilizzazione nelle sue opere di cose o materiali prelevati dalla realtà. In occasione della mostra 0,10, pur facendo parte del

Allestimento dei quadri di Malevič, alla mostra 0,10, 1915

La tenaglia, I. Puni, 1915

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del gruppo di Malevič, Puni presenta un breve testo con proposizioni teoriche che chiariscono il senso specifico della mescolanza tra “cose” e “critica delle cose”. Puni dichiara in questo breve testo che, se la pit-tura suprematista, con le sue forme elementari, prescinde dalle forme della realtà per guadagnare un’altra realtà, Puni si propone di privare gli oggetti del loro senso utilitario per conquistarli a un altro senso.

IL SUPREMATISMO

Malevič giunge al Suprematismo sviluppando ulteriormente il tema dell’alogismo. Egli stila in manifesto di questo movimento insieme a Majakovskij nel 1915, lo stesso anno in cui mostrerà per la prima volta le sue opere suprematiste alla mostra 0.10. Proprio il nome di tale mo-stra è significativo per il grande passo avanti fatto dall’artista: Malevič infatti nell’opuscolo da lui distribuito alla mostra afferma: “Mi sono trasformato nello zero delle forme e mi sono tirato fuori dal ciarpame dell’arte accademica”. L’artista allude quindi all’azzeramento formale da lui iniziato e che intende proseguire, andando oltre. Tale azzera-mento è per Malevič la condizione di una nuova arte: da questo azze-ramento dipende la realizzazione dell’autonomia dell’arte dalla realtà e dalla natura. Il Suprematismo, come l’artista afferma nel suo Manifesto, è l’arte che “arriva alla rappresentazione senza oggetti”, che per il suprematista non hanno alcun significato, come anche le rappresentazioni della co-scienza, cioè l’arte che rappresenta in modo realistico gli oggetti della realtà. Il Suprematismo ricerca la rappresentazione della sensibilità, che sarà la base del mondo nuovo costruito dall’arte pura (non applicata) del Suprematismo, “l’arte pura ritrovata, quell’arte che con l’andare dei tempi è diventata invisibile, nascosta dall’infittirsi delle ‘cose’”.Il Suprematismo non sarà asservita alla religione, o allo Stato, non il-lustrerà la storia dei costumi, non vuole più saperne dell’oggetto in quanto tale, e “crede di potersi affermare senza la ‘cosa’, ma in sé per sé”. Non saranno raffigurati volti umani, in quanto quello che viene considerato ‘vero volto’ degli uomini è in realtà una maschera, che nasconde quella sensibilità immediata, che può essere percepita dall’ar-tista suprematista, senza guardare o toccare, quindi senza un diretto contatto con la realtà, ma attraverso le proprie sensazioni.Malevič suddivide la sua produzione in tre periodi, a seconda del colo-re dei quadrati che si muovono sulle sue tele a fondo bianco: il periodo nero, quello colorato e quello bianco.Il periodo nero è quello iniziale, rappresentato dalla sua opera più co-nosciuta, assunta a simbolo della sua produzione suprematista: il Qua-drato nero su fondo bianco. Malevič stesso ci spiega il significato di quest’opera e della forma geometrica da lui scelta: “Il quadrato nero su fondo bianco è stata la prima forma di espressione della sensibilità non-oggettiva: quadrato = sensibilità, fondo bianco = il Nulla, ciò che è fuori dalla sensibilità. […]Il quadrato si muta per formare figure nuove, gli elementi delle quali si compongono in una maniera o in un’altra, secondo le norme della sensibilità ispiratrice”.Il “Quadrato nero” ha il suo precedente in una delle scene progettate da Malevič nel 1913 per l’opera teatrale “transrazionale” di Kručenych, La vittoria sul Sole, come si può notare dagli schizzi che ci sono perve-nuti. Nell’aprile del 1915, impegnato a realizzare nuove scenografie per l’opera, Malevič giungerà a disegnare compiutamente il quadrato nero,

Quadrato nero su fondo bianco, K. Malevič, 1915

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che sarebbe divenuto di lì a poco l’immagine più rappresentativa della nuova pittura suprematista. Di tale disegno l’artista scrive a Kručenych: “Questo schizzo è destinato ad avere un enorme significato in pittura; quello che era stato fatto inconsciamente sta ora dando rimarchevoli frutti”. L’artista considera i due colori, il bianco e il nero, come elemento prin-cipale del Suprematismo, basi, energie, originati da gamme di colori, che servono alla “scoperta della forma d’azione, considerando soltanto la necessità puramente utilitaria di una riduzione economica, per cui tut-to ciò che è colorato scompare”. Il bianco della tela è scelto in quanto esso fornisce “un’idea reale dell’infinito […] L’infinito bianco suprema-tista permette al raggio della vista di procedere senza incontrare un limite. Vediamo dei corpi in movimento, ma è da scoprire quale sia il loro movimento e di che tipo siano essi stessi”.Questo movimento è percepibile in tutti i quadri di Malevič, movi-mento dato sia dalla mancanza di linee parallele nelle sue forme appa-rentemente euclidee, dando ai quadrati al centro della tela un effetto di rotazione rispetto al fondo, sia dalla sospensione spaziale delle sue composizioni di rettangoli colorati, che ruotano attorno ad un asse indeterminato, o che hanno un moto pluridirezionale, in quanto i ret-tangoli sono disposti secondo direzioni diverse nello spazio bianco della tela, ricreando una specie di movimento assoluto, non legato al movimento reale degli oggetti: egli proietta l’uomo nello spazio univer-sale del cosmo, rendendo possibile la creazione di una sensibilità più profonda di quella razionalistica. Il quadro spiccava tra gli altri nella sala dell’esposizione alla mostra 0,10, dove esordiscono le opere suprematiste dell’artista. Esso era ap-peso in alto, alla congiunzione tra due pareti. Questa collocazione non è senza significato: nelle case russe devote alla fede ortodossa vi era un angolo destinato alle icone religiose. Malevič sottolinea dunque con l’opera simbolo del Suprematismo il radicamento dell’arte nella tra-dizione sacrale e, più in particolare, la continuità del riferimento alle icone bizantine, che era stato un aspetto centrale della precedente fase primitivista. La continuità con la fase primitivista dell’artista è dato da “Quadrato rosso”; infatti, sul retro di questa tela del 1915 l’autore ha scritto “contadina supr”, cioè contadina suprematista, e nel catalogo della mostra l’opera porta il titolo “Realismo pittorico di una contadi-na in due dimensioni”. Malevič fa riferimento così alle sue rappresen-tazioni di contadini ucraini del periodo primitivista e cubofuturista, fra cui ad esempio “La falciatrice” del 1913, che rivelava l’intensificarsi del-l’espressione spirituale attraverso l’uso originale dell’astrazione cubo-futurista. Gli ampi e solidi piani che incastrati l’uno nell’altro andavano a formare una costruzione concentrata e quasi unitaria della donna e dello spazio circostante, si risolvono ora, attraverso un addensamento estremo, nell’unità del piano rosso. Grazie a questo confronto possia-mo quindi saggiare il passaggio dal Cubofuturismo al Suprematismo e l’essenzialità che Malevič guadagna attraverso tale sviluppo. L’ultimo sviluppo dell’idea suprematista di Malevič, dopo il quadrato nero e quello rosso, e i quadri con i rettangoli colorati, è il “Quadrato bianco su fondo bianco”, del 1918. “Il quadrato bianco porta un mondo bianco (la struttura del mondo) affermando il segno della purezza della vita creativa dell’uomo”. Il quadrato bianco è ruotato in una cornice quadrata, sempre di fondo bianco: è quindi necessaria una concentra-zione estrema per percepirlo. Esso è l’”abisso” infinito, che si appanna

Quadrato rosso su fondo bianco, K. Malevič, 1915

Otto rettangoli rossi, K. Malevič, 1915

Bianco su bianco, K. Malevič, 1918

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e scompare alla vista, che attrae irresistibilmente nella sua rarefazione e respinge nel suo vanificarsi nel grande nulla. L’ “incolore” si oppo-ne all’”azzurro del cielo”, simbolo non più dello spirituale, ma della “prospettiva delle false rappresentazioni”, del “mondo delle cose” che opprime l’ “intuizione” e la “saggezza”.

“L’arte nuova del Suprematismo, che ha creato forme e relazioni di forme nuove, a base di percezioni divenute figure, allorché tali forme e relazioni di forme dal piano della tela si trasmettono allo spazio, diven-ta architettura nuova. Il Suprematismo, sia nella pittura che nell’archi-tettura, è libero da qualsiasi tendenza sociale o materiale.”La tendenza verso la spazialità e quindi un passaggio dalla bidimensio-nalità della prima fase della produzione suprematista di Malevič si ha con i Planit e gli Arkitecton, appartenenti alla produzione dell’artista dopo il 1920. I Planit (disegnati tra il 1923 e il 1924), in cui passa dal “lavoro di pen-nello” al “lavoro di penna”, in quanto il pennello è più “arruffato”, men-tre la penna è più “aguzza”, più “capace di estrarre dall’anse del cervel-lo”, sono progetti di future architetture dello spazio, agglomerati bi o tridimensionali di forme suprematiste concepite come abitazioni per gli abitanti terrestri, ma non sulla terra: essi saranno delle aereo-città che dovrebbero levitare nello spazio, come si deduce dal loro nome, “Pianeti”. In un disegno del 1923 vi è disegnata una linea forza che tie-ne unite le forme suprematiste lungo l’asse longitudinale del disegno, alludendo in questo modo alla loro collocazione aerea, definendole case del futuro per abitanti terrestri. Gli Arkitecton, prodotti dall’artista intorno al 1920, sono sempre rap-presentazioni di architetture futuristiche sempre di stampo suprema-tista, ma sono tridimensionali, cioè sculture suprematiste di gesso pre-valentemente tutte bianche, con alcuni particolari neri. Parallelepipedi di svariate dimensioni emergono secondo varie direzioni dal corpo centrale dell’edificio del futuro, costituito sempre da un grande paral-lelepipedo. I Planit e gli Arkitecton sono un altro sintomo dell’impegno di Malevič di ricercare un nuovo modo di essere e di conoscere l’uomo in rap-porto allo spazio dell’universo.

IL COSTRUTTIVISMO

Di contro alla tendenza di Malevič, che cercava un nuovo linguaggio dell’arte allontanandosi dalla rappresentazione oggettiva della real-tà, si forma in Russia in quegli stessi anni, a partire dalle ricerche di Tatlin, Naum Gabo, e Rodchenko, il movimento costruttivista, basato sul superamento della distinzione delle arti (che era un residuo della gerarchia delle classi sociali), e sulla creazione di un tipo di arte stret-tamente legato alla realtà, un’arte che sia al servizio della rivoluzione e del popolo, dando ad esso un riscontro visivo della rivoluzione, tra-mite l’impegno nell’architettura, nel design di oggetti d’uso, nella grafica di manifesti, nella costruzione di opere monumentali per celebrare la rivoluzione, mettendo in pratica un’arte che va incontro all’ingegneria.

Il Costruttivismo, ai suoi inizi, consisteva essenzialmente in un’arte “di sinistra”, in un’ “Azione di Massa”, cioè in un’idea di mobilitazione, di propaganda attiva, in alternativa a forme tradizionali di attività

Arkitecton Gotha, K. Malevič, 1923

Planit del futuro per abitanti della Terra, K. Malevič, 1923

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artistica, che riunisse tutte le arti e le scienze sotto uno stesso scopo comune. Un grande stimolo alla nascita del Costruttivismo scaturì dal sempre maggiore coinvolgimento nella propaganda sovietica promosso dallo stato. Il 12 aprile 1918 viene emanato il “Decreto del Sovnarkom”, firmato da Lenin e dai Commissari del Popolo Stalin e Lunačarskij, “sulla soppressione dei monumenti eretti in onore dello Zar e dei suoi servi e sulla produzione di progetti di monumenti alla rivoluzione socialista russa”, decreto facente parte del piano leniniano per la pro-paganda monumentale. Per Lenin era infatti necessario accompagnare gli atti rivoluzionari destinati alle grandi modificazioni sociali con atti a contenuto ideologico, capaci, attraverso la rappresentazione esteriore e simbolica degli eventi e delle personalità legate alla rivoluzione e in generale all’avvento del socialismo, di attivare nuove forme di mobi-litazione intellettuale. Si tratta di innalzare monumenti, oltre che ai maggiori personaggi del socialismo storico, a personalità della cultura e delle scienze, anche e forse soprattutto per spezzare quello che fino a questo momento è sembrato una sorta di boicottaggio verso la classe politica al potere da parte della intellingencija. Bisognava quindi creare statue, lapidi e slogan politici, la cui inaugurazione sarebbe stata accom-pagnata da manifestazioni artistiche come la pittura, l’architettura, la scultura e la musica negli spazi urbani.Le prime opere monumentali presentate erano ancora legate a lin-guaggi tradizionali, ad esempio busti su semplici piedistalli, come il mo-numento ai Caduti della Rivoluzione presentato nel 1919 da Rudnev, un architetto accademico, oppure erano una commistione di due lin-guaggi diversi, come il monumento a Karl Marx del 1920, in cui la raffi-gurazione del filosofo è un busto tradizionale realizzato dallo scultore S. Alešin, mentre la base è caratterizzata dal plasticismo cubofuturista dei suoi autori, i fratelli Aleksandr e Viktor Vesnin.Ma l’opera più innovativa di tutte è il monumento alla Terza Internazio-nale presentato nel 1919 da Vladimir Tatlin.

VLADIMIR EVGRAFOVIČ TATLIN (1885 – 1953) si era formato come pittore di icone tra l’Impsa e l’Istituto d’Arte di Penza; successivamente lavorò come marinaio e carpentiere. In un suo viaggio a Parigi nel 1914 visitò l’atelier di Picasso, dalla cui opera venne molto influenzato. Tatlin infatti iniziò ad abbandonare la pittura per dedicarsi alla scultura con materiali poveri, come legno, corde e metallo, giungendo alla produzio-ne di “rilievi”, esposti alla mostra 0,10 del 1915, che dimostrano la sua tensione verso l’astrattismo: i suoi rilievi, infatti, non rappresentano al-cun oggetto reale, ma sono composizioni di materiali che mantengono la loro consistenza fisica, senza trasformarsi in nuove metafore della realtà. Successivamente Tatlin si allontanò da questo uso manuale dei materiali per impiegarli invece in modo più ingegneristico: nasce così il suo Monumento alla Terza Internazionale, del 1919.Questa altissima torre, concepita in acciaio e vetro, era stata da lui in-tesa come una gigantesca emittente, un luogo di riunioni per decisioni politiche, soprattutto come un enorme monumento allo scambio di informazioni e alla comunicazione in generale. Dopo i bozzetti prepa-ratori del 1919, nel 1920 il modello di legno, alto 7 metri, era pronto, chiaramente ispirato alla Torre di Babele di Bruegel, luogo di scambio delle lingue. Tatlin fu probabilmente ispirato anche dalla Colonna di Traiano, come oggetto in cui si inscrive la storia e da altri esempi

Disegno prospettico del Monumento alla Terza Internazionale, V. Tatlin, 1919

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orientali di obelischi a forma di spirale. La forma di spirale ha sempre rappresentato un buon simbolo dell’evoluzione umana: una linea non retta, ma tortuosa, eppure rivolta in modo sicuro verso l’alto. Alla sommità della torre sarebbe stato posto uno stendardo con su questa esortazione: “Ingegneri, create forme nuove”.Concepita come una metafora del dinamismo e del materialismo dia-lettico, fondamenti del pensiero di Marx, la base della grande torre, avrebbe dovuto ruotare di un grado ogni ventiquattro ore. All’inter-no della costruzione spiraliforme erano previste tre sale con forme geometriche pure, completamente in vetro, per non interrompere il movimento della spirale, e anch’esse erano dotate di particolari movi-menti permessi da speciali meccanismi, a differenti velocità. “La sala che si muove più lentamente, dal volume cubico, ruota attorno al proprio asse una volta all’anno ed è destinata alle attività legislative. […] Una seconda sala, piramidale, ruota attorno a se stessa al tirmo di una volta al mese ed è destinata a funzioni esecutive (Comitato esecutivo dell’In-ternazionale, Segretariato e altri organi amministrativi). Infine il cilindro posto più in alto, che ruota alla velocità di un giro al giorno, contiene i centri d’informazione: un ufficio, un centro per la stampa, una tipogra-fia per proclami, opuscoli, manifesti – in una parola l’intera gamma dei mezzi destinati a diffondere l’informazione al mondo del proletariato, proiezioni di film su un grande schermo […], così come una stazione-radio con le sue antenne che svettano al di sopra del monumento.” (Nikolaij Punin, 1920).La torre prevedeva anche un sistema di proiezioni luminose colorate sulla volta celeste che l’avrebbe prolungata idealmente nel cielo: tale accorgimento completa l’idea universale che attraverso la torre Tatlin voleva trasmettere. Infatti la torre era anche un modello metaforico totale del globo terrestre, in quanto la sua altezza è una frazione esat-ta del meridiano terrestre, la sua inclinazione è la medesima dell’asse terrestre, e gli elementi trasparenti al suo interno, come abbiamo visto, ruotano con tempi diversi mimando la divisione cronologica del tempo terrestre.Nel modello che Tatlin realizza in legno, vediamo che la figura più in basso non è più un cubo, ma un cilindro: questo indica come il lavoro di Tatlin sia sempre in divenire. Da un lato, in questa opera, possiamo notare la continuità con i suoi controrilievi, in quanto riscontriamo un analogo senso di dinamicità, di proiezione nello spazio, di concretezza fisica dell’opera; dall’altro lato, si nota il grande passo avanti fatto dalla sua produzione precedente, ancora prettamente artistica, verso questa costruzione che contemporaneamente esprime un forte valore simbo-lico, assolve a funzioni pratiche e si proietta nello spazio anche per il ruolo effettivo di trasmittente-radio dell’informazione.

Legati alla concezione costruttivista di impegno attivo nella rivoluzione sono anche i produttivisti Aleksandr Rodčenko e Varvara Stepanova, che redigeranno il manifesto del loro gruppo nel 1920, e l’architetto Alekseij Gan, che descriverà le idee del gruppo costruttivista nel suo libro Costruttivismo, nel 1922. Si distanziano invece da Tatlin i fratelli Naum Gabo e Antoine Pevsner, che redigono il manifesto del Realismo nell’agosto 1920, contrapponendo al Costruttivismo di natura “prati-ca” di Tatlin la loro concezione “estetica”. Negli anni successivi si for-meranno altri gruppi di architetti costruttivisti, fra cui l’OSA nel 1925, contrapposto all’ASNOVA, nato nel 1923.

Modello in legno del Monumento alla Terza Internazionale, V. Tatlin, 1919

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I primi gruppi costruttivisti si formano all’interno dell’Inchuk, istituto dell’Izo nato nel maggio del 1920 e diretto inizialmente da Kandinskij, che voleva sottoporre l’operazione artistica a un’indagine psico-fisio-logica, riconducendo a una cognizione razionale la dimensione delle emozioni e dello spirito da cui vedeva emergere i linguaggi artistici.Questo orientamento trova presto l’opposizione dei giovani aggrega-tisi intorno a Rodčenko: si forma quindi una corrente dissidente all’in-terno dell’Istituto, che si manifesta nel novembre di quello stesso anno con la costituzione ufficiale del Gruppo di lavoro di analisi oggettiva, che porterà nel gennaio 1921 alle dimissioni di Kandinskij. L’indirizzo emergente contrappone alla dimensione “artistica” del maestro, intesa in senso negativo dal gruppo in quanto legata ancora al simbolismo di fine Ottocento e al principio estetico della composizione, l’urgenza di un lavoro “costruttivo” e “progettuale”, distante da implicazioni emo-tive e spiritualistiche, in grado di essere funzionale alla realtà sociale. Tale indirizzo, che ha chiaramente le sue radici nel lavoro avviato da Tatlin sui materiali anni prima, si afferma quindi in maniera più ampia. E’ da segnalare l’attività dell’ OBMOKHU, la Società dei giovani artisti, che organizza varie mostre e di cui fanno parte i fratelli Stenberg e Meduneckij, che fondano le premesse di un linguaggio fondato su una scomposizione analitica dei mezzi figurativi e su di una ricomposizione delle figure affidata al montaggi degli elementi attorno a “nodi” della costruzione. Essi giungono quindi a produrre strutture di metallo leg-gere, aeree, collegando i vari elementi tra loro con nodi e giunti, e non tramite semplice accostamento.

Nel manifesto del gruppo produttivista, redatto da Rodčenko insieme alla sua compagna Varvara Stepanova nel 1920, vengono poste “le basi dell’espressione comunista della costruzione materialista”, che sono la tettonica, la costruzione e il prodotto. “La tettonica deriva dalla struttura stessa del comunismo e dallo sfrut-tamento effettivo del campo industriale.La costruzione, che è organizzazione, accoglie gli elementi della cosa già formulati (volume, piano, colore, spazio e luce). La costruzione è un’attività di formulazione portata all’estremo, che permette tuttavia un ulteriore lavoro tettonico.La cosa scelta e usata effettivamente, senza ostacolare il progresso della costruzione né limitare la tettonica, viene dal gruppo chiamata prodotto.”Gli elementi materiali che saranno il fine della loro indagine sono “la cosa in generale”, ci cui verrà indagata l’origine, le sue modificazioni in-dustriali e di produzione, la sua natura e il suo significato, e “i materiali razionali”, cioè la luce, il piano, lo spazio, il colore, il volume. Le loro parole d’ordine saranno:“1. Abbasso l’arte, viva la tecnica. 2. La religione è menzogna, l’arte è menzogna.3. Si uccidono anche gli ultimi resti del pensiero umano, legandolo all’arte.4. Abbasso il mantenimento delle tradizioni artistiche, viva il tecnico costruttivista.5. Abbasso l’arte, che solo maschera l’impotenza dell’umanità.6. L’arte collettiva del presente è la vita costruttiva!”

Veduta della terza esposizione Obmokhu, Mosca, 1921

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Nel suo libro Costruttivismo, Gan approfondirà il significato di queste tre discipline, affermando che con l’aiuto di esse “si può uscire dal vin-colo del professionismo estetizzante dell’arte tradizionale per imboc-care la via della realizzazione funzionale dei nuovi compiti che l’attività artistica si trova a effettuare nella sfera della cultura comunista che sta nascendo”.

Il personaggio più interessante di questo movimento, oltre a Tatlin, è ALEKSANDR RODČENKO (1891 – 1956), che sperimentò tutte le tecniche dell’arte, dalla pittura, alla costruzione di forme tridimensio-nali, al design di oggetti d’uso alla illustrazione e grafica pubblicitaria, fino alla fotografia, influenzando moltissimo il design contemporaneo. Uno dei suoi concetti più importanti è proprio questo: “E’ tempo che l’arte confluisca in maniera organizzata nella vita”.I primissimi collages di Rodčenko, realizzati adoperando caratteri ri-toccati, colla e forbici, sono frutto di una notevole abilità manuale e chiarezza di idee, ma soprattutto evidenziano le potenzialità della ma-nipolazione delle immagini. In alcuni casi Rodčenko utilizzerà il collage per le illustrazioni di libri, come, ad esempio, nelle undici tavole per il poema dell’amico Majakovskij, Pro Eto, “di questo”, del 1923. Rodčenko si diverte nell’illustrare le acrobazie verbali e le ambiguità semantiche di Majakovskij, ricorrendo a invenzioni che rimandano al disordine dada e futurista, ma anche abbandonandosi al suo instancabile senso ludico. Egli passerà in seguito dal cubofuturismo iniziale al costruttivi-smo, divenendone il maggiore esponente. Nella sua opera costruttivi-sta prevarrà la linea grafica, più che il colore. La linea è l’elemento che definisce la struttura di base dei suoi lavori, come egli spiegò nel suo saggio sulla linea del 1919: “La linea definisce l’intera costruzione nel suo insieme, in quanto ne definisce le caratteristiche generali. In que-sto caso, la linea è scheletro, rapporto tra i diversi piani”. Durante tutta la sua attività, egli continuò a cercare nuovi percorsi creativi, ma anche l’attività più artistica si riflette nei lavori di grafica, in particolare nei manifesti; e nella grafica applicata alla pubblicità com-paiono sempre elementi dinamici – il segno della freccia, ad esempio – che indicano a chi guarda qual è la parola da memorizzare, o guidano la lettura, oppure segnalano la direzione tensionale della composizio-ne.Rifacendosi a processi tipografici precedenti alla rivoluzione (inclusi al-cuni manifesti cinematografici), Rodčenko recupera le scritte collocate in diagonale, i punti esclamativi ripetuti e i caratteri tipografici contra-stanti come strumenti da trasferire nei manifesti pubblicitari.Negli anni Venti egli allarga i suoi interessi anche ad altri ambiti, fra cui la progettazione di scenografie per spettacoli, chioschi per comizi pub-blici, design di libri, d’interni, di abiti e perfino di alcuni giochi.La sua attività di fotografo fu molto importante. Egli scopre la forza di impatto della fotografia come mezzo espressivo, rendendosi conto della debolezza degli espedienti, come il fotomontaggio e la manipo-lazione in camera oscura, che erano comunque molto efficaci nella comunicazione. Egli si accostò alla fotografia applicata dopo la serie di fotomontaggi del 1923, in cui si serviva di immagini riprese da altri. La sua arte fotografica si muove tra fotodinamismo futurista, dada, sur-realismo, costruttivismo. Una nuova esperienza, la prima in fotografia, è la realizzazione delle copertine per la rivista “LEF” , “Fronte di sinistra delle arti”. In una di queste copertine, del 1923, Rodčenko compone

Copertina e illustrazione per Pro Eto di V. Majakovskij, A. Rodčenko, 1923

Manifesto pubblicitario sigarette Cer-vonets, V. Majakovskij, A. Rodčenko, 1923

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in un fotomontaggio l’immagine di una macchina per scrivere e, in pri-mo piano, una macchina fotografica e un obiettivo: sono gli strumenti che sintetizzano la rivoluzione della comunicazione.“Era la tecnica che mi appassionava e presi a fare esperimenti senza uscire di casa. Nacque così la serie ‘vetro e luce’ e i balconi fotografati dall’alto in basso e viceversa. Il caso volle, dunque, che fossi io a segna-re l’inizio della nuova fotografia in URSS.”Il punto di vista volutamente ardito è una costante nella produzione fotografica di Rodčenko: egli inquadra i suoi soggetti dall’alto o dal basso, rispetto alla normalità della inquadratura che lui definisce “ri-presa ombelicale”, obbligata dall’utilizzo di apparecchi medio formato di tipo Rolleiflex, con mirino a pozzetto. Le sue immagini sono rese dinamiche dalla vistosa inclinazione dell’asse di inquadratura: la mac-china fotografica, posta obliquamente, isola ed evidenzia linee sfuggenti, curve, diagonali, asimmetrie, cogliendo le forme del mondo da ango-lazioni inconsuete, capaci di sorprendere e disorientare l’osservatore. In alcune delle sue foto più conosciute, come la scalinata o “Ragazza con Leica”, risulta particolarmente evidente l’uso intensamente grafico delle ombre, chiuse e nette come fossero tracciate a china, eredità del rigore geometrico e compositivo che gli fu proprio fin dai primi quadri astratti creati in seno al Suprematismo.

Si distanziano invece dalle idee di Tatlin e degli altri costruttivisti legati alla “pratica” e alla propaganda rivoluzionaria i fratelli NAUM GABO (1890 – 1977) e ANTOINE PEVSNER (1884 – 1962), che redigono nel-l’agosto 1920 il loro manifesto del ‘realismo’, sancendo la loro idea di costruttivismo, mirata a superare l’arte del passato, che non è più fun-zionale al presente,e a sviluppare una ricerca nell’ambito della scultura e dei materiali, unendo ricerca estetica e ricerca scientifica: “L’attuazio-ne delle nostre percezioni del mondo sotto forma di spazio e tempo è l’unico fine della nostra arte plastica.[…] Col filo a piombo in mano, con gli occhi infallibili come dominatori, con uno spirito esatto come un compasso noi edifichiamo la nostra opera come l’ingegnere co-struisce i ponti, come il matematico elabora le formule delle orbite”.Le costruzioni plastiche di Gabo e Pevsner non sono propriamente sculture, perché implicano l’intenzione di annullare il concetto stesso di scultura come disciplina tradizionalmente definita da certi scopi, certi procedimenti, certi materiali. Più radicalmente ancora, essi nega-no la scultura come forma chiusa, massiva, che, collocandosi nello spa-zio, ne interrompe la continuità e lo definisce in rapporto a se stessa, come vuoto rispetto a pieno. I due fratelli, seppur condividendo sostanzialmente lo stesso indirizzo, avranno un diverso destino: Pevsner, a Parigi, sottolinea l’aspetto arti-stico del suo lavoro servendosi di materiali tradizionali come il bronzo, trattandoli con procedimenti tradizionali, sforzandosi di recuperare un’unità plastica, di dedurre dal disegno geometrico creato dai filamen-ti metallici una possibilità di ambientamento dell’oggetto plastico nella luce e nell’atmosfera. Gabo, in America, opera invece in un ambiente tecnologicamente più avanzato, servendosi di materiali prodotti dal-l’industria, come il perspex, volendo così dimostrare come le tecniche industriali sono le sole che possano permettere di realizzare tutto ciò che crea l’immaginazione.Entrambi immaginarono un possibile sviluppo cinetico delle loro scul-ture: nel tempo in cui i valori andavano velocemente cambiando e si

Ragazza con Leica, A. Rodčenko, 1926

Croce ancorata, A. Pevsner, 1933

Costruzione spaziale con cristallo al cento, Naum Gabo, 1938

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voleva lasciare ogni vecchia forma d’arte celebrativa, l’opera poteva abbandonare la sua staticità e contenere dispositivi che ne consentis-sero il movimento. Loro ispirazioni in questa ricerca furono appunto Duchamp e i Futuristi italiani; le forme che scaturiscono sono linee che si spiegano nello spazio e che, anche quando non sono munite di movimento interno reale, suggeriscono il movimento agli occhi di chi le percepisce.

Altri gruppi che appartengono al Costruttivismo sono l’OSA, Società degli Architetti Contemporanei, fondata nel 1925 da Ginzburg, Burov, Orlov, i fratelli Vesnin e altri. Presieduta da Aleksandr Vesnin, affian-cato da Ginzburg in veste di presidente e da Orlov come segretario, l’OSA nel 1926 pubblica un suo bimensile, Sovremennaja Arkitektura, “Architettura contemporanea”, che per vari anni avrebbe costituito la voce del gruppo. Il suo scopo era ottenere e affermare, attraverso la pubblicazione di interventi teorici, scritti soprattutto da Ginzburg, di polemiche e progetti, i principi e i metodi del movimento: il rifiuto dell’arte, innanzitutto, a favore di un’architettura intesa come “costru-zione materiale” del socialismo; la sperimentazione e l’adozione della tecnologia edilizia più recente; l’analisi della nuova società sovietica e, su questa base, la proposta di nuove forme di vita ad essa coerenti. Un’architettura intesa quindi come “tecnica sociale” oltre che costrut-tiva; un’architettura che avrebbe dovuto trovare il proprio ruolo so-prattutto nella definizione di nuovi tipi edilizi socialisti: la casa collettiva, il club operaio, e gli altri “nuovi condensatori sociali del nostro tem-po”, capaci di riflettere e di modellare inediti comportamenti di massa. Un’architettura quindi ostile non solo alla produzione conservatrice degli accademici, ma anche all’ala formalista delle avanguardie, la quale era impegnata soprattutto sul fronte del linguaggio e rappresentata da Ladovskij e dal gruppo di architetti e artisti attivi con lui nella Facoltà di architettura di Vchutemas, che si riuniranno nel 1923 nell’ASNOVA, Associazione dei Nuovi Architetti. Gli architetti dell’ASNOVA soste-nevano la necessità di evidenziare le qualità emozionali ed estetiche delle forme architettoniche, senza rifiutare le concezioni classiche del-la costruzione ed il progetto urbanistico come incontro tra struttura e sistema di percezione sensoriale attraverso la vista. Ladovskij sottoli-neava inoltre l’importanza di unire, nella formulazione di nuove linee, la fantasia e l’intuizione alla percezione degli elementi nella composizione spaziale.

EL LISSITZKIJ (Lazare Mordukhovič Lissitzkij, 1890 – 1941) fu un’altra delle personalità poliedriche del periodo rivoluzionario, muovendosi tra suprematismo (che influenzò soprattutto il primo periodo della sua produzione) e costruttivismo.Nei manifesti e nei disegni di El Lissitzkij dal 1920 i principi costruttivi-sti appaiono filtrati da una più densa qualità pittorica, che per un verso rende dinamico e ramificato lo spazio della comunicazione, e per un altro disvela la trama più segreta dei suoi elementi strutturali.Nel famosissimo manifesto ‘Insinua nei bianchi il cuneo rosso’, del 1919, il messaggio politico è condensato in poche figure geometriche elementari, distribuite sul foglio secondo un ordine apparentemente casuale, ma costruito invece secondo raffinati criteri di logica visiva. Egli rappresenta simbolicamente la guerra civile fra lo schieramento dei ‘rossi’, cioè dei socialisti, e dei ‘bianchi’, che erano i monarchici,

Insinua nei bianchi il cuneo rosso, El Lissitzkij, 1919

Progetto per il Palazzo del Lavoro a Mosca, A. e V. Vesnin, 1923

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conservatori, liberali e socialisti che si opponevano alla rivoluzio-ne bolscevica. L’immagine del cuneo rosso che si insinua nella forma bianca, così semplice com’è, comunica un messaggio molto forte che non lascia alcun dubbio all’osservatore su quale sia l’intenzione di tale messaggio da parte dell’autore. Il manifesto viene spesso visto come allusione alle forme simili che vengono utilizzate sulle mappe militari e, insieme al suo simbolismo politico, è stato uno dei più importanti passi dell’allontanamento dal suprematismo non oggettivo di Malevič in un suo stile personale. El Lissitzky disse: “L’artista costruisce un nuovo simbolo con il suo pennello. Questo simbolo non è una forma rico-noscibile, legata a qualcosa di già finito, già compiuto, già esistente nel mondo: è un simbolo di un nuovo mondo, che si inizia a costruire su di esso e che esiste a prescindere dall’esistenza degli uomini”. La stessa misuratissima composizione caratterizza i suoi stessi pro-getti architettonici e tutta la serie dei Proun, i dipinti nei quali El Lissi-tzkij rappresentò l’idea di una “affermazione del nuovo” espressa nel-l’articolazione di pochi elementi sostanzialmente grafici. Si avverte, in queste opere, l’influenza del Suprematismo, corretto però dal forte richiamo alla funzionalità strutturale delle immagini che era proprio del Costruttivismo. El Lissitzkij espande così la ricerca prettamente bidimensionale del Su-prematismo con un avvicinamento alla tridimensionalità architettoni-ca. L’artista si dedicherà ai Proun per circa mezzo decennio, facendoli evolvere da dipinti bidimensionali e litografie in installazioni tridimen-sionali vere e proprie, che saranno l’avvio per i suoi successivi esperi-menti architettonici e di design.Il concetto basilare dello spazio grafico resta quello intuito dal Fu-turismo italiano, come è evidente in questa riflessione di El Lissitzkij sulla tipografia: “La messa in forma dello spazio del libro attraverso gli elementi del discorso che obbediscono alle leggi della tipografia, deve rispondere alle tensioni del contenuto in direzione e pressione […] La plastica tipografica deve ottenere, attraverso la sua ottica, ciò che la voce e il gesto del lettore realizzano attraverso il pensiero.”Nel 1922 si reca a Berlino, assumendo l’incarico di rappresentante del-la cultura russa, stabilendo contatti tra gli artisti russi e tedeschi. Iniziò anche a lavorare come scrittore e grafico per riviste internazionali e giornali, promuovendo contemporaneamente l’avanguardia tramite va-rie mostre. E’ qui che dà vita al periodico di breve vita VEŠČ-GEGEN-STAND-OBJET, “Oggetto”, con testi in russo, tedesco e francese. La rivista aveva come scopo la diffusione dell’arte contemporanea russa nell’Europa occidentale, focalizzando maggiormente l’attenzione sulle opere degli artisti suprematisti e costruttivisti. Sul primo numero, El Lissitzkij scrive: “Consideriamo il trionfo del metodo costruttivista che sarà essenziale per il nostro presente. Non lo ritroviamo solo nella nuova economia e nello sviluppo dell’industria, ma anche nella psicolo-gia delle nostre arti contemporanee. Vešč sarà un campionario di arte costruttivista, la cui missione non è abbellire la vita, ma organizzarla”.Durante la sua permanenza in Germania, sviluppò ulteriormente la sua carriera come grafico, lavorando a alcuni progetti storici, fra cui il libro Per la voce, una collezione di poesie di Vladimir Majakovskij, e il libro L’Artismo, insieme a Jean Arp. Qui conobbe e divenne amico di molti altri artisti dell’avanguardia dell’Europa occidentale, fra cui Kurt Schwitters, László Moholy-Nagy, e Theo van Doesburg, rispettivamen-te esponenti del dadaismo, del Bauhaus e del Neoplasticismo.

Proun, El Lissitzkij, 1924 - 1925

Prima pagina del n.1-2 di Vešč, El Lissitzkij, 1922

Grafica interna del libro Per la voce di V. Majakovskij, El Lissitzkij, 1923

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Dopo un anno passato in Svizzera, per curare la sua tubercolosi, e durante il quale lavorò come pubblicitario per le industrie Pelikan e continuò i suoi esperimenti tipografici e fotografici, nel 1925 fa ritor-no in Russia, dove si dedica all’insegnamento di architettura e design d’interni al VKhUTEMAS (Laboratorio Statale Superiore di Arte e Tec-nica), fino al 1930. Negli anni al VKhUTEMAS, El Lissitzkij abbandona i Proun e diventa sempre più attivo dell’architettura e nella propaganda. Nel 1926, con la collaborazione dell’architetto Mart Stam progetta la Wolkenbügel, la “nuvola di ferro”, un grande grattacielo che non si estende moltissimo in altezza, in contrasto con i sempre più alti grat-tacieli americani del tempo. Questo edificio rappresenta un confronto diretto tra un oggetto architettonico e lo spazio urbano nella sua con-cretezza materiale, in quanto Lissitzkij vuole collocare vari esemplari di questo grattacielo in alcuni punti specifici di Mosca, nella piazza Nikickij e in corrispondenza degli incroci tra le radiali extraurbane e l’anello di circonvallazione dei boulevards, secondo un’idea tipicamente metro-politana, di superdotazione di servizi, della città. Nel progetto Lissitzkij si fece aiutare dall’ingegnere Emil Roth, per la risoluzione di problemi di carattere strutturale, Roth studiò un particolare tipo di struttura, il telaio a portale, che è oggetto di interesse per il razionalismo europeo di quel periodo. Nel progetto di Lissitzkij il modulo-telaio, in acciaio, e non in cemento, è riconoscibile solo in una parte del progetto, dove sono allineate due delle tre “zampe” d’appoggio (la terza forma una struttura a stampella a sé stante). Questo edificio, come moltissimi altri dei progetti dei costruttivisti, non è mai stato realizzato.Oltre all’architettura, Lissitzkij si dedicherà alla progettazione di chio-schi per comizi, come la tribuna di Lenin del 1920 circa, e alla pro-gettazione dei padiglioni per la Russia nelle esposizioni internazionali. Nel frattempo continuavano i suoi esperimenti tipografici, sulla pro-gettazione grafica di periodici e in particolare di libri, i quali erano, “in contrasto con la vecchia arte monumentale” e “andavano direttamente nelle mani del popolo, e non stavano fermi come delle cattedrali atten-dendo che qualcuno vi si avvicini…[…]sono i monumenti del futuro”. Egli percepiva il libro come un oggetto destinato a durare a lungo, inve-stito di grande potere. Un potere unico, in quanto poteva trasmettere idee a persone di epoche, culture, e interessi diversi, in maniere che non potevano essere perseguite dalle altre arti. Questo rappresentò l’ambizione che pervase tutti i suoi lavori, particolarmente negli ultimi anni di vita. Lissitzkij era devoto a un’idea di una creazione artistica con una grande forza e uno scopo, un’arte che potesse invocare un cambiamento.

IL TEATRO: MEYERHOLD E LA BIOMECCANICA DELL’ATTORE

Subito dopo la rivoluzione comunista, il teatro si rinnova profonda-mente sotto la guida del regista Vsevolod Meyerhold che, nel 1920, proclama l’Ottobre teatrale, la rivoluzione del teatro. L’incontro fra le avanguardie artistiche futuriste e quelle politiche comuniste provoca modifiche profonde: dal teatro spariscono i fondali e i mantelli d’ar-lecchino; sulla scena trionfano i materiali grezzi, le macchine nude, le tute degli operai; nelle vicende scompare la psicologia e si afferma la rappresentazione realistica o allegorica dei conflitti di classe.

Progetto per la tribuna di Lenin,El Lissitzkij, 1920

Progetto per la Wolkenbügel,El Lissitzkij, 1920

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VSEVOLOD EMIL’EVIČ MEYERHOLD (1874 – 1940) esordisce nella compagnia del Teatro d’Arte di Mosca, che all’epoca era guidata da Stanislavskij e Vladimir Nemirovič-Dančenko, per poi passare alla regia nell’ambito di una propria formazione che fa il giro dei piccoli teatri della provincia russa. Nel 1905 decide di tornare a Mosca al Teatro del-l’Arte, da Stanislavskij, il quale organizza una nuova compagnia diretta dallo stesso abile Meyerhold. Lavora con la sua compagnia anche a Pietroburgo, dove si divide tra i due teatri imperiali, l’Aleksandriskij e il Teatro Mariinskij, in cui porta in scena spettacoli di prosa e di teatro musicale.Nel 1917 lascia i teatri imperiali e lavora nella sezione teatrale del Commissariato per l’Istruzione. La sua poetica è profondamente con-dizionata: nel 1921 fonda a Mosca un nuovo teatro, il Teatr RSFSR 1, che prenderà il suo nome dal 1923, dove rivisita in chiave rivoluziona-ria molti classici del teatro russo ed europeo, fra cui: Albe di Verhaeren, nel 1921; Mistero-Buffo di Majakovskij, nel 1921, opera del 1918, in cui vi è una contaminazione tra il “mistero” religioso medievale e le buf-fonate dei teatri popolari, con esiti grotteschi ed allegorici; Il revisore di Gogol’, nel 1926; Che disgrazia l’ingegno di Griboedov, nel 1928; e altre due opere di Majakovskij, La cimice e Il bagno, del 1928 e 1929, che però saranno accolte con diffidenza dalla critica, ormai sempre più tesa verso la prossima politica assolutista e contro le avanguardie e il libero pensiero che esse esprimevano, che sarà imposta da Stalin.

A Meyerhold si devono la ricerca e le regole nel campo della biomec-canica dell’attore, che condizioneranno il lavoro dell’attore per sem-pre. La biomeccanica è un “sistema di allenamento globale dell’attore”, in funzione di un momento successivo, che è appunto la recitazione vera e propria. La biomeccanica mette in primo piano la comprensione psico-fisiologica dell’attore: prima di padroneggiare gli strumenti e gli oggetti scenici, il performer deve conoscere il linguaggio del proprio corpo, così come per una lingua va prima imparato l’alfabeto e poi si possono usare le lettere per comporre parole e frasi. Essa è una vera e propria scienza del corpo, in cui “l’attore è il meccanico e il corpo la macchina su cui deve lavorare”.La preparazione che Meyerhold studia per gli attori prevede una solle-citazione massima dei riflessi corporei, riducendo al minimo il proces-so cosciente, cercando di arrivare a un punto in cui agisce in un flus-so quasi incosciente. Nella prima fase di questa preparazione, l’attore costruisce una “partitura fisica”, cioè organizza i propri movimenti sul palco, cercando di evitare gesti superflui che lo possono confondere o distrarre, e controllando le proprie emozioni. Si parte dai piedi, in-ventando una camminata, che man mano che la preparazione va avanti, assumerà un ritmo sempre più preciso, e variato, da creare una vera e propria danza. Alla camminata l’attore aggiungerà successivamente nuovi elementi come il movimento di braccia e mani, rendendo sem-pre più chiari l’inizio e la fine della sua azione, e definendo lo spazio soggettivo, cioè lo spazio in cui agisce in quella data situazione. Nella seconda fase, l’attore, dopo aver stabilito il ritmo della sua recitazione attraverso i movimenti del corpo, deve riuscire a mantenere la con-centrazione lungo l’arco di tutta l’azione, controllando in maniera co-sciente ogni suo movimento. Grazie al controllo dei movimenti, egli è libero di lasciar andare le emozioni che riempiranno di vita la sequenza di movimenti.

Installazione per Mistero buffo di V. Majakovskij, V. Meyerhold, 1921

Installazione per Albe di Verhaeren, , V. Meyerhold, 1920

Installazione per Che disgrazia l’inge-gno di Griboedov, V. Meyerhold, 1928

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Per poter preparare il proprio corpo a un livello di recitazione più complesso, Meyerhold strutturò per i suoi attori un complesso siste-ma di allenamento per sviluppare al massimo l’espressività del corpo. Il livello più avanzato di tale allenamento è l’étude, una macro partitura fisica codificata avente un tema. Meyerhold studiò più di 150 études, dalla forma estetica particolare e varia. Ogni étude inizia e finisce con un movimento caratterizzato da un ritmo ternario: il “daktil”. Così come il verso degli antichi greci, costituito da un piede lungo e due piedi brevi, questa azione codificata da Meyerhold è composta da una fase con un ritmo “lungo”, in cui il corpo è alla massima estensione, seguito da due movimenti brevi, uguali, dove il corpo si raggruppa e si distende. Questo movimento apre e chiude ogni étude ed ha la funzione importante negli études di coppia di sincronizzare gli attori e dare loro un ritmo comune, mentre negli études singoli ha la funzione di dettare al performer un ritmo interiore preciso, cosa fondamentale perché egli successivamente, nella fase dell’azione vera e propria, sia capace di liberare la sua immaginazione e creare l’”obraz”, l’atmosfera poetica.

IL CINEMA: NASCITA DEL CINEMA D’AVANGUARDIA

Negli anni tra il 1918 e il 1921, il cinema russo sparì, a causa della pe-nuria di pellicola che si abbatté sull’intero Paese, in quanto l’impresa francese Pathé e la tedesca Agfa, durante la prima guerra mondiale, avevano limitato le loro esportazioni. Inoltre le case di produzione, che erano concentrate a Mosca, avevano abbandonato tale attività, man-cavano quindi anche le macchine necessarie alle riprese. nonostante ciò vengono messe in atto alcune iniziative di propaganda sfruttando i vecchi film e i cinegiornali girati con la pellicola rimasta, che venivano mostrati in tutto il territorio russo grazie al “treno Lenin della propa-ganda”, organizzao dal Comitato del Cinema nel 1918, che ospitava nei loro vagoni una tipografia, una scuola per l’alfabetizzazione, una biblio-teca di 7000 volumi, la redazione di un giornale quotidiano oltre a una strumentazione cinematografica completa, con proiettori, laboratori di sviluppo e di stampa, sale di montaggio. Molti dei vecchi tecnici e registi avevano lasciato la Russia: fu così che si fece sempre più spazio la nuova generazione di registi e montatori.Anatolij Lunačarskij, alla guida del Commissariato popolare per l’istru-zione, fu affidata la responsabilità del settore cinematografico, del quale incoraggiò la ripresa, anche grazie alla fondazione di una “Scuola d’Arte Cinematografica”, il VGIK, alla cui direzione viene posto Lev Kulešov.

LEV KULEŠOV (1899 – 1970) è conosciuto soprattutto come pioniere della scuola sovietica di montaggio. Nei suoi anni al VGIK, egli crea un laboratorio che sperimenta il montaggio cinematografico con modalità quasi scientifiche. Il più famoso esperimento da lui ideato è il cosid-detto “effetto Kulešov”: da un vecchio film dell’epoca zarista, egli sce-glie un grosso primo piano sul viso, abbastanza inespressivo, dell’attore principale, che replica in tre esemplari. Al primo piano dell’attore con un’espressione neutra vengono alternate immagini differenti, come un piatto di minestra, un cadavere disteso, una donna nuda, ecc. Egli verifi-cò che il pubblico leggeva i vari primi piani dell’attore, in realtà identici, come espressioni di differenti sensazioni: fame, tristezza, eccitazione. Così si dimostrava che il montaggio di due inquadrature crea un

Carrozza del treno di propaganda, 1918 - 1919

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terzo concetto, che non era presente sulla pellicola, ma si formava nella mente dello spettatore: la risposta del pubblico dipendeva più dal montaggio che dalle singole inquadrature.

Il nascente cinema sovietico è terreno fertile per le più svariate con-cezioni innovative, nonostante la produzione di film d’avanguardia sarà comunque in quantità minore rispetto alla produzione di commedie e film frutto di adattamenti dalla letteratura. Le linee ispiratrici del cine-ma d’avanguardia saranno essenzialmente due: quella della FEKS, “Fab-brica degli Attori Eccentrici”, un movimento d’avanguardia capeggiato da Grigorij M. Kozinčev e Leonid Z. Trauberg, che “rifiuta e svilisce la letteratura e il teatro, contrapponendo il cinema”, e quella di Dziga Vertov che “rifiuta e svilisce il cinema d’arte, contrapponendo la cro-naca filmata: il cinema come arte della vita.

GRIGORIJ KOZINČEV(1905 – 1973) e LEONID TRAUBERG (1902 – 1990) cercano, nelle loro regie, di individuare una “specificità cine-matografica” priva di punti di contatto con letteratura e teatro. Ed è proprio il cinema americano (soprattutto il film comico), introdotto nel Paese da Lenin, a fornire gli spunti per lo sviluppo di nuove tecniche di ripresa e prospettive di montaggio.

DZIGA VERTOV, pseudonimo di Denis Arkadevič Kaufman (1896 – 1954), studente di medicina, scrittore di poesie e libri di fantascienza, nel 1924 cominciò a realizzare i primi documentari, di cui divenne uno dei maestri del secolo. Nel 1922 fonda il gruppo dei kinoki, “cine-oc-chi”, e dà vita al cinegiornale “Kino-pravda”, “cinema-verità”, in cui ap-plica la sua tecnica di montaggio sperimentale attraverso la quale egli cerca di cogliere in modo militante la realtà sovietica. Secondo Vertov, la macchina da presa doveva riprendere la vita “al volo”: non contava tanto quello che si riprendeva, ma la maniera come si legavano tra loro i “cinefatti”. Egli era convinto che il montaggio potesse conferire un’enorme forza pubblicitaria ed emotiva alla realtà della cronaca.Tutto il complesso teorico e la genialità di Dziga Vertov (che in realtà in russo significa “trottola roteante”), sono riassunte in quella che è la sua opera più famosa, L’uomo con la macchina da presa, del 1929. In questo film egli raccoglie l’esperienza di anni di documentari propagandistici, le sue radici futuriste, le sue teorie secondo le quali il cinema deve essere uno strumento a servizio del popolo e della sua formazione comunista, e sublima il tutto in un’opera tecnicamente all’avanguardia.Nel film viene rappresentata la giornata, dall’alba al tramonto, di un cineoperatore che riprende per lo più scene di vita quotidiana per le strade di Odessa, e che ci mostra anche la sua arditezza alla ricerca di inquadrature a sensazione, sopra, sotto o a fianco di treni in corsa. Il film si apre con il totale di una sala cinematografica che da vuota si riempie in un attimo. La stessa sala si rivede in chiusura del film, dopo una sequenza in cui la macchina da presa ha cominciato a muoversi da sola sul treppiedi, senza operatore, e prima di vedere la facciata del Teatro Bolshoij frantumarsi grazie a un effetto ottico.Nel film viene mostrata, tramite le sole immagini variamente montate, senza l’ausilio di alcuna didascalia(come spiega il regista nei titoli iniziali del film), la vita quotidiana degli operai nelle fabbriche, dei minatori, il risveglio di una giovane donna, un parto in casa, la strada e il movimen-to dei tram, i bambini che giocano sulle giostre, una esibizione di

Locandina del Kino-Pravda di D. Vertov, grafica di A. Rodcenko, 1922

Locandina de L’uomo con la macchina da presa di D. Vertov, 1922

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danza, il tutto raccontato esibendo tutto ciò che l’inventiva e lo slancio sperimentale dell’epoca potessero esprimere. Doppie esposizioni, salti di scena, carrellate, riprese oblique, primissimi piani, split screen (la partizione dello schermo in più immagini contemporaneamente, per dare alla messa in scena una tensione più dinamica), fast motion, slow motion, fermofotogramma (una tecnica di montaggio grazie alla quale l’ultimo fotogramma di un’inquadratura viene ristampato più volte in modo da ottenere sullo schermo un’immagine immobile, come se si trattasse di una fotografia), e altro ancora, tutto completato anche dal documento delle spericolatezze effettuate dallo stesso operatore per la realizzazione di riprese bizzarre ed originali, operatore che è il vero oggetto dell’indagine dell’occhio scrutatore della cinepresa, che lo filma mentre si sposta, sistema i suoi attrezzi, o filma ciò che avvie-ne davanti ai suoi occhi. Un caso di cinema nel cinema che permette all’avanguardia di esprimere sé stessa, e al contempo di documentare la sua tecnica.

Uno dei tre personaggi più importanti per il cinema sovietico degli anni della rivoluzione è SERGEIJ EJZENŠTEJN (1898 – 1948). Egli si avvicina al cinema nel 1923, dopo aver lavorato in ambito teatrale come scenografo e regista, anche con Meyerhold. Nel 1925 realizza il suo primo lungometraggio, Sciopero, che portava sullo schermo le sue teorizzazioni sul montaggio, e il suo film più conosciuto, La corazzata Potemkin.Nei suoi film non ci sono singoli eroi protagonisti, ma sono la “massa”. La tensione drammaturgica non è basata sulla fluidità del racconto, ma sul suo dinamismo, reso soprattutto attraverso il montaggio. Le inquadrature, in numero elevatissimo, sono giustapposte in maniera netta, forte. Una stessa azione, anche semplice, è spesso ripresa da più punti di vista, per enfatizzarla. Mentre il montaggio tradizionale voleva garantire l’illusione della continuità temporale, Ejzenštein ripeteva più volte una stessa azione, dilatando il tempo (“overlapping editing”). In altri casi “saltava” delle inquadrature che sarebbero state necessarie per garantire la continuità, allo scopo di obbligare il pubblico a immagi-nare cosa era accaduto tra una inquadratura e l’altra (“jump cutting”). Per Ejzenštein le inquadrature non dovevano seguire l’una all’altra per chiarezza, ma al contrario dovevano essere poste in conflitto, ripro-ducendo così la realtà, che non è fluida, ma piena di contraddizioni e di scontri (di idee, di classi, di aspirazioni ecc). I ritmi sono molto rapidi, e allo scopo utilizza inquadrature da 1 o 2 fotogrammi. Non è interessato a spiegare o esprimere uno stato d’animo, ma a restituire la sensazione di movimento, attesa, esplosione. Lo scopo non è quello di consentire allo spettatore di seguire una storia, ma di costringere a mettere in relazione elementi diversi e quindi di ragionare. Un’altra tecnica utilizzata dal regista è quella del “montaggio delle attrazioni in-verse”, che Ejzenštein spiega con queste parole: “Il montaggio libero, di attrazioni arbitrariamente scelte, indipendenti dall’azione propriamen-te detta (scelte però, secondo la continuità logica di questa azione, che ne determina il senso), e il tutto finalizzato a creare un effetto tematico riassuntivo”. In questo tipo di montaggio, abbondano gli inserti estra-nei alla dimensione spaziale e temporale della sequenza nei quali sono accolti, ma che rimandano ad un significato “terzo”, costringendo lo spettatore a creare un concetto che non c’è sullo schermo. Non solo il montaggio, ma anche le singole inquadrature dovevano esprimere

Fotogrammi da L’uomo con la macchi-na da presa di D. Vertov, 1922

Locandina de La corazzata Potemkin, di S. Ejzenstejn, 1925, grafica: A. Rodcenko

Fotogramma de La corazzata Po-temkin, di S. Ejzenstejn, 1925,

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dinamismo. Ejzenštein e il suo operatore di fiducia Eduard Tissé studia-rono le composizioni più adatte a raggiungere lo scopo: inquadrature dal basso che ritagliano le persone contro il cielo chiaro, inquadrature inclinate, movimenti di massa contrapposti nello stesso quadro, inqua-drature con movimenti diagonalizzati, o con la linea dell’orizzonte mol-to in basso, ecc. le immagini avevano un forte impatto grafico, dato che la disposizione dei personaggi, degli oggetti e delle masse obbedivano a un disegno geometrico che Ejzenštein meticolosamente preparava. I suoi film utilizzano una ambientazione totalmente realistica, e spesso le sue sequenze posseggono la verità di un documentario. Gli attori non erano professionisti e venivano scelti non per le loro capacità recitative, ma per l’immediatezza con cui potevano rappresentare la propria appartenenza sociale. Non era importante l’analisi psicologica del personaggio, ma il suo impatto fisico.Ejzenštein gira La corazzata Potemkin nel 1925, per celebrare il vente-simo anniversario della rivolta del 1905. Il film è ambientato nel Giugno 1905, quando alcuni marinai della flotta russa nel Mar Nero si ribella-rono ai loro comandanti. Il film è diviso in 5 atti: “Uomini e vermi”, in cui i marinai che si erano ribellati di mangiare la carne avariata imposta loro dai comandanti, e di cui si erano lamentati, vengono incarcerati sotto un telone sul ponte, in attesa di essere fucilati; “Dramma sul ponte”, dove si ha la vera e propria rivolta dei marinai che erano stati condannati a morte, sostenuti dai soldati che avevano avuto il compito di sparare loro, che prendono il comando della nave, uccidendo tutti gli ufficiali, il maggiore Smirnov che giudicato in bune condizioni la car-ne, quand’essa era invece palesemente invasa dalle larve d’insetti, e il prete, che doveva dar loro il conforto religioso nella morte; “Il sangue grida vendetta”, dove si ha la morte del capo della rivolta dei marinai, il valoroso Vakulincuk, che perisce sotto i colpi della pistola dell’uffi-ciale in seconda della nave: arrivati nel porto di Odessa, il cadavere del coraggioso marinaio verrà portato a terra ed esposto pubblicamente in una tenda, con un cartello tra le sue mani “ucciso per un piatto di minestra”, e verrà acclamato come un eroe da tutta la popolazione della città, che manifesterà il proprio appoggio ai marinai con comizi e ovazioni di gruppo, attirando però l’attenzione della severa polizia zarista; “La scalinata di Odessa”, dove i cosacchi dello zar intervengono sulla scena, iniziando una feroce rappresaglia verso la popolazione, uc-cidendo uomini, donne e bambini, che scappavano sulla scalinata, senza alcuna pietà: i soldati della corazzata stanno per sparare con i loro cannoni sui soldati, quando vedono avvicinarsi le navi dello zar; “Il pas-saggio attraverso la squadra”, in cui i marinai della corazzata decidono di affrontare la flotta dello zar, e restano sorpresi in quanto i marinai dello zar rifiutano di fare fuoco contro i loro compagni, esternando con canti e grida di gioia la loro solidarietà verso gli ammutinati e con-sentendo loro di passare indisturbati attraverso la flotta per dirigersi in mare aperto e scappare.In questo film, Ejzenštein studia attentamente la possibilità di alterare il naturale scorrere del tempo, inserendo una serie di inquadrature successive che, alternativamente si soffermano su personaggi e situa-zioni in aperta antitesi: nella famosa scena della scalinata di Odessa, si susseguono immagini che ritraggono ora soldati e ora i borghesi, ora i giovani ora i vecchi, ora persone che salgono gli scalini e altri che li scendono, e così via. Si assiste alla giustapposizione di movimenti veloci ad altri più lenti, creando in questo modo la poetica dell’opera.

Fotogrammi da La corazzata Potemkin, di S. Ejzenstejn, 1925,

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Sfruttando poi l’effetto della persistenza retinica, Ejzenštein articola più inquadrature dello stesso soggetto per immobilizzare il tempo, riu-scendo inoltre a dare l’impressione del silenzio, come si avverte quando la città sfila di fronte al corpo immobile di Vakulincuk. Fa inoltre ampio uso della sineddoche (citare la parte per il tutto), simboleggiata dagli occhiali del maggiore Smirnov che si ostina a non considerare i vermi nella carne del rancio dei marinai, occhiali che penzolano dall’estremità della cordicella quando lo stesso maggiore viene buttato a mare.

Un altro regista importante della cinematografia sovietica fu VSEVOLOD PUDOVKIN (1893 – 1953) che fu, come Ejzenštein allie-vo di Kulešov, e come il maestro, diede particolare rilievo al montaggio, che considerò sempre come la base dell’arte cinematografica e un fondamentale elemento creativo. Si devono a Pudovkin le basi teoriche della scuola sovietica del montaggio, anche se il terreno gli era già stato preparato appunto da Kulešov. In opposizione a Dziga Vertov e al grup-po dei kinoki, che ponevano al centro lo strumento tecnico e l’oggetti-vità della ripresa cinematografica, Pudovkin insiste sul ruolo dell’autore, attribuendo al montaggio il ruolo di elemento distintivo del linguaggio cinematografico: quello che per lo scrittore è lo stile, per l’autore ci-nematografico è il modo e il ritmo di affiancare e collegare inquadra-ture e sequenze. La sceneggiatura assume una posizione dominante: non più un canovaccio di scene ed azioni, sommariamente descritte, al cui interno resta un ampio margine per l’improvvisazione, bensì una meticolosa predisposizione di ogni singola azione, gesto, inquadratura. L’attore è nelle mani del regista come una materia plasmabile, ad esso il regista presta gesti, espressioni, azioni. Pudovkin preferisce servirsi di gente del popolo, con determinati attributi fisici o espressivi. Suc-cessivamente però utilizzerà anche attori professionisti, come nel suo film più importante, La madre, tratto dal romanzo di Maksim Gor’kij e realizzato nel 1926, primo di una trilogia di cui fanno parte La fine di San Pietroburgo, del 1927 e Un caso semplice, del 1932.Nel film La madre, egli narra la storia di una vecchia operaia, delinean-dola con fine psicologia, fino alla sua presa di coscienza. I questa pel-licola egli si avvale della recitazione di Vera Baranovskaja e di Nikolaij Batalov, che con grande sensibilità traducono la sceneggiatura, molto drammatizzata, e della fotografia di Anatolij Golovnia, ispirata alla pittu-ra. Il regista punta sull’evoluzione psicologica dei personaggi, presentati non come tipi, ma figure esemplari in una vicenda esemplare, e sugli aspetti più evocativi della natura. L’azione dei personaggi è immersa in un paesaggio continuamente mutevole che partecipa, arricchendolo di significati, allo sviluppo della storia. Tra gli esempi del montaggio pa-rallelo cui ricorre il regista, talvolta con ritmi stretti, quasi frenetici, è famosa la marcia dei manifestanti, accostata alle acque della Neva che trascinano i blocchi di ghiaccio del disgelo. Pudovkin si affida inoltre ai primi piani, cui spetta il compito di coinvolgere emotivamente fino al massimo lo spettatore.

Locandina de La madre, di V. Pudovkin, 1926, grafica: A. Rodcenko

Fotogrammi del film La madre, di V. Pudovkin, 1926

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Ultimo regista d’avanguardia da menzionare è ALEKSANDR DOV-ZENKO (1894 – 1956). Figlio di contadini, fu soldato nell’Armata Ros-sa, poi pittore e scrittore. La sua opera è pervasa da una sensualità violenta, che culminerà nel film che viene considerato il suo capolavo-ro, La terra, del 1930. La trama è molto semplice, e rappresenta sostan-zialmente un saggio sulla nozione di “lotta di classe”, con le tensioni tra i ricchi proprietari terrieri e i contadini di una fattoria collettivizzata. Tuttavia questa trama narrativa è soprattutto lo sfondo in un film che è un “canto non narrativo” sull’eternità della vita e della morte nella ter-ra d’Ucraina, la terra d’origine del regista. la terra si apre e si conclude con delle sequenze di morte, ma vita e morte sono indissolubilmente legate: all’inizio, un vecchio mastica gioiosamente una mela e muore; alla fine, durante il corteo funebre, la pioggia rende fertile la terra. La sequenza culminante del film, quella della morte del protagonista, il giovane Vasil, avviene mentre balla dopo aver passato la notte con la sua fidanzata. L’aggettivo “lirico”, per quanto impreciso, può essere applicato a Dovzenko nella misura in cui i suoi film non obbediscono mai ad una logica romantica.

Locandina de La terra, di A. Dovzenko, grafica: V. e G. Stenberg, 1930

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La rivoluzione andò lentamente burocratizzandosi. Nel 1922 venne eletto come segretario del Partito Comunista STALIN, pseudonimo di Josif Visarionovič Džugašvili, un ruolo che all’epoca non era decisivo, ma attorno al quale si andarono raccogliendo tutti quei dirigenti che volevano mantenere le proprie posizioni di potere e i propri privilegi, e per farlo dovevano ridimensionare il potere dei soviet, e la democrazia nel partito e nella società. Quelli che dagli oppositori vennero chiamati “burocrati”, andarono formando un nuovo strato sociale che non era espressione di operai e contadini, ma di loro stessi. Il dibattito, sempre molto vivace nel partito, venne lentamente soffocato a favore di una linea politica che era decisa dall’alto e mai discussa alla base. La società divenne sempre più autoritaria.Alla morte di Lenin, nel 1924, questo processo divenne sempre più inarrestabile e portò prima a una emarginazione degli oppositori, poi al loro arresto, quindi alla loro uccisione. Il primo a essere preso di mira fu Trotzkij, che contestava la mancanza di democrazia ed era legato all’idea che il socialismo non fosse possibile in un solo Paese, per di più povero, come era la Russia, ma si dovesse incoraggiare la rivoluzione anche nei Paesi più sviluppati.Alla fine degli anni Venti, Stalin aveva il controllo pieno del partito e dello stato, e iniziò la trasformazione della società sovietica in un si-stema totalitario: non vi era alcuno spazio per iniziative indipendenti dalla volontà del ceto politico al potere. Stalin stesso dette impulso a un fenomeno tipico delle dittature: il “culto della personalità”. Le città dell’URSS cominciarono a riempirsi di manifesti, statue ed inni dedicati alla “grande guida”. La stessa figura di Lenin venne mitizzata. Lenin, ma-lato, aveva condotto una dura battaglia contro Stalin prima di morire, ma, una volta morto, fu glorificato in ogni maniera, nonostante in vita si fosse opposto sempre ai tentativi di farne un soggetto per monumenti e ritratti.Il dissenso venne duramente represso, si costruirono i gulag, campi di lavoro in regioni desolate, dove vennero detenuti e rinchiusi in milioni. Quelli che pagarono i prezzi più alti furono gli stessi membri del Parti-to Comunista: Stalin fece uccidere gran parte dei dirigenti che avevano realizzato la Rivoluzione d’Ottobre e guidato il Paese nei primi anni turbolenti, attraverso una serie di “purghe”, processi farsa che all’inizio degli anni ’30 decimarono le fila del partito.

Verso la fine degli anni Venti, Stalin e i suoi seguaci iniziarono ad oc-cuparsi anche delle avanguardie artistiche, troppo vivaci e indipenden-ti perché potessero assoggettarsi facilmente alle direttive di regime. Vennero create delle associazioni nazionali di artisti (scrittori, cineasti ecc) totalmente allineate, spesso dirette da elementi con scarse capa-cità artistiche e che cominciarono ad attaccare sistematicamente le associazioni indipendenti, sino a costringerle a sciogliersi per confluire nelle organizzazioni ufficiali, nel 1932.Nel 1928 cessò di esistere il LEF, e Malevič fu costretto a ritornare in patria, e ad allineare la sua produzione artistica al realismo socialista imposto dal governo. Rodčenko fu obbligato dagli anni ’30 a fotografa-re solo eventi ufficiali, imposizione che lo porterà negli anni Quaranta

LA RUSSIA DI STALIN E LA FINE DELLE AVANGUARDIE

Stalin

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ad abbandonare del tutto la fotografia. Meyerhold venne ucciso con le purghe degli anni 1936-1938, mentre Majakovskij, dopo il fallimento della sua commedia Il bagno, del 1930, dove prendeva per i fondelli la nascente burocrazia e per la quale fu violentemente attaccato, e a cau-sa delle svariate delusioni dategli da quella rivoluzione che egli aveva tanto supportato e sostenuto, si tolse la vita con un colpo di pistola nel 1930. Dopo la sua morte, ormai inoffensivo, venne esaltato dal regime come massimo poeta della rivoluzione.Il cinema fu il primo ad essere colpito dalla feroce censura stalinista. I registi d’avanguardia furono accusati di far prevalere il formalismo, cioè la bellezza della forma rispetto ai contenuti propagandistici, e di creare opere troppo complesse per le masse. Lo stesso Lunačarskij, che aveva assicurato al mondo delle arti una certa libertà di movimento, fu criti-cato aspramente dal regime e poi rimosso dal suo incarico. Nel 1929 il cinema sovietico fu interamente centralizzato nella casa di produzione Sovkino, ponendo sotto il totale controllo del regime la settima arte.il rigido regime stalinista impone quindi lo smantellamento di tutte le opere degli artisti d’avanguardia, alcune saranno realmente distrutte, altre giungeranno intatte a noi grazie ai custodi e ai curatori dei musei moscoviti, che le nasconderanno nei sotterranei dei musei, permetten-do anche a distanza di quasi ottant’anni di poterle ancora apprezzare.

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