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L’AUTORITRATTO di Rita Marizza 1

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Page 1: L’AUTORITRATTO - ARTETERAPIAL’AUTORITRATTO INTRODUZIONE Definire che cos’è un autoritratto è impresa più difficile di quanto sembri. Il vocabolario Devoto-Oli cita: “

L’AUTORITRATTO

di Rita Marizza

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INDICE

§ - INTRODUZIONE

§ - ASPETTI PSICOLOGICI

§ - IL RAPPORTO CON LA PROPRIA IMM AGINE

§ - LO SPECCHIO

§ - AUTORITRATTO COME RIPARAZIONE

§ - FRUIZIONE DELL’AUTORITRATTO

§ - L’IDENTITA’

§ - L’ABBIGLIAMENTO

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L’AUTORITRATTO

INTRODUZIONE

Definire che cos’è un autoritratto è impresa più difficile di quanto sembri.

Il vocabolario Devoto-Oli cita:“ AUTORITRATTO - ritratto che un pittore o uno scultore fa di sé stesso; estens. descrizione in prosa o in versi del proprio aspetto fisico o delle qualità morali”.“ RITRATTO - riproduzione figurativa o fotografica delle sembianze di una persona; estens. descrizione dell’aspetto o del carattere di una persona o di un luogo”.

Quindi il termine “autoritratto” può avere un significato proprio, letterale, oppure più ampio, metonimico, indicando la raffigurazione dell’aspetto fisico, la descrizione di una persona ma anche una rappresentazione psicologica o morale o questi fattori insieme.Innanzitutto l’ “autoritratto” è la riproduzione dell’ “identità” fisica di una persona, cioè del suo aspetto, delle sue sembianze, del modo con cui possiamo identificarla e riconoscerla.Però sia il concetto di “identità” che di “sembianze” può essere ampliato.L’identità di una persona è data sì dal suo aspetto fisico ma anche da altre sue proprietà: ciò che possiede, ciò che ha fatto o detto. E ancora le sue qualità psichiche o morali, le sue emozioni, i suoi pensieri, la sua interiorità insomma.Inoltre non ci può essere autoritratto senza la volontà di esibire la propria immagine o senza la volontà di indicare la propria identità, altrimenti avremmo solo un atto di proprietà: “Questo è mio” e non “Questo sono io” di cui abbiamo bisogno per affermare l’autoritratto. Per quanto riguarda le “sembianze” vedremo successivamente che l’autoritratto può andare oltre la raffigurazione fotografica del volto, pur rimanendo tale.

Pertanto le opere che chiamiamo “autoritratti” devono contenere:

* Una traccia di “io-qui-ora” cioè una contestualizzazione spazio-temporale voluta dall’ “io”.

* Una traccia di riflessività in cui l’azione del soggetto ricada sul soggetto stesso “Io mi guardo” “Io mi dipingo”.

* Un’esibizione di volontarietà e di intenzionalità per cui l’artista si mostra con un insieme di attribuzioni che qualificano la sua esistenza e la sua attività.

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ASPETTI PSICOLOGICI

Nell’esaminare l’argomento si possono definire due ambiti che lo connotano e che rivestono entrambi una notevole importanza:1- L’ambito artistico, che coinvolge la storia dell’arte, le sue tradizioni e riflessioni.2- La dimensione psicologica con le sue innumerevoli dinamiche.Non si possono, comunque, attribuire a ogni tipologia di autoritratto profonde valenze psicologiche poiché, soprattutto nel passato e soprattutto per gli artisti professionisti, il fatto di raffigurarsi nell’atto di dipingere costituiva una sorta di autoaffermazione in relazione agli altri più che una riflessione su sé stessi.Comunque l’autoritratto in sé, soprattutto per il tempo che costringe l’artista a “confrontarsi con la propria immagine riflessa”, non può non avere una forte ricaduta psicologica per quanto concerne certi “nodi fondamentali del suo Io e del suo senso di identità”.Il problema essenziale che viene posto dall’autoritratto è il rapporto, difficile e problematico, di ogni persona, artista o meno, che si autoritragga o no, con la propria immagine.Pertanto dobbiamo definire:1- Se l’autoritratto corrisponde a un bisogno profondo, questo bisogno sarà comune a tutti gli uomini e non solo agli artisti.2- Se, e fino a che punto, questo “bisogno profondo” si può considerare originario e si può parlare di una vera e propria “pulsione all’autorappresentazione”. (Secondo Freud è una pulsione non primaria ma culturalmente mediata).Per sviscerare le implicazioni psicologiche nell’autoritratto si deve giungere a individuare il “grado zero” del bisogno dell’uomo di lasciare un’immagine di sé, del proprio corpo, del proprio volto.

La questione dell’autoritratto ha implicazioni diverse a seconda del periodo storico in cui si esprime e differisce anche da un artista all’altro. Dobbiamo considerare innanzitutto le due tipologie fondamentali in cui si distingue la rappresentazione di sé:

* l’ “autoritratto esplicito”, definito come tale dall’artista stesso

* l’ “autoproiezione” cioè il proprio autoritratto inserito tra altre persone, che è, poi, all’origine dell’autoritratto stesso.

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L’AUTORITRATTO COME IMPRONTA

La forma primaria di autoritratto è quella “casuale” che nasce dall’impronta, testimonianza esplicita del passaggio di un corpo. L’impronta possiede una sua “fisicità” precisa (al contrario dell’ombra con cui è imparentata), una materialità oggettivante l’Io e il corpo che lo rappresenta.L’impronta è autonoma, stabile e duratura ed esiste in assenza del corpo che l’ha lasciata (e qui sta il suo valore come autoritratto).Mancherebbe, però, l’ “intenzionalità”, che sta alla base dell’autoritratto, la “riconoscibilità” e la “somiglianza”.Possiamo, però, considerare “la prima forma di autoritratto” l’impronta delle mani lasciate dagli uomini primitivi sui muri delle caverne. Atto intenzionale, senz’altro; anche se manca del fattore “riconoscibilità”.

L’esempio più celebrato in forma d’impronta è la Sacra Sindone, l’archetipo originario di ogni ritratto, per la cristianità.Qui l’ “idea di intenzionalità” è una “proiezione del fruitore”. Infatti “viviamo come autoritratto tutto ciò che, essendo diretta emanazione di un corpo, pare conservare... qualcosa della soggettività che l’ha animato, la q u a l e s e m b r a

retrospettivamente volerci parlare di sé”. Pensiamo alle impronte dei corpi pietrificati dalla cenere di Pompei o le ombre dei corpi lasciate sui muri di Hiroshima.Anche il tema dell’impronta è stato spesso rivisitato dall’arte contemporanea. Ricordiamo in particolare Giuseppe Penone che in alcune opere suggerisce “una precisa continuità tra la natura e la propria soggettività, intesa materialmente come prolungamento e proiezione del proprio corpo”.Comunque, in generale, l’autoritratto esige un’intenzione sociale ben precisa, il desiderio di lasciare una traccia di sé, un’immagine del proprio volto che qualcuno, un giorno, dovrà vedere.

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L’OMBRA E IL RIFLESSO

Il ritratto e autoritratto come impronta hanno un collegamento molto stretto al motivo dell’ombra e del riflesso (specchio).L’ impronta assicura la durata, lo specchio/riflesso la somiglianza e l’ombra garantisce la vicinanza (poiché segue sempre il soggetto, a differenza del riflesso).Sappiamo che l’ombra è legata all’origine del ritratto (profilo-figlia di Butade) e ha conservato una “valenza magica” e un’aura

di mistero che non confà all’autoritratto.Il riflesso dello specchio (frontalità) è strettamente collegato all’autoritratto (mito di Narciso).

AUTORITRATTO COME AUTOPROIEZIONE

L’ AUTOPROIEZIONE comprende:

a) L’AUTORITRATTO NASCOSTO TRA ALTRE FIGURE

Questa modalità sta, storicamente, alla base dell’autoritratto vero e proprio, prima, cioè, che all’artista fosse consentito fare di sé stesso l’unico soggetto della sua opera.“L’ ‘autore mascherato’ è la modalità di autotematizzazione più d i f f u s a n e l l ’ a r t e d e l B a s s o M e d i o E v o e d e l Rinascimento” (Stoichita).

Numerosi gli esempi nella storia dell’arte. Citiamo solo alcuni:

*Secondo Cicerone il primo sarebbe F i d i a c h e s i autoritrae come Dedalo sullo scudo di Minerva del Partenone.

*Volvinius (IX sec.) si autorappresenta nell’altare d’oro di

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S.Ambrogio a Milano mentre il Santo gli pone una corona in testa: autocelebrazione del “magister faber”.

* Benozzo Gozzoli si raffigura nella “Processione dei Magi” (1459) affresco nella cappella del Palazzo Medici Ricciardi a Firenze.

* Filippo Lippi “è presente” nel “Funerale di Santo Stefano” (1460) nel duomo di Prato.

*Raffaello si autoritrae nella ‘Scuola di Atene’ (1508-1511) fra i filosofi e i pensatori celebrando la pittura e sé stesso come pittore.

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b) L’AUTORITRATTO ‘DA VISITATORE’

segna un ulteriore passo avanti nella presa di coscienza dell’autore. Qui il pittore si presenta “come un corpo estraneo alla storia al cui interno penetra, per così dire, per effrazione”.

* Sandro Botticelli appare come una figura ai bordi e a sé stante nell’ “Adorazione dei Magi” (1475).

*Durer nel “Martirio dei diecimila cristiani” (1508) lascia al centro del quadro uno spazio libero in cui raffigura sé stesso con un amico.

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c) RAFFIGURAZIONE DI SE’STESSI ‘IN RITRATTO’

quando l’autore inserisce nell’architettura un ‘quadro’ che rappresenta il suo volto.

*Pietro Vannucci detto il Perugino si raffigura in un particolare dell’”Annunciazione” (1500) nel Palazzo del Cambio a Perugia.

* Pinturicchio ‘in ritratto’ nell’ “Annunciazione” (Chiesa di S.M.Maggiore di Spello).

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d) AUTOPROIEZIONE COME ‘FIRMA’ DEL PROPRIO LAVORO

*Uno dei primi esempi ci viene dal frate benedettino inglese Matthew Paris (1200-1259), importante per essere passato alla storia anche come studioso. Stilò, infatti, una delle prime mappe dell’Inghilterra. Nella sua “Historia Anglorum” inserì a margine una sua immagine.

* Van Eyck “I Coniugi Arnolfini” (1434) in cui l’immagine dell’artista si riflette tra le figure dello specchio tondo appeso alla parete.

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L ’ A U T O R I T R A T T O N E L L E V E S T I D E G L I A L T R I

Quando l’autoritratto diviene una libera scelta consapevole e determinata da parte dell’autore, il rappresentarsi nei panni di altri personaggi può implicare un processo di identificazione con il personaggio scelto e costituire, quindi, una rivelazione di propri aspetti psicologici.Alcuni pittori si sono rappresentati nelle vesti di altri pittori, di altre epoche ma vi sono casi con implicazioni più inquietanti.

* Caravaggio si autoritrae nella testa mozzata di Golia e in quella di Medusa.

*A r t e m i s i a Gent i l e sch i s i è autoeffigiata come Giuditta.

* Lucas Cranach si ritrae nella testa mozzata di Oloferne in “Giuditta” (1530)

*Michelangelo è sé stesso nella pelle scuoiata di San Bartolomeo (Giudizio Universale - Cappella Sistina - 1541).

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Un caso particolare è la rappresentazione di Sè stesso nei panni di Cristo che investe artisti dal Rinascimento all’epoca moderna, con diversissime valenze psicologiche, dall’esibizione al masochismo.

L’autoritratto in vesti altrui investe anche l’epoca contemporanea.

* Salvador Dalì si trasforma in “Monna Lisa”.

* Max Beckman (1927) si autoritrae come marinaio.

*Otto Dix (1914) diviene un “soldato”.

*Rita Marizza si vede come “Maddalena” (1976).

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Interessante la raffigurazione come animale, che diviene quasi un‘identificazione di tipo proiettivo.

* Wanda Wulz, fotografa e pittrice triestina, si rappresenta come gatto (1932).

*Alberto Savinio in “Autoritratto” ha la testa di civetta, animale sacro a Atena.

L’autoritratto “travestito” rivela il desiderio dell’artista di essere e sperimentare tutto.“Nel campo della finzione troviamo quella pluralità di vite di cui abbiamo bisogno” (S.Freud).

Picasso è un esempio eclatante di questa manifestazione che diviene una delle ragioni della sua arte. “Picasso vuole riconoscersi ed essere riconosciuto in questa molteplicità che...é moltiplicazione dell’Io... Il che presuppone che al centro di tale processo psichico si trovi un Io plastico e molto ben strutturato”.

* Cindy Sherman (USA - 1954) non vuole essere definita fotografa ma artista performer, lavora (richiamando lo stile di Duchamp) sul cambiamento di identità e sull'analisi delle definizioni dell’apparenza e del genere. Compare sola nelle sue fotografie, giocando con travestimenti nella ricerca di sé stessi intesa come composta da diverse entità, rimandando alla fragilità dell’io di fronte ai meccanismi di identificazione e di riconoscimento sociale. Lavora sul proprio viso come una tela, utilizzando trucco e accessori per assumere connotati diversi. Parla di sé stessa con distacco e lavorando sugli stereotipi e sui modelli. Si pensi al ciclo "Bus Rider", in cui la Sherman reinterpreta con il gioco dei travestimenti

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le diverse tipologie di persone intente ad aspettare l'autobus, o al ciclo "Hollywood", in cui lavora sui cosiddetti falliti, quegli individui cioè che hanno mancato il sogno americano; questo lavoro comprende quindi anche una riflessione sul patetico dei sogni che non si riescono a realizzare.Qui si rappresenta come clown e come Cenerentola.

* RITRATTI COME AUTORITRATTI E AUTORITRATTI COME RITRATTI

Queste sono modalità molto particolari.

Un esempio è Ligabue che in uno dei suoi numerosissimi autoritratti dipinge ancora sé stesso in un ritratto appeso al muro.

Singolare anche il caso di Sofonisba Anguissola che, in omaggio al suo maestro Bernardino Campi, si autoritrae nel ritratto che il pittore le sta facendo.

E’ questo un “gioco” non solo visivo ma un qualcosa in più che implica la “questione della fruizione” dell’autoritratto che sarà sviscerata in seguito.

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RITRATTI COME AUTORITRATTI

I termini “ritratto” e “autoritratto” si possono associare e quasi confondere visto anche che le motivazioni psicologiche e sociologiche sono spesso simili. Ma c’è un fattore tecnico che bisogna considerare cioè l’abilità del pittore di essere fedele al soggetto che vuole riprodurre: sé stesso.La somiglianza, non solo ‘fisiognomica’, è molto più importante che nel ritratto perché il modello deve accettarsi e identificarsi nell’immagine pittorica né può spostare sull’artista la sua insoddisfazione per la non riuscita dell’opera. Infatti l’autoritratto deve condensare in sé l’immagine ‘reale’ (lo specchio), l’immagine ‘sociale’ (la maschera), l’immagine ‘ideale’ (l’interiorità).Il ritratto può avere la funzione di autoritratto sia per quanto riguarda il modello sia per quanto riguarda l’artista.Per il modello (incapace di autorappresentarsi) il ricorso al lavoro dell’artista supplisce a una sua mancanza tecnica (faccio fare il ritratto di me stesso a un pittore perché io non so farlo).Per l’artista il ritratto dell’altro è spesso anche un autoritratto poiché vi proietta qualcosa della sua fisionomia e del suo mondo interno (faccio il ritratto di un altro in cui mi autorappresento).Comunque l ’ar t i s ta può appagare più l iberamente la sua puls ione all‘autorappresentazione ogni volta che fa un ritratto. E’ una modalità che gli consente di esprimere liberamente contenuti anche molto intimi e privati.

AUTORITRATTO MENTALE E AUTORITRATTO COME NEGAZIONE DI SOGGETTIVITA’

In generale l’autoritratto mira alla somiglianza fisica ma moltissimi vogliono soprattutto essere l’espressione di un sentimento, di un’emozione interiore.

AUTORITRATTO MENTALEL’artista mira a dare un volto alla sua anima, al suo mondo interno, al suo stato mentale.Il criterio fisiognomico è secondario ma non assente.

* Yang Shaobin

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*Francis Bacon

AUTORITRATTO SPERSONALIZZANTESi parla in questo caso di un autoritratto molto somigliante ma privo di emozioni personali. L’arte contemporanea è ricca di esempi.

* Re n è M a g r i t t e , “Au t o r i t r a t t o o L a chiaroveggenza” (1936)

*Andy Warhol che fa del suo volto un’icona, un’immagine consumistica come la scatoletta della zuppa Campbell’s.

In questi casi l’autoritratto è usato solamente come espressione della propria creatività o della propria solitudine (assenza di altri modelli).

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AUTORITRATTO E POETICA FUNZIONALE

L’autoritratto è una modalità espressiva che fa parte della “poetica” (cioè del modo di esprimersi) dell’autore e, in particolare, della “poetica funzionale” cioè dell’espressione del mondo interno dell’artista.

“L’idea di poetica funzionale coincide con...il grado zero dell’autoritratto, che corrisponde...al bisogno di bloccare il riflesso o l’ombra della propria immagine, oggettivandola e stampandola su una superficie”.Con ciò torniamo alle basi di una psicologia dell’autoritratto che vuol cogliere l’impulso-base da cui nasce l‘autorappresentazione escludendo altre sovrastrutture estetiche-storiche-artistiche.

Hans Baldung Grien - “Autor i t ra t to” (1504 ) penna e pennello su carta

R a f f a e l l o S a n z i o - “Autoritratto” (1506)

J a c k s o n P o l l o c k -”Autoritratto” (1930)

Ar mando Marizza - “Autoritratto”(1939)

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AUTORITRATTO E PULSIONE AUTOBIOGRAFICA

Sia la riproduzione grafica della propria immagine che la pulsione autobiografica hanno un’origine comune: il bisogno di lasciare una testimonianza della propria esistenza. Questo può accadere anche, semplicemente, riproducendo oggetti appartenenti al proprio mondo (“oggetti affettivi”), segni della propria storia, opere senza alcuna pretesa artistica (es. i collage degli anziani) ma intese come un prolungamento di sé.

Roger Garandy affermò “Ogni quadro è un autoritratto, rappresenta innanzitutto colui che lo crea: prima di essere un paesaggio, una pittura di storia, una natura morta, il viso di un altro, una scena di genere o una composizione astratta...esso rappresenta il creatore nell’atto stesso della creazione cristallizzata in un’immagine”.

L’artista stesso (e l’artigiano) considerano espressamente come autoritratto opere che esulano completamente dall’autorappresentazione. Spesso questa pulsione autobiografica è spesso inconscia e la si può comprendere solo a posteriori. In realtà si ribadisce che l’autoritratto deve possedere una precisa “intenzionalità” da parte dell’autore.

L’intenzionalità è - in un senso propriamente fenomenologico - il protendersi della coscienza verso ciò che, a prima vista, le è esterno, ma con cui è profondamente intrecciata e inseparabile, in una compenetrazione del soggetto percipiente con il mondo percepito che non solo fonda l’esistenza ontologica dell’ io-realtà, ma la sua stessa essenza in termini universali e sovra-personali. (Livio Billo)

AUTORITRATTO E AUTOBIOGRAFIA

Sia l’autoritratto che l’autobiografia potrebbero possedere una sostanziale omologia sul piano psicologico poiché il primo rappresenta visivamente ciò che l’altra esprime verbalmente.Noi arteterapeuti sappiamo, però, che esiste una sostanziale differenza tra pensiero visivo e pensiero verbale (non per nulla l’arteterapia è una pratica non-verbale).Il pensiero visivo è più vicino all’inconscio, più diretto e emozionale.Il pensiero verbale è più articolato, più descrittivo, più simile al pensiero cosciente, più facilmente “manipolabile” dall’autore.

Freud afferma: “Il pensare per immagini è...un modo assai incompleto di divenire cosciente. Un tale pensare è inoltre più vicino ai processi inconsci di quanto lo sia il pensiero in parole, ed è indubbiamente più antico di questo sia ontogeneticamente che filogeneticamente”.

La parola è senz’altro un mezzo privilegiato per esprimere “la consapevolezza della complessità delle cose”. Ma la comunicazione iconica-simbolica investe la dimensione

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dell’inconscio e attraverso essa comunica tra autore e fruitore evocando emozioni profonde (basti pensare alla “sindrome di Stendhal” - Magherini). In generale “l’impatto emotivo di un’immagine può essere più violento e meno contenibile di quello di un testo scritto”.

Rappresentarsi attraverso le immagini o le parole è cosa ben diversa.* La scrittura è molto più adatta a descrivere il continuo, molteplice divenire del

nostro Io mentre l’immagine non consente di rispecchiare la complessità di piani in cui si struttura il nostro essere.

* L’autoritratto pittorico rappresenta un momento particolare di una vita, un momento quasi isolato e sospeso nella sua incompiutezza. Deriva da questo il bisogno di certi artisti di autoritrarsi in continuazione. Ad esempio Durer (considerato l’iniziatore dell’autoritratto moderno), Rembrandt (che ha lasciato più autoritratti di qualsiasi altro pittore dell’età moderna, fino a raffigurarsi anziano e decrepito, accettando serenamente la fine imminente), Van Gogh o Antonio Ligabue (che ha lasciato più di cento autoritratti).

AUTORITRATTO E SCRITTURA AUTOBIOGRAFICA

Molti artisti hanno connesso la loro attività di scrittori di diari e di esecutori di autoritratti.

“Ne ho fatti di autoritratti nella mia vita, mano a mano che cambiavo stato d’animo: in una parola ho scritto la mia vita” (Courbet)E Courbet (1819-1877) è stato anche un grande produttore di autoritratti. Questo è un carboncino conservato al Musee d’Orsay a Parigi.

Anche Delacroix è stato un assiduo scrittore di diari.

Caratteristica principale del diario scritto, assente nell’autoritratto figurativo, è la “dimensione della memoria”. Il diario è intessuto di ricordi, di quel che si era e di ciò che si è diventati, e comunica il senso della durata.

“La memoria è ciò che dà continuità alla nostra esistenza e il sentimento e l’espressione di questa continuità sono un elemento essenziale della scrittura autobiografica. Non è possibile ottenere lo stesso risultato con l’autoritratto figurativo. Esso è sempre un punto di arrivo”.

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L’autoritratto in sé non esprime memoria ma solo lo status attuale, il momento in cui viene dipinto. Non c’è il racconto dell’evoluzione dal passato che potrebbe essere data solo da una successione di autoritratti.In particolare si nota che gli artisti che parlano di sé stessi per iscritto (lettere, autobiografie, testimonianze varie) non parlano mai dei loro autoritratti poiché, probabilmente, tutte le tensioni e i conflitti che stanno dietro l‘autorappresentazione si esauriscono in essa senza giungere alla coscienza dell’autore.

C’è invece chi, come Klimt, esclude l’autoritratto dalla sua arte e qualsiasi forma autobiografica. “Non esiste un mio autoritratto. Non m’interesso alla mia persona come oggetto di rappresentazione, ma agli altri esseri, soprattutto femminili...”

IL NON-AUTORITRATTO

Il bisogno dell’uomo (e del pittore) di rappresentare sé stesso, il proprio mondo interno, le proprie emozioni, i propri timori, non si esprime solo attraverso l’immagine di sé stessi ma anche tramite espressioni “metaforiche” che nulla hanno a che vedere con l’autoritratto.Ad esempio secondo Argan il più efficace autoritratto di Rembrandt sarebbe “Il bue squartato” del 1655.Secondo Franco Rella anche la “Stanza da letto” di Van Gogh (1888) sarebbe sostanzialmente un autoritratto. “Quella stanza vuota può esprimere un grande e assoluto riposo solo per l’assente...Vincent ha rappresentato sé stesso morto, già in viaggio verso le stelle”. Il pittore stesso, Van Gogh, in una sua lettera, parlando delle sue opere dirà “...ho...fiducia che tutti questi quadri vi potranno dire ciò che non riesco a dire a parole”.L’idea di Rella che anche, e soprattutto, il “Campo di grano con corvi” (ultimo quadro dell’artista) sia sostanzialmente un autoritratto può venir confermata da due fattori:1- Una modalità critica di tipo proiettivo.Il critico, cioè, tende a vedere nel quadro i suoi sentimenti provocati dalla fruizione del quadro stesso.2- Un‘identificazione proiettiva del pittore stesso con il soggetto da lui dipinto.Van Gogh stesso può essersi identificato con quel campo di grano che, pertanto, non è più una metafora ma diviene la realtà stessa del pittore, la sua sofferenza, la sua psichicità.

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“I meccanismi di identificazione (proiettiva) possono dunque attuare spostamenti nel fuoco dell’autoritratto; e nella misura in cui l’artista si identifica in altri oggetti, persone e situazioni, rappresentando quelle figure, egli rappresenta sé stesso”.

In questi casi ci troviamo di fronte alla “poetica” stessa dell’artista e alla dinamica dell’intenzionalità progettuale nell’identificarsi con un particolare oggetto che diventa, perciò, autoritratto.

Cornelius Gijsbrechts - Trompe-l’oeil 1670

Adrien Valk - Vanitas 1660

Daniel Spoerri - Autoritratto 1977

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Un esempio esplicito è quello di Antonio Ligabue, che aveva un rapporto molto stretto con la natura e con gli animali, al punto che si può affermare che quando dipingeva un animale rappresentava sé stesso.

Ne è una prova il “Ritratto di F.M.” dove compare un suo autoritratto in forma di quadro appeso alla parete. Ma non solo: Ligabue dipinge uno spartito musicale sul pianoforte con le prime note dell’“Eroica” di Beethoven, che egli ascoltava continuamente; inoltre il cagnolino infiocchettato sul grembo della Signora altro non è che la proiezione del pittore stesso, che esprime il suo transfert nei confronti della sua modella e Musa protettrice.

Anche nelle ultime opere di Frida Kahlo troviamo un meccanismo analogo.Dice Lowe “Le nature morte della Kahlo...fungono da autoritratto: l’artista, invece di rappresentare il proprio decadimento fisico, dipinge frutta e vegetali in stato di decomposizione”.D’altronde possiamo osservare gli stessi fenomeni anche noi, nella nostra attività di arteterapeuti, quanto gli utenti riescano a proiettare sé stessi e il loro mondo psichico nelle immagini che producono.

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Sonia Delaunay - Autoritratto 1971

Roy Lichtenstein - Autoritratto 1978

Alighiero Boetti - Io che prendo il sole a Torino - 1969

Robert Rauschenberg - 1967

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IL RAPPORTO CON LA PROPRIA IMMAGINE

Il rapporto dell’uomo con la propria immagine costituisce una problematica basilare nella psicologia dell’autoritratto.

Rientra nella prospettiva dell’autoritratto ogni nostro atteggiamento relativo allo “specchio”, alla nostra immagine riflessa, ai nostri tentativi di adeguare la nostra immagine esteriore a un modello preesistente. Questo modello è di natura interna e esterna e ha implicazioni sia psicologiche che sociologiche.In tal senso, continuamente, creiamo nostri autoritratti in relazione al destinatario (le persone da cui dobbiamo essere visti e, presumibilmente, “giudicati”), al momento e all’occasione (un evento mondano, una corsa nel parco...), al contesto particolare (in famiglia, a una riunione di lavoro, a un appuntamento galante...).Molto spesso questi nostri ‘autoritratti’ sono l’esito di una scelta d’abbigliamento o di atteggiamento. A volte si può giungere alla creazione di vere e proprie identità alternative (travestitismo - Platinette).

L’IMMAGINE INTERNA

La problematica della relazione con la nostra immagine interna si costituisce con la raffigurazione che ognuno ha di sé, del proprio corpo, del proprio volto (che a volte nulla ha a che fare con la realtà).Il ruolo svolto dallo specchio e dalla memoria visiva è fondamentale ma non esclusivo.Si sa che anche i non vedenti dalla nascita possiedono un’immagine interna di sé fondamentalmente aderente alla realtà.D’altronde la necessità di identificarci con il nostro volto e con l’immagine interna è imprescindibile.

“Senza la fede nell’idea che il nostro volto esprime il nostro Io, senza questa illusione fondamentale, originaria, non potremmo vivere o almeno prendere la vita seriamente. E non basta soltanto identificarci con noi stessi, è necessario identificarci appassionatamente, per la vita e per la morte” . (Milan Kundera “L’immortalità”)

“Volto e io sono due nozioni la cui relazione è empirica, giacché queste due cose non si accompagnano necessariamente. Il mio volto non appartiene all’io”. (Paul Valery “Cahiers”)

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Pertanto possiamo affermare che l’immagine interna di sé è dotata di una “valenza “figurativa” (importante per l’autoritratto) e alla sua formazione concorrono sia elementi interni che esterni.

§ - LA PROPRIOCEZIONE O IMMAGINE CORPOREA.

E’ il primo elemento che converte alla formazione e stabilizzazione dell’immagine interna e consiste nel fatto che ognuno di noi ha un preciso e automatico senso del sé e del proprio corpo.

La propriocezione è quel flusso sensorio continuo ma inconscio proveniente dalle parti mobili del nostro corpo, che ne controlla e ne adatta di continuo la posizione, il tono e il movimento, in un modo, però, che a noi rimane nascosto perché automatico e inconscio. (O.Sacks)

“...è come se fosse gli occhi del nostro corpo, il modo in cui il corpo vede sé stesso. E se scompare...è come se il corpo fosse cieco”.

Pertanto la propriocezione coincide con il nostro senso di identità poiché noi, come asseriva Freud, siamo innanzitutto il nostro corpo.

Paul Schilder, in un saggio degli anni ’30 in cui coniuga neurologia, psichiatria, psicanalisi e Gestalt, parla di immagine o schema corporeo.

“Lo schema corporeo è l’immagine tridimensionale che ciascuno ha di sé stesso: possiamo anche definirla immagine corporea...che noi costruiamo di continuo...”.

§ - IMMAGINE INTERNA DEL VOLTO

Esiste un senso di propriocezione anche per quanto riguarda il volto.Noi abbiamo la percezione del nostro volto e anche del fatto che esso assume di volta in volta espressioni diverse, a seconda dei sentimenti che ci animano.Inoltre abbiamo anche la capacità empatica di rapportarci al volto degli altri e di imitare le espressioni che abbiamo memorizzato.

“La memoria dell’esperienza del volto degli altri alimenta e dà consistenza al sentimento propriocettivo del nostro volto”.

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La propriocezione del volto è quasi solamente un’ “impressione” che viene confermata e resa tangibile soltanto dalla visione allo specchio, dalla fotografia o dall’autoritratto, in cui quest’immagine “virtuale” prende consistenza.

§ - IMMAGINE INTERNA E AUTORITRATTO

Esiste un’interrelazione tra il nostro corpo e la nostra immagine interna, nel senso che questa dipende dal modo in cui noi sentiamo atteggiarsi il nostro corpo.

“Anche da un punto di vista funzionale e percettivo l’immagine interna del nostro volto è come l’esito di sovrapposizioni molteplici, che ne determinano per approssimazioni successive il carattere sempre più specificamente figurativo e fisiognomicamente connotato: dalla propriocezione in senso lato del nostro io corporeo, alla propriocezione dell’espressione delle nostre emozioni, all’osservazione empatica del volto degli altri fino all’esperienza propriamente visiva dello specchio e della fotografia”.

La funzione di questa nostra ‘immagine interna’ nella dinamica dell’autoritratto corrisponde a una ‘sintesi ideale’ dei nostri modelli di riferimento ma anche dell’essenza della nostra anima. Inoltre deve rappresentare all’esterno il nostro mondo interno rispecchiando sia la nostra sensibilità che le nostre doti intellettuali e fisiche.Perciò l’ ‘immagine interna’ che abbiamo di noi non coincide con quella ‘oggettiva’ percepita dallo specchio poiché è un’immagine resa heimlich dall’abitudine e dalla benevolenza verso noi stessi.Esiste, infatti, un’assuefazione anche verso l’immagine delle persone a noi più vicine, in cui non notiamo i progressivi cambiamenti e l’acuirsi dei difetti (Proust diceva che “Ogni viso che amiamo è uno specchio del passato”). Quindi l’ ‘immagine interna’ prevale su quella oggettiva poiché con il tempo e l’abitudine si tende a non ‘vedere’ più le cose ma semplicemente a ‘riconoscerle’.E’ l’arte che può restituire la capacità di vedere nuovamente le cose osservandole con una modalità “straniante”, dall’esterno. In questo caso la pulsione all’autoritratto potrebbe derivare dal bisogno di “ritrovare, fermare, magari inventare la propria identità”.

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§ - IMMAGINE INTERNA E IDENTIFICAZIONE CON MODELLI ESTERNI

Un ruolo importante nella formazione della nostra immagine interna cioè del nostro ‘ritratto ideale’ è rappresentato dall’imitazione, conscia o meno, o dall’identificazione con modelli di riferimento (ad esempio il fenomeno giovanile “cosplay” collegato al mondo dei manga giapponesi).

In questi casi l’immagine interna viene condizionata e supportata dall’introiezione di un modello sociologicamente connotato.In un certo senso viene negata l’identità personale (soggettiva) e l’autoritratto corrisponde a uno stereotipo, in cui l’immagine imitata diventa un denominatore c o m u n e p e r u n ’ i n t e r a generazione.

I l c a s o p i ù o r i g i n a l e ( e inquietante) è quello dell’artista

francese Orlan che, attraverso un’infinita serie di interventi di chirurgia plastica, vuol trasformare il suo corpo e il suo volto nell’autoritratto vivente della sua immagine interna, che ha dei corrispettivi nella storia dell’arte. “...la fronte di Monnalisa di Leonardo, gli occhi di Psiche di Gerard, il naso di Diana da una scultura di Fontainbleau, la bocca di Europa di Gustave Moreau, il mento della Venere di Botticelli...”.

“Ella sostiene di voler...rompere con l’immagine esteriore ereditata dalla madre e il cognome ‘sociale’ ereditato dal padre per assumere il corpo che le suggerisce il proprio inconscio”.

Quindi anche la nostra immagine interna è condizionata dalle nostre relazioni con i volti degli altri e di questo deve tener conto l’autoritratto.La nostra identità è anche e sempre un’identità sociale che interagisce con il mondo esterno, perciò i volti degli altri condizionano il modo in cui noi vogliamo rappresentarci (la nostra ‘maschera’). Noi vediamo il nostro volto rispecchiato negli altri sia nel senso di un processo di imitazione e identificazione sia nel senso di ‘vederci’ con gli occhi degli altri.

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§ - MODIFICAZIONE DELLA PROPRIA IMMAGINE CORPOREA: TRUCCO E CHIRURGIA ESTETICA

Intervenire sul proprio volto con la chirurgia estetica o con il trucco è un modo per farsi l’autoritratto.

“La chirurgia plastica ha a che fare con il nucleo della personalità umana e con la più delicata delle percezioni umane: l’immagine che ognuno ha di sé stesso...Ogni intervento estetico determina una certa modificazione della propria immagine”.

Bonante, un truccatore professionista, scrive:

“Truccare per me è ...riuscire a far rivivere qualcosa che potenzialmente già vive...sedersi dinanzi a uno specchio e leggere, attraverso gli occhi, quello che è scritto nell’anima...”.

Il chirurgo estetico, che ha un compito più difficile del truccatore perché il suo intervento è definitivo, deve tener presenti le eventuali distorsioni che esistono nella percezione del paziente di sé stesso poiché l’immagine del proprio corpo è condizionata da numerosi fattori di carattere sociale e culturale e non è per niente stabile: varia a seconda dei periodi, dell’umore, dell’ambiente o delle relazioni sociali.Bisogna tener conto che il paziente, dopo l’operazione, non sempre si riconosce nella sua nuova figura, soprattutto se il chirurgo non ha perfettamente interpretato la personalità e le aspettative consce o inconsce del paziente.

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LO SPECCHIO

Tutti sono concordi nell’affermare che, senza lo specchio, non esisterebbe la tecnica dell’autoritratto. Pertanto quest’oggetto è stato ed è fondamentale nel ‘riconoscimento’ della propria immagine e per la sua gestione.Lo specchio come oggetto da toilette personale è conosciuto fin dall’antichità. Probabilmente fu inventato dagli Egizi attorno al 2500 a.C. ed era costituito da una superficie riflettente in metallo. Fu in voga sia presso i Greci che, importato, presso Etruschi e Romani.Nel XIII secolo fu inventato in Germania lo specchio sferico in vetro e ne abbiamo testimonianza in vari dipinti tra cui, il più famoso è I coniugi Arnolfini di Jan van Eych.Lo specchio in vetro piano viene creato a Murano e si diffonde proprio nel periodo in cui nascono sia la prospettiva che il vero e proprio genere dell’autoritratto, testimoniando, così, una possibile connessione tra l’una e l’altro.La loro connessione è a livello dei punti di vista, fondamentali nella prospettiva. L’Alberti asseriva che l’artista dev’essere in grado di proiettare la realtà sulla tela come fosse una superficie riflettente, perciò per autoritrarsi non ha altra possibilità di farlo che rappresentarsi mente si guarda allo specchio, cioè il suo sguardo deve coincidere perfettamente con il punto di vista del quadro. Ma questo punto di vista coincide anche con quello dello spettatore, perciò il ritrattato guarda lo spettatore mentre lo sta guardando. “Io ti/mi guardo guardarmi”. “Ambiguità schizofrenica, come si vede, che genera una perversione dello scambio comunicativo”(O.Calabrese). I pittori di varie epoche hanno giocato su questo tema che diviene molto complesso e variabile.

Honorè Daumier - Scene dell’atelier: un francese ritrae sé stesso 1848

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Norman Rockwell - Triplo autoritratto 1960

Cornelius Escher - Natura morta in una sfera 1935

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FUNZIONI E IMPLICAZIONI PSICOLOGICHE DELLO SPECCHIO

Numerose le varie funzioni e implicazioni psicologiche dello specchio.Esso ha un particolare significato per il bambino prima della formazione del suo Io e della sua identità e per l’adulto, in cui l’identità dovrebbe essere già acquisita, anche se i meccanismi che riguardano la formazione della nostra identità non sono mai conclusi.

Per quanto riguarda il bambino abbiamo varie teorie.Freud esemplifica la funzione essenziale dello specchio nell’identità infantile nel gioco FORT (via) e DA (qui). Questo gioco di ripetizione davanti allo specchio aiuta il bambino ad acquisire la consapevolezza del suo esistere con una determinata immagine e nel controllo sulla realtà “amministrando” la propria sparizione.Dal punto di vista di un’analisi dell’autoritratto, Freud ribadisce l’importanza che assumono lo specchio e l’atto di specchiarsi per quanto concerne l’esigenza di avere un controllo sulla propria immagine. “Vedersi e rivedersi allo specchio è...un mezzo per ritrovarsi...come accade nell’autoritratto”.

Jacques Lacan è stato il principale artefice nel sottolineare la funzione dello specchio nella formazione dell’Io.Egli introduce la “problematica dello specchio” nel 1936, considerando l’atteggiamento del bambino di fronte allo specchio nell’età compresa tra i 6 e i 18 mesi. Suddivide questo periodo in tre fasi: nelle prime due il bambino non si riconosce. Fondamentale è la terza fase: il bambino riconosce la sua immagine come propria e si identifica con essa. Questa sua identificazione nell’immagine “altra” dello specchio è primaria e matrice di ogni identificazione successiva.Da sottolineare (importante per noi arteterapeuti) è la predominanza della funzione visiva che ha un compito fondamentale nella formazione dell’Io.

Per Winnicot la funzione di specchio per il bambino viene esercitata dal volto della madre. Egli constata, infatti, che nel periodo che va dalla nascita ai 6 mesi (quindi precedente a quello descritto da Lacan) “nello sviluppo emozionale individuale il precursore dello specchio è il volto della madre” (“Gioco e realtà”), in cui vede riflesso il suo Sè e il suo stato d’animo.Se così non è, se il volto della madre non è “responsivo”, il bambino vedrà il volto della madre come oggetto e successivamente vedrà ogni volto in tal modo, quello degli altri ma anche il proprio e sarà un’immagine non accettata né riconosciuta.Secondo Winnicot è emblematico il caso di Francis Bacon che vede nel suo volto e in quello degli altri il suo rapporto distorto con la madre.

“Guardare un quadro di Bacon vuol dire guardare dentro a uno specchio per vedervi le nostre afflizioni e le nostre paure di solitudine, di insuccesso, di umiliazione, di vecchiaia, di morte e di indescrivibile catastrofe incombente”.

(John Rotenstein”)

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Francoise Dolto nel 1984 pubblica “L’immagine inconscia del corpo” in cui evidenzia come il rapporto con lo specchio può nascondere anche delle insidie e divenire un elemento unheimlich-perturbante.Essa pone il supporto dell’effettiva relazione con l’altro come elemento necessario per l’incontro del bambino con lo specchio. Altrimenti potrebbe verificarsi una pericolosa disgregazione della propria immagine e della propria personalità. Infatti per la Dolto l’immagine allo specchio è “povera e fredda, muta e vuota” e può divenire viva solo se c’è una persona rassicurante e nota vicino al bambino.La spinta all’autoritratto può essere collegata, quindi, anche all’esigenza di elaborare e superare il “trauma dello specchio” per cui l’artista, con i suoi mezzi artistici, ricompone i frammenti della sua immagine e la fa corrispondere al senso di sé.

La funzione di specchio dell’autoritratto può essere ricondotta anche alla relazione tra analista e analizzato. Già Freud la descrisse come specularità “Il medico deve essere opaco per l’analizzato e, come uno specchio, mostrargli solo ciò che viene mostrato”.Kohut in “Narcisismo e analisi del Sé” evidenzia l’importanza di questo ruolo soprattutto per pazienti affetti da narcisismo, per correggere la visione di sé stessi e ricondurre la propria fantasia di grandezza a misure ragionevoli.

IL MITO DI NARCISO

Il mito di Narciso può essere considerato uno scenario speciale del doppio, dello specchio e dell’autoritratto.E’ stato oggetto di interesse da parte di vari artisti (Caravaggio, Rubens) che hanno raffigurato l’incantamento autoerotico del personaggio nell’attimo dello specchiamento.E’un mito di amore e morte. Amore narcisistico e amore sessuale che confluiscono nel medesimo atto il quale, però, è destinato a fallire cioè a portare alla morte.

L’Alberti nel suo “Trattato” -1436- fece di Narciso l’inventore della pittura e, naturalmente, se Narciso è l’archetipo dell’artista e la fonte è lo specchio, la prima opera d’arte dovrebbe esser stata un autoritratto.Narciso pittore nasce nel momento dell‘identificazione “Ma costui sono io!...la mia figura riflessa non m’inganna” e la sua tragedia è l’impossibilità di sdoppiarsi e di realizzare il concupimento dell’amato.“L’oggetto del desiderio sta con me; una tale pienezza mi rende miserabile! Oh, se potessi separarmi dal mio corpo!” Narciso vorrebbe che la sua immagine potesse divenire autonoma e sopravvivergli.Questa è la funzione fondamentale dell’autoritratto come sfida contro la morte. “Non mi è dura la morte...vorrei piuttosto che vivesse costui, che io amo”.

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L’ AMBIGUITA’ DELLO SPECCHIO

La simbologia dello specchio nella cultura occidentale è estremamente ambigua. Compare, infatti, sia nelle allegorie delle virtù cardinali (Prudenza) che nei vizi capitali (Vanità).La sua facoltà di riproduzione delle immagini può essere sentita sia come oggettività e verità che come segno di illusione e fallacia.Nella pittura lo specchio può venir sentito come modello inarrivabile di riproduzione della realtà (Leonardo) ma anche come negazione dell’arte che non può limitarsi a essere solo una meccanica ripetizione del reale.D’altra parte lo specchio nella pittura viene usato come un mezzo che offre numerose possibilità di deformazioni, di ribaltamenti, di allontanamenti. Rende spesso problematico il significato delle opere e allude alle infinite possibilità nel processo di rappresentazione e autorappresentazione.

Sotto il profilo psicologico l’ambiguità dello specchio ci riconduce al concetto freudiano di ‘perturbante’.Lo specchio ci consente la costruzione del nostro Io e ci rassicura sulla stabilità della nostra immagine. Inoltre, come osservò Picasso, ci può rivelare aspetti nuovi della nostra immagine, facendoci conoscere realtà che vanno oltre l’aspetto esteriore.Questi elementi, però, si possono considerare all’opposto: il tema del doppio è soggetto frequente nella letteratura del perturbante; nella costruzione dell’Io rimane sempre il problema di poter perdere la propria identità; spesso le rivelazioni dello specchio possono essere alienanti e infine le rivelazioni dello specchio possono essere un modo per allontanare la verità.

Per Freud il ‘perturbante’ - unheimlich è qualcosa che un tempo è stato familiare e rassicurante e, divenuto inconscio per rimozione e superamento, quando riaffiora cambia di valore e diventa estraneo e pericoloso generando un sentimento di turbamento, cioè una sensazione di disagio e inquietudine.

Anche il perturbante è ambiguo: contiene in sé l’elemento della familiarità e della confidenza ma anche il loro contrario.Lo specchio può divenire un oggetto perturbante in quanto è heimlich poiché duplica e conserva la nostra immagine, unheimlich poiché l’immagine sparisce evocando la scomparsa dell’Io.E’ una dialettica tra presenza e assenza che può essere vissuta sia come gioco (FORT-DA) che come lutto e frustrazione.

Lo specchio ha poi una forte attinenza con la magia (per definizione unheimlich ) e con la morte (che sta nel cuore del perturbante).Numerosissime le testimonianze a livello mitologico, antropologico e folkloristico nonché letterario (compresa la letteratura fiabesca).

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FUNZIONI E MECCANISMI NELLA PSICOLOGIA DELL’AUTORITRATTO

Dal punto di vista dell’

AUTORE - L’autoritratto diviene una forma privilegiata di introspezione e autoanalisi.

FRUITORE - L’autoritratto è non solo l’espressione del volto dell’autore ma soprattutto del suo aspetto psicologico.

GENERICO - L’autoritratto esprime fondamentalmente il bisogno dell’uomo di prolungare la sua esistenza mettendo al sicuro la memoria di sé.

L’autoritratto ha la funzione di:

* Lasciare un’impronta.

* Oggettivare l’immagine per dimostrare di esistere e dare un aspetto, tangibile e osservabile dagli altri, di sé stessi (la nostra maschera).

* Esprimere i propri sentimenti (autoritratto mentale).

* Rappresentare un’ immagine ideale (autoritratto in vesti “diverse”).

L’autoritratto può avere un significato molto ampio quando implica una “fusione con la natura”.L’autoritratto dell’artista che conferma la propria identità ma non la isola poiché intende fonderla con la natura, riconfluire in essa siccome la sua identità coincide con l‘immedesimazione con le proprie origini.

Un esempio di questo è Giuseppe Penone.

E’ il “sentimento oceanico” di cui parla Freud, un’ “identificazione proiettiva” in una concezione magico-panteistica della realtà che presuppone, però, un Io molto forte e plastico per tollerare un grado così ampio di dilatazione.

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Alberto Boatto nella conclusione del suo “Narciso infranto” cita:“L’artista si sforza d’innalzarsi al rango di “coscienza planetaria”, di costruirsi un flessibile e ingordo “io globale”. Si va così delineando un’identità dilatata mediante una molteplice espansione in quel cosmo - in quel tutto - che la tecnica, proprio nelle sue manifestazioni di punta, ha aperto e sorprendentemente restituito all’uomo.E’questa “coscienza planetaria” che ci viene incontro negli autoritratti di Mirò e ... nei fotomontaggi di Rauschenberg... Narciso qui si disgrega in modo felice e positivo perché ha imparato a volgere nuovamente lo sguardo in direzione dell’universo”.

Comunque l’autoritratto svela la “plasticità” dell’Io poiché chi si rappresenta deve vedersi come “altro da sé” e l’Io deve sdoppiarsi pur mantenendo integra la sua unità.

AUTORITRATTO COME RIPARAZIONE - arteterapia

L’autoritratto può divenire mediazione di un rapporto fra sé stessi e gli altri.Abbiamo visto finora che la nostra identità, il nostro Io è, nella sua unicità, sintesi, non sempre coesa, di una molteplicità di sfaccettature, frutto della varietà delle nostre esperienze e dei nostri desideri.Pertanto la nostra identità può esprimersi concretamente attraverso “la diversità delle nostre maschere”, poiché “nessuna immagine e nessun volto riesce a esprimere la complessità, o meglio, la varietà del nostro essere”.D’altronde l’uomo aspira a dare concretezza all’unicità della sua identità attraverso un’unica immagine che rappresenti al meglio questa complessità e sia sintesi di questa. Quell’ “immagine interna” che ognuno ha dentro di sé e che, quasi mai, corrisponde a quella esterna. L’autoritratto, infatti, dovrebbe rappresentare all’esterno il proprio mondo interno come si vorrebbe venisse visto dagli altri. Infatti è un fattore molto importante la “relazione con il destinatario” dell’autoritratto, poiché ogni esibizione necessita di un teatro e quindi di spettatori. Il destinatario non può essere soltanto il soggetto che si rappresenta infatti è proprio nella relazione (magari più immaginaria che reale) con lo sguardo di un altro che si può compiere l’efficacia terapeutica dell‘autorappresentazione, sia che si voglia definire un volto per affrontare il mondo, sia per decostruire le varie maschere che ci rappresentano. Quindi il fatto di assumere una maschera o di toglierla non può verificarsi in mancanza di una relazione ma deve avere sempre un destinatario.

Un altro fattore terapeutico coinvolge in maniera più profonda il rapporto con sé stessi e con la propria interiorità.La scissione o lo sdoppiamento dell’Io funziona solitamente come meccanismo di difesa: chi dipinge non vive in prima persona il dolore o la sofferenza ma, rappresentandoli, li osserva dall’esterno. Questo è valido anche per l’autoritratto.Chi si autoritrae lavora sul confronto con l’altro che è dentro di lui, anche con le sue problematiche e le sue sofferenze.

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Pertanto si può affermare che è possibile ricorrere all’autoritratto anche per divenire spettatori di sé stessi ed esercitare un’azione di controllo sulla nostra interiorità e su tutto ciò che ci circonda.

Pensiamo agli autoritratti di Munch in cui urla, sofferente e sfigurato. La sua è la “rappresentazione” del suo dolore ma nel momento in cui dipinge è un attento esecutore di un’opera.Così l’ ”io dipinto” assomiglia all’“io che vive” ma solo come “equivalente formale dell’emozione del soggetto”, in cui il dolore (o l’emozione) si cristallizza in un’ immagine.

Quindi si può annoverare anche la pratica dell’autoritratto fra le strategie di difesa e di riparazione, poiché l’autoritratto è * autoanalisi,* introspezione e ricerca della propria identità,* ricostruzione dell’immagine frammentata del proprio Io,* ritrovamento della relazione con la madre,* ricostruzione di un Io sociale,* riparazione del lutto per la propria morte.

Un esempio di pittura come riparazione, evidenziando in particolar modo il genere dell’autoritratto, è quello di Frida Kahlo. Dice lei stessa:

“Dal momento che i miei soggetti sono sempre stati le mie sensazioni, i miei stati mentali e le reazioni profonde che la vita è andata producendo in me, ho di frequente oggettivato tutto questo in immagini di me stessa, che erano la cosa più sincera e reale che potessi fare per esprimere ciò che sentivo fuori e dentro di me”.

Dipinse più di 55 autoritratti. Verso la fine arriva a autorappresentarsi come una natura morta, “Naturaleza bien muerta”, iscrivendo l’icona del suo volto nella forma del vaso e nel disegno di fiori.

Rientra, infatti, nella modalità riparativa dell’autoritratto anche la funzione di elaborazione del lutto per la propria morte: “Mi autorappresento pensando a quando non ci sarò più”. Può avere diversi significati:

* Faccio il mio autoritratto per lasciare un’immagine di me a chi rimane, così mi identifico in coloro che piangeranno per me e partecipo al loro cordoglio.

* Mi dipingo da morto anticipando i segni che preannunciano la fine così mi abituo all’idea della mia morte e familiarizzo con essa o la esorcizzo.

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Picasso - 1972

Cornelius Escher - L’occhio 1947

Helene Schjerfbeck - Autoritratto 1945

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AUTORITRATTO COME TERAPIA

Abbiamo constatato che l’autoritratto riguarda innanzitutto il problema del rapporto dell’uomo con la propria immagine e quindi con la formazione e il sentimento della sua identità, e in ciò sta anche il suo fascino e la sua efficacia.Pertanto l’autoritratto può essere un mezzo non solo per interrogarsi e auto-analizzarsi ma anche per migliorarsi e stare meglio con sé stessi e con gli altri poiché ha in sé una potenzialità di “riparazione”.Alla base di tutto sta il rapporto (sempre complesso e controverso) con la percezione della nostra immagine e con il processo di formazione dell’Io che si rinnova e si ricrea continuamente.

Autoritrarsi è un’azione importante che rende stabile sia l’immagine momentanea del riflesso allo specchio che la propria identità in quel preciso istante.Quest’azione viene sentita immediatamente sul piano

1- FISICO, poi su quello psicologico e intellettuale.

FISICO poiché il corpo e la sua immagine hanno un ruolo primario ma anche perché il corpo reagisce all’emozione del “manifestarsi” agli occhi del mondo. Sappiamo infatti che i nostri sentimenti plasmano il nostro corpo ma anche che il corpo agisce sui sentimenti. E’ evidente che facciamo trasparire all’esterno ciò che sentiamo dentro, nell’espressione del volto e nella postura del nostro corpo, che coincidono con la nostra identità. Quindi l’autoritratto è in primis una forte esperienza corporea, connessa al fattore psiche.

2- L’autoritratto è una forma di AUTOAFFERMAZIONE.

Chi si autoritrae decide autonomamente di fissare la propria immagine sottraendola all’impermanente, al casuale.Nel contempo esercita un’azione di controllo su sé stesso e di analisi sulle parti di sé che possono emergere quali “unheimlich”. In tal modo si proiettano al di fuori e si liberano aspetti negativi o elementi traumatici che possono venire elaborati e, nel migliore dei modi, depurati e reintroiettati.

3- L’autoritratto è una forma di RELAZIONE con l’esterno.

Nella produzione dell’autoritratto noi coinvolgiamo dei fruitori (anche l’arteterapeuta) e inneschiamo con essi un rapporto di proiezione per cui anch’essi si sentiranno chiamati a guardare dentro di sé. In questo senso, pensando che ogni autoritratto è anche il nostro autoritratto, si favorisce la relazione e la comprensione tra le persone. Inoltre

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ogni autoritratto è condizionato dallo sguardo “dell’altro”, anche se solamente ipotizzato, pensato o ...temuto.4- L’autoritratto è una forma di ARTE TERAPIA.

Eseguire il proprio autoritratto obbliga l’utilizzo di strategie e materiali artistici e di un atteggiamento che implichi una scelta estetica adeguata al Sè.

“Se l’arte è una forma di terapia lo è nella misura in cui resta arte, autonoma rispetto a ogni protocollo clinico che opera su un altro piano” (Stefano Ferrari)

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LA FRUIZIONE DI UN AUTORITRATTO

Dal punto di vista psicologico la fruizione di un autoritratto è caratterizzata dal fatto di “sapere” che si tratta di un autoritratto e non di un ritratto.Molto spesso non si può comprenderlo se il fatto non viene dichiarato, a meno che non ci siano dei chiari elementi che lo facciano comprendere come lo specchio e il pittore che si ritrae.La fruizione di un ritratto o di un autoritratto si realizza in modo totale soltanto conoscendo il contesto storico-sociale e biografico del personaggio dipinto.esistono due piani di fruizione:

* La possibilità di conoscere il volto di un personaggio (magari famoso) e di collegarlo alla sua biografia.

* La lettura dell’autoritratto come testimonianza psicologica, come lettura dell’identità di una persona, dei suoi pensieri, delle sue emozioni, della sua interiorità.

In tal modo ci identifichiamo con il personaggio dipinto stesso diventando oggetto e soggetto della rappresentazione. E’ l’ “acrobazia psichica” dell’autoritratto che ha a che fare con la nostra identità e con la nostra continua ricerca e formazione del nostro Io.

* Il 10 aprile 1945 la Julian Levy Gallery di New York inaugurò una personale di Man Ray che comprendeva anche un “Autoritratto” costituito da uno specchio di alluminio con cornice in legno.

“ Uno specchio. Uno specchio banale, piano, piatto. Uno specchio appeso al muro. Un’etichetta incisa con lettere maiuscole nere è piantata nel muro all’altezza della cornice di legno bianco, titolo dell’opera: AUTORITRATTO.Io (sono io che guardo l’opera) guardo l’autoritratto di Man Ray. Io mi vedo. Lo specchio è il ritratto di Man Ray fatto da lui stesso dove io mi vedo. Chi è Man Ray? Man Ray è me che sono lui...Chi è Sosia?Questo specchio appeso in esposizione di Man Ray è un autoritratto. Ma autoritratto di chi? Il titolo tace l’identità. L’autoritratto è autoritratto. Solo la mia presenza gli conferisce una identità. La mia presenza fa di un autoritratto il mio autoritratto. Soltanto la mia presenza dà un senso all’opera. Questo autoritratto, metafora di ogni autoritratto, è forse la metafora della pittura stessa, morta se privata dello sguardo”.

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L’ IDENTITA’ IN PSICOLOGIA - riduzione dalla tesi della dott. Simona Leonardi http://www.cslogos.it/index.php?page=tesi-l-identita-in-psicologia

Lo sviluppo dell’identità personale nell’individuo è uno dei processi più importanti nell’ambito della psicologia.La problematica dell’identità è stata, nella storia letteraria, una questione su cui si sono imbattuti numerosi filosofi, psicologi e sociologi.Il concetto d’identità personale è uno dei cardini della filosofia occidentale riscontrabile sin dalle prime classiche trattazioni logiche di Aristotele, nella teoria cartesiana del cogito, fino a giungere alle problematiche contemporanee sull’identità personale; esso è fondamentale sia per la filosofia dell’essere, dell’ermeneutica, così come per la filosofia analitica anglosassone e per la philosophy of mind americana.Il problema dell’identità personale è costituito dalla dualità mente-corpo, che fu, per la prima volta, analizzato da Renè Descartes1. Egli cercò di risolverlo (gettando le basi di quella che sarebbe stata la concezione dell’identità personale, che è tutt’ora valida), elaborando una teoria basata sul dualismo tra “res cogitans” e “ res extensa”. Il dualismo di Descartes venne per la prima volta sottoposto ad un’analisi critica dal filosofo John Locke,2 il quale diede una prima vera e propria definizione d’identità: La ricerca e la definizione di che cosa sostanzia un’individualità, su che cosa si fonda e che cosa la tiene insieme nel tempo, attraverso l’esperienze, anche le più lontane o superate, in cui al momento non ci riconosciamo più.Secondo Locke la struttura mentale, responsabile dello sviluppo dell’identità in un soggetto, è la memoria. Attraverso quest’ultima la mente umana è in grado di poter ricostruire il flusso di ricordi e percezioni che collegano l’identità attuale dell’io con se stesso nel tempo.La relazione d’identità diviene trasmissibile nel tempo, nella mente di una stessa persona, non solo per il tramite di un rapporto logico di eguaglianza, ma anche e soprattutto da un rapporto di ordine psicologico veicolato dalla memoria stessa.Il filosofo scozzese David Hume 3 non condivide le teorie di Descartes e di Locke, egli sostiene che ciò che concorre ad originare in noi l’idea di un io unico e responsabile di ogni attività mentale è una pura illusione, generata dall’esistenza nella mente umana, di un fascio di percezioni, provenienti da ogni parte del corpo e da ogni stimolo sensoriale o mnemonico o immaginativo. Questo fascio di percezioni tende ad originare l’esperienza dell’unità della coscienza e che, comunque, la stessa mente umana sente l’esigenza di radunare attorno all’idea centrale di un io soggettivo, unico spettatore del teatro della coscienza.L’empirismo radicale di Hume quindi smonta la concezione lockiana, che sostiene che la memoria può essere considerata una condizione essenziale, perché in una mente si

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1 R. Descartes, Discorso sul metodo, Laterza, Roma-Bari, 1974.

2 J. Locke, Pensieri sull’educazione, (a cura di ) A. Carlini, Vallecchi, Firenze 1949.

3 D. Hume, Opere filosofiche vol 2, Laterza, Roma - Bari , 1992.

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vengano a creare tutte le condizioni ideali di continuità ed unità dei pensieri di un unico io.Alla fine del 19°secolo ritroviamo invece una delle analisi più approfondite del problema dell’identità personale che fu condotta nei”Principi di Psicologia” dal filosofo americano William James.4 Egli tratta dell’argomento nel capitolo 10° dei “Principi di Psicologia”; il problema della coscienza nel suo libro è trattato a partire da una progressione continua che dall’io empirico, chiamato oggettivo, giunge sino all’io puro, considerato astratto. James definisce “Io empirico” ciò che ognuno è portato a chiamare col nome di me e precisa che il limite tra io e il me non è affatto netto e preciso. Arriva così a formulare una definizione di io:“L’io di un uomo è la somma totale di tutto ciò che egli può chiamare suo, non solo il suo corpo e le sue facoltà psichiche, ma i suoi abiti, la sua casa ma anche sua moglie, i suoi amici, i suoi bambini e i suoi biglietti di banca”.Egli prende in considerazione gli elementi che costituiscono l’io:1) “L’io materiale” che comprende il corpo, i vestiti ,la famiglia, gli abiti e la casa;2) “L’io sociale” che si identifica con il riconoscimento ottenuto da propri simili;3) “L’io spirituale” inteso come l’io di tutti gli altri io, quello più intimo, il nodo centrale dal quale sorge “il senso di attività” che comprende affezioni, desideri e dal quale scaturisce l’eccitazione e che sfocia in ultimo nella volontà;4) “L’io puro” principio dell’ identità personale.L’intento del filosofo è quello di affrontare il problema del senso dell’identità personale in modo antisostanzialistico, eliminando l’Anima spiritualistica, l’Appercezione kantiana, e l’associazionismo humiano5.Egli taccia di assolutismo tanto lo spiritualismo quanto l’associazionismo humiano che ritiene che tutto nell’io è diversità.

Nel 20° secolo, invece il problema dell’identità personale è stato oggetto d’interesse da parte di numerosi approcci, dalla psicoanalisi alla psicologia sperimentale.

La psicoanalisi ha notevolmente contribuito all’individuazione ed alla definizione degli elementi che costituiscono il profilo dell’identità e dei fattori che intervengono nel processo della sua costruzione.Secondo Freud6 lo sviluppo dell’io trae origine dal concetto di memoria. Egli espone i cardini di questa sua teoria all’interno del progetto del 1895:

“Una delle principali caratteristiche del tessuto nervoso è la memoria, cioè, la facoltà di subire un alterazione permanente in seguito ad un evento... .Qualsiasi teoria psicologica meritevole di

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4 W. James, Psychology: The briefer corse (1892), Harper, New York.

5 E. Visani, Identità e Relazione, Franco Angeli, Milano, 2001.

6 S. Freud, “Progetto di una psicologia “(1895), vol. 4, Boringhieri , Torino 1968, pp. 201-288.

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considerazione deve fornire una spiegazione della memoria”. Una delle difficoltà maggiori incontrate da Freud nell’affrontare il fenomeno della memoria sta nel pensare a una funzione, a livello neuronale, che viene alterata da un flusso di energie e allo stesso tempo rimane indipendente.

Uno dei principali contributi alla psicologia psicoanalitica dello sviluppo dell’identità, è da attribuirsi al modello di separazione-individuazione proposto da Margaret Mahler7. Questo modello consente di evidenziare i quadri patologici che derivano dalle distorsioni o dai blocchi evolutivi. La stessa Malher precisa che ”separazione ed individuazione sono due sviluppi complementari: la separazione consiste nell’emergenza del bambino da una fusione simbiotica con la madre e l’individuazione, invece, consiste in quelle conquiste che denotano l’assunzione da parte del bambino delle proprie caratteristiche individuali”. Mahler divide il processo di separazione-individuazione in quattro sottofasi che coprono l’arco di tempo che va dai 4-6 mesi ai 3 anni di età; in questo arco di tempo possiamo riscontrare una progressiva costruzione dell’identità individuale fondata sostanzialmente su due binari: il riconoscimento e la approvazione della corporeità da un lato, mentre dall’altro la interiorizzazione e stabilizzazione dell’immagine materna buona che è, al contempo, requisito prioritario e fattore di trascinamento delle prime stabili identificazioni che riguardano anche figure diverse dalla madre.

Possiamo concludere ponendo l’attenzione su tre punti rilevanti del concetto d’identità:1) La conquista dell’autonomia motoria induce nei bambini un iperinvestimento

libidico che tende a tradursi in un rafforzamento della sicurezza in se stesso e quindi dell’autostima che, a sua volta, alimenta la spinta verso l’autonomia.

2) In questa fase si manifesta quella che Spitz8 (1958) definisce angoscia dell’estraneo, tutto ciò che non è familiare fa paura. Questa reazione psicologica così primitiva, utile nelle prime fasi dello sviluppo per progredire verso un’ identità, rimane latente e attiva per tutta la vita, con il compito positivo di allarme, quindi di autodifesa in ogni situazione.3) Infine, il modello proposto dalla Mahler ha come obiettivo dichiaratamente positivo la conquista della separazione, vista come requisito dell’autonomia.Il processo di separazione - individuazione si conclude dunque, per quel che riguarda la costruzione dell’identità, con una prima stabile introiezione della figura materna buona che ha assorbito in sé quanto si era depositato nel bambino in termini di autostima derivato dalle esperienze di soddisfazione e di un conseguente sentimento di sicurezza.

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7M.S. Mahler.- F. Pine - A. Bergman, La nascita della psicologia del bambino.(1975), Boringhieri, Torino, 1978.

8 R. A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino. Genesi delle prime relazioni oggettuali, (1958), Giunti e Barbera, Firenze, 1962.

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Si può guardare al tema dell’identità, della sua costrizione e della sua patologia anche dal punto di vista della “psicologia del Sé ” elaborata da Heinz Kohut.9

I pazienti di Kohut manifestano l’isolamento e la dolorosa alienata condizione della società occidentale del nostro tempo, quella caratterizzata dalle cosiddette ”nuove povertà”. I pazienti che si presentavo al suo studio, descrivono la propria condizione psicologica come un essere in sospeso, che accompagna un sentimento di depressione vago e diffuso. Si trattava di pazienti con disturbi narcisistici della personalità e quindi, secondo la teoria classica, non analizzabili. Kohut aveva inizialmente affrontato questi casi secondo l’approccio della Psicologia dell’Io; studiandoli meglio, fu portato a spostare l’accento dalla dimensione conflittuale a quella reale, quale possibile causa della distorsione di personalità. A partire quindi dalla patologia dei suoi pazienti, Kohut sviluppò una teoria relativa al normale sviluppo del Sé. Essa prevedeva tre condizioni: a) che il bambino sperimenti condizioni che gli confermino l’innato senso del vigore, grandezza e perfezione ;b) che possa avere contatti con altri potenti che egli possa ammirare e con i quali si possa fondere in un immagine di calma, infallibilità e onnipotenza;c) che possa sperimentare rapporti con soggetti che gli suscitano una essenziale uguaglianza con lui.Quando queste condizioni vengono soddisfatte, le esperienze positive di sicurezza e di autostima conseguenti vengono interiorizzate dal bambino attraverso un meccanismo che Kohut chiama “interiorizzazione trasmutante”; ciò in un Sé solido ed elastico, che conserva il nucleo di entusiasmo e vitalità degli stati narcisistici originari e immaturi. Certamente, questa visione è molto lontana dal punto di vista freudiano ed in effetti Kohut, che iniziò il suo studio operando all’interno della teoria strutturale, concluse nel suo ultimo libro che la Psicologia del Sé non era uno completamento di quella freudiana,ma un alternativa.

L’identità, l’io e i post- freudiani Nella teoria e nella pratica psicoanalitica sono sempre esistiti controversie e dissensi. Dagli scontri personali e dalle gelosie all’interno della cerchia originale di Freud, alle sue rotture con Jung, Adler, Rank e Ferenczi, l’ortodossia psicoanalitica è sempre stata rilevante per le lotte politiche della comunità psicoanalitica che per le sue molteplici e varie teorizzazioni.

Jung10 invece definisce l’identità come costitutivamente inconscia :

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9 H. Kouth, Narcisismo e analisi del Se, (1971), Boringhieri, Torino, 1977; idem, La guarigione del Sé (1977), Boringhieri, Torino, 1984

10 C. G. Jung, Mysterium coniunctionis (1959), Vol.14, Tomo 1 e 2 , Boringhieri, Torino, 1990.

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“Parlo d’identità nel caso di uguaglianza psicologica. L’identità è sempre un fenomeno inconscio, giacché un’ eguaglianza cosciente sarebbe già la consapevolezza di due cose eguali fra loro e presupporrebbe quindi una separazione fra soggetto e oggetto così, il fenomeno dell’identità verrebbe annullato. L’identità psicologica ha come presupposto quello di essere inconscia. Essa è una caratteristica della mentalità primitiva ed è la base vera e propria della partecipation mystique, la quale infatti altro non è che un residuo della primordiale mancanza di distinzione psichica fra soggetto e oggetto, dunque del primordiale stato inconscio; essa è, poi, una caratteristica dello stato mentale della prima infanzia e, infine, è anche una caratteristica dell’inconscio dell’uomo civilizzato adulto; perché tale inconscio, in quanto non è divenuto un contenuto della coscienza, permane durevolmente nello stato d’identità con gli oggetti. L’identità consiste innanzi tutto in una eguaglianza inconscia con gli oggetti. Essa non è un’equiparazione, un’identificazione, ma una eguaglianza data a priori, che non è mai rientrata nell’ambito della coscienza. Sull’identità si basa l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che dappertutto valgono gli stessi motivi, che ciò che piace debba ovviamente piacere anche agli altri, che ciò che è immorale per me debba esserlo anche per gli altri”.

L’identità in psicologia dello sviluppoLa costruzione dell’identità

Uno degli autori più importanti che si occupato dello sviluppo della persona e della sua identità è Erikson.11 Pur se di estrazione psicoanalitica, egli concentra la propria attenzione sull’interazione tra individuo-ambiente tanto che definisce gli stadi di sviluppo stadi psico-sociali.Scopo fondamentale dell’uomo è la ricerca di un una propria identità, che pur variando nel tempo, è caratterizzata dall’esigenza di un coerenza dell’Io tale da permettergli un rapporto valido e creativo con l’ambiente sociale.Gli aspetti fondamentali del pensiero di Erikson si possono riassumere in tre punti:1. Il ciclo vitale dell’individuo è caratterizzato da una serie di tappe evolutive (stadi) che comprendono una coppia antinomica: una conquista ed un fallimento. Questo situazione è definita “qualità dell’Io”.2. Questi stadi non sono, come dice Freud, definiti da specifici momenti biologici, bensì da particolari modalità sociali. 3. Ogni tappa deve portare al rinforzo della specifica qualità positiva dell’Io: solo in questo modo il soggetto può accedere validamente allo stadio successivo.Erikson concettualizza il ciclo di vita come una serie dei periodi critici dello sviluppo che implicano un conflitto da affrontare e risolvere prima di procedere in avanti. Le polarità di ogni stadio prevedono una crisi, un punto di passaggio cruciale,

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11 E. Erikson , Infanzia e Società.(.1950 ), Armando Editore, Roma, 1968, p. 35.

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attraversando il quale lo sviluppo evolve per il meglio o per il peggio nell’orientamento della persona verso il contesto storico - sociale.

La teoria sullo sviluppo mentale del bambino di Piaget

La più importante teoria sullo sviluppo mentale del bambino, la prima ad averne analizzato sistematicamente, con il metodo clinico di esplorazione delle idee, la percezione della logica, è quella elaborata da Piaget12. Egli ha dimostrato sia che la differenza tra il pensiero del bambino e quello dell’adulto e di tipo qualitativo sia che il concetto d’intelligenza è strettamente legato al concetto di adattamento all’ambiente. L’intelligenza non è che un prolungamento del nostro adattamento biologico all’ambiente.L’uomo non eredita solo delle caratteristiche specifiche del suo sistema nervoso e sensoriale, ma anche una disposizione che gli permette di superare questi limiti biologici imposti dalla natura.Piaget distingue due processi che caratterizzano ogni adattamento: l’assimilazione e l’accomodamento che si avvicendano durante l’età evolutiva. Per assimilazione s’intende quando un organismo adopera qualcosa del suo ambiente per una attività che fa già parte del suo repertorio e che non viene modificata per esempio un bambino di pochi mesi che afferra un oggetto nuovo per batterlo sul pavimento, assimila questa azione allo schema già preesistente e farà quindi la stessa cosa con qualsiasi altro oggetto; dobbiamo dire però che la nuova azione non cambia però lo schema preesistente, ma si limita ad ampliarlo e rafforzarlo. All’assimilazione segue l’accomodamento ovvero la trasformazione delle strutture di conoscenza preesistenti, in funzione degli schemi appena assimilati esempio la suzione del pollice implica comportamenti nuovi e diversi rispetto agli originari comportamenti di suzione del seno. Possiamo quindi dire che un buon adattamento all’ambiente si realizza quando assimilazione e accomodamento sono ben integrati tra loro.

Gli elementi costitutivi dell’identitàL’identità di una persona è anzitutto la sua unicità ovvero la sua riconoscibilità, essa consiste in tutto ciò che impedisce di confonderla con un’ altra. Possiamo dividere l’identità in: identità oggettiva e in identità soggettiva. Per identità oggettiva intendiamo il modo cui ciascuno è riconoscibile e inconfondibile agli occhi degli altri, mentre per identità soggettiva s’intende il modo in cui ciascuno si percepisce, si descrive, ed eventualmente si accetta così com’è. Il concetto d’identità è legato, in gran parte, al concetto di personalità, la personalità è infatti definibile come l’identità psicologica di una persona.

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12 J. Piaget, La rappresentazione del mondo del fanciullo (1929), trad. it., Boringhieri, Torino, 1973.

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Gli altri due aspetti importanti dell’identità individuale sono: l’identità somatica e l’identità sociale. L’identità somatica, sancita dall’unicità del DNA che caratterizza tutte le cellule del corpo dal concepimento fino alla morte, si esprime non solo nell’aspetto, ma anche nella voce, nella mimica e nel modo tipico di muovere le mani e in tanti e diversi modi di comunicare e esprimersi. E’ difficile infatti dire dove finisca l’identità del corpo e dove inizi quella psicologica; possiamo dire, quindi, che l’identità psicologica riguarda gli aspetti legati al tipo di costituzione corporea, la reattività emozionale e tutto ciò che fin dalla prima infanzia ci orienta in modo diverso, indipendentemente dal tipo di educazione; mentre, l’identità sociale, possiamo definirla come la collocabilità di un individuo all’interno di un determinato punto del tessuto sociale. L’identità sociale è costitutiva da una varietà di fattori come il nome e cognome, lo stato civile, la cittadinanza, la residenza, la professione ecc…

La nascita del Sé Il Sé può essere inteso come un sistema costituito dai tratti costanti delle personalità, che viene percepito dal soggetto come continuo nel tempo, in relazione con gli altri e portatore di valori.Il Sé permette all’individuo di adottare un particolare punto di vista da cui osservare il mondo, un riferimento che media le esperienze sociali e che organizza il comportamento verso gli altri. Ha un ruolo chiave in quanto determina le modalità con le quali ognuno di noi costruisce la realtà e quali esperienze cercare per mantenere l’immagine che abbiamo di noi stessi.Il Sé ha un carattere differente da quello dell’organismo fisiologico proprio. Inizialmente, alla nascita, non esiste ancora; in seguito compare nel processo dell’esperienza sociale, e si sviluppa in un dato individuo come risultato delle sue relazioni con altri individui all’interno di questo processo. Una particolare attenzione è stata rivolta alla capacità da parte del bambino di riconoscersi visivamente allo specchio; a questo proposito è stato fatto un esperimento: è stata posta una macchia rossa sulla punta del naso di un bambino che veniva posto successivamente davanti allo specchio; il bambino guardando la propria immagine riflessa, avrebbe dovuto cercare di cancellare la macchia dal proprio naso e non quella dal naso nello specchio, nel primo caso, si sarebbe potuto considerare in possesso di una certa autoconsapevolezza, nel secondo caso risultava evidente la mancata acquisizione di questo comportamento.A questo punto sorge, però, una domanda: come fanno i bambini a riconoscere se stessi? Essi possono usare due tipi di indizi: gli indizi contingenti, derivanti dal fatto che l’immagine speculare si muove esattamente in tandem con i movimenti propri del bambino e quindi dipende da essi, e l’indizi morfologici, ossia le caratteristiche fisiche del bambino. Dai risultati della ricerca, è emerso che questa capacità non era stata riscontrata in nessun bambino al di sotto dell’anno di età, infatti la sua prima comparsa avviene circa tra i 15 e i 21 mesi d’età.

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L’autoriconoscimento non è un processo improvviso; ci sono altri due importanti elementi che incidono e che dobbiamo tenere in considerazione: il linguaggio del bambino e il modo di comportarsi, a secondo che il sé sia coinvolto oppure no .Tutti noi abbiamo un’ immagine del tipo di persona che crediamo di essere. Ciò, in parte, riflette il modo come gli altri ci vedono, il cosiddetto “sé-specchio“ di Cooley 13. Ma il sé rappresenta principalmente una nostra creazione, determinata dai valori e dalle predilezioni di ciascuno, che ha tra le sue conseguenze la possibilità di porre grande enfasi su alcuni aspetti più che su altri, portandoci così a un’ immagine distorta, se confrontata con quella che gli altri hanno di noi.

Il risultato dei nostri sforzi costruttivi costituisce il concetto del sé, esso si riferisce agli aspetti cognitivi dell’organizzazione del sistema del sé ed esprime la conoscenza soggettiva psicologica e fisica che gli individui hanno di se stessi. Il concetto di sé non è statico; esso è modificato dal continuo processo di autosservazione in cui tutti indulgiamo. E’ influenzato da tutte le esperienze fatte, specialmente dalle sensazioni di capacità o di incapacità causate dai successi e dai fallimenti.

Parlando del concetto di sé un sentimento ad esso molto vicino è l’autostima.L’autostima è il sentimento che ogni individuo, maschio o femmina, ha del proprio valore e della propria capacità. Rappresenta perciò l’aspetto valutativo del sistema del sé e si riferisce all’immagine di un sé ideale che tutti noi possediamo. Possiamo parlare, quindi, di alta autostima, quando il senso del sé e sufficientemente buono; mentre la bassa autostima implica insoddisfazione, rifiuto, disprezzo per se stessi.Ogni individuo, quindi, costituisce una realtà complessa ed elabora le proprie esperienze in situazioni diverse, ma anche in rapporto al presente e al futuro.

Il rapporto fra il sé e l’identitàCon i termini Sé ed Identità, la maggior parte degli studiosi fa riferimento a differenti processi psicologici relativi alla costruzione, mantenimento e cambiamento dell’autoconsapevolezza e dell’automonitoraggio comportamentale. Processi che regolano, quindi, il comportamento della persona nell’interazione con l’ambiente. Come il Sé, anche l’identità è un costrutto concettuale con cui si indicano gli effetti, cognitivi ed affettivi, di molteplici processi integrativi sul piano dell’autoconsapevolezza, delle autorap-presentazioni e delle autodefinizioni condivise ed impersonate che passano attraverso i ruoli sociali. La nozione di identità è impiegata da tempo come equivalente a quella di concetto di Sé e, al di là delle sfumature che ognuna delle due nozioni esprime, ambedue rinviano all’unicità di ogni persona, ai sentimenti di individualità, di intenzionalità, alla capacità di pensare a se stessi, ad avere coscienza e conoscenza di sé.Esiste una circolarità regolativa tra ruoli, identità e Sé, dal momento che ogni situazione, episodio o relazione, implicano cambiamenti o aggiustamenti sul piano

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13 C. H. Cooley, Human nature and social order, Child Development, New York, 1902.

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dell’autoconsapevolezza. Circolarità attraverso cui l’individuo cerca normalmente di mantenere una coerenza tra le sue azioni e la persona che crede o rivendica di essere. Il punto centrale su cui gli studiosi del Sé concordano, siano essi psicosociologici o neurologi è che il Sé e l’identità emergono sempre da una qualche forma di relazione, interna od esterna. Circolarità attraverso cui l’individuo cerca normalmente di mantenere una coerenza tra le sue azioni e la persona che crede o rivendica di essere.Il paradigma che domina gli studi e le ricerche sul Sé e sull’Identità è che l’individuo non resta passivo di fronte al prodursi dei significati che lo riguardano e che producono le rappresentazioni di sé o il suo senso d’identità personale.Finché gli è possibile, l’individuo partecipa attivamente a sostenere una definizione della situazione che sia coerente con le immagini che ha di se stesso. Dall’altro l’identità, come articolato sistema di rappresentazioni unificate di sé e mediate da un ruolo, non risulta di totale proprietà della persona a cui viene attribuita, ma risiede nella struttura normativo-simbolica e nelle regole che governano l’interazione.Cerchiamo ora di configurare le dimensioni, le strutture e i processi che attengono al Sé e all’identità personale.L’identità personale è il risultato di diversi processi psicologici, intrapersonali ed interpersonali, che confluiscono in una struttura organizzatrice della conoscenza individuale relativa a se stessi. Attraverso l’identità personale, gli uomini e le donne non solo hanno un’esperienza cognitiva ed emotiva di Sé ma sono in grado di: * elaborare ed integrare in modo coerente l’informazione interna ed esterna che li riguarda, per esempio, quella somatica e concettuale;* codificarla sotto forma di memoria autobiografia, conferendo alla storia soggettiva coerenza retrospettiva e continuità futura;* selezionare ed attuare i repertori di comportamento più adeguati alla propria identità

sessuale, sviluppando le relative competenze socialmente trasmesse.

L’identità personale è anche un sistema di regole e segni condivisi, attraverso cui l’individuo da vita a una identità sociale. Mediante la capacità di utilizzare regole e significati, per esempio relativiall’immagine di sé, l’individuo realizza atti comunicativi, produce versioni di sé, adatte al contesto e alle diverse forme dell’interazione.L’identità personale è sostenuta da due processi:1- L’autoconsapevolezza, cioè il flusso di energia che ogni uomo e ogni donna sperimentano;2- L’autoregolazione, intesa come capacità di automonitoraggio corrispondente alla percezione oggettuale che uno ha di sé e delle proprie azioni.L’autoconsapevolezza ed l’autoregolazione, il cui grado e capacità variano fra gli individui, permeano tre dimensioni dell’identità personale:

a) il concetto di Sé (aspetto intrapersonale) b) la rappresentazione di Sé (aspetto interpersonale e situazionale ) c) l’identità tipizzata (aspetto intra / intergruppo).

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Concetto di Sé ( area intrapersonale ) è definibile un insieme di categorie semantiche naturali rappresentate mentalmente dai concetti lessicali che concorrono a formare l’idea che una persona ha di se stessa. Il concetto di sé appare come una teoria e non come una entità esistente, a questo proposito è utile accogliere quanto proposto da Neisser14 che considera il Sé concettuale come il momento di integrazione e di continuità delle varie forme di autoconoscenza ( Sé ecologico, interpersonale, esteso e privato). Il Sé concettuale è, quindi una vera e propria teoria su se stessi, caratterizzata da due sistemi di convinzione relativi al significato e valore :1) Le caratteristiche psicologiche, somatiche e di ruolo;2) I rapporti sé-mondo nell’ambito delle credenze attinenti alla psiche, all’anima o alla personalità.Rappresentazioni di Sé ( area interpersonale ) possono essere considerate come sottosistemi del concetto di Sé. Il concetto di sé costituisce infatti un’ipotesi teorica che l’individuo si forma al fine di rendere l’interazione prevedibile e governabile, la rappresen-tazione di sé ne costituisce la parte operativa empiricamente proiettata nell’assunzione di ruoli e di volti di identità. Le rappresentazioni del sé influenzano l’interpretazione del proprio ruolo, agendo sulla motivazione, sul comportamento, sull’organizzazione del sintomo nevrotico, sulla disponibilità o meno al cambiamento.Identità tipizzata ( area intra / intergruppo ) è un insieme di tratti attribuiti a se stessi, relativi ad aspetti disposizionali, comportamentali, espressivi e di ruolo, di natura prototipica e stereotipia. Una tipizzazione dell’identità è formata da un repertorio di tratti coerenti tra loro e con il contesto etico-normativo che li legittima.

ConclusioniIl lavoro fin qui svolto ha voluto evidenziare il complesso meccanismo di strutturazione dell’identità nell’individuo. Abbiamo visto come lo sviluppo dell’identità attraversi varie fasi, che hanno inizio già dalla nascita con il forte legame che da subito si instaura con la madre, il cosiddetto” legame di attaccamento”, attraverso il quale il bambino incomincia a strutturare le prime basi dei legami affettivi. Il rapporto che il bambino instaura con la madre e il suo atteggiamento nei suoi confronti rappresenta un elemento fondamentale per un sano sviluppo dell’identità personale del bambino; infatti, i dati che emergono testimoniano che sempre più spesso le origini dei disturbi dell’identità sono da ricercare in traumi emotivi, violenze e maltrattamenti, subiti nell’infanzia e nell’adolescenza che se non adeguatamente superati, possono dare origine a gravi disturbi nell’età adulta.Queste osservazioni ci portano ancora una volta quindi a sottolineare la complessità della strutturazione dell’identità personale in ogni individuo e la necessità di integrare

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14U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, trad. it. , a cura di Maria Bagassi , Bologna , 1993

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dei modelli psicoanalisti alle tendenze cognitivistiche di interpretazione dei fenomeni psichici.Nel corso degli ultimi decenni infatti lo studio dei sistemi emozionali-motivazionali come centrati nell’organizzazione dei comportamenti normali e patologici e dei processi di psicoterapia, è stato anche oggetto di studio dei modelli cognitivo-comportamentali, le emozioni nel lavoro clinico sono state sempre più valorizzate, con una serie di contributi da parte dei modelli cognitivo- comportamentali. E’ necessario quindi una riattualizzazione della psicologia dinamica per comprendere l’identità ed intervenire sui suoi disturb

BibliografiaE. Erikson , Infanzia e Società.(.1950 ), Armando Editore, Roma, 1968, p. 35.S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921), Boringhieri, Torino, 1977, vol.9, pp. 193-334.J. A. Fridman, Le origini del Sé e dell’identità, Astrolabio, Roma, 2001, pp.44-51. A. Fonzi, Manuale di psicologia dello sviluppo, Giunti, Firenze, 2001.G. Jervis, Psicologia dinamica, Il Mulino, Bologna, 2001.C. G. Jung, Mysterium coniunctionis (1959), Vol.14, Tomo 1 e 2 , Boringhieri, Torino, 1990.F. Kernberg, Relazioni d’amore. Normalità e Patologia, Raffaello Cortina editore , Milano, 2003.K. Knight, L’intelligenza Artificiale, Mc Graw Hill, Seconda Edizione, 1992.H. Kouth, Narcisismo e analisi del Se, (1971), Boringhieri, Torino, 1977; idem, La guarigione del Sé (1977), Boringhieri, Torino, 1984.M.S. Mahler, La nascita della psicologia del bambino.(1975), Boringhieri, Torino, 1978.G. H. Mead, Mente, Sè e società (1934), Giunti, Firenze, 1966.G. Miti, Personalità multiple. Uno studio sui disturbi dissociativi, Carocci, 1992.U. Neisser, Conoscenza e realtà, Il Mulino, trad. it. a cura di Maria Bagassi , Bologna , 1993.J. Piaget, La rappresentazione del mondo del fanciullo (1929), trad. it., Boringhieri, Torino, 1973.F. W. Putnam, La dissociazione nei bambini e negli adolescenti, Astrolabio, Roma, 2005.H. Rudolph Shaffer, Lo sviluppo sociale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998.R. A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino. Genesi delle prime relazioni oggettuali, (1958), Giunti e Barbera, Firenze, 1962.D.N. Stern, Il mondo interpersonale del bambino,trad. it., Boringhieri, Torino 1987.L. Trisciutti, La formazione del Sé, edizioni ETS, Pisa, 2004.E. Visani, Identità e Relazione, Franco Angeli, Milano, 2001.C. West, Prima persona plurale, Sonzogno, Milano, 2001.

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L’ABBIGLIAMENTO

Ognuno di noi, per poter vivere bene, deve stimare la propria identità e amarla proprio per la sua “irripetibilità”.Molto spesso abbiamo bisogno di conferme dall’esterno, da parte degli altri che ci guardano e dai quali ci sentiamo “giudicati”. Allora possiamo affidare la comunicazione del nostro essere a degli oggetti che esibiamo per confermarci, per apparire ma anche per millantare un valore o una personalità che ecceda i nostri limiti cadendo nel “narcisismo”.Tra gli oggetti che determinano la nostra identità esteriore perché fanno trasparire la nostra personalità in pubblico sono importantissimi gli abiti e gli “accessori” con cui vestiamo e addobbiamo il nostro corpo.

Fin dall’antichità infatti l’abbigliamento ha rappresentato un elemento di identità e di individuazione: le differenti fogge degli abiti specificano e rendono riconoscibile un’appartenenza storica e geografica etnica e culturale. La nostra identità è espressa anche dal nostro ruolo sociale.

Il tessuto è la nostra “seconda pelle” ed effettivamente nessuno può ammettere di non aver avuto un rapporto particolare, fantastico o di proiezione nei confronti degli abiti.E’ infatti attraverso il tessuto (e l’abito) che ci si può sentire piacevoli, liberi, disinvolti, a proprio agio o viceversa.Il tessuto è un materiale che ha molteplici valenze simboliche e intrinseche, legate all’espressività dei panneggi, dei colori, delle trame e delle stampe.

Aldous Huxley dice : “Gli esseri umani civilizzati indossano abiti, quindi non vi può essere immagine né racconto storico senza rappresentazione di tessuti e di drappeggi...”

Molto spesso l’abito e il drappeggio stabiliscono il tono dell’opera d’arte, fissano la chiave in cui il tema viene reso, esprimono il temperamento dell’artista. Pensiamo ai grandi del Rinascimento e alle loro raffigurazioni sacre o profane (per primo Botticelli che sembra affidare al tessuto le sue - e nostre - emozioni), ma anche ai mantelli di El Greco, alle pieghe sottili e ai tessuti di Cosmé Tura che avvolgono corpo i quali prendono significato proprio grazie all’abito.Quindi è la stoffa, il tessuto, l’abito che si ergono a testimoniare l’identità dei corpi, il significato del dipinto, le intenzioni del pittore e molto altro ancora.

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L’ABITO

Da habitus > modo di abitare il corpo, di metterlo in scena e manifestare il “simbolico”, registrando i mutamenti e gli immaginari sociali.

L’abito si intreccia ai diversi settori della cultura ed è in stretto rapporto con l’arte, la fotografia, il cinema, il teatro, la danza, la musica, la comunicazione, tanto che diviene medium esso stesso tramite la “moda”.

Le FUNZIONI PRIMARIE attribuite all’abito (Flugel 1992) sono:

1- RIPARO dalle intemperie e copertura in funzione del pudore.2- PROTEZIONE fisica o simbolica.3- ORNAMENTO.

Ma ve ne sono altre poiché l’abito ha a che fare con il “simbolico”.

4- Le leggi e le gerarchie del SOCIALE inscritte sui corpi.5- Il mettersi in RELAZIONE con il cosmo.6- La creazione dell’IMMAGINE DI SE’.7- La comunicazione e l’estensione dell’ INDIVIDUALITA’ e la sua esibizione (maschera).

Quindi l’abito “configura il corpo, è una modalità di “abitare” il corpo, di strutturarne le tecniche e di iscrivere le categorie sociali ... strutturando il soggetto, le sue maschere e le sue numerose identità.”

“I tre approcci - storico, sociologico e funzionale (di derivazione etnologica o psicanalitica) - sembrano combinarsi sempre più in un numero di analisi più strutturali, che hanno il merito di considerare il ruolo dell’abbigliamento in funzione dell’individuo, dell’organizzazione sociale e del suo sistema di pensiero” (B.Remarque 1995).

Relazione, quindi, tra abito e cultura per cui l’abito cessa di essere un oggetto per divenire “segno portatore di un insieme di codici e valori”.

Simmel (1895) connette moda e metropoli.

Veblen (1899) ne fa un emblema del capitalismo.

Seunet (1976) vi vede una maschera sociale e l’espressione del Sé (individuale).

Barthes (1967) vi individua l’estensione e l’esaltazione dell’io corporeo, la riscrittura e la comunicazione della propria immagine.

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Riassumendo l’abito configura lo “schema corporeo” poiché è pelle che si aggiunge alla pelle naturale (mentre il tatuaggio diventa “stoffa”, pelle colorata!).E’ la lingua del corpo che si scrive addosso modi di essere, storie, racconti, appartenenze.

Paul Schilder, nell’ultima parte del suo saggio ...... tratta anche la sociologia dell’immagine corporea e ribadisce che le modalità con cui l’individuo esperisce il proprio corpo “non possono prescindere da condizionamenti di tipo sociale legati, ad esempio, all’ abbigliamento”.

“Gli abiti divengono una parte dell’immagine corporea ... Qualsiasi articolo di abbigliamento noi ci mettiamo addosso, esso diventa immediatamente parte della nostra immagine corporea ed è riempito di libido narcisistica... Per mezzo degli abiti ci identifichiamo con gli altri, diventiamo come loro; imitando il loro modo di vestire, cambiamo l’immagine posturale del nostro corpo, impadronendoci di quella altrui”.

L’abito, dunque, anche come strumento sociale di identificazione e di accettazione reciproca.

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LE FORBICI

Leroi-Gourhan distingue due tipologie di vestiti:

1- VESTI RITUALI > abiti “dritti”, assemblati secondo la tessitura: tuniche, pepli, barracani, toghe, kimono.

2- VESTITI TAGLIATI > nei quali si esercita l’invenzione e sono dipendenti da un cartamodello.

Per E. Lemoine-Luccioni (2002) i primi sfuggono all’aleatorietà della moda mentre i secondi sono soggetti all’invenzione e allo stile e sono le FORBICI a inaugurare l’atto creativo.Il TAGLIO genera la forma, è forma stessa. Infatti vestirsi è darsi forma, tras-formarsi come nel gioco delle maschere.

Il taglio nel tessuto è un “intervento decisivo” sempre secondo E.Lemoine-Luccioni. “Il bel taglio determina la superficie del vestito così come qualsiasi taglio determina una superficie, come già il semplice tratto tracciato dal sarto a matita sul pezzo di tessuto informe.”Il taglio è un atto generatore di una forma dal magma. La stoffa, bucata, non ne risulta annientata ma ne esce in tutto il suo splendore, valorizzata, con una forma. La forma che essa darà al corpo, assieme all’anima del vestito che potrà diventare anche quella del corpo che lo indosserà.Ecco, quindi il grande valore dell’oggetto-forbici, strumento per dare anima a una nuova tras-formazione, a una nuova maschera, a una nuova identità.

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IMMAGINI DI RITRATTI MATERICI CON MATERIALI TESSILI.

I GUERMANTES DI ENRICO BAJ

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ALTRO

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BIBLIOGRAFIA

LO SPECCHIO DELL’IO - Stefano Ferrari - ed. Laterza 2010 € 24.50

L’ARTE DELL’AUTORITRATTO - Omar Calabrese - Usher arte 2010 € 58.00

NARCISO INFRANTO - Alberto Boatto - ed. Laterza 2002 € 21

RI-VEDERSI - Fabio Piccini - ed. red! 2008 € 12,90

PSICOANALISI DELLA MODA -E.Lemoine-Luccioni-BrunoMondadori2002 € 13,50

FILOSOFIA DELLA MODA - Lars Svendsen - ed.Guanda 2006 € 13.00

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