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La Felicità e l'Arte di Essere Volume Secondo Un'introduzione alla filosofia e alla pratica degli insegnamenti spirituali di Bhagavan Sri Ramana Michael James

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La Felicità el'Arte di Essere

Volume Secondo

Un'introduzione alla filosofia e alla praticadegli insegnamenti spirituali di

Bhagavan Sri Ramana

Michael James

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La Felicità el'Arte di Essere

Volume Secondo

Un'introduzione alla filosofia e alla praticadegli insegnamenti spirituali di

Bhagavan Sri Ramana

diMichael James

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Copyright © 2006, 2007, 2012 Michael D A JamesTutti i diritti riservati.

Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta,salvo brevi citazioni debitamente riconosciute, o quantoespressamente consentito dalla legge, senza la previaautorizzazione scritta dell'autore.

Prima edizione PDF inglese: Dicembre 2006Seconda edizione PDF inglese: Marzo 2007Terza edizione PDF inglese: Agosto 2007

Prima edizione a stampa (Canada) inglese: Agosto 2007Prima edizione a stampa (India) inglese: Agosto 2007

Prima edizione a stampa spagnolo: 2008Prima edizione PDF in ceco: 2009

Seconda edizione (USA) inglese: Marzo 2012.Seconda edizione (India) inglese: Marzo 2012.

Quarta edizione PDF inglese: Marzo 2012.Prima edizione Kindle inglese: Marzo 2012.

Una copia in inglese-spagnolo-ceco-italiano in formato PDF. Èdisponibile in download gratuito sul sito web dell'autore:

www.happinessofbeing.com/Happiness_and_the_Art_of_Being.pdf

Altre traduzioni e scritti sugli insegnamenti di Sri Ramana diMichael James sono disponibili sul suo sito web e blog:

www.happinessofbeing.com/Happiness_http://www.happinessofbeing.blogspot.com

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Per informazioni sui libri dell'autore su Amazon Si prega divisitare www.amazon.com/author/michaeljames

Tradotto in italiano da Emilio Volpe

Da: Happiness and The Art of Being(Edizione PDF Marzo 2012.)

NOTA: le parentesi quadre [ ] sono riportate dall'autore perchiarire parole o parti di testi originali Tamil di Sri Ramana(quasi sempre) o altri. Le parentesi graffe { } sono riportate daltraduttore italiano per chiarire parole o parti della traduzionedall'inglese. In fondo al libro sono state riportate alcune breviNote del traduttore italiano che si consiglia di consultare primadi iniziare la lettura della presente opera. In fondo è statoaggiunto,dal traduttore italiano, un breve Dizionario di alcuneparole italiane, che potrebbero risultare poco chiare al lettoreinesperto, col solo significato relativo a quest'opera.

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Dedica

A

Bhagavan Sri RamanaChe mi ha insegnato tutto quello che so, e ha fornito qualunque

ispirazione che ha creato questo libro, e ai suoi più strettidiscepoli. In particolare

Sri Sivaprakasam PillaiChe per primo ha interpretato e registrato i suoi insegnamenti

di base, che in seguito hanno preso forma nel suo preziosotrattato Nāṉ Yār? (Chi sono Io?)

Sri MuruganarChe non solo ha realizzato le più belle poesie e i versi filosoficipiù sottili, ma ha anche registrato il suo insegnamento orale più

esauriente, profondo e poetico in Guru Vācaka Kōvai

Sri Sadhu OmChe mi ha aiutato a capire i suoi insegnamenti più chiaramente

e profondamente.

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INDICE COMPLETO

VOLUME PRIMO

Introduzione............................................................... 11Cap. 1 – Che cos'è la Felicità?................................... 93Cap. 2 – Chi sono Io?................................................. 129Cap. 3 – La Natura della Nostra Mente...................... 215Cap. 4 – La Natura della Realtà................................. 303Cap. 5 – Qual'è la Vera Conoscenza?......................... 365Bibliografia................................................................ 447Glossario.................................................................... 451Dizionario Italiano e Note.......................................... 487

VOLUME SECONDO

Introduzione............................................................... 11Cap. 6 – Vera Conoscenza e Falsa Conoscenza........ 93Cap. 7 – L'Illusione del Tempo e dello Spazio.......... 133Cap. 8 – La Scienza della Coscienza......................... 161Cap. 9 – Investigazione del Sé e Abbandono di sé.... 181Cap. 10 – La Pratica dell'Arte di Essere.................... 245Bibliografia................................................................ 393Glossario.................................................................... 399Dizionario Italiano e Note......................................... 435

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Introduzione

La felicità si trova profondamente dentro di noi, nel verocentro del nostro essere. La felicità non esiste in alcun oggettoesterno, ma solo in noi, che siamo la coscienza che sperimentala felicità.

Anche se ci sembra derivare felicità da oggetti o esperienzeesterne, la felicità di cui usufruiamo, di fatto, nasce dentro dinoi.

Qualunque sia la turbolenza della nostra mente, al centro delnostro essere esiste sempre uno stato di perfetta pace e gioia,come la calma nell'occhio di un uragano.

Il desiderio e la paura agitano la nostra mente, e oscurano,nella sua visione, la felicità che esiste sempre al suo interno.Quando un desiderio è soddisfatto, o la causa di una paura èrimossa, l'agitazione di superficie della nostra mentediminuisce, e in questa calma temporanea la nostra mentebeneficia di un assaggio della propria felicità innata.

La felicità è dunque un modo di essere, in cui l'abitualeagitazione della nostra mente si è calmata. L'attività dellanostra mente la disturba nel suo calmo stato di solo essere e lainduce a perdere di vista la propria felicità interiore.

Per gioire della felicità, quindi, la nostra mente ha bisognodi cessare ogni attività, tornando tranquillamente al suo statonaturale d'inattività, come fa ogni giorno nel sonno profondo.

Pertanto, per padroneggiare l'arte di essere felici, dobbiamopadroneggiare l'arte e la scienza di solo essere. Dobbiamoscoprire che cosa è l'essenza più intima del nostro essere, edobbiamo imparare a dimorare consapevolmente ecostantemente in questo stato di puro essere, che è alla base e

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supporta (ma non ne rimane comunque influenzato) tutte leattività superficiali della nostra mente: il pensare, il sentire, ilpercepire, il ricordare e dimenticare, e così via.

L'arte di solo essere, rimanendo pienamente coscienti, masenza alcuna attività della mente, non è solo un'arte, un'abilitàpratica che può essere coltivata e applicata per produrreun'esperienza di bellezza e di gioia inesprimibile, ma anche unascienza, un tentativo di acquisire vera conoscenza tramitel'osservazione intensa e l'esperimento rigoroso. E quest'arte escienza di essere non sono solo l'arte e la scienza della felicità,ma anche l'arte e la scienza della consapevolezza e l'arte e lascienza della conoscenza di sé.

La scienza di essere è incredibilmente semplice e chiara. Perla mente umana, tuttavia, può apparire complessa e astrusa, nonperché è complessa in sé, ma perché la mente che cerca dicomprendere è un tale complicato insieme di pensieri,emozioni, desideri, paure, ansie attaccamenti credenze, ideepreconcette, convinzioni a lungo accarezzate che tende aoscurare la pura semplicità e chiarezza di essere, rendendooscuro ciò che è ovvio.

Come qualsiasi altra scienza, la scienza di essere cominciadall'osservazione e dall'analisi di qualcosa che già conosciamoma che non comprendiamo completamente, procedendo quindicol ragionamento per formulare un'ipotesi plausibile su ciò chesi osserva, quindi verificando rigorosamente questa ipotesi conun preciso e critico esperimento. Tuttavia, a differenza di tuttele altre scienze, questa scienza non studia un oggetto diconoscenza, ma studia il vero potere del conoscere in sé, ilpotere della consapevolezza che sottende la mente, il poteretramite cui tutti gli oggetti sono noti.

La verità scoperta per mezzo di questa scienza non è quindiqualcosa che può essere dimostrata o provata oggettivamente

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Introduzione

da una persona a un'altra. Può, tuttavia, essere direttamentevissuta come una chiara conoscenza nel nucleo più interno diogni persona che persegue scrupolosamente il necessarioprocesso sperimentale, fino a che la vera natura di essere, che èla vera natura della consapevolezza e della felicità, si rivelanella piena chiarezza della pura genuina coscienza del sé.Proprio come la scienza di essere è fondamentalmentedifferente da tutte le altre scienze, così l'arte di essere èfondamentalmente differente da tutte le altre arti, perché èun'arte che coinvolge il fare 'nulla'. Si tratta di un'arte non difare, ma di non fare, un'arte di solo essere.

Lo stato di solo essere è lo stato in cui la nostra mente nonsorge {non si manifesta - non si attiva} per fare, pensare oconoscere qualcosa, ma è uno stato di piena coscienza non dialtre cose, ma solo di essere. L'abilità che deve essere appresain quest'arte è non solo la capacità di essere, perché siamosempre e quindi non si richiedono particolari abilità o sforzi peressere, né è solo la capacità di essere senza fare o pensarequalsiasi cosa, perché siamo in grado di essere così ogni giornonel sonno profondo senza sogni.

L'abilità che deve essere coltivata è la capacità di rimanerecalmi e in piena pace senza fare o pensare qualsiasi cosa, macomunque mantenendo una perfetta chiara consapevolezza diessere, cioè, della coscienza del proprio essere o dell'essenzialestato di 'Io sono' {stato di solo essere, Am-ness}. Solo inquesto stato originario di chiara non duale autocoscienza{coscienza di sé} di essere, senza oscuramenti dovuti alladistraente agitazione del pensiero e dell'azione, la vera naturadi essere diventerà perfettamente chiara, ovvia, auto-evidente elibera dal minimo dubbio o confusione.

La nostra prima e più diretta esperienza di essere è quelladel nostro essere o esistenza. In primo luogo sappiamo che

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esistiamo, e solo dopo potremo conoscere l'esistenza di altrecose. Mentre la nostra stessa esistenza è autocosciente{cosciente di sé}, l'esistenza di ogni altra cosa dipende da noiper essere conosciuta. Conosciamo il nostro essere perchésiamo la consapevolezza. In altre parole, il nostro essere è diper sé la coscienza che conosce se stessa. Conosce se stessoperché è essenzialmente autocosciente {cosciente di sé}, Così èragionevole ipotizzare che la coscienza è la forma primaria edessenziale di essere.

Senza la coscienza, l'essere sarebbe sconosciuto e senzal'essere, la coscienza non esisterebbe. Il nostro essere e lanostra coscienza di essere sono inseparabili: in realtà sonoidentici ed entrambi sono espressi dalla singola frase 'Io sono'.Questo essere-coscienza, 'Io sono', è la nostra esperienza piùfondamentale, e la più importante esperienza di ogni esseresenziente. 'Io Sono' è la sola basica coscienza, la non dualeautocoscienza essenziale, senza la quale nulla sarebbeconosciuto. 'Io sono' è dunque la fonte e il fondamento di ogniconoscenza.

A cosa serve quindi conoscere qualsiasi cosa se poi nonconosciamo la verità del nostro essere-coscienza, la nostraautocoscienza, 'Io sono', sulla base del quale tutto il resto ènoto? Tutto ciò che sappiamo sul mondo e tutto ciò chesappiamo di Dio, tutte le nostre scienze e tutte le nostrereligioni, non sono di alcun reale valore per noi, chedesideriamo conoscere la verità sul mondo e Dio, se nonsappiamo la verità su noi stessi.

Noi siamo l'essere-coscienza 'Io sono', eppure la nostraconoscenza di questo 'Io sono' è confusa. Noi tutti crediamo:'io sono questo corpo', 'io sono una persona', 'io sonochiamato così e così, e sono nato a una tale data e in taleposto'. Così identifichiamo la nostra coscienza 'Io sono' con un

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Introduzione

corpo particolare.Questa identificazione è il risultato di una conoscenza

confusa e poco chiara della vera natura della coscienza.La nostra coscienza 'Io sono' non è qualcosa di materiale,

mentre il nostro corpo è solo un aggregato di materia fisica, chenon è intrinsecamente consapevole. In qualche modo ci siamoingannati confondendo questo corpo materiale con la nostracoscienza 'Io'. Come risultato della nostra conoscenza nonchiara della coscienza, riteniamo erroneamente che la materiasia cosciente, e la coscienza sia qualcosa di materiale.

Ciò che in tal modo erra ritenendo questo corpo essere 'Io' èla nostra mente. La nostra mente viene in esistenza soloimmaginandosi di essere un corpo. Nel sonno profondo siamoinconsapevoli sia della nostra mente sia del nostro corpo. Nonappena ci svegliamo, la nostra mente si manifesta sentendosi'io sono questo corpo, io sono così e così', e solo dopo essersiidentificata come un corpo particolare percepisce il mondoesterno attraverso i cinque sensi di tale organismo.

La stessa cosa accade nel sogno: la nostra mente s'identificacon un particolare corpo e attraverso i cinque sensi di questocorpo percepisce un mondo apparentemente reale ed esterno.Quando ci svegliamo da un sogno, noi capiamo che il corpoche abbiamo scambiato come 'Io' e il mondo scambiato peressere reale ed esterno erano entrambi in realtà solo frutto dellanostra immaginazione.

Così dalla nostra esperienza in sogno sappiamo tutti che lanostra mente ha un meraviglioso potere d'immaginazioneattraverso il quale è in grado di creare un corpo, di scambiarequel corpo immaginario per l''Io', e attraverso quel corpoproiettare un mondo che, al momento in cui lo percepiamo,sembra essere altrettanto reale ed esterno a noi come il mondoche ora percepiamo in questo stato di veglia.

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Sapendo che la nostra mente possiede questo meravigliosopotere di creazione e autoinganno, non è ragionevole per noi ilsospetto che il corpo che riteniamo come 'Io' e il mondo checonsideriamo reale nel nostro attuale stato di veglia possanoessere niente di più che una semplice immaginazione oproiezione mentale, proprio come il corpo e il mondo chesperimentiamo in sogno? Che prove abbiamo che il corpo e ilmondo che sperimentiamo in questo stato di veglia sianotutt'altro che una creazione della nostra mente? Potremmoessere in grado di rilevare certe differenze tra veglia e sogno,ma analizzando bene scopriremmo che tali differenze sonosuperficiali, concernendo la qualità o la quantità piuttosto chela sostanza.

Se confrontiamo il dramma del mondo che vediamo nellaveglia o nel sogno con un dramma visto su uno schermocinematografico, possiamo dire che il dramma visto nellaveglia è di miglior qualità e di produzione più impressionanteche quello visto in sogno, ma entrambi sono produzioni non diqualche agente esterno ma della nostra mente che li vede.

In sostanza, non vi è alcuna differenza essenziale tra lanostra esperienza nella veglia e quella in sogno. In entrambi glistati, la nostra mente si attiva, associandosi a un corpo presoper 'Io', e attraverso i sensi di questo corpo vede un mondoconfinato entro limiti di tempo e di spazio, e riempito connumerose persone e con altri oggetti, sia senzienti siainsensibili, di cui si è convinti che siano tutti reali. Possiamoforse dimostrare a noi stessi che ciò che sperimentiamo nellostato di veglia esiste fuori dalla nostra immaginazione, più diquanto un sogno esiste fuori dalla nostra stessaimmaginazione?

Quando analizziamo attentamente la nostra esperienza neinostri tre stati di veglia, sogno e sonno profondo, è chiaro che

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siamo in grado di confondere la nostra coscienza 'Io' con cosedifferenti in momenti diversi. Nella veglia noi consideriamoerroneamente il nostro corpo presente come 'Io', in sognoscambiamo qualche altro corpo immaginario come 'Io', e nelsonno profondo scambiamo l'incoscienza come 'Io' o almeno alrisveglio dal sonno profondo ciò che ricordiamo è che 'Io eroinconscio'. Ciò che era in realtà inconscio nel sonno profondoera la nostra mente, il nostro corpo e il mondo, ma non lanostra esistenza di essere.

La nostra esperienza nel sonno profondo non era di avercessato di esistere, ma solo che abbiamo cessato di essere aconoscenza di tutti i pensieri e le percezioni che siamo abituatia vivere nella veglia e negli stati di sogno. Quando diciamo,'ho dormito tranquillamente, non avevo sogni, non ero aconoscenza di nulla', siamo sicuri di affermare che 'Io' ero nelsonno e cioè che noi esistevamo e sapevamo di esistere in quelmomento.

Poiché noi associamo la coscienza con l'essere consapevoledi tutti i pensieri e le percezioni che compongono la nostra vitanella veglia e nel sogno, noi consideriamo il sonno profondocome uno stato d'incoscienza. Ma dobbiamo esaminare lacosiddetta incoscienza del sonno con più attenzione.

La coscienza che conosce i pensieri e le percezioni è lanostra mente, che sorge ed è attiva sia nella veglia sia nelsogno, ma che scompare nel sonno profondo (senza sogni). Maquesta coscienza che sorge e sparisce non è la nostra veracoscienza. Siamo coscienti non solo dei due stati di veglia esogno, in cui la nostra mente s'innalza verso pensieri,esperienze e percezioni, ma anche di un terzo stato, il sonno, incui la nostra mente è placata in uno stato privo di pensieri epercezioni.

Questo fatto che siamo consapevoli nel sonno come uno

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stato diverso dalla veglia e dal sogno indica chiaramente chenoi siamo la coscienza che sta alla base dell'attivarsi edisattivarsi della coscienza transitoria che noi chiamiamo'mente'. La coscienza che ci permette di affermare consicurezza, 'io esistevo nel sonno, ma non ero consapevole dinulla', non è la nostra 'coscienza che sorge', ma il nostro'essere-coscienza'.

Questo 'essere-coscienza', che esiste in tutti i nostri tre stati,è la nostra vera coscienza, ed è ciò che è veramente indicatoquando diciamo 'Io sono'. La nostra mente, o 'coscienza chesorge', che appare nella veglia e nel sogno e scompare nelsonno, è solo una forma spuria di coscienza, che attivandosis'identifica erroneamente sia con la nostra coscienza di base 'Iosono' che con questo corpo materiale.

Così, analizzando la nostra esperienza nei nostri tre stati diveglia, sogno e sonno profondo, possiamo capire che anche seora ci sbagliamo credendo di essere un corpo limitato daltempo e dallo spazio, noi siamo di fatto la coscienza chesottende la comparsa di questi tre stati, in due solo dei quali ilsenso di essere un corpo con le conseguenti limitazioni ditempo e spazio è sperimentato.

Tuttavia, una semplice comprensione teorica della verità,che siamo solo coscienza, sarà di scarsa utilità per noi, se nonl'applichiamo in pratica cercando di acquisire vera conoscenzaempirica di quella verità.

Di per sé, una comprensione teorica, non può donarci la verae duratura felicità, perché non può distruggere il nostro radicatosenso di identificazione con il corpo, che è la radice di tuttal'ignoranza, e la causa di tutte le miserie. Chi capisce questaverità in teoria è solo la nostra mente o intelletto, e la nostramente non può funzionare senza prima identificarsi con uncorpo. Poiché la nostra mente o intelletto è quindi una

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conoscenza confusa la cui esistenza è radicata nell'ignoranza suchi o che cosa siamo veramente, una comprensione intellettualenon può mai di per sé donarci la vera conoscenza del Sé.

La conoscenza di sé {auto-conoscenza} può essere acquisitasolo attraverso l'esperienza diretta della pura coscienzaillimitata, che è il nostro vero sé, perché solo tale esperienzapuò sradicare l'ignoranza che noi siamo qualcosa di diverso daquella coscienza. Quindi una comprensione teorica della veritàpuò essere di reale beneficio per noi solo se ci si spinge aindagare la nostra coscienza essenziale di essere la nostrasemplice coscienza di sé, 'Io sono' e quindi raggiungereattraverso l'esperienza diretta una chiara conoscenza dellanostra vera natura.

Solo raggiungendo tale chiara conoscenza della coscienzache è il vero 'Io', possiamo distruggere la nostra ignoranzaprimordiale, la conoscenza confusa e sbagliata che noi siamo lamente, la forma limitata di coscienza che identifica un corpocome 'Io'. Se capiamo veramente che non siamo un corpo, né lamente, che immagina se stessa di essere un corpo, e che ogniforma di infelicità che noi sperimentiamo è causata solo dallanostra errata identificazione con un corpo, possiamo cercare didistruggere quella falsa identificazione intraprendendo lapratica ricerca di scoprire chi o cosa siamo veramente.

Per conoscere ciò che siamo veramente, dobbiamo cessaredi dare attenzione a tutte le altre cose, e dobbiamo concentrarciinvece su noi stessi, la coscienza che conosce quelle altre cose.Quando ci occupiamo di cose diverse dall''Io', la nostraattenzione è un 'pensiero' o un'attività della mente.

Quando, invece, ci concentriamo sulla nostra coscienzaessenziale 'Io', la nostra attenzione cessa di essere un'attività oun pensiero, e invece diventa semplice essere. Conosciamoaltre cose per un atto di conoscenza, ma non possiamo

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conoscere noi stessi con un atto di conoscenza, masemplicemente essendo noi stessi.

Pertanto, quando ci concentriamo sul nucleo più profondodel nostro essere, cioè il nostro essenziale e reale sé, che èsemplice essere, libero da pensieri, non duale, conscio di sé,cessiamo di sorgere come mente incessantemente attiva, einvece rimaniamo semplicemente come la nostra coscienza diessere, naturalmente senza azione. Pertanto l'auto-attenzione{attenzione al sé} è auto-permanenza {permanenza nel sé}, lostato di puro essere che siamo veramente.

Finché ci occupiamo di cose diverse da noi stessi, la nostramente è attiva, e la sua attività annebbia ed oscura la nostranaturale chiarezza della coscienza di sé (autocoscienza).Quando cerchiamo di concentrarci su noi stessi, l'attività dellanostra mente comincia a scemare, e quindi il velo che oscura lanostra naturale coscienza del sé comincia a dissolversi. Piùprofondamente e intensamente concentriamo la nostraattenzione sulla nostra coscienza di base 'Io', più la nostramente si disattiva, fino a quando finalmente scomparirà nellachiara luce della vera conoscenza del sé.

In questo libro, dunque, cercherò di spiegare sia la teoria siala pratica dell'arte di conoscere e di essere il nostro vero sé. Lateoria di questa scienza o arte della conoscenza del sé ènecessaria e utile perché ci permette di capire non solo lanecessità imperativa di conoscere la realtà, ma anche glistrumenti pratici con cui possiamo raggiungere taleconoscenza.

Tutta l'infelicità, il malcontento e la miseria chesperimentiamo nella nostra vita sono causati solo dalla nostraignoranza o confusa conoscenza di chi o di cosa realmentesiamo.

Finché ci limitiamo, identificando un corpo come 'Io',

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Introduzione

sentiremo il desiderio per tutto ciò che pensiamo sia necessarioper la nostra sopravvivenza in quel corpo, e per tutto ciò chepensiamo renderà la nostra vita in quel corpo più confortevolee piacevole. Allo stesso modo sentiremo paura e avversione pertutto ciò che pensiamo minacci la nostra sopravvivenza in quelcorpo, e di tutto ciò che pensiamo renderà la nostra vita menocomoda o piacevole. Quando non otteniamo tutto ciò chedesideriamo o quando non possiamo evitare tutto ciò di cuiabbiamo paura o antipatia, ci sentiamo infelici, scontenti omiserabili.

Così infelicità o sofferenza sono il risultato inevitabile deldesiderio e della paura, o di simpatie e antipatie. Desiderio epaura, simpatie e antipatie, sono l'inevitabile conseguenza diidentificare un corpo come 'Io'. E identificare un corpo come'Io' risulta dalla nostra mancanza di una chiara conoscenzadella nostra vera natura, il nostro essenziale essere auto-cosciente. Se vogliamo quindi, essere liberi da tutte le forme dimiseria e infelicità, noi dobbiamo liberare noi stessi dallanostra ignoranza o confusa conoscenza di ciò che realmentesiamo.

Al fine di liberare noi stessi da questa conoscenza confusa,che ci fa sentire di essere un corpo, dobbiamo raggiungere unachiara conoscenza del nostro vero sé. L'unico mezzo attraversoil quale possiamo raggiungere tale chiara conoscenza di sé èquello di volgere la nostra attenzione lontano dal nostro corpo,dalla nostra mente e da tutte le altre cose, e focalizzarlaaccuratamente sulla nostra essenziale coscienza del sé: lanostra fondamentale coscienza del nostro essere, 'Io sono'.

Così la teoria che sta alla base della scienza e dell'arte dellaconoscenza di sé ci permette di capire che tutto quello chedobbiamo fare per sperimentare la perfetta felicità senza limitiè di raggiungere la vera conoscenza di sé, e che l'unico mezzo

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per raggiungere questa vera conoscenza di sé è quello dipraticare un'appassionata e intensa attenzione al sé.

Fintantoché non conosciamo come realmente siamo, nonpossiamo mai sperimentare la vera e perfetta felicità,incontaminata anche dalla minima infelicità o insoddisfazione,e se non saremo concentrati intensamente sulla nostracoscienza essenziale del nostro puro essere, la nostra semplicenon duale coscienza del sé, 'Io sono', non potremo maiconoscere noi stessi come siamo veramente.

Per la maggior parte degli aspiranti spirituali, il processo diraggiungimento della conoscenza di sé, come il processo diapprendimento di qualsiasi altra arte o scienza, si dice che siaun triplice processo di ripetute sravana, manana enididhyasana, o apprendimento, assimilazione e pratica.

La parola sanscrita sravana letteralmente significa'ascoltando', ma in questo contesto significa imparare la veritàascoltando, leggendo o studiando. La parola manana significapensare, ponderare, contemplare, riflessione o meditazione:cioè, soffermandosi spesso sulla verità che abbiamo imparatoattraverso sravana in modo da assorbire e capire di più e piùchiaramente, per impressionare la nostra mente sempre piùsaldamente.

La parola nididhyasana significa intensa osservazione,controllo, attenzione o profonda contemplazione, che, nelnostro contesto, significa mettere, ciò che abbiamo imparato ecompreso da Sravana e Manana, in pratica con intensainvestigazione, dando attenzione o contemplando il nostroessenziale essere auto-cosciente, 'Io sono'.

Nella vita di un serio aspirante spirituale, questo tripliceprocesso di sravana, manana e nididhyasana dovrebbecontinuare ripetutamente fino a quando l'esperienza della veraconoscenza del sé è raggiunta. Nel nostro quotidiano modo di

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vivere, la nostra mente incontra innumerevoli sensazionidiverse attraverso i nostri cinque sensi, e pensa innumerevolipensieri su queste sensazioni, per cui l'impressione fatta da unacosa è rapidamente sostituita dall'impressione fatta da altrecose. Pertanto, anche se abbiamo imparato a conoscere la veritàspirituale e la verità che non siamo il corpo limitato, ma solo lospirito illimitato o coscienza; l'impressione fatta da quellaverità rapidamente svanisce se non studiamo ripetutamente ilibri che ce la ricordano, e se non riflettiamo spesso su essanella nostra mente.

Tuttavia la semplice lettura e riflessione della verità sarà discarso beneficio se non tentiamo anche più volte di metterla inpratica volgendo la nostra attenzione alla nostra pura coscienzadi essere, 'Io sono', ogni volta che notate che l'attenzione èscivolata via per pensare ad altre cose.

Per sottolineare l'importanza fondamentale di tale pratica,Sri Adi Sankara ha dichiarato al verso 364 del Vivekacudamaniche il beneficio di manana è cento volte maggiore di quellodella sravana, e il vantaggio di nididhyasana è centomila voltesuperiore a quello di manana.

Per alcune anime molto rare, ripetere sravana manana enididhyasana non è necessario, perché appena ascoltata laverità, allo stesso tempo ne colgono il suo significato eimportanza, volgono verso sé stessi l'attenzione, e quindisperimentano subito la vera conoscenza del sé. Ma lamaggioranza di noi non ha la maturità spirituale persperimentare la verità appena la sentiamo, perché siamo troppofortemente attaccati alla nostra esistenza come singola persona,ed a tutto ciò che è associato con la nostra vita come persona.

Con la ripetizione di nididhyasana o auto-contemplazione{contemplazione del sé}, sostenuta con l'aiuto di ripetutesravana e manana, la nostra coscienza del nostro essere

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essenziale e la nostra comprensione corrispondente della veritàsarà sempre più chiara, e con la maggiore chiarezza avremocostantemente più amore per conoscere come noi stessi siamoveramente, e avremo più distacco dalla nostra individualità e datutto ciò che è associato con essa. Pertanto, fino a quando nonotteniamo questa vera maturità spirituale e la volontà e l'amoreper perdere il nostro sé individuale nell'esperienza della veranon duale conoscenza del sé, dobbiamo continuare il processodi ripetute sravana, manana e nididhyasana.

Ancora più rare di quelle anime molto mature che sono ingrado di provare la verità non appena la sentono, ce ne sonoalcune che, senza mai sentire nulla fanno l'esperienza dellaverità spontaneamente. Ma queste persone sono molto rare anziuna ha cessato il battito del cuore e tutte le altre funzionibiologiche che indicavano la vita e gli insegnamenti del saggioconosciuto come Bhagavan Sri Ramana Maharshi. Tutto quelloche scrivo in questo libro è quello che ho imparato e capito daquesto essere estremamente raro che ha sperimentato la veritàspontaneamente senza aver mai sentito o letto nulla al riguardo.

Lui ha conseguito spontaneamente e raggiunto l'esperienzadella vera conoscenza di sé un giorno del luglio 1896, quandoera solo un ragazzino di sedici anni. Quel giorno era seduto dasolo in una stanza nella casa di suo zio, nella città di Maduraidel sud dell'India, quando improvvisamente e senza causaapparente un'intensa paura della morte sorse al suo interno.Invece di cercare di scacciare questa paura dalla sua mente,come la maggior parte di noi avrebbe fatto, ha deciso diinvestigare e scoprire da sé la verità sulla morte:

“Va bene, la morte è arrivata! Che cosa è lamorte? Che cosa è che muore? Questo corpo sta permorire, lasciamolo morire”.

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Introduzione

Si distese quindi come un cadavere, rigido e senza respirare,e rivolse la sua mente verso l'interno per scoprire cosa la mortegli avrebbe fatto. Ha in seguito descritto la verità che gli èapparsa in quel momento come segue:

“Questo corpo è morto. Sarà ora portato al luogodella cremazione, bruciato e ridotto in cenere. Macon la distruzione di questo corpo, anche Io saròdistrutto? È questo corpo davvero 'Io'? Anche sequesto corpo è disteso senza vita come uncadavere, so ciò che Io sono. Non influenzatominimamente da questa morte, il mio esseresplende chiaramente.

Quindi Io non sono questo corpo che muore. Iosono l'Io, che è indistruttibile. Di tutte le cose, Iosolo sono la realtà. Questo corpo è soggetto allamorte, ma Io, che trascendo il corpo, sono quelloche vive in eterno. La morte che è venuta in questocorpo non mi può influenzare”.

Anche se ha descritto la sua esperienza di morte con tanteparole, ha spiegato che questa verità si è effettivamente resa dasé chiara a lui in un istante, non come ragionamento o pensieriverbalizzati, ma come esperienza diretta, senza la minimaazione della mente. Così intensa era la sua paura e laconseguente voglia di sapere la verità della morte, che, senzarealmente pensare nulla, volse l'attenzione lontano dal suocorpo rigido e senza vita e verso il più interno nucleo del suoessere: la sua essenziale coscienza del sé genuina e non duale,'Io sono'.

Dato che la sua attenzione era così intensamente concentratasulla sua coscienza di essere, la vera natura di questo essere-

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coscienza si rivelò come un lampo di diretta e certaconoscenza; conoscenza che era così diretta e certa che nonavrebbe mai potuto dubitarne. Così Sri Ramana scoprì di esserela transpersonale pura coscienza 'Io sono', che è l'unico,illimitato, indiviso e non duale tutto, l'unica realtà esistente,l'origine e la sostanza di tutte le cose e il vero sé di ogni esserevivente. Questa conoscenza della sua vera natura distrusse inlui per sempre il senso d'identificazione con il corpo fisico, lasensazione di essere una singola persona, un'entità coscienteseparata confinata entro i limiti di un particolare momento eluogo.

Insieme a questa alba di non duale conoscenza di sé, laverità di ogni cosa divenne chiara per lui. Conoscendo di esserelui stesso lo spirito infinito, la coscienza fondamentale 'Iosono', in cui e attraverso cui tutte le altre cose sono note, seppeper esperienza immediata come quelle altre cose appaiono escompaiono in questa coscienza essenziale.

Così egli seppe senza il minimo dubbio che tutto ciò cheappare e scompare dipende per la sua esistenza apparente daquesta coscienza fondamentale, che conobbe come il suo verosé. Quando si leggono alcuni dei racconti registrati della suaesperienza di morte, le persone hanno spesso l'impressione chequando si adagiò come un cadavere, Sri Ramanasemplicemente avesse simulato i segni della morte fisica.

Ma, ha spiegato in varie occasioni che non si è limitato asimulare, ma in realtà ha veramente subito l'esperienza dellamorte fisica in quel momento. Perché ha fissato tutta la suaattenzione così fermamente e intensamente sulla sua non dualecoscienza di essere, che non solo ha fatto cessare il respiro, maanche il suo cuore è arrivato a fermarsi. Così il suo corporimase letteralmente senza vita per circa venti minuti, fino aquando improvvisamente la vita tornò in esso, ancora una

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Introduzione

volta, e il suo battito cardiaco e il respiro ripresero a funzionarenormalmente.

Tuttavia, sebbene la vita tornò nel suo corpo fisico, lapersona che aveva in precedenza identificato quel corpo come'Io' era morto, essendo stato distrutto per sempre dalla chiaraluce della vera conoscenza di sé. Ma se era morto come singolapersona, era quindi nato di nuovo come spirito infinito, lacoscienza fondamentale e illimitata di essere, la non dualeautocoscienza 'Io sono'.

Anche se esteriormente appariva comportarsi come unapersona individuale, la sua personalità era in realtà solo unaspetto che esisteva solo nella visualizzazione di altre persone,come la forma carbonizzata di una corda che rimane dopo chela corda stessa è stata bruciata. Dentro di sé sapeva di essere lacoscienza onnicomprensiva che trascende tutti i limiti, e nonsoltanto una separata coscienza individuale confinata entro ilimiti di un particolare corpo.

Pertanto, l'essere cosciente che gli altri vedevano agireattraverso il suo corpo non era un individuo a tutti gli effetti,ma era solo il supremo spirito, la realtà infinita e assoluta chedi solito chiamiamo 'Dio'.

Subito dopo che questa vera conoscenza di sé sorse in lui,Sri Ramana lasciò la sua casa d'infanzia e viaggiò per qualchecentinaio di miglia a nord fino a Tiruvannamalai, una cittàtempio situato ai piedi della montagna sacra di Arunachala,dove ha vissuto come un sadhu o mendicante religioso per irestanti 54 anni della sua vita corporea.

Da quando aveva smesso di identificarsi con il corpo chealtre persone avevano scambiato per lui, aveva anche cessato diidentificarsi con il nome che in precedenza era stato dato a quelcorpo. Pertanto, dal momento in cui lasciò la sua casa, smise ilsuo nome d'infanzia Venkataraman, e firmò il suo biglietto

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d'addio con solo una linea. Così quando è arrivato aTiruvannamalai, nessuno conosceva il suo nome, e si riferivanoa lui con vari nomi di loro scelta.

Più di dieci anni dopo, però, uno dei suoi devoti, che era unpoeta sanscrito e studioso vedico, annunciò che doveva esserechiamato 'Bhagavan Sri Ramana Maharshi', e in qualche modoquesto è diventato il nome con cui fu generalmente conosciuto.

Tuttavia, fino alla fine della sua vita corporea, Sri Ramananon ha mai sostenuto questo o qualsiasi altro nome come il suo,e ha sempre rifiutato di firmare, anche quando gli venivachiesto di farlo. Quando gli è stato chiesto una volta perché nonha mai firmato col suo nome, egli rispose: “Con quale nomedevo essere conosciuto? Io stesso non lo conosco. In varimomenti varie persone mi hanno chiamato con nomi diversi”.

Perché lui non aveva esperienza di se stesso come individuo,ma conosceva se stesso come l'unica realtà, che è la fonte e lasostanza di tutti i nomi e le forme, ma che non ha nome néforma propria, egli rispondeva a qualunque nome le persone lochiamassero, senza mai identificare qualsiasi di quei nomicome il suo.

Delle quattro parole del nome 'Bhagavan Sri RamanaMaharshi', solo la parola 'Ramana' è un nome personale, e lealtre tre parole sono titoli di vario genere. 'Ramana' è unaforma abbreviata di 'Venkataramana', una variante del suonome d'infanzia 'Venkataraman', ed è una parola che ècomunemente usata come termine affettuoso.

Considerando che nel nome 'Venkataraman', la lettera 'a'nella sillaba 'ra' è una lunga forma della vocale ed è quindipronunciata con un accento, nel nome 'Ramana' tutte e tre le 'a'sono forme brevi della vocale, e quindi nessuna delle tre sillabeviene pronunciata con qualsiasi accento. Etimologicamente, laparola ramana deriva dalla radice verbale ram, che significa

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Introduzione

smettere, per rimanere a riposo, per rendere stabile o calmo,per la gioia o per fare felici; è un sostantivo che significa'gioia', o che dà gioia, ciò che è piacevole, affascinante edelizioso, e con l'estensione viene utilizzata come termineaffettuoso che significa una persona amata, un amante, marito omoglie, o il signore o amante del cuore.

La parola 'Bhagavan' è un titolo onorifico e affettuoso;significa il glorioso, adorabile e divino Signore, ed è utilizzatogeneralmente come un termine che significa 'Dio', e più inparticolare come un titolo di venerazione dato a una personache è considerata l'incarnazione di Dio o una forma umanadella realtà suprema, come il Buddha, Sri Adi Sankara, o il piùnoto Sri Krishna, i cui insegnamenti sono riportati nellaBhagavad Gītā e in alcune parti dello Śrīmad Bhāgavatam.

La parola 'Sri' è un monosillabo sacro significante: luce,lustro, radiosità o splendore; è abitualmente utilizzato come untitolo onorifico, un prefisso aggiunto ai nomi di santi, luoghi,testi o altri oggetti di venerazione. Come prefisso reverenziale,significa 'sacro', 'santo' o 'venerabile', ma è anchecomunemente usato come un semplice titolo di rispetto che puòessere aggiunto al nome di ogni persona al posto del titoloinglese 'Signore'.

La parola 'Maharhi' (che comunemente è trascritto come'maharshi'), significa un grande ṛṣi (comunemente trascrittocome 'rishi') o 'veggente'. Per il mondo in generale, soprattuttoal di fuori dell'India, Sri Ramana è generalmente noto come'Ramana Maharshi' (probabilmente a causa della mentalitàoccidentale il titolo 'Maharshi' posto dopo il suo nomepersonale sembra essere un cognome, che non è), e poiché egliè così spesso indicato come tale, alcune persone si riferiscono alui semplicemente come 'Maharshi'.

Tuttavia chi era vicino a lui raramente usava il titolo di

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'Maharshi' quando parlava di lui. Nella storia indiana e nellamitologia, il termine ṛṣi originariamente indicava uno dei poetiispirati o 'veggenti' che hanno 'visto' e scritto gli inni dei Veda,o qualsiasi persona che era abile nello svolgimento dei ritivedici e aveva quindi raggiunto poteri psichici osoprannaturali, ma in tempi più tardi è stato utilizzato più ingenerale, per indicare un asceta o un santo che è stato ritenutoaver raggiunto un certo grado di realizzazione spirituale.

Il termine ṛṣi non ha quindi mai specificamente significatouna persona che ha 'visto' o raggiunto la vera conoscenza di sé,né lo ha significato il termine maharṣi (maha-ṛṣi). I pochi ṛṣi,come Vasishtha, e più tardi Viswamitra, che hanno raggiunto lavera conoscenza del Brahman, la realtà assoluta o Dio, sonostati chiamati non solo maha-ṛṣi ma brahma-ṛṣi, un termineche denota un ṛṣi di primissimo ordine. Quindi molte personeritengono che non sia particolarmente opportuno applicare iltitolo di 'Maharshi' a Sri Ramana, che aveva raggiunto la veraconoscenza del brahman, e che perciò può essere conprecisione chiamato come niente di meno che un brahma-ṛṣi.

Oltre a non essere particolarmente appropriato, il titolo'Maharshi' suona piuttosto freddo e distante quando applicata aSri Ramana, così invece di riferirsi a lui come 'Maharshi', isuoi discepoli e devoti di solito preferivano riferirsi a lui coltitolo più affettuoso e rispettoso di 'Bhagavan'.

Pertanto, se stessi scrivendo questo libro per le persone chesono già i suoi seguaci, secondo l'usuale abitudine fareiriferimento a lui come 'Bhagavan' o 'Sri Bhagavan'.

Tuttavia, poiché sto scrivendo per un pubblico più ampio, ein particolare per le persone che non hanno alcuna conoscenzaprecedente, dei suoi insegnamenti, farò riferimento a lui con ilsuo nome personale come 'Sri Ramana' o 'Bhagavan Ramana'.Tuttavia, con qualunque nome io o chiunque altro possa

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riferirsi a lui, per tutti quelli che hanno seguito i suoiinsegnamenti e, quindi, raggiunto lo stato di beatitudine dellavera conoscenza di sé, egli è 'Ramana', l'amato datore di gioia,e Bhagavan, una benigna personificazione di Dio, la realtàsuprema, che egli scoprì essere il suo vero sé, e che ha spinto eguidato ognuno di noi per scoprire allo stesso modo il nostrovero sé.

Sri Ramana non è solo una singola persona che ha vissutoper un certo tempo del passato, né egli appartiene a unaparticolare religione o cultura. Egli è lo spirito eterno eillimitato, la realtà finale e assoluta, il nostro vero sé, e cometale vive sempre all'interno di ognuno di noi come la nostracoscienza pura ed essenziale di essere, che ognuno di noisperimenta come 'Io sono'.

Bhagavan Sri Ramana non cercò mai di sua spontaneavolontà di insegnare a nessuno la verità che egli era giunto aconoscere, perché nella sua esperienza solo quella: la verità -laconsapevolezza 'Io sono'- esiste, è quindi non c'è alcunapersona né per dare né per ricevere alcun insegnamento.Tuttavia, anche se dentro di sé sapeva che la coscienza è l'unicarealtà, era tuttavia esteriormente una personificazionedell'amore, della compassione e della gentilezza, perché,conoscendo, se stesso e tutte le altre cose, essere nient'altro chela coscienza 'Io sono', si vedeva in ogni cosa, e quindi haletteralmente amato tutti gli esseri viventi come il proprio sé.

Pertanto, quando la gente gli ha fatto domande sulla realtàed i mezzi per conseguirla, ha pazientemente risposto alle lorodomande, e quindi senza alcuna volontà iniziale da parte sua,ha rivelato gradualmente una gran ricchezza di insegnamentispirituali.

Molte delle risposte che ha dato in tal modo sono stateregistrate in forma scritta, più o meno accuratamente, dai suoi

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devoti e discepoli, ma la più precisa e autentica registrazionedei suoi insegnamenti si trova nella poesia che egli stessoscrisse, soprattutto in tamil, e anche in sanscrito, telugu emalayalam. La maggior parte della poesia che ha scritto era inrisposta alle richieste fatte dai suoi discepoli, ma alcune poesiesono state composte da lui spontaneamente.

La sua poesia si divide in due categorie generali: poesie chetrasmettono direttamente insegnamenti spirituali, e innidevozionali che trasmettono insegnamenti spiritualiindirettamente nel linguaggio allegorico dell'amore mistico.Dato che gli sono state fatte domande su una vasta gamma diargomenti, da parte di persone i cui interessi e il livello dicomprensione erano molto variabili, le risposte che ha datoerano in ciascun caso, su misura per le esigenze della personache stava parlando e, quindi, non riflettono sempre l'essenzadei suoi insegnamenti.

Perciò, quando leggiamo le varie registrazioni delleconversazioni che ebbe con le persone, può sembrare checontengano incoerenze, e che trasmettano non un unico, chiaroo coerente insieme di insegnamenti. Tuttavia, un insieme moltochiaro e coerente dei suoi insegnamenti centrali può esseretrovato nella sua poesia e in altri scritti, e se leggiamo tutte leregistrazioni delle sue conversazioni alla luce di taliinsegnamenti centrali, possiamo capire chiaramente che avevaun messaggio definito per tutti quelli che erano pronti adascoltare.

Prima di raggiungere l'esperienza della vera conoscenza disé, Sri Ramana non aveva letto o sentito nulla che descrivevaquell'esperienza, o che lo preparava in qualche modo per essa.Essendo cresciuto in una famiglia normale di bramini indianidel sud, aveva familiarità con le forme esteriori della religioneindù e con alcuni testi devozionali, ed essendo stato educato in

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una scuola missionaria cristiana, aveva familiarità con le formeesteriori del cristianesimo e con la Bibbia.

Inoltre, avendo avuto alcuni amici d'infanzia che erano difamiglie musulmane, aveva anche una certa familiarità con leforme esteriori dell'Islam. Ma se aveva un'idea generale chetutte queste religioni erano solo diversi modi di adorare lostesso Dio, non aveva avuto alcuna possibilità di impararequalcosa circa la vera essenza interiore che sta dietro la formaesteriore di tutte le religioni.

Gli insegnamenti che ha dato negli anni successivi sono statiquindi ricavati interamente dalla propria esperienza interiore, enon provengono da qualsiasi apprendimento esterno. Tuttavia,ogni volta che qualcuno gli ha chiesto di spiegare qualsiasitesto sacro o spirituale, lo avrebbe letto e spesso riconoscevache in un modo o in un altro stava esprimendo la verità che èstata la sua esperienza.

Così egli è stato in grado di interpretare tali testi con autoritàe di spiegare il loro significato interno in parole chiare esemplici. Giacché l'ambiente culturale e religioso in cui vivevaera prevalentemente indù, e poiché la maggior parte dellepersone che hanno cercato la sua guida spirituale erano nateindù o avevano familiarità con la filosofia tradizionale indù, itesti che gli sono stati spesso chiesti di spiegare erano quellidella tradizione filosofica indù noti come Advaita Vedanta.

Così gli insegnamenti di Sri Ramana sono spesso identificaticon l'Advaita Vedanta e sono presi per essere una modernaespressione o interpretazione di quell'antica filosofia. Il termineVedanta significa letteralmente la 'conclusione' o 'finale' (anta),della 'conoscenza' (Veda), e denota le conclusioni filosofichedei Veda. Queste conclusioni filosofiche sono contenute neitesti vedici conosciute come le Upanisad, e poi sono stateespresse più chiaramente e in maggior dettaglio in altri due

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testi antichi conosciuti come Brahma Sutra e Bhagavad Gita.Questi tre corpi di letteratura, che sono conosciuti come la

'sorgente tripla' (prasthāna-traya) del Vedanta, sono statiinterpretati in modi molto diversi, dando vita a tre sistemidistinti di filosofia Vedanta, il puro sistema monisticoconosciuto come Advaita, il sistema dualistico noto comeDvaita, e il sistema monistico qualificato noto comeVisistàdvaita. Di questi tre sistemi di filosofia, l'advaita non èsolo il più radicale, ma anche l'interpretazione meno contortadell'antica prasthāna-traya del vēdānta, e quindi è ampiamentericonosciuto come Vedanta nella sua forma più pura e più vera.

Tuttavia, l'advaita è più di una semplice interpretazionescientifica di alcuni testi antichi. Come la letteratura diqualsiasi altro sistema religioso o di filosofia spirituale, laletteratura dell'advaita comprende una grande quantità dimateriale elaborato e astruso scritto da e per gli studiosi, matale materiale non è l'essenza o la base della filosofia Advaita.La vita e il cuore dell'Advaita Vedanta si trova in una serie ditesti fondamentali che contengono i detti e gli scritti di saggicome Sri Ramana che ottennero la vera conoscenza del sé, e lecui parole riflettono pertanto la propria esperienza diretta dellarealtà.

Quindi il Vedanta Advaita è un sistema di filosofia spiritualeche non è basato sul puro ragionamento o speculazioneintellettuale, ma sull'esperienza di saggi che hanno raggiuntouna conoscenza diretta della realtà non duale che è alla basedella comparsa di ogni molteplicità. Il termine Advaitasignifica letteralmente 'non doppio' o 'non dualità', e denota laverità vissuta dai saggi; la verità che la realtà è una sola, untutto unico indiviso che è completamente privo di dualità omolteplicità.

Secondo i saggi che hanno raggiunto la vera conoscenza del

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sé, tutta la molteplicità è una mera apparenza, una visionedistorta dell'unica realtà, come l'apparenza illusoria di unserpente visto in una luce fioca. Così come la realtà sottostante,l'aspetto illusorio del serpente, è solo una corda che si trova perterra, così la realtà sottostante, l'aspetto illusorio dellamolteplicità, è solo la coscienza non duale di essere cheognuno di noi sperimenta come 'Io sono'.

Gli insegnamenti di Sri Ramana sono quindi identificaticome advaita vēdānta per tre ragioni principali: in primo luogoperché ha vissuto e insegnato la stessa non duale realtà che èstata sperimentata dai saggi i cui detti e scritti costituiscono ilfondamento della filosofia advaita vēdānta; in secondo luogoperché gli è stato spesso chiesto di spiegare e chiarire vari testidalla letteratura classica dell'advaita vēdānta; in terzo luogoperché nei suoi insegnamenti ha fatto un uso gratuito macomunque selettivo della terminologia, dei concetti e delleanalogie utilizzate in tale letteratura classica.

La ragione per cui ha usato la terminologia e i concettidell'advaita vēdānta più di quelli di qualsiasi altra tradizionespirituale, come il Buddismo, Taoismo, Giudaismo oCristianesimo mistico, o Sufismo, è che la maggior parte dellepersone che cercavano la sua spirituale guida avevano piùfamiliarità con l'Advaita Vedanta che con quelle altre tradizionispirituali, e quindi era più facile per loro capire questaterminologia e questi concetti.

Tuttavia, ogni volta che qualcuno gli ha chiesto di chiarirequalsiasi testo o passaggio dalla letteratura di quelle altretradizioni spirituali, l'ha fatto con la stessa facilità, la chiarezzae l'autorità con la quale ha chiarito i testi dell'advaita vēdānta.Anche se nei suoi insegnamenti Sri Ramana ha preso in prestitoalcuni dei termini dei concetti e delle analogie comunementeusate nella letteratura classica dell'advaita vēdānta, i suoi

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insegnamenti non sono semplicemente una ripetizione deivecchi e familiari insegnamenti contenuti in tale letteratura.

Perché lui stava insegnando la verità che aveva conosciutadalla sua esperienza diretta, e non semplicemente imparata dalibri, fu in grado di mettere da parte tutta la densa massa dicose non essenziali e complesse e gli argomenti e i concettiponderosi trovati in quella letteratura, per lanciare una lucefresca e limpida sull'essenza interiore dell'advaita vēdānta. Neisuoi insegnamenti ha rivelato il vero spirito dell'advaitavēdānta in un modo chiaro e semplice che può esserefacilmente compreso anche da persone che non hanno alcunaconoscenza precedente, di tale filosofia.

Inoltre, la semplicità, la chiarezza e immediatezza dei suoiinsegnamenti ha contribuito a cancellare la confusione creatanella mente di molte persone che hanno studiato la letteraturaclassica dell'advaita vēdānta, ma sono stati ingannati dai moltifraintendimenti generati da studiosi che non avevano direttaesperienza della verità. In particolare, i suoi insegnamentihanno chiarito molte incomprensioni a lungo esistite sullapratica dell'advaita vēdānta, e hanno chiaramente rivelato ilmezzo attraverso il quale possiamo raggiungere l'esperienzadella vera conoscenza del sé.

Poiché il mezzo per raggiungere 'l'auto-conoscenza'{conoscenza del sé} è per qualche motivo raramente indicatoin termini chiari e inequivocabili nella letteratura classicaadvaita vēdānta, esistono molte idee sbagliate circa la praticaspirituale sostenuta dall'advaita vēdānta. Forse il contributo piùsignificativo dato da Sri Ramana alla letteratura del Vedanta stanel fatto che nei suoi insegnamenti ha rivelato in termini moltochiari e precisi lo strumento pratico con cui la conoscenza di sépuò essere raggiunta.

Non solo ha spiegato questo mezzo pratico in modo molto

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chiaro, ha anche spiegato esattamente come ci porteràinfallibilmente allo stato della conoscenza dell'auto-felicità{felicità del sé}, e perché è l'unico mezzo che può fare questo.A differenza di molti dei testi precedenti di advaita vēdānta, gliinsegnamenti di Sri Ramana sono centrati intorno allostrumento pratico con cui possiamo raggiungere la conoscenzadi sé, e tutto ciò che ha insegnato per quanto riguarda qualsiasiaspetto della vita era finalizzato esclusivamente a orientare lenostre menti verso questa pratica.

Anche se questo mezzo pratico è essenzialmente moltosemplice, per molte persone sembra difficile da comprendere,perché non è un'azione o uno stato di 'fare', né implica alcunaforma di attenzione oggettiva {agli oggetti}. Poiché la pratica èuno stato di là da ogni attività mentale, uno stato di non-fare edi attenzione non oggettiva che le parole non possonoesprimere perfettamente. Pertanto, per permetterci di capire epraticare, Sri Ramana l'ha espressa e descritta in vari modidifferenti, ognuno dei quali funge da prezioso indizio che ciaiuta a conoscere e ad essere la coscienza pura che è il nostrostesso vero sé.

Sri Ramana ha parlato e scritto per lo più in Tamil, la sualingua madre, ma lui aveva anche dimestichezza col sanscrito,telugu, malayalam e inglese. Il Tamil è il più anziano membrosuperstite della famiglia delle lingue dravidiche, e ha unaletteratura classica ricca e antica. Anche se per le sue originiappartiene a una famiglia di linguaggi che è del tuttoindipendente dalla famiglia Indo-Europea, negli ultimi 2000anni più o meno, la letteratura Tamil ha fatto un ricco eabbondante uso di parole prese in prestito dal sanscrito, il piùantico membro sopravvissuto della famiglia Indo-Europea.Pertanto, la maggior parte dei termini che Sri Ramana ha usatoper descrivere i modi concreti con cui possiamo raggiungere

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l'auto-conoscenza sono parole Tamil o parole di originesanscrita che sono comunemente usate nella letteraturaspirituale Tamil.

Le parole che ha usato in Tamil sono state tradotte in inglesecon una varietà di parole diverse, alcune delle qualitrasmettono lo spirito delle parole originali più chiaramente eprecisamente rispetto ad altre. Forse due dei termini più chiarie semplici utilizzati in inglese per trasmettere il senso delleparole che ha usato in Tamil per descrivere i mezzi pratici perraggiungere 'l'auto-conoscenza' {conoscenza del sé} sono'auto-attenzione' {attenzione al sé} e 'auto-dimorare'{permanere-dimorare nel sé}.

Il termine 'auto-attenzione' denota l'aspetto conoscenza dellapratica, mentre il termine 'auto-dimorare' (auto-permanenza)denota il suo aspetto essere. Poiché il nostro vero sé, che ècoscienza di sé non duale, conosce se stesso non con un atto diconoscenza, ma semplicemente essendo se stesso, lo stato diconoscere il nostro vero sé è solo lo stato di essere il nostrovero sé. Così dare attenzione alla nostra autocoscienza epermanere come nostra coscienza di sé sono la stessa cosa.Tutte le altre parole che Sri Ramana ha usato per descrivere lapratica, sono destinate a essere indizi che aiutano a chiarire ciòche questo stato di 'auto-attenzione' (attenzione al sé) o 'auto-dimorare' (dimorare nel sé) sono davvero.

Alcuni dei termini che ha usato per descrivere la praticadell''auto-attenzione' o 'auto-dimorare' sono termini di fatto giàutilizzati in alcuni dei testi classici di advaita vēdānta. Tuttaviase tali testi hanno utilizzato alcuni degli stessi termini che SriRamana ha usato per esprimere la pratica, raramente hannospiegato il vero significato di questi termini in modo chiaro eunivoco.

Così, anche dopo aver accuratamente studiato la letteratura

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classica advaita vēdānta, molte persone sono rimaste con solouna vaga comprensione di ciò che possono fare per raggiungerela conoscenza del sé. Come risultato sono sorte molte ideesbagliate circa la pratica dell'advaita vēdānta e alcune di questeidee sbagliate sono state prevalenti tra gli studenti e studiosi diadvaita vēdānta da tempo immemorabile.

Uno dei termini che si trova nella letteratura classicaadvaita vēdānta, e che Sri Ramana ha frequentemente usato perindicare la pratica di auto-attenzione, è vicāra (che ècomunemente trascritto in inglese anche come vichara, poichéla 'c' in vicāra rappresenta lo stesso suono di 'c' in chutney), mail significato di questo termine non è stato ben compreso dallamaggior parte degli studiosi tradizionali di advaita vēdānta.Secondo il dizionario sanscrito/inglese di Monier-Williams, iltermine Vicāra ha diversi significati, tra cui 'ponderazione,riflessione, considerazione, riflessione, esame, indagine', ed èin questi sensi che questa stessa parola è usata in Tamil, comerisulta dal Tamil Lexicon, che la definisce sia come 'riflessione'o 'considerazione', e come 'esame imparziale', al fine diarrivare alla verità o 'indagine'.

Pertanto il termine Atma-Vicāra, che Sri Ramana hafrequentemente usato per descrivere la pratica con la qualepossiamo raggiungere 'l'auto-conoscenza' {conoscenza del sé},significa 'auto-investigazione' {investigazione del sé} o 'auto-esame' {esame del sé}, e denota la pratica di esaminare,ispezionare o indagare la nostra fondamentale coscienzaessenziale 'Io sono' con un intenso e concentrato potere diattenzione.

Anche se il termine ātma-vicāra può essere meglio tradottocome 'auto-investigazione', 'auto-esame', 'auto-ispezione'{ispezione di sé}, 'autocontemplazione' {contemplazione delsé}, 'investigazione del sé' o semplicemente 'auto-attenzione',

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nella maggior parte delle traduzioni in inglese degliinsegnamenti di Sri Ramana è stata tradotta come 'self-enquiry'(auto-indagine) {indagine del sé}.

Questa scelta della parola inglese 'enquiry' {inchiesta-indagine-domanda} per tradurre 'Vicara' ha avuto sfortunateconseguenze, perché ha creato l'impressione nelle menti dialcune persone che ātma-vicāra, o il vicāra 'chi sono Io?' comeSri Ramana spesso l'ha chiamato, è semplicemente un processodi interrogare o di chiedere a noi stessi 'chi sono Io?'.

Questo è chiaramente un errore d'interpretazione, perché insanscrito la parola vicāra significa 'indagine' nel senso di'investigazione', piuttosto che nel senso d'interrogatorio.Quando Sri Ramana parlava del vicāra 'chi sono Io?', non l'hafatto intendendo che possiamo raggiungere l'esperienza nonduale della vera auto-conoscenza semplicemente facendo a noistessi la domanda 'chi sono Io?'.

Il vicāra 'chi sono Io?' è un'indagine, esame o controllodella nostra fondamentale coscienza 'Io sono', perché soloscrutando intensamente o ispezionando la nostra coscienza 'Io'possiamo scoprire chi siamo veramente, ciò che questacoscienza 'Io' è in realtà.

Oltre a descrivere i mezzi per raggiungere la conoscenza disé mediante l'uso di termini che significano 'auto-attenzione' o'auto-permanere', Sri Ramana ha descritto ciò anche contermini che significano 'auto-resa' o 'auto-negazione'{negazione dell'ego}. Utilizzando questi ultimi termini, haaffermato che l'obiettivo finale di tutte le forme di devozionedualistica, devozione a un Dio che è concepito come diversodal devoto, è il non duale stato di vera conoscenza del sé. Inquesto caso per conoscere il nostro vero sé, noi dobbiamorinunciare all'identificazione con il sé individuale falso che orariteniamo il nostro io.

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Introduzione

Pertanto, arrendersi o negare il nostro sé personale, la nostramente, che è la nostra coscienza confusa e distorta 'io sonoquesto corpo, una persona chiamata così e così' è essenziale sevogliamo conoscere la nostra vera coscienza 'Io sono', che è ilnostro vero sé.

Il nostro sé individuale, che è la coscienza limitata e distortache chiamiamo la nostra 'mente' o 'ego', e che nellaterminologia teologica si chiama la nostra 'anima', nutre la suaesistenza apparente occupandosi di altre cose diverse da sestesso. Quando smettiamo di partecipare ad altre cose, comenel sonno profondo, la nostra mente o io individuale sparisce,ma non appena si comincia a pensare ad altre cose, di nuovoricompare e fiorisce.

Senza pensare ad altre cose diverse da 'Io', la nostra mentenon può stare in piedi. Pertanto, quando si cerca di rivolgere lanostra attenzione lontano da tutti gli oggetti e verso la nostracoscienza fondamentale 'Io', noi stiamo abbandonando onegando il nostro sé individuale, la nostra mente o ego.Attenzione al sé o dimorare nel sé è dunque il mezzo perfettoper raggiungere lo stato di 'auto-resa' {resa di sé = resa di sédell'ego} o 'auto-negazione' {negazione dell'ego}.

Questo è il motivo per cui nel versetto 31 delVivēkacūḍāmaṇi Sri Adi Sankara definisce 'bhakti' o'devozione' come sva-svarūpa-anusandhāna o 'auto-attenzione': l'indagine o controllo ravvicinato della nostra veraforma o natura essenziale, che è la nostra fondamentaleautocoscienza (coscienza del sé) la nostra coscienza non dualedel nostro essere, 'Io sono'. Sri Ramana esprime la stessa veritànel versetto 15 di 'Upadēśa Taṉippākkaḷ', ma allo stesso tempospiega perché è così:

“Poiché Dio esiste come ātmā [il nostro 'spirito'

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essenziale o vero sé], ātmaanusandhāna [auto-investigazione, auto-indagine o auto-attenzione] èparama-īśa-bhakti [devozione suprema a Dio]”.

Egli esprime anche un'idea simile nel tredicesimo paragrafodel suo breve trattato 'Nan Yar?' (Chi sono Io?):

“Essendo completamente assorbito in Atma-nistha [dimorare nel sé, lo stato di solo essere comerealmente siamo], non dando neppure il minimospazio al sorgere di ogni pensiero diversodall'ātma-cintana [il pensiero del nostro vero sé], èdonare noi stessi a Dio”. [...]

Le persone che praticano la devozione dualistica ritengonoche la forma più alta di devozione a Dio, la forma più pura diamore, è quella di arrendersi interamente a lui. Al fine diarrendersi a lui, cercano di negare sé stessi eliminando il loroattaccamento a tutto ciò che essi considerano come 'mio', e inparticolare rinunciando alla propria volontà individuale. Così lapreghiera finale di ogni vero devoto è: 'Sia fatta la tua volontà,non la mia volontà, ma solo la tua'.

Tuttavia, fintanto che esiste la mente, essa avràinevitabilmente una sua volontà. Il desiderio e l'attaccamentosono inerenti alla mente, è il tessuto stesso di cui è fatta.Pertanto, fintanto che sentiamo il nostro sé essere un ioindividuale, avremo anche una volontà individuale, e sentiremoun senso di attaccamento al 'mio'. L'unico modo con cuipossiamo cedere la nostra volontà e abbandonare tutti i nostriattaccamenti è di abbandonare la mente che ha una volontàindividuale e sente l'attaccamento al corpo e agli altripossedimenti.

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Introduzione

Cercando di cedere la nostra volontà individuale e il sensodi 'mio' (i nostri desideri e gli attaccamenti), senza in realtàcedere la nostra individualità (il nostro ego o il senso di essereun separato 'io'), è come tagliare le foglie e i rami di un alberosenza tagliare le sue radici. Fino a quando non abbiamo tagliatola radice, i rami e le foglie, continueranno a spuntare ancora eancora.

Analogamente, fino a che e a meno che non arrendiamo ilnostro ego, la radice di tutti i nostri desideri e attaccamenti,tutti i nostri sforzi per rinunciare ai nostri desideri eattaccamenti falliranno, perché continueranno a germogliareancora e ancora in una forma sottile o in un'altra. Pertantol'abbandono può essere completo e definitivo solo quando ilnostro sé individuale, la coscienza limitata che noi chiamiamola nostra 'mente' o 'ego', si arrende completamente.

Finché sentiamo che esistiamo come un individuo che èseparato da Dio, non abbiamo ceduto noi stessi interamente alui. Anche se siamo in verità solo la pura, illimitata e nonpersonale coscienza 'Io sono', che è lo spirito e la vera forma diDio, sentiamo di essere separati da lui perché riteniamoerroneamente di essere una coscienza individuale limitata cheha identificato se stessa con un particolare corpo.

Questa coscienza individuale, il nostro sentirci 'io sono unapersona, un individuo separato, una mente o anima confinataentro i limiti di un corpo', è semplicemente una fantasia, unaforma falsa e distorta della nostra coscienza pura 'Io sono', maè comunque la causa principale di tutti i desideri e tutte lemiserie. A meno che non rinunciamo a questa coscienzaindividuale, questa falsa idea che siamo separati da Dio, nonpotremo mai essere liberi dal desiderio, né dalla miseria, che èl'inevitabile conseguenza del desiderio.

La vera resa di sé stessi, è quindi nient'altro che rinunciare

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alla falsa idea che siamo separati da Dio. Per rinunciare aquesta falsa idea, dobbiamo sapere chi siamo veramente. E persapere chi siamo veramente, dobbiamo dare attenzione allacoscienza che sentiamo di essere 'Io'.

Anche se la consapevolezza che ora sentiamo di essere 'io' èsolo una falsa coscienza, una forma limitata e distorta dellareale coscienza che è Dio, concentrandoci su di essaintensamente possiamo conoscere la vera consapevolezza chesta alla sua base. Cioè, focalizzarsi profondamente su questafalsa forma di coscienza è simile al guardare da vicino unserpente che immaginiamo di vedere sdraiato in terra nellapenombra del crepuscolo. Quando osserviamo attentamente ilserpente, scopriamo che in realtà non è altro che una corda.Allo stesso modo, se attentamente osserviamo la coscienzaindividuale limitata e distorta che ora sentiamo di essere l'io,scopriremo che in realtà non è null'altro, che la reale e senzalimiti coscienza 'Io sono', che è Dio stesso.

Proprio come l'apparenza illusoria del serpente si dissolve escompare non appena si vede la corda, così l'illusorio sentireche siamo una coscienza individuale separata, confinataall'interno dei limiti di un corpo, si dissolverà e scomparirà nonappena sperimenteremo la pura non duale coscienza, che è larealtà sia di noi stessi che di Dio. Possiamo così raggiungere lacompleta e perfetta resa di sé solo conoscendo che noi stessisiamo la vera coscienza che è priva di ogni dualità eseparazione.

Senza conoscere il nostro vero sé, non possiamo fararrendere il nostro falso sé, e senza cedere il nostro falso sé,non possiamo conoscere il nostro vero sé. Resa al sé econoscenza di sé sono inseparabili, come le due facce di unfoglio di carta. In realtà, i termini 'auto-resa' e 'auto-conoscenza' sono solo due modi di descrivere uno stesso stato:

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Introduzione

il puro stato non duale di coscienza priva d'individualità. Lavera conoscenza di sé è quindi lo stato in cui la nostraindividuale coscienza, la nostra mente o ego, diviene notacome una falsa apparenza che mai è esistita se non nellapropria immaginazione; Sri Ramana l'ha spesso descritta comelo stato di 'senza-ego', 'la perdita dell'individualità' o 'ladistruzione della mente'.

Un altro termine che è comunemente utilizzato, sia nelbuddismo sia in advaita vēdānta, per descrivere questo stato diannientamento o di estinzione della nostra personale identità èil nirvāṇa, una parola che significa letteralmente 'spazzato via'o 'estinto'. Questo è lo stesso stato che la maggior parte dellereligioni riferiscono come 'liberazione' o 'salvezza', perché soloin questo stato di vera conoscenza di sé siamo liberi o salvatidalla schiavitù di confondere noi stessi come un individuoseparato, una coscienza che è confinata entro i limiti di uncorpo fisico.

L'unica realtà che esiste, ed è conosciuta in questo stato diassenza di ego, (nirvāṇa o la salvezza), è la nostra coscienzafondamentale ed essenziale 'Io sono'. Poiché non s'identificacon qualsiasi attributo delimitante, la nostra essenziale e puracoscienza 'Io sono' è un tutto unico, indiviso e senza limiti, aldi fuori del quale nulla può esistere. Tutta la diversità e lamolteplicità che sembra esistere finché identifichiamo noistessi con un corpo fisico, è conosciuta solo dalla nostra mente(che è solo una forma distorta e limitata della nostra coscienzaoriginale 'Io sono'). Se questa coscienza 'Io sono' non fosseesistita, nient'altro poteva apparire esistere. Pertanto, la nostrafondamentale coscienza 'Io sono' è la fonte e l'origine di ogniconoscenza, quell'unica base di tutto ciò che sembra esistere.

La nostra coscienza essenziale 'Io sono' è dunque la realtàultima, l'originale fonte da cui tutto nasce, e la destinazione

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finale verso cui tutte le religioni e tradizioni spirituali cercanodi guidarci.

La maggior parte delle religioni chiama questa realtàfondamentale 'Dio' o 'Essere Supremo', oppure si riferiscono aesso in un modo più astratto come il vero stato di essere. Maqualunque sia il nome che possono dargli, anche se lodescrivono come un essere o uno stato di essere-verità, che èche la realtà suprema e assoluta: non è nient'altro che il nostrostesso essere, la coscienza che noi sperimentiamo come 'Iosono'.

Nella sua vera forma, la sua natura essenziale, Dio non èqualcosa o qualche persona che esiste al di fuori di noi oseparato da noi, ma è lo spirito o la coscienza che esiste dentrodi noi come nostra natura essenziale. Dio è la pura coscienza di'Io sono', la vera forma di coscienza che non è limitatadall'identificarsi con un corpo fisico o qualsiasi altro attributo.

Ma quando noi, che siamo la stessa coscienza pura 'Io sono',identifichiamo noi stessi con un corpo fisico, sentendo 'io sonoquesto corpo, io sono una persona, un individuo confinatoentro i limiti di tempo e spazio', diventiamo la mente, una falsae illusoria forma di coscienza.

Poiché ci identifichiamo con le aggiunte {attributi} inquesto modo, ci sembra di essere separati dalla pura coscienzasenza-aggiunte {attributi} 'Io sono', che è Dio stesso.Immaginando in tal modo di essere un individuo separato daDio, violiamo la sua interezza illimitata e la sua unità indivisa.L'obiettivo interno di tutte le religioni e tradizioni spirituali èquello di liberarci da questo stato illusorio in cui immaginiamodi essere separati da Dio, realtà illimitata e indivisa.

Ad esempio, nel cristianesimo questo stato in cui violiamol'unicità e la totalità di Dio, immaginando noi stessi come unindividuo separato da lui è chiamato il 'peccato originale', che

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Introduzione

è la radice di ogni miseria e infelicità. Poiché possiamodiventare liberi da questo 'peccato originale' solo conoscendola verità, Cristo disse: “[...] voi conoscerete la verità, e laverità vi farà liberi” (Gv 8.32). La verità che noi dobbiamoconoscere per essere resi liberi è la verità che non siamo altroche la pura coscienza senza aggiunte {attributi} 'Io sono', che èla vera forma di Dio, come rivelato da lui quando ha palesato lasua identità a Mosé dicendo: “IO SONO QUELLO CHESONO” ('ehyeh asher ehyeh' - Esodo 3,14).

Conoscere la verità 'non significa conoscerla teoricamente',ma conoscerla come esperienza diretta e immediata. Perdistruggere l'illusione che ci sia una coscienza individualelimitata, una persona distinta dal perfetto tutto che è chiamatoDio, dobbiamo identificarci come l'illimitata e indivisa puracoscienza 'Io sono'. Pertanto, per conoscere la verità e in talmodo essere resi liberi dall'illusione chiamata 'peccatooriginale', dobbiamo morire e nascere di nuovo, dobbiamomorire nella carne e rinascere come spirito.

Ecco perché Cristo disse: “Se uno non è nato di nuovo, nonpuò vedere il regno di Dio. [...] Se uno non è nato [...]nelloSpirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è natodalla carne è carne; e ciò che è nato dallo Spirito è Spirito”(Gv 3,3 e 3,5-6). Cioè, per sperimentare ed entrare nel verostato di Dio, dobbiamo smettere di esistere come individuoseparato, come coscienza che s'identifica con la carne e contutte le limitazioni della carne, e dobbiamo riscoprire noi stessicome spirito illimitato e indiviso, la pura, non corrotta e infinitacoscienza 'Io sono', che è la realtà assoluta che noi chiamiamo'Dio'.

Quando ci identifichiamo con un corpo fatto di carne,diventiamo quella carne, ma quando cessiamo di identificarenoi stessi con quella carne e conosciamo noi stessi come mero

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spirito, siamo nati di nuovo nella nostra natura originaria, lospirito puro o coscienza 'Io sono'.

La necessità di sacrificare la nostra individualità perrinascere come lo spirito è un tema ricorrente negliinsegnamenti di Gesù Cristo: “Se il granello di frumentocaduto in terra non muore, rimane solo: se invece muore,produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perderà; e chiodia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vitaeterna” (Gv 12,24-25).

“Chiunque cercherà di salvare la propria vita la perderà; echi perderà la sua vita, sarà salvato” (Luca 17.33). “Chi nonprende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chiavrà trovato la sua vita, la perderà e chi avrà perduto la suavita per causa mia, la troverà” (Matteo 10,38-39). “Chiunque[uomo] voglia seguirmi, rinneghi se stesso, prenda la suacroce, e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, laperderà: e chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà.Che giova all'uomo, guadagnare il mondo intero, se poiperderà la propria anima? O cosa deve dare un uomo incambio della propria anima?” (Matteo 16,24-26, e ancheMarco 8,34-37 e Luca 9,23-25).

Cioè, al fine di riscoprire la nostra vera ed eterna vita comespirito, dobbiamo perdere la nostra vita falsa e transitoria comeindividuo. Se cerchiamo di preservare la nostra falsaindividualità, in effetti perdiamo il nostro spirito reale. Questoè il prezzo che dobbiamo pagare per vivere come un individuoin questo mondo. Pertanto, qualunque cosa possiamo ottenere orealizzare in questo mondo, lo facciamo a costo di perdere ilnostro vero sé, lo stato di perfezione e completezza (che inquesto contesto è ciò che Cristo intende con il termine nostra'anima').

Per recuperare il nostro stato originale e perfetto di totalità,

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dobbiamo in cambio solo dare la nostra individualità e tutto ciòche va con essa. Cosa è veramente redditizio: perdere tutto eottenere solo una parte, o rinunciare a una semplice parte incambio di tutto?

Per rinunciare o perdere la nostra individualità, come Cristoaveva fatto, dice che lo dobbiamo seguire rinnegando noi stessie prendendo la nostra croce. Negare noi stessi significaastenersi dal sorgere come un individuo separato da Dio, che èil tutto (la 'pienezza di essere' o la totalità di tutto ciò che è).Prendere la nostra croce significa abbracciare la morte o ladistruzione della nostra individualità, perché nel tempo diCristo la croce era un simbolo potente di morte, essendol'usuale strumento di esecuzione. Così, anche se ha usato unlinguaggio un po' indiretto per esprimerlo, Cristo haripetutamente sottolineato la verità che, al fine di riscoprire lanostra vera vita come spirito, dobbiamo sacrificare la nostrafalsa vita come individuo.

Questo sacrificio della nostra individualità, identificata conla carne, e la nostra conseguente resurrezione o rinascita comespirito, era simboleggiata da Cristo attraverso la suacrocifissione e la successiva resurrezione. Morendo sulla crocee risorgendo dalla morte, Cristo ci ha dato una potentesimbolica rappresentazione della verità che per diventare liberidal peccato originale e dalla identificazione con la carne equindi entrare nel regno di Dio, dobbiamo morire o cessare diesistere come individuo separato, e quindi risorgere ancora unavolta come puro spirito, la coscienza infinita 'Io sono'.

Il 'regno di Dio', che possiamo vedere e nel quale possiamoentrare solo nascendo ancora una volta come spirito, non è inun posto, un luogo che possiamo trovare esternamente nelmondo materiale del tempo e dello spazio, o anche in qualchemondo celeste chiamato cielo. Quando a Cristo è stato chiesto

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quando il regno di Dio sarebbe venuto, egli rispose: “Il regnodi Dio non viene con l'osservazione: né si può dire', eccoloqui! né, eccolo lì! Ecco, guarda: il regno di Dio è dentro voi.”(Lc 17,20-21)

Il regno di Dio non può essere trovato attraversol'osservazione, cioè, da qualsiasi forma di attenzioneall'oggetto, cercando esternamente qui o là. Non può esseretrovato in qualunque luogo fuori di noi, sia qui in questomondo o in cielo, né tanto meno è qualcosa che verrà in futuro.

Esso esiste dentro di noi anche adesso. Per vederlo edentrare in esso, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione versol'interno, lontano dal mondo esterno di tempo e spazio cheosserviamo mediante la limitata coscienza della carne che noichiamiamo la nostra 'mente', e verso la nostra vera coscienza'Io sono', che è la base sottostante la realtà della coscienza cheosserva 'io sono così e così'.

L'esortazione 'guarda' che Cristo utilizzata nel passaggioprecedente è molto importante. Egli non solo ci dice che ilregno di Dio è all'interno di noi stessi, ma ci ha esortati aguardare e vedere che è dentro noi. E così, lui non solo ci hadetto la verità che ha visto, ma ci ha detto che ognuno di noidovrebbe vederlo per se stesso.

In lingua più moderna, esprimeremmo il passaggio “[...]Non diranno né: ecco qui! Né, ecco lì!, Guarda, il regno di Dioè dentro di voi! [...]”, e non si dovrebbe dire: “Guarda qui oguarda là', perché, vedete, il regno di Dio è dentro di voi”.Questa esortazione che Cristo fa a noi è di non guardare qua elà, ma vedere che il regno di Dio è dentro noi stessi, è l'essenzadella pratica spirituale insegnata da Sri Ramana e da tutti glialtri veri saggi.

Dovremmo rinunciare a partecipare a qualsiasi cosa al difuori di noi stessi, e dobbiamo invece rivolgere la nostra

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attenzione verso l'interno per vedere la realtà che esiste dentrodi noi.

Il regno di Dio non è un luogo ma uno stato, il nostro statonaturale di puro essere auto-cosciente. Quando guardiamoentro noi stessi volgendo la nostra attenzione verso il nucleopiù profondo del nostro essere, entriamo dentro e diventiamouna cosa sola con esso. Questo è lo stato della rinascita comespirito, lo stato di unione mistica con Dio che tutti icontemplativi cristiani cercano di raggiungere. In questo statochiamato il 'Regno di Dio', la pura coscienza 'Io sono', (che è lospirito o la vera forma di Dio), esiste e splende sola in tutto losplendore e la gloria della sua unità indivisa e della sua totalitàillimitata.

Gli insegnamenti di Sri Ramana gettano così una nuova lucesugli insegnamenti spirituali contenuti nella Bibbia. Allo stessomodo, gettano anche nuova luce sugli insegnamenti spiritualidi tutte le altre religioni. Anche se i suoi insegnamenti sonofacilmente riconoscibili come espressione fresca e chiara degliantichi insegnamenti advaita vēdānta, che in realtà chiarisconol'essenza interiore non solo dell'advaita vēdānta, ma anche ditutte le altre tradizioni spirituali.

La verità che egli ha insegnato non è una verità relativa, cheè limitata a una particolare religione o cultura umana, ma è laverità assoluta, che è alla base di ogni esperienza umana, e cheè l'origine e il fondamento degli insegnamenti spirituali di tuttele religioni. Per alcune ragioni culturali o per altre ragioni, inalcune religioni questa verità si esprime meno apertamente echiaramente che in altre, ma è comunque la verità che sta alcuore di ogni religione.

Anche se questa verità non è riconosciuta dalla maggiorparte dei seguaci delle varie religioni, in particolare dai seguacidi quelle religioni in cui si è nascosta più oscuramente, è

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tuttavia espressa in una forma o nell'altra nelle Scritture e negliscritti filosofici e mistici di ogni religione, e la possonodiscernere e riconoscere coloro che hanno gli occhi per vedere.

Gli insegnamenti di Sri Ramana, se capiti chiaramente ecorrettamente, ci danno gli occhi o l'intuizione necessaria perdiscernerla e riconoscerla ovunque essa sia espressa, nonimporta quanto apparentemente oscure possono essere le paroleche vengono usate per esprimere la verità. Tutte le parole sonoaperte all'interpretazione ed al fraintendimento.

Questo è particolarmente vero per le parole che parlanodello spirito: la realtà che si trova oltre i limiti della materiafisica, e che quindi non può essere percepita dai cinque sensi, oconosciuta come un oggetto della coscienza. Tutte leinterpretazioni di tali parole si dividono in due categoriedistinte: interpretazioni che sono rigorosamente nondualistiche, che non ammettono nessuna divisione dell'unica esola realtà, e le interpretazioni che sono o completamentedualistiche, o che almeno ammettono che entro quella realtà cisono divisioni e distinzioni che sono reali.

In definitiva l'interpretazione che ognuno di noi sceglie diaccettare non dipende dalla verità stessa, perché la natura dellaverità non può essere dimostrata obiettivamente, ma dallenostre preferenze personali. La maggior parte delle persone, siache esse detengano convinzioni religiose sia che custodiscanouna più materialistica visione della vita, preferiscono avere unavisione dualistica della realtà, perché una tale visione assicuraloro la realtà della propria individualità, e del mondo chepercepiscono attraverso i sensi, e (se scelgono di credere inDio) di Dio come un'entità esistente a parte.

Pertanto l'unica base per una visione dualistica della realtà èl'attaccamento che le persone hanno alla loro individualità, almondo che pensano che dia loro la felicità, e alla loro idea di

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un Dio che credono darà loro le cose che le renderanno felici.In nessun modo, una visione dualistica della realtà, può esseredimostrata come corretta e valida.

Tutta la nostra conoscenza della dualità è ottenuta dallanostra mente ed esiste solo nella nostra mente. Se la nostramente fosse reale, allora la dualità potrebbe essere reale. Ma larealtà della nostra mente è una questione aperta e dubbiosa. Senon siamo troppo attaccati alla nostra esistenza come individuiseparati, possiamo cominciare a mettere in discussione edubitare la realtà della nostra mente. Se lo facciamo, saremoportati inevitabilmente a una visione non dualistica della realtà.

Di tutto ciò che conosciamo, quella conoscenza la cui realtànon possiamo ragionevolmente mettere in dubbio è la nostracoscienza essenziale 'Io sono'. La conoscenza può esistere solose c'è una coscienza che la conosce. Poiché ogni conoscenzadipende per la sua apparente esistenza dalla coscienza, lacoscienza è l'unica fondamentale verità irriducibile eindubitabile della nostra esperienza. Poiché conosciamo, lanostra coscienza è senza dubbio reale.

L'unica qualità essenziale della coscienza è che è sempreauto-cosciente {cosciente di sé}, conosce sempre la propriaesistenza o essere, e la coscienza della propria esistenza èquella che noi sperimentiamo come 'Io sono'. Tuttavia, oltre aconoscere la propria esistenza, la nostra coscienza a voltesembra conoscere anche altre cose. Quando la nostra coscienzasembra conoscere altre cose oltre se stessa, la chiamiamo lanostra 'mente'. Che cosa è esattamente questa 'mente', questacoscienza che conosce altre cose e la dualità?

È la mente, la vera forma della nostra coscienza, osemplicemente una falsa sovrapposizione sulla nostra veracoscienza di sé 'Io sono'? E vera o è solo una falsa apparenza?Ogni volta che la nostra mente sorge, sorge in combinazione

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con un corpo, con cui si identifica, sentendosi 'io sono questocorpo'. Senza identificarsi con un corpo, la nostra mente nonpuò sorgere. Una volta sorta, s'identifica con un particolarecorpo, e attraverso i cinque sensi del corpo percepisce ilmondo.

Così l'identificazione della nostra mente con un corpo èfondamentale per la sua capacità di conoscere il mondo. Macome sorge questa identificazione con un corpo? La nostramente è una forma di coscienza, e questo corpo è una formafisica composta da materia incosciente. Identificando se stessacon questo corpo, la nostra mente confonde due cose diversecome una: confonde la coscienza, che non è materia fisica, conla forma fisica di questo corpo, che non è coscienza.

Pertanto, la nostra mente è una forma confusa e spuria dicoscienza, un fantasma che non è né la nostra vera coscienza'Io sono', né la forma fisica di questo corpo, ma che mescolaqueste due diverse cose insieme, sentendosi 'io sono questocorpo'. Anche se la nostra mente usurpa le proprietà sia dellanostra coscienza 'Io sono' e sia di questo corpo fisico, non è difatto nessuna di queste due cose. Poiché essa appare escompare, e subisce costantemente cambiamenti, non è lanostra vera coscienza 'Io sono', che non appare né scompare,ma esiste e conosce la propria esistenza in ogni momento e intutti gli stati, senza mai subire alcun cambiamento.

E poiché la nostra mente è cosciente, non è questo corpo,che è materia incosciente. Inoltre, la nostra mente nonidentifica sempre lo stesso corpo come 'io'. Nella veglia prendeun corpo come 'io', ma in ogni sogno prende qualche altrocorpo sempre come 'io'. Dal momento che può identificarsi concorpi diversi in diversi momenti, non può davvero essere unoqualsiasi di tali organismi.

Identificandosi con il corpo, la nostra mente si illude di

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sperimentare la coscienza 'Io sono' come qualcosa di confinatoall'interno dei limiti di un corpo, un corpo composto di materiaincosciente come se fosse qualcosa che è dotato di coscienza.Se la nostra mente non si illudesse in questo modo, nonesisterebbe come entità separata chiamata 'mente', marimarrebbe come pura coscienza, incontaminata da qualsiasiforma di limitazione.

Poiché la vera natura della nostra mente è d'ingannare sestessa facendo esperienza di ciò che non è, Sri Ramana ha dettoche la nostra mente stessa è maya, la potenza primordialedell'errore, illusione o auto-inganno; il potere che rende ciò cheè reale come irreale, e ciò che è irreale come reale. Nel sognola nostra mente proietta un corpo immaginario, che si identificacome 'io', e attraverso i cinque sensi di quel corpo immaginariopercepisce un mondo immaginario.

Così finché la nostra mente continua ad essere in quellostato di sogno, prende il corpo e il mondo che sperimenta insogno come reale. Tuttavia per assurde che possano sembranoalcune delle cose che essa sperimenta apparire, la nostra mentecontinua ad illudersi e a credere che queste cose siano reali.Finché la nostra mente sperimenta se stessa come un corpo,non può non sperimentare tutto ciò che percepisce attraverso isensi di tale organismo come reali.

Ma quando ci svegliamo da un sogno, smettiamo disperimentare il corpo di sogno come 'io', e abbiamocontemporaneamente smesso di sperimentare il mondo deisogni come reale. Così dalla nostra esperienza in sogno, e dallanostra esperienza contrastante al risveglio dal sogno, possiamochiaramente capire che con la potenza della sua immaginazionela nostra mente ha la capacità di creare un mondo di dualità econtemporaneamente convincersi che quel mondo è reale.

Poiché sappiamo che la nostra mente ha questo potere di

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creazione e contemporaneamente di autoinganno, dobbiamodubitare che tutte le dualità che ora vive nello stato di veglianon siano altro che un prodotto del potere ingannevoledell'immaginazione.

L'unica cosa della cui la realtà non si può dubitare è lacoscienza della nostra esistenza, la nostra non duale coscienzadi sé, 'Io sono'. Oltre a questa non duale coscienzafondamentale: 'Io sono', tutto quello di cui abbiamo esperienzaè aperto al dubbio. Quindi non possiamo ragionevolmenteevitare di dubitare della realtà di ogni dualità, sospettando chein realtà l'unica realtà è la nostra non duale coscienza del nostroessere, 'Io sono'.

Con quale criterio possiamo determinare se qualcosa èreale? Una cosa si può veramente dire reale solo se èassolutamente, incondizionatamente e indipendentemente reale,e non se la sua realtà è in qualche modo relativa, condizionatao dipendente da qualcosa d'altro.

Pertanto, secondo Sri Ramana, qualcosa può esserechiamata 'reale' solo se soddisfa tre criteri essenziali: deveessere 'eterna, immutabile ed auto-splendente'. Se qualcosa nonè eterno, anche se può sembrare reale per un certo periodo ditempo: non era vero prima della sua entrata in esistenza, e nonpotrà essere reale dopo che cessa di esistere, quindi in realtà èirreale anche se sembra essere reale. Poiché è confinato entro ilimiti del tempo, la sua realtà apparente è relativa econdizionata.

Ciò che è assolutamente e incondizionatamente reale deveessere reale in ogni momento, e non può essere limitato inrelazione a qualsiasi altra cosa. Inoltre, se qualcosa subiscecambiamenti nel corso del tempo: è una cosa in un certomomento, ma diventa un'altra cosa in un altro momento, equindi non esiste eternamente come una stessa cosa. Essendo

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Introduzione

impermanente, quello che cambia non è reale.Tuttavia, il criterio più importante con cui possiamo

determinare se qualcosa è reale, è che deve essere auto-splendente. Con il termine 'auto-splendente', Sri Ramanasignificava 'che conosce sé' o è 'cosciente di sé', cioè, checonosce se stesso per mezzo della propria luce diconsapevolezza. Ciò che è assolutamente eincondizionatamente reale necessità di non dipendere danessuna coscienza diversa per essere conosciuto. Se qualcosadipende da qualcosa d'altro per essere conosciuto comeesistente o reale, allora la sua realtà dipende dalla realtà dellacoscienza che lo conosce. Dal momento che non conosce sestessa come reale, non è reale affatto, ma semplicementesembra essere reale fintanto che è conosciuta dalla coscienzache la conosce.

Misurata con questi standard, la realtà unica esistente è lanostra fondamentale coscienza 'Io sono', perché tra tutte le coseche proviamo o conosciamo, è l'unica cosa che è permanente,l'unica cosa che mai subisce alcun cambiamento, e l'unica cosache conosce la propria esistenza senza l'ausilio di qualsiasi altracosa. A differenza di questa coscienza 'Io sono', la nostra menteè impermanente, perché appare negli stati di veglia e sogno, escompare nel sonno profondo.

Anche mentre appare esistere, la nostra mente ècostantemente in fase di cambiamento, pensando una cosa inun momento e un'altra cosa in un altro momento. E anche se lanostra mente sembra conoscere se stessa col suo stesso poteredi coscienza, infatti la coscienza mediante la quale conosce sestessa e tutte le altre cose è solo la nostra coscienza di base 'Iosono', che apparentemente usurpa come propria, ma che ècomunque indipendente da essa.

La nostra mente è distinta dalla nostra coscienza essenziale

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'Io sono', dalla cui luce conosce apparentemente l'esistenza disé e di altre cose, perché la nostra coscienza 'Io sono' puòesistere in assenza della nostra mente, come nel sonnoprofondo. Mentre la nostra coscienza 'Io sono' è permanente, lanostra mente è impermanente. Mentre la nostra coscienza 'Iosono' è un essere sempre immutabile, che sempre rimane comeè, la nostra mente è un flusso in continua evoluzione dipensieri.

E mentre la nostra coscienza 'Io sono' è sempre coscientedel proprio essere, la nostra mente a volte è cosciente di sé e dialtre cose, e talvolta non è cosciente né di sé né di qualsiasialtra cosa. Pertanto la nostra coscienza 'Io sono' è reale, mentrela nostra mente è semplicemente un irreale apparenza. Se lanatura essenziale di qualcosa è la coscienza, questa deve esseresempre consapevole, perché nulla può mai essere separato dallasua natura essenziale.

Poiché la coscienza è la natura essenziale della nostracoscienza 'Io sono', questa è cosciente in ogni momento e intutti gli stati. Analogamente, poiché l'essenziale natura dellanostra coscienza 'Io sono' è anche essere o esistenza, esiste inogni tempo e in tutti gli stati. Al contrario, dal momento che lanostra mente è cosciente solo durante la veglia e negli stati disogno, e cessa di essere cosciente nel sonno profondo, la suanatura essenziale non può essere la coscienza. Allo stessomodo, dal momento che esiste solo nella veglia e nel sogno, macessa di esistere nel sonno, la sua natura essenziale non puòessere o esistere.

In realtà, non c'è nulla che possa essere indicato comel'essenziale natura della nostra mente, perché questa non èsempre la stessa cosa. Il corpo non può essere la sua naturaessenziale, perché se si identifica con un particolare corpo nellostato di veglia, in sogno si identifica con un altro organismo, e

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Introduzione

nel sonno profondo non si identifica con nessun corpo.Analogamente, la sua natura essenziale non può essere alcunpensiero o a atto di pensare, perché durante gli stati di veglia edi sogno i pensieri cambiano costantemente, e nel sonno cessadi pensare qualsiasi pensiero.

Anche se la nostra mente infatti non ha una sua naturaessenziale, nella veglia e nel sogno sembra essere cosciente.Tuttavia, dal momento che cessa di essere cosciente nel sonnoprofondo, la coscienza, che sembra essere la sua naturaessenziale nella veglia e nel sogno, è da essa di fatto presa inprestito dalla nostra coscienza reale 'Io sono'. Dato che lanostra mente non ha quindi una sua natura essenziale, possiamosicuramente concludere che essa non ha realtà propria, maprende in prestito la sua apparente realtà solo dalla nostracoscienza essenziale 'Io sono'.

La nostra mente è quindi un fantasma irreale, qualcosa chein realtà non è né una cosa né l'altra. Essa è una falsaapparenza, un'illusione o un'allucinazione, un autoingannoimmaginario che appare e scompare nella nostra unica veracoscienza 'Io sono'. Tuttavia, anche se la nostra mente ingannase stessa apparendo come la nostra vera coscienza 'Io sono',non inganna la nostra coscienza 'Io sono', che resta sempre cosìcom'è, conoscendo solo la propria esistenza, non essendoinfluenzata da nulla e da nient'altro di sorta.

Perché la nostra vera coscienza 'Io sono' rimane semprecome pura coscienza, incontaminata dalla conoscenza dinull'altro che sé, nulla di ciò che appare o scompare potrà maiincidere su di essa anche solo minimamente. Cioè, qualunquecosa possa apparire o scomparire, noi conosciamo sempre solo'Io sono'.

La natura essenziale della nostra reale coscienza 'Io sono' èsolo autocoscienza {coscienza di sé}, la coscienza della propria

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esistenza o essere, e non la coscienza di qualcosa di diverso danoi stessi. Poiché la nostra coscienza di altre cose appare escompare, non può essere la natura essenziale della nostra veracoscienza di fondo 'Io sono'.

Nella sua natura reale ed essenziale, la nostra coscienza 'Iosono' è sempre immutabile, e mai influenzata da alcuncambiamento che possa apparire o verificarsi. Pertanto,qualsiasi altra conoscenza che può comparire o scomparire,non può influire sulla nostra coscienza fondamentale del nostroessere 'Io sono', che esiste e conosce la propria esistenza in tuttigli stati e in ogni momento.

La nostra mente è quindi una falsa forma di coscienza,un'immaginaria, forma confusa e auto-ingannevole dellaconoscenza, un'entità spuria che non ha nessuna reale esistenzapropria. Poiché tutta la dualità o molteplicità è nota solo daquesta mente, essa dipende per la sua esistenza apparente daquesta mente, questa immaginaria, confusa, auto-ingannevoleforma irreale di coscienza.

Quindi la nostra mente è la causa principale della comparsadella dualità. Senza la nostra mente a conoscerla la dualità nonpotrebbe esistere. Pertanto la dualità può essere reale solo comela nostra mente, che la conosce. Dal momento che la nostramente è un'apparizione irreale che sorge e sparisce nella nostravera coscienza 'Io sono', ogni dualità è anche un 'apparenzairreale. Quindi possiamo ragionevolmente concludere che lanostra coscienza pura 'Io sono' è l'unica realtà esistente, e chela nostra mente e tutta la dualità o molteplicità che è conosciutada essa è solo un aspetto irreale, un aspetto che è irreale perchéè impermanente, in continua evoluzione, e dipendente per lasua esistenza apparente da quella unica vera coscienza 'Iosono'.

Quindi, se abbiamo il coraggio e l'onestà intellettuale di

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dubitare seriamente e mettere in discussione la realtà dellanostra mente, e di analizzare la sua natura imparzialmente,saremo condotti inevitabilmente a una visione non-dualisticadella realtà e alla conclusione che l'unica realtà esistente è lanostra coscienza fondamentale del nostro essere essenziale, lanostra pura non duale autocoscienza 'Io sono', e che tutto ilresto è solo un'illusione o falsa apparenza, una fantasia creata econosciuta solo dalla nostra mente immaginaria.

Questa realtà non duale è l'unica verità di cui tutte lereligioni parlano. Anche se non descrivono sempre la non dualenatura di questa verità in termini espliciti, tutte le religioni lofanno implicitamente in un modo o nell'altro. Nessunareligione ha il monopolio della verità. Ciò che è vero in unareligione è vero in ogni religione. La verità non può mai esserein alcun modo esclusiva, perché se così fosse, sarebbe solo unaverità parziale e non tutta la verità: una relativa verità e non laverità assoluta.

Per essere totalmente e assolutamente vera, la verità deveessere onnicomprensiva, deve essere quel tutto che comprendeogni cosa all'interno di sé. L'unica intera verità che includetutto in sé è lo spirito infinito, l'unica coscienza che tutti noiconosciamo come 'Io sono'. Tutto ciò che sembra esistere lo fasolo all'interno di questa coscienza.

Anche se le molteplici forme in cui appaiono le cose sonoirreali in quanto tali, la reale sostanza di tutte le cose è lacoscienza in cui appaiono. Pertanto, l'unica verità di cui tutte lereligioni parlano è il singolo, onnicomprensivo e non dualetutto, lo spirito o coscienza in cui tutte le cose appaiono escompaiono. Tuttavia, poiché interpretano gli insegnamentispirituali della loro religione in una maniera dualistica, lamaggior parte dei seguaci delle varie religioni tendono acredere che la loro religione ha in qualche modo un monopolio

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o pretesa esclusiva di verità, ed è quindi l'unico mezzo disalvezza.

Per esempio, in tutta la storia del cristianesimo, i cristianipiù ordinari credevano che la vera salvezza poteva essereraggiunta solo attraverso la persona di Gesù Cristo, e che gliatei, gli agnostici e i seguaci di altre religioni potevano esseresalvati solo con la conversione al cristianesimo. Hannogiustificato questa convinzione irragionevole e arrogante con laloro interpretazione dualistica del detto di Cristo: “Io sono lavia, la verità e la vita, nessuno viene al Padre, senza di me”(Gv 14,6).

A causa della loro comprensione dualistica dei suoiinsegnamenti spirituali, interpretano le parole 'Io sono' e 'me'che ha usato in questo passaggio per indicare solo la singolapersona di Gesù Cristo, che è nato in un determinato momentoin un determinato luogo chiamato Betlemme. Tuttavia, Cristonon ingannava se stesso ritenendosi semplicemente unapersona individuale la cui vita era limitata entro un certointervallo di tempo e di spazio. Lui sapeva di essere il vero edeterno spirito 'Io sono', che è illimitato nel tempo e nellospazio.

Ecco perché, ha detto: “Prima che Abramo fosse, Io Sono”(Giovanni 8.58). La persona che era Gesù Cristo nacque moltotempo dopo il tempo di Abramo, ma lo spirito che è GesùCristo esiste sempre e ovunque, trascendendo i limiti di tempoe di spazio. Dato che lo spirito è senza tempo, egli non hadetto: “Prima che Abramo fosse nato, Io ero”, ma: “Prima cheAbramo fosse nato, Io sono”.

Quello spirito senza tempo 'Io sono', che Cristo sapevaessere il suo vero sé, è lo stesso 'Io sono' che Dio ha rivelato diessere il suo vero sé quando ha detto a Mosè: “IO SONOQUELLO CHE SONO” (Esodo 3,14). Pertanto, anche se Cristo

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appare a noi come una persona fisica separata, lui e suo PadreDio sono, infatti, una sola e stessa realtà, lo spirito che esiste inognuno di noi come la nostra coscienza fondamentale 'Io sono'.Ecco perché, ha detto: “Io e il Padre siamo uno” (Gv 10,30).

Pertanto, quando Cristo disse: “Io sono la via, la verità e lavita, nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv14,6), dalle parole 'Io sono' e 'me' si riferiva non solo al singoloindividuo legato al tempo che si chiamava Gesù, ma allo spiritoeterno 'Io sono', che sapeva essere il suo vero sé. Il significatoprofondo delle sue parole può quindi essere espressoriformulandolo così: “Lo spirito 'Io sono' è la via, la verità e lavita; nessuno viene allo spirito 'Io sono', che è il Padre o lafonte di tutte le cose, se non tramite questo stesso spirito”.

Lo spirito 'Io sono' non è solo la verità o la realtà di tutte lecose, la fonte da cui tutti provengono, e la vita o coscienza cheanima ogni essere senziente, ma è anche l'unico modo con cuipossiamo tornare alla nostra fonte originale, che noi chiamiamocon vari nomi come 'Dio' o 'Padre'. Solo rivolgendo la nostraattenzione all'interno verso lo spirito, la consapevolezza cheognuno di noi sperimenta come 'Io sono', possiamo tornare adiventare tutt'uno con la nostra fonte.

Pertanto la vera salvezza può essere realizzato non soltantoattraverso la persona che era Gesù Cristo, ma attraverso lospirito che è Gesù Cristo, lo spirito eterno 'Io sono' che esisteall'interno di ciascuno di noi. Non solo Cristo affermava la suaunità con Dio, suo Padre, ma anche desiderava diventaretutt'uno con lui. Prima del suo arresto e crocifissione, Cristo hapregato per noi: “Santo Padre, [...] che possano essere uno,come noi [siamo]. [...] Che tutti siano una sola cosa; come tu,Padre, […] sei in me, e io in te, che anche loro possano essereuno in noi [...] affinché siano uno come noi siamo uno: io inloro, e tu in me, perché siano perfetti nell'unità” (Giovanni

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17.11 e 21-23).Cioè, l'obiettivo di Cristo era che dovremmo cessare di

confondere noi stessi come individui separati da Dio econoscere noi stessi come quello spirito indivisibile, lacoscienza pura fondamentale 'Io sono', che è la realtà di Dio.Così unicità o non-dualità è l'obiettivo centrale degliinsegnamenti spirituali di Gesù Cristo.

Ogni religione è costituita da un nucleo centrale vitale diverità non dualistica, espresso esplicitamente o implicitamente,e uno spesso guscio esterno di credenze dualistiche, pratiche,dottrine e dogmi. Le differenze che vediamo tra una religione el'altra, le differenze che nel corso dei secoli hanno dato originea tanti conflitti, intolleranze e persecuzioni crudeli, e anche aguerre sanguinose e al terrorismo, si trovano soltanto nelleforme superficiali di quelle religioni, i loro gusci esterni dicredenze e pratiche dualistiche.

Tutta la disarmonia, i conflitti e le lotte che esistono tra unareligione e un'altra nascono solo perché la maggior parte deiseguaci di quelle religioni sono troppo attaccati ad una visionedualistica della realtà, che limita la loro visione e impedisceloro di vedere ciò che tutte le religioni hanno in comune, vale adire la verità di fondo della non-dualità. Pertanto, la vera pace el'armonia sarebbero prevalse tra i seguaci delle varie religionisolo se fossero stati tutti disposti a guardare oltre le formeesterne di quelle religioni e vedere quella verità semplice ecomune della non dualità che si trova nel cuore di ciascuna diesse.

Se accettiamo e veramente comprendiamo la verità dellanon dualità, non avremo alcun motivo di litigare o combatterecon nessuno. Saremo felici e lasceremmo ognuno crederequello che vuole, perché se una persona è così attaccata allapropria individualità che non è disposta a dubitare della sua

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Introduzione

realtà, nessun ragionamento o argomentazione la convinceràdella verità della dualità.

Perciò nessuno che comprende veramente questa veritàdovrebbe mai cercare di convincere il riluttante. Se qualcunotenta di forzare la verità della non-dualità a qualcuno che non èdisposto ad accettarla, sta solo mostrando la propria mancanzadi una corretta comprensione di questa verità. La non-dualitànon è una religione che ha bisogno di evangelisti perpropagandarla, o per convertire e ingrossare le sue fila. È laverità, e rimarrà la verità sia che ognuno scelga o meno diaccettare e capire.

Quindi possiamo e dobbiamo fare null'altro che renderequesta verità a disposizione di chiunque sia pronto acomprenderla ed applicarla in pratica. Molte persone religiosecredono che sia una bestemmia o sacrilegio dire che siamo unocon Dio, perché scambiano una tale dichiarazione nel senso cheun individuo abbia la pretesa di essere Dio. Ma quandodiciamo che siamo Dio, ciò che intendiamo, non è che noicome individuo separato siamo Dio, il che sarebbe assurdo, mache non siamo individui separati da Dio. Negando che abbiamoqualche esistenza o realtà separata da Dio, stiamo affermandoche la realtà che noi chiamiamo Dio è una, intera e indivisa. Seinvece dovessimo affermare che siamo in realtà separati daDio, come la maggior parte delle persone religiose credono diessere, ciò si che sarebbe una bestemmia o sacrilegio, perchévorrebbe dire che Dio non è la sola e unica realtà.

Se siamo una qualsiasi realtà separata da Dio, allora egli nonsarebbe l'intera verità, ma solo una parte o scissione di qualcheverità più grande. Se crediamo che la realtà che noi chiamiamoDio è veramente la pienezza infinita 'di essere', un tuttoindiviso, allora dobbiamo accettare che nulla può esistere comediverso o separato da lui. Solo Lui esiste veramente, e tutto il

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resto che sembra esistere come separato da Lui è nient'altro cheun'illusione o falsa apparenza la cui unica realtà sottostante èDio stesso.

Solo nello stato di perfetta non-dualità vi è la gloria vera, latotalità e pienezza di Dio rivelato. Finché viviamo uno stato didualità apparente scambiando noi stessi come individui separatida Dio, stiamo degradando e umiliando Lui, negando la suaunità indivisibile, la sua integrità e infinitezza, e facendo di luiqualcosa di meno dell'unica realtà esistente che egli èveramente.

Anche se l'obiettivo interno di tutte le religioni è diinsegnare a noi la verità della non dualità, nelle loro Scritturequesta verità è spesso espressa solo in modo indiretto, e puòessere individuata solo da persone che sono in grado di leggeretra le righe con vera intuizione e comprensione. Il motivo percui la verità non è espressa più apertamente, in modo chiaro esenza ambiguità in molte delle Scritture delle varie religioni èche in tutti i tempi la maggioranza delle persone non hannoancora raggiunto uno stato di sufficiente maturità spirituale perpoter digerire e assimilare ciò, se lo si racconta come è.

Ecco perché Cristo disse: “Ho ancora molte cose da dirvi,ma voi non potete portarne il peso” (Gv 16.12). Tuttavia, seora la maggior parte di noi non può sopportare e accettare laverità cruda e nuda della non dualità, con il passare del tempoci sarà una sempre maggiore maturità spirituale necessaria percomprendere e accettare la verità così com'è, e non solo comevorremmo ora che fosse. La nostra vita in questo mondo è unsogno che si sta verificando nel nostro lungo sonno di autodimenticanza {dimenticanza del sé}, dimenticanza o ignoranzadel nostro vero stato di pura non duale coscienza di sé.

Fino a quando non ci sveglieremo da questo sonno delladimenticanza di sé per riconquistare il nostro stato vero e

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naturale di auto-conoscenza, i sogni come la nostra vita attualecontinueranno ricorrenti uno dopo l'altro. Quando il nostrocorpo attuale 'muore', cioè, quando cessiamo di identificare noistessi con quest'organismo, che per il nostro meravigliosopotere dell'immaginazione abbiamo ora proiettato come 'io' eattraverso cui vediamo il mondo attuale, ci caleremotemporaneamente nel sonno della dimenticanza di sé, ma primao poi risorgeremo per progettare un altro corpo di sogno comenoi stessi e vedere attraverso di esso un altro mondo di sogno.

Questo processo di passaggio da un sogno all'altro nel lungosonno dell'auto-dimenticanza è quello che viene chiamato'rinascita'. Mentre così attraversiamo una vita sognata dopol'altra, subiamo molte esperienze che accendono, poco a pocodentro di noi, una chiarezza di spirituale discriminazione, permezzo della quale veniamo a capire che la nostra vita comeindividuo separato è un flusso costante e fluttuante diesperienze piacevoli e dolorose, e che quindi possiamosperimentare la vera e perfetta felicità solo conoscendo ilnostro vero sé, distruggendo in tal modo l'illusione che ci fasentire noi stessi di essere un individuo separato.

Così la verità della dualità è la verità ultima che ognuno dinoi finirà per arrivare a capire e accettare. Tuttavia, unasemplice comprensione teorica e l'accettazione della veritàdella non dualità non ha alcun valore reale per noi in se stessa,perché non eliminerà la fondamentale dimenticanza del sé oauto-ignoranza che sta alla base della nostra illusione diindividualità.

L'accettazione della verità della non-dualità è utile per noi seci spinge a volgere la nostra attenzione all'interno verso ilnostro vero sé, la nostra coscienza fondamentale del nostroessere, che ognuno di noi sperimenta come 'Io sono'. Nonpossiamo mai sperimentare la verità della non dualità

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semplicemente studiando scritture o altri libri spirituali, nonimporta quanto correttamente possiamo comprendere einterpretare il loro significato interiore.

La verità stessa può essere scoperta e sperimentata solodentro di noi, nel cuore stesso del nostro essere, e non in libri oin parole, che non importa quanto sacri possano essere. Libri oparole ci possono essere utili solo se ci permettono di capireche possiamo sperimentare la vera conoscenza spostando lanostra attenzione dal mondo degli oggetti e delle idee verso lacoscienza con cui tutte le cose sono note. In ogni religione eautentica tradizione spirituale nel corso dei secoli ci sono statepersone che hanno raggiunto la stessa non duale esperienza cheSri Ramana ha raggiunto: l'esperienza della vera conoscenza disé.

In questo libro farò riferimento a queste persone come'saggi', un termine che non voglio usare nel senso comunegenerale di una 'persona di grande saggezza', ma nel piùspecifico senso di una 'persona a conoscenza del sé'. Così ognivolta che uso il termine 'saggio', lo userò come un equivalentedel termine sanscrito 'jñāni', che significa una 'persona o jñānidi [vera] conoscenza', o più specificamente 'ātma-jñāna', una'persona di ātma-jñāna o conoscenza del sé'.

Solo perché una persona si dice che sia un santo, profeta,veggente, ṛṣi, mistico, o un essere riverito, lui o lei possononon necessariamente essere un vero saggio, perché talidenominazioni non denotano specificamente una persona cheha raggiunto la vera conoscenza del sé. I veri saggi sonocomunque la crema dei santi, profeti, veggenti, ṛṣi, e mistici ditutte le religioni e di tutti i tempi, e un esempio di questi saggisi può trovare in ogni religione e tradizione spirituale.

Molti di questi saggi sono rimasti sconosciuti al mondo,perché anche se hanno sperimentato la verità ultima, non hanno

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mai tentato di esprimerla in parole, o anche se lo hanno fatto, leloro parole non sono mai state registrate. Tuttavia, in ognicultura e ogni religione alcuni saggi hanno espresso la veritàsia per iscritto che in discorsi e, quindi, hanno lasciato almondo una grande eredità di letteratura spirituale, chetestimonia l'esperienza non duale raggiunta.

Anche se tutti questi saggi hanno sperimentato la stessaverità, le parole che hanno usate per esprimerla sono statespesso molto diverse, e talvolta possono anche sembrare incontraddizione tra loro. La ragione di questo è che nessunaparola può esprimere adeguatamente la verità della non dualità,perché questa si trova di là dal campo della coscienza dualisticache chiamiamo 'mente'. Le parole sono uno strumentoutilizzato dalla mente per trasmettere i sentimenti, le idee, lepercezioni e così via, ognuna delle quali deriva dalla suaesperienza della dualità. Poiché la mente è una forma dicoscienza che sente di essere distinta da qualsiasi cosa conosce,può solo capire la dualità, e non può mai conoscere la realtànon duale che è alla base di se stessa. Le parole che i saggiusano per esprimere la verità sono dunque solo gli indicatoriche attirano la nostra attenzione su ciò che è oltre la nostramente, ma che si trova in profondità dentro di noi, e checontiene in sé tutte le cose.

La vera importanza delle loro parole non può esserecompresa dalla normale intelligenza mondana che utilizziamoper comprendere le altre cose, ma può essere compresa dallachiarezza interiore che brilla naturalmente nella nostra mentequando la sua agitazione in superficie causata dalla tempestadel desiderio e dell'attaccamento è calmata, almeno in parte. Setentiamo di sperimentare la verità che è indicata dalle loroparole per scrutare la nostra coscienza fondamentale 'Io sono',coltivando in tal modo l'abilità nell'arte del solo essere,

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otterremo una crescente chiarezza interiore che sarà necessariaper percepire il vero significato delle loro parole.

Poiché nessuna parola può esprimere adeguatamente laverità, tutti i saggi hanno dichiarato che essa è inesprimibile, emolti di loro hanno quindi scelto di utilizzare il linguaggiodell'allegoria per esprimere l'inesprimibile. Il linguaggioallegorico che i saggi hanno usato più comunemente peresprimere il cammino che dobbiamo prendere al fine diimmergerci nella fonte da cui abbiamo avuto origine è illinguaggio dell'amore mistico. In questo linguaggio, l'animaindividuale in cerca dell'unione con Dio è descritta come unagiovane ragazza in cerca di unione con il suo amato.

Gran parte della più bella letteratura spirituale nel mondo èla poesia composta da saggi in questo linguaggio di amoremistico, e campioni di tale poesia si possono trovare in molteculture diverse. Quando leggiamo questa poesia con unacomprensione della verità della non-dualità, possiamochiaramente vedere in essa un'espressione inconfondibile diquella verità. Nel linguaggio dell'allegoria, la verità è implicitaanziché dichiarata in modo esplicito, e può quindi rimanerenascosta ai lettori che non hanno una preventiva comprensionedi ciò.

Pertanto alcuni saggi, interrogati da persone chesinceramente cercavano di conoscere la verità, hanno messo daparte il linguaggio dell'allegoria e hanno invece tentato di usareil linguaggio della filosofia per esprimere la verità piùesplicitamente e chiaramente. Tuttavia, anche il linguaggiodella filosofia non esprime la verità perfettamente, ma può soloindirettamente indicare la natura di questa e i mezzi perrealizzarla. La terminologia filosofica che i saggi di diverseculture ed età diverse hanno usato per esprimere la verità èmolto varia, e se compresa solo superficialmente può spesso

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Introduzione

sembrare essere in conflitto. Per esempio, molti saggi hannousato termini come 'Dio' per riferirsi alla realtà assoluta,mentre altri come il Buddha e Mahavira hanno evitato diutilizzare tale termine.

Ciò ha portato alcuni a sostenere che tali saggi hanno negatol'esistenza di Dio. Tale affermazione è fuorviante, e deriva dauna troppo semplicistica comprensione sia della realtà che deltermine 'Dio'. L'unico scopo degli insegnamenti del Buddha eMahavira, come quella di tutti gli altri saggi, è stato quello dicondurci a quella realtà assoluta. La terminologia che ciascunodi loro ha utilizzato parlando di questa realtà può variare, ma larealtà di cui tutti hanno parlato è la stessa.

Quella realtà può essere conosciuta solo dall'esperienzadiretta non duale, e non può mai essere concepita dalla mente,né espressa dalle parole. Essendo infinita, trascende tutte lequalità concettuali che le nostre menti finite attribuiscono aessa, in modo da non poter essere descritta correttamente comeessere questo o quello. È tutto, e allo stesso tempo è nulla.Pertanto è ugualmente corretto, e altrettanto errato, sia riferirsia essa come 'Dio' o di non riferirsi a essa come 'Dio'.

Il termine 'Dio' non ha alcun significato fisso. In certicontesti significa una cosa, e in altri contesti significa un'altracosa, perché è un nome dato a una vasta gamma di nozioni chele persone hanno circa la realtà suprema o ultima. Alcune dellenostre idee su Dio sono decisamente antropomorfiche, mentrealtre sono più astratte, ma nessuna di loro è sia del tuttocorretta che totalmente errata.

Nel vēdānta, quindi, è fatta una distinzione tra due formefondamentali di Dio. Una forma è chiamata 'saguṇa brahman',che significa 'brahman con guṇas', e l'altra forma si chiama'nirguṇa brahman', il che significa 'brahman senza guṇas'. Laparola brahman significa la realtà assoluta, l'essere supremo o

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Dio, e la parola guṇa significa qualità o attributo. Così 'saguṇabrahman' è la forma relativa di Dio, con qualità e attributicome concepiti dalla mente umana; 'nirguṇa brahman' è laforma assoluta e reale di Dio, senza alcuna qualità concepibileo attributo. Il Dio della concezione umana, qualunque questapossa essere, è 'saguṇa brahman'; mentre la realtà di Dio, chetrascende ogni umana concezione, è 'nirguṇa brahman'. Così'nirguṇa brahman' è la sostanza o realtà assoluta che è alla basedel 'saguṇa brahman', il Dio della nostra limitata concezione.

Anche se Dio come 'saguṇa brahman' non è la realtà ultimao assoluta, ha tutte le qualità divine che attribuiamo a lui e chesono reali come la nostra individualità. Pertanto, fintanto che ciconsideriamo individui separati, Dio e tutte le sue qualitàdivine sono a tutti gli effetti reali. Ma quando raggiungiamol'esperienza della vera conoscenza di sé e quindi distruggiamola falsa idea che siamo una coscienza individuale che è separatada Dio, Dio rimarrà come il nostro vero sé o essere essenziale,la realtà assoluta o 'nirguṇa brahman', che trascende ogniumana concezione. Poiché l'obiettivo del Buddha e diMahavira era di insegnarci i mezzi con i quali possiamoraggiungere la realtà assoluta, che è oltre tutti i guṇas, qualità oattributi, non hanno ritenuto necessario parlare di 'Dio', untermine che viene generalmente inteso come 'saguṇa brahman',il supremo dotato di qualità divine.

Altri saggi, però, hanno utilizzato il termine 'Dio' anchecome una parola riferentesi a 'nirguṇa brahman', l'assolutarealtà che trascende tutte le qualità, o perché hanno capito chele persone a cui stavano parlando avevano bisogno del concettodi un Dio personale che li aiutasse nei loro sforzi perraggiungere la realtà transpersonale. Non c'è quindi alcunadifferenza fondamentale tra gli insegnamenti dei saggi chehanno usato il termine 'Dio' e coloro che non hanno utilizzato

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Introduzione

questo termine. Entrambi stanno parlando della stessa realtàassoluta, ma hanno semplicemente scelto di esprimerlo intermini diversi.

Il fatto che il Buddha chiaramente riconosce l'esistenza dellarealtà assoluta o 'nirguṇa brahman' è evidente da uno dei suoiimportanti e ben noti insegnamenti, che viene registrata nel2.5.3.8.3 Tipiṭaka (Udana 8.3):

“Vi è, o mendicanti, quello che non è nato,quello che non è venuto in essere, ciò che non èfatto, ciò che non è fabbricato. Se non ci fosse, omendicanti quello che non è nato, quello che nondeve nascere, ciò che non è fatto, ciò che non èfabbricato, qui [in questo mondo o in questa vita]fuggire da ciò che è nato, da quello che è venuto inessere, da quel che è fatto, da ciò che vienefabbricato, non apparirebbe pertanto [uno stato chepotrebbe essere] chiaramente noto [o esperito]. Mapoiché, o mendicanti, vi è ciò che non è nato,quello che non è entrato in essere, ciò che non èfatto, ciò che non è fabbricato, quindi fuggire daciò che è nato, da quello che è venuto in essere, daquello che è fatto, da quello che è fabbricato, è [unostato che può essere] chiaramente noto [osperimentato]”.

Anche se vi è una ricchezza di significato profondo inqueste parole del Buddha, questo non è il luogo adatto peresaminarle a fondo, quindi dovremo studiarle più in dettaglio inun seguito di questo libro che ho già iniziato a scrivere.

Un'altra differenza superficiale tra gli insegnamenti delBuddha e quelli di advaita vēdānta è che il Buddha ha

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insegnato la verità di anattā, un termine Pali che è una formamodificata della parola sanscrita Anatman, che significa 'nonsé', mentre i saggi della tradizione advaita vēdānta insegnanoche l'Ātmā o 'sé' è l'unica realtà esistente.

Alcune persone sostengono che si tratta di una fondamentalecontraddizione tra i loro rispettivi insegnamenti, mentre inrealtà si tratta solo di una differenza superficiale nellaterminologia.

Quando Buddha ha insegnato che non esiste un 'sé' oAtman, si riferiva solo al nostro sé individuale finito o Jivatma,che tutti i saggi della tradizione advaita vēdānta dicono siairreale. E quando quei saggi insegnano che il 'sé' o ātmā èl'unica realtà esistente, non si sono riferiti al nostro falso séindividuale ma solo al nostro vero sé, il nostro vero essere oessenziale 'Io sono' {lo stato di essere Sono-ità = am-ness}, ilnostro puro, senza limiti, indiviso, non qualificato eassolutamente non duale sé, la coscienza del nostro essere, chesola rimane nello stato di nirvāṇa, in cui la falsa apparenzadella nostra individuale coscienza che conosce gli oggetti ècompletamente estinta.

Pertanto non vi è alcuna contraddizione tra la verità del 'nonsé' o anattā insegnata dal Buddha e la verità del 'sé' o ātmā cheè l'unica realtà esistente insegnata dall'advaita vēdānta. Gliinsegnamenti di diversi saggi sembrano differire l'unodall'altro, o anche contraddirsi l'un l'altro, per tre motiviprincipali. In primo luogo, per la diversa terminologia chehanno usato per insegnare la verità, perché le parole nonpotranno mai esprimerla perfettamente, ma possono indicarlasolo.

In secondo luogo, è perché hanno dovuto adeguare i loroinsegnamenti per soddisfare la ricettività del popolo al qualeessi insegnavano. E in terzo luogo, è perché i loro insegnamenti

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Introduzione

originali si sono spesso mescolati con le idee dei loro seguaci,molti dei quali non avevano esperienza diretta della verità chehanno insegnato, e neppure una chiara e corretta comprensione.

Gli scritti che sono sopravvissuti degli insegnamenti di moltisaggi non erano scritti da quegli stessi saggi, ma solo registratidai loro seguaci, spesso molto tempo dopo la loro vita. Pertantotali registrazioni spesso non riflettono perfettamente gliinsegnamenti di quei saggi, ma riflettono solo la comprensioneche alcuni dei loro colti seguaci avevano dei loro insegnamenti.In quasi tutte le religioni e tradizioni spirituali, gliinsegnamenti originali dei saggi si sono mescolati con i sistemielaborati di teologia, cosmologia, filosofia e psicologia, chehanno poca relazione con l'esperienza reale di quei saggi.

Tali teologie e cosmologie originate dalle menti di personeche non erano in grado di comprendere la semplicità el'immediatezza della verità insegnata dai saggi, hanno perciòcreato sistemi elaborati e complessi di credenze, nel tentativodi spiegare ciò che essi stessi non potevano capire. Hannoavuto origine in questo modo, tutte le complesse teologie ecosmologie che esistono in ogni religione e che servono solo aconfondere la gente e oscurare nelle loro menti la sempliceverità della non dualità insegnata dai saggi.

Tuttavia, nonostante la complessa confusione dellaletteratura spirituale del mondo, scorrendo questa letteratura c'èun comune filo di semplice verità, che si può facilmentediscernere se siamo in grado di comprendere gli insegnamentioriginali dei veri saggi. Poiché la stessa verità fondamentaledella non-dualità è stata espressa dalle parole registrate di saggiprovenienti da tante diverse culture nel corso dei secoli, che imoderni studiosi di filosofia chiamano la 'filosofia perenne', untermine che corrisponde all'antico termine sanscrito sanātanadharma, che letteralmente significa 'ciò che sostiene da

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sempre' o 'ciò che è sempre stabilito', e che, pertanto,implicitamente significa: 'la verità eterna', la 'legge eterna', il'principio eterno', il 'sostegno eterno', il 'fondamento eterno', la'natura eterna', l 'essenza eterna', la 'via eterna' o 'eternareligione'.

Fortunatamente per noi, gli insegnamenti di Sri Ramanasono stati registrati mentre era in vita da molti dei suoi seguaci,alcuni dei quali li compresero molto chiaramente, ma sono statianche scritti da lui in varie poesie e altre opere. Poiché hacomposto la poesia, non solo nel linguaggio dell'allegoriamistica dell'amore, ma anche nel linguaggio della filosofia, epoiché nella sua poesia ha descritto la realtà ed i mezzi perraggiungerla molto chiaramente e in termini inequivocabili, hareso estremamente facile per noi capire la semplice verità che èalla base degli insegnamenti di tutti i saggi.

Dopo aver letto e compreso i suoi insegnamenti, seleggiamo gli insegnamenti di qualsiasi altro vero saggio,possiamo facilmente riconoscere che la stessa verità è espressain tutti loro. Inoltre, i suoi insegnamenti servono anche comeuna chiave che ci permette di svelare ed estrarre i veriinsegnamenti dei saggi dalla massa densa di teologie estranee,cosmologie e filosofie con cui questi sono stati mescolati inogni religione e tradizione spirituale.

Pertanto lettori che hanno già familiarità con il 'SanatanaDharma', la verità senza tempo e universale o 'filosofiaperenne' insegnata da tutti i saggi, penseranno che gliinsegnamenti di Sri Ramana esprimano la stessa basicafilosofia. Tuttavia, essi troveranno anche che i suoiinsegnamenti lanciano una chiara e nuova luce su quellafilosofia, chiarendo molte sottili e profonde verità che sonostate raramente espresse in modo così esplicito da altri saggi,particolarmente per quanto riguarda i modi concreti con cui

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possiamo ottenere la vera esperienza della non dualeconoscenza del sé.

Poiché gli insegnamenti di Sri Ramana sono una semplicema molto profonda rivelazione della realtà fondamentale eassoluta che sottende l'apparenza di tutte le molteplicità ediversità, questi esprimono la verità ultima che è l'intimaessenza di tutte le religioni e tradizioni spirituali.

Quindi persone di molte diverse tradizioni religiose eculturali hanno riconosciuto che i suoi insegnamenti sonoun'esposizione profondamente penetrante e autentica del verosignificato della propria religione o tradizione spirituale, ehanno capito che dopo aver studiato i suoi insegnamenti nondevono studiare altri testi spirituali.

Sebbene la stessa semplice verità della non dualità si troviesposta in tutta la letteratura spirituale del mondo, se lacerchiamo con impegno; non è necessario o opportuno per noidi sprecare il nostro tempo a cercare nella vasta giungla dellescritture e dei libri sacri, dove di solito è nascosta tra una densamassa di idee estranee.

Ecco perché, nel versetto 60 del Vivekacudamani, Sri AdiSankara ha avvertito tutti i seri aspiranti spirituali di evitarel'eccessiva studio delle Scritture o śāstras, che ha descrittocome una 'grande foresta di insidie illusorie di parolerumorose' (śabda jālaṁ mahāraṇyaṁ) e 'causa di instabilità,smarrimento e confusione mentale' (cittabhramaṇa kāraṇam),e ci ha consigliato che, con la guida di un saggio che conosce laverità, dovremmo invece cercare di indagare e conoscere laverità del nostro sé attraverso l'esperienza diretta.

Per noi, per raggiungere direttamente l'esperienza non dualedel nostro vero sé, tutto ciò che è necessario può essere trovatoespresso in modo estremamente chiaro e in modo semplicenegli insegnamenti di Sri Ramana. Se leggiamo e capiamo i

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suoi insegnamenti, non ci sarà bisogno per noi di studiareeventuali altre scritture o sacre scritture, perché dai suoiinsegnamenti s'imparerà che la verità non risiede fuori di noinei libri, ma solo dentro di noi, nel nucleo più interno delnostro essere, e che l'unico mezzo per sperimentarla è divolgere la nostra attenzione all'interno per conoscere la realtàdella coscienza con cui conosciamo tutte le altre cose.

Sebbene Sri Ramana abbia scritto e parlato relativamentepoco, e per lo più solo in risposta ai quesiti a lui fatti o allerichieste a lui poste da altre persone, attraverso quellerelativamente poche parole che ha scritto e detto ci ha dato unaserie completa di insegnamenti spirituali; una serie diinsegnamenti spirituali che sono così chiari, semplici, profondie totalizzanti e che contengono il seme o il fondamento diun'intera filosofia e scienza di noi stessi e di ogni aspettoessenziale di tutta la nostra vita come individuo esistente inquesto mondo di dualità e molteplicità.

In questo libro tento di sviluppare questo seme e costruire suquesto fondamento presentando nella chiara luce dei suoiinsegnamenti spirituali un'analisi dettagliata di tutta la nostraesperienza: nei nostri tre stati normali di coscienza (di veglia,di sogno e di sonno profondo), della nostra esperienza delmondo che percepiamo intorno a noi, e delle nozioni ecredenze che abbiamo non solo di noi stessi e del mondo, maanche di Dio e di molti altri aspetti cruciali della nostra vitacome individuo di questo mondo, di sconcertante diversità ecomplessità.

Tuttavia, anche se inizialmente intendevo esplorare inquesto libro i suoi insegnamenti da una gamma ampia ecompleta di angoli diversi, quando ho cercato di coprire tutti idiversi aspetti dei suoi insegnamenti in modo sufficientementedettagliato e profondo, ho scoperto che quello che avevo scritto

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più quello che dovevo ancora scrivere era molto più di quantopoteva essere comodamente contenuto in un unico volume.

Quindi ho deciso di limitarmi in questo presente libro aun'esplorazione approfondita dei soli aspetti più essenziali deisuoi insegnamenti, e coprire gli aspetti più periferici in alcunisuccessivi libri. L'analisi dettagliata che presento in questolibro si compone di idee che ho appreso da tre fonti principali.In parte si compone di idee che ho appreso direttamente dagliscritti e dai detti registrati di Sri Ramana, in particolare dalrecord più completo e profondo dei suoi detti che il suopreminente discepolo Sri Muruganar ha conservate sotto formadi Versi Tamil in Guru Vācaka Kōvai.

In parte si compone d'idee che ho appreso personalmentedallo Sri Sadhu Om, che era uno dei discepoli più stretti di SriRamana (con questo termine non intendo chi è semplicementevissuto vicino a lui fisicamente, ma quelli che hanno seguitopiù da vicino e veramente i suoi insegnamenti), che era unesponente lucido ed estremamente profondo dei suoiinsegnamenti, nella cui stretta compagnia ho avuto la fortuna divivere per più di otto anni, e sotto la cui guida ho studiato GuruVācaka Kovai e tutti gli scritti originali di Sri Ramana indettaglio e grande profondità.

Tuttavia, per la maggior parte {questo libro} è derivato dallamia comprensione degli insegnamenti di Sri Ramana, unacomprensione che ho acquisito studiando i suoi insegnamentiprofondamente e nell'originale Tamil in cui scriveva e parlava,riflettendo su di loro per molti anni, e cercando di praticare latecnica empirica di auto-indagine che ha insegnato comel'unico mezzo con il quale possiamo sperimentare la veraconoscenza di sé.

Le idee che esprimo in questo libro sono una miscela d'ideeche ho imparato direttamente dagli scritti o dai detti registrati

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di Sri Ramana, idee che ho imparato attraverso il canale delleprofonde spiegazioni dei suoi insegnamenti che ho sentito daSri Sadhu Om, e idee che ho formato dalle mie riflessioni sullacomprensione dei suoi insegnamenti. Credo che la vera fonte ditutte queste idee sia stata solo Sri Ramana, senza la cuiispirazione e guida interiore non sarei stato in grado di capire isuoi insegnamenti con qualsiasi grado di chiarezza, e quindiscrivere questo libro.

Ciò che scrivo è basato solo sulla mia ripetuta śravaṇa emanana e la mia esperienza limitata di nididhyāsana, cioè, suciò che ho letto, sulle mie riflessioni personali, e sulla limitataesperienza che ho maturato nel tentativo di praticare lacontemplazione, il metodo empirico di auto indagine insegnatoda Sri Ramana. Credo che le sue parole derivano dalla suaesperienza diretta, perfetta e completa della vera conoscenzanon duale di cui parla.

Allo stesso modo, credo che le parole dei suoi principalidiscepoli, come lo Sri Muruganar e Sri Sadhu Om, sono basatesull'esperienza della vera conoscenza di sé che essi hannoraggiunta con la sua grazia e la sua guida interiore, che haattirato la loro attenzione verso l'interno e in tal modo dissoltola loro individualità separata nella non duale coscienza diessere, 'Io sono', che è la vera forma di Sri Ramana, e la veraed essenziale natura di tutto e di ognuno di noi.

Perciò io credo che le idee che esprimo in questo libro, chesono basate in gran parte su ciò che ho imparato e capito dalleparole di Sri Ramana e da questi due suoi discepoli, non sonopuramente ipotesi speculative, ma sono i fatti che sono stativerificati dalla loro esperienza trascendente, e dall'esperienzatrascendente di molti altri saggi.

Tuttavia, come ha sottolineato Sri Ramana stesso, lasemplice credenza di certe idee non è vera conoscenza, ma

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dobbiamo tutti avere le nostre convinzioni provvisorie, edobbiamo adoperarci per verificarle da noi stessi, cercando diraggiungere la vera empirica conoscenza della realtàfondamentale e assoluta attraverso la ricerca empirica, cioè,attraverso la pratica dell'auto-investigazione. Pertanto, l'unicoscopo di tutta la teoria discussa in questo libro è di guidare e diincoraggiare la nostra ricerca pratica per la diretta, immediata,non duale e assoluta esperienza della vera conoscenza del sé.

Quando ho iniziato a scrivere il materiale che è contenuto inquesto libro, non avevo idea di cosa in seguito avrei deciso discrivere. Ho a lungo avuto l'abitudine di scrivere le mieriflessioni private sugli insegnamenti di Sri Ramana, ma hosempre fatto così per il mio beneficio, perché credo che lascrittura mi aiuti a chiarire il mio pensiero e ad accendere nellamia mente nuove idee e nuovi punti di vista e modi di intenderegli insegnamenti.

Nella mia esperienza, meditare sui suoi insegnamenti, edesprimere le mie riflessioni per iscritto, è stato un grande aiutoed incoraggiamento nel mio tentativo di praticare i suoiinsegnamenti nel mezzo della mia vita di ogni giorno. Tuttavia,l'ostacolo maggiore che per molti anni mi ha impedito didedicare abbastanza del mio tempo a questo prezioso eserciziodi scrivere le mie riflessioni è stato la necessità di lavorare perlunghe ore e spendere una grande quantità di energia mentalein un lavoro, dalle nove alle cinque, per il quale non sentivoalcuna affinità.

Sentivo che per il bene di guadagnarmi da vivere stavosprecando troppo della mia vita impegnato in attività che hannoassorbito la mia energia deviando la mia attenzione dal veroscopo della vita, che per ognuno di noi è quello di volgerel'attenzione verso l'interno per sapere chi siamo veramente.

Poiché credo di essere stato singolarmente fortunato ad aver

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avuto l'opportunità di studiare gli insegnamenti di Sri Ramanain grande profondità, sotto la stretta e chiara guida di Sri SadhuOm, la cui unica chiarezza di comprensione sorse sia dalla suadevozione sincera e concentrata a Sri Ramana e ai suoiinsegnamenti, sia dalla sua profonda spirituale esperienza,risultante da tale devozione.

Di recente ho cominciato a sentire che dovevo condividere imiei scritti con gli altri organizzandoli in un libro: alcunepersone potevano essere interessate a leggerlo e pochi potevanoforse essere beneficiati da questo. In particolare, ho sentito chei miei scritti potevano aiutare quelle persone che erano del tuttoignare degli insegnamenti di Sri Ramana e dello sfondofilosofico, spirituale, religioso e culturale entro i quali eranostati impostati. Non solo ho studiato gli insegnamenti di SriRamana nell'originale Tamil in cui egli li ha scritti, ma sonoanche in grado di ripensarli in inglese, che è la mia linguamadre, e a seguito di ciò sono in grado di capirli sia dal puntodi vista di un indù che di una mentalità non indù.

Con questi pensieri in mente, ho cominciato timidamente aimpostare tutto ciò che avevo scritto nella forma di un libro,pensando che almeno avrei potuto vedere quale forma avrebbepreso e quindi verificare se si sarebbe rivelato utile o no aqualsiasi lettore sinceramente interessato.

Nel fare questo, ho scoperto che avevo bisogno di scriveremolte più idee per formare un'esposizione coerente e globaledei suoi insegnamenti, e mi sono piacevolmente sorpreso ditrovare una ricchezza di fresche idee scaturite dalla mia mentee trovarne l'espressione nei miei scritti. Tuttavia, ho continuatoa sentirmi diffidente circa l'idea di pubblicare le mie riflessioniprivate sugli insegnamenti di Sri Ramana, e mi sono sentitocosì per due ragioni principali.

In primo luogo e soprattutto, non volevo cadere vittima

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dell'illusione sottile e potente dell'orgoglio e dell'egoismo chesi sarebbero potuti generare se i miei scritti fossero statiapprezzati da molte persone. E in secondo luogo, poiché gliinsegnamenti spirituali di Sri Ramana sono l'amore della miavita, che io venero come l'oggetto più degno di meditazione, diadorazione e di lavoro interno, io non sono del tutto a mio agiocirca l'idea di utilizzare il mio amore come un mezzo perguadagnarmi da vivere. Comunque ho gradualmente superarequeste due riserve.

Ho superato il primo decidendo che l'orgoglio e l'egoismosono sfide che tutti noi dobbiamo affrontare se vogliamoseguire il sentiero spirituale, e che possiamo conquistarli nonsolo evitando circostanze esterne che potrebbero rafforzarli, maanche affrontandoli con un onesto riconoscimento delle nostredebolezze e imperfezioni, e un conseguente senso di completadipendenza dalla potenza protettrice della grazia divina. Hosuperare il secondo conciliando la mia mente al fatto che,poiché devo guadagnarmi da vivere in qualche modo, possoanche provare a farlo scrivendo sul tema che amo, giacchéquesto mi aiuterà a tenere la mente immersa negli insegnamentidi Sri Ramana, piuttosto che immergermi in qualsiasioccupazione più mondana. Pertanto, dopo molte esitazioni, hofinalmente deciso di fare il grande passo e pubblicare questoprimo volume.

Quando ho cominciato a organizzare i miei scritti come unlibro, ho pensato di dividerlo in due parti di un unico volume.Secondo lo schema iniziale che avevo in mente, la prima partesarebbe stata chiamata 'L'essenziale' e avrebbe in gran parteriguardato noi stessi, sia il nostro vero sé sia il nostro falso sé,mentre la seconda parte sarebbe stata chiamata 'Le cosesecondarie' e avrebbe in gran parte riguardato le cose cheimmaginiamo essere diverse da noi stessi, come il mondo e

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Dio. Sviluppata questa idea, il mio proposito di massima, èvenuto a consistere di questa introduzione, dieci capitoli dellaprima parte, diciotto capitoli della seconda parte, eun'appendice. Tuttavia, poiché avevo scritto quasiduecentomila parole, ma non avevo ancora terminato discrivere nemmeno la metà di quello che mi aspettavo discrivere, ho capito che sarebbe stato troppo per inserirlo in ununico volume.

Ho deciso, quindi, d'includere questa introduzione e laprima parte programmata nel presente libro, 'La felicità e l'artedi essere', e la seconda parte programmata in un altro libro, cheho provvisoriamente intitolato 'La verità della diversità', erealizzare l'appendice proposta in un terzo libro intitolato 'Yogae l'arte di essere'. Quando ho deciso di dividere il libro,parzialmente scritto, in questi tre volumi, avevo già scrittomolte porzioni di ognuno di questi volumi, ma nessuna eracompleta.

Anche se il materiale scritto per questo libro era arrivato aquasi centomila parole, la maggior parte dei capitoli eranoancora incompleti e alcuni non erano nemmeno stati avviati.Pertanto, poiché questo libro era logicamente il primo volumedella serie dei libri parzialmente sviluppati, e dal momento cheavrebbe formato il fondamento per i volumi successivi, hodeciso che avrei dovuto cercare di completarlo per primo.

Per completare i prossimi due volumi, ho ancora molto dascrivere, e prima di aver finito potrà essere necessario per medividere ulteriormente questi altri in più volumi. Poiché questolibro è stato formato da un insieme di materiale scritto in tempidiversi, alcuni capitoli contengono una certa quantità dimateriale che non è direttamente pertinente al titolo di quelcapitolo, ma è comunque connesso ad altro materialenell'ambito di quel capitolo.

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Per lo stesso motivo, entro certi capitoli il flusso globaled'idee non è del tutto sequenziale e talvolta sembra aver fattoqualche passo indietro. Anche se mi son preso la briga dimodificare molto materiale per un più facile scorrimento eduna più logica e coerente struttura, in molti posti ho deciso dinon sacrificare delle preziose idee solo per il gusto di un flussoche scorre perfettamente.

Sono consapevole, dunque, che alcune delle idee di questolibro sono presentate in un modo un po' sconnesso, ma credoche il valore complessivo di tali idee giustifichi la loroinclusione. Inoltre, certe idee di questo libro sono ripetute indiversi contesti. Ho permesso che tali ripetizioni si verifichinoperché ogni volta che una particolare idea è ripetuta, èesaminata da un angolo nuovo, e dunque la sua ripetizione ciaiuta a comprenderla più profondamente e in una più ampiaprospettiva. Inoltre, ribadendo una particolare idea in un nuovocontesto, non siamo solo in grado di esaminarla da un angolonuovo, ma anche in grado di usarla per chiarire qualsiasiargomento in discussione.

In un libro come questo, la ripetizione di alcune idee centraliè inevitabile. Anche se il materiale di questo libro e deisuccessivi volumi copre una vasta gamma di argomenti, tuttiquesti soggetti sono in un modo o in un altro relativi al temacentrale, che è la nostra ricerca della vera e assoluta felicità;una felicità che può essere vissuta solo nello stato di essere,privi di azione, liberi dal pensiero e quindi perfettamentetranquilli, che è lo stato di vera conoscenza di sé, lo stato in cuirimaniamo solo come nostro vero Io, non conoscendo null'altroche il nostro essere essenziale. Poiché noi esaminiamo tuttiquesti soggetti dal punto di vista della nostra ricerca della veraauto-conoscenza, alcuni temi centrali sono necessariamenteripetuti in questo libro, e saranno anche ripetuti nei volumi

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successivi.Di tutti i temi centrali che ricorrono in questo libro, il più

centrale è la nostra coscienza fondamentale, essenziale e nonduale del nostro essere, la nostra semplice autocoscienza{coscienza di sé} 'Io sono', che non è solo il nostro vero sé, maè anche la sola e unica realtà assoluta, l'origine e la sostanza ditutte le cose, e la dimora perfetta, eterna dell'infinita felicità.

Quest'autocoscienza 'Io sono' è l'unica cosa chesperimentiamo in modo permanente, ed è il centro e ilfondamento di tutta la nostra conoscenza ed esperienza. Cometale, deve essere la preoccupazione principale di ogni seriaindagine filosofica o scientifica.

A meno che non conosciamo la vera natura di questafondamentale coscienza, senza la quale non sapremmo nientealtro, la verità di qualsiasi conoscenza che possiamo avere diqualsiasi altra cosa è dubbia e aperta a domande. Tutti gli altritemi ricorrenti in questo libro sono strettamente legati a questotema centrale, la nostra fondamentale autocoscienza 'Io sono', epiù frequentemente questa si ripete, più sarà importante per lanostra ricerca della vera auto-conoscenza.

La sua ripetizione serve uno scopo importante, perchépermette a noi di esplorare le basi di questa filosofia e scienzadell'auto-conoscenza {conoscenza del sé} da diverseprospettive, e quindi di sviluppare una comprensione piùapprofondita e completa. Più approfondita e completa la nostracomprensione cresce, più solida diventerà la nostraconvinzione che possiamo sperimentare la felicità infinita solose conosciamo la vera natura del nostro sé, e che la piùimportante ed essenziale cosa nella nostra vita è di cercare eraggiungere la vera conoscenza di sé.

Più solida questa convinzione diventa, più fortementesaremo motivati a ritirare la nostra attenzione da tutte le altre

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Introduzione

cose, e fissarla interamente ed esclusivamente nel nucleo delnostro essere, nella nostra autocoscienza essenziale, 'Io sono'.Anche se la filosofia presentata in questo libro si basa in granparte sulla testimonianza di Sri Ramana e di altri saggi, nonpossiamo raggiungere la vera conoscenza solo comprendendoquesta filosofia intellettualmente.

Il motivo per cui i saggi hanno espresso la loro esperienzadella realtà assoluta in parole è solo per spingerci e guidarci araggiungere la loro stessa esperienza. Pertanto la filosofia quipresentata non è fine a se stessa, ma è solo un mezzo per unfine molto più importante: l'esperienza della vera conoscenza disé. Questa filosofia è non solo una filosofia teorica ma ancheuna scienza pratica, e quindi l'unico scopo di tutta la teoria è dimotivarci e guidarci nella pratica: il metodo empirico dell'auto-indagine e la conseguente auto-resa di sé.

Quando cominciamo a studiare una scienza, che si tratti diuna delle tante scienze interessate a conoscere qualche aspettodel mondo oggettivo, o di questa scienza della conoscenza disé, che non è interessata a conoscere qualsiasi oggetto, ma soloconoscere la coscienza tramite cui tutti gli oggetti sono noti, ènecessario per noi avere fiducia nell'esperienza e nellatestimonianza di coloro che hanno già acquisito unaconoscenza pratica di questa scienza.

Quando studiamo la fisica, per esempio, dobbiamoinizialmente accettare molte delle sue scoperte avanzate, comela teoria della relatività, sulla fiducia. Solo più tardi, quandodiventiamo personalmente coinvolti nella fisica sperimentale,saremo in grado di verificare la verità di queste teorie da noistessi. Se fin dall'inizio dovessimo rifiutare di credere qualsiasidelle verità scoperte dai fisici fino a quando non avessimo noistessi testato e verificato ognuna di loro, avremmo inutilmenteostacolato la nostra velocità di apprendimento, e non avremmo

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mai avuto il tempo di acquisire le conoscenze necessarie perimpegnarci nella fisica sperimentale avanzata.

Ogni apprendimento richiede una mente acuta, curiosa einquisitiva; ma proprio come un onesto dubbio gioca un ruoloimportante nel processo di apprendimento, così lo fa anche unaprovvisoria fiducia. La conoscenza è acquisita piùefficientemente ed efficacemente da un uso intelligente dientrambi: dubbi e fiducia. Uno studente discriminante sa cosadeve essere messo in dubbio, e ciò che deve essereprovvisoriamente creduto.

Più che in ogni altra scienza, in questa scienza dellaconoscenza di sé il dubbio è essenziale, perché per conoscere laverità che sottende tutte le apparenze, dobbiamo dubitare dellarealtà di ogni cosa; non solo la realtà degli oggetti conosciutidalla nostra mente, ma la realtà della nostra stessa mente.Tuttavia, sebbene il dubbio svolga un ruolo fondamentale nelprocesso di acquisizione della conoscenza di sé, la fiducia nellatestimonianza di saggi, che hanno già raggiunto l'esperienzadella vera conoscenza di sé, è tuttavia estremamente utile.

Giacché la testimonianza dei saggi ci sfida a mettere indiscussione e in dubbio tutte le convinzioni che abbiamoaccarezzato per tanto tempo su ciò che siamo e sulla realtàdella nostra vita in questo mondo, si può inizialmente averedifficoltà a fidarsi delle loro parole. Ecco perché, invece dichiederci di credere in qualsiasi cosa che non conosciamo già,Sri Ramana basa i suoi insegnamenti su un'analisi della nostraesperienza quotidiana.

Quando noi analizziamo criticamente la nostra esperienzadei tre stati di coscienza che subiamo ogni giorno, nonpossiamo ragionevolmente evitare di mettere in dubbio lamaggior parte di quello che normalmente diamo per scontato disapere che siamo e la realtà di tutto ciò che sperimentiamo in

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Introduzione

questi stati. Al fine di acquisire conoscenze che non possiamoragionevolmente mettere in dubbio, dobbiamo in primo luogoseparare noi stessi da tutte le conoscenze confuse ed incerte cheora abbiamo su noi stessi.

Tale sbrogliamento può essere raggiunto solo spostandol'attenzione lontano da tutti gli oggetti della conoscenza e versonoi stessi, la coscienza da cui tutto è noto. Questo processo disbrogliamento è il viaggio di auto-scoperta che tutti i saggi cispingono a intraprendere. Come spiegato in precedenza, questolibro presenta un'analisi filosofica della nostra esperienzaquotidiana di noi stessi, e lo scopo di quest'analisi è solo dipermetterci di ottenere una chiara comprensione teorica di cosasiamo veramente, e quindi di conoscere i modi concreti con cuisiamo in grado di raggiungere direttamente l'esperienza dellanostra vera natura.

Anche se in questo cammino della scoperta di sé saremoguidati dalle rivelazioni di Sri Ramana e di altri saggi, dovremocomunque basarci principalmente sulla nostra esperienzapersonale del nostro essere o coscienza, e quindi per quantopossibile evitare di dover contare sulla fede in ciò che noi stessiin realtà non sappiamo. Se iniziamo questo lungo viaggiodipendendo sempre dalla nostra esperienza su noi stessi comenostra guida, saremo in grado di verificare da noi stessi laverità di tutto ciò che è stato rivelato attraverso le parole deisaggi, che hanno intrapreso questo viaggio prima di noi.

Tuttavia, mentre stiamo procedendo in questo viaggio discoperta di sé, e prima di completarlo, saremo in grado discoprire che la nostra analisi razionale della nostra esperienzagià esistente e del nostro essere e della nostra coscienza,insieme con la nostra esperienza di praticare l'arte di essereconsapevole di sé, ispirerà nella nostra mente una fiduciasempre maggiore nelle parole dei saggi.

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Tale fiducia non deve essere scambiata per una semplice'credenza cieca', perché è una fiducia nata non dalla cecitàintellettuale, ma da una chiarezza interiore profonda dellamente, acquisita dimorando ripetutamente nella vera luce dellacoscienza di sé, che brilla sempre nel nucleo del nostro essere,come nucleo del nostro essere, ma che fino ad ora abbiamosempre ignorato a causa della nostra infatuazione del mondoesterno delle percezioni sensoriali.

Anche se è possibile per noi rivolgere la nostra attenzionelontano dal mondo esterno, verso la nostra coscienza essenziale'Io sono' al fine di scoprire la nostra vera natura, anche senzariporre la nostra fiducia nelle parole di chiunque, in pratica,mentre proseguiamo il viaggio di auto-confrontarci con tuttociò che si scopre, e mentre affrontiamo tutti gli ostacoli cheinevitabilmente sorgono sulla strada, possiamo ricavare moltobeneficio dal fidarci e imparare dalla testimonianza di coloroche hanno iniziato e completato questo viaggio prima di noi.

Pertanto, nel prossimo seguito di questo libro, mentreindagheremo su alcuni soggetti secondari che, anche se nonindispensabili, sono tuttavia strettamente legati al viaggio diauto-scoperta, ci si imbatterà in alcune spiegazioni che sonostate date da Sri Ramana e da altri saggi che hanno completatoquel viaggio, ma che non possiamo verificare con la nostraesperienza fino a quando non completeremo il viaggio escopriremo da noi stessi la verità che loro hanno sperimentato.

Ognuno di noi è libero di decidere per se stesso se vuoleavere fiducia in tali spiegazioni. Tuttavia, anche se potremmonon essere in grado di verificare la veridicità di tali spiegazionifinché non raggiungiamo l'esperienza della vera conoscenza disé, possiamo almeno capire che sono tutte implicazioni logiche,o almeno implicazioni ragionevolmente possibili, delleconclusioni e delle verità alle quali si arriva dalle analisi e

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Introduzione

deduzioni del presente libro.Quindi se siamo stati convinti dalle conclusioni che

deduciamo da questo libro dalla nostra critica analisi dellanostra esperienza quotidiana dei nostri tre stati di coscienza:veglia, sogno e sonno profondo; non dovrebbe essere troppodifficile per noi confidare almeno provvisoriamente nellamaggior parte delle spiegazioni che sono fornite nel seguito diquesto libro.

Se non ci fidiamo, almeno accettiamole come ipotesiprovvisorie che devono essere verificate per mezzo dell'auto-indagine, troveremo che sono utili nei nostri tentativi di volgerela nostra attenzione dal mondo esterno verso la nostrafondamentale autocoscienza 'Io sono', al solo fine di rimanerecome questa coscienza fondamentale del nostro essere.

Tuttavia, anche se non siamo disposti a fidarci di null'altroche non sappiamo già per certo, possiamo ancora proseguirequesto cammino di scoperta di sé, portando tutti i nostri dubbialla loro logica conclusione, di dubitare della realtà della nostradubbiosa mente, e quindi rivolgere la nostra attenzione verso laconsapevolezza che la sottende per conoscere l'ultima fonte dacui è sorta con tutti i suoi dubbi.

Lo scopo di questo libro e dei libri successivi non è quello diconvincere nessuno ad aver fede in qualsiasi cosa, ma è soloper spingere tutti quelli che hanno una vera mente indagatrice amettere in discussione criticamente la nostra visione abituale dinoi stessi, del mondo e di Dio, e incoraggiarci a intraprendere ilviaggio alla scoperta di sé indagando la nostra coscienza 'Iosono', che è il centro e la base fondamentale di tutta la nostraesperienza e conoscenza.

È ora di intraprendere questo viaggio di scoperta del sé, everificare da noi stessi la verità rivelata nelle parole di SriRamana e di altri saggi.

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Capitolo 6

Vera Conoscenza e Falsa Conoscenza

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, la veraconoscenza non è uno stato che possiamo di nuovo raggiungere,perché esiste sempre come la nostra essenziale e fondamentalecoscienza, 'Io sono', che non abbiamo mai nemmeno per unistante cessato di conoscere. Ciò che ci impedisce di viverla comeè veramente, è solo la falsa conoscenza che abbiamo sovrappostosu di essa. Che cosa intendiamo quando parliamo di 'falsaconoscenza' o 'conoscenza sbagliata'?

Tranne la nostra conoscenza di base 'Io sono', tutto quello chesappiamo è solo un pensiero che sorge nella nostra mente, unaforma di conoscenza che è intrinsecamente dualistica, che implicatre elementi apparentemente distinti, noi stessi come il soggettoconoscente, qualcosa di diverso da noi stessi come l'oggettoconosciuto, e ciò che collega questi due con un atto separato diconoscere.

Cioè, quando ci sentiamo come 'io conosco così e così', questaconoscenza comporta una coscienza conoscente o soggettochiamato 'io', una cosa da conoscere o oggetto chiamato 'così ecosì', e un'azione o processo di fare chiamato 'conoscenza'. Questitre componenti costituiscono la triade di base di cui ogni forma diconoscenza oggettiva è composta. In questa triade di base dellaconoscenza oggettiva, il verbo 'conoscere' può essere sostituito daun altro verbo, come 'percepire', 'vedere', 'sentire', 'gustare', 'fareesperienza', 'pensare', 'sentire', 'credere' o 'capire', ma ancoraquesta triade rimane come la struttura di base di ogni forma diconoscenza o esperienza al di fuori della nostra conoscenzaessenziale e fondamentale, che è la nostra conoscenza del nostroessere, 'Io sono'.

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Dato che la nostra conoscenza fondamentale 'Io sono' non èduale, non comporta alcuna distinzione tra la coscienza checonosce e se stessa che conosce ciò, né implica alcun separato attodel conoscere, perché la coscienza conosce se stessa naturalmentesemplicemente essendo se stessa, e non facendo nulla. Perchédiciamo che tutta la conoscenza che coinvolge questa triade è unafalsa o sbagliata conoscenza? In primo luogo, diciamo così perchéogni componente di questa triade è un pensiero che formiamonella nostra mente col nostro potere dell'immaginazione.

Senza il nostro potere dell'immaginazione, il nostro potere diformare pensieri, non avremmo potuto sperimentare alcunaconoscenza diversa da 'Io sono'. Così ogni conoscenza diversa da'Io sono' è essenzialmente immaginaria.

Anche l'idea che la nostra conoscenza del mondo esterno èformato nella nostra mente, non solo dalla potenza della nostrafantasia, ma anche in risposta a effettivi stimoli esterni, è unpensiero che formiamo nella nostra mente col nostro potere diimmaginazione.

Nessuna ragione o prova esiste che possa giustificare la nostraconvinzione che qualsiasi nostra conoscenza corrispondaeffettivamente a qualcosa al di fuori dalla nostra mente. Tuttoquello che conosciamo, e tutto quello che possiamo mai sapere, èconosciuto solo all'interno della nostra mente. Anche il mondoapparentemente esterno, che conosciamo attraverso i nostri cinquesensi, esiste per noi solo nella nostra mente, proprio come ilmondo che conosciamo in un sogno esiste solo all'interno dellanostra mente. In secondo luogo, diciamo così perché ciascunelemento di questa triade è un'apparizione transitoria.

Anche se il soggetto conoscente, 'io', è relativamente costante,in contrasto agli oggetti da lui conosciuti e dalle sue azioni perconoscerli, che sono pensieri in costante evoluzione, sorgendo epoi scomparendo nella nostra mente, ognuno dei quali è sostituitoil momento successivo da un altro pensiero; anche questo 'io', ilsoggetto che conosce questo continuo flusso di pensieri che

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cambiano, è transitorio, compare solo nella veglia e nel sogno, escompare nel sonno profondo.

Questo soggetto che pensa e conosce tutti gli altri pensieri è lanostra mente, la nostra coscienza limitata legata all'aggiunto chedi per sé non si conosce semplicemente come 'Io sono' ma come'io sono questo corpo'. Poiché questo soggetto, tutti gli oggetticonosciuti da questo, e tutte le sue successive ripetute azioni diconoscere tali oggetti, sono apparizioni meramente transitorie,esse non possono essere reali, perché anche se sembrano esserereali in un certo momento, smettono di comparire come reali in unaltro momento.

La loro apparente realtà è dunque solo una falsa apparenza,un'apparizione illusoria formata nella nostra mente dal nostropotere d'immaginazione. Anche se tutta la nostra conoscenzadiversa da 'Io sono' è quindi un'immaginaria falsa apparizione,come fa ad apparire a noi come reale? Qualunque cosaconosciamo appare a noi essere reale mentre la stiamoconoscendo.

Anche il mondo che sperimentiamo in sogno, e il corpo che poiprendiamo come 'io', ci appaiono come reali fintanto che stiamovivendo quel sogno. C'è quindi qualcosa che fa sembrare comereali tutte le nostre conoscenze attuali. Che cosa è quel qualcosa?Ogni conoscenza, abbiamo visto, è costituita da tre componenti, laprima e basilare è il soggetto conoscente, 'io'.

Questo soggetto è una coscienza composta formata dallasovrapposizione di un'aggiunta immaginaria, 'questo corpo', sullavera coscienza 'Io sono'. Così sottostante ogni conoscenza è lavera conoscenza 'Io sono', ed è questa la vera conoscenza ocoscienza che dà una realtà apparente a ogni conoscenza di cuiabbiamo esperienza. Quanto è esatta la realtà della nostraconoscenza di base 'Io sono', apparentemente trasferita a tutte lealtre conoscenze che normalmente noi sovrapponiamo a essa,anche se l'altra conoscenza è falsa? Ogni altra conoscenza èconosciuta solo dalla nostra mente, che è il soggetto conoscente, e

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che viene in esistenza solo immaginandosi di essere un corpo.Prima d'immaginare e conoscere ogni altra cosa, la nostra

mente immagina prima un corpo come se stessa. Cioè, confondeun corpo, che è un prodotto della sua fantasia, con 'Io sono', che èla sua vera conoscenza di base. Poiché 'Io sono' è reale, e giacchéla nostra mente erra pensando che il corpo immaginario sia 'Iosono', non può non sentire che il corpo sia reale. Sia che il corpo,che ora immagina come se stessa, sembri essere questo corpodello stato di veglia, o qualche altro corpo nel sogno, la nostramente sente sempre che il suo corpo del momento è reale.

Poiché il corpo attuale è uno tra i tanti oggetti del mondo chesta ora sperimentando, la nostra mente non può che sentire comereali tutti gli altri oggetti che sta attualmente vivendo, quanto ilcorpo che ora confonde come se stessa. In altre parole, poiché ciinganniamo ritenendo taluni prodotti attuali della nostraimmaginazione essere noi stessi e quindi reali, non possiamoevitare di confondere tutti gli altri prodotti attuali della nostraimmaginazione come ugualmente reali.

Tuttavia, anche se solo la nostra conoscenza o coscienza dibase 'Io sono' è reale, e anche se tutte le altre cose che sembranoessere reali prendono in prestito la loro apparente realtà solo daquesta consapevolezza, che è la loro base sottostante e supporto,siamo così abituati a trascurare questa coscienza e a dareattenzione solo agli oggetti o pensieri che formiamo nella nostramente col nostro potere d'immaginazione, che tali oggetti e ilnostro atto di conoscerli appaiono, nella prospettiva distorta dellanostra mente, essere più reali della fondamentale coscienza che lisottende.

L'unico motivo per cui subiamo questa prospettiva distorta èche siamo così affascinati dalla nostra esperienza di dualità oalterità, credendo che possiamo ottenere la vera felicità solo dacose diverse da noi stessi {la vera realtà}, che durante i nostri statidi attività mentale, che chiamiamo veglia e sogno, passiamo tuttoil nostro tempo facendo attenzione solo alle altre cose {diverse

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Vera Conoscenza e Falsa Conoscenza

dalla vera realtà}, e noi di conseguenza ignoriamo o trascuriamola nostra coscienza di fondo 'Io sono'.

Questa prospettiva distorta della nostra mente è ciò che rendecosì difficile accettare che la nostra coscienza 'Io sono' è l'unicacosa reale, e che tutto il resto è solo una fantasia o un'apparizione.Mentre nella nostra prospettiva distorta tutta la nostra conoscenzadi questo mondo, sembra essere solida, consistente, evidente einconfutabile, la nostra coscienza di fondo 'Io sono' appare inconfronto qualcosa d'inconsistente ed etereo, qualcosa che nonpossiamo conoscere con lo stesso grado di precisione e dicertezza.

Un chiaro esempio degli effetti che questa prospettiva distortaha sul nostro intelletto umano è la famosa osservazione fatta daCartesio, 'cogito ergo sum', che significa 'io penso, dunque sono'.Quello che ha implicato con questa conclusione è che poichépensiamo, sappiamo che siamo {esistiamo}.

Questo è mettere il carro davanti ai buoi. Non abbiamo bisognodi pensare per sapere che siamo. In primo luogo sappiamo che 'Iosono', e solo dopo c'è possibile pensare, o conoscere che 'Stopensando'. Più opportunamente, quindi, il suo motto dovrebbeessere invertito come, 'Io sono, quindi penso', o meglio ancoracome, 'Io sono, quindi mi sembra di pensare'. Anche quando nonpensiamo, come nel sonno profondo, sappiamo che 'Io sono'. Ilnostro pensiero dipende dalla conoscenza del nostro essere, lanostra coscienza fondamentale 'Io sono', ma la conoscenza delnostro essere non dipende dal nostro pensare.

Tuttavia, ciò che Cartesio ha osservato non è del tutto falso.Qualunque cosa sappiamo e tutto ciò che pensiamo,effettivamente, dimostra che noi esistiamo. Tutte le nostreconoscenze e tutti i nostri pensieri sono inconfutabilmente unachiara prova della nostra esistenza o di essere. Tuttavia, per sapereche esistiamo, non abbiamo bisogno di alcuna di tali prove esterne{del nostro se reale}, perché la nostra esistenza o essere, 'Io sono',è auto-evidente.

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Anche in assenza di qualsiasi altra conoscenza o pensiero,sappiamo che siamo. Nel sonno {senza sogni}, per esempio, nonpensiamo o conosciamo qualsiasi altra cosa, ma facciamoesperienza di quello stato, e ricordiamo ora la nostra esperienza diesso, in questo stato di veglia, dicendo: “Ho dormito”.Sperimentiamo lo stato di sonno, libero da pensieri, perché inquesto stato effettivamente esistiamo e anche sappiamo che siamoesistenti. Pertanto la nostra esistenza e la nostra conoscenza cheesistiamo, non hanno bisogno di alcuna prova, o almeno delleprove fornite dal nostro modo di pensare e conoscere altre cose.La nostra esistenza o essere è evidente, perché è consapevole di sestessa.

Cioè, il nostro essere è cosciente di se stesso, e quindi nonnecessita dell'aiuto di altro per conoscere se stesso. In altre parole,siamo esseri consapevoli di noi stessi, e quindi senza l'ausilio diqualsiasi altra cosa conosciamo noi stessi come 'Io sono'semplicemente essendo noi stessi. Perciò la nostra basilarecoscienza di sé 'Io sono' non dipende da alcun'altra conoscenza,ma tutte le nostre altre conoscenze dipendono dalla nostra basilarecoscienza di sé 'Io sono'.

Quindi la nostra basilare coscienza di sé 'Io sono' è la nostraunica conoscenza fondamentale ed essenziale. Al fine di pensare,dobbiamo essere, ma per essere, non abbiamo bisogno di pensare.E poiché il nostro essere non è separato o non è altro che la nostraconoscenza del nostro essere, possiamo ugualmente ben dire cheper pensare, dobbiamo conoscere di essere, ma per sapere ciò chesiamo, non abbiamo bisogno di pensare. Poiché noi sappiamosempre che 'Io sono', anche quando lo conosciamo miscelato conaltre conoscenze o pensieri, perché dovremmo dire che tali altreconoscenze oscurano la nostra conoscenza di 'Io sono',impedendoci di conoscere come realmente siamo?

La natura vera ed essenziale della nostra coscienza 'Io sono' èsemplice essere, perché è in grado di essere senza conoscerequalsiasi altra cosa, come sperimentiamo ogni giorno in un sonno

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profondo. Essendo semplicemente se stessa, essa conosce sestessa, perché il suo essere è in sé la coscienza del suo essere. Cosìè una conoscenza perfettamente non duale, una conoscenza in cuiciò che è conosciuto è quello stesso che la conosce, unaconoscenza che non coinvolge nessuna azione, una conoscenzache non coinvolge nulla se non il semplice essere.

D'altra parte, ogni altra conoscenza implica non solo essere, maanche un atto di conoscere, in aggiunta a una distinzione traconoscitore e conosciuto. Quest'atto immaginario di conoscere sisovrappone alla realtà del nostro puro essere, facendoci apparireche la natura della nostra coscienza 'Io sono' non è solo di essere,ma è anche conoscere le cose diverse da sé.

Così, con l'apparizione transitoria di ogni altra conoscenza, lavera e permanente natura della nostra vera conoscenza o coscienza'Io sono', che è semplice essere, è oscurata. Invece di conosceresemplicemente 'Io sono', sappiamo che 'io sto conoscendo questo'o 'io sto conoscendo quello'. Poiché ogni conoscenza diversa da'Io sono' è immaginaria e quindi irreale, la conoscenza 'stoconoscendo questo' è solo una conoscenza falsa o sbagliata, unaconoscenza in cui un'immaginaria aggiunta è stata sovrappostaalla nostra unica vera conoscenza di base, 'Io sono', oscurandolacosì e facendola apparire diversa da quello che realmente è.

Per conoscere il nostro vero sé come realmente è, è quindisufficiente per noi semplicemente cessare di conoscere altre cose?Se ci limitiamo a smettere di interessarci a qualsiasi altra cosaraggiungiamo così automaticamente la vera conoscenza del nostrovero sé, 'Io sono'? No, non l'otteniamo, perché nel sonno profondocessiamo di essere attenti o di conoscere qualsiasi cosa diversa danoi stessi, ma anche allora non abbiamo una conoscenza chiara diciò che siamo veramente. Se nel sonno profondo avessimoconosciuto il nostro sé veramente e chiaramente come realmenteè, nella veglia e nel sogno non avremmo potuto continuare aingannarci di essere qualcosa d'altro come un corpo fisico.

Anche se nel sonno profondo tutta la conoscenza di altre cose è

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rimossa, la nostra coscienza 'Io sono' è, tuttavia, ancora oscuratada un buio apparente o mancanza di chiarezza della conoscenza disé. Che cosa è quest'oscurità o mancanza di chiarezza chesperimentiamo nel sonno profondo, e che ci impedisce diconoscere chiaramente la vera natura di noi stessi, la nostra veracoscienza libera da aggiunte 'Io sono'?

Nell'advaita vēdānta, il nostro potere d'illusione o diautoinganno con cui impediamo apparentemente a noi stessi diconoscere la nostra vera natura, si chiama 'māyā'. La parola'māyā' etimologicamente significa 'cosa (ya) non è (ma)', ed èdefinita come il potere che fa apparire ciò che è non reale comereale, e ciò che è reale lo fa sembrare irreale. Questo potere dimāyā o di auto inganno funziona in due modi: come il potere divelare o oscurare chiamato āvaraṇa śakti, e come il potere dispargimento, dispersione, diffusione o dissipazione chiamatovikṣēpa śakti.

Il precedente, āvaraṇa śakti, che è il nostro potere di,'dimenticanza del se' o 'ignoranza di sé' o mancanza di chiarezzanella conoscenza di sé, è la radice e la forma primordiale di māyā,perché è la causa originale che sottende sempre quest'ultima,vikṣēpa śakti, che è il nostro potere d'immaginazione che cipermette di proiettare dall'interno di noi stessi il mondoapparentemente esterno della molteplicità.

Mentre vikṣēpa śakti funziona solo nella veglia e nel sogno, lasottostante āvaraṇa śakti funziona, non solo nella veglia e nelsogno, ma anche nel sonno profondo. Il nostro potere di 'oblio disé', che è il nostro potere di velo o di āvaraṇa śakti, può essereparagonato all'ambiente (sfondo) buio in un cinema, senza il qualenessuna immagine può essere proiettata sullo schermo.

Tutti i pensieri che formiamo nella nostra mente, compreso ilmondo apparentemente esterno che proiettiamo e percepiamoattraverso i nostri cinque sensi, sono come le immagini proiettatee viste sullo schermo del cinema. Il potere che proietta questaimmagine di pensieri e di un mondo apparentemente esterno è il

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nostro potere d'immaginazione, che è il nostro potere di diffusioneo vikṣēpa śakti.

Proprio come il proiettore del cinema non avrebbe potutoproiettare qualsiasi immagine se la sua indispensabile luce nonsplendesse chiaramente al suo interno, così la nostra mente nonavrebbe potuto proiettare l'immagine immaginaria di questo o diqualsiasi altro mondo se la sua indispensabile luce non brillassevivamente al suo interno. Questa luce indispensabile che brillavivamente nella nostra mente e che le consente di proiettarequesta immaginaria immagine di pensieri e oggetti è la nostracoscienza essenziale 'Io sono'.

Gli stati di veglia e sogno possono essere paragonati allo statoin cui una bobina di pellicola si sta srotolando nel proiettore,producendo un quadro in continua evoluzione sullo schermo,mentre il sonno profondo può essere paragonato allo stato in cui labobina di un film è finita e un altra sta per essere messa nelproiettore. Nel frattempo comunque la viva luce nel proiettorerisplende, così nell'intervallo tra la rimozione di una bobina e ilmontaggio della successiva, tutto ciò che si vede sullo schermo èsolo una luce.

Tuttavia, anche se in quel momento non possiamo vederenessuna immagine sullo schermo, ma solo una cornice di luce, losfondo buio del cinema rimane. Allo stesso modo nel sonnoprofondo, anche se non sperimentiamo uno qualsiasi degli effettidelle vikṣēpa śakti, ma solo la luce essenziale della coscienza, 'Iosono', la potenza velante o oblio del se o āvaraṇa śakti rimaneancora, impedendoci di conoscere la nostra coscienza 'Io sono'come è realmente, libera da eventuali aggiunte che dannoun'apparente mancanza di chiarezza. Il nostro potere di auto-illusione o maya non può mai del tutto nascondere il nostro verosé, perché il nostro vero sé è la coscienza che ci permette diconoscere gli effetti della nostra auto-illusione.

Tutto ciò che può fare la nostra auto-illusione o maya èoscurare il nostro vero sé, facendolo sembrare qualcosa di diverso

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da quello che è davvero. Conosciamo sempre 'Io sono', sia che lanostra mente funzioni, come nella veglia e nel sogno, o, in unatemporanea sospensione, come nel sonno, ma non lo conosciamocome realmente è. In tutti questi tre stati noi sappiamo che siamo,ma non sappiamo cosa siamo.

Nella veglia e nel sogno sappiamo 'io sono questo corpo, unapersona di nome così e così, e sono consapevole di questo mondointorno a me'. Nel sonno profondo, d'altra parte, conosciamo noistessi come apparentemente 'incoscienti'. Così nella veglia e nelsogno la nostra identificazione con un corpo fisico e la nostraconseguente percezione di un mondo intorno a noi si sovrapponealla nostra coscienza fondamentale 'Io sono'.

Allo stesso modo nel sonno la nostra identificazione conl''incoscienza' apparente di quello stato si sovrappone alla nostracoscienza fondamentale 'Io sono'. Cioè, in tutti e tre questi stati lavera natura del nostro sé reale, la nostra coscienza fondamentaleed essenziale 'Io sono', è oscurata dalla sovrapposizione diaggiunte illusorie. Come abbiamo visto in precedenza, il nostropresente cosiddetto stato di veglia non è essenzialmente diversodai molti stati di sogno che sperimentiamo durante il sonno.

Ad esclusione del nostro sonno della dimenticanza di sé,creiamo sia la veglia sia il sogno. Poiché creiamo entrambi questistati solo con la nostra forza dell'immaginazione, sono entrambisolo stati immaginari che non esistono nella realtà. Anche se, dalnostro punto di vista, in questo presente stato di veglia possiamoessere in grado di evidenziare alcune differenze tra la nostraesperienza di veglia e la nostra esperienza nei sogni, questedifferenze sono solo differenze superficiali nella qualità diciascuno di questi stati, e non differenze nella loro essenzialesostanza.

Poiché il nostro attaccamento al nostro corpo in questo stato diveglia è normalmente più forte del nostro attaccamento al nostrocorpo in un sogno, questo stato di veglia ci appare (almeno ora,mentre lo stiamo vivendo) più solido, fisso, costante e duraturo di

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un sogno ordinario. Tuttavia, anche se, dal nostro punto di vista inquesto stato di veglia, sembra che vi siano delle differenze tra laqualità della nostra esperienza in questo stato e la qualità dellanostra esperienza in sogno, non possiamo concludere che questostato di veglia sia in realtà più reale di un sogno.

Sia la veglia sia il sogno sono gli stati che sperimentiamo soloall'interno della nostra mente. Tutto ciò che sperimentiamo oconosciamo in uno di questi due stati è solo una serie di pensieriche abbiamo formato all'interno della nostra mente, col nostropotere di immaginazione. In entrambi questi stati noiimmaginiamo un corpo, che riteniamo erroneamente di essere noistessi, e in seguito immaginiamo che attraverso i cinque sensi delcorpo noi percepiamo un mondo esterno, che scambiamo per(essere) reale.

Tuttavia, questi corpi che erroneamente riteniamo essere 'io' equesti mondi che sbagliamo ritenendoli reali sono tuttisemplicemente immagini che formiamo e sperimentiamoall'interno della nostra mente. Finché riteniamo di essere questamente, questa consapevolezza che ha limitato se stessascambiando erroneamente un corpo immaginario con se stessa,non possiamo sapere nulla al di fuori dei limiti di questa mente. Inentrambi i nostri stati di veglia e di sogno, viviamo tutta la nostravita solo all'interno della nostra mente.

Poiché tutto ciò che sappiamo, al di fuori della nostra coscienzafondamentale 'Io sono', è conosciuto da noi solo all'interno dellanostra mente, non abbiamo alcun motivo valido per credere chequalsiasi mondo e qualsiasi altra cosa diversa da 'Io sono' esista inrealtà al di fuori dei confini della nostra mente. Di conseguenzanon abbiamo alcun motivo valido per ritenere che il nostro attualestato di veglia sia tutto fuorché un altro sogno realizzatointeramente dal nostro potere di autoinganno dell'immaginazione.

In quali circostanze, e in quali condizioni, può esseresperimentato un sogno? Un sogno può avvenire solo quando vi èun sonno sottostante. Quando siamo ben svegli e consapevoli del

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mondo intorno a noi, e di noi stessi come un particolare corpo inquel mondo, non possiamo errare ritenendo un altro corpo essere'io' o che un altro mondo sia reale. Solo dopo che ci siamoaddormentati, dimenticando il nostro normale sé di veglia (questocorpo immaginario che ora erroneamente consideriamo noi stessi)e il fatto che stiamo presumibilmente sdraiati nel nostro letto,possiamo confondere noi stessi con qualche altro corpoimmaginario che sta affrontando varie esperienze in un altromondo immaginario {di sogno}.

Quindi se il nostro attuale stato di veglia è solo un altro sogno,come abbiamo una buona ragione per supporre che sia, ci deveessere qualche sonno alla sua base. Che cosa è quel sonno chesottende questo stato di veglia, quel sonno senza il quale questostato di veglia non potrebbe accadere? La differenza tra la veglia eil sonno è che nella veglia immaginiamo noi stessi di essere uncorpo particolare, mentre nel sonno ci dimentichiamo di questoimmaginario corpo legato allo stato di veglia. Il sonno è quindiessenzialmente uno stato di auto-oblio.

Nel nostro ordinario sonno quotidiano ci dimentichiamo ilnostro normale sé della veglia, e poiché abbiamo dimenticatoquesto sé di veglia, questo corpo particolare che immaginiamo oradi essere noi stessi, siamo in grado di immaginare noi stessi diessere un altro corpo nel sogno. Anche se il nostro sé di vegliapresumibilmente giace addormentato su un letto inconsapevole delmondo che lo circonda, ci dimentichiamo di questo sé di veglia einvece creiamo un altro sé immaginario per noi stessi nello statodi sogno, identificando un altro corpo come 'io' e vedendo un altromondo che ci circonda.

Perciò, come il sonno che sta alla base di un sogno comune èuno stato di oblio del nostro se di veglia, così il sonno chesottende questo sogno che chiamiamo il nostro presente stato di'veglia' deve essere uno stato di dimenticanza del nostro vero sé.Tuttavia, che cosa effettivamente intendiamo quando definiamo ilsonno come uno stato di dimenticanza del sé? In che modo

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possiamo dimenticare noi stessi nel sonno?Anche nel sonno, non abbiamo mai dimenticato che 'noi

siamo', ma solo dimenticato 'quello che siamo'. Poiché nel sonnosappiamo che siamo, ma non quello che siamo, nel sogno siamo ingrado di illuderci di essere un altro corpo. Se non avessimodimenticato il nostro se di veglia nel sonno, non potremmoimmaginare un altro corpo essere noi stessi nel sogno.

Allo stesso modo, se non avessimo dimenticato la vera naturadel nostro vero sé, che esiste sempre come nostra coscienza liberada aggiunte 'Io sono', non saremmo in grado d'immaginare noistessi essere qualcosa di diverso da questo. Cioè, non saremmo ingrado d'immaginare di essere un certo corpo nello stato di veglia,di essere un altro corpo in sogno, e di essere 'inconsci' nel sonnoprofondo. Così il sonno fondamentale che sottende tutti i nostrisogni, compreso l'attuale sogno che ora riteniamo erroneamente diessere il nostro stato di veglia, è il nostro sonno di oblio di sé: ilsonno in cui abbiamo dimenticato il nostro vero sé, la vera naturadella nostra essenziale coscienza 'Io sono'.

Anche se nel nostro presente stato di veglia scambiamol'apparente 'incoscienza' che abbiamo sperimentato nel sonnoprofondo essere solo un'incoscienza del nostro corpo e del mondo,nel sonno non abbiamo effettivamente conosciuto o pensato 'iosono inconsapevole del mio corpo e del mondo'. Solo nella vegliae nel sogno pensiamo 'nel sonno ero incosciente del mio corpo edel mondo'. Ciò che pensa così è la nostra mente ma dato che lanostra mente non era presente nel sonno profondo, non può dirciesattamente ciò che sia stata in realtà la nostra esperienza nelsonno profondo. Tutto ciò che possiamo ora dire del sonno è che,se sapevamo 'Io sono' in quello stato, tuttavia ci sembra ora essereuno stato di oscurità apparente, ignoranza o mancanza dichiarezza.

Quella mancanza apparente di chiarezza è l'incoscienza che cisembra di aver vissuto nel sonno. Ma in realtà che cosa èl'apparente mancanza di chiarezza? Cos'è ciò che sembra abbia

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mancato di chiarezza nel sonno? Poiché nessun corpo o mondoesisteva nel sonno, dire che eravamo inconsci di loro è fuorviante.Dire che nel sonno eravamo inconsci del nostro corpo e di questomondo è come dire che nel nostro attuale stato di veglia siamoinconsci del corpo e del mondo che sembrava esistere in un sogno.

Qualsiasi corpo o mondo che viviamo, sia nella veglia o nelsogno, è solo una fantasia, una raccolta di pensieri o immaginimentali che appare solo nella nostra mente; dire che eravamoinconsci di loro nel sonno è in effetti dire che eravamo inconscidei nostri pensieri nel sonno. Potremmo dire che siamo inconscidei nostri pensieri nel sonno solo se in realtà non avevamo alcunpensiero in quello stato. Quando diciamo che siamo inconsci diqualcosa, ciò implica che quella cosa esista realmente, o almenosembri esistere.

Poiché nel sonno profondo sperimentiamo solo il nostroessenziale essere cosciente di se, 'Io sono', non abbiamo ragione dicredere in nulla di diverso da quello che in realtà esisteva inquello stato. Pertanto, la chiarezza di conoscenza che ci sembra diaver perso nel sonno può essere solo una chiarezza riguardo a ciòche realmente esisteva in quello stato, vale a dire il nostro veroessere cosciente di sé. In altre parole, l'incoscienza che oraimmaginiamo di aver sperimentato nel sonno è solo la nostramancanza apparente di una chiara conoscenza di sé, la nostramancanza apparente di chiarezza riguardante la reale natura dellanostra coscienza essenziale 'Io sono'.

Nel sonno sappiamo che 'noi siamo', ma sembriamo mancare diuna chiara conoscenza di ciò che siamo. Pertanto, l'oscuritàapparente del sonno, che nel nostro presente stato di vegliacrediamo erroneamente che sia solo un 'incoscienza' del corpo edel mondo che stiamo vivendo, è in realtà solo la nostra mancanzadi chiarezza della vera conoscenza di sé: la nostra cosiddetta'dimenticanza' o 'ignoranza' del nostro vero sé. Se il nostro verosé, che è la nostra coscienza essenziale 'Io sono', non fosse statoapparentemente oscurato dal velo della nostra auto-dimenticanza o

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ignoranza del sé, il sonno sarebbe uno stato di conoscenza del séperfettamente chiara.

Nel sonno profondo, quindi, l'aggiunto che noi sovrapponiamoal nostro reale sé, e che ci impedisce in tal modo di conoscerechiaramente la sua vera natura, è solo questo velo di oblio di séchiamato āvaraṇa. Anche se questo velo di auto-oblio non potràmai impedirci di conoscere 'Io sono', ci fa sperimentare 'Io sono'in una forma distorta, consentendoci in tal modo nella veglia e nelsogno d'immaginare che siamo un corpo fisico, e che attraverso icinque sensi di questo corpo stiamo vedendo un mondo dimolteplici oggetti e persone.

Poiché questo velo di oblio di sé è la causa originaledell'illusoria apparizione della nostra mente, la coscienzacomposta che immagina 'io sono questo corpo', nell'advaitavēdānta è descritta come il nostro 'corpo causale' o 'kāraṇaśarīra'. Proprio come la dimenticanza di sé che sperimentiamo nelsonno è il nostro 'corpo causale', così la nostra mente, che sorgefuori da questo 'corpo causale' è il nostro 'corpo sottile' o sūkṣmaśarīra, come spiegato da Sri Ramana nel quarto punto di 'NanYar?' e nel verso 24 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', entrambi già citati nelcapitolo tre, e il corpo fisico che la nostra mente crea da se stessacol suo potere d'immaginazione nella veglia e nel sogno è il nostro'corpo grossolano' o sthūla śarīra.

Vale a dire, il nostro corpo fisico è una forma grossolana dellanostra mente, che a sua volta è una forma più sottile {del corpofisico} ma comunque più grossolana della nostra dimenticanza disé. Ogni volta che la nostra mente sorge, sia nella veglia sia nelsogno, lo fa immaginandosi di essere un corpo fisico. Ma quandosprofonda nel sonno, tutte le sue immaginazioni cessano, e,quindi, si fonde di nuovo nella sua forma causale, che è il nostrovelo di apparente oblio di sé. La nostra dimenticanza del nostrovero sé è così il sonno primario che sta alla base dell'apparizionesia della nostra veglia che dei nostri stati di sogno.

È questo sonno primario {o primordiale} di oblio di sé, che

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provoca l'apparizione sia della veglia che del sogno, uno statodistinto dall'ordinario sonno profondo che sperimentiamo ognigiorno, o sono entrambi lo stesso stato? Anche se possiamosperimentare un sogno dentro un sogno (come a volte facciamoquando pensiamo di esserci svegliati da un sogno, ma poisvegliandoci di nuovo scopriamo che la nostra prima 'sveglia' erasolo da un sogno in un altro sogno), non possiamo sperimentareun sonno all'interno di un sonno.

Poiché il sogno è uno stato di dualità e diversità, possiamosperimentare qualsiasi numero di sogni. Ma poiché il sonno{profondo} è uno stato privo di differenze o dualità, ci può esseresolo uno stato di sonno. Quell'unico e solo stato di sonno è ilnostro sonno fondamentale di auto-oblio: il sonno che è venuto acrearsi a causa della nostra apparente mancanza di chiaraconoscenza di sé. Questo sonno di oblio di sé è la causa di fondoper il sorgere di tutti gli altri stati; la causa originale perl'apparizione di tutte le dualità.

Tutti i nostri innumerevoli stati di sogno, tra cui il nostropresente sogno, che, mentre lo sperimentiamo, immaginiamo diessere uno stato di veglia, sorgono solo da questo sonno di fondodella dimenticanza di sé. Pertanto, lo stato di sonno profondo chesperimentiamo ogni giorno non è altro che questo sonno originaledi oblio di sé che sta alla base del sorgere di entrambi veglia esogno.

Sebbene veglia e sogno siano entrambi stati temporanei che siverificano nel nostro lungo sonno della dimenticanza di sé,erroneamente percepiamo il sonno come un breve periodo che siverifica ogni giorno nella nostra vita di veglia. In verità, però, lanostra presente veglia è soltanto uno dei tanti sogni che siverificano nel nostro lungo sonno della dimenticanza di sé. Ancheora stiamo vivendo il sonno della dimenticanza di sé, ma dentroquesto sonno stiamo anche sperimentando un sogno chechiamiamo la nostra presente vita di veglia.

Lo stato di sonno profondo che sperimentiamo ogni giorno è

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solo lo stato in cui tutti i nostri sogni si sono dissolti, lasciandosolo lo stato causale sottostante , il nostro sonno delladimenticanza di sé. Come possiamo dimenticare il nostro vero sé?In realtà conosciamo sempre il nostro vero sé, e non lo abbiamomai dimenticato. Ci sembra solo di averlo dimenticato. Nonpossiamo mai davvero dimenticarlo, perché siamo la coscienzaessenziale 'Io sono', e la vera natura stessa di questa coscienza 'Iosono' è di essere sempre cosciente di sé.

Tuttavia, anche se la nostra vera coscienza 'Io sono' non puòmai dimenticare se stessa, tuttavia in qualche modo sembra che ciinganniamo credendo di essere la nostra mente, che è unacoscienza falsa e irreale che non conosce la propria vera natura, eche quindi immagina 'io sono questo corpo'. Pertanto per spiegarel'apparizione di questa mente, dobbiamo postulare unadimenticanza apparente del nostro reale se. Tuttavia, quest'obliodel se esiste solo dal punto di vista della nostra mente, e non dalpunto di vista della nostra coscienza originale 'Io sono'. Il nostrooblio di se pertanto, non è reale, ma è solo una fantasia,un'apparenza illusoria che esiste solo nella visione della nostramente irreale.

La nostra dimenticanza di sé, come abbiamo visto, è la formaprimordiale di māyā o illusione, e māyā è 'yā mā', 'ciò che non è'.La nostra dimenticanza di sé o la mancanza di una chiaraconoscenza di sé, dunque, è una cosa che in realtà non esiste.Considerando che la nostra dimenticanza di sé, che è il nostropotere di oscuramento del sé chiamato āvaraṇa, è la formaprimaria di māyā; la nostra mente, che è il nostro potered'immaginazione o di auto-diffusione chiamato vikṣēpa, è la formasecondaria di māyā.

Tutte le forme di māyā, tra cui non solo le sue due formefondamentali di dimenticanza di sé e di auto-diffusione{diffusione di sé}, ma anche tutta la dualità e molteplicità chederiva da queste due forme di base, sono conosciute solo dallanostra mente, e non dalla nostra coscienza originale 'Io sono', la

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cui natura è di conoscere solo il proprio essere. Essendo nota solodalla nostra mente, quindi, la nostra dimenticanza di sé e tutto ciòche sorge da essa è solo una fantasia.

Cioè, se il nostro potere d'immaginazione nasce solo dallanostra dimenticanza di sé, la nostra dimenticanza di sé è tuttaviauna mera fantasia. La nostra dimenticanza di sé è infatti la formaprimordiale o seme del nostro potere di immaginazione o mente, ecome tale è di per sé ciò che appare a noi come la nostra mente.La nostra mente o il potere dell'immaginazione è quindisemplicemente una forma grossolana della nostra estremamentesottile dimenticanza di sé.

Tale è la natura inspiegabile e illusoria di māyā che anche se lanostra dimenticanza di sé è la causa originale che ha creato lafalsa e irreale coscienza che noi chiamiamo la nostra mente, essatuttavia non esiste se non dal punto di vista di questa coscienzairreale che ha creato. Come può allora sorgere questo illusoriooblio di sé? Come sembriamo aver dimenticato il nostro vero sé?Poiché siamo in realtà solo la nostra fondamentale coscienza di sé:'Io sono', che non potrà mai dimenticare la sua vera natura, comepossiamo anche apparentemente dimenticare noi stessi?

Poiché siamo in verità la coscienza illimitata 'Io sono', che solaè reale, solo noi esistiamo veramente. Poiché non esiste altro chenoi stessi, non vi è nulla che possa limitare in alcun modo lanostra libertà e il nostro potere. Essendo l'unica e sola realtàassoluta siamo, quindi, perfettamente liberi, e quindi onnipotenti.O per essere più precisi, siamo noi stessi la perfetta libertà e ilpotere assoluto, perché la libertà e la potenza non possono essereche l'unica realtà non duale, che è il nostro vero sé esistente.

Quindi, a parte noi stessi, non c'è potere che possa farcidimenticare il nostro vero sé, o anche solo apparentementedimenticare. Quindi deve essere solo per nostra libertà di sceltache abbiamo apparentemente dimenticato il nostro vero sé. Poichénoi stessi siamo perfetta libertà, siamo liberi di essere ciò chescegliamo di essere e di fare tutto ciò che scegliamo di fare. Siamo

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liberi o di essere sia il nostro vero sé: cioè di rimanere così comerealmente siamo, come semplice essere, che è la nostra infinitanon duale coscienza di sé 'Io sono'; oppure immaginare di esserenoi stessi una coscienza finita, limitata da un corpo in cui siverifica un mondo immaginario di dualità.

Al fine di immaginare noi stessi di essere una coscienzalimitata da un corpo, dobbiamo prima scegliere di trascurare oignorare la nostra vera natura, come coscienza illimitata 'Io sono'libera da aggiunte, o almeno immaginare che l'abbiamo trascurata.Questo immaginario trascurare o ignorare il nostro vero sé è ciòche noi chiamiamo 'dimenticanza di sé', si verifica solo per nostrascelta per il nostro cattivo uso della nostra libertà e potereillimitati.

Anche se è solo per la nostra illimitata libertà e potere cheimmaginiamo di aver dimenticato il nostro vero io, una volta cheimmaginiamo così, siamo diventati apparentemente una coscienzalimitata legata a un corpo, e quindi non sperimentiamo più lanostra libertà e potere illimitati, invece ci sentiamo di essere unacreatura finita in possesso solo di libertà e potere molto limitati. Acausa dei nostri limiti immaginari e auto-imposti, non è piùpossibile per noi essere tutto ciò che scegliamo di essere e di faretutto ciò che scegliamo di fare. La nostra libertà di scelta, dunque,è ora limitata.

Tuttavia, anche ora abbiamo la libertà di dare attenzione aipensieri e agli oggetti che abbiamo creato con il nostro poteredell'immaginazione, o di dare attenzione {concentrarci} allanostra coscienza essenziale al fine di scoprire la nostra vera naturachi o cosa siamo veramente. Solo con tale analisi del se possiamorimuovere il velo di dimenticanza di sé con cui abbiamoapparentemente nascosto la nostra vera natura.

Quando noi, come realtà assoluta, abbiamo apparentementescelto di utilizzare impropriamente la nostra libertà e potereillimitati dimenticando il nostro vero sé e immaginando così noistessi di essere un individuo finito, il nostro potere assume la

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forma irreale di Maya. Ma quando invece si sceglie di usare lanostra libertà e potenza illimitati correttamente per esseresemplicemente come realmente siamo, il nostro potere rimanenella sua naturale e reale forma, che nel linguaggio del misticismoo della religione è chiamato il potere della 'Grazia'. Grazia e Mayasono quindi una sola cosa e la stessa potenza, l'unico potere cheesiste davvero.

Quando abusiamo del nostro potere per illudere noi stessi, noilo chiamiamo Maya e quando lo usiamo correttamente perrimanere come siamo, noi lo chiamiamo Grazia. Maya è il poteredi illusione o di inganno del se, mentre la grazia è il potere di'illuminazione' o chiara conoscenza di sé. Pertanto, se vogliamoliberare noi stessi da Maya, dobbiamo rivolgere la nostraattenzione lontano da tutte le altre cose verso la nostra essenzialecoscienza 'Io sono' per conoscere ciò che realmente siamo.

Quando lo facciamo, il nostro potere naturale di grazia, che è lachiarezza della nostra essenziale coscienza del se, che brillabeatamente nel nucleo del nostro essere come il nostro sé reale,'Io sono', attirerà la nostra attenzione verso di sé con il suoschiacciante potere di attrazione, e quindi dissolverà l'illusionedella nostra auto-dimenticanza dentro di sé, che è la chiarezzaperfetta della vera conoscenza di sé.

Come abbiamo visto, il nostro velo auto-oscurante e auto-ingannante della dimenticanza del sé è il sonno che è alla base ditutti i sogni che abbiamo sempre sperimentato, compreso il nostrosogno attuale, che confondiamo come uno stato di veglia. Questosonno della dimenticanza di sé è ciò che ci permette diimmaginare che siamo una persona limitata, che sente un corpoparticolare come 'io', e che percepisce un mondo di oggettiattraverso i cinque sensi di tale organismo.

La forma primordiale di maya che per prima ci permette didimenticare noi stessi è il nostro potere di oscuramento del sechiamato āvaraṇa śakti, mentre la forma secondaria di maya chepoi ci consente di immaginare una moltitudine di pensieri e

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oggetti che sono apparentemente diversi da noi stessi è il nostropotere di auto-dispersione {o diffusione} chiamato vikṣēpa śakti.Nella veglia e nel sogno sperimentiamo gli effetti di entrambequeste due forme di Maya, ma nel sonno sperimentiamo solol'effetto della forma primordiale di Maya, il potere di auto-dimenticanza chiamato āvaraṇa śakti.

Pertanto, al fine di liberare noi stessi dal potere di maya equindi conoscere il nostro vero sé, non dobbiamo solo mettere daparte la falsa conoscenza della molteplicità creata dal suo vikṣēpaśakti, ma dobbiamo anche penetrare attraverso il velo didimenticanza di sé fuso con la sua āvaraṇa śakti. Ecco perché nelversetto 16 di 'Upadēśa Undiyār', di cui abbiamo discusso inprecedenza, Sri Ramana non dice semplicemente:

“[La nostra] mente che abbandona [il conosceregli] oggetti esterni è vera conoscenza”,

ma invece dice:

“[La nostra] mente che conosce la propria forma diluce, avendo abbandonato [il conoscere gli] oggettiesterni, solo è vera conoscenza”.

Senza rinunciare a dare attenzione agli oggetti esterni, nonpossiamo trasformare la nostra attenzione verso l'interno perconcentrarci interamente ed esclusivamente sulla nostra 'forma diluce', che è la nostra vera coscienza di sé 'Io sono'. Masemplicemente rinunciando di dare attenzione agli oggetti esterni,non ci concentriamo automaticamente sulla nostra attenzione allanostra vera coscienza 'Io sono'.

Pertanto Sri Ramana mette 'avendo abbandonato [il conosceregli] oggetti esterni' come una proposizione subordinata, e pone lanostra 'mente che conosce la sua forma di luce' come soggettodella frase. La vera conoscenza non è semplicemente uno stato in

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cui abbiamo rinunciato a conoscere eventuali oggetti esterni, ma èlo stato in cui conosciamo chiaramente il nostro vero se. Nelsonno abbiamo rinunciato a conoscere oggetti esterni, ma nonraggiungiamo così la vera conoscenza.

Al fine di raggiungere la vera conoscenza, non è sufficiente pernoi solo rimuovere tutte le altre forme di falsa conoscenza: cioè, lanostra conoscenza della molteplicità, dualità o alterità; perché lasemplice rimozione di tale falsa conoscenza non distruggerà la suaradice e fondamento, che è la dimenticanza del nostro vero sé.Rimuovere le altre forme di falsa conoscenza senza mettere finealla nostra dimenticanza di sé, che è la nostra forma primordiale difalsa conoscenza, comporterà solo un cedimento temporaneo osospensione della nostra mente. Da tale stato di sospensione, lanostra mente risorgerà, e quando sorge, tutta la nostra falsaconoscenza della dualità risorgerà con essa.

La nostra mente può sorgere ed essere attiva solosperimentando la falsa conoscenza dell'alterità, cioè, soloconoscendo la dualità, poiché come una coscienza individualeseparata la sua stessa natura è conoscere le cose che sembranoessere altro da sé. Tuttavia, anche senza conoscere alcuna dualità,può ancora continuare apparentemente ad esistere nella formadormiente di un seme, come fa ogni giorno nel sonno profondo. Ilseme-forma in cui essa rimane apparentemente addormentata ealtri simili stati di sospensione è il suo 'corpo causale', che è lasua dimenticanza di sé di base o la mancanza di chiarezza nellaconoscenza di sé.

Pertanto, per ottenere la vera conoscenza, è necessario per noinon solo che la nostra mente vada temporaneamente in uno statodi sospensione, ma che sia distrutta per sempre ponendo fine allasua causa originaria e alla sua base di supporto, che è ladimenticanza o ignoranza del nostro vero sé. Quando abbiamofinalmente messo fine alla dimenticanza del sé conoscendo ilnostro reale sé così com'è, scopriremo che la nostra mente erasoltanto un'apparizione o una sovrapposizione illusoria che non è

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mai realmente esistita, proprio come il serpente illusorio che lanostra immaginazione ha sovrapposto su una corda.

Lo stato in cui scopriamo che la nostra mente è veramentesempre inesistente è descritto nell'advaita vēdānta come lo statodi annientamento della mente o manōnāśa, ed è lo stato che sia nelBuddismo e sia nell'Advaita Vedanta si chiama 'nirvāṇa', unaparola che significa 'estinzione', 'estinto' o 'esaurito'. Essendoun'apparizione illusoria, la nostra mente può essere distrutta oannientata solo riconoscendo che veramente non esiste e che noipossiamo conoscere solo il nostro vero sé.

Così come siamo in grado di 'uccidere' il serpente illusorio cheimmaginiamo di vedere disteso a terra solo riconoscendo che sitratta semplicemente di una corda e non un serpente, cosìpossiamo uccidere 'la mente illusoria' che ora immaginiamo diessere noi stessi solamente riconoscendo che si tratta solo delnostro vero sé la nostra coscienza illimitata 'Io sono' libera daaggiunte {nomi e forme}. Cioè, quando sappiamo ciò che siamorealmente, scopriremo che non eravamo la mente che abbiamoimmaginato di essere, e che tale mente era solo un prodotto delnostro potere d'immaginazione, un'ombra inconsistente apparsanel buio della nostra ignoranza o dimenticanza del nostro reale sé

Ogni giorno nel sonno profondo rimuoviamo tutta la nostrafalsa conoscenza della dualità, ma poiché il sonno è solo uno statodi sospensione temporanea della nostra mente, tale falsaconoscenza nasce di nuovo non appena la nostra mente esce dalsonno.

Tuttavia, invece di far si che la nostra mente si plachitemporaneamente in uno stato di pura sospensione, come il sonno,se la distruggiamo mettendo fine alla nostra dimenticanza di sé,non potrà mai più risorgere, e quindi tutta la nostra falsaconoscenza sarà distrutta per sempre. Come dice Sri Ramana nelversetto 13 dell'Upadesa Undiyār:

“La cessazione {progressiva diminuzione di attività

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o disattivazione} [della nostra mente] è di due tipi,laya [sospensione temporanea] e nāśa[annientamento]. Quella [mente], che ètemporaneamente sospesa sorgerà. [Ma] se [la sua]forma muore, non sorgerà più”.

Da certe forme di meditazione o pratiche yogiche come ilcontrollo del respiro, è possibile per noi rimuovere tutta la nostrafalsa conoscenza della dualità artificialmente e in tal modo farplacare la nostra mente temporaneamente in uno stato disospensione, a volte anche per un periodo molto prolungato ditempo. L'unico mezzo col quale possiamo distruggere la nostramente è di conoscere il nostro vero sé, e possiamo conoscere ilnostro vero sé solo scrutando la nostra coscienza essenziale 'Iosono'. Pertanto, nel versetto 14 di 'Upadēśa Undiyār' Sri Ramanadice:

“Quando [noi] fermiamo [la nostra] mente, che siplaca [solo temporaneamente] quando [noi]controlliamo il [nostro] respiro, sull'unico percorso diconoscere [il nostro vero sé], la sua forma morirà”.

Le parole che Sri Ramana utilizza in questo versetto asignificare 'l'unica via di conoscere' è: ōr vaṙi, che possonosignificare sia oru vaṙi, 'l'unica via', il 'percorso unico' o il'percorso speciale', o ōrum vaṙi, il 'percorso di conoscere', il'percorso di indagare', il 'percorso di esaminare' o il 'percorso diconsiderare con attenzione'.

Poiché esaminare e conoscere il nostro vero se, la nostracoscienza essenziale 'Io sono', è l'unico e solo modo con cui si puòmettere fine alla nostra dimenticanza di sé, che è la causa e ilfondamento dell'apparenza illusoria della nostra mente e di tutta lasua falsa conoscenza, Sri Ramana deliberatamente ha scelto diusare qui queste parole ōr vaṙi, sapendo che avrebbero quindi

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avuto un doppio significato.Quando la nostra mente si placa temporaneamente nel sonno, o

in qualsiasi altro stato simile di sospensione causata da mezziartificiali, perché non otteniamo così la vera conoscenza? Poichétutta la nostra falsa conoscenza dell'alterità è rimossa nel sonno,cosa ci impedisce di conoscere la vera natura di noi stessi inquesto stato? L'unica risposta che possiamo dare è quella di direche il nostro oblio di se persiste nel sonno, e lo fa perché nonabbiamo posto fine a esso conoscendo il nostro vero sé così com'è.

Tuttavia, se non conosciamo qualcosa di diverso da 'Io sono'nel sonno, perché non lo conosciamo così com'è? Che cosaesattamente conosciamo nel sonno profondo? Ora, nello stato diveglia, quando scambiamo noi stessi con la nostra mente, nonpossiamo dire esattamente quello che abbiamo vissuto nel sonnoprofondo, perché noi, come nostra mente non esistevamo in quelmomento. Cioè, la nostra mente di veglia non può direesattamente quello che abbiamo sperimentato nel sonno profondo,perché non esisteva in quello stato.

Noi, però, esistiamo nel sonno, e sapevamo di esistere in quelmomento, perché ora sappiamo chiaramente che abbiamo dormitoe che non conoscevamo qualcosa di diverso da noi stessi in quelmomento. Abbiamo una memoria precisa di aver dormito, anchese non siamo in grado di ricordare esattamente quello cheabbiamo sperimentato nel sonno profondo. Poiché ci svegliamodal sonno e di nuovo scambiamo noi stessi per questo corpo,ovviamente non abbiamo avuto una chiara conoscenza del nostrovero sé in quello stato {sonno}.

Se c'è chiaro (almeno dal nostro punto di vista presente comemente nella veglia) che il sonno non è uno stato di perfettaconoscenza, ancora non sappiamo esattamente quello che abbiamovissuto nel sonno che ci ha impedito di conoscere con chiarezza ilnostro vero sé. Dal punto di vista della nostra presente mente diveglia, possiamo vagamente riconoscere che abbiamo esperienzadella nostra coscienza 'Io sono' nel sonno profondo, ma non

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possiamo dire esattamente in quale forma l'abbiamo sperimentata.Per la nostra presente mente di veglia il sonno sembra essere

uno stato in cui eravamo avvolti da una nube confusa d'ignoranzaapparente o mancanza di chiarezza della coscienza di sé; propriocome ora nella veglia siamo avvolti dalla nostra confusaidentificazione di noi stessi con questo corpo particolare, e insogno eravamo avvolti dalla nostra identificazione confusa conqualche altro corpo. Ma anche se non sappiamo esattamentequello che abbiamo sperimentato nel sonno profondo, a parte ilfatto che abbiamo fatto esperienza di 'Io sono', possiamo trovarealmeno una ragione per la nostra mancanza di chiarezza dellacoscienza di sé in quello stato?

Questa ragione deve essere la stessa fondamentale ragione percui ci manca la chiarezza della coscienza di sé in quest'attualestato di veglia, e nello stato di sogno. Qualunque sia la ragionefondamentale per cui non conosciamo chiaramente noi stessi nelsonno, poiché la stessa ragione fondamentale è la causa di fondodella nostra mancanza di una chiara conoscenza di sé, non solo nelsonno, ma anche nella veglia e nel sogno, tutto quello chedobbiamo fare è di trovarla e farla finita con quella causa ora nelnostro attuale stato di veglia.

Se possiamo conoscere chiaramente il nostro 'vero Io' ora, ciòdistruggerà l'inspiegabile dimenticanza di sé che sta alla base nonsolo della veglia, ma anche del sognare e del sonno profondo. Nelnostro attuale stato di veglia non sappiamo ciò che realmentesiamo, perché passiamo tutto il nostro tempo attenti solo a cosediverse da noi stessi, e mai rivolgendo la nostra attenzione perfocalizzarci interamente ed esclusivamente sulla nostrafondamentale coscienza 'Io sono'.

Come risultato del nostro non dare attenzione esclusivamentealla coscienza 'Io sono', ci sbagliamo immaginando di esserequalcos'altro. Poiché ci sbagliamo considerando erroneamente noistessi di essere il nostro corpo e la nostra mente nello stato diveglia, e poiché il nostro corpo e la mente sono assenti nel sonno,

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Vera Conoscenza e Falsa Conoscenza

continuiamo a errare in quello stato ingannando noi stessiconsiderandoci in qualche modo non a conoscenza della nostravera natura. Tuttavia, poiché la nostra mente è assente nel sonno,non possiamo in questo stato fare qualsiasi sforzo per concentrarela nostra attenzione intensamente sulla nostra essenzialeautocoscienza 'Io sono'.

Possiamo fare un tale sforzo solo ora in questo stato di veglia,o in sogno. In un sogno, però, se proviamo a rivolgere la nostraattenzione verso la nostra essenziale coscienza 'Io sono', di solitorileviamo che ci svegliamo subito da quel sogno passando nelnostro attuale stato di veglia. Poiché il nostro attaccamento alcorpo che erroneamente riteniamo essere noi stessi in sogno non èforte come il nostro attaccamento a questo corpo che oraerroneamente riteniamo noi stessi in questo stato di veglia; ilnostro attaccamento a quel corpo di sogno è facilmente sciolto danoi facendo un piccolo sforzo concentrandoci su noi stessi.

Tuttavia, se la nostra attenzione al sé in sogno si traduce solonel ricordarci del nostro sé di veglia, non è chiaramenteun'attenzione al sé molto intensa o profonda. Poiché la nostraimmaginazione errata che siamo un corpo in sogno è cosìfacilmente sciolta anche da una superficiale attenzione al se, èdifficile per noi concentrarci su noi stessi profondamente eintensamente in sogno. Pertanto è solo nell'attuale stato di vegliache possiamo fare sul serio uno sforzo per dare attenzione a noistessi profondamente: cioè concentrarci interamente edesclusivamente alla nostra coscienza di sé essenziale 'Io sono'. Inun sogno, se cessiamo di conoscere ogni oggetto, ma lo facciamosenza realmente conoscere il nostro sé di veglia, scivoleremo in unsonno profondo o in un altro sogno.

Analogamente in questo stato di veglia, che è anche un sogno,se invece di cercare di conoscere il nostro vero sé ci limitiamo acercare di conoscere ogni oggetto o pensiero che stiamo vivendo,scivoleremo o in un sonno profondo o in un altro stato di sogno.Pertanto, al fine di andare oltre questi tre stati ordinari di veglia,

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sogno e sonno profondo, dobbiamo cessare, non solo di conoscerealtre cose, ma è anche necessario rimuovere il nostro velo delladimenticanza di sé, ricordando il nostro vero sé.

Cioè, al fine di risvegliare il nostro vero sé, dobbiamo rivolgerela nostra attenzione a noi stessi per esaminare e chiaramenteconoscere la vera natura di noi stessi, la nostra pura coscienza diessere, 'Io sono'. Anche se conosciamo la nostra coscienzaessenziale 'Io sono' in ognuno dei nostri tre normali stati di veglia,sogno e sonno profondo, la conosciamo in una forma diversa inciascuno di questi tre stati. Nella veglia la conosciamo nella formadi questo corpo, nel sogno la conosciamo nella forma di qualchealtro corpo, e nel sonno profondo la conosciamo nella forma diun'incoscienza apparente.

Poiché la forma in cui conosciamo la nostra coscienza 'Io sono'in ciascuno di questi stati non esiste negli altri due stati, ognuna diqueste forme è soltanto un attributo illusorio {aggiunta-forma}che sovrapponiamo su di essa. Pertanto, nessuna delle forme incui la conosciamo in nessuno di questi tre stati può essere la suavera forma.

Se abbiamo chiaramente capito la nostra coscienza 'Io sono'nella sua vera forma in uno qualsiasi di questi tre stati, non lascambieremo per qualcosa di diverso negli altri due stati. Pertanto,poiché sperimentiamo noi stessi in una diversa forma in ognuno diquesti tre stati, e poiché passiamo attraverso ciascuno di questistati ripetutamente uno dopo l'altro, è chiaro che noi nonconosciamo la vera forma della nostra coscienza essenziale 'Iosono' in nessuno di essi.

Tuttavia, visto che siamo questa coscienza 'Io sono', e poiché lanatura di questa coscienza 'Io sono' è di essere cosciente di sé,deve essere possibile per noi conoscere questo 'Io sono' nella suavera forma. Infatti, al livello più profondo del nostro essere, che èla nostra autocoscienza assolutamente pura e non duale 'Io sono',anche ora la conosciamo chiaramente nella sua vera forma.Pertanto, al di là dei nostri normali tre stati, che sono tutti stati di

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errata conoscenza, deve esistere uno stato di vera conoscenza, incui siamo sempre chiaramente a conoscenza della vera naturadella nostra coscienza essenziale 'Io sono'.

Anche se questo stato di vera conoscenza, lo stato in cui siamopienamente svegli alla realtà assoluta del nostro se, trascende tuttii nostri ordinari tre stati, nondimeno li sottende in ogni momento,compreso il presente momento. Pertanto, al fine di sperimentarequesto stato fondamentale di vera conoscenza, tutto quello chedobbiamo fare è esaminare e conoscere la nostra essenzialecoscienza 'Io sono' in questo preciso momento.

Poiché questo stato di vera conoscenza trascende i nostriordinari tre stati, deve essere privo di ogni falsa conoscenza, ossiatutte le conoscenze immaginarie delle differenze o dualità, chesperimentiamo solo in due di essi. Pertanto, poiché è uno stato incui viviamo la non dualità, è uno stato privo di pensiero come nelsonno, ma poiché è allo stesso tempo uno stato in cui sisperimenta l'assoluta chiarezza della conoscenza di sé, è ancheuno stato di perfetta veglia.

Quindi, nell'advaita vēdānta questo stato fondamentale di veraconoscenza di sé è a volte descritto come lo stato di 'sonno vigile'o 'sonno sveglio', 'jāgrat-suṣupti' in sanscrito, o 'naṉavu-tuyil' inTamil. Poiché questo stato di 'sonno veglia' è al di là dei nostri trestati ordinari di veglia, sogno e sonno profondo, in advaitavēdānta è anche a volte indicato come il 'quarto stato', 'turīya' o'turya avasthā'. Piuttosto confusamente, tuttavia, in alcuni testiviene usato un altro termine per descriverlo, vale a dire 'il quartotrascendente' o 'turīyātīta', che ha dato luogo al concetto sbagliatoche oltre a questo 'quarto stato' c'è un ulteriore 'quinto stato'.

In verità, però, il non duale stato di vera conoscenza di sé èl'ultimo e assoluto stato, oltre il quale nessun altro stato puòesistere. Poiché è lo stato assoluto che sta alla base e trascendeogni stato relativo, la vera conoscenza di sé, è in effetti l'unicostato che esiste davvero. Pertanto, nel versetto 32 di 'UḷḷaduNāṟpadu Anubandham', Sri Ramana dice:

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“Per coloro che sperimentano la veglia, il sogno e ilsonno profondo, [il reale stato di] 'il sonno vigile', [cheè] oltre [questi tre stati ordinari], è chiamato turiya [il'quarto']. [Tuttavia] poiché solo turiya esiste, [e]poiché i tre [stati] che appaiono [e scompaiono] sono[in realtà] inesistenti, [l'unico stato reale che vienecosì denominata turiya è in effetti] turiya-v-atīta [ciòche trascende anche il concetto relativo che è il'quarto']. Sia chiaro ciò [su questa verità]”.

Il nostro stato fondamentale e naturale di 'sonno sveglio' o veranon duale conoscenza di sé è descritto come il 'quarto' solo persottolinearci che è uno stato che va oltre i nostri tre stati ordinaridi veglia, sogno e sonno. Tuttavia, quando effettivamente andiamooltre i nostri tre stati ordinari per sperimentare il nostro statofondamentale della vera conoscenza di sé, scopriremo che questostato fondamentale è l'unico stato reale, e che i nostri tre ordinaristati sono soltanto apparenze immaginarie, che sonoapparentemente sovrapposte su di essa, ma che in realtà nonesistono per niente.

Quindi, sebbene sia a volte chiamato il 'quarto stato', lo stato divera conoscenza di sé o 'sonno vigile' è l'unico stato che esisteveramente. Quindi, poiché il termine turīya o il 'quarto' implical'esistenza di tre altri stati, non è in realtà un nome appropriato perl'unico stato che veramente esiste. Pertanto, anche se il vero statodi 'sonno vigile' è chiamato turiya, si potrebbe piùopportunamente chiamare 'atīta', 'ciò che trascende'.

In altre parole, poiché è l'unica realtà assoluta ed è pertantocompletamente priva di ogni relatività, trascende non solo i trestati relativi di veglia, sogno e sonno, ma anche il concettoaltrettanto relativo che è il 'quarto' stato. Questo è il motivo percui è anche descritto come turīyātīta, un termine che letteralmentesignifica 'ciò che trascende il quarto'. Il versetto di cui sopra èstato composto da Sri Ramana come una sintesi dei seguenti

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insegnamenti che aveva dato oralmente e che Sri Muruganaraveva registrato nei versi 937-939 del Guru Vācaka Kōvai:

“Quando tutti gli stati [veglia, sogno e sonno], chesono visti come tre, scompaiono nei saggi, che hannodistrutto l'ego [il presuntuoso senso di essere unindividuo separato], turīya [il 'quarto'], che è lo statoelevato, è quello che predomina assolutamente in lorocome atīta [ciò che trascende ogni dualità e diversità].

Poiché gli stati [veglia, sogno e sonno] che sistringono insieme [ci avvolgono] come le trecomponenti [della nostra vita come coscienzaindividuale] sono mere apparizioni [che appaiono escompaiono] nel non duale atīta [l'unico stato che tuttotrascende], [che è] lo stato del [nostro vero] sé, [che èconosciuto come] turiya [il 'quarto'], [e] che è puracoscienza di essere ['Io sono'], sappi che per questi[tre stati illusori] [il nostro vero] sé è l'adhiṣṭhāna [lasingola base sulla quale appaiono e scompaiono, e] incui [devono eventualmente fondersi e] diventare uno.

Se gli altri tre [stati] fossero stati idonei [per esseredescritti] come reali, [solo allora sarebbe statoopportuno per noi dire che] 'il sonno-vigile', [che è lostato di] puro jñāna [la conoscenza], è il 'quarto', nonè vero? Poiché davanti a turīya [il cosiddetto 'quarto']quegli altri [tre stati] si stringono insieme [cioè, sifondono insieme e diventano un tutt'uno], essendosi[rivelati] irreali [come tre stati separati], sappi chequesto [il cosiddetto 'quarto' stato] è [infatti] atīta [lostato trascendente], che è [il solo] unico [stato reale]”.

Mentre la realtà del nostro stato fondamentale della vera

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conoscenza di sé è assoluta, la realtà apparente dei nostri tre statiordinari è soltanto relativa, relativa solo per la nostra mente, chesola li conosce. Tuttavia, quando sperimentiamo lo stato assolutodella vera conoscenza del sé non duale, si scoprirà che la nostramente era una semplice apparizione che mai è veramente esistita.

Pertanto, quando l'apparizione fantasma della nostra mente èdissolta, tutti i nostri tre stati relativi di veglia, sogno e sonnoprofondo, che sono mero frutto della nostra immaginazione, sidissolveranno con essa. Dopo questa dissoluzione della nostramente, tutto ciò che rimane è il nostro stato naturale di sonnosveglio, lo stato beato e non duale della vera conoscenza assoluta.

Tutte le forme di dualità o relatività sono vissute da noi solonella veglia e negli stati di sogno, e non nel loro stato di fondo, lostato di sonno profondo, da cui entrambe sorgono. Poiché ladualità e la relatività sono conosciute solo dalla nostra mente, epoiché tutte le cose conosciute dalla nostra mente sono solopensieri che questa forma in sé col suo potere d'immaginazione,ogni forma di dualità o relatività è mera fantasia, pensieri cheabbiamo noi stessi creato.

Dato che la nostra mente, che crea così ogni dualità e relatività,è essa stessa una falsa forma di conoscenza, una forma spuria dicoscienza che nasce solo quando immaginiamo noi stessi di essereun corpo, che è lui stesso solo una delle nostre immaginazioni;tutte le forme di dualità o relatività non possono essere altro chefalsa o sbagliata conoscenza. Così, poiché la nostra mente è soloun fantasma che nasce dallo stato di profondo sonno, che è ilnostro sonno di oblio del sé, tutta la conoscenza immaginaria delladualità o relatività che la nostra mente sperimenta nella veglia enel sogno nasce pure solo dal nostro sonno della dimenticanza disé. Pertanto, poiché il non duale stato di vera conoscenza di sétrascende non solo gli stati di veglia e sogno, ma anche il lorostato sottostante di sonno profondo, è il supremo e assoluto statoche trascende non solo tutte le forme di conoscenza errata, maanche il fondamentale oblio di se che costituisce l'originale causa

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di tutta la conoscenza sbagliata.Poiché questo stato assoluto della vera conoscenza è il nostro

stato naturale di essere, esso esiste sempre dentro di noi come ilnostro vero sé o coscienza essenziale, e quindi possiamosperimentarlo solo conoscendo noi stessi come siamo veramente.Poiché non possiamo conoscere il nostro vero sé se non prestiamoattenzione a esso, l'unico mezzo per raggiungere l'esperienzadiretta della vera e assoluta conoscenza è di esaminareprofondamente il nostro essere più profondo o essenza.

Anche se questa vera conoscenza, che è il nostro vero sé oessere essenziale, è la realtà alla base di tutti i tre stati che siamoormai abituati a vivere, non possiamo fare lo sforzo necessario peroccuparci di essa mentre siamo nel sonno. E se siamo in grado difare questo sforzo nel sogno, ogni volta che cerchiamo di farlo ilnostro sogno è di solito terminato immediatamente, perché, comeabbiamo discusso in precedenza la maggior parte dei nostri sognisono stati fragili basati su un debole senso di attaccamento alnostro corpo di sogno e al mondo che sperimentiamo attraversoquel corpo.

Quindi in pratica è generalmente possibile per noi riuscire nelnostro sforzo di conoscere il nostro vero sé solo ora in questo statodi veglia. Pertanto, nel versetto 16 di 'Upadēśa Taṉippākkaḷ', SriRamana dice:

“Nella veglia lo stato di sonno [il vero stato di'sonno vigile' o chiara conoscenza di sé] …[naturalmente] risulterà dalla [vostra] sottile indagine[o esame minuzioso], che è [la pratica] di esaminarecostantemente voi stessi. Fino a [che tale] sonno brillacoprendo [e assorbendo l'intera attenzione sia] nellaveglia [che] in sogno, eseguite incessantemente [opraticate] quella sottile investigazione”.

Il motivo per cui Sri Ramana dice qui che dobbiamo continuare

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la pratica della sottile investigazione del se finché lo stato di'sonno vigile' è sperimentato sia nella veglia che nel sogno è cheha composto questo versetto come una sintesi dei versetti 957 e958 del Guru Vācaka Kōvai, in cui Sri Muruganar aveva registratoquello che disse una volta a un aspirante spirituale che lamentavache non era in grado di sperimentare la chiarezza perfetta diautocoscienza o 'sonno vigile' in sogno:

“Non siate scoraggiati, perdendo [la vostra] forzamentale […] pensando che il sonno [vigile] non[ancora] pervade [e assorbe l'intera vostra attenzione]nei [vostri] [stati]di sogno. Se la fermezza di [tale]sonno è raggiunta nel presente [stato di] veglia, ladiffusione di [tale] sonno [sarà anche sperimentata]nel sogno. Fino a quando lo stato di [tale] sonno [èesperito] nella veglia, non abbandonare la [tua]indagine sottile, che è [la pratica di] esaminare [ilvostro essenziale] sé. Pertanto, fino a che [tale vigile]sonno brilla inondando [l'intera attenzione] in sogno,svolgere tale indagine sottile e analizzatrice [è] unimperativo”.

Veglia e sogno sono entrambi stati in cui sperimentiamol'aspetto di alterità o molteplicità. Il 'sonno vigile' che cerchiamodi raggiungere è uno stato privo di ogni alterità, ma è comunqueuno stato di perfetta chiara coscienza di sé. Pertanto, fintanto chesperimentiamo sia l'alterità che la mancanza di perfettamentechiara coscienza di sé, siamo ancora intrappolati nell'illusione deitre stati, veglia, sogno e sonno profondo.

Quindi dovremmo persistere nella nostra pratica di sottile auto-indagine del sé fino a che non sperimentiamo una chiarezzaperfetta di pura coscienza di sé priva della minima traccia dialterità, dualità e molteplicità. Qualunque sia la conoscenza chepossiamo avere su qualcosa di diverso dal nostro sé, è indiretta e

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quindi aperta al dubbio. L'unica conoscenza che è diretta è laconoscenza o coscienza che abbiamo del nostro sé come 'Io sono',e, quindi, solo questa può essere certa e priva di ogni dubbio.

Prima di sapere altro, dobbiamo conoscere la nostra esistenzacome 'Io sono'. Questa conoscenza o coscienza di noi stessi è lanostra primaria ed essenziale forma di conoscenza. Senzaconoscere 'Io sono', non potevamo conoscere nulla. La nostracoscienza 'Io sono' è in grado di stare da sola, senza nessun'altraconoscenza, come sperimentiamo ogni giorno nel sonno profondo,ma nessun'altra conoscenza può sussistere senza questa coscienza'Io sono'.

Ogni volta che questa unica, indivisa e non duale coscienza 'Iosono' sembra conoscere altre cose oltre a sé, lo fa apparentementelimitandosi come coscienza individuale separata che s'identificacon un corpo, uno tra i tanti oggetti che sembra quindi conoscere.Questa coscienza individuale che sente 'io sono questo corpo, unapersona separata che vive in questo mondo di oggetti molteplici'non è la nostra primaria ed essenziale forma di conoscenza, masolo una forma secondaria di conoscenza, una distorta forma dellanostra conoscenza originale e primaria 'Io sono'.

Tutta la conoscenza oggettiva è conosciuta solo da questaforma secondaria di conoscenza, la coscienza individuale separatache chiamiamo la nostra 'mente'. Pertanto la conoscenza oggettivanon è la forma primaria di conoscenza, neanche la formasecondaria di conoscenza, ma solo una forma terziaria diconoscenza. Questa forma terziaria di conoscenza dipende per lasua apparente esistenza dalla forma secondaria di conoscenza chechiamiamo la nostra 'mente', che a sua volta dipende per la suaesistenza apparente dalla forma primaria di conoscenza, la nostracoscienza fondamentale ed essenziale 'Io sono'.

A differenza di tutte le altre forme di conoscenza, questa formaprimaria di conoscenza, 'Io sono', non dipende da qualsiasi altracosa, e quindi è l'unica conoscenza assoluta e incondizionata.Tutte le altre conoscenza sono solo relative. Poiché la forma

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secondaria di conoscenza, la nostra mente, può apparire comeun'entità separata solo conoscendo la forma terziaria dellaconoscenza, i pensieri oggettivi che forma dentro di sé, ognuna diqueste due forme di conoscenza esiste solo rispetto all'altra.

Poiché è conosciuta solo dalla nostra mente, e quindi dipendeper la sua apparente esistenza dalla nostra mente, la conoscenzaoggettiva non ha una realtà propria, ma prende in prestito la suarealtà apparente dalla nostra mente. La conoscenza oggettivaquindi non è più reale della nostra mente che la conosce. È questamente, la coscienza individuale che si sente come 'io sono questocorpo, una persona distinta che conosce un mondo pieno dioggetti', reale? No, non lo è, perché è, come abbiamo visto sopra,solo una forma immaginaria e distorta della nostra vera e originalecoscienza 'Io sono'. Sebbene sia la nostra mente che tutta laconoscenza oggettiva conosciuta da essa sembrino reali, la realtàdi ciascuna è relativa solo all'altra.

Tutto ciò che è reale solo relativamente, non è reale per niente,perché per essere veramente reale, una cosa deve essereassolutamente e incondizionatamente reale. Solo ciò che èassoluto e incondizionatamente reale è reale in ogni momento, intutti gli stati e sotto tutte le condizioni; mentre quella che èrelativamente reale sembra essere reale solo in certi momenti, inalcuni stati e in determinate condizioni. Qualunque cosa sembriessere reale solo in determinati momenti, in alcuni stati e indeterminate condizioni, è solo un'apparizione, e quindi è soloapparentemente reale.

Pertanto, l'unica conoscenza che può sicuramente essereconsiderata come reale o vera conoscenza è la nostra conoscenzadiretta, non confusa, chiara e certa della nostra coscienzaessenziale 'Io sono'. Finché e a meno che non raggiungiamo talechiara e certa conoscenza, ogni altra conoscenza che possiamoraggiungere sarà incerta e aperta al dubbio. Solo quandoraggiungiamo la vera conoscenza della nostra coscienza 'Io sono',saremo nella posizione di essere in grado di giudicare la verità e la

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validità di tutte le nostre altre conoscenze.Così la convinzione che la ricerca oggettiva può portare alla

vera conoscenza (una convinzione che è insita e fondamentale perla filosofia su cui tutta la moderna scienza si basa) èfilosoficamente infondata, e si basa più su un pio desiderio che suqualsiasi analisi filosofica profonda o onesta. Tutta la conoscenzaoggettiva è conosciuta da noi indirettamente attraversol'imperfetto supporto della nostra mente e dei cinque sensi, mentrela coscienza è conosciuta da noi direttamente come il nostro sé.

Se cerchiamo la vera, chiara e immediata conoscenza, piuttostoche tentare di approfondire la nostra conoscenza dei fenomenioggettivi rivolgendo la nostra attenzione verso l'esterno attraversola nostra mente e i cinque sensi, dovremmo cercare di affinare lanostra conoscenza della coscienza dirigendo la nostra attenzioneal nostro sé, verso la coscienza essenziale che sperimentiamosempre direttamente come 'Io sono'. Anche se la filosofia e lascienza della coscienza o della vera conoscenza di sé chediscutiamo in questo libro può sembrare confutare o negare laverità di tutte le normali forme di conoscenza umana, di fatto nonnega la verità relativa di qualsiasi altra filosofia, scienza oreligione. Essa si limita a porle in una giusta prospettiva.

Nel grande schema delle cose, ogni cosa ha il suo postorelativo, e questa filosofia di conoscenza del sé ci permette dicapire il posto relativo di tutto in una prospettiva corretta. Laverità è che il grande schema delle cose e tutto ciò che ha un postoin esso è tutto noto solo tramite la nostra mente, e quindi è indefinitiva solo i nostri pensieri. Poiché non possiamo conoscerenulla, tranne la nostra mente, abbiamo motivo sufficiente persupporre che nulla esiste al di fuori della nostra mente. Anchel'idea che le cose esistono indipendentemente dalla nostra mente, esono quindi più che soli nostri pensieri, è di per sé solo unpensiero o immaginazione.

Che cosa la filosofia e la scienza della coscienza confuta omette in discussione, quindi, non è semplicemente un particolare

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pensiero, idea o convinzione che la nostra mente può avere suqualsiasi cosa, ma è in definitiva la realtà della nostra mentestessa. Tutti i sistemi dualistici di filosofia, scienza e fede religiosahanno a che fare con la verità, ma non con la verità assoluta. Laverità o le verità con cui hanno a che fare sono solo forme relativedi verità, e poiché sono relative, la verità di un sistema puòsembrare scontrarsi con quella di un altro.

Tuttavia, il conflitto tra tutte le innumerevoli forme di veritàrelativa può conciliarsi quando ciascuna è vista nella sua giustaprospettiva, che è possibile solo dal punto di vista della veritàassoluta di non duale conoscenza di sé: la coscienza fondamentale'Io sono', che è il substrato imparziale e la realtà sulla quale onella quale compaiono e scompaiono tutte le cose. Anche se laconoscenza oggettiva che acquisiamo tramite la filosofia e lascienza può apparire vera e valida conoscenza dal relativo puntodi vista della nostra mente, dal punto di vista assoluto della nostrareale coscienza 'Io sono', non è vera conoscenza.

Qualunque sia la conoscenza che la mente umana può acquisireattraverso la filosofia, la scienza, la religione o qualsiasi altromezzo può essere solo conoscenza relativa, e non la conoscenzaassoluta o vera. La nostra mente è uno strumento che puòconoscere solo la dualità, la relatività o le limitazioni, e non ciòche è oltre ogni dualità, relatività e limitazione. Tuttavia, il limitedella nostra conoscenza non si ferma con la nostra mente. Oltre lanostra mente, o meglio dietro, sotto e alla base della nostra mente,c'è una coscienza più profonda: la nostra coscienza di séfondamentale ed essenziale, 'Io sono'.

Questa essenziale coscienza di se o non duale conoscenza delnostro essere è in sé la conoscenza assoluta: conoscenza che èassolutamente, incondizionatamente, indipendentemente einfinitamente vera, pura, chiara e certa.

In questo libro abbiamo esaminato in dettaglio la filosofia dellaconoscenza di sé, mostrando come essa ci invita a mettere indiscussione tutte le nostre più elementari ipotesi circa noi stessi e

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il mondo, e come essa ci offre una razionale visione della realtàche è fresca e completamente diversa da quello che molti di noiconoscono. Tuttavia, questa filosofia sarà di scarsa utilità per noise non capiamo che non è solo una filosofia ma anche unascienza: una scienza che esige da noi un impegno costante per laricerca pratica. Come filosofia è di per sé insufficiente, e rimarràsoltanto un insieme di pensieri, idee o credenze come qualsiasialtra filosofia, a meno che e fino a quando non ne facciamoesperienza diretta praticando il suo metodo empirico diinvestigazione del sé.

Ogni beneficio che possiamo ottenere studiando e riflettendo suquesta filosofia sarà di poco valore reale per noi a meno che nontentiamo di metterla in pratica volgendo ripetutamente la nostraattenzione alla nostra mera coscienza di essere ogni volta chenotiamo che è scivolata via per pensare ad altre cose. La veraconoscenza che tutti noi cerchiamo di raggiungere non è uninsieme di pensieri, idee o teorie, o qualsiasi altra cosa chepotrebbe essere afferrata dalla nostra mente, ma è lo stato diconscia non duale esperienza di essere, in cui l'assoluta realtà, lanostra coscienza essenziale 'Io sono', conosce solo se stessa.

Pertanto, a meno che e fino a quando non abbiamoeffettivamente rivolto la nostra attenzione lontano da tutti ipensieri e da tutti gli oggetti e verso la nostra coscienzafondamentale 'Io sono', non potremo mai raggiungere laconoscenza diretta, certa e vera della realtà assoluta che sta allabase e che contiene, e trascende, ogni relatività.

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Capitolo 7

L'Illusione del Tempo e dello Spazio

Anche se nel terzo capitolo, discutendo la formazione e ladissoluzione di ciascuno dei nostri pensieri consecutivi, abbiamodetto che ogni singolo pensiero sorge e si abbassa in uninfinitamente piccolo periodo di tempo, questa non è l'interaverità, perché il tempo è di per sé un'illusione creata dal sorgere epoi dal dissolversi del nostro pensiero.

Così come immaginiamo la dimensione fisica dello spazio alfine di creare nella nostra mente un'immagine concettuale di ununiverso costituito da oggetti separati di forme diverse, cosìimmaginiamo la dimensione fisica e psicologica del tempo al finenon solo di creare nella nostra mente un'immagine concettuale dieventi e cambiamenti che continuamente si verificano all'internodi tale universo, ma anche (più importante) per creare l'illusioneche i pensieri che pensiamo e le esperienze conseguenti chesubiamo, si formano e si dissolvono in un modo consecutivo.

Senza prima immaginare le dimensioni di base del tempo edello spazio, non possiamo formare qualsiasi immagine o pensieronella nostra mente, e quindi queste dimensioni sono insite in ognipensiero che pensiamo. Noi pensiamo di percepire il tempo e lospazio al di fuori di noi stessi, e che siamo creature limitate cheesistono per un periodo molto breve all'interno della vasta duratadel tempo e che occupano una parte molto piccola della vastadistesa dello spazio.

Questa percezione, tuttavia, è solo un'illusione, perché comeogni altra percezione, noi sperimentiamo la percezione del tempoe dello spazio solo all'interno di noi stessi, nella nostra mente ocoscienza. Anche se il tempo e lo spazio sembrano esistere al difuori di noi, non abbiamo modo di sapere se in realtà esistono al di

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fuori o indipendentemente da noi stessi, perché tutto ciò chesappiamo o possiamo mai sapere del tempo e dello spazio è solol'immagine di loro che abbiamo formato all'interno della nostramente col nostro potere d'immaginazione. Pertanto, come tutto ciòche percepiamo nel tempo e nello spazio, il tempo e lo spaziosono semplicemente immagini mentali, concezioni o pensieri.

Le dimensioni concettuali del tempo e dello spazio sonocentrate rispettivamente intorno alle nozioni del momentopresente, 'adesso (ora)', e del luogo attuale, 'qui'. I concetti dipassato e futuro esistono solo con riferimento al concetto delmomento presente, che è il momento centrale. Quello che era unavolta presente è ora passato, e quello che sarà presente è ora ilfuturo. Sia il passato sia il futuro, sono il presente quando siverificano.

Ma, ancora più importante, il passato e il futuro sono i dueconcetti che esistono solo nel momento presente. Pertanto,relativamente parlando, il presente è l'unico punto nel tempo che èreale. Anche se tutto ciò che passa per esso è in costanteevoluzione, il momento presente stesso rimane sempre senzasubire alcun cambiamento, e, quindi, è la porta statica attraverso laquale si può passare dalla illusione di continuo cambiamento deltempo alla realtà del nostro essere sempre immutabile. Come diceSri Ramana nel versetto 15 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu':

“Il passato e il futuro stanno [solo] aggrappandosial presente. Mentre si verificano, anche loro sono soloil presente. Il presente [è] l'unico [punto nel tempo cheesiste veramente]. [Pertanto] cercando di conoscere ilpassato e il futuro senza conoscere la verità delpresente [è come] cercare di contare, senza [conoscereil numero fondamentale, l'unità di] uno [di cui tutti glialtri numeri non sono che multipli o frazioni]”.

La terza frase di questo versetto, 'nihaṙvu oṉḏṟē', che

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L'Illusione del Tempo e dello Spazio

letteralmente significa 'il presente [è] l'unico', con un'enfasi (lalettera di terminazione ē) aggiunta alla parola oṉḏṟu o 'uno'implica 'uno solo', può essere interpretato in vari modi. Può essereintesa nel senso, 'Il presente è l'unico tempo', 'Solo il presenteveramente esiste', o 'Tutti e tre questi tempi sono solo l'unicopresente'.

Tuttavia, in effetti, tutte queste tre interpretazioni significano lastessa cosa. Poiché mentre si verifica ogni momento nel tempo èpresente; tutti i momenti del tempo, sia passato, che presente ofuturo, sono solo il momento presente. Il presente è quindi l'unicomomento nel tempo che esiste veramente. Da qui le tre divisionidel tempo, passato, presente e futuro, non sono veramente tre, masolo una: quella sempre presente nel momento presente.

Nella versione kaliveṇbā di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana haaggiunto due parole extra, prima della prima parola di questoversetto, 'nihaṙviṉai' o 'il presente', detto 'nitamum maṉṉum', chesignifica 'ciò che rimane sempre'. Così egli evidenzia il fatto che ilmomento presente è sempre presente, che tutti i tempi sono ilpresente mentre si verificano, e che il presente è quindi il solotempo realmente esistente: l'unico tempo che sempresperimentiamo direttamente ed effettivamente. Tutti gli altritempi, sia il passato che il futuro, sono solo pensieri che siverificano in questo momento presente. Se vogliamo stimare ilvalore di qualcosa in una determinata valuta, si deve primaconoscere il valore di una singola unità di quella valuta.

Senza conoscere il valore dell'unità 'uno', non possiamoconoscere il valore di qualsiasi altro numero. Allo stesso modo,non possiamo conoscere la verità del passato o del futuro, se nonconosciamo la verità del presente, perché il momento presente èl'unità di base del tempo: l'unica sostanza di cui è formato tutto iltempo. Proprio come il momento presente, 'ora', è il puntocentrale della concettuale dimensione del tempo, così nello stessomodo il luogo attuale, 'qui', è il punto centrale della dimensioneconcettuale dello spazio.

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Ogni punto dello spazio che percepiamo o pensiamo, esistesolo con riferimento al presente posto, il punto nello spazio in cuiora sentiamo noi stessi di essere. Cosa determina quale puntonello spazio e quale momento del tempo sono vissuti come esserepresenti? Ciò che noi sperimentiamo come l'attuale luogo, 'qui', eil momento presente, 'ora', è quel punto nello spazio e nel temponel quale ci sentiamo presenti. La presenza della nostra coscienzadi essere, 'Io sono', è dunque ciò che ci fa sentire che questo postonello spazio è presente 'qui', e che questo momento è presente'ora'. Tutte le definizioni di tempo e di luogo sono relative aquesto momento fondamentale 'ora' e a questo postofondamentale 'qui'.

Il passato è passato, perché è prima di questo momentopresente, che noi chiamiamo 'adesso' (o ora), e il futuro è futuroperché è successivo a questo momento presente. Analogamentetutte le definizioni di luogo come 'vicino' o 'lontano', 'qui' o'altrove', sono relative solo a questo presente posto, che noichiamiamo 'qui'. Pertanto, poiché la definizione di 'ora' e 'qui' èciò che sono questi punti nel tempo e nello spazio in cui sempresperimentiamo di essere il nostro sé, tutto il tempo e lo spazio inultima analisi, esistono solo con riferimento alla nostra essenziale,fondamentale e sempre presente coscienza del nostro essere, 'Iosono'. Poiché riteniamo che questo corpo particolare sia noi stessi,riteniamo che il punto dello spazio in cui questo corpo ora esistesia 'qui'.

Così la nostra mente, la limitata coscienza che si sente come 'iosono questo corpo', sente sempre di essere qui e ora, nel presenteluogo e nel momento presente. Poiché questa limitata coscienza'io sono questo corpo', che è il soggetto che conosce o la primapersona, è sempre vissuto come il punto centrale dello spazio, nonè solo la 'prima persona' ma anche il 'primo posto'. Cioè, il primoo fondamentale luogo, il punto centrale nello spazio, che noichiamiamo 'qui', è solo la nostra mente, la coscienza che sentiamosempre di essere la prima persona, 'io'.

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L'Illusione del Tempo e dello Spazio

Ogni altro luogo o punto nello spazio esiste solo in riferimentoa questo luogo fondamentale, sempre presente in prima persona.Poiché ci identifichiamo con un corpo particolare, riteniamo dimuoverci nello spazio, mentre in realtà lo spazio si muove in noi.Cioè, poiché non siamo questo corpo materiale, ma solo lacoscienza, tutto lo spazio esiste solo dentro di noi, e quindi tutti imovimenti nello spazio si verificano solo dentro di noi. Ovunqueci sembra di andare, l'attuale luogo 'qui' ci accompagna. Quandoci sembra di spostarci da un luogo all'altro, quest'altro luogodiventa 'qui', cioè, si muove e diventa il luogo centrale nellanostra coscienza.

Quindi, proprio come il momento presente, 'ora', è il momentostatico e immutabile in cui tutti i momenti del tempo passano, cosìil presente luogo, 'qui', è il luogo statico e immutabile attraverso ilquale, nei pressi del quale o lontano da cui tutti i luoghi nellospazio si muovono. Perciò, come il momento presente è la portastatica attraverso la quale si può passare dalla illusione di vivere iltempo mutevole alla realtà del nostro sempre immutabile essere,così il luogo attuale è la porta statica attraverso la quale possiamopassare dalla illusione di essere un corpo che si muove nellospazio alla realtà del nostro essere sempre immobile. Propriocome la prima persona, la nostra coscienza 'io', è il primario ofondamentale luogo, il punto centrale nello spazio della nostramente, quindi la seconda persona, 'tu', e la terza persona,l'aggregato di 'lui', 'lei', 'egli', 'questo', 'quello' e tutto ciò che èdiverso da 'io' o 'tu', possono essere considerati rispettivamente, iluoghi o le zone secondarie e terziarie all'interno del nostro spaziomentale. Pertanto, ciò che noi chiamiamo 'le tre persone' nellagrammatica italiana, sono note come i 'tre posti' nella grammaticaTamil. Cioè, nella maggior parte delle lingue il soggetto e tutti glioggetti a sua conoscenza sono raggruppati in tre categorie: initaliano e in molte altre lingue queste tre categorie sono chiamatele 'tre persone', in Tamil invece sono chiamate i 'tre posti'.

Questa concezione spaziale di queste tre categorie si basa sul

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fatto che sperimentiamo ognuno di loro come occupare un 'luogo'o un punto diverso sia nello spazio fisico che nel nostro spazioconcettuale. La prima persona che in termini grammaticali è lapersona che parla o scrive come 'io', è sempre vissuta come esserequi, nel luogo attuale. La seconda persona, che in terminigrammaticali è qualsiasi persona o cosa che viene detto o scrittocome 'tu', è vissuta come essere fisicamente o concettualmentenelle vicinanze, in un luogo che si trova vicino alla prima persona.

E la terza persona, che in termini grammaticali è qualsiasipersona o cosa di cui si parla o scrive come 'lui', 'lei', 'egli','questo', 'quello', 'questi', 'quelli', 'loro', viene vissuta comefisicamente o concettualmente altrove, in un luogo diverso daquello occupata dalla prima o dalla seconda persona. Questaconcezione spaziale di queste 'tre persone', in particolare quelladella 'prima persona', è filosoficamente molto significativa, ed èpotenzialmente molto utile per noi nella nostra comprensionedella pratica d'indagine del sé. Nei suoi insegnamenti, dunque, SriRamana ha spesso usato gli equivalenti tamil dei termini italiani'prima persona', 'seconda persona' e 'terza persona'.

Poiché ha usato questi termini al posto dei soliti terminifilosofici 'soggetto' e 'oggetto', ha in effetti diviso tutti gli oggetticonosciuti da noi in due gruppi distinti. Cioè, ha usatol'equivalente Tamil del termine 'seconda persona' per indicare tuttiquegli oggetti mentali o immagini che riconosciamo comepensieri che esistono solo nella nostra mente, e il termineequivalente Tamil della 'terza persona' per indicare tutti queglioggetti mentali o immagini che immaginiamo di percepire fuori dinoi stessi attraverso uno o più dei nostri cinque sensi. Mentre glioggetti 'seconda persona' sono quegli oggetti o pensieri chericonosciamo come esistenti solo all'interno dello spazio dellanostra mente, e gli oggetti della 'terza persona' sono quegli oggettio pensieri che immaginiamo siamo percepiti nello spazio fisico,fuori dalla nostra mente.

Così gli oggetti della seconda persona sono quegli oggetti che

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riconosciamo esistere solo all'interno del campo della nostraconcezione mentale, mentre gli oggetti terza persona sono queglioggetti che immaginiamo esistere al di fuori del campo dellanostra concezione mentale, nel campo apparentemente separatodella nostra percezione sensoria le Questa definizione di 'secondapersona' e 'terza persona' differisce dalla definizione normale diessi, perché Sri Ramana non li ha utilizzati nel loro solito sensogrammaticale, ma in senso filosofico più astratto.

Il significato filosofico che ha dato a questi termini noncorrisponde esattamente al loro solito significato grammaticale,perché, mentre il primo concerne la conoscenza o esperienza,l'ultimo concerne solo la lingua, sia parlata che scritta. Cioè, anchese di solito intendiamo 'seconda persona' come il termine perindicare solo 'tu', la persona, le persone, la cosa o le cose a cui siparla o si scrive, e il termine 'terza persona' per indicare lapersona, le persone, la cosa o le cose dette o scritte; questadefinizione di questi termini è applicabile solo all'atto dicomunicare attraverso la parola o la scrittura. Se estendiamo l'usodi questi termini all'atto del conoscere, dobbiamo dare loro unanuova definizione.

In riferimento all'atto del conoscere, il termine 'secondapersona' significa qualunque cosa sappiamo più direttamente oimmediatamente, mentre il termine 'terza persona' significa tuttoquello che sappiamo più indirettamente o mediatamente. Rispettoagli oggetti che percepiamo attraverso la mediazione dei nostricinque sensi, i pensieri che riconosciamo come esistenti soloall'interno della nostra mente sono conosciuti da noi piùdirettamente o immediatamente, e quindi, sono pensieri o oggetti'seconda persona'.

Poiché gli oggetti che pensiamo di percepire fuori da noi stessisono conosciuti da noi, non solo attraverso il primario mezzo dellanostra mente, ma anche attraverso i mezzi secondari dei nostricinque sensi, sono una forma relativamente indiretta o più mediatadi conoscenza, e quindi sono i nostri pensieri o oggetti 'terza

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persona'. Anche se in Tamil queste 'tre persone' sono chiamatecollettivamente i 'tre luoghi' o 'mū-viḍam', individualmente nonsono chiamati il 'primo posto', il 'secondo posto' e il 'terzo posto',ma si chiamano, rispettivamente, il luogo della 'se-ità' (self-ness){dello stato del sé}, 'il posto che sta di fronte' e il 'luogo che si èdiffuso fuori'. Il termine effettivamente utilizzato in Tamil perindicare la prima persona è taṉmai-y-iḍam, o più comunementesolo taṉmai, che etimologicamente significa 'se-ità' (self-ness) oindividualità 'il luogo del sé', e che denota quindi il nostro sensodel 'sé', il soggetto o primo pensiero 'io'.

Il termine Tamil per la seconda persona è muṉṉilai, cheetimologicamente significa 'ciò che sta di fronte', e che quindi daun punto di vista filosofico denota i nostri pensieri più intimi,quegli oggetti mentali o immagini che, parlando in senso figurato,stanno immediatamente davanti all'occhio della nostra mente, eche quindi riconosciamo come pensieri che esistono soloall'interno della nostra mente.

Il termine Tamil per la terza persona è paḍarkkai, cheetimologicamente significa 'ciò che si diffonde, si ramifica,diventa diffuso, si espande e pervade', e che quindi da un punto divista filosofico indica quei pensieri che si sono sparsi o ampliatiattraverso il canale dei nostri cinque sensi, e che sono quindi statiproiettati come gli oggetti di questo mondo materiale, che cisembra di percepire attraverso i cinque sensi, e che quindi ciimmaginiamo come oggetti esistenti al di fuori di noi stessi.

Lo spazio della nostra mente è così suddiviso in tre partidistinte, aree o campi, che possiamo immaginare come tre cerchiconcentrici. La parte più intima della nostra mente, il più internodi questi tre cerchi, che è anche il loro punto centrale, è il nostropensiero 'prima persona' 'io', la nostra coscienza individualelimitata che si sente 'io sono questo corpo', 'io sono una personacosì e, così'. La successiva parte più interna o più intima dellanostra mente, il campo o cerchio che circonda più da vicino ilnostro pensiero prima persona 'io', sono tutti i pensieri 'seconda

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persona', gli oggetti che riconosciamo come esistenti soloall'interno della nostra mente, e che quindi consideriamo il campodella nostra concezione mentale. La parte più esterna della nostramente, il campo più esterno o cerchio che circonda i nostripensieri prima persona 'io', sono tutti i nostri pensieri 'terzapersona', gli oggetti che ci immaginiamo di percepire in unospazio fisico esterno, e che abbiamo quindi scambiamo comeesistenti fuori della nostra mente.

Così l'intero universo esterno e lo spazio fisico in cuiimmaginiamo di essere contenuti è solo la parte più esterna dellospazio che è la nostra mente, la parte di tale spazio che noiconsideriamo essere il campo della nostra percezione sensoriale.

Anche se nella nostra immaginazione facciamo una distinzionetra i pensieri che riconosciamo come esistenti all'interno di noistessi e gli oggetti materiali che immaginiamo di percepire fuorinoi stessi, questa distinzione è in realtà falsa, perché entrambisono in realtà solo pensieri che formiamo all'interno della nostramente col nostro potere di immaginazione. Mentre riconosciamoalcuni dei nostri pensieri essere solo le immagini che si formanonella nostra mente, abbiamo erroneamente immaginato certi nostripensieri essere oggetti che in realtà esistono fuori di noi, e chequindi sono distinti dai nostri pensieri e dalla nostra mentepensante.

In realtà, però, anche gli oggetti che pensiamo di percepirefuori noi stessi sono solo i nostri pensieri, immagini che abbiamoformato all'interno della nostra mente. Tuttavia, anche se questadistinzione tra i nostri pensieri seconda persona e i nostri pensieriterza persona è illusoria, nella nostra mente sembra essereabbastanza reale.

Finché ci immaginiamo di star percependo oggetti al di fuori dinoi stessi, noi continueremo a immaginare che ci sia una vera epropria distinzione tra questi oggetti e pensieri che riconosciamocome esistenti solo all'interno della nostra mente. Pertanto, questadistinzione apparente tra i nostri oggetti seconda persona, i

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pensieri che noi riconosciamo come esistenti solo nella nostramente, e i nostri oggetti terza persona, gli oggetti che pensiamo dipercepire fuori noi stessi, continueranno ad apparire reali fino aquando la nostra mente pensante sembrerà essere reale.

Poiché ci sembrano essere reali, Sri Ramana consentequest'apparente distinzione tra gli oggetti seconda persona e glioggetti terza persona, ma lo fa così solo per rendere chiaro che iltermine 'oggetti' include non solo tutti gli oggetti materiali chepensiamo di percepire fuori noi stessi, ma anche tutti i pensieriche riconosciamo come esistenti solo all'interno della nostramente. Anche i nostri pensieri o sentimenti più intimi sono solooggetti conosciuti da noi, e sono pertanto distinti da noi.

Pertanto, quando Sri Ramana ci consiglia di ritirare la nostraattenzione da tutte le 'secondo persone' e 'terze persone' e diconcentrarci invece sulla 'prima persona', vuole farci capire chedobbiamo ritirare la nostra attenzione da tutti gli oggetti, sia quelliche riconosciamo come meramente nostri propri pensieri osentimenti, che quelli che scambiamo come oggetti esistenti fuorinoi stessi, e fissarla solo al nostro senso di sé, 'Io', di cui abbiamosempre esperienza di essere qui e ora, in questo preciso puntopresente nello spazio e nel tempo.

In altre parole, al fine di conoscere il nostro vero sé, dobbiamoritirare la nostra attenzione da tutti i nostri pensieri, sia dai nostripensieri seconda persona, che riconosciamo come pensieri, chedai nostri pensieri terza persona, che abbiamo immaginato essereoggetti materiali esistenti al di fuori di noi stessi e dovremmoinvece metterla a fuoco interamente ed esclusivamente sullanostra sempre presente coscienza di sé: la coscienza fondamentaledel nostro essere essenziale, 'Io sono'. Poiché tutti gli oggetti sonosolo pensieri che formiamo all'interno della nostra mente,dipendono per la loro esistenza apparente dalla nostra mente, ilsoggetto o la prima persona, che pensa e che li conosce.

Pertanto, nel versetto 14 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana dice:

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“Se la prima persona esiste, la seconda e terzapersona [anche sembreranno] esistere. Se, per la nostraricerca della verità della prima persona, la primapersona cessa di esistere, la seconda e la terza persona[anche] arriveranno al termine, [e la realtà della] primapersona, che [sempre] brilla come uno [quella nonduale realtà assoluta, che sola rimane dopo ladissoluzione di queste tre false persone], sarà [poiscoperto essere] il nostro [vero] stato, [il nostro vero]sé”.

Nella versione kaliveṇbā di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana haaggiunto quattro parole in più, prima della prima parola di questoversetto, taṉmai o 'prima persona', vale a dire uḍal nāṉ eṉṉum a-t, che insieme a taṉmai significa 'quella prima persona, che sichiama 'io sono [questo] corpo''.

Così ha definito la prima persona come il nostro dēhātmabuddhi, il nostro pensiero principale o fantasia primaria 'io sonoquesto corpo', che è la forma distorta e falsa della coscienza chesorge come nostra mente dalla nostra vera non duale coscienza disé, 'Io sono'. Nella seconda frase di questo versetto, le parole cheho tradotto come 'la verità della prima persona' sono taṉmaiyinuṇmaiyai, in cui la parola uṇmai o 'verità' etimologicamentesignifica lo stato di 'essere' o di 'sono'. Da qui la 'verità dellaprima persona' è l'essere essenziale o lo stato 'am-ness' {lo statodi 'Io sono'} della nostra mente o il senso individuale di sé, chesperimentiamo come 'io sono questo corpo'.

Mentre la nostra mente è una forma oggettivata dellacoscienza, una forma di coscienza che s'immagina di essere unoggetto, questo corpo; la sua verità o 'am-ness' {o lo stato di 'Iosono'} è la sua vera ed essenziale coscienza di se non-oggettiva,'Io sono', che è l'unica realtà sottostante la sua falsa apparenza. Lanostra 'individuale personalità' o taṉmai, che è la coscienzamescolata alle aggiunte del sé che sente 'io sono questo corpo',

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sembra esistere solo perché non siamo riusciti a indagare oesaminare la verità sottostante o lo stato 'am-ness' {o lo stato di'Io sono'} di esso.

Se esaminiamo a fondo questa falsa coscienza della primapersona per conoscerne la verità o la realtà sottostante, scopriremoche è nient'altro che la non duale coscienza del nostro essere, 'Iosono', che è il nostro sé reale ed essenziale, il nostro vero stato dipuro essere. Quando scopriamo così che la nostra vera'individualità' è semplicemente la nostra non duale coscienza di sé'Io sono'; scopriremo anche che la nostra falsa 'personalità'individuale, che è la nostra coscienza distorta e dualistica 'io sonoquesto corpo', che identificandosi in tal modo con un corpo fisicoha limitato se stessa entro i confini del tempo e dello spazio, è unasemplice apparizione che non è mai veramente esistita.

Proprio come il serpente illusorio, che abbiamo immaginato diaver visto steso a terra, scompare non appena si vede che non èaltro che una corda, così l'illusoria prima persona scomparirà nonappena si scopre che non è altro che il nostro vero essere nonduale consapevole di se, 'Io sono'. Quando questa illusoria primapersona, il nostro individuale falso 'involucro del sé', scompare,tutti gli oggetti o pensieri seconda persona e terza persona, chesono stati creati e conosciuti solo da questa falsa prima persona,scompariranno con essa.

Così, esaminando il luogo attuale, 'qui', che è il punto precisodello spazio in cui la falsa prima persona 'io' appare esistere, e cherappresenta il punto centrale dal quale si concepiscono tutti ipensieri e si percepisce lo spazio fisico e tutti gli oggetti contenutiall'interno di quello spazio, si scopre che esso è solo unaconcezione irreale, un pensiero creata dal nostro potere diimmaginazione. Quando scopriamo così che questo punto centraleda cui ci sembra di percepire lo spazio fisico che ci circonda èsemplicemente un'immaginaria apparizione, l'illusione di qualcosache non è mai veramente esistita, scopriremo che ciò chescambiamo per essere lo spazio fisico è solo un'apparizione

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immaginaria. L'unica verità o realtà sottostante non solo al luogoattuale, 'qui', ma anche a tutti gli altri posti nello spazio fisico chepercepiamo da questo centrale punto, è la nostra coscienzafondamentale, sempre presente di essere, 'Io sono'. In realtà,quindi, il presente luogo, 'qui', non è un punto nello spazio fisico,ma è solo il nostro stesso essere consapevole di sé.

La nostra sempre presente coscienza di essere, che è la realtàsottostante alla nostra esperienza di essere sempre nel postopresente, 'qui', è ciò che intende Sri Ramana nel versettosoprastante con le parole 'la verità della prima persona'. Che cosaesattamente intendiamo quando parliamo di esaminare il postopresente, 'qui'? Il punto preciso dello spazio che sentiamo essere'qui' è il punto in cui ci sembra di sperimentare la nostra coscienzadi essere, 'Io sono'.

Pertanto, al fine di esaminare il posto preciso attuale, 'qui',dobbiamo ritirare la nostra attenzione da tutti gli altri luoghi, cioè,da tutti gli altri pensieri e oggetti e metterla a fuoco interamenteed esclusivamente sulla nostra fondamentale ed essenzialecoscienza di essere, 'Io sono', che sola è sempre presente 'qui' e'ora'. Così la nostra esperienza di essere sempre 'qui', in questopreciso punto presente nello spazio, serve come un indizioprezioso nella nostra indagine della nostra coscienza di essere, 'Iosono', proprio come per il cane l'odore del suo padrone servecome un indizio prezioso per la sua ricerca.

Allo stesso modo, la nostra esperienza di essere sempre 'ora',in questo preciso presente punto del tempo, serve come un altroindizio altrettanto prezioso nell'indagine della nostra coscienza diessere.

Uno di questi due indizi, se seguito correttamente ediligentemente, ci porterà immancabilmente a sperimentare larealtà assoluta che è alla base e trascende ogni tempo e spazio,perché la realtà sottostante che ora sperimentiamo come il relativo'qui' e 'ora' , il 'qui' e 'ora' che appare esistere nello spazio e neltempo, è l'assoluto 'qui' e 'ora', l'eternamente onnipresente

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pienezza di essere, che è il nostro vero io, la nostra fondamentalecoscienza essenziale del nostro essere, 'Io sono'.

Pertanto, dovremmo indagare e conoscere la verità sia delluogo attuale, 'qui', o del tempo attuale, 'ora'. Il tempo è un flussocostante dal passato al futuro. Il presente è il preciso momento incui il passato finisce e comincia il futuro. Con il passare deltempo, il momento presente diventa parte del passato, e un nuovomomento, che faceva parte del futuro diventa presente. Sedividiamo il tempo nelle sue frazioni più piccole o momenti, ladurata di ciascun momento sarà infinitesimale.

Tali momenti infinitesimali passano così rapidamente che nellostesso istante che ognuno appare scompare anche. Un momentoche è il momento dell'immediato futuro in un istante, diventa ilpassato immediato nel momento successivo. Tuttavia, ancheparlare di un momento o istante di tempo è potenzialmentefuorviante, perché il tempo è in realtà un flusso continuo che nonconsiste di unità completamente distinte o chiaramente definibilichiamate 'momento'.

Un momento è solo una frazione concettuale di tempo, unafrazione la cui durata è arbitraria. Il momento più infinitesimale èun punto nel tempo la cui durata è pari a zero, e il momentopresente preciso è un tale punto senza durata, perché è la linea diconfine infinitamente sottile che separa il passato dal futuro.L'istante passato finisce, comincia il futuro. Pertanto il confine ol'interfaccia tra il passato e il futuro è un punto infinitamentesottile, un punto che non ha durata o estensione. Tutto ciò cheesiste tra il passato e il futuro è puro essere.

Nell'istante incommensurabilmente breve tra il passato e ilfuturo, il tempo si ferma, e tutto ciò che succede cessa. Il temporichiede qualche estensione o durata in cui muoversi, cosìnell'infinitamente piccolo istante tra il passato e il futuro, il temponon può muoversi, e niente può accadere. Quindi tutto ciò chepossiamo sperimentare in quell'infinitamente piccolo istante, nelmomento presente preciso, è il nostro essere cosciente di sé, 'Io

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L'Illusione del Tempo e dello Spazio

sono'. Se esaminiamo il momento presente minuziosamente perdiscernere esattamente che istante di tempo è presente, nonsaremo in grado di scoprire qualsiasi istante distinguibile neltempo che può essere chiamato il momento presente preciso,'Ora'.

Per discernere l'esatto istante presente nel tempo, dobbiamomettere da parte sia il passato sia il futuro. L'istante che precedeimmediatamente il presente momento è passato, e quelloimmediatamente successivo è futuro. Se proviamo a mettere daparte anche i momenti più immediati, sottili e minuti del passato edel futuro, e discernere ciò che esiste tra di loro, tutto ciò chetroveremo è il nostro essere immobile e immutabile, la nostrasempre presente coscienza di sé, 'Io sono'. Essendo immobile eimmutabile, il nostro essere cosciente di sé è senza tempo.

Pertanto, il momento presente preciso, l'istante infinitesimaletra il passato e il futuro, è un momento senza tempo, un momentoche esiste di là dalla dimensione del tempo. Così la nostraesperienza che il momento presente è un punto nel tempo èun'illusione, proprio come la nostra esperienza che l'attuale postoè un punto nello spazio è un'illusione. Come abbiamo visto sopra,se mettiamo da parte tutti i pensieri di qualsiasi luogo diverso daquesto preciso luogo presente, 'qui', e scrutiamo accuratamentesolo questo preciso presente posto al fine di scoprire quale sia lasua verità o realtà, scopriremo che non è veramente un punto nellospazio fisico, ma è solo il nostro essere cosciente di se.

Allo stesso modo, se mettiamo da parte tutti i pensieri diqualsiasi altro momento diverso da questo preciso momentopresente, 'ora', e accuratamente esaminiamo solo questo precisomomento presente per scoprire quale sia la verità o la sua realtà,scopriremo che non è veramente un punto nel passaggio deltempo, ma è solo il nostro essere cosciente di se. Quando cosìscopriamo che non esiste una cosa come un preciso punto presentenel tempo, e che la nostra esperienza del momento presente neltempo è quindi solo un'illusione, un'immaginaria apparizione,

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scopriremo che il passare del tempo, che abbiamo sempresperimentato unicamente in questo momento presente illusorio, èanche solo un'apparizione immaginaria.

Poiché tutti i punti nel tempo e tutti i punti nello spazio sonosperimentati solo in questo presente punto nel tempo e presentepunto nello spazio, questi dipendono per la loro apparenteesistenza da questi punti presenti: i sempre presenti 'ora' e 'qui',che in realtà non sono altro che la presenza della nostra semprepresente coscienza del nostro essere, 'Io sono'. Pertanto, il nostrosempre presente essere cosciente di sé, 'Io sono', è l'unica sostanzao realtà non solo di questo momento presente, 'ora', e questoluogo attuale, 'qui', ma anche di tutta la comparsa di tempo e dispazio.

Così questi due indizi {o strade}: l'indizio del preciso luogo'qui', e l'indizio del preciso momento presente, 'ora'; puntano allastessa realtà, del nostro sempre presente essere cosciente del sé,'Io sono', che non è limitato né dal tempo né dallo spazio. In certimomenti possiamo trovare più utile seguire l'indizio di 'qui', altrevolte può essere più utile seguire l'indizio di 'ora', e altre voltepossiamo trovare più utile seguirli entrambi contemporaneamente,qualsiasi sia quello che abbiamo scelto di seguire, la nostraattenzione dovrebbe essere focalizzata interamente edesclusivamente sulla nostra fondamentale e sempre presentecoscienza del nostro essere, 'Io sono'.

Quando indaghiamo la nostra non duale coscienza del nostroessere, che abbiamo sempre sperimentato come 'qui' e 'ora',scopriremo che il tempo e lo spazio sono entrambi immaginazioniirreali, e che il nostro essere non duale cosciente di se è l'unicarealtà, l'unica cosa che esiste veramente. Pertanto nel versetto 16di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana dice:

“Quando [noi] investighiamo [cioè, quandoesaminiamo noi stessi], salvo 'noi' [il nostro séessenziale o coscienza fondamentale di essere], dove è

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L'Illusione del Tempo e dello Spazio

il tempo [e] dove è il luogo? Se siamo [un] corpo,saremo intrappolati nel tempo e nel luogo. [Ma] siamonoi [un] corpo? Siamo uno [in ogni momento deltempo], ora, allora e sempre, uno [in ogni] luogo[dello spazio], qui, là e dappertutto. Perciò noi, ilsenza tempo e senza luogo 'noi', [solo] esistiamo”.

Il significato superficiale implicito nella domanda retorica:“Salvo 'noi', dove è il tempo e dove è il luogo?” Non è forse che iltempo e lo spazio non esistono oltre a, a parte, o come altro danoi. Tuttavia, il suo significato più profondo è che solo noiesistiamo, e il tempo e lo spazio sono completamente inesistenti,un fatto che è ribadito nell'ultima frase di questo versetto.

Nella versione kaliveṇbā di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana haaggiunto tre parole, prima della prima parola di questo versetto,'nām' o 'noi', vale a dire uṇara niṉḏṟa poruḷ, che letteralmentesignifica 'la realtà che stava per conoscere', ma che è un modopoetico per dire 'la realtà che esiste consapevolmente', o piùprecisamente 'la realtà che esiste e conosce [la propriaesistenza]'. Disponendo queste parole prima di nām ha definitoesattamente cosa intendesse in questo contesto. Cioè, quando hachiesto: “Salvo 'noi', dov'è il tempo e dov'è il luogo?”; con iltermine 'noi', non ha significato la nostra mente conoscitrice dioggetti (o oggettivante), ma solo il nostro reale sé, il nostroessenziale e sempre esistente essere consapevole di sé, che sisperimenta sempre come 'Io sono'.

Tempo e spazio sono conosciuti solo dalla nostra mente, equindi dipendono solo da questa per la loro esistenza apparente.Essi non sono conosciuti dalla nostra essenziale coscienza diessere, che conosce solo se stessa, e quindi non sono conosciuti danoi nel sonno, in cui sperimentiamo solo il nostro essere coscientedi sé. Tuttavia, anche se essi non sono conosciuti dalla nostraessenziale coscienza di sé, non potrebbero essere conosciutiindipendentemente da questa, perché è la sola realtà che sottende e

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sostiene la comparsa della falsa forma di consapevolezzaconoscitrice di oggetti che chiamiamo mente, nella cuiimmaginazione solo esistono.

Siamo in grado di immaginarci di essere questa mente, chesperimenta se stessa come un corpo che esiste nel tempo e nellospazio, solo perché conosciamo noi stessi come 'Io sono'.Tuttavia, mentre la nostra mente e il tempo e lo spazio conosciutida essa sono apparenze transitorie, noi siamo la realtà che esisteda sempre e conosce la sua esistenza.

Poiché la nostra esistenza cosciente di sé o essere esisteindipendente dal tempo e dallo spazio, è la realtà assoluta, l'unicarealtà che esiste veramente. Quindi Sri Ramana chiede: “Salvo'noi', dove è il tempo e dove è lo spazio?”, il che implica che solonoi esistiamo veramente, e che il tempo e lo spazio sono mereapparenze, immagini mentali che non hanno intrinseca esistenzareale. Il tempo e lo spazio sembrano esistere solo perché ciimmaginiamo di essere un corpo finito. In verità, però, non siamoun corpo finito, anche se nel nostro attuale stato di veglia ciimmaginiamo di essere questo corpo, nel sogno ci immaginiamodi essere un altro corpo, e nel sonno profondo non ciimmaginiamo di essere qualsiasi corpo.

Quando immaginiamo noi stessi di essere un particolare corpo,come nella veglia e nel sogno, sperimentiamo sia il tempo sia lospazio, ma quando non immaginiamo noi stessi di essere qualsiasicorpo, come nel sonno, non sperimentiamo né tempo né spazio.Tuttavia, anche se ci immaginiamo o meno di essere un corpo,possiamo sempre rimanere la stessa coscienza immutabile diessere, 'Io sono'. In tutti i momenti, in tutti i luoghi e in tutti glistati di coscienza, siamo sempre in essenza solo questa singola,non duale coscienza del nostro essere.

Perciò Sri Ramana dice in questo versetto:

“Siamo uno [in ogni momento del tempo], ora,allora e sempre, uno [in ogni] luogo [nello spazio],

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qui, là e ovunque”.

Poiché il tempo e lo spazio, e tutto il resto diverso dalla nostraessenziale coscienza del nostro essere, 'Io sono', appaiono escompaiono, non sono reali, ma sono solo finzioni illusorie dellanostra immaginazione. In realtà, quindi, non solo trascendiamo iltempo e lo spazio, ma siamo in sostanza assolutamente privi ditempo e spazio.

Noi, questo 'noi' senza tempo e senza spazio, che non è altroche l'essere assoluto non duale cosciente di se che solo esiste. Nelverso 13 di 'Upadēśa Taṉippākkaḷ', che è la forma originale in cuiha composto il versetto di cui sopra, Sri Ramana dice:

“Tranne 'noi', dove è il tempo? Se, non avendoinvestigato [o scrutato] noi stessi, pensiamo di essere[un] il corpo, il tempo ci divorerà. [Ma] siamo [un]corpo? Siamo sempre uno, [nel] presente, passato enel futuro. Perciò, noi il 'noi' che ha divorato il tempo,[solo] esiste”.

Immaginiamo che siamo un corpo fisico, solo perchéignoriamo o non riusciamo a prestare la dovuta attenzione alnostro vero ed essenziale essere consapevole di sé, e poiché ilcorpo che immaginiamo noi stessi è confinato entro i limiti ditempo e spazio, siamo quindi in effetti inghiottiti dal tempo.Tuttavia, se indaghiamo su noi stessi accuratamente, concentratisul nostro essere essenziale conscio di sé, scopriremo che nonsiamo questo corpo finito, ma siamo solo quella realtà infinita edunque senza tempo, e quindi in effetti divoreremo l'illusione deltempo.

Poiché siamo una realtà infinita, che esiste in tutti i tempi e intutti i luoghi, e poiché nulla può esistere senza o diversodall'infinito, noi solo esistiamo veramente. Pertanto il corpo cheimmaginiamo noi stessi, e il tempo e lo spazio in cui questo corpo

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è confinato, sono tutte semplici apparizioni, e in realtà nonesistono per nulla. Questo è il chiaro significato dell'ultima rigadel verso 16 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', che ho tradotto come: “Noi,senza tempo e senza luogo 'noi', [solo] esistiamo”, ma chepotrebbe anche essere tradotto come: “Noi [solo] esistiamo; iltempo e lo spazio non esistono, [ma solo] noi”.

L'unico modo per noi di sperimentare questa verità che solo noiesistiamo, privi di tutto il tempo e spazio, è quello di esaminare lanostra coscienza di essere, che esiste sempre qui e ora, in questopreciso punto dello spazio e del tempo. Finché continuiamo aoccuparci o pensare a qualcosa nel tempo o nello spazio diversodal preciso momento presente e dal preciso presente luogo,continueremo a perpetuare l'illusione del tempo e dello spazio,l'illusione di essere un corpo, un oggetto confinato entro i limiti ditempo e spazio.

Ma se ci occupiamo solo sia del preciso momento presente osia del preciso luogo presente, che sono in realtà uno stesso punto,non troveremo in loro né tempo e né spazio, nessuna durata oestensione, e quindi nessun pensiero di alcun tipo, ma solo lanostra assolutamente non duale coscienza di essere, 'Io sono', chesta alla base ma trascende ogni tempo, ogni spazio e tutte le formedi pensiero. Se vogliamo individuare il presente preciso momentonel tempo, l'esatto 'ora', o il preciso luogo attuale nello spazio,l'esatto 'qui', dobbiamo guardare dentro noi stessi, al centro onucleo del nostro essere, perché solo lì possiamo trovarel'infinitamente piccolo e sottile punto interno che da sempre ci fasentire che siamo 'qui' e 'ora', non importa in che punto esternonel tempo e nello spazio ci capita di sperimentare noi stessi comeessere.

Quando guardiamo dentro noi stessi, concentrando tutta lanostra attenzione sul nucleo più intimo del nostro essere, la nostramente pensante arriverà a un punto morto, e quindi tutti i nostripensieri cesseranno. I nostri pensieri avvengono tutti all'internodel flusso di tempo e di spazio multidimensionale della nostra

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mente. Se non abbiamo sperimentato il flusso unidimensionale deltempo, il flusso costante della nostra mente dal passato al futuro,non possiamo formare alcun pensiero.

Allo stesso modo, se non abbiamo sperimentato la nostra mentecome uno spazio multidimensionale in cui pensieri di diverso tiposorgono e si dissolvono, non ci sarebbe lo spazio in cui abbiamopotuto formare ogni pensiero. Tuttavia, nel preciso momentopresente non c'è alcun movimento o flusso, e nel preciso presenteluogo non c'è alcuno spazio. L'attuale preciso momento è un puntonel tempo che non ha dimensioni, senza durata, e il preciso postopresente è un punto nello spazio che non ha dimensioni, senzamisura.

Pertanto, né nel preciso momento presente né nel precisopresente posto può essere formato alcun pensiero. Una dimensioneè un modo particolare di misurare o definire l'estensione diqualcosa, così tutto ciò che può essere misurato in qualsiasi modo,tutto ciò che ha una qualsiasi misura definibile, ha dimensione. Iltempo è unidimensionale, perché è un flusso unidirezionale dalpassato al futuro. Lo spazio fisico è tridimensionale, perché haaltezza, larghezza e profondità.

Lo spazio della nostra mente è multidimensionale, perché nonsolo contiene l'unidimensionale flusso del tempo e lo spazio fisicotridimensionale, ma ha anche molte altre dimensioni proprie,come le sue cinque forme di conoscenze sensoriali, le sue diverseforme di conoscenza concettuale, e le sue varie forme diemozione. Inoltre, lo spazio della nostra mente contienedimensioni all'interno di dimensioni.

Ad esempio, la dimensione del gusto ha sei sotto-dimensioni dibase, vale a dire: dolcezza, acidità, salinità, piccantezza, amarezzae astringenza; la dimensione della vista ha diverse sub-dimensionicome il colore, la forma e la distanza; ciascuna dimensione dellaconoscenza concettuale, come il pensiero matematico astratto, hamolte sub-dimensioni. Tutti i molti modi con i quali la nostramente può misurare o definire l'entità di ciò che conosce o

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sperimenta: gli oggetti delle sue percezioni sensoriali, i suoiconcetti, le sue emozioni, e così via, sono dimensioni del suospazio. Tutte le cose che hanno una dimensione si estendonoall'interno di quella dimensione. Il grado per cui ogni cosaparticolare si estende all'interno di qualsiasi dimensioneparticolare, è la misura di quella cosa dentro quella dimensione.

Tranne la nostra fondamentale coscienza del nostro essere, 'Iosono', tutto quello che è conosciuto dalla nostra mente, si estendein una o più delle molte dimensioni che sono esperite da essa.Tutte le forme di conoscenza oggettiva si estendono in una o piùdimensioni. Considerando che tutto ciò che sperimentiamo neltempo e nello spazio si estende nel tempo o nello spazio, o inentrambi, le uniche cose del tempo e dello spazio che non siestendono in una di esse sono il momento presente preciso, 'ora', eil luogo attuale preciso, 'qui'.

Il momento presente preciso non ha durata definibile omisurabile, e l'attuale luogo preciso non ha misura definibile omisurabile. Se una cosa si estende in una dimensione, è confinataentro questi limiti, ma se non si estende in qualsiasi dimensione,non è confinata o limitata in alcun modo. Pertanto, poiché non siestendono in alcuna dimensione, l'attuale luogo preciso e ilmomento presente preciso sono liberi da tutte le limitazioni, equindi sono l'assoluto 'qui' e 'ora'.

Poiché sono ciascuna un punto infinitamente piccolo, possiamoimmaginare che il preciso momento presente e il preciso presenteluogo siamo pertanto limitati. Tuttavia, poiché non esistono in unparticolare punto nel tempo o dello spazio, essi non sonoeffettivamente limitati in alcun modo. Sebbene il presente precisomomento sembri essere un punto infinitesimale nel tempo, non ètuttavia limitato o ristretto da qualsiasi particolare momento,perché ogni punto nel tempo è vissuto come momento presentementre è in corso.

Analogamente, se l'attuale luogo preciso sembra essere uninfinitesimale punto nello spazio, non è tuttavia limitato o ristretto

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da un qualsiasi particolare punto nello spazio, perché molti puntinello spazio sono vissuti come l'attuale luogo in un momento o inun altro. Poiché il momento presente preciso esiste in ognimomento, e l'attuale luogo preciso esiste in diversi punti nellospazio in diversi punti del tempo, nessuno di loro può esseredefinito o delimitato come esistente in un solo punto. Non appenasi cerca di definire la loro posizione nel tempo o nello spazio, iltempo è già passato e la nostra definizione non sarà più valida.

Anche se il momento presente preciso e il presente luogopreciso appaiono esistere entro le dimensioni del tempo e dellospazio, in nessun momento la loro esatta posizione all'interno diquelle dimensioni può essere definita o conosciuta, perché inverità esistono di là dai limiti di tempo e spazio. Se vogliamoscoprire la loro esatta posizione, non possiamo farlo, cercandoverso l'esterno, verso le dimensioni oggettive di tempo e spazio,ma solo guardando dentro noi stessi, verso la profondità piùintima del nostro essere, verso il cuore della nostra coscienza,verso il punto preciso dentro di noi, dove ci sentiamo 'Io sono', 'Iosono qui e ora'.

Il momento attuale preciso e il presente luogo preciso, nonpossono essere situati in qualsiasi punto esatto nelle dimensionioggettive di tempo e spazio perché non sono punti oggettivi, masono esperienze soggettive. Pertanto, se sembrano toccare ledimensioni oggettive di tempo e spazio, la loro esistenza non èlimitata o ristretta da qualsiasi punto fisso o chiaramentedistinguibile all'interno di quelle dimensioni. Poiché sono il puntoin cui sperimentiamo la nostra coscienza di essere senza tempo esenza luogo, 'Io sono', che sembra esistere nelle dimensioniimmaginarie di tempo e spazio, sono il punto in cui l'eternoincontra il temporale, l'infinito incontra il finito e l'assolutoincontra il relativo.

Anche se il tempo è sempre in movimento, e ogni momentoche passa un nuovo momento diventa il momento presente, e unnuovo punto nello spazio diventa il luogo presente, il momento

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presente preciso e il preciso attuale posto non si muove o subiscealcun cambiamento reale. Tranne questi due punti precisi, tutto neltempo e nello spazio è in continuo movimento e in fase dicambiamento. Il momento presente preciso rimane immobile einvariato per tutto il tempo, e l'attuale luogo preciso restaimmobile e invariato, non importa in quale punto dello spazio puòessere sperimentato. Anche se tutti i momenti nel tempo sembranofluire attraverso il momento presente, nel momento presentepreciso non avviene alcun flusso o movimento di qualsiasi tipo,perché il movimento richiede una dimensione in cui muoversi.Allo stesso modo, anche se molti posti nello spazio sembranomuoversi qui e la per diventare il luogo attuale, nel presente luogopreciso non può esserci nessun movimento, o cambiamento diqualsiasi tipo, perché il cambiamento richiede una dimensione incui si verifichi. Una cosa si può dire che cambia solo se può primaessere definita in qualche modo, perché solo una cosa definibile odefinita può subire un definibile o definito cambiamento.

Di conseguenza, poiché una definizione è una forma dimisurazione o valutazione che può essere fatta solo conriferimento ad una dimensione, un punto privo di dimensione nonpuò essere definito o delimitato in alcun modo, e, quindi, non puòsubire modifiche definibili. Pertanto, essendo completamente prividi dimensioni, estensioni, limitazioni definizioni, cambiamenti emovimento, il preciso punto presente nel tempo e il preciso puntopresente nello spazio sono assoluti. Anche se tutto il resto esisterelativo solo a loro, il preciso momento presente e il precisopresente posto non riguardano qualsiasi altra cosa, perché esistonoindipendentemente e restano non toccati dal flusso del tempo o daqualsiasi movimento che avviene nello spazio.

Il 'qui' e 'ora', che sembrano estendersi nello spazio o neltempo, che appaiono misurabili e definibili, sono solo i relativi'qui' e 'ora'. La nostra concezione di ciò che costituisce ilmomento presente, 'ora', e il presente posto, 'qui', non è fissa, mavaria secondo il contesto. Per esempio, quando diciamo 'ora',

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possiamo dire: questo istante, in questo momento, o un più grandeperiodo presente come oggi, o potremo estendere il suo significatoanche oltre il significato di oggi, in questo periodo nella nostravita o della storia. Allo stesso modo, quando diciamo 'qui',potremmo dire questa parte esatta di spazio che è ora occupato dalnostro corpo, o un punto particolare all'interno del nostro corpo, oqualsiasi punto che è vicino al nostro corpo, o potremmoestendere il suo significato a significare la stanza, la casa, la cittào il paese in cui ora viviamo.

Tutti gli usi delle parole 'qui' e 'ora' sono relativi. Qualsiasiforma relativa di 'ora' si estende nel tempo, e ogni forma relativadi 'qui' si estende nello spazio, e quindi possono essere misurati.Tuttavia, il momento presente preciso e l'attuale luogo precisosono punti nel tempo e nello spazio che non hanno limiti, e chequindi non possono essere misurati. Come abbiamo visto inprecedenza, il momento presente preciso è il confineincommensurabilmente sottile o interfaccia tra il passato e ilfuturo.

Dove il passato finisce, comincia il futuro, quindi l'interfacciatra essi è un punto infinitamente fine che non ha alcuna misura oestensione. Analogamente, il preciso attuale posto è il puntoincommensurabilmente sottile che esiste nel centro della nostrapercezione dello spazio.

Poiché sono entrambi infinitamente fini e sottili, e quindi nonlimitati all'interno di ogni dimensione, il preciso momentopresente e il preciso presente posto non sono relativi, ma sono'l'assoluto qui e ora'. Dato che il movimento e il cambiamento nonpuò avvenire all'interno di un punto infinitamente fino e quindiadimensionale, e poiché la formazione del pensiero coinvolge ilmovimento e il cambiamento, nessun pensiero può essere formataall'interno sia del preciso presente momento o del preciso luogopresente, e quindi il punto preciso presente nel tempo e nellospazio è la dimora esclusiva del nostro essere cosciente di se, 'Iosono'.

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Anche se si parla del momento presente preciso e del presenteluogo preciso come se fossero due cose diverse, sembrano esserediversi solo dal punto di vista limitato della nostra mente finita. Ladifferenza tra loro è quindi meramente concettuale. In realtà sonouna stessa cosa. Il momento presente preciso e il presente luogopreciso, sono il singolo punto in cui il tempo e lo spazios'incontrano e diventano uno. Questo singolo punto, nel qualetutte le dimensioni s'incontrano, è di per sé privo di qualsiasidimensione. Sebbene le dimensioni che s'incontrano e diventanouno in esso siano tutte relative, questo singolo, non duale puntoadimensionale è di per sé privo di ogni forma di relatività. Tuttociò che è contenuto al suo interno è la nostra mera coscienza delnostro essere, 'Io sono'.

Ma occorre anche dire che questo non sia del tutto corretto.Esso non si limita a contenere la coscienza essenziale del nostroessere, è sinonimo di essa. L'essenziale non duale coscienza delnostro essere, 'Io sono', è di per sé 'l'assoluto qui e ora', il luogopreciso presente e il presente preciso momento. Poiché questopunto assoluto non ha dimensioni, non può essere misurato inalcun modo. Non è quindi solo infinitamente piccolo, ma ancheinfinitamente vasto. Cioè, poiché è assoluto, è privo di tutte lelimitazioni, e quindi non è limitato come solo il più piccolo, ma èanche il più grande, l'infinito tutto che contiene ogni cosa.

È sia ciò che è contenuto all'interno di ogni cosa, sia ciòall'interno del quale tutto è contenuto. Ogni cosa, tutto il tempo etutto lo spazio, e tutto ciò che è contenuto nel tempo e nellospazio, è solo una forma di conoscenza, un concetto o unapercezione, e quindi è tutto ciò che è contenuto all'interno dellacoscienza. E poiché nessuna forma di conoscenza può esisteresenza la coscienza sottostante, la coscienza non contiene solotutto, ma è anche contenuta in tutto. In realtà, la coscienza è unasostanza fondamentale di cui tutte le cose sono fatte.

Pertanto, poiché tutte le forme di conoscenza sono, in sostanza,solo la nostra coscienza; poiché la nostra coscienza è

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essenzialmente cosciente di sé, cioè, è in sostanza solo lacoscienza del nostro essere; poiché la coscienza del nostro essereè il punto assoluto che sperimentiamo come il preciso luogoattuale, 'qui', e il presente preciso momento, 'ora', questo puntoassoluto contiene tutto ed è contenuto all'interno di tutto. Peressere contenuto all'interno di tutto, quest'assoluto punto deveessere infinitamente piccolo, e al fine di contenere tutto, deveessere infinitamente grande.

Poiché ciò che è infinitamente piccolo, non contiene nulla, senon il nostro essenziale essere cosciente di se, 'Io sono', ma comeciò che è infinitamente grande, contiene tutto, la totalità di tutte lenostre conoscenze, sia la nostra vera conoscenza che la nostrafalsa conoscenza. Tutto ciò che è noto è in ultima analisi noto solonel momento presente preciso, 'ora', e nell'attuale preciso luogo,'qui', nel presente assoluto, che è il nostro essere sempre presentecosciente di sé 'Io sono', e che è l'unico punto nel tempo e nellospazio che esiste veramente.

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Capitolo 8

La Scienza della Coscienza

Una scienza è un mezzo per acquisire valide conoscenze,conoscenze che possono essere verificate in maniera indipendente.Ma qual è la corretta definizione di valida conoscenza? Èconoscenza valida solo per il fatto che essa può essereindipendentemente verificata, o c'è qualche altro standard piùsevero con il quale possiamo misurare la validità di qualsiasiconoscenza? Come abbiamo visto nei capitoli cinque e sei, ci sonodue forme di valida conoscenza, la conoscenza che èrelativamente valido e la conoscenza che è assolutamente valida.

Di conseguenza, ci sono anche due forme di scienza, la scienzarelativa e la scienza assoluta. Tranne la scienza spirituale, che è lascienza della vera conoscenza di sé o coscienza, tutte le forme discienza sono scienze relative, perché la conoscenza che cercano diacquisire è solo relativamente valida. Dal punto di vista relativodella nostra vita come individuo in questo mondo materiale, laconoscenza richiesta e acquisita dai vari rami della scienzaoggettiva può essere valida e utile ma tale conoscenza non èassolutamente vera.

Non è valida e vera in tutte le circostanze e in tutte lecondizioni o stati. Le leggi della scienza che sperimentiamo comevere in questo stato di veglia, possono essere vissute come false insogno. In sogno, per esempio, a volte siamo in grado di sfidare lalegge di gravità volando. La legge della gravità, che èinnegabilmente valida secondo la nostra esperienza in questo statodi veglia, non sempre è ugualmente valida in sogno. Tutte lenostre cosiddette conoscenze scientifiche, sebbene valide secondola nostra esperienza in questo stato di veglia, non sono validesecondo la nostra esperienza nel sonno {profondo}.

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Infatti, la nostra esperienza nel sonno mette in discussione lavalidità di tutta la nostra conoscenza ed esperienza in questo statodi veglia. Anche se possiamo essere in grado di verificare in modoindipendente la validità della nostra conoscenza scientifica inquesto stato di veglia, nel sonno {profondo}, nessuno di noi puòverificare neanche l'esistenza di questo mondo. In questo stato diveglia supponiamo che questo mondo esisteva mentre eravamoaddormentati, ma non abbiamo i mezzi attraverso i quali poterverificare in modo indipendente la validità di questa ipotesi.

Per verificare, dobbiamo dipendere dalla testimonianza di altrepersone che affermano di essere state sveglie mentre eravamoaddormentati, ma quelle altre persone fanno parte del mondo lacui esistenza vogliamo verificare e quindi non possono esseretestimoni indipendenti. Alcuni filosofi ritengono che se gran partedella nostra conoscenza riguardo a questo mondo è relativa, lanostra conoscenza delle leggi della matematica è assoluta.

Essi credono che poiché due più due fa quattro in ognicircostanza e in tutte le condizioni, deve essere una veritàassoluta. Tuttavia, il loro presupposto che è vero in tutte lecircostanze e in tutte le condizioni non è corretto, in quantodipende dalla condizione evidente dell'esistenza del due. Nelsonno non sperimentiamo l'esistenza del due, quindi nessuna delleleggi della matematica è valida in questo stato.

La matematica è una scienza della dualità e molteplicità, ecome tale è intrinsecamente relativa. È relativa principalmente perla nostra mente e per il suo potere d'immaginazione, perché soloquando la nostra mente immagina l'esistenza di altri numeri oltrel'uno le leggi della matematica vengono in esistenza. Tutta lanostra conoscenza della dualità è relativa, e quindi anche se puòessere relativamente valida, non è assolutamente valida.

L'unica conoscenza che possiamo considerare essereassolutamente valida e vera è una conoscenza che è perfettamentenon duale, cioè, una conoscenza che conosce solo se stessa e che èconosciuta solo da se stessa. Ogni conoscenza che è conosciuta da

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una coscienza diversa da se stessa implica necessariamente ladualità, la distinzione e la relatività. Pertanto l'unica scienza chepotrebbe essere assolutamente vera e valida è la scienza dellacoscienza, o più precisamente, la scienza della coscienza di sé.

Che cosa è la coscienza? È il nostro potere di conoscere, o ilnostro potere per conoscere. O per essere più precisi, è il poteredentro di noi che conosce. Tuttavia, poiché chi conosce siamosoltanto noi stessi, la nostra coscienza non è qualcosa di diversoda noi stessi, ma è il nostro stesso essere o essenza. Di tutte lecose che conosciamo, la prima è il nostro essere, che abbiamosempre conosciuto come 'Io sono'. Tutte le nostre altre conoscenzevanno e vengono, ma questa prima e più elementare conoscenza'Io sono' non viene né va, ma è vissuta da noi costantemente, intutti i tempi e in tutti gli stati.

Così la nostra stessa natura come coscienza è conoscere noistessi. La coscienza è sempre cosciente di sé, e non può non essereconsapevole di sé: cioè, del proprio essere essenziale o lo stato di'am-ness' {lo stato 'Io sono'}. La forma originale e primaria dellanostra coscienza è quindi la nostra coscienza di sé 'Io sono'. Siache la nostra coscienza conosca o no altre cose, conosce sempre sestessa. In ogni conoscenza che sperimenta, la sua conoscenza dibase 'Io sono' è mista. Cioè, la nostra coscienza sperimenta tutta lasua conoscenza di qualcosa di diverso da se stessa come 'stoconoscendo questo'. Mentre essa si conosce solo come 'Io sono',conosce altre cose come 'sto conoscendo questo'. Tuttavia,sebbene si conosca sempre come 'Io sono', quando conosce altrecose oltre a se stessa, sembra ignorare o trascurare le proprieconoscenze di base 'Io sono', e dare risalto invece a qualsiasi altracosa sta conoscendo.

Anche se la nostra coscienza a volte sembra conoscere le cosediverse da sé, la sua conoscenza di queste altre cose è solotemporanea, e quindi la conoscenza dell'alterità non è una parteessenziale del suo essere. Nel sonno profondo conosciamo ciò chesiamo, ma non sappiamo nient'altro, così la nostra conoscenza

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dell'alterità è estranea alla nostra coscienza essenziale del nostroessere.

Poiché la coscienza del nostro essere è permanente, mentre lanostra coscienza dell'alterità è temporanea, vi è una chiaradistinzione tra queste due forme della nostra coscienza. La prima èla nostra fondamentale coscienza, mentre la seconda è un meroaggiunto {forma} che è temporaneamente sovrapposto su di essa.Quest'aggiunta temporanea, che sorge dalla nostra essenziale nonduale coscienza del nostro essere come una coscienza dualisticadell'alterità, e che sembra quindi sovrapposta e intimamentemescolata con la nostra coscienza essenziale è la forma dicoscienza relativa e limitata che chiamiamo la nostra 'mente'.

Per conoscere altre cose oltre se stessa, la nostra mente develimitarsi. Ma come può la coscienza limitare stessa? Solo ciò cheha una misura definibile e misurabile è limitato. Poiché lacoscienza non ha confini, non ha tale misura definibile, quindi èillimitata. Una limitazione di qualsiasi genere richiede una o piùdimensioni all'interno della quale si possono fissare dei limitidefiniti. Ma la coscienza non è confinata all'interno di qualsiasidimensione, e quindi non ha limiti che potrebbero limitarla inalcun modo.

Poiché tutte le dimensioni, i confini, i limiti e le estensionisono concetti o pensieri che sono conosciuti solo dalla nostramente dopo che è sorta per conoscere l'alterità, queste sonocontenute solo nella nostra mente e non hanno esistenzaindipendente da essa. Come fa la nostra mente a limitarsiall'interno di qualsiasi limite? La nostra mente si limitaimmaginandosi di essere uno degli oggetti che conosce. Cioè,prima s'immagina di essere una forma, e solo allora conosce leforme di altre cose. Una forma è tutto ciò che è contenutoall'interno di confini, e che quindi ha una misura definibile in unao più dimensioni.

Ogni cosa finita ha una forma di un tipo o di un altro, perchéuna cosa senza forma sarebbe senza limiti e sarebbe quindi

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infinita. Tutto ciò che conosciamo come diverso da noi stessi èuna forma. I nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostreemozioni, le nostre percezioni e tutte le altre cose che sonoconosciute dalla nostra mente sono forme, tranne naturalmente lacoscienza essenziale del nostro essere, che è senza forma e quindiinfinito.

La forma che la nostra mente immagina di essere, è il nostrocorpo fisico, attraverso i cinque sensi di questo, percepisce unmondo di oggetti e di altri corpi. La nostra mente non puòfunzionare o conoscere qualcosa di diverso dal proprio esseresenza prima immaginarsi di essere la forma di un corpo fisico. Lanostra identificazione con il nostro corpo fisico è così forte cheimmaginiamo che anche i nostri pensieri si verificano soloall'interno del nostro corpo.

Cioè, sperimentiamo le forme più grossolane dei nostripensieri, come le nostre percezioni, i nostri concetti, le nostreimmaginazioni visualizzate e i nostri pensieri verbalizzati, comese tutti si verificassero da qualche parte all'interno della nostratesta, e sperimentiamo le più sottili forme dei nostri pensieri,come i nostri sentimenti e le emozioni, come se si verificassero daqualche parte nel nostro petto.

Qualunque sia il corpo che immaginiamo di essere noi stessi,sia il nostro attuale corpo in questo stato di veglia o qualche altrocorpo in uno dei nostri sogni, sempre immaginiamo che tutta lanostra attività mentale stia avvenendo all'interno di esso, e che ilmondo che percepiamo attraverso i suoi cinque sensi esista al difuori di esso. In sogno ci illudiamo di essere un altro corpo, maabbiamo ancora la sensazione che tutta la nostra attività mentale èavvenuta in quel corpo, e che il mondo che percepiamo attraversoi suoi cinque sensi esiste al di fuori di esso.

Tuttavia, anche se sperimentiamo i nostri pensieri come sestessero accadendo all'interno del corpo che attualmenteerroneamente consideriamo noi stessi, li sentiamo essere diversida noi stessi. Avendo limitata la nostra coscienza confondendo noi

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stessi come questo corpo finito, sperimentiamo tutto ciò checonosciamo come se fosse diverso da noi stessi.

Con il nostro atto di limitare noi stessi all'interno dei confini diuna forma particolare, siamo in grado di conoscere tutte le altreforme come diverse da noi stessi. In realtà, però, il nostro corpo, inostri pensieri e tutti gli altri oggetti che conosciamo sono soloimmagini che appaiono e scompaiono nella nostra coscienza, equindi non hanno realtà sostanziale altro che nella nostracoscienza. Cioè, tutte le forme che conosciamo sono solomodificazioni che si verificano nella nostra coscienza, come leonde sulla superficie del mare.

Così come l'acqua del mare è l'unica sostanza di cui sonoformate tutte le onde, così la nostra coscienza è l'unica sostanza dicui tutte le cose conosciute da noi sono formate. Poiché ciinganniamo considerando di essere questo corpo, immaginiamoche sia i pensieri che sembrano avvenire all'interno di esso e glioggetti che sembrano esistere al di fuori di esso siano tutte cosediverse da noi stessi. Tuttavia, anche se è assurdo per noiimmaginare che una qualsiasi di queste cose, che conosciamo soloall'interno della nostra mente, siano in realtà diverse da noi stessi,questo è meno assurdo della confusa immaginazione che abbiamoriguardo a questo corpo, che scambiamo per essere noi stessi.

Anche se sperimentiamo questo corpo come se fosse noi stessi,e come se fossimo limitati entro i confini della sua forma, però losperimentiamo come un oggetto. Parliamo delle mie braccia, lemani, le gambe, la testa e anche il mio corpo, come se fossero inostri beni, ma allo stesso tempo li scambiamo come noi stessi. Laconoscenza sulla nostra identità esatta è confusa e poco chiaraperché, sebbene scambiamo la forma di questo corpo per il nostrosé, continuiamo ancora a sapere di essere la coscienza. Poichéquesto corpo e la nostra mente, che erroneamente consideriamoessere 'Io', sono in realtà vissuti da noi come due cose diverse,non siamo sicuri di chi è davvero noi stessi.

Quando diciamo 'il mio corpo', stiamo identificando noi stessi

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con la nostra mente, che conosce questo corpo come un oggetto.Ma a volte diciamo anche 'la mia mente', come se la nostra mentefosse qualcosa di distinto da noi stessi. Poiché sappiamo di esserela coscienza, che è in realtà infinita, ma allo stesso tempoimmaginiamo noi stessi essere un corpo, che è finito, siamoperennemente confusi circa la nostra vera identità.

Tuttavia, come risultato di questo confusione ci sentiamo diessere qualcosa di limitato, e quindi siamo in grado di conoscerele cose come diverse da noi stessi. La nostra mente è in realtànient'altro che la nostra coscienza essenziale 'Io sono', che è senzaforma e quindi infinita, indivisa e non duale. Quindi, poiché èinfinita, non c'è veramente nient'altro da conoscere che essasoltanto. Tuttavia immaginandosi una forma finita, è in grado diconoscere altre forme come se fossero veramente altro da sé.Pertanto, la nostra mente è in grado di conoscere altre cose oltre sestessa solo illudendosi di essere qualcosa che non è: qualcosa chein realtà è solo un prodotto della propria auto ingannante potenteimmaginazione.

Nulla di ciò che sperimentiamo in un sogno è in realtà diversoda noi stessi, ma immaginando noi stessi di essere una delle formeimmaginarie che sperimentiamo in quel sogno, si sperimentanotutte le altre forme di quel sogno come se fossero diverse da noistessi. Tutta la dualità o molteplicità che la nostra mente sembravivere è quindi solo un prodotto del suo potere auto-illusorio diimmaginazione, e sperimenta tutti i molteplici prodotti della suaimmaginazione solo credendo di essere uno tra di loro. Pertanto,sebbene la nostra mente è reale come la nostra coscienzaessenziale e non duale di essere, come coscienza che conoscel'alterità è solo un parto della sua immaginazione, ed è quindi nonreale.

Usiamo il termine 'mente' per riferirci alla nostra coscienzasolo quando sembra conoscere l'alterità. Quando smette diconoscere qualsiasi alterità, cessa di essere un'entità separata efinita, e quindi rimane come nostra coscienza infinita 'Io sono',

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che in realtà è sempre. Come la nostra vera coscienza infinita,conosce solo se stessa, ma come nostra 'mente' s'immagina diconoscere altre cose ed è così illusa. Come mente non possiamomai raggiungere la vera conoscenza del sé, perché, come mentepossiamo conoscere solo la nostra coscienza 'Io sono' mescolatocon l'immaginaria conoscenza dell'alterità.

Cioè, come la nostra mente il nostro potere di attenzione, che èun altro nome per il nostro potere di conoscere o coscienza, ècostantemente diretto verso le altre cose, ed è quindi deviatolontano da noi stessi, dal nostro essere essenziale, 'Io sono'.Pertanto, se vogliamo raggiungere la vera conoscenza, nonpossiamo farlo attraverso il mezzo della nostra mente. Dobbiamospostare il nostro potere di attenzione, che abbiamo fino ad oracostantemente diretto verso l'esterno attraverso i mezzi dellanostra mente e dei suoi cinque sensi, lontano dalla nostra mente eda tutti i suoi pensieri, su se stesso, verso la nostra vera coscienza'Io sono'.

Tuttavia, quando lo facciamo ci sono probabilità di scoprire cheinizialmente non siamo in grado di focalizzare la nostra attenzioneinteramente ed esclusivamente sulla nostra estremamente sottilecoscienza di essere, 'Io sono', perché il nostro potere di attenzioneè diventato grossolano e non raffinato grazie alla nostra costanteabitudine di frequentare solo i nostri pensieri. Solo tentandoripetutamente di focalizzare la nostra attenzione interamente edesclusivamente sulla nostra coscienza essenziale 'Io sono'gradualmente guadagneremo l'abilità necessaria per farlo.

Solo la pratica può renderla perfetta. Con la pratica reiterata epersistente di spostare l'attenzione su sé stessi per scoprire ciò chequesta coscienza 'Io sono' è davvero, gradualmente affineremo ilnostro potere di attenzione, rendendolo più sottile, chiaro epenetrante, e quindi otterremo una costante crescente chiarezzadella conoscenza della vera natura infinita e non duale della nostracoscienza 'Io sono'. Infine, quando il potere di attenzione è statoperfettamente depurato o raffinato, cioè, quando è stato liberato

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dal suo presente forte attaccamento a badare solo a pensieri eoggetti, saremo in grado di conoscere con perfetta chiarezza lanostra coscienza essenziale 'Io sono' come è davvero, priva dellaanche minima sovrapposizione di qualsiasi limitazione oidentificazione con qualsiasi altra cosa.

Questa pratica empirica di attenzione al sé, analisi del se,esame del se o auto-indagine è il metodo sperimentale dellascienza della coscienza. L'unico mezzo pratico attraverso il qualepossiamo scoprire la vera natura della coscienza è di rivolgere lanostra attenzione verso di essa. Poiché la coscienza non può essereconosciuta come un oggetto, ma solo come il nostro séconoscitore, la ricerca scientifica sulla coscienza deve pertantoconsistere nel nostro scrutare la nostra coscienza con una potenzadi attenzione accurata, focalizzata e concentrata.

Fatta eccezione per tale attenzione al sé o esame del sé, nonpossiamo in alcun altro modo raggiungere la conoscenza diretta oesperienza della nostra vera coscienza 'Io sono' come realmente è,priva di qualsiasi sovrapposizione immaginaria o limitazione. Lacoscienza 'Io sono' non è una cosa sconosciuta che dobbiamoancora scoprire, perché anche ora tutti noi ben conosciamo 'Iosono'. Tuttavia, sebbene conosciamo 'Io sono', non lo conosciamocome realmente è.

Lo conosciamo in una forma limitata e distorta a causa dellefalse aggiunte che abbiamo sovrapposto su di esso col nostropotere d'immaginazione. Lo conosciamo ingannandoci con 'iosono questo corpo, sono una persona chiamata così e così, stoseduto qui, sto leggendo questo libro, io sto pensando alle ideediscusse in esso' e così via e così via ancora. Tutte queste aggiunteche stiamo costantemente sovrapponendo alla nostra coscienza 'Iosono' ci impediscono di sapere come realmente è.

Pertanto per conoscere come è, dobbiamo guardare oltre tuttequeste aggiunte alla coscienza di base che le sottende. Quandoesaminiamo la nostra coscienza di base 'Io sono' con un potere diattenzione accurato e penetrante, tutte queste false aggiunte si

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dissolveranno o spariranno, e così sapremo com'è davvero. Anchese parliamo della vera coscienza 'Io sono' e della nostra irrealecoscienza 'io sono questo corpo', queste non sono, di fatto, duediverse coscienze, ma sono soltanto due forme della stessacoscienza, l'unica e sola coscienza che esiste.

La vera forma della coscienza è solo la nostra pura non dualecoscienza del nostro essere, 'Io sono'. La nostra mente, lacoscienza mista o impura 'io sono questo corpo', tramite cui ognidualità è conosciuta, è semplicemente una forma falsa, distorta eillusoria della nostra unica vera coscienza 'Io sono'. Quandoconosce solo se stessa, la nostra unica vera coscienza brilla com'è,priva di tutte le false aggiunte, ma quando col suo potered'immaginazione essa conosce cose diverse da sé, questa stessacoscienza reale appare come la nostra mente.

Questa vera coscienza 'Io sono' è il nostro vero sé. Pertanto,quando rimaniamo come siamo realmente, conoscendo solo noistessi, siamo la vera non duale coscienza 'Io sono', ma quandorivolgiamo la nostra coscienza o il potere di attenzione da noistessi verso il mondo immaginario dei pensieri, apparentementediventiamo questa mente. Quindi in realtà la nostra mente non èaltro che la nostra non duale reale coscienza 'Io sono', propriocome il serpente che si sovrappone a causa della nostraimmaginazione su una corda è in realtà solo quella corda. La suaesistenza apparentemente separata e limitata come 'mente' è soloun'illusione causata dalla nostra mancanza di una chiaraconoscenza di sé, proprio come il serpente è solo un'illusionecausata dalla mancanza di una chiara luce.

Quando brilla una chiara luce sulla corda e così possiamodistintamente vederla per quello che è, non ci potremo piùsbagliare ritenendola un serpente. Allo stesso modo, quandoilluminiamo con la chiara luce della nostra attenzioneintensamente focalizzata la nostra coscienza 'Io sono' e in talmodo la conosciamo distintamente come è, non potremo mai piùin seguito scambiarla per essere ciò che non è: nessuna delle

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aggiunte aliene con le quali l'abbiamo precedentemente definita.Poiché la nostra mente non è dunque altro che la nostra non

duale coscienza reale 'Io sono', tutto quello che si deve fare perconoscere questa coscienza è quello di rivolgere la sua attenzioneindietro su se stessa, via da tutte le altre cose. Tuttavia, quando losi fa, cessa di essere la limitata coscienza individuale chechiamiamo 'mente', e diventa invece l'illimitata vera coscienza 'Iosono', che in realtà sempre è stata e sempre sarà. Pertanto, ciò checonosce la nostra vera coscienza 'Io sono' non è la nostra mente,ma soltanto questa stessa coscienza.

Negli ultimi anni un rinnovato interesse per la coscienza è sortoin un piccolo gruppo di scienziati e filosofi accademici. La'scienza della coscienza', com'è nota, è ormai un ramoriconosciuto anche se ancora molto minore della scienza moderna.Tuttavia è più comunemente denominato 'studi della coscienza',perché è considerato un campo di studio interdisciplinare checoinvolge contributi dalla filosofia, psicologia, neuroscienze ealtre discipline affini.

Anche se questi moderni 'studi sulla coscienza' a voltedescrivono se stessi come la 'scienza della coscienza', o almenodicono che sono un tentativo di andare verso una 'scienza dellacoscienza', non dovrebbero essere confusi con la vera scienzadella coscienza che stiamo discutendo qui; la loro comprensionedella coscienza e i loro metodi di ricerca sono fondamentalmentediversi dalla comprensione chiara e dal semplice metodo di ricercainsegnato da Sri Ramana e da altri saggi.

La radicale differenza tra questi due approcci consiste nel fattoche questi tentativi di 'studi sulla coscienza' provano a studiare lacoscienza oggettivamente, come se fosse un fenomeno oggettivo,mentre i saggi ci insegnano che la coscienza non può maidiventare un oggetto di conoscenza, ma può essere conosciutasolo come la realtà essenziale alla base della nostra mente, che è ilsoggetto che conosce tutti gli oggetti.

In conformità con la domanda fondamentale fatta da tutte le

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moderne scienze oggettive, vale a dire che gli scienziatidovrebbero cercare di acquisire 'la conoscenza oggettiva'(conoscenza che può essere dimostrata e verificataoggettivamente) in ogni campo di studio in cui intraprendonoricerche, gli studi sulla coscienza moderni tentano di adottare unapproccio oggettivo allo studio della coscienza.

Pertanto, poiché nella visione limitata della nostra mente,confinata da un corpo, la nostra coscienza sembra essere centratanel nostro cervello, gli 'studi sulla coscienza' pongono grandepeso agli sforzi della scienza moderna per capire il rapporto tral'attività elettrochimica del cervello e la coscienza, che essiimmaginano risulti da tale attività. Inoltre, poiché generalmenteconsideriamo la coscienza come la coscienza di qualcosa, gli'studi sulla coscienza' si preoccupano molto della cognizionesottostante e della nostra esperienza soggettiva agli stimolisensoriali che ci sembra ricevere dal mondo esterno. In altreparole, l'assunzione di base fatta da filosofi e scienziati che sonocoinvolti in questi studi moderni sulla 'coscienza' è che possiamocomprendere la coscienza cercando di studiarla come unfenomeno oggettivo.

Tuttavia, tutto ciò che è noto come un fenomeno oggettivo èsemplicemente un oggetto della coscienza, e non è la coscienzastessa. Poiché la coscienza è il soggetto che conosce ognifenomeno oggettivo, non può mai da se stessa diventare unoggetto di conoscenza. La coscienza può essere conosciuta ovissuta direttamente solo da se stessa, e non da qualsiasi altracosa. Quindi se cerchiamo di studiare la coscienza come unfenomeno oggettivo, riusciremo solo a studiare qualcosa che non èla coscienza stessa, ma è solo un effetto apparente della coscienza.Se vogliamo veramente studiare la coscienza e capire che cosa èveramente, dobbiamo studiarla dentro di noi, come noi stessi,perché noi stessi siamo la coscienza e qualcosa di diverso da noistessi non è coscienza, ma è solo un oggetto conosciuto da noi.

Finché si sperimentano forme di conoscenza dualistica, cioè,

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qualsiasi conoscenza che coinvolge una distinzione tra soggetto eoggetto, la coscienza sarà sempre il soggetto conoscente e mai unoggetto conosciuto. Pertanto, da tempo immemorabile uno deiprincipi fondamentali dell'advaita vēdānta è sempre stato che, alfine di conoscere la coscienza come è davvero dobbiamodistinguere ciò che conosce da ciò che è conosciuto.

Questo processo, che in sanscrito è spesso conosciuto comedṛg dṛśya vivēka o 'discriminazione tra il vedente e il visto', è unprerequisito fondamentale per essere noi in grado di praticareefficacemente l'auto-indagine. Fino a quando non capiamo questadistinzione fondamentale tra la coscienza e l'oggetto anche piùsottile conosciuto da essa, non saremo in grado di focalizzare lanostra attenzione interamente ed esclusivamente sulla nostracoscienza essenziale, e quindi non saremo in grado di viverlacome realmente è: come la nostra pura e genuina coscienza delnostro essere, che è priva di anche la minima traccia di dualità oalterità.

A meno che gli scienziati moderni siano disposti ad accettarequesto fondamentale, ma molto semplice principio, tutti i lorosforzi per comprendere la coscienza saranno nella direzionesbagliata. Ogni scienziato che immagina di poter comprendere lacoscienza studiando il nostro cervello fisico, la sua attivitàelettrochimica o la sua funzione cognitiva, non è riuscito a capireche tutte queste cose sono semplicemente oggetti che sonoconosciuti dalla coscienza come altro da sé. Il nostro corpo, il suocervello, i numerosi processi biochimici ed elettrochimici che siverificano al suo interno, e il funzionamento dei suoi processicognitivi, sono tutti pensieri o immagini mentali che sorgono nellanostra mente grazie al nostro potere di immaginazione, come èanche l'illusione che la nostra coscienza è centrata nel nostrocervello.

Nell'esperienza effettiva di ognuno di noi, la nostra coscienza èsempre presente ed è ben conosciuta da noi come 'Io sono', anchequando non siamo consapevoli del nostro presente corpo o di

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qualsiasi altro corpo, e anche se il sorgere e il funzionamento dellanostra mente è solo un fenomeno temporaneo, nessun altrofenomeno come un corpo o cervello può mai comparire a menoche la nostra mente sorga per conoscerli.

Pertanto, poiché sperimentiamo la nostra mente ogni volta chesperimentiamo il nostro corpo fisico o qualsiasi altra cosa inquesto mondo materiale, non abbiamo alcun motivo valido percredere o addirittura supporre che l'esistenza di questo mondo hapreceduto l'esistenza della nostra mente, o che la nostra mente èun fenomeno che sorge a causa del funzionamento del nostrocervello. Dato che sperimentiamo la nostra mente anche quandonon sperimentiamo il nostro presente corpo, come in sogno, edanche quando non abbiamo alcuna idea circa il cervello di questocorpo, la nostra mente è qualcosa che è chiaramente distinta siadal nostro corpo che dal nostro cervello. Inoltre, poichésperimentiamo la nostra coscienza, anche quando nonsperimentiamo la nostra mente, il nostro corpo presente oqualsiasi altro organismo, come nel sonno profondo, la nostracoscienza è qualcosa che è chiaramente distinta sia dalla nostramente che dal nostro corpo, e conseguentemente dal cervello inquesto corpo.

Poiché tutto ciò che sappiamo circa il nostro cervello è solo uninsieme di pensieri che sorgono nella nostra mente, non potremomai scoprire sia la vera natura della nostra mente che dellacoscienza di base che la sottende, studiando il funzionamento delnostro cervello. In realtà pensando in ogni modo del nostrocervello o di qualsiasi altro fenomeno oggettivo, stiamo solodeviando la nostra attenzione lontano da noi stessi, cioè, lontanodalla coscienza che cerchiamo di conoscere.

Anche se non sappiamo nulla del nostro cervello, conosciamosempre 'Io sono', così se vogliamo veramente conoscere la veranatura di questa coscienza di base della quale abbiamo esperienzacome 'Io sono', non dobbiamo cercare di conoscere qualcosa circail nostro cervello. Tutto quello che dobbiamo fare è rivolgere la

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nostra attenzione lontano da tutto ciò che è conosciuto da noicome diverso dalla nostra coscienza essenziale, e concentrarciinvece solo sulla nostra coscienza che conosce tutte quelle altrecose. Tuttavia, quando effettivamente rivolgiamo la nostraattenzione verso noi stessi, che noi ora sentiamo di essere unacoscienza che conosce altre cose diverse da noi stessi, scopriremoche il nostro vero sé o coscienza essenziale non è in realtà unacoscienza che conosce qualsiasi altra cosa, ma è solo la puracoscienza di essere, che non conosce nulla di diverso da sé.

Questa pura non duale coscienza del nostro essere è la vera efondamentale coscienza che sottende e sostiene l'apparenzaillusoria della nostra mente, che è la coscienza che conoscel'alterità, proprio come una corda è la realtà che sottende esostiene l'apparenza illusoria di un serpente. Anche se la formache conosce gli oggetti nella quale ora sperimentiamo la nostracoscienza non è la sua vera forma, dobbiamo tuttavia studiarlamolto minuziosamente al fine di scoprire la vera coscienza che lasottende.

Per vedere la corda com'è veramente dobbiamo guardare conmolta attenzione al serpente che sembra essere, così per conoscerela nostra vera coscienza, com'è davvero dobbiamo esaminaremolto attentamente la coscienza conoscitrice di oggetti che orasembra essere. Se invece di guardare attentamente al serpenteapparente, guardiamo tuttavia attentamente a qualsiasi altra cosa,non saremmo in grado di vedere la corda com'è davvero. Allostesso modo, se invece di ispezionare accuratamente la nostrapresente coscienza, che sembra ora conoscere altre cose diverse dasé, facciamo ricerca, per quanto accuratamente, su una qualsiasi diquelle altre cose che sembra conoscere, non saremo in grado diprovare e conoscere la nostra vera coscienza com'è davvero.

Come abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, tutta lascienza è un tentativo fatto dalla nostra mente umana per acquisireconoscenza che sia vera e valida. Pertanto la ricerca piùimportante che ogni scienziato può intraprendere è quella di

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testare la verità e la validità della sua mente, poiché è la coscienzacon cui lui o lei conosce tutte le altre cose. Se non siamo in gradodi verificare la realtà della nostra coscienza conoscente, che è ciòche chiamiamo la nostra 'mente', non saremo mai in grado diverificare la realtà di qualsiasi altra cosa, perché tutte quelle altrecose sono conosciute solo dalla nostra mente.

Pertanto, prima di considerare di intraprendere qualsiasi altraricerca, ogni vero scienziato dovrebbe prima intraprenderericerche sulla propria coscienza. Se non conosciamo il coloredegli occhiali che indossiamo, non saremo in grado di valutare ilcolore di qualsiasi oggetto che vediamo. Allo stesso modo, se nonconosciamo la realtà della nostra mente, che è il mezzo attraversoil quale, conosciamo tutte le altre cose, non saremo in grado digiudicare correttamente la realtà di queste altre cose che ci sembraora di conoscere. Come abbiamo osservato in questo libro, lanostra mente o la coscienza che conosce, è una forma confusa einaffidabile di coscienza.

Come coscienza che conosce gli oggetti finiti, la nostra mentefunziona in sostanza come un potere dell'immaginazione. Trannela coscienza fondamentale del nostro essere, 'Io sono', tutto quelloche sappiamo per mezzo della mente è un prodotto del nostropotere di immaginazione.

Anche se scegliamo di credere che il mondo che ci sembra dipercepire attraverso i nostri cinque sensi è veramente qualcosa cheesiste fuori di noi e che è quindi separato da noi stessi, unacredenza che è in realtà del tutto infondata, non possiamo negareil fatto che questo mondo come lo sperimentiamo nella nostramente non è altro che una serie di pensieri o immagini mentali cheabbiamo formato col nostro potere d'immaginazione. Inoltre, aun'attenta analisi, non solo troviamo che tutte le cose checonosciamo per mezzo della nostra mente sono semplici prodottidella nostra immaginazione, ma troviamo anche che la nostramente stessa è solo un prodotto della nostra immaginazione.

La nostra mente non esiste nel sonno profondo, ma sorge come

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un'immagine nella nostra coscienza, non appena iniziamo asperimentare uno stato di veglia o di sogno. Quando sorge così,sperimentiamo la nostra mente come se fosse noi stessi. Cioè,attraverso il nostro potere d'immaginazione ci sembra di diventarela nostra mente, che è una coscienza conoscente, cioè, unacoscienza che sembra conoscere altre cose differenti da se stessa.

Dato che la nostra mente non è solo un fenomeno transitorio,ma anche un semplice frutto della nostra immaginazione, tutto ciòche possiamo conoscere attraverso di essa è sia un fenomenotransitorio che un parto della nostra immaginazione. Pertanto,qualsiasi conoscenza che possiamo acquisire facendo ricerche suquanto conosciuto dalla nostra mente è immaginario, e non è piùreale di qualsiasi conoscenza che potremmo acquisire facendoricerche su tutto ciò che sperimentiamo in un sogno. Quindi,anche se la conoscenza che acquisiamo facendo ricerca oggettivanel nostro attuale stato di veglia può sembrare abbastanza valida evera, finché sperimentiamo questo stato di veglia, in realtà non èaltro che il frutto della nostra immaginazione, e quindi non ci puòaiutare a conoscere e sperimentare la realtà assoluta che è allabase e trascende ogni immaginazione.

Al fine di sperimentare la realtà assoluta, dobbiamo penetraresotto la nostra mente e sotto tutte le sue creazioni immaginariecercando di conoscere la vera coscienza che la sottende. Poichésiamo la coscienza in cui la nostra mente e tutte le sueimmaginazioni appaiono e scompaiono, noi siamo ciò che sta allabase e quindi trascende ciò. Quindi, per penetrare sotto la nostramente dobbiamo conoscere noi stessi, il nostro vero sé o coscienzafondamentale, che sempre sperimentiamo come 'Io sono';possiamo farlo solo puntando la nostra attenzione interamente edesclusivamente su noi stessi, ritirandoci così da tutti i prodottidella nostra immaginazione.

Solo quando conosciamo così la nostra coscienza essenziale 'Iosono', che è la realtà assoluta alla base della comparsa transitoriadella nostra mente, saremo in grado di giudicare correttamente la

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realtà di tutte le altre cose che conosciamo. Fino ad allora, nondovremmo sprecare il nostro tempo a fare ricerche su qualsiasialtra cosa, ma dovremmo concentrare tutti i nostri sforzi per farela ricerca sulla nostra essenziale coscienza cercando di centrarepersistentemente tutta la nostra attenzione su di essa.

Un'obiezione che i filosofi e gli scienziati spesso sollevano inmerito a questa vera scienza della coscienza è che i suoi risultatinon possono essere dimostrati oggettivamente, e quindi nonpossono essere verificati in modo indipendente. Tuttavia, mentre èvero che non potremo mai dimostrare la realtà assoluta dellacoscienza oggettivamente, non è vero dire che non può essereverificata in modo indipendente. Poiché la coscienza è l'esperienzafondamentale ed essenziale di ognuno di noi, ognuno di noi puòverificare autonomamente la propria realtà per se stesso.

Il vero motivo per cui molte persone, tra cui molti filosofi escienziati, e anche le persone con menti eccezionalmente brillanti,tendono a rifuggire lontano da questa scienza della coscienza odella vera conoscenza di sé, e anche nella maggior parte dei casida tutta la filosofia semplice e razionale che sottende, è che sonotroppo fortemente attaccati alla propria individualità, e a tutte lecose di cui essi godono vivendo per mezzo delle loro menti. Adifferenza di altre filosofie e scienze, che ci permettono dimantenere il nostro sé individuale e tutti i nostri interessipersonali, desideri, attaccamenti, simpatie e antipatie, questafilosofia e questa scienza ci impongono di abbandonare tutto,compresa la nostra mente, o sé individuale.

Fino a quando e se non siamo pronti a cedere il nostro séindividuale e tutto ciò che viene con esso, non saremo in grado diconoscere e rimanere come l'infinita e non duale coscienza, che èil nostro vero sé. Non possiamo mangiare la nostra torta econtinuare ad averla. Dobbiamo scegliere di mantenerla intatta odi mangiarla. Allo stesso modo, dobbiamo scegliere di mantenerela nostra mente o coscienza individuale e tutto ciò che sperimenta,o annientarla consegnandola al fuoco che tutto consuma della vera

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conoscenza di sé.Nel caso di una torta, noi almeno abbiamo una terza opzione,

che è quello di mangiarne una parte di e mantenere il resto intatto,ma nel caso della conoscenza di sé non abbiamo tale opzioneintermedia. Dobbiamo scegliere di immaginare noi stessi di esseretale coscienza finita che chiamiamo 'mente', o di sperimentare noistessi come l'infinita coscienza che siamo veramente. Alcunifilosofi sono affascinati dalla profondità e la potenza di questasemplice filosofia di assoluta non-dualità, ma non sono comunquedisposti a fare il sacrificio personale che è necessario persperimentare la non duale realtà che espone, e quindi si dilettanonel dare lezioni e scrivere libri su di essa, ma evitano di praticareeffettivamente la vera auto-indagine {indagine sul se}, che è ilmezzo empirico con cui è raggiunta la vera non duale conoscenzadi sé.

Tali filosofi sono come una persona che gode guardando unatorta e leggendo di quanto è gustosa e piacevole, ma che non siavventura mai a provarla direttamente. La loro incapacità dimettere in pratica ciò che pensano di aver capito indicachiaramente che non hanno veramente capito la filosofia checercano di spiegare agli altri. Se abbiamo veramente capito questafilosofia, faremo certamente del nostro meglio per metterla inpratica, perché avremo compreso che tale pratica è l'unico mezzoattraverso il quale possiamo ottenere la vera, duratura felicità.

Ognuno di noi può verificare autonomamente la realtà assolutadella nostra coscienza essenziale 'Io sono', ma per farlo dobbiamopagare il prezzo necessario, che purtroppo la maggior parte di noinon è ancora disposto a fare. Il motivo per cui non siamo dispostia farlo è che siamo troppo fortemente attaccati alla nostraindividualità, e non siamo quindi ancora pronti ad arrenderci incambio della felicità perfetta della vera conoscenza di sé. Tuttavia,il nostro aggrapparci così alla nostra individualità è il massimodella stoltezza, perché questa individualità a cui ci aggrappiamocon tanto attaccamento è la causa di tutta la nostra infelicità, e

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l'unico ostacolo che ci impedisce di godere la felicità perfetta cheè la nostra vera natura.

Come Sri Ramana diceva, la nostra indisponibilità adabbandonare la nostra finita coscienza individuale insieme a tuttigli insignificanti piaceri e dolori che costantemente viviamo,quando in cambio di essi possiamo diventare la vera coscienzainfinita, che è la pienezza della felicità perfetta, è come non esseredisposti a dare una moneta di rame in cambio di una d'oro.Tuttavia, anche se non siamo ancora del tutto disposti a cedere lanostra individualità qui e ora, se abbiamo almeno capito chequesto è qualcosa che dobbiamo fare per essere in grado disperimentare la vera conoscenza del sé, che è lo stato di suprema eassoluta felicità, dovremmo non essere scoraggiati e si dovrebbepersistere nei tentativi di concentrare la nostra attenzione sullacoscienza fondamentale di essere.

Poiché la nostra coscienza di essere è l'ultima 'luce', la lucedalla quale tutte le altre luci sono illuminate o conosciute, è lafonte della perfetta chiarezza. Pertanto, più concentriamo la nostraattenzione su di essa, più susciterà nella nostra mente unachiarezza interiore profonda, e questa chiarezza della coscienza disé ci permetterà di discriminare e veramente capire che la verafelicità può essere sperimentata solo nello stato di 'solo essere',cioè, lo stato in cui rimaniamo solo come semplice non dualeessenza o 'Io sono' che sempre realmente siamo.

Quando discriminiamo e comprendiamo questa verità con laprofonda chiarezza della coscienza di sé, saremo consumatidall'amore assoluto di conoscere e di essere la realtà che siamosempre, e così non faremo fatica ad abbandonare il nostro falso séindividuale e unirci per sempre nella coscienza infinita che è ilnostro vero sé.

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Capitolo 9

Investigazione del Sé e Abbandono di sé

Sri Ramana dice spesso che ci sono solo due mezzi con cuipossiamo raggiungere l'esperienza della vera conoscenza di sé,vale a dire l'indagine del se e l'abbandono di sé. Tuttavia, ha anchedetto che questi due mezzi o 'percorsi spirituali' sono veramenteuno solo in essenza.

Cioè, anche se sono descritti con diverse parole, nella loropratica sono identici. Che cosa sono esattamente questi due mezzio percorsi, come sono uno solo in essenza; qual è la loro unicaessenza, e perché ha descritto la loro essenza in questi due modidiversi? Secondo l'antica filosofia del vēdānta, ci sono quattropercorsi che portano alla emancipazione spirituale, vale a dire il'percorso di azione [senza desideri]' o 'karma mārga', la 'via delladevozione' o 'bhakti mārga', il 'percorso dell'unione' o 'yōgamārga', e il 'percorso del conoscere' o 'jñāna mārga.

Di questi quattro percorsi, il secondo e il quarto sono il mezzoprincipale, mentre il primo e il terzo sono gli aspetti puramentesussidiari di questi due mezzi principali. In altre parole, tutti i varitipi di pratica spirituale o 'percorso' possono, in sostanza, essereridotti a questi due principali sentieri, il 'percorso dellaconoscenza' e il 'percorso della devozione'. Se un'eventualepratica non contiene un elemento di uno o di entrambe queste duestrade, non ci può portare allo stato di emancipazione spirituale: lostato in cui siamo liberati dalla schiavitù dell'esistenza finita.

Per esprimere la stessa verità in modo più semplice, possiamoottenere l'emancipazione spirituale o 'salvezza' solosperimentando l'autentica conoscenza di sé; che vuol dire,conoscendo di essere solo lo spirito o coscienza reale e infinita 'Iosono', e non questo individuo irreale e finito che immaginiamo di

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essere. Per conoscere noi stessi come la realtà assoluta, dobbiamoessere consumati da un intenso amore per il nostro essereessenziale, perché se non siamo consumati da tale amore, nonsaremo disposti a cedere il nostro falso sé individuale, che orateniamo più caro di ogni altra cosa. In altre parole, al fine diraggiungere l'emancipazione spirituale, dobbiamo conoscere ilnostro essere essenziale, e per conoscere il nostro essereessenziale, dobbiamo amarlo.

Così 'conoscenza' e 'amore' o devozione sono i due strumentiessenziali con cui possiamo raggiungere l'emancipazione dallanostra presente illusione di essere un individuo finito. Quanto piùamiamo il nostro essere essenziale, tanta più attenzione glidaremo, e più ci occupiamo di esso, più chiaramente loconosceremo. Viceversa, più chiaramente conosciamo il nostroessere essenziale, tanto più lo ameremo, perché è la vera fonte diogni felicità. Così l'amore e la conoscenza si danno la mano,ciascuno alimenta l'altro. Non possiamo conoscere senza amare, enon possiamo amare senza conoscere.

Quindi il 'percorso di conoscenza' e il 'percorso di amare' odevozione non sono due mezzi alternativi, ma sono solo dueaspetti dell'unico e solo mezzo attraverso il quale possiamoritrovare il nostro stato naturale di essere assoluto. I due mezzi perraggiungere la vera conoscenza di sé insegnati da Sri Ramanacorrispondono a questi percorsi gemelli di 'conoscenza' e'devozione'. La pratica dell'auto-indagine {indagine del sé} è ilvero 'percorso di conoscenza', e la pratica di abbandono di sé è ilvero 'sentiero della devozione'. Tuttavia l'auto-indagine el'abbandono di sé non sono due percorsi separati, ma sono solodue aspetti dello stesso percorso: l'unico mezzo attraverso il qualepossiamo sperimentare l'assoluta realtà, che è il nostro vero edessenziale essere.

Sebbene Sri Ramana abbia insegnato la pratica che conducealla vera conoscenza di sé in questi due modi diversi,descrivendola sia nei termini dell'auto-indagine che nei termini

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dell'abbandono di sé, l'ha insegnata il più delle volte nei terminidella prima. Consideriamo dunque in primo luogo il percorsodell'auto-indagine. Che cosa è esattamente questa pratica che SriRamana ha descritta come auto-indagine, (esame del sé, scrutiniodel sé, inchiesta del sé o attenzione al sé)?.

Anche se ha usato varie parole in Tamil per descrivere questapratica, uno dei principali termini che ha usato era il terminesanscrito ātma-vicāra, o pi semplicemente vicāra. La parola ātmāsignifica sé, spirito o essenza, ed è spesso usata come pronomeriflessivo singolare applicabile a una qualsiasi delle tre persone e auno qualsiasi dei tre generi, anche se in questo contesto sarebbeapplicabile solo alla prima persona, cioè io stesso, noi stessi o sestessi. La parola vicāra, come abbiamo visto nell'introduzione,significa indagine o esame, e può anche significare riflessione oconsiderazione, nel senso di pensare o di osservare qualcosa concura e attenzione.

Così 'ātma-vicāra' è la semplice pratica di indagare, esaminare,esplorare, ispezionare, scrutare o dare attenzione accuratamente anoi stessi, il nostro fondamentale essere consapevole di se, chesempre sperimentiamo come la nostra coscienza di base 'Io sono'.Il termine 'ātma-vicāra' è spesso tradotto come 'auto-inchiesta',che ha portato molte persone a fraintenderne il significato come sefosse un processo di domandarsi 'chi sono Io?'.

Tuttavia tale interrogarsi sarebbe solo un'attività mentale,quindi non è chiaramente il significato inteso da Sri Ramana.Quando ha detto che dobbiamo indagare 'chi sono Io?' Lui nonvoleva dire che dovremmo fare a noi stessi mentalmente questadomanda, ma che dovremmo attentamente osservare la nostracoscienza di base 'Io sono' per conoscere esattamente di cosa sitratta. Quindi se si sceglie di usare questo termine 'auto-inchiesta',dovremmo capire che non significa letteralmente 'auto-interrogatorio', ma solo 'investigazione del se' o 'indagine del se'.

Poiché alcune persone hanno frainteso il suo insegnamentosulla necessità d'indagare 'chi sono Io?' o 'da dove sono sorto?',

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avendo inteso che dovremmo porci queste domande, ed hanno diconseguenza trascorso il loro tempo nella meditazione,ripetutamente chiedendosi queste domande, verso la fine del lasua vita fisica, quando compose la breve poesia ĒkātmaPañcakam, Sri Ramana ha scritto nel versetto 2:

“La dichiarazione di un ubriacone che dice: 'Chisono io? In che posto sono io?', è pari a una personache si domanda 'chi sono io?' [o] 'qual'è il luogo incui io sono?' anche se uno è [sempre] se stesso [cioè,sebbene siamo in realtà sempre non altro che il nostrovero sé o essere essenziale, che si conoscechiaramente come 'Io sono']”.

Sebbene Sri Ramana ha talvolta descritta la pratica della auto-indagine in termini di domande come 'chi sono Io?' o 'da qualefonte sorgo?', lo ha fatto solo per illustrare come dobbiamodistogliere la nostra attenzione lontano da tutti i pensieri e verso ilnostro essenziale essere consapevole di sé, che è quello che siamosempre veramente, e che è la fonte da cui apparentementesorgiamo come mente o il senso individuale di 'io'.

Cioè, quando disse: che dobbiamo indagare 'chi sono Io?',voleva dire che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione verso lanostra coscienza di base 'Io', al fine di esaminare e conoscerequello che realmente siamo. Lui non voleva dire che dobbiamopermettere alla nostra mente di soffermarsi sulla questione 'chisono Io?', perché tale domanda è solo un pensiero che è diverso danoi stessi, e quindi estraneo al nostro essenziale essere. Possiamoconoscere il nostro vero sé con perfetta chiarezza solo puntandotutta la nostra attenzione sul nostro essenziale essere autocoscienteescludendo tutti i pensieri.

Concentrando la nostra attenzione, quindi, ritireremo la nostramente da ogni attività, e questa quindi affonderà in profonditànella nostra chiara, priva di pensiero e sempre immobile coscienza

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del nostro semplice essere. Invece di penetrare nel profondo delnostro essere essenziale in questo modo, se manteniamo la nostraattenzione soffermandoci su pensieri come 'chi sono Io?' o 'qual'èla fonte da cui sono sorto?', continueremo a galleggiare sullasuperficie della nostra mente, perennemente agitata da pensieriche salgono e scendono come onde sulla superficie dell'oceano, eche quindi impediranno a noi stessi di ottenere la vera chiarezzadella coscienza di se libera da pensieri, che esiste sempre nelnucleo più interno o profondità del nostro essere.

Confrontando una persona che medita pensieri come 'chi sonoIo?' o 'qual'è il posto in cui io sono?', aspettandosi così di ottenerela vera conoscenza del sé, a un ubriacone che balbetta questedomande a causa della confusione e della conseguente mancanzadi chiarezza che derivano dalla sua intossicazione, Sri Ramanaafferma con forza che se meditiamo così, siamo confusi come lo èun ubriacone, e abbiamo totalmente frainteso la pratica cheintendeva insegnarci di essere auto-attenti e quindi liberi dapensieri.

Fare a noi stessi più volte domande come 'chi sono Io?' èl'antitesi della pratica della ātma-vicāra o auto-indagine (oinvestigazione del sé) che ha insegnato, perché come spessodiceva, auto- indagine non è 'fare', ma solo 'essere'. Cioè, l'auto-inchiesta non è una qualsiasi azione o attività della nostra mente,ma è solo la pratica di mantenere la nostra mente perennementeplacata nel nostro vero sé, cioè, nel nostro essere essenziale esempre ben consapevole. Questo è chiarito da Sri Ramana nelparagrafo XVI di 'Nāṉ Yār?', in cui egli definisce il verosignificato del termine Atma- Vicara o 'autoinvestigazione'dicendo:

“[...] Il nome 'ātma-vicāra' [è veramenteapplicabile] solo per [la pratica di] essere sempre[dimorare o rimanere] avendo messo [posto,mantenuto, insediato, depositato, trattenuto, fissato o

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stabilito la nostra] mente in ātmā [il nostro vero sé][...]”

Sia in Sanscrito che in Tamil la parola ātmā, che letteralmentesignifica 'sé', è un termine filosofico che denota il nostro vero,essenziale e perfettamente non-duale essere autocosciente, 'Iosono'.

Di qui lo stato che Sri Ramana descrive in questa frase comesadākālamum maṉattai ātmāvil vaittiruppadu è lo stato del solo'essere', in cui teniamo la nostra mente saldamente fissata ostabilita come ātmā, il nostro essenziale essere non dualecosciente di sé. La parola composta sadā-kālamum significa'sempre' o 'in qualsiasi momento', maṉattai è la forma accusativadi maṉam, che significa 'mente', ātmāvil è la forma locativa diātmā e quindi significa 'in sé', e vaittiruppadu è composto di dueparole, vaittu, che è un participio verbale che significa 'avendoposto', 'avendo collocato', 'avendo mantenuto', 'avendo insediato','avendo fissato' o 'avendo stabilito', e iruppadu, che è un gerundioformata dalla radice verbale iru, che significa 'essere'.

Quando è usato da solo, questo gerundio iruppadu significa'essendo', ma quando è allegato a un participio verbale performare un gerundio composto, serve come un sostantivo verbaleausiliario che denota una continuità di qualsiasi azione o statoindicato dal participio verbale. Pertanto, la parola compostavaittiruppadu può essere interpretato in senso letterale nel senso'essendo stato posto', o idiomaticamente a denotare un continuostato di 'porre', 'insediare', 'fissare' o 'mantenere'.

Tuttavia non vi è in realtà alcuna essenziale differenza traqueste due interpretazioni, perché lo stato in cui teniamo la nostramente continuamente posta, insediata, fissa o stabilita in ātmā o'sé' non è uno stato di attività o di 'fare', ma è solamente lo stato disolo 'essere' come siamo veramente.

Così in questa frase Sri Ramana definisce chiaramente l'esattosignificato del termine ātma-vicāra, dicendo che denota solamente

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lo stato di solo 'essere' la pratica spirituale di mantenere la nostramente fermamente stabilita come ātma, il nostro vero 'sé' oessenziale essere cosciente di se, 'Io sono'. In altre parole, ātma-vicāra o l'investigazione 'chi sono Io?' è solo la pratica disolamente essere come siamo veramente, cioè, solo di essere nelnostro stato vero e naturale, nel quale la nostra mente si è placatabeatamente come il nostro sé essenziale, il nostro essere libero dapensieri, assolutamente senza azione e cosciente del sé.

Così da questa definizione estremamente chiara, semplice epriva di ambiguità di ātma-vicāra, che Sri Ramana ha dato in'Nan Yar?', e anche da molte altre verità compatibili che egli haespresso altrove nei suoi scritti, siamo lasciati senza alcunaragione di dubitare del fatto che l'essenziale pratica dell'auto-indagine non comporta nemmeno la minima attività della mente,della parola o del corpo, ma è semplicemente il non duale statosenza mente e quindi perfettamente inattivo di essere cosciente dise.

Poiché il nostro vero sé è l'essere assolutamente non duale,cosciente di sé, non possiamo conoscerlo facendo qualcosa, masolo essendo come è; cioè, solo essendo noi stessi, il nostro essereperfettamente libero da pensieri cosciente di sé. Pertanto la veraconoscenza di sé è una esperienza di chiaro, incontaminato esserecosciente di sé assolutamente, non duale, e quindi non oggettiva, elibera da pensieri. Quindi nel versetto 26 di 'Upadēśa Undiyār' SriRamana definisce il non duale stato di vera conoscenza di sédicendo:

“Essere [il nostro vero] sé è conoscere [il nostrovero] sé, perché [il nostro vero] sé è ciò che è privo didue. Questo è tanmaya-niṣṭha [lo stato di esserefermamente stabilito in e come tat o 'egli', l'assolutarealtà chiamata Brahman]”.

Poiché il nostro obiettivo è solo il non duale stato di essere

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cosciente di sé; il percorso con il quale possiamo raggiungere taleobiettivo deve essere parimenti l'essere cosciente di sé. Se lanatura del nostro percorso fosse stata essenzialmente diversa dallanatura del nostro obiettivo, il nostro cammino non avrebbe maipotuto permetterci di raggiungere il nostro obiettivo. Cioè, poichéil nostro obiettivo è uno stato infinito e quindi privo di ognialterità, divisione, separazione o dualità, l'unico mezzo attraversoil quale possiamo 'raggiungere' o 'ottenere' un tale obiettivo è soloquello di essere uno con esso attraverso la fusione in esso: cioè,perdendo noi stessi, la nostra mente finita apparentementeseparata, completamente in esso.

In altre parole, non possiamo essere ben radicati nel nostroreale non duale essere consapevole di sé, facendo qualcosa oconoscendo qualcosa di diverso da noi stessi. Nessuna quantità di'fare' ci può consentire di fonderci completamente nello stato realedi solo 'essere'. Pertanto, al fine di conoscere e di essere il nostrovero sé, dobbiamo occuparci di nient'altro che noi stessi, il nostroessere essenziale consapevole di sé. Fare attenzione a qualcosa didiverso da noi stessi è un'azione, un movimento della nostramente o un'attenzione lontana da noi stessi.

Concentrarsi su noi stessi, d'altra parte, non è un'azione omovimento, ma è solo uno stato senza azione dell'essere coscientedi sé, come sempre realmente siamo. Pertanto ātma-vicāra o'investigazione del sé' è solo la pratica di essere cosciente di sé,cioè la pratica di essere consci di nulla di diverso dal nostro sé, 'Iosono'. Solo con questa semplice pratica di coscienza di sé o di'attenzione al sé', libera da pensieri, possiamo conoscere chi o checosa siamo veramente.

Tuttavia, anche se ātma-vicāra o 'auto-inchiesta' non è davveroalcuna forma di attività mentale, come chiedere a noi stessi 'chisono Io?' o come qualsiasi altra domanda, ma è solo la pratica didimorare senza movimento nel nostro essere perfettamente liberoda pensieri, cosciente di sé, in alcuni libri inglesi di tanto in tantotroviamo dichiarazioni attribuite a Sri Ramana formulate in modo

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da apparire come se a volte avesse consigliato alle persone dipraticare l'investigazione del se ponendosi domande come 'chisono Io?'.

Allo scopo di capire perché tali diciture potenzialmentefuorvianti appaiano in alcuni dei libri in cui gli insegnamenti oralidi Sri Ramana sono stati registrati in Inglese, dobbiamoconsiderare diversi fatti. In primo luogo, quando a Sri Ramana èstata fatta qualsiasi domanda riguardante la filosofia o la praticaspirituale, di solito rispondeva in Tamil, occasionalmente inTelugu o Malayalam. Anche se capiva e parlava ingleseabbastanza fluentemente, quando trattava di filosofia o di praticaspirituale parlava di rado in inglese, tranne occasionalmentequando effettuava una semplice dichiarazione.

Anche quando gli furono fatte domande in inglese, rispondevadi solito in Tamil, e ognuna delle sue risposte venivaimmediatamente tradotta in inglese da qualsiasi persona presenteche conoscesse entrambe le lingue. Se quanto detto in Tamil eramal tradotto, di tanto in tanto correggeva la traduzione, ma nellamaggior parte dei casi non interferiva con il compitodell'interprete. Tuttavia, anche se di rado esprimeva i suoiinsegnamenti in lingua inglese, molti dei libri in cui sono statiregistrati i suoi insegnamenti orali durante la sua vita corporeasono stati scritti originariamente in inglese.

Purtroppo da tali scritti non possiamo sapere per certoesattamente quali parole ha usato in Tamil in ogni particolareoccasione. Tuttavia, dai suoi originari scritti Tamil, e dalleregistrazioni di molti dei suoi insegnamenti orali che SriMuruganar ha conservato per noi in Guru Vācaka Kōvai,sappiamo quali parole Tamil ha usato spesso per esprimere i suoiinsegnamenti. Pertanto, quando leggiamo i libri in cui i suoiinsegnamenti sono registrati in inglese, dobbiamo cercare didedurre quali parole egli può effettivamente aver utilizzato inTamil. Ad esempio, quando leggiamo questi libri e troviamo inessi dichiarazioni attribuite a lui come: chiedersi 'chi sono Io?' o

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domandarsi 'cosa sono Io?', al fine di comprendere il sensocorretto in cui ha usato qualunque verbo Tamil che è stato tradottocome 'chiedere' o 'domandare', dobbiamo cercare di dedurre qualeverbo avrebbe potuto essere. Il verbo Tamil utilizzato piùcomunemente in situazioni in cui si sarebbero usati nellatraduzione (inglese) i verbi 'ask' or 'question' {'chiedere' o'interrogare'} in Tamil è kēḷ.

Oltre al significato di chiedere, interrogare o informarsi, kēḷsignifica anche ascoltare, sentire, investigare, imparare o venire asapere, quindi, se questo fosse il verbo che Sri Ramana hautilizzato in una qualsiasi occasione registrata su libri inglesicome: chiedere a se stessi 'chi sono Io?' o domandarsi 'chi sonoIo?'. Il significato vero implicato da queste parole sarebbe stato:chiedere 'chi sono Io?', indagare 'chi sono Io?' o scoprire 'chisono Io?'.

Un altro verbo Tamil che è spesso usato nel senso di 'domanda'o 'chiedere', e che Sri Ramana a volte ha utilizzato per descriverela pratica di ātma-vicāra o auto-indagine (o investigazione), èviṉavu. Oltre a significare domandarsi o informarsi, viṉavusignifica anche indagare, esaminare, ascoltare, dare attenzione,tenere a mente o pensare. Un esempio dell'uso che Sri Ramana hafatto di questo verbo vinavutal è nel versetto 16 di 'UpadēśaTaṉippākkaḷ', di cui abbiamo parlato nel capitolo sei. Le parole inquesto versetto che ho tradotto come: “[...] con sottile indagine [oesame minuto], che è [la pratica del] continuo scrutare se stessi[...]”, sono eṉḏṟum taṉṉai viṉavum usāvāl.

La parola eṉḏṟum è un avverbio col significato di sempre,costantemente e in ogni momento, taṉṉai è l'accusativo delpronome tāṉ, che significa: sé, se stessi, noi stessi, voi stessi ecosì via, e usāvāl è la forma strumentale del sostantivo usā, chesignifica indagine o esame sottile, da presso o minuzioso. Insiemecon il suo avverbio eṉḏṟum e il suo oggetto taṉṉai, il verboviṉavum agisce come una proposizione relativa, che descrive lanatura di usā o 'indagine sottile', e che significa 'che è [la pratica

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del] continuo scrutare sé'.Essendo una forma di participio relativa di viṉavu, in questo

contesto 'viṉavum' significa, 'che sta indagando', 'che stascrutando' o 'che sta dando attenzione a'. Con altro significato,viṉavum potrebbe anche essere tradotto, 'che sta interrogando',implicando così che usā o 'indagine sottile' a cui Sri Ramana siriferisce qui, è semplicemente la pratica di costante interrogazionedi noi stessi.

Tuttavia, poiché l'idea centrale nella prima metà di questoverso è che 'nella veglia lo stato di sonno profondo risulterà daun'indagine sottile', questa 'sottile indagine' deve essere unapratica molto più profonda del puro atto mentale di mettere indiscussione se stessi, e quindi non possiamo fare giustizia allaverità che Sri Ramana esprime in questo versetto a meno che noninterpretiamo taṉṉai viṉavum a significare 'che sta indagando sestesso', piuttosto che, 'che sta interrogando se stesso'.

Come kēḷ e viṉavu, la maggior parte degli altri verbi tamil chepotrebbe essere tradotti come 'chiedere', 'domandare' o 'indagare'potrebbero anche essere tradotti come 'investigare', 'esaminare','scrutare' o 'occuparsi di'. Pertanto, solo perché in qualche libroinglese di tanto in tanto si trovano dichiarazioni attribuite a SriRamana come: “Chiedere a se stessi 'chi sono Io?'” o “Mettere indiscussione se stessi 'chi sono Io?'”, non dovremmo concludereda queste parole che voleva dire che dobbiamo chiedere a noistessi letteralmente 'chi sono Io?', o che mettere in discussione noistessi è la pratica effettiva dell'ātmavicāra o auto-indagine. Inalcuni luoghi dove è stato registrato che Sri Ramana ha detto:“Chiedi a te stesso 'chi sono Io?'” o “Interroga te stesso 'chi sonoIo?'”, il verbo Tamil che ha usato potrebbe essere stato vicari, cheè la forma verbale del sostantivo vicāra, perché in questi luoghiegli sembra riferirsi più o meno direttamente al seguentepassaggio dal sesto comma di 'Nan Yar?':

“[...] Se altri pensieri sorgono, senza cercare di

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completarli [si] deve indagare a chi si sono verificati.Tuttavia se molti pensieri sorgono, cosa [importa]?Non appena appare ogni pensiero, se [noi] vigiliindaghiamo a chi si sono verificati, 'a me' sarà chiaro[cioè, ci verrà chiaramente ricordato di noi stessi, a cuiogni pensiero si verifica].

Se [noi così] indaghiamo 'chi sono Io?' [Cioè, sevolgiamo l'attenzione indietro verso noi stessi e lateniamo saldamente fissa, acutamente e vigili sulnostro essenziale essere consapevole di sé, al fine discoprire ciò che questo 'me' è davvero], [la mente]ritornerà al suo luogo di nascita [il nucleo piùprofondo del nostro essere, che è la fonte da cui èsorta]; [e poiché in tal modo ci asteniamo dalpartecipare a essa] il pensiero che era sortotramonterà.

Quando [noi] pratichiamo e pratichiamo in questomodo, il potere della [nostra] mente di staresaldamente stabilita nel suo luogo di nascitaaumenterà. [...]”

In questo passaggio il verbo Tamil che ho tradotto come'investigare' è vicāri, si presenta una volta nella forma vicārikkavēṇḍum, che significa 'che è necessario investigare' o '[noi]dobbiamo investigare', e due volte nella forma condizionalevicārittāl, che significa 'se [noi] investighiamo'. Come formaTamil del verbo sanscrito vicār, il significato base di vicāri èquello di investigare, esaminare, controllare, verificare, valutare oponderare, ma in Tamil è utilizzato anche nel senso secondario di'indagare' in contesti come ad esempio indagando sul benessere diuna persona.

Questo significato secondario in Tamil ci da qualche lieve

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possibilità d'interpretare il significato di vicāri in questo contestocome 'indagare', 'chiedere' o 'domandare', ma anche se abbiamoscelto di interpretarlo in questo modo piuttosto inverosimile,dobbiamo capire che Sri Ramana non significa che dobbiamoletteralmente chiedere o mettere in discussione noi stessi 'chi sonoIo?', ma solo che dovremmo figurativamente chiedere o mettere indiscussione noi stessi.

Cioè, se tutte le parole utilizzate da Sri Ramana possono essereinterpretate nel senso che dovremmo chiederci 'chi sono Io?',dovremmo comprendere che il vero significato interiore di quelleparole è che dovremmo figurativamente chiedere a noi stessi 'chisono Io?', nel senso che dovremmo acutamente scrutare noi stessial fine di conoscere in modo chiaro attraverso la nostra non dualeimmediata esperienza ciò che è in realtà la vera natura della nostraessenziale autocoscienza 'Io sono'.

Poiché l'unica vera risposta a questa domanda 'chi sono Io?' èl'esperienza assolutamente non duale e quindi perfettamente chiaradel nostro vero essere libero da pensieri, consapevole di sé; l'unicomezzo attraverso il quale possiamo efficacemente 'chiedere' o'domandare' a noi stessi 'chi sono Io?' cioè, l'unico mezzo con cuipossiamo 'chiedere' in modo tale che potremo effettivamenteaccertare chi o che cosa siamo veramente, è di ritirare interamentela nostra attenzione da tutti i pensieri o oggetti e di metterla afuoco attentamente ed esclusivamente sulla nostra essenziale nonduale coscienza di se, 'Io sono'.

Nei suoi insegnamenti Sri Ramana ha spesso impiegato paroleordinarie in un senso figurato, perché la realtà assoluta sulla qualestava parlando o scrivendo è non obiettiva e non duale, e quindi èoltre la portata dei pensieri e delle parole. Poiché l'unica realtàindivisa e infinita non può mai essere conosciuta oggettivamentedalla nostra mente, ma può essere sperimentata solosoggettivamente per mezzo e come la nostra non duale essenzialecoscienza di sé; nessuna parola può descriverla adeguatamente, equindi la sua vera natura spesso può essere espressa in modo più

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chiaro da un uso metaforico o figurativo di parole semplici,piuttosto che da un uso letterale dei termini tecnici più astrattidella filosofia erudita.

Poiché la vera natura dell'unica realtà assoluta non può essereconosciuta dalla nostra mente o descritta da tutte le parole (chesono soltanto strumenti creati dalla nostra mente per esprimere lasua conoscenza o esperienza di fenomeni oggettivi), l'unico mezzocol quale possiamo immergerci in quella realtà assoluta non dualee priva di altre cose è anche al di là dei pensieri e delle parole.

Quindi Sri Ramana ha spesso usato parole semplici in sensofigurato, non solo quando stava esprimendo la natura di una realtàassoluta, ma anche quando stava esprimendo il mezzo attraverso ilquale possiamo raggiungere il nostro stato vero e naturale di unitàinscindibile con quella realtà infinita. Quindi quando leggiamo gliinsegnamenti spirituali di Sri Ramana, dovremmo non prenderesempre per oro colato il significato di ogni parola o combinazionedi parole che usa, ma dobbiamo capire il significato profondo cheintende trasmettere da tali parole.

Questo non significa che i suoi insegnamenti sono difficili dacapire, o che contengono significati nascosti. Egli ha espresso isuoi insegnamenti in modo estremamente aperto, chiaro esemplice, e, quindi, molto facile da capire. Tuttavia al fine dicomprendere correttamente dobbiamo sintonizzare la nostra mentee il nostro cuore alla verità che stava esprimendo e al modo in cuil'ha espressa.

Anche se uno dei grandi punti di forza dei suoi insegnamenti,uno dei motivi del perché sono così potenti e convincenti, è lasemplicità e la chiarezza con le quali ha espresso anche le veritàpiù sottili e profonde, la vera semplicità dei suoi insegnamenti avolte può essere ingannevole.

Solo perché ha usato parole molto semplici, non dobbiamotrascurare il fatto che quello che stava esprimendo attraversoquelle semplici parole era una verità estremamente sottile, unaverità che può essere compresa perfettamente solo da una

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chiarezza altrettanto sottile di mente e di cuore. La chiarezzaestremamente sottile interiore di cui abbiamo bisogno per esserein grado di comprendere perfettamente la verità di tutto ciò che SriRamana ha espresso nei suoi insegnamenti sorgerà in noi soloquando la nostra mente sarà stata purificata o depurata da tutti idesideri e dagli attaccamenti che ora la appannano.

Tuttavia, sebbene non possiamo ora avere una chiarezzainteriore perfettamente senza nubi, in qualunque misura la nostramente si purifica saremo in grado di comprendere i suoiinsegnamenti, e se sinceramente cerchiamo di mettere in praticatutto ciò che siamo stati in grado di capire, la nostra mente saràgradualmente ma inesorabilmente ulteriormente purificata echiarificata.

Anche se non possiamo aspettarci di essere in grado di capire isuoi insegnamenti perfettamente fin dall'inizio, se siamosinceramente desiderosi di capirli non dobbiamo solo provare amettere la nostra attuale comprensione imperfetta in pratica, madobbiamo anche continuare a studiare attentamente eripetutamente i suoi insegnamenti, perché, come la nostra praticadi indagine del sé e abbandono di sé progredisce e si sviluppa,saremo in grado di capire ciò che studiamo con crescentechiarezza.

Questo è il motivo per cui si dice che śravaṇa, manana enididhyāsana (studio, riflessione e pratica) devono continuare pertutta la vita di un aspirante spirituale fino a che il finale obiettivodella vera conoscenza di sé non duale è raggiunto. Al fine dicomprendere gli insegnamenti di Sri Ramana in modo chiaro eperfetto come possiamo, non dobbiamo cercare di comprenderestrettamente qualsiasi sua parola, scritta o detta isolatamente, madobbiamo cercare di capire ciascuna di loro completamente allaluce di tutti gli altri suoi insegnamenti.

A meno che non comprendiamo tutti i suoi insegnamenti inmodo completo, non saremo in grado di capire ogni singoloinsegnamento nella sua giusta prospettiva. Solo se coltiviamo una

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comprensione veramente completa dei suoi insegnamenti, saremoin grado di riconoscere e cogliere il vero significato interiore dellesemplici parole che egli usa in senso figurato, e di conseguenzaeviteremo l'errore di interpretare troppo letteralmente unaqualsiasi delle sue espressioni figurative della verità.

Quindi se leggiamo in qualsiasi libro che Sri Ramana disse:“Fate a voi stessi la domanda 'chi sono Io?'”, o qualsiasidichiarazione simile, per capire quale significato ha davverointeso trasmettere con tali parole, dovremmo considerarleattentamente alla luce di tutti gli altri insegnamenti; in particolaregli insegnamenti che egli ha espresso nei suoi propri scritti. Nelfare ciò, dovremmo in primo luogo considerare se il significatoletterale di tale dichiarazione è del tutto coerente con i principifondamentali del suo insegnamento, perché dovremmo accettare ilsignificato letterale col valore palese solo se è chiaramentecoerente con tali principi.

Se non è coerente, allora dovremmo valutare se il verosignificato di tale affermazione potrebbe forse non esseresemplicemente il suo significato apparente letterale ma soltanto unaltro più profondo significato figurato.

Se una dichiarazione attribuita a Sri Ramana sembra essere inqualche modo in contrasto con i principi centrali dei suoiinsegnamenti, ci possono essere diverse spiegazioni plausibili perquesto. In primo luogo, potrebbe essere un'imprecisa registrazioneo una traduzione inesatta di ciò che ha effettivamente detto. Insecondo luogo, potrebbe essere uno dei tanti casi in cui haespresso i suoi insegnamenti in un modo modificato o diluito alfine di soddisfare la comprensione limitata o la maturità mentaledi un determinato interlocutore.

Oppure in terzo luogo, se si tratta di un'accurata registrazionedelle sue parole reali, e se non è chiaramente un caso in cui hadeliberatamente diluita la sua espressione della verità persoddisfare le esigenze individuali dell'interrogante in questione,potrebbe essere un caso in cui il vero significato delle sue parole è

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allegorico piuttosto che letterale.Sebbene Sri Ramana ha spesso espresso la verità in maniera

diluita secondo le reali esigenze di colui con cui stava parlando, disolito lo ha fatto solo per quanto riguarda gli aspetti più generalidella filosofia o pratica spirituale, ma non per quanto riguarda lapratica di auto-indagine, che è il cuore dei suoi insegnamenti.Ogni volta che ha consigliato o richiesto a chiunque di praticarel'indagine (o investigazione) del sé, ha espresso moltochiaramente ciò che la pratica è in realtà.

Quindi se ha mai detto qualche parola che letteralmentesignifica: “Chiedi a te stesso 'chi sono Io?'” o “Domanda a testesso 'chi sono Io?'”, di certo non esprimeva la pratica di auto-indagine in maniera diluita ma solo in un modo figurativo. Propriocome spesso metaforicamente descrive il nostro sé reale edessenziale, che è senza forma, spirito infinito, indiviso e non dualespirito o coscienza, coscienza che non sa nulla diverso da sé,perché non c'è nulla che è veramente diverso da sé, come iḍam,sthana o 'luogo', o, talvolta, più specificamente come il 'luogo dinascita' o 'luogo sorgente' della nostra mente, la nostra falsacoscienza finita che conosce gli oggetti, e che lui spesso hadescritto in senso figurato come una 'luce'.

Così egli ha anche figurativamente descritto: la pratica diindagine del se come libera da pensiero, senza azione e non duale,come uno stato di 'interrogare noi stessi', 'indagare [in o su] noistessi', o semplicemente 'chiedendo chi sono Io?'. Tuttavia, soloperché ha usato parole che letteralmente significano 'luogo' o'luce' per indicare il nostro vero sé, non dobbiamo fraintendere ilsuo uso figurativo di tali parole implicando che il nostro séessenziale sia in realtà un luogo confinato entro le dimensionioggettive di spazio e tempo, o che sia in realtà una luce chepossiamo vedere oggettivamente da entrambi i nostri occhi fisici odalla nostra mente.

Allo stesso modo, proprio perché a volte ha usato parole chepotrebbero essere prese letteralmente significando 'interrogando

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se stessi', 'informarsi [in o su] se stessi' o 'chiedetevi chi sonoIo?', non dobbiamo fraintendere l'uso figurativo di queste parolecome se implicassero che la pratica spirituale definitivaconosciuta come investigazione del sé è solo un atto mentale difare a noi stessi domande come 'chi sono Io?'. Nella filosofiaspirituale, una distinzione importante spesso deve essere fatta travācyārtha, il significato letterale di una parola o di un gruppo diparole, e lakṣyārtha, il significato che bisogna intendere.

Considerando che vācyārtha, il 'significato parlato' o'significato dichiarato', è semplicemente il senso che vienesuperficialmente espresso da una particolare parola o gruppo diparole, lakṣyārtha, 'significato indicato' o 'significato obiettivo', èil significato implicito che è realmente indicato con essere il verosignificato interiore che effettivamente è destinato a trasmettere.In molti contesti in cui Sri Ramana parla della questione 'chi sonoIo?', il vācyārtha o significato superficiale suggerito da questeparole è il pensiero verbalizzato 'chi sono Io?', mentre illakṣyārtha o vero interno significato che ha effettivamente intesodare a queste parole è lo stato in cui guardiamo profondamentedentro noi stessi per vedere chi o che cosa questo 'Io' è in realtà.

Quindi se dice delle parole che appaiono superficialmentesignificare che dovremmo porci la domanda 'chi sono Io?',dobbiamo capire che il lakṣyārtha di tali parole è che dovremmoconcentrare tutta la nostra attenzione sulla nostra coscienza 'Iosono' per conoscere esattamente che cosa è.

Quando vediamo le sue parole tradotte come 'chi sono Io?',nella maggior parte dei casi le reali parole che ha usato in Tamilerano 'nāṉ yār?' o 'nāṉ ār?', che letteralmente significano 'Io[sono] chi?'. Inserendo nāṉ prima di yār o ār, cioè, 'Io' prima di'chi', ha dato primaria importanza a esso, sottolineando così ilfatto che essa sola è la nostra lakṣya: il nostro vero obiettivo oscopo. In queste parole, 'nāṉ yār?' O 'Io [sono]chi?', Il vācyārthao superficiale significato di 'io' è la nostra mente o ego, ma la sualakṣyārtha è il nostro vero io, il nostro vero essere senza aggiunti

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consapevole di sé, 'Io sono', che è l'unica realtà alla base diquest'apparizione illusoria che chiamiamo la nostra mente o ego.

Analogamente, la vācyārtha di 'chi' è solo una domanda cheinquadriamo nella nostra mente come un pensiero, ma la sualakṣyārtha è l'attenzione che acutamente scruta e cerca disperimentare questo 'Io' come realmente è; cioè, sperimentarel'assoluta chiarezza della vera coscienza di sé, libera da pensieri,non adulterata. Non possiamo accertare chi o cosa siamoveramente, semplicemente chiedendo a noi stessi la domandaverbalizzata 'chi sono Io?', ma solo facendo intensamenteattenzione a noi stessi.

Se Sri Ramana dovesse dirci: “Indagate su ciò che è scritto inquesto libro”, non potremmo immaginare che per scoprire ciò chevi è scritto, basti semplicemente porci la domanda 'cosa è scrittoin questo libro?'.

Per conoscere ciò che è scritto in questo libro, dobbiamoaprirlo ed effettivamente leggere ciò che vi è scritto all'interno.Allo stesso modo, quando ci dice: “Indagate 'chi sono Io?'”, nondovremmo immaginare che significa che possiamo veramentesapere chi siamo, semplicemente facendoci la domanda 'chi sonoIo?'. Per sapere chi o che cosa siamo davvero, dobbiamo in realtàguardare dentro noi stessi per vedere che cosa questo 'Io', la nostraessenziale autocoscienza, è veramente.

Al fine di sperimentare noi stessi come realmente siamo,dobbiamo ritirare la nostra attenzione da tutto quanto è diverso dalnostro vero sé: il nostro essere essenziale cosciente di se, 'Io sono'.Poiché la domanda verbalizzata 'chi sono Io?' è un pensiero chepuò sorgere solo dopo che la nostra mente è risorta ed è attiva, èvissuta da noi come qualcosa di diverso da noi stessi; nonpossiamo quindi conoscere chi siamo veramente finchépermettiamo alla nostra mente di continuare a dimorare su essa

Quindi sebbene possiamo usare questa domanda verbalizzata'chi sono Io?' per distogliere la nostra attenzione da tutti gli altripensieri e verso la nostra essenziale coscienza di sé: 'Io sono', non

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dovremmo far attenzione continuamente a essa. Appena l'abbiamousata efficacemente per distogliere la nostra attenzione lontano datutti gli altri pensieri, verso questa coscienza che sperimentiamocome 'Io', dovremmo dimenticare questa domanda e dareattenzione intensamente ed esclusivamente alla sua destinazione olakṣya, che è 'Io', il nostro fondamentale essere libero dal pensierocosciente di se.

Questo lasciar andare la domanda verbalizzata 'chi sono Io?' èun secondario, ma non meno valido significato della seconda metàdella prima frase del sesto paragrafo di 'Nāṉ Yār?', in cui SriRamana dice:

“Solo [attraverso] l'investigazione 'chi sono Io?' [lanostra] mente si placherà [o cesserà di essere]; ilpensiero 'chi sono Io?', dopo aver distrutto tutti glialtri pensieri, alla fine dovrà essere distrutto come ilbastone che brucia i corpi [cioè, come un bastone cheviene utilizzato per mescolare una pira funebre eassicurarsi che il cadavere venga bruciatocompletamente] [...]”

Il significato primario della dichiarazione: “[...] il pensiero 'chisono Io?' avendo distrutto tutti gli altri pensieri, alla fine saràesso stesso distrutto [...]” è ciò che è implicito quandocomprendiamo il termine 'il pensiero chi sono Io?', come unadescrizione figurativa dello sforzo che la nostra mente fa perindagare 'chi sono Io?', cioè, lo sforzo che si fa per rivolgerel'attenzione lontano da tutti gli altri pensieri e verso se stessi.Questo sforzo di indagare 'chi sono Io?' è il lakṣyārtha o ilsignificato interiore inteso dal termine “il pensiero 'Chi sonoIo?'”.

Dato che la nostra mente ha una simpatia forte eprofondamente radicata per dare attenzione ai pensieri, chesembrano essere altro che noi stessi, se vogliamo deviare la nostra

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attenzione verso noi stessi per sapere 'chi sono Io?', dobbiamofare un tentativo di deviare la nostra attenzione lontano da tutti ipensieri che ci stanno distraendo e portarla verso noi stessi.

Poiché questo sforzo di indagare 'chi sono Io?' è fatto dallanostra mente, Sri Ramana lo descrive figuratamente come “ilpensiero 'Chi sono Io?'”. Poiché altri pensieri possonosopravvivere solo quando ci occupiamo di loro, e poiché questosforzo di indagare 'chi sono Io?' attira la nostra attenzione lontanoda tutti gli altri pensieri, Sri Ramana dice che questo sforzo lidistruggerà.

Anche se la nostra mente inizia la pratica di auto-indagine (oinvestigazione) facendo questo sforzo di dare attenzione a sestessa; come risultato di questo sforzo si disattiverà, perché puòsorgere e rimanere attiva solo dando attenzione ai pensieri.Pertanto, poiché la nostra mente inizierà a scemare non appena sifa questo sforzo per focalizzarsi su se stessi, e poiché persistendoin questo sforzo con il tempo si placherà interamente nella perfettachiarezza della coscienza di se libera da pensieri, lo sforzo che sifa per focalizzarsi su se stessi diminuirà con essa.

Questo è il vero significato che Sri Ramana intese trasmetterequando disse: [...] il pensiero 'chi sono Io?' avendo distrutto tuttigli altri pensieri, sarà esso stesso alla fine distrutto come un'bastone brucia corpi'. Anche se questo è il primo significato diquest'affermazione, un secondario significato è quello che èimplicito quando comprendiamo il termine, il pensiero, 'chi sonoIo?'. Che significa letteralmente il pensiero verbalizzato 'chi sonoio?'.

Questo pensiero verbalizzato 'chi sono io?' è il vāIyārtha osignificato superficiale di questo termine “il pensiero 'chi sonoIo?'”. Se interpretiamo quest'affermazione secondo questosignificato più superficiale, dobbiamo intendere che il pensieroverbalizzato 'chi sono Io?' è solo un aiuto per ricordarci di dirigerela nostra attenzione verso noi stessi, portandola lontana da tutti ipensieri che ci distraggono da noi stessi.

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Il pensiero verbalizzato 'chi sono Io?' distruggerà tutti gli altripensieri solo quando gli permetteremo di spostare la nostraattenzione da quei pensieri verso noi stessi, e sarà esso stessodistrutto solo quando gli permetteremo di deviare la nostral'attenzione da se stesso verso il suo effettivo fine o destinazione,che è il nostro essenziale essere autocosciente, 'Io sono'. Propriocome un 'bastone brucia cadavere' è distrutto dallo stesso fuocoche smuove per distruggere il cadavere completamente, così ilpensiero verbalizzato 'chi sono Io?', se usato correttamente, saràdistrutto dallo stesso fuoco di chiara non duale coscienza di sé chesuscita e che distrugge ogni altro pensiero.

Cioè, se usiamo il pensiero verbalizzato 'chi sono Io?' perdistogliere la nostra attenzione lontano da altri pensieri e verso noistessi, susciterà dentro di noi una nuova chiarezza della coscienzadi sé. Questa chiarezza di non duale coscienza di sé è il fuocodella vera conoscenza che sola può distruggere non solo ognisingolo pensiero che sorge, ma anche la nostra mente, che è ilnostro primo pensiero e la radice di tutti gli altri pensieri.

Sebbene questa chiarezza di coscienza di sé, libera da pensieri,viene stimolata ogni volta che usiamo il pensiero verbalizzato 'chisono Io?' per attirare la nostra attenzione verso noi stessi; se poicontinuiamo la nostra attenzione fissa saldamente su noi stessi: ilpensiero verbalizzato 'chi sono Io?' sì abbasserà automaticamenteinsieme a tutti gli altri pensieri.

Quindi come un pensiero verbalizzato la domanda 'chi sonoIo?' può essere di utilità per noi solo quando sono sorti altripensieri. Non appena ci ha aiutato a distogliere la nostraattenzione da altri pensieri e spostarla verso noi stessi, questopensiero verbalizzato 'chi sono Io?' sarà servito al suo scopo.Cioè, facendoci la domanda 'chi sta pensando questo pensiero?','chi conosce questo pensiero?' o 'chi sono Io?', possiamo ricordarea noi stessi dell''Io' che sta pensando, e così possiamo rivolgere lanostra attenzione lontano da qualsiasi altro pensiero e verso noistessi.

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Questo deviare la nostra attenzione verso noi stessi è l'unicovantaggio acquisito ponendoci queste domande. Se scegliamo diutilizzare qualsiasi pensiero, come la domanda 'chi sono Io?',come un mezzo per rivolgere la nostra attenzione lontano da altripensieri e verso noi stessi, questo pensiero diretto a se stessi agiràcome un portale o porta attraverso la quale siamo in grado dientrare in uno stato di attenzione al sé o chiara coscienza di sé,che è il nostro stato naturale di essere libero dalla mente che SriRamana chiama ātmavicāra o investigazione del sé.

Nessun pensiero, parola, frase o domanda può essere lo statoreale della vera non duale coscienza di sé, perché tutti i pensieri ele parole sono solo forme oggettive di conoscenza, e quindipossono esistere solo nello stato di dualità. Come dice Sri Ramananel versetto 25 di 'Upadēśa Taṉippākkaḷ':

“Domande e risposte [possono aversi] solo nellalingua di questa dvaita [dualità]: nel [vero stato di]advaita [non-dualità] non esistono”.

Proprio come una porta è un mezzo con cui possiamo entrare incasa nostra, ma non è la nostra casa stessa, così un pensiero come'chi sono Io?' può essere un mezzo attraverso il quale possiamoentrare nel nostro stato naturale di chiara non duale coscienza disé, ma non è la nostra coscienza di se stessa. Se vogliamo entrarein casa nostra, non dovremmo solo stare alla porta, ma dobbiamopassare attraverso di essa e lasciarla dietro di noi.

Allo stesso modo, se vogliamo entrare nel nostro reale stato dinon duale coscienza di sé, non dobbiamo aggrapparci a qualsiasipensiero come 'chi sono Io?', ma dovremmo passare attraversoquesti pensieri e lasciarli dietro di noi. Se continuamente cisoffermiamo sul pensiero 'chi sono Io?', invece di passareattraverso e al di là di esso, non ci permetterà di entrare nel nostronaturale stato di essere cosciente di sé libero da pensieri.

Pertanto, dopo aver deviato la nostra attenzione verso noi stessi

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chiedendo a noi stessi 'chi sono Io?', dobbiamo con calmadissolverci senza nemmeno il minimo pensiero nella profonditàpiù intima di noi stessi, cioè, in assoluto isolamento nel nostrovero essere non duale cosciente di sé. Anche se possiamo usare unpensiero 'chi sono Io?' come mezzo per trasformare la nostraattenzione verso noi stessi e quindi dissolverci in profondità nelnostro vero essere privo di pensieri consapevole di sé, nondobbiamo immaginare che il pensiero 'chi sono Io?' è la praticareale della ātma-vicāra o investigazione del sé.

La vera pratica dell'Atma-Vicara è solo lo stato in cui abbiamolasciato dietro tutti i pensieri, tra cui il pensiero 'chi sono Io?', chesi sono così dissolti nel nostro essenziale e perfettamente chiaroessere cosciente di sé. Pertanto, dopo aver chiesto una volta a noistessi 'chi sono Io?', non abbiamo bisogno di fare questa stessadomanda di nuovo. In realtà non dovremmo chiedere di nuovo,perché una volta che abbiamo rivolto la nostra attenzione consuccesso verso noi stessi, il pensiero verbalizzato 'chi sono Io?'potrebbe solo distrarci dal nostro vigile e attento stato, libero dipensieri cosciente di sé, proprio come farebbe qualsiasi altropensiero.

Questo è il motivo per cui, ogni volta che qualcuno chiedeva aSri Ramana se si doveva ripetere come un mantra la domanda 'chisono Io?', ha risposto con forza che non è un mantra e non deveessere ripetuto in quanto tale, e ha spiegato che il nostro unicoobiettivo durante la pratica ātma-vicāra dovrebbe essere quello diconcentrare tutta la nostra mente o il potere di attenzione nella suafonte, che è il nostro essere cosciente di sé. Nello stesso contesto,ha anche a volte affermato esplicitamente che se il vicāra ol'investigazione 'chi sono Io?' fosse stato solo un atto mentale diinterrogarsi, non sarebbe di alcun vantaggio reale per noi.

Tuttavia, anche se ha affermato esplicitamente che nondobbiamo ripetere la domanda 'chi sono Io?' come se fosse unmantra, e che la pratica di ātmavicāra non è solo l'atto mentale difare a noi stessi questa domanda; Sri Ramana in realtà non dice

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che non dovremmo mai fare a noi stessi questa domanda, o chefarla non sia di un certo valore come un aiuto per la nostra praticaeffettiva della ātma-vicāra. Ciò che egli ci ha detto di evitare erain primo luogo la pratica futile di abusare di questa domandaripetendola a pappagallo, e in secondo luogo l'errata nozione cheātma-vicāra sia semplicemente la pratica mentale di fare a noistessi questa domanda ripetutamente o anche occasionalmente.

Se leggiamo con attenzione tutti gli insegnamenti di SriRamana, espressi molto chiaramente sia nei suoi scritti originali inTamil e in Guru Vācaka Kōvai, e un po' meno chiaramente neivari libri in cui erano registrati in inglese, dovremmo essere ingrado di capire molto chiaramente ciò che la pratica di ātma-vicāra o indagine del sé è e ciò che non è.

Anche se molti passaggi nei vari libri inglesi possono sembrarepoco chiari o confusi, se studiamo questi libri con ladiscriminazione della luce degli originali scritti Tamil e GuruVācaka Kōvai, dovremmo essere in grado di vagliare e sceglieretutti i granelli di vera sapienza dalla pula delle ideeimperfettamente o non adeguatamente registrate. Per quantoriguarda la pratica dell'ātma-vicāra o indagine del sé, due delleverità fondamentali che dovremmo essere in grado di capireleggendo i vari libri disponibili sono le seguenti. In primo luogo,ātma-vicāra non è una pratica mentale di chiedere ripetutamente anoi stessi ogni questione come 'chi sono Io?'.

In secondo luogo, fare a noi stessi una domanda del genereanche una volta sola non è in realtà una parte essenziale dellapratica dell'ātma-vicāra. Quando abbiamo provato a praticarel'attenzione al sé, potremmo scoprire che facendo a noi stessiqueste domande a volte è utile per portare la nostra attenzionelontano da altri pensieri e verso noi stessi; ma dopo che abbiamofatto anche solo un po' di esperienza in questa semplice pratica diattenzione al sé, troveremo che è facile rivolgere la nostraattenzione verso la nostra naturale e chiaramente evidentecoscienza 'Io sono', senza dover pensare 'chi sono Io?' o qualsiasi

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altro pensiero.Che si scelga o no di utilizzare qualsiasi domanda come 'chi

sono Io?' come un aiuto nel nostro sforzo per trasformare la nostraattenzione verso noi stessi è in definitiva irrilevante, perché tuttociò che è realmente necessario è che concentriamo la nostraattenzione intensamente ed esclusivamente su noi stessi, cioè, alnostro essenziale essere consapevole di sé, 'Io sono'. La realepratica della ātma-vicāra o indagine del sé è soltanto questointenso focalizzare tutta la nostra attenzione su noi stessi. Questapratica di attenzione al sé o coscienza di sé intensa e trasparentenon è un pensiero o un'azione di qualsiasi natura, ma è solol'assolutamente silenzioso e beato stato di essere solo come siamoveramente.

Oltre a utilizzare la parola Sanscrita vicāra, Sri Ramana hausato molte altre parole in Tamil e in sanscrito per descrivere lapratica di investigazione del sé. Una parola che ha spessoutilizzato sia nei suoi scritti originali come 'Uḷḷadu Nāṟpadu' e neisuoi insegnamenti orali era il verbo Tamil nāḍu, che puòsignificare ricercare, perseguire, esaminare, indagare, conoscere,pensare o desiderare, ma che con riferimento a noi stessichiaramente non significa letteralmente ricercare o perseguire, masolo esaminare, investigare o conoscere.

Inoltre ha spesso usato il termine nattam, che è un sostantivoderivato dal verbo nāḍu, e che ha vari significati strettamenteconnessi, come 'investigazione', 'esame', 'controllo', 'vista','sguardo', 'scopo', 'intenzione', 'esercizio' o 'ricerca'. Nel senso di'investigazione', 'sguardo' o 'vista', nāṭṭam significa la condizionedi 'guardare', 'vedere' o 'osservare', e quindi può anche esseretradotto come 'ispezione', 'osservazione' o 'attenzione'. Così è unaparola che Sri Ramana ha usato in Tamil per trasmettere lo stessosenso della parola inglese 'attention' = 'attenzione'.

Poiché il termine ātma-vicāra è un termine tecnico di origineSanscrita, nelle conversazioni Sri Ramana ha spesso usato iltermine più colloquiale Tamil taṉṉāṭṭam, che è un composto di

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due parole, tan, che significa 'sé', e nāṭṭam, che in quest'ambitosignifica 'scrutinio', 'investigazione', 'esame', 'indagine','osservazione' o 'attenzione'.

In libri inglesi che registrano o discutono i suoi insegnamenti,questo termine taṉṉāṭṭam è di solito tradotto come 'attenzione alsé', 'investigazione del sé' o 'indagine del sé', ma è anche talvoltatradotto come 'ricerca del sé' o 'inchiesta del sé'.

Anche se il verbo nāḍu può significare cercare, cercare per operseguire, e anche se il nāṭṭam (sostantivo) puòcorrispondentemente significare una ricerca o un perseguimento;quando Sri Ramana usa queste parole nel contestodell'investigazione del sé non significa che dobbiamoletteralmente cercare, cercare per, andare in cerca di o perseguireil nostro sé come se fosse qualcosa di lontano o sconosciuto a noi,ma che noi dovremmo semplicemente investigare, ispezionare,esaminare o scrutare noi stessi cioè, che dovremmo dareattenzione intensamente al nostro essenziale essere cosciente di sé,'Io sono', che sperimentiamo sempre chiaramente, ma che oraconsideriamo erroneamente la nostra mente, o ego limitato da uncorpo, la nostra falsa e finita coscienza che conosce oggetti che sisente come: 'io sono questo corpo'.

Un altro verbo che Sri Ramana ha usato nello stesso senso dināḍu è tēḍu, che letteralmente significa cercare, cercare per,seguire, perseguire e 'indagare in'. Tuttavia, solo perché ha usatoparole che significano letteralmente 'cercare' o 'ricerca per', nondobbiamo immaginare che il 'sé' che si chiede di 'cercare' èqualcosa di diverso da noi stessi: nient'altro di quello che abbiamogià e sempre sperimentiamo come 'Io'. La pratica di ātma-vicāra,taṉṉāṭṭam o inchiesta del sé non è una pratica di un 'Io' in cerca diqualche altro 'Io', ma è semplicemente la pratica del nostro unico esolo 'Io' che conosce ed è se stesso. In altre parole, èsemplicemente la assolutamente non duale pratica di conoscerenoi stessi e di essere noi stessi.

Dato che siamo in verità sempre consapevoli, per conoscere noi

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stessi come veramente siamo non abbiamo bisogno letteralmentedi 'cercare' noi stessi, ma solo di essere noi stessi: cioè, soloessere come realmente siamo, cioè essere libero da pensieri nonduale e cosciente di sé. Pertanto, la pratica che Sri Ramana a volteha descritto metaforicamente come 'cercare' noi stessi, èsemplicemente la pratica di essere consapevolmente sé stessi.Come abbiamo discusso in precedenza, Sri Ramana spesso hausato parole semplici in un senso figurato, e il suo uso del verbotēḍu è un chiaro esempio di questo.

Quindi ogni volta che usa questo verbo tēḍu nell'ambito dellaricerca del sé dovremmo capire che egli non lo sta usandoletteralmente, per intendere che dobbiamo cercare qualche oggettoche non conosciamo già, ma lo sta solo usandolo figurativamentea significare che dovremmo 'cercare' la chiarezza perfetta dellavera non duale conoscenza di sé attentamente scrutando la nostraessenza sempre consapevole di sé, 'Io sono'.

Altre parole che ha usato per descrivere questa praticaestremamente semplice di indagine del sé, include i sostantiviTamil ārāycci e usā, che significano un'investigazione o scrutiniostretto e sottile; le loro forme verbali ārāy e usāvu, che significanoindagare, esaminare o scrutare attentamente; il termine Tamilsummā iruppadu, che significa 'solo essere'; il termine Sanscritoātma-niṣṭha, che significa dimorare nel sé o essere saldamentestabiliti come il nostro sé reale; ātma-cintana, che significa'contemplazione del sé' o 'pensando al sé'; svarūpa-dhyāna, chesignifica meditazione sul sé o attenzione al sé: svarūpa-smaraṇa,che significa ricordo del sé: ahamukham, che significa stare difronte all''Io', guardando verso l''Io' o fare attenzione all''Io':ātmānusandhāna, che in Sanscrito significa indagine del sé oispezionare da vicino noi stessi, e che in Tamil è utilizzato anchenel senso di contemplazione del sé.

Queste e altre parole che ha usato indicano tutte la stessasemplice pratica di focalizzare tutta la nostra attenzione su noistessi, che è, al momento, il nostro essenziale essere cosciente di

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sé, la nostra coscienza fondamentale: 'Io sono', per sapere chi oche cosa siamo veramente.

La pratica di ātma-vicāra o auto-investigazione è quindi solouna calma e beata messa a fuoco di tutta la nostra attenzione sulnucleo più intimo del nostro essere, e quindi è la stessa pratica chein altre tradizioni mistiche è nota come contemplazione o ricordo-ricordo, cioè, non tanto nel senso di ricordare, ma nel senso diraccogliere o raggruppare la nostra attenzione dispersa da tutte lealtre cose, ritirandola nel proprio centro naturale e sorgente, che èil nostro essere più profondo, il nostro vero ed essenziale esserecosciente di sé, 'Io sono'. Considerando che dare attenzione aqualcosa diverso da noi stessi è un'attività, un movimento o ildirigere la nostra attenzione lontano da noi stessi e versoqualcos'altro, focalizzarsi su noi stessi non è un'attività o unmovimento, ma è un mantenere immobile la nostra attenzioneall'interno di noi stessi.

Poiché noi stessi siamo coscienza o attenzione, mantenendo lanostra attenzione centrata su noi stessi vuol dire permetterle diriposare nella sua dimora naturale. L'attenzione al sé è dunque unostato di solo essere, non facendo nulla. Di conseguenza, è unostato di perfetta quiete, serenità, immobilità, calma e pace, e cometale di felicità suprema e senza riserve.

Poiché la pratica d'indagine del sé è dunque uno stato di soloessere, uno stato in cui la nostra attenzione non fa nulla, masemplicemente rimane come è davvero, come la chiarezza perfettadella nostra non duale naturale coscienza di sé: piuttosto chedescrivere l'investigazione del sé, come 'attenzione al sé'potremmo con più precisione descriverla come 'contemplazionedel sé'.

Cioè, non è veramente uno stato di attenzione attiva o'prestando attenzione' a noi stessi, ma è invece uno stato solo diessere passivamente attenti o consapevoli del nostro essereessenziale. Poiché in realtà siamo nient'altro che assolutamente edeternamente chiaro essere consapevole di sé, quando pratichiamo

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l'arte di essere solo attenti al sé o consapevoli del sé, stiamosemplicemente praticando l'essere noi stessi, essere il nostro verosé, essere ciò che siamo veramente: come Sri Ramana ha spessousato descriverlo: semplicemente essere come siamo.

Consideriamo ora il cammino dell'abbandono di sé. In questocontesto, che cosa esattamente significa la parola 'resa di sé' o'abbandono di sé', che cosa è il sé che dobbiamo arrendere oabbandonare, e come possiamo abbandonarlo? In un contestospirituale, la parola 'resa di sé' significa cedere, lasciarsi andare,abbandonare tutto, rinunciare a tutte le forme di attaccamento,rinunciare a tutti i nostri desideri personali, abbandonando lanostra individuale volontà, affidarsi alla volontà di Dio, esottomettersi interamente a lui.

Poiché la radice di tutti i nostri desideri e attaccamenti è ilnostro sé finito, il nostro senso di essere un individuo separato:possiamo cedere tutti i nostri desideri e attaccamenticompletamente ed efficacemente solo cedendo questo sé finito.Non possiamo davvero lasciare andare tutto ciò che riteniamoessere 'mio' fino a quando non lasciamo andare tutto ciò cheriteniamo essere l''io'. Il sé che dobbiamo abbandonare è quindi ilnostro falso e finito sé: la nostra mente o ego.

Poiché questo sé individuale è una mera illusione, che sorge acausa dal nostro immaginare noi stessi come qualcosa che nonsiamo, possiamo arrenderci solo conoscendo il nostro vero sécome realmente è. Se sappiamo chiaramente ciò che realmentesiamo, non saremo in grado di immaginare noi stessi comequalcos'altro. Pertanto, appena conosciamo il nostro vero sé,automaticamente lasceremo o abbandoneremo tutte le falsenozioni che ora abbiamo su noi stessi. Si può dunque davverocedere il nostro falso sé immaginario solo conoscendo il nostrovero sé. Lo stato di abbandono è lo stato in cui non colleghiamonoi stessi a nulla o non identifichiamo noi stessi con alcuna cosa.

Di tutti i nostri attaccamenti, il più fondamentale è il nostroattaccamento al nostro corpo, perché lo scambiamo essere noi

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stessi. La nostra mente o la coscienza individuale separatapossono sorgere solo identificando un particolare corpo come 'io',in modo che tutta la nostra esperienza di dualità o molteplicità èradicata nella nostra identificazione con un corpo. Senza primacollegare noi stessi a un corpo, non possiamo attaccarci a qualsiasialtra cosa.

Pertanto, al fine di rinunciare a ogni attaccamento, dobbiamorinunciare all'attaccamento per il nostro corpo. Siamo attaccati alnostro corpo perché ci illudiamo che sia noi stessi, e loscambiamo per essere noi stessi solo perché non abbiamo unachiara conoscenza di ciò che siamo veramente. Se sapessimo ciòche realmente siamo, non ci sbaglieremmo pensando di essere ciòche non siamo. Al contrario, finché non sappiamo ciò che siamoveramente, non saremo in grado di liberarci da tutte le ideesbagliate che abbiamo ora su noi stessi. Quindi, fintanto checontinueremo a mancare di una chiara e corretta conoscenza di noistessi, continueremo a confondere noi stessi con ciò che nonsiamo.

Quindi non possiamo arrenderci completamente senza primaconoscere il nostro vero sé, cioè, senza realmente vivere la nostravera natura o l'essere essenziale. In altre parole, al fine diabbandonare il nostro falso sé individuale, dobbiamo concentraretutta la nostra attenzione sul nostro essere essenziale perconoscere ciò che siamo veramente. Così l'investigazione del sé èl'unico mezzo efficace con cui possiamo arrenderci del tutto.Pertanto, nel tredicesimo paragrafo di 'Nan Yar?' Sri Ramanadefinisce il vero abbandono dicendo:

“Essendo completamente assorbito in ātma-niṣṭha[dimorare nel sé, lo stato di solo essere comerealmente siamo], non dando neanche il minimospazio al sorgere di ogni pensiero diverso dall'ātma-cintana [il pensiero del nostro vero sé], è dare noistessi a Dio. [...]”

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Il termine ātma-cintana significa letteralmente 'pensiero del sé'o 'pensiero di noi stessi', ma potrebbe forse essere tradotto megliocome 'contemplazione di sé', perché in questo contesto, la parolacintana o 'pensiero' in realtà non significa 'pensiero', nel senso diun'attività mentale. La nostra mente è attiva solo quando diamoattenzione a qualcosa di diverso da noi stessi, e tutta la sua attivitàcessa quando cerchiamo di 'pensare' solo a noi stessi.

Così 'pensiero di sé' o 'contemplazione di sé' non è in realtà unatto di pensiero, ma è solo uno stato dell'attenzione o coscienza disé perfettamente inattivo, libero da pensieri,. Cioè, quandocerchiamo di 'pensare' a noi stessi, la nostra attenzione sarà ritiratada tutti gli altri pensieri e rimarrà immobile focalizzata su noistessi. Così, 'pensare' a noi stessi esclusivamente, eviterà di darespazio al sorgere di qualsiasi altro pensiero, e quindi rimarremotranquillamente assorbiti nel dimorare nel sé, lo stato, libero dapensieri che è proprio il nostro vero sé.

Poiché in questo stato di chiara attenzione al sé o di fermadimora nel sé, noi non sorgiamo come la coscienza pensanteseparata che chiamiamo la nostra 'mente' o 'sé individuale', questoè lo stato di completo abbandono. Ogni azione o 'fare', compresala nostra azione di base di pensare o conoscere pensieri, è ilrisultato della nostra incapacità di far arrendere il nostro falso séindividuale. Noi sentiamo che stiamo pensando e facendo altrecose solo perché immaginiamo di essere tale mente pensante equesto corpo che agisce.

Cioè, fintanto che ci identifichiamo con il nostro corpo, parolao mente, sentiremo che le azioni di questi strumenti sono statefatte da noi. Tutto ciò che sperimentiamo come fare, 'io stocamminando', 'io sto parlando', 'io sto vedendo', 'io sto sentendo','io sto pensando', 'io sto conoscendo' e così via, è un effetto dellanostra identificazione con il nostro corpo, parola, sensi, emozionie mente.

Tutte le nostre azioni e tutta la nostra conoscenza dualisticasorgono solo perché noi ci identifichiamo con questi strumenti di

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azione e di conoscenza: tutto questo complesso corpo-mente.Pertanto, finché sentiamo che stiamo facendo o conoscendoqualcosa di diverso dal nostro essenziale essere consapevole di sé,'Io sono', non abbiamo abbandonato il nostro attaccamento aquesto complesso corpo-mente o al nostro sé individuale, cheidentifica questo complesso come 'io'.

Poiché la resa di sé completa e perfetta è lo stato in cuiabbiamo del tutto rinunciato al nostro sé individuale, e quindi adogni legame con il suo corpo e la sua mente, è uno stato privo diogni azione e di ogni conoscenza della dualità. Quello che sente'io sto facendo' o 'io sto conoscendo' non è il nostro vero sé, masolo il nostro falso sé individuale. La natura del nostro vero sé èsolo quella di essere, e di non fare o conoscere nulla di diverso dasé.

Quindi, se abbiamo veramente arreso il nostro sé individualefinito, rimarremo come semplice essere, e non sentiremo chestiamo facendo qualcosa o conoscendo qualcosa di diverso dalnostro essere cosciente di sé. Lo stato di vero abbandono è dunqueuno stato di solo essere, e non uno stato di fare qualsiasi cosa.Poiché la perfetta resa di sé è lo stato di solo essere, i mezzi perraggiungere questo stato devono essere di solo essere. La praticadell'abbandono di sé è quindi la coltivazione della capacità di soloessere e non di essere questo o quello.

Come possiamo coltivare quest'abilità? Secondo i principi sucui si basa il percorso dell'abbandono di sé, possiamo coltivarlaconsegnando la nostra volontà individuale alla volontà di Dio,cioè, rinunciando a tutti i nostri desideri personali, perché i nostridesideri sono la forza che ci spinge a fare azioni, e che quindi ciimpedisce di solo essere. Coltivando l'atteggiamento 'Sia fatta latua volontà: non la mia volontà, ma solo la tua', saremo in gradodi ridurre gradualmente la forza della nostra volontà individuale,le nostre simpatie e antipatie, i nostri desideri, attaccamenti eavversioni e quindi inizieremo a privare la nostra mente dellaforza o potere che la spinge ad essere attiva. Quanto più siamo in

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grado di ridurre il potere della nostra volontà individuale, tantopiù la nostra mente si dissolverà, e arriveremo più vicini allo statodi solo essere.

Per arrenderci completamente, dobbiamo rinunciare a tutti inostri desideri. Ma è possibile per noi di rimanere completamenteprivi di desideri? Non è naturale per noi essere sempre guidati dauna qualche forma di desiderio? Non possiamo arrenderci a Diosemplicemente rinunciando a tutti i nostri desideri egoistici, esostituendoli con i desideri disinteressati? Siamo in grado dirispondere a quest'ultima domanda solo capendo che cosaintendiamo per un desiderio disinteressato.

Alcune persone credono che se sono preoccupate solo per ilbenessere degli altri, e se sacrificano tutto il loro personalecomfort e le loro convenienze e dedicano tutto il loro tempo edenaro per aiutare altre persone, agiscono così in mododisinteressato e senza alcun personale desiderio. Tuttavia, anchese siamo in grado di agire in tale modo 'disinteressato', che pochidi noi sono effettivamente in grado di fare, cos'è quello che inrealtà ci spinge a fare ciò? Se siamo onesti con noi stessi, dovremoammettere che agiamo 'disinteressatamente' per la nostrasoddisfazione.

Ci sentiamo bene con noi stessi quando agiamo in modo'disinteressato', e quindi agendo in questo modo ci sentiamo felici.Quindi il nostro desiderio di essere felici è quello che in definitivaveramente ci motiva ad agire 'disinteressatamente'. Non vi èquindi una cosa come un desiderio assolutamente 'disinteressato',perché alla base anche del desiderio più altruista vi è il nostrodesiderio fondamentale di essere felici. Noi tutti desideriamoessere felici.

Tuttavia, poiché ognuno di noi ha la propria personalecomprensione di ciò che rende felici, ognuno di noi cerca lafelicità in un modo individuale. Tutte le nostre azioni, buone ocattive, morali o immorali, virtuose o peccaminose, sante omalvagie, sono motivate solo dal nostro desiderio di felicità.

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Qualunque cosa possiamo fare, e qualunque sforzo possiamoattuare, non possiamo evitare il desiderio di essere felici, perchéquel desiderio è insito nel nostro essere. È quindi impossibile pernoi essere completamente privi di ogni desiderio? Sì, lo è, almenoin un certo senso lo è. Se con la parola 'desiderio' intendiamo lanostra basilare propensione ad essere felici, allora sì, è impossibileessere liberi da esso.

Tuttavia, il nostro gradimento di essere felici esiste in dueforme, una delle quali è chiamata correttamente 'amore' e l'altra èchiamata più correttamente 'desiderio'. Qual è allora la differenzatra il nostro amore per essere felici e il nostro desiderio di esserefelici? 'Amore' è l'unica parola adatta che possiamo usare perdescrivere la propensione ad essere felici che è insita nel nostrovero essere. La felicità non è davvero nulla di estraneo a noi, ma èil nostro vero essere, il nostro reale sé. La nostra inclinazione perla felicità è quindi, in sostanza, solo il nostro amore per il nostrovero sé. Noi tutti amiamo noi stessi, ma non possiamo dire chedesideriamo noi stessi. Il desiderio è sempre per qualcosa didiverso da noi stessi.

Desideriamo cose che sono diverse da noi stessi perché a tortoimmaginiamo che possiamo derivare felicità da loro. Possiamoquindi usare la parola 'amore' per descrivere la nostra inclinazionead essere felici quando non cerchiamo la felicità in qualcosa al difuori di noi stessi, ma quando cerchiamo la felicità al di fuori dinoi stessi, il nostro gradimento naturale per essere felici prende laforma del desiderio.

Quindi possiamo essere completamente privi di desiderio soloquando il nostro amore naturale per la felicità è diretto verso ilnostro essere essenziale. Non saremo mai in grado di liberare noistessi dalla schiavitù del desiderio fino a quando non sostituiremotutto il nostro desiderio di acquisire la felicità da altre cose con unamore che tutto consuma per sperimentare la felicità solo in noistessi.

In altre parole, possiamo trasformare tutti i nostri desideri finiti

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in amore puro e infinito solo deviando il nostro gradimento per lafelicità lontano da tutte le altre cose e verso il nostro essereessenziale.

L'ostacolo che ci impedisce di abbandonare interamente noistessi è il nostro desiderio di ottenere la felicità da qualcosadiverso da noi stessi. Ma come nascono in primo luogo talidesideri? Se il nostro amore per il solo essere è la nostra veranatura, come abbiamo potuto dimenticare come l'amore e cadutoin preda agli avvoltoi dei nostri desideri?

Finché rimaniamo come la nostra coscienza infinita di essere,che è ciò che noi veramente siamo sempre, non possiamosperimentare altro che noi stessi. In tale stato non esiste nulla dadesiderare, e quindi siamo perfettamente beati e felici in noi stessi.Ma non appena sorgiamo come coscienza finita legata ad un corpoche noi chiamiamo la nostra 'mente' o 'sé individuale', cisepariamo apparentemente dalla felicità che siamo veramente, esperimentiamo cose che sembrano essere diverse da noi stessi.

Dopo aver separato noi stessi dal nostro vero sé, che è lafelicità infinita e per il quale abbiamo naturalmente un amoreinfinito, siamo sopraffatti dalla voglia di ritrovare quella felicità.Tuttavia, poiché abbiamo dimenticato ciò che realmente siamo, epoiché vediamo noi stessi come i tanti oggetti di questo mondo,siamo confusi e immaginiamo che possiamo avere la felicità chedesideriamo da quegli oggetti. A causa dell'aspetto illusorio delladualità o alterità, sperimentiamo sia la nostra felicità naturale cheil nostro amore naturale per la felicità, come due coppie diopposti, piacere e dolore, desiderio e avversione.

Cioè, immaginiamo che certe cose ci danno piacere o felicità, ealtre cose ci causano dolore o sofferenza, e quindi sentiamo ildesiderio di quelle cose che sembrano darci la felicità, el'avversione per quelle cose che sembrano farci infelici. Così lacausa principale di tutto il nostro desiderio è la nostradimenticanza o ignoranza del nostro vero sé. Quando ignoriamo ilnostro vero e infinito essere, immaginiamo di essere un falso e

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finito individuo, e pertanto sperimentiamo cose che sembranoessere diverse da noi stessi, e sentiamo il desiderio per esse,pensando che ci possono dare la felicità che ci sembra di averperso.

Poiché la nostra immaginaria ignoranza del sé è l'unica causa ditutti i nostri desideri, possiamo liberarci da essi soloriconquistando il nostro stato naturale di vera conoscenza del sé.Fino a quando non riconquisteremo la nostra vera conoscenza delsé, non possiamo rimanere privi di desideri. Potremmo essere ingrado di sostituire i nostri desideri 'cattivi' con 'buoni' desideri, mafacendo così sostituiremo le nostre catene di ferro con quelled'oro. Sia che le catene che ci legano siano fatte di ferro che d'oro,saremo ancora legati da loro.

Pertanto, al fine di sperimentare la vera e perfetta libertà,dobbiamo rinunciare a tutti i nostri desideri, sia i nostri desideri dibase che i nostri desideri nobili, cosa che possiamo fare soloconoscendo noi stessi come siamo veramente. Poiché possiamoraggiungere il vero e completo abbandono solo sperimentando lanon duale conoscenza di sé, perché la via dell'abbandono ègeneralmente associata con la devozione dualistica a Dio?

Sebbene Sri Ramana ha insegnato che possiamo arrendercicompletamente solo conoscendo il nostro vero sé, anche lui haspesso descritto l'abbandono in termini di devozione dualistica, el'ha fatto per una buona ragione. Nel tredicesimo paragrafo di'Nan Yar?', per esempio, al momento di definire il vero abbandonocome lo stato libero da pensiero dimorante nel sé, la descrivecome 'dare noi stessi a Dio', ed egli spiega la pratica di abbandonodi sé in termini di devozione dualistica a Dio:

“Essendo completamente assorbiti dal dimorare nelsé, dando nemmeno il minimo spazio al sorgere di unpensiero diverso dalla contemplazione del sé, è darenoi stessi a Dio. Anche se diamo qualsiasi peso a Dio,tutto questo peso sarà da lui sopportato. Poiché il

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paramēśvara śakti [supremo potere di Dio] è allaguida di tutte le attività [cioè, poiché è la causa e ilcontrollo di tutto ciò che accade in questo mondo],perché dovremmo sempre pensare, 'è necessario [perme] agire in questo modo, è necessario [per me] agirein quest'altro modo', invece di essere [calmo, sereno efelice] avendo ceduto [noi stessi insieme a tutto ilnostro fardello] a quel [potere supremo di controllo]?

Anche se sappiamo che il treno sta portando tutti ipesi, perché dovremmo, noi che viaggiano in esso,soffrire portando il nostro piccolo bagaglio sullanostra testa invece di lasciarlo appoggiato sullo stesso[treno]?”

Perché Sri Ramana spiega l'abbandono di sé in questi terminidualistici? La necessità di arrenderci sorge solo quando riteniamoerroneamente di essere un individuo finito, ed è in questo statoche sperimentiamo tutta la dualità come se fosse reale. Comeabbiamo visto nel capitolo quattro, fino a quando sentiamo diessere una persona finita o una coscienza individuale, il mondo eDio esistono entrambi come entità che sono separate da noi.

Dio come essere separato è reale come la nostra individualitàseparata. Poiché abbiamo limitato noi stessi come un individuofinito, l'infinito amore e potere, che è il nostro vero sé ci sembraseparato da noi, e quindi gli diamo il nome di 'Dio'. È questopotere del nostro vero sé che Sri Ramana descrive qui comel'unico 'paramēśvara śakti', l'unico 'supremo potere di Dio' o'potere dominante supremo'. Tutto quello che accade in questomondo accade solo per 'volontà di Dio', cioè, per l'amore di questopotere dominante supremo.

Poiché Dio tutto conosce, nulla può accadere senza che lui losappia. Poiché è onnipotente, nulla può accadere senza il suoconsenso. E poiché egli ama ogni cosa, nulla può accadere che

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non sia per il vero beneficio di tutti gli interessati (anche se ilnostro intelletto umano limitato potrebbe non essere in grado dicomprendere come ogni avvenimento è veramente buono ebenefico). Infatti, poiché egli è la fonte e la totalità di tutto ilpotere che vediamo manifesto in quest'universo, ogni singolaattività o avvenimento è imposto, guidato e controllato da lui.

Come un antico proverbio Tamil dice: 'avaṉ aruḷ aṉḏṟi ōraṇuvum asaiyādu', che significa 'Se non per la sua grazia,nemmeno un atomo si muove'. Poiché Dio sta portando tutto ilpeso di quest'universo, può portare perfettamente bene qualsiasipeso che possiamo collocare su di lui. Ma che cosa esattamenteintendiamo quando diciamo di porre il nostro fardello su di lui, ecome possiamo farlo? Sentiamo tutti di avere preoccupazioni eresponsabilità, ma poiché Dio è responsabile di tutto, e poiché eglisi sta prendendo perfettamente buona cura di tutto, la verità è chenon abbiamo bisogno di prendere su noi stessi qualsiasi cura oresponsabilità.

La nostra unica responsabilità è di arrenderci a lui, cioè, dicedere la nostra volontà individuale alla sua volontà divina, chesignifica semplicemente rinunciare a tutti i nostri desideripersonali, paure, simpatie e antipatie, e in tal modo lasciare tuttele nostre inquietudini e preoccupazioni nelle sue maniperfettamente capaci. Se cediamo in questo modo la nostravolontà individuale, egli si prenderà perfettamente cura di noi e siassumerà tutte le nostre responsabilità. Tuttavia, la nostra resa disé deve essere sincera.

Non dobbiamo illuderci pensando che ci siamo abbandonati alui, e poi indulgere in comportamenti irresponsabili. Se abbiamoveramente ceduto la nostra individuale volontà a lui, egli spingeràla nostra mente, la parola e il corpo ad agire in modo appropriatoin ogni situazione. Finché abbiamo desideri in agguato, simpatie oantipatie, dobbiamo accettare la responsabilità per ognuna dellenostre azioni derivate da tali desideri. Tuttavia, anche se nonabbiamo ancora potuto abbandonare tutti i nostri desideri, purché

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noi sinceramente vogliamo cedere alla sua volontà e fare ognisforzo per attuare ciò, possiamo essere sicuri che egli guiderà lenostre azioni e ci salvaguarderà dal cadere in preda all'illusione di'Mi sono arreso a Dio'. Se pensiamo 'Mi sono arreso a Dio',abbiamo ancora mantenuto il nostro individuale 'io', così la nostracosiddetta 'resa di sé' è semplicemente un autoinganno.

Quando ci siamo veramente arresi a lui, noi non esistiamo piùcome individuo che pensa a qualcosa. Avremo perso il nostro sénel fuoco che tutto consuma della vera conoscenza di sé, e quindirimarremo solo come puro essere. Fino a quel momento,dobbiamo condurci con perfetta umiltà, sia interiormente siaesteriormente, e non dobbiamo mai pensare che abbiamo acquisitoqualsiasi tipo di realizzazione spirituale. Finché siamoconsapevoli di qualsiasi alterità o dualità, qualsiasi cosa diversadalla nostra mera coscienza del nostro essere, stiamo ancorailludendoci di essere una persona finita, e quindi dovremmocomprendere che non ci siamo veramente arresi o che abbiamoguadagnato qualsiasi importante conquista spirituale.

Evitare qualsiasi forma di orgoglio o di auto-illusione è parteintegrante della resa di sé. La vera resa di sé è totale negazione disé. Come individui siamo un nulla e dovremmo comprenderlo danoi stessi di essere nulla. Senza l'aiuto di Dio noi siamoassolutamente impotenti a fare qualsiasi cosa, anche arrenderci alui. Pertanto, se vogliamo veramente arrenderci a lui, dobbiamopregare per il suo aiuto, e dovremmo dipendere da lui interamenteper essere salvaguardati dall'autoinganno del sorgere dell'ego edell'orgoglio. Tuttavia, conoscendo la nostra impotenza e inutilità,non dovremmo sentirci abbattuti. Come mente finita, confusa eauto-illusa, veramente non possiamo fare nulla per raggiungere lavera conoscenza di sé; ma perché dovremmo immaginare cheabbiamo bisogno di fare qualcosa?

La nostra responsabilità non è di fare qualcosa, ma solo diessere. Per essere, dobbiamo rifiutare la nostra mente con il suosenso di dover fare, e semplicemente arrenderci al potere supremo

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di amore che chiamiamo 'Dio'. Se abbiamo anche la minimaintenzione di arrenderci, ci darà tutto l'aiuto che è necessario perrendere la nostra resa di sé completa. In verità, anche il briciolo dipropensione ad arrenderci che ora abbiamo è stato dato da lui, eavendoci dato questo piccolo assaggio del vero amore per l'essereinfinito che è, egli non ci imbroglierà omettendo di coltivarequesto seme di amore che egli ha piantato nel nostro cuore.

Dopo aver piantato questo seme, egli sicuramente lo nutrirà egarantirà che cresca fino al compimento: lo stato in cui siamototalmente consumati dal nostro amore per l'essere assoluto.Quindi ogni volta che ci sentiamo avviliti, sapendo quanto deboleè il nostro amore per il solo essere, e come svogliati sono i nostritentativi di arrenderci al nostro sé, ci dovremmo consolarepregando Dio nel modo mostrato da Sri Ramana nel versetto 60del Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai:

“Avendo mostrato a me, che sono privo di [vero]amore [per te], [un assaggio di] desiderio [per te],dona la tua grazia senza frodare [me], O Arunachala”.

Sri Ramana ha composto molte preghiere come questa che cimostra come dovremmo implorare Dio di aiutarci nei nostri sforziper raggiungere lo stato di solo essere, perché la preghiera è unaparte importante del processo di abbandono di sé. Dionaturalmente non ha bisogno che gli diciamo che abbiamobisogno del suo aiuto, ma questo non è il vero scopo dellapreghiera.

Lo scopo della preghiera è quello di suscitare nel nostro cuoreun senso di totale dipendenza da Dio. Poiché non possiamoabbandonarci con il nostro solo sforzo e raggiungere lo stato disemplicemente essere, dobbiamo imparare a dipendereinteramente da Dio, perché egli solo può permetterci di cedere noistessi completamente a lui. Inoltre, poiché Dio esiste in noi comeil nucleo del nostro essere, cioè, come il nostro vero sé, ogni volta

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che lo preghiamo, non dobbiamo pensare a lui lontano, alto incielo, ma indirizzare le nostre preghiere a lui direttamenteall'interno di noi stessi, e così avere maggiori opportunità dirivolgere la nostra attenzione verso il nostro essere pi profondo.

Tutto l'aiuto di cui abbiamo bisogno per permetterci diraggiungere lo stato di solo essere è a nostra disposizione nelnostro cuore, cioè, nel nucleo del nostro essere, che è la veradimora di Dio, il potere supremo dell'amore. Per ottenere tuttol'aiuto divino o la grazia di cui abbiamo bisogno, non dobbiamoguardare in qualche luogo diverso dal nostro cuore, il nostro verosé o essere essenziale. Tutti i nostri sforzi, le preghiere e tuttal'attenzione dovrebbero pertanto essere rivolti verso l'interno,verso il nostro stesso essere. Questa verità è chiaramente implicitanel versetto 8 di 'Upadēśa Undiyār' di Sri Ramana:

“Piuttosto che anya-bhāva, ananya-bhāva [con laconvinzione] 'egli è l'Io' è davvero la migliore tra tutte[le forme di meditazione].

In questo contesto bhāva significa 'meditazione', ma ha anche ilvalore di 'opinione', 'atteggiamento' o 'prospettiva', e anyasignifica 'altro', e ananya 'non altro'. Così il significato implicitoanyabhāva è meditazione su Dio pensando che sia altro da sé,mentre ananya-bhāva è la meditazione su Dio considerandolo chenon sia altro da sé. Questo significato di ananya-bhāva è anchesottolineato dalle parole 'egli è l'Io', che sono poste accanto a esso.

Pertanto, in qualunque modo possiamo praticare la devozione aDio, è sempre meglio prendere in considerazione che lui sia ilnostro vero sé, piuttosto che considerare che lui sia diverso da noistessi. Il vantaggio di sviluppare l'atteggiamento che Dio è ilnostro vero sé o essere pi profondo, e meditare su di lui,adorandolo o pregandolo di conseguenza è spiegato da SriRamana nel versetto 9 di 'Upadēśa Undiyār':

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“Con la forza di [tale] meditazione [oatteggiamento], essere [o dimorare o rimanere] nellostato di essere, che trascende [ogni] meditazione, è ilsolo vero stato di suprema devozione”.

Finché consideriamo che Dio sia diverso da noi stessi, ognivolta che pensiamo a lui la nostra attenzione sarà rivolta versol'esterno, lontano da noi stessi, ma quando riteniamo che lui sia ilnostro vero sé o essere essenziale, 'Io sono', ogni volta chepensiamo a lui la nostra attenzione sarà rivolta verso l'interno,verso il nucleo più intimo del nostro essere.

Quando la nostra attenzione è diretta lontano da noi stessi, lanostra mente è attiva, ma quando la nostra attenzione si rivolge dinuovo al centro del nostro essere, la nostra mente diventaimmobile e quindi scompare nello stato di essere, che trascendeogni pensiero o meditazione. Lo stato in cui si rimane sommersinello stato di essere è il vero stato di suprema devozione, perché èlo stato in cui ci siamo arresi interamente a Dio, che è il nostrostesso essere essenziale.

Questo stato di solo essere, in cui la nostra mente, o séindividuale si è completamente immersa, non è solo l'apice dellavera devozione o dell'amore, ma è anche l'obiettivo finale el'adempimento degli altri tre percorsi spirituali: il percorsodell'azione senza desideri, dell'unione e della conoscenza, comeaffermato da Sri Ramana nel versetto 10 di 'Upadēśa Undiyār':

“Essere [saldamente stabiliti] come il nostro verosé avendo dissolto nel [nostro] luogo di nascita [ilnucleo del nostro essere, che è la fonte da cui siamosorti come nostra mente], questo è karma e bhakti,questo è yoga e jñāna”.

Anche se è la nostra mente che si propone di praticare unoqualsiasi dei quattro 'percorsi' o tipi di sforzo spirituale, vale a

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dire il percorso del karma o azione eseguita senza desiderio peralcuna ricompensa, il sentiero della bhakti o devozione, ilpercorso di Yoga o unione, e il percorso di jñāna o conoscenza; lanostra mente è di fatto l'unico ostacolo che si frappone sulla viaper raggiungere il nostro obiettivo di questi quattro percorsi.Pertanto il fine ultimo di ognuno di questi percorsi può essereraggiunto solo quando la nostra mente, che si sforza di praticarli,finalmente si dissolve nello stato di essere, che è la fonte da cuiera inizialmente sorta.

Così il completo abbandono di sé è il vero obiettivo di tutte leforme di pratica spirituale. Anche l'indagine del sé, che è il veropercorso di conoscenza o jñāna, è necessaria solo perché non cisiamo ancora arresi completamente. Poiché la corretta praticadell'indagine del sé non è fare qualcosa, ma è solo essere, nonpossiamo praticarla correttamente senza abbandonare noi stessi: ilnostro sé che 'agisce' o mente pensante.

Al contrario, poiché non possiamo, senza sapere ciò cherealmente siamo, cedere efficacemente il nostro falso sé finito, lacorretta pratica di abbandono di sé è quella di esaminareprofondamente noi stessi e, quindi, dissolversi nello stato di soloessere. Così, in pratica l'indagine del sé e l'abbandono di sé sonoinseparabili, come le due facce di uno stesso foglio di carta.Quando cerchiamo di abbandonare noi stessi, dobbiamo essereestremamente vigili per garantire che la nostra mente o séindividuale non sorga furtivamente a pensare qualcosa.

Poiché la nostra mente sorge solo quando pensiamo o cioccupiamo di qualcosa di diverso da noi stessi, possiamoprevenire ciò solo curando attentamente la fonte da cui sorge, cheè il nostro vero sé. Quando diamo attenzione in modo vigile alnostro essere più profondo, saremo in grado di rilevare la nostramente nel momento stesso in cui sorge, e quindi saremo in gradodi schiacciare la sua crescita istantaneamente.

Infatti, se siamo vigili e attenti al sé, la nostra mente non saràin grado di sorgere minimamente, perché in realtà sorge solo per

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la nostra negligenza nell'attenzione al sé. Per tornare ancora unavolta alla nostra discussione del tredicesimo paragrafo di 'NāṉYār?', nella terza frase Sri Ramana chiede:

“Poiché l'unica paramēśvara śakti è alla guida ditutte le attività, perché dovremmo sempre pensare, 'ènecessario [per me] agire in questo modo: ènecessario [per me] agire in quell'altro modo',anziché essere, essendosi arresi a quello?”.

Oltre a quello che abbiamo discusso già, ci sono due puntiimportanti da notare in questa frase. In primo luogo, quando cichiede perchè dovremmo pensare che abbiamo bisogno di farequesto o quello; il significato che egli intende è che non solo non ènecessario per noi fare nulla, ma anche che non è necessario pernoi pensare nulla. Se veramente crediamo che Dio sta facendotutto, e sta sempre prendendosi cura di ogni essere vivente,compresi noi stessi, avremo la fiducia di rimettere a lui l'onere dipensare a noi, e così saremo liberati del fardello di pensare aqualunque cosa per noi stessi.

Se davvero abbandoniamo noi stessi interamente a Dio, egliprenderà il pieno controllo della nostra mente, parola e corpo, e lifarà agire in tutte le situazioni nel modo più appropriato. Soloquando smettiamo di pensare a qualsiasi cosa il nostro abbandonoa Dio sarà completo. In secondo luogo, le parole che ho tradottocome 'anziché essere, essendosi arresi a quello' sono moltosignificative, perché sono una descrizione adeguata di ciò che èrealmente l'abbandono di sé.

Nell'originale Tamil, le parole utilizzate da Sri Ramana sonoadaṟku aḍaṅgi-yirāmal. La parola adaṟku significa 'a quello' o 'aesso', che è, l'unico paramēśvara śakti o 'potere dominantesupremo'. La parola aḍaṅgi è un participio verbale che nonsignifica soltanto 'avendo ceduto', ma anche essendosi placato,stabilito, ritirato, definito, presentato, sottomesso, diventano

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immobile, cessato o scomparso. La parola irāmal significa 'senzaessere' o 'invece di essere'.

Così il significato implicito di queste parole è che il veroabbandono di sé è uno stato di solo essere, cioè, uno stato in cuirimaniamo come semplice essere, avendo ceduto o sottomesso noistessi a Dio, essendoci quindi placati, fermati e diventatiimmobili, e avendo di fatto cessato del tutto di esistere comeindividuo separato. Come abbiamo visto in precedenza, Dio è ilnostro vero sé, e lui sembra essere separato da noi solo perché cisiamo limitati come una coscienza individuale finita.

In altre parole, appena ci inganniamo immaginando che siamoun individuo finito, il nostro vero sé si manifesta come Dio, lapotenza che guida e controlla tutta la nostra vita da individuo, eche quindi ci porta gradualmente verso il nostro stato naturale divera conoscenza di sé. Tuttavia, Dio non è l'unica forma in cui ilnostro vero sé si manifesta per guidarci a se stesso. A un certopunto nel nostro sviluppo spirituale, il nostro vero sé si manifestaanche come guru, e in questa forma rivela a noi, attraverso parolepronunciate o scritte, la verità che noi stessi siamo un infinitoessere, coscienza e felicità, e che per sperimentare noi stessi cometale essere dobbiamo esaminare noi stessi e quindi cedere il nostrofalso sé individuale.

Una volta che abbiamo sentito o letto questa verità rivelata dalnostro vero sé nella forma di guru, e se siamo stati veramenteattratti da questa verità, siamo veramente sotto l'influenza delguru, e siamo quindi sulla buona strada per raggiungere il nostroobiettivo finale della vera conoscenza di sé. Questo stato in cuisiamo arrivati sotto l'influenza del guru è descritto da Sri Ramananel dodicesimo paragrafo di 'Nāṉ Yār?' Come essere catturati ointrappolati dallo 'sguardo di grazia del guru':

“Dio e guru non sono in verità differenti. Propriocome quella [preda] che è stata catturata nelle fauci diuna tigre, non tornerà, così coloro che sono stati

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catturati dallo sguardo di grazia del guru sarannosicuramente salvati da lui e non saranno maiabbandonati: tuttavia, è necessario [per loro] perprocedere [comportarsi o agire] immancabilmentesecondo il percorso che il guru ha mostrato”.

Anche se il vero guru appare esteriormente come un essereumano, è infatti Dio in forma umana, che si manifesta come talein modo da darci gli insegnamenti spirituali che sono necessari perindurci a rivolgere la nostra mente verso la sorgente dalla qualeera sorta, e quindi a placarci e fonderci in quella fonte per sempre.

O per spiegare la stessa verità in altro modo, poiché la personache in precedenza aveva occupato il corpo in cui si manifesta ilguru si era arreso interamente a Dio e quindi era stato consumatonel fuoco della vera conoscenza di sé, ciò che rimane e funzionaattraverso il corpo è solo Dio stesso. Pertanto, ciò che parla, vede,sente e agisce attraverso la forma umana in cui si manifesta il gurunon è un individuo finito, ma è l'infinita potenza dell'amore e dellavera conoscenza che altrimenti chiamiamo Dio.

Quest'assoluta unicità di Dio, il guru e il nostro sé reale è ilvero significato della Trinità cristiana, come spiegato da SriRamana. Dio Padre è Dio, come potenza che governa l'interouniverso e la vita di ogni individuo in esso, Dio Figlio è il guru, eDio lo Spirito Santo è il nostro vero sé. Anche se nella prospettivalimitata e distorta della nostra mente sembrano essere tre entitàdistinte o 'persone', Dio, guru e sé, sono in realtà un unico essereinfinito e indivisibile.

Anche se la parola guru è usata in molti contesti diversi e puòquindi significare un maestro di ogni arte, scienza o abilitàordinaria; in un contesto spirituale denota correttamente solo ilsadguru, il 'vero guru' o l''essere guru', cioè, il guru che è sat, larealtà o il vero essere di ciascuno di noi. Anche se ci sono moltepersone che affermano di essere un guru spirituale, il vero guruspirituale è molto raro, e quindi in un ambito spirituale il termine

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guru dovrebbe essere applicata solo a quei rari esseri comeBuddha, Sri Krishna, Cristo, Adi Sankara, Sri Ramakrishna e SriRamana, che hanno la chiara e divina missione di rivelare a noi lavia per raggiungere la vera conoscenza di sé. Un tale guru realenon proclamerà mai di essere il guru, esplicitamente oimplicitamente, perché il vero guru è totalmente privo di ego, equindi conosce se stesso solo come 'Io sono' e non come 'Io sonoDio' o 'Io sono il guru'.

Una volta che siamo presi dall'influenza del vero guru, siamocome la preda che è stata catturata nelle fauci di una tigre. Propriocome una tigre immancabilmente divorerà la preda che hacatturato, così il guru immancabilmente ci divorerà, distruggendola nostra mente o coscienza individuale, e assorbendoci così in sestesso, cioè, rendendoci uno con il nostro vero ed essenzialeessere, che è quello che siamo veramente. Tuttavia, Sri Ramanaaggiunge una nota di cautela, dicendo che sebbene il Gurusicuramente ci salva in questo modo, e non ci abbandonerà mai,dovremmo tuttavia immancabilmente seguire il percorso che ci hamostrato.

Nella clausola 'è necessario procedere immancabilmentesecondo il percorso che il guru ha mostrato', la parola originaleTamil che ho tradotto come 'procedere' è naḍakka, che significacamminare, andare, procedere o comportarsi, e quindi implica chedobbiamo comportarci o agire in conformità con i suoiinsegnamenti, o in altre parole, dobbiamo immancabilmentepraticare il doppio sentiero di auto-indagine e auto-abbandono checi ha insegnato.

Lo scopo della manifestazione del nostro vero sé nella formaumana del guru è quello di insegnare a noi il mezzo attraverso ilquale possiamo ottenere la salvezza, che è lo stato di veraconoscenza di sé. Egli non si è manifestato come guru solo perchénoi dobbiamo adorarlo come Dio, aspettandoci che lui ci doniqualche beneficio finito o la felicità in questo mondo o in qualchealtro mondo.

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La funzione del guru è la funzione finale di Dio, che è quello didistruggere per sempre la nostra illusione d'individualità; la nostraillusione che siamo il corpo e la mente che ora immaginiamo diessere e compie questa funzione insegnandoci che dobbiamorivolgere la nostra attenzione verso l'interno, verso il nostro intimoessere, al fine di conoscere il nostro vero sé e quindi abbandonareil nostro falso sé individuale. Pertanto, se vogliamo veramenteessere salvati dalla nostra auto-imposta illusione, dobbiamoimmancabilmente fare come il guru ci ha insegnato, facendo ognisforzo possibile per dare attenzione al nostro essere essenziale, 'Iosono', e quindi cedere il nostro sé finito nell'infinito di quell'essereo 'Io sono'.

La grazia di Dio o Guru ci fornisce sempre tutto l'aiuto di cuiabbiamo bisogno per seguire questo percorso spirituale, madobbiamo sfruttare al massimo tale aiuto volgendo la nostra menteverso l'interno e rimanendo così nel nostro stato naturale di soloessere, che è il vero stato d indagine del sé e abbandono di sé. Dioo il guru ci dona sempre la grazia brillando dentro di noi come 'Iosono', ma dobbiamo ricambiare quella grazia e l'amoreconcentrandoci su 'Io sono'.

Il motivo per cui non abbiamo ancora raggiunto la salvezza èche continuiamo a ignorare la vera forma della grazia, che splendesempre dentro di noi come 'Io sono'. come Sri Ramana dice nelversetto 966 Guru Vācaka Kōvai:

“Poiché uḷḷadu [la realtà assoluta, 'essere' o 'ciò cheè'] solo è [la vera forma di] tiruvaruḷ [grazia divina],che sorge [in modo chiaro e preminente all'interno diognuno di noi] come uḷḷam [il nostro 'cuore', 'centro' ocoscienza essenziale 'sono'], l'errore di ignorare [otrascurare] 'ciò che è' è adatto [a essere consideratocome un difetto che appartiene] solo agli individui,che non pensano continuamente [ricordano opartecipano a questa grazia, che risplende con amore

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come 'sono'], interiormente fondendosi [con amore peresso]. Invece, come può il difetto di non donare dolcegrazia essere [considerato come una mancanza cheappartiene] a [Dio o guru, che è] 'ciò che è'?”

Essere senza grazia, amore, cortesia o poco disponibili è unerrore che può essere biasimato solo agli individui, che ignorano enon prestano attenzione alla realtà assoluta e infinita, uḷḷadu,'essere' o 'ciò che è', che brilla dentro di noi splendente come'sono' o 'Io sono', e non su Dio o guru, che è quella realtà. Dio oGuru non ci ignora mai, ma sempre splende dentro di noi come ilnostro essere o 'Io sono', che ci invita amorevolmente a volgercidentro e fonderci in lui. Tuttavia, anche se lui è sempre facilmentedisponibile per noi, scegliamo di ignorarlo costantementeconcentrandoci invece sui nostri pensieri e sulla nostra vitameschina come un individuo in questo mondo immaginario. Pernoi, per raggiungere la salvezza, solo due cose sono necessarie, lagrazia di Dio o del guru e la nostra volontà di sottoporci a talegrazia. Di questi due ingredienti indispensabili, il primo è sempredisponibile in abbondanza, e solo quest'ultimo è carente.

Fino a quando non saremo perfettamente disposti a cedere eperdere la nostra individualità, Dio o il guru non ci costringerannomai, ma coltiveranno costantemente il seme di tale volontà oamore nel nostro cuore, aiutandolo a crescere finché un giorno ciconsumerà. Pertanto, anche se il guru sicuramente ci salverà e nonci abbandonerà mai, è essenziale fare la nostra parte, che è quelladi sottometterci volentieri alla sua grazia, che è la chiarezzaperfetta della nostra fondamentale coscienza di sé: la nostraassolutamente non duale coscienza del nostro essere, 'Io sono'.

L'unico modo con cui possiamo quindi sottometterci oarrenderci alla sua grazia è 'pensare' o costantemente concentrarcisul nostro essenziale essere autocosciente, 'Io sono', fondendociinteriormente con travolgente amore per esso. Tentaresinceramente di abbandonarsi in questa maniera è quello che Sri

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Ramana intendeva quando ha detto, 'Tuttavia, è necessarioprocedere immancabilmente secondo il percorso che il guru hamostrato'.

Per conoscere il nostro vero sé, che è assoluto, infinito, eterno eindiviso essere-coscienza-beatitudine o sat-cit-ananda, dobbiamoessere disposti a cedere o rinunciare al nostro falso sé finito. E alfine di cedere il nostro falso sé, dobbiamo essere totalmenteconsumati da un amore travolgente per conoscere e per essere ilnostro vero sé o essere essenziale. Finché ci sentiamo soddisfattinella nostra condizione attuale, in cui abbiamo immaginariamentelimitato noi stessi come questa mente finita e come corpo, cimancherà la motivazione intensa che dobbiamo avere per poteressere sufficientemente disposti a cedere il nostro falso sé.

Poiché ora immaginiamo la nostra mente e il corpo essere noistessi, il nostro attaccamento a loro è molto forte, e quindi saremodisposti a cedere quest'allegato {forma-corpo} se non siamofortemente motivati a farlo? Il nostro attaccamento alla nostramente e corpo è così forte che ci induce a illudere noi stessi in unostato ingannevole di soddisfazione, che ci fa sentire che la nostracondizione attuale non è così insopportabile come è realmente.

Piuttosto che riconoscere il fatto che l'insoddisfazione profondache sentiamo nella nostra condizione attuale di coscienzaindividuale limitata da un corpo finito è l'inevitabile conseguenzadella nostra separazione immaginaria dall'infinita felicità che è lanostra vera natura (che non potremo quindi mai superare questainsoddisfazione con qualsiasi mezzo diverso dalla veraconoscenza di sé, vale a dire, lo sperimentare noi stessi come lareale coscienza di sé 'Io sono', libera da aggiunte, infinita, indivisae quindi assolutamente non duale), soddisfatti continuiamo lanostra vita come individui legati ad un corpo, immaginando chepossiamo raggiungere la felicità che cerchiamo godendo di piccolipiaceri transitori che sperimentiamo soddisfacendo uno qualsiasidei nostri innumerevoli desideri temporali. Quest'auto-ingannevole compiacimento è un problema grave che ogni vero

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aspirante spirituale prova, e che noi dobbiamo superare sevogliamo veramente cedere il nostro falso sé finito e quindiconoscere il nostro vero sé infinito.

Poiché questo compiacimento radicato è una conseguenzainevitabile di essersi piegati al potere di māyā o auto-illusione, cheè il potere che ci fa immaginare di essere questo corpo finito equesta mente finita; potere che normalmente non possiamovincere a meno che non viviamo una intensa crisi interna, comeessere improvvisamente di fronte a una profonda paura internadella morte. Pertanto, quando si raggiunge un certo stadio dimaturità spirituale, il potere della grazia generalmente ci induce asperimentare alcune di queste crisi interne, e quando lesperimentiamo saremo scioccati dal nostro attuale senso disoddisfazione e pertanto volgiamo la nostra attenzione all'internocon intenso amore per sapere ciò che realmente siamo.

Nella vita di Sri Ramana tale crisi interna si è verificata nellaforma di una improvvisa intensa paura della morte che ha vissutoquando era un ragazzo di sedici anni. Come abbiamo vistonell'introduzione a questo libro, questa paura intensa l'ha spinto arivolgere la sua attenzione verso l'interno per scoprire se erarealmente il corpo, che è soggetto alla morte.

Così intensamente concentrò la sua l'attenzione sul suo esserepiù profondo, la sua essenziale autocoscienza di sé 'Io', che lo hasperimentato con perfetta chiarezza, e quindi ha conosciuto dallasua esperienza diretta che non era il corpo mortale, ma era solol''Io immortale', eterno e infinito spirito, che è assolutamente nonduale, essere-coscienza-beatitudine. Sri Ramana descrive questasua esperienza nel secondo dei due versi del maṅgalam o'introduzione di buon auspicio' per 'Uḷḷadu Nāṟpadu':

“Quelle persone mature che hanno intensa pauradella morte si rifugiano ai piedi di Dio, che è privo dimorte e di nascita, [dipendendo da lui] come [la loroprotettiva] fortezza. Con la loro resa di sé,

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sperimentano la morte [la morte o la dissoluzione delloro finito sé]. Coloro che sono immortali [essendomorti al loro sé mortale, ed essendo divenuti in talmodo uniti allo spirito immortale] si avvicinerannoancora al pensiero-morte [o pensiero della morte]?”

Anche se la parola Tamil am letteralmente significa sia 'quelli'che 'bellezza' l'ho tradotta qui come 'quelli maturi', perché inquesto contesto, la bellezza indicata è la vera bellezza dellamaturità spirituale, che è la vera condizione desiderabile in cui lanostra mente è stata purificata della maggior parte delle sueimpurità, vale a dire le sue forme più rozze di desiderio ed èquindi pronta a consegnarsi totalmente a Dio.

La paura della morte è naturalmente insita in tutti gli esseriviventi, ma di solito rimane in forma latente, perché passiamo lamaggior parte del nostro tempo a pensare alla nostra vita in questomondo e, quindi, raramente pensiamo alla morte. Anche quandoqualche evento esterno o un pensiero interno ci ricorda che citoccherà prima o poi morire, la nostra paura della morte diventararamente intensa, perché il pensiero della morte ci spinge apensare alle cose nella nostra vita a cui siamo più fortementeattaccati.

Tuttavia, sebbene rimanga di solito in forma latente, la pauradella morte è la più grande, la più fondamentale e la più profondadi tutte le nostre paure. Temiamo la morte perché ci sembra essereuno stato di non esistenza; uno stato in cui noi cesseremo diesistere, o almeno cesseremo di esistere come ora conosciamo noistessi. Dato che amiamo il nostro essere o esistenza più di quantoamiamo ogni altra cosa, temiamo di perdere il nostro essere oesistenza più di quanto temiamo qualsiasi altra cosa. In altreparole, la nostra paura della morte è radicata nel nostro amore disé: il nostro amore fondamentale per il nostro essenziale sé oessere. Il motivo per cui amiamo il nostro essere è che siamo noistessi la felicità.

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Poiché per la nostra stessa natura, amiamo la felicità, e poichéla felicità è in realtà il nostro stesso essere, non possiamo evitaredi amare il nostro essere o esistenza, e quindi non possiamoevitare di temere la perdita o la distruzione del nostro essere oesistenza. Pertanto, fintanto che sperimentiamo noi stessi come uncorpo fisico, cioè, fino a quando confondiamo la nostra esistenzacon l'esistenza di un corpo mortale, non possiamo evitare di avereuna radicata paura della morte.

Quindi la paura della morte esisterà sempre in noi finché nonabbiamo veramente deciso di liberare noi stessi dalla nostraillusione auto-creata che siamo un corpo mortale. Poichéimmaginiamo di essere questo corpo, siamo inevitabilmenteattaccati a esso, e quindi abbiamo paura di perderlo. Tuttavia,anche se sappiamo tutti che un giorno il nostro corpo morirà, e chela morte può venire in qualsiasi momento, il potere di maya oillusione ci culla in uno stato di compiacimento, facendociimmaginare che la morte è lontana, o che in realtà non temiamo lamorte.

Anche se possiamo immaginare che non temiamo la morte, sela nostra vita è in pericolo improvviso, risponderemo sicuramentecon intensa paura. Tuttavia, non appena il pericolo immediato èpassato, la nostra paura si abbasserà e continueremo la nostra vitanel nostro solito stato di auto-ingannevole compiacimento. Anchese sperimentiamo un'intensa paura della morte ogni volta che lavita del nostro corpo è in estremo pericolo, l'intensità di quellapaura è di breve durata. Non è prolungata perché quando citroviamo di fronte alla morte reagiamo pensando ai nostri cari, ainostri amici, ai nostri beni materiali, al nostro status nella vita e adaltre cose esterne a cui siamo attaccati, e che noi di conseguenza,abbiamo paura di perdere.

Anche le nostre credenze religiose possono essere un mezzoattraverso il quale sosteniamo il comfort della nostracompiacenza. Se crediamo, per esempio, che dopo la morte delnostro corpo andremo in qualche altro mondo chiamato paradiso,

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dove saremo riuniti con tutti i nostri cari e gli amici, e dovevivremo con loro una vita eterna libera da ogni sofferenza, questafede ci aiuterà a tener lontana la nostra paura della morte.

Anche se abbiamo qualche credenza meno ottimista sulla vitadopo la morte, purché la nostra convinzione sia sufficientementeconfortante, come la maggior parte di tali credenze sono, ciaiuterà a sentirci compiacenti sulla certezza della morte. Finché cimanca vera maturità spirituale o libertà dal desiderio di qualcosadi esterno, la paura della morte spingerà la nostra mente a correreverso l'esterno per pensare alla nostra vita in questo mondo o nelprossimo, ed a causa di tali pensieri la nostra attenzione saràdeviata lontano dal pensiero della morte, e così la nostra pauraperderà la sua intensità. Tuttavia, finalmente quando abbiamoottenuto la vera maturità spirituale, la nostra reazione al pensierodella morte sarà diversa.

Se siamo spiritualmente maturi, l'intensità del nostro desiderioe l'attaccamento alle cose esterne, sia in questo mondo sia nelprossimo, sarà notevolmente ridotta. Pertanto, quando pensiamoalla morte, non avremo paura di perdere ogni cosa esterna, masolo paura di perdere la nostra esistenza o essere. Poiché le ultimevestigia del nostro desiderio e attaccamento saranno incentratesulla nostra esistenza come individuo, e dato che confondiamo lanostra esistenza con l'esistenza di qualunque corpo cheattualmente immaginiamo noi stessi di essere, quando il pensierodella morte del nostro corpo nasce dentro di noi, la nostra mente sivolgerà verso l'interno aggrappandosi alla propria esistenza oessere essenziale.

Questo è ciò che è accaduto nel caso di Sri Ramana. Quando ilpensiero della morte improvvisamente sorse in lui; la sua reazionefu di rivolgere la sua attenzione all'interno, verso il suo stessoessere, al fine di scoprire se lui stesso fosse morto con la morte delsuo corpo.

Poiché la sua attenzione era concentrata così intensamente sulproprio essere essenziale o 'am-ness' (lo stato di 'Io sono'), ha

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chiaramente sperimentato il proprio sé senza alcuna aggiuntasovrapposta come la sua mente o il suo corpo, e quindi hascoperto che il suo vero sé non era un corpo mortale o una mentetransitoria, ma era solo l'infinito spirito, eterno, senza nascita esenza morte: quella vera non duale coscienza di essere, checonosce sempre 'Io sono' e nient'altro che 'Io sono'.

Nella prima sentenza di questo secondo verso maṅgalam di'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana dice:

“Quelle persone mature che hanno intensa pauradella morte si rifugiano ai piedi del mahēśaṉ [il'grande Signore'], che è privo di morte e di nascita,[dipendendo da lui] come [la loro protettiva] fortezza.[...]”

Questo è un modo poetico di descrivere la propria esperienzad'investigazione del sé e abbandono di sé. Anche se la parolamahēśaṉ, che letteralmente significa il 'grande Signore', è unnome che di solito denota il signore Siva, la forma in cui moltiindù adorano Dio, Sri Ramana non lo ha usato in questo contestoper indicare una particolare forma di Dio, ma solo comeun'allegorica descrizione del senza nascita e dello spirito senzamorte, che esiste da sempre in ognuno di noi come il nostroessenziale essere cosciente di sé, 'Io sono'.

Nessun nome o forma di Dio è veramente privo di nascita o dimorte, apparizione o scomparsa, perché come tutti gli altri nomi eforme i vari nomi e le forme in cui i devoti adorano Dio sonoapparenze transitorie. Esse possono apparire solo quando la nostramente si è attivata per conoscerle, e spariscono quando la nostramente si disattiva. Pertanto, in tale contesto, le parole 'il grandeSignore, che è privo della morte e della nascita' non identificanosolo il saguna o aspetto qualificato di Dio, che è Dio come vieneconcepito dalla nostra mente finita, ma solo il suo essenzialenirguna o aspetto non qualificato; cioè Dio come egli è in realtà,

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che è la realtà assoluta senza nome e senza forma, il nostro veroessere consapevole di sé, che conosce sempre la propria esistenzasenza mai apparire o scomparire.

Tuttavia, se in questo contesto Sri Ramana non staeffettivamente descrivendo qualsiasi forma di saguṇa upāsana odi culto di Dio in nome e forma, utilizzando la parola mahēśaṉ,che è un nome personale di Dio, egli allude a tale culto.Quest'allusione è intenzionale, perché se noi adoriamo Dio innome e forma con la vera devozione del cuore ardente, la nostramente sarà gradualmente purificata o ripulita dalle sue forme piùrozze di desiderio, e quindi finirà per ottenere la maturitànecessaria per essere in grado di abbandonarsi, in tutto a lui.

Tuttavia, per quanto possiamo adorare Dio in nome e forma,non possiamo raggiungere l'obiettivo finale del percorso didevozione, che è la resa di sé completa di noi stessi a lui, fino aquando non rivolgiamo la nostra attenzione verso l'interno peradorarlo nella profondità del nostro cuore nel nucleo più internodel nostro essere che è il nostro vero ed essenziale essere. In altreparole, al fine di raggiungere il vero obiettivo di saguṇa upāsanao del culto di Dio in nome e forma, tale culto deve infine fiorirenel nirguṇa upāsana, che è il vero culto di Dio come unica realtàassoluta senza nome e senza forma, che esiste sempre dentro dinoi come il nostro essenziale essere cosciente di sé.

Possiamo sperimentare Dio come egli è davvero solo quandovolgiamo la nostra mente verso l'interno, lontano da tutti i nomi ele forme, che sono solo pensieri che abbiamo formato nella nostramente col nostro potere d'immaginazione, e quindi permettiamoad essa di dissolversi nella chiarezza assoluta del nostro vero edessenziale essere cosciente di sé, che è la vera 'forma' o la naturadi Dio. Tuttavia, per trasformare la nostra mente verso l'interno equindi arrenderci completamente nella luce di Dio che tuttoconsuma, il nostro vero essere, dobbiamo avere un immensoamore per lui, e quest'amore è coltivato dalla pratica di saguṇaupāsana o di culto dualistico.

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Tuttavia, anche se il vero amore di cui abbiamo bisogno peressere disposti ad arrenderci interamente nella chiarezza assolutadel puro essere cosciente di sé, che è la realtà di Dio e di noistessi, può essere coltivato gradualmente con la pratica delladevozione dualistica; la più veloce e più efficace via è la praticadella devozione non-dualistica (cioè, la pratica dell'attenzione alsé, che è la vera adorazione di Dio come nostro sé reale o essereessenziale).

Se coltiviamo il vero amore o la volontà di arrenderciinteramente alla realtà assoluta, che è l'infinita pienezza di essereche chiamiamo 'Dio', con la devozione dualistica o con ladevozione non-dualistica, una volta che l'abbiamo coltivatasufficientemente, qualsiasi crisi interna, come un'intensa pauradella morte spingerà la nostra mente a volgersi verso l'interno e adaffondare nella profondità più intima del nostro essere, al fine diarrendersi completamente a lui. Solo quando la nostra mente sifonde così nella fonte da cui era sorta, che è il nostro vero edessenziale essere consapevole di sé, la resa di sé a Dio saràdiventata completa.

Quest'abbandono completo della nostra mente, o sé individualenella profondità più interna del nostro essere è ciò che Sri Ramanadescrive in questo verso con le parole 'prenderanno rifugio aipiedi di Dio, che è privo di morte e di nascita, [dipendendo dalui] come [la loro protettiva] fortezza'. Nella poesia e nellaletteratura devozionale Indù l'adorazione di Dio è spesso descrittacome inchinarsi ai suoi piedi, cadendo ai suoi piedi,aggrappandosi ai suoi piedi, prendendo rifugio ai suoi piedi, e cosìvia, perché tali azioni implicano umiltà, devozione esottomissione.

Quindi nelle lingue indiane il termine 'piedi' è sinonimo di Diocome ultimo oggetto di culto o adorazione. Inoltre, come SriRamana ha spesso spiegato, il termine 'piedi di Dio' è unadescrizione allegorica del suo vero stato, lo stato senza ego eperfettamente non duale di puro essere consapevole di sé, che

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splende sempre all'interno di ognuno di noi, come 'Io sono'.Per ricordarci che possiamo sperimentare Dio come egli in

realtà è solo nel nucleo del nostro essere, ha sempre sottolineato laverità che i 'piedi di Dio' non possono essere trovati al di fuori, masolo all'interno di noi stessi. Una volta, quando una devota signoras'inchinò davanti a lui e prese possesso dei suoi piedi dicendo:“Sono aggrappata ai piedi del mio guru”, lui la guardògentilmente e ha detto: “Sono questi i piedi del guru? I piedi delguru sono ciò che sempre splende dentro di voi come 'Io Io'.Afferra quello”.

Pertanto, le parole 'quelle persone mature si rifugeranno aipiedi di Dio' significano che saranno amorevolmente immersinella profondità più intima del loro proprio essere, dove potrannosperimentare Dio come proprio vero sé. L'unico vero rifugio ofortezza che ci protegge dalla paura della morte e di ogni altraforma di miseria è il nucleo più intimo del nostro essere, che è lavera dimora di Dio, e che, essendo il fondamento che sta alla basee supporta la nostra mente e tutto ciò che è conosciuto da essa, èfigurativamente descritto come i suoi 'piedi'.

Nella seconda frase di questo versetto Sri Ramana dice: “Perla loro resa di sé, essi sperimentano la morte”. La morte che inprecedenza temevano era la morte del loro corpo, ma quando lapaura di quella morte li spinge a prendere rifugio ai 'piedi di Dio',essi sperimentano una morte di un tipo completamente diverso.

Cioè, quando prendono rifugio ai 'piedi di Dio' dissolvendosinella più interna profondità del proprio essere, essisperimenteranno la chiarezza assoluta della pura coscienza di sé,che inghiottirà la loro mente come la luce inghiotte il buio.

La nostra mente o sé individuale finito è una fantasia, una falsaforma di coscienza che si sperimenta come un corpo, che è unadelle sue creazioni immaginarie. Ci immaginiamo come questamente solo perché ignoriamo o non riusciamo a dare attenzione alnostro vero ed essenziale essere. Se sapessimo cosa siamoveramente, non ci sbaglieremmo considerandoci qualsiasi altra

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cosa. Quindi, poiché la nostra mente è venuta in esistenza a causadella nostra immaginaria ignoranza del sé, sarà distruttadall'esperienza della vera conoscenza di sé.

Perciò quando ci immergiamo nel nostro 'cuore', il nucleo piùintimo del nostro essere, dove la nostra vera coscienza di sérisplende libera da tutte le aggiunte, tutti i pensieri, tutte leimmaginazioni, ogni dualità e tutte le forme di limitazione, lanostra mente scomparirà nella chiarezza assoluta di quella puracoscienza di sé, proprio come un serpente immaginario scomparequando vediamo chiaramente che ciò che abbiamo scambiato perun serpente è in realtà solo una corda.

Poiché la nostra mente è una falsa conoscenza di noi stessi,un'immaginazione di essere un corpo materiale: l'esperienza dellavera conoscenza di sé rivelerà che è irreale. Pertanto, la morte chevivremo quando abbandoniamo il nostro falso sé individuale nellachiarezza assoluta della vera conoscenza di sé, che sempre brillanel nucleo più intimo del nostro essere, è la morte della nostramente.

La morte del nostro corpo non è una vera morte, perché quandoil nostro corpo muore la nostra mente creerà (da sé) un altro corpocol suo potere d'immaginazione. Mentre la nostra mentesopravvive, continuerà quindi creando per sé un corpo dopol'altro. Quindi l'unica vera morte è la morte della nostra mente.Tuttavia, anche se l'esperienza della vera conoscenza di sé èfigurativamente descritta come la morte o la distruzione dellanostra mente, non dobbiamo immaginare che questo implica chela nostra mente sia mai realmente esistita.

La morte della nostra mente è come la 'morte' di un serpenteche immaginiamo di vedere nella luce fioca della notte. Il mattino,quando sorge il sole, quel serpente immaginario sarà scomparso,perché vedremo chiaramente che è in realtà solo una corda. Allostesso modo, nella chiara luce della vera conoscenza di sé lanostra mente scomparirà, perché riconosceremo chiaramente che èin realtà solo la nostra infinita e non duale coscienza del nostro

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Investigazione del Sé e Abbandono di sé

essere essenziale.Proprio come il serpente in realtà non muore, perché non è mai

realmente esistito, così la nostra mente non potrà davvero morire,perché non è mai realmente esistita. La sua morte è reale solorispetto alla sua attuale esistenza apparente. Pertanto se in terminifigurativi l'esperienza della vera conoscenza di sé può esseredescritta come la morte del nostro sé irreale e come la nascita delnostro vero sé, in realtà è lo stato in cui sappiamo che esiste solo ilnostro vero sé, che è sempre esistito, e che la nostra mente, o séirreale non è mai veramente esistita.

Nella terza e ultima frase di questo versetto Sri Ramana dice:“Potranno quelli che sono immortali avvicinare il pensiero dellamorte?”. Qui la parola sāvādavar, che significa 'coloro che nonmuoiono' o 'coloro che sono immortali', denota coloro che si sonoarresi interamente a Dio, morendo come mente, o sé mortale, ediventando così uno con lo spirito immortale, l'infinita ed eternacoscienza di sé, 'Io sono': che è il vero ed essenziale essere di Dioe di noi stessi. La domanda retorica 'potranno avvicinare ilpensiero della morte?' È un modo gergale per dire che nonpotranno mai più provare alcun pensiero di morte.

La morte è solo un pensiero, come anche la paura della morte.Possiamo pensare la morte e sperimentare la paura di essa soloquando immaginiamo noi stessi di essere un corpo mortale Ilnostro corpo, la sua nascita e la sua morte sono tutti semplicipensieri o fantasie. Quando immaginiamo che siamo questo corpo,abbiamo di conseguenza immaginato che siamo nati in qualchemomento del passato e che moriremo a un certo momento delfuturo.

Chi o che cosa immagina tutto questo? Solo la nostra menteimmagina questi e tutti gli altri pensieri. Se la nostra mente èreale, questi pensieri sono anche reali, ma se noi investighiamointensamente la nostra mente per vedere se è vera, essa sparirà, esolo il nostro essere essenziale cosciente di sé rimarrà comel'eterna realtà immortale. La nostra mente, che immagina

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l'esistenza del nostro corpo, la sua nascita e la sua morte, è di persé un semplice pensiero o immaginazione.

È un fantasma che viene in esistenza solo immaginando sestesso di essere un corpo mortale, e anche se scompare quandoquesto corpo muore, così come scompare ogni giorno nel sonno,riapparirà immaginando di essere qualche altro corpo, così comeriappare in un sogno o al risveglio dal sonno. Essa potrà morire osparire definitivamente solo quando ci arrendiamo nella chiarezzaassoluta della vera conoscenza del sé.

Poiché la morte è un pensiero, e anche il pensatore della morteè un pensiero, il vero stato di non-morte o immortalità è solo lostato di essere, libero dal pensiero in modo assolutamente chiaro econscio di sé: lo stato in cui la nostra mente pensante è morta.Quando con la nostra completa resa di sé rimaniamo in modopermanente in questo stato di vera immortalità senza ego e senzala mente, non saremo mai più in grado di immaginare il pensierodella morte o di qualsiasi altro pensiero.

Così in questo verso Sri Ramana descrive sia l'obiettivo sia imezzi per raggiungere tale obiettivo. L'obiettivo è lo stato diimmortalità, in cui la nostra mente pensante, che teme e desidera èmorta, e il mezzo con cui possiamo raggiungere quest'obiettivo èla completa resa di sé, che possiamo ottenere solo dissolvendo lamente all'interno di noi stessi e rifugiandoci lì nella realtà assolutasenza nascita e senza morte, che è il nostro fondamentale essereconsapevole di sé, 'Io sono'.

Come abbiamo visto in questo capitolo, l'essenza siadell'investigazione del sé sia dell'abbandono di sé è solo essere.Finché sentiamo di star pensando o facendo qualcosa, la nostraattenzione non è concentrata interamente sul nostro essere, equindi non ci siamo ancora arresi interamente a Dio. L'essenza ditutta la pratica spirituale può essere riassunta in due parole, 'Soloessere'.

Tuttavia, se queste due parole sono la più accurata possibiledescrizione dei soli mezzi con cui possiamo raggiungere

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Investigazione del Sé e Abbandono di sé

l'infinitamente felice esperienza della vera conoscenza di sé, lamaggior parte di noi non è in grado di capire il loro pienosignificato, e quindi ci chiediamo come possiamo solo essere.Siamo così abituati a fare, e visto che non possiamo ottenerequalcosa senza fare qualcosa, tendiamo a pensare, 'cosa devo fareper essere soltanto?'.

Anche se abbiamo capito che l'essere non sta facendo nulla, eche quindi non possiamo fare nulla per essere, ancora cichiediamo come possiamo evitare di pensare o di fare qualsiasicosa. Per salvarci da tale confusione, Sri Ramana ci ha dato unsemplice indizio che ci consente di essere senza fare nulla. Cioè,ci ha insegnato che, al fine di essere senza fare niente, tuttiabbiamo bisogno di 'fare' concentrando tutta la nostra attenzionesu noi stessi, cioè, al nostro essere essenziale 'Io sono'.

Anche se questa pratica di focalizzare la nostra attenzione sulnostro essere può sembrare un 'fare', l'unico 'fare' che in realtàcoinvolge è il ritiro della nostra l'attenzione da tutte le altre cose,poiché una volta che la nostra attenzione si è ritirata e le èpermesso di stabilirsi su se stessa, ogni 'fare' sarà cessato e solo'essere' rimarrà. Inoltre, anche se questo ritiro della nostraattenzione da tutte le altre cose verso il nostro essere più intimopuò sembrare un 'fare' o azione, in realtà non è così, perché inpratica è solo un cedimento e cessazione di ogni attività.

Cioè, poiché la nostra mente sorge e diventa attiva solofrequentando altre cose oltre se stessa, quando ritira la suaattenzione di nuovo verso se stessa, si placa e tutte le sue attività o'fare' cessano. Così questo indizio di attenzione al sé che SriRamana ci ha dato è un mezzo infallibile per cui si può placare{ritirare} la nostra mente nel nostro stato naturale di solo essere.

Questo dissolversi della nostra mente, nel nostro stato naturaledi essere è ciò che è altrimenti noto come completo abbandono disé. La vera resa di sé è una cessazione cosciente e volontaria ditutta l'attività mentale, e ciò che resta quando tutti i nostri pensieridistraenti sono cessati è la chiara e indisturbata coscienza del

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nostro vero essere.Pertanto, proprio come l'attenzione al sé si traduce

automaticamente in assorbimento nel sé, così l'assorbimento nelsé si traduce automaticamente nell'attenzione al sé, che è la verapratica d'investigazione del sé. In realtà, anche se si parla diindagine di sé e resa di sé come se fossero due pratiche diverse,esse non sono in realtà così, ma sono solo due approcciapparentemente diversi per la stessa pratica, che è la pratica disolo essere il 'solo essere', cioè, con la piena coscienza del nostroessere. Cosa esattamente intendiamo quando la descriviamo comeapprocci diversi?

Anche se in pratica sono una sola e stessa cosa, differisconosolo nel loro essere due diversi modi di concettualizzare edescrivere una pratica di solo essere. Considerando che l'auto-indagine è la pratica di solo essere concepita più in terministrettamente filosofici; l'abbandono di sé è la stessa praticaconcepita in termini più devozionali. Tuttavia, questa distinzionenon è rigida, perché se compresa correttamente da una piùprofonda e più ampia prospettiva, l'investigazione di sé e la resa disé sono basati sulla stessa ampia filosofia e sono entrambemotivate dallo stesso profondo amore e devozione.

E solo dal punto di vista di persone che hanno una superficialee stretta comprensione della filosofia e della devozione, che sonoviste come fondamentalmente diverse e che questa distinzioneapparente esiste. Se invece siamo in grado di riconoscere che lafilosofia e la devozione appassionata alla verità assoluta sonoessenzialmente la stessa cosa, potremo capire che non c'è davveronessuna differenza tra l'indagine del sé e la resa di sé .

Pertanto, poiché l'indagine di sé e la resa di sé sono due nomidati alla stessa pratica di essere attenti al sé, consideriamo oraquesta pratica o l'arte di essere in modo più approfondito.

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Capitolo 10

La Pratica dell'Arte di Essere

L'arte di essere è la capacità di rimanere saldamente stabilitisenza azione e quindi nello stato senza pensieri, perfettamentechiaro di essere cosciente di sé, che è lo stato dell'assolutoabbandono di sé e la vera conoscenza di sé.

Come ogni altra abilità, l'arte di essere è coltivata eperfezionata con la pratica. Quanto più si pratica, più si svilupperàla forza di cui abbiamo bisogno per rimanere costantemente inequilibrio nella nostra coscienza naturale libera da pensieri delnostro essere essenziale. Quanta pratica per ognuno di noi saràeffettivamente necessaria al fine di perfezionare la nostra abilità inquest'arte di essere, dipenderà dal grado relativo della nostrapresente saggezza o maturità della mente.

Nel caso di Sri Ramana, solo pochi momenti di pratica furononecessari, perché in quel momento la sua mente era giàperfettamente matura e quindi disposta ad arrendersi ed essereassorbita nella luce fulgente, infinitamente chiara, della coscienzadi sé. Tuttavia, la maggior parte di noi non possiede nemmeno unafrazione di tale maturazione, quindi abbiamo bisogno di tempo edi persistente pratica per sviluppare quest'arte di essere

Che cosa intendiamo quando parliamo di saggezza o maturitàdella mente? La nostra mente sarà spiritualmente matura quando èstata purificata o ripulita di tutti i suoi desideri, tutte le suesimpatie e antipatie, i suoi attaccamenti, le sue avversioni, i suoitimori e così via e quando si è così sviluppata la volontà e il veroamore per abbandonarsi interamente e quindi scomparirebeatamente nel proprio essenziale essere cosciente di sé o 'am'-ness (lo stato di 'Io' sono). I nostri desideri sono gli ostacoli che cifanno riluttanti ad arrenderci al nostro essere infinito, e quindi

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sono la causa e la modalità della nostra non maturazione per laconoscenza di sé.

Come possiamo sviluppare la maturazione spirituale di cuiabbiamo bisogno per essere in grado di consegnare noi stessiinteramente allo stato di essere assoluto? Anche se ci sono moltimezzi con cui possiamo indirettamente e gradualmente cominciarea coltivare tale maturazione, in ultima analisi, possiamoperfezionarli solo praticando l'arte di essere.

Tutte le altre innumerevoli forme di pratica spirituale: comeservizio disinteressato, devozione dualistica, adorazione rituale, laripetizione del nome di Dio, la preghiera, la meditazione, le varieforme di autocontrollo interno ed esterno (comprese le importantivirtù dell'ahimsa o 'non nuocere', cioè evitare per compassione diprovocare qualsiasi tipo di danno o di sofferenza a qualsiasi esserevivente), le 'otto (membra)' dello yoga e così via, sono mezziindiretti che ci possono consentire gradualmente di purificare lanostra mente, purificandola dalle forme grossolane dei suoidesideri e in tal modo maturare, ma solo in una certa misura.

Cioè, dato che tutte le pratiche spirituali diverse dall'arte diessere prevedono la estroversione della nostra mente, unadeviazione della nostra attenzione lontano da noi stessi e versoqualcos'altro, possono consentire di liberare noi stessi in modoefficace solo dalle forme più grossolane dei nostri desideri eattaccamenti, ma non dalle forme più sottili.

Fino a quando e se non cominciamo a praticare l'arte di essere,mantenendo l'attenzione fissa saldamente ed esclusivamente sulnostro essenziale essere, come nostro essere essenziale, nonpossiamo ottenere la chiarezza verso l'interno e la concentrazioneche è necessaria per individuare e prevenire l'attivazione dellanostra mente e dei suoi desideri al loro molto iniziale punto dipartenza.

Come possiamo quindi essere in grado di individuare eprevenire il sorgere della nostra mente praticando l'arte di essere?

Quando si pratica quest'arte, la nostra attenzione è fissa al

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La Pratica dell'Arte di Essere

nostro essenziale essere cosciente di sé, che è la fonte da cui lanostra mente sorge insieme a tutti i suoi desideri più sottili, efintanto che la nostra attenzione rimane attentamente e saldamentefissata nella sua sorgente, la nostra mente non sarà in grado diattivarsi. Tuttavia, ogni volta che a causa anche del minimorallentamento della nostra vigile attenzione al sé permettiamo allanostra attenzione di vacillare ed essere deviata da qualsiasipensiero, noi sorgeremo nella forma della nostra mente pensante.

Ma praticando ripetutamente quest'arte di essere attenti al sé,otterremo la capacità di rilevare i rallentamenti nella nostra vigileattenzione al sé proprio nel momento in cui si verificano, e quindisaremo in grado di riguadagnare la nostra attenzione al séimmediatamente e quindi impedire il sorgere della nostra mentenel momento in cui si verifica.

Quanto più si pratica quest'arte di essere, tanto piùappassionata, acuta e chiara diventerà la nostra attenzione al sé, ecosì la nostra abilità nella tecnica di inibire il sorgere della nostramente già nella sua stessa fonte aumenterà costantemente. Ognimomento in cui riusciamo in tal vigile prevenire anche il minimoattivarsi della nostra mente, i desideri che la spingono a sorgeresaranno costantemente indeboliti, e il nostro amore per rimanereserenamente nel nostro stato naturale di essere saràproporzionalmente rafforzato, fino a quando finalmente sarannocompletamente sopraffatti tutti i nostri desideri rimanenti, moltoindeboliti, permettendoci in tal modo di arrenderci interamentenell'infinita chiarezza della vera conoscenza di sé.

Al di fuori di questa pratica di vigilare intensamente essendoattenti al sé, non c'è altro mezzo adeguato con cui possiamoindebolire e distruggere tutti i nostri desideri, inclusi quelli piùsottili e quindi più potenti. Tutte le altre pratiche spiritualicomportano una qualche attività della nostra mente, e fintantochéla nostra mente è attiva, sarà efficacemente in guardia perproteggere tutti i suoi desideri più intimi, tra cui il suofondamentale desiderio di esistere come coscienza individuale

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separata.Impegnando la nostra mente in qualsiasi attività, non possiamo

distruggere la sua volontà di base di auto-conservazione, e finchémantiene questo desiderio di base, continuerà a sostenerlo enutrirlo coltivando altri desideri. Cioè, il desiderio della nostramente di autoconservazione, che è soddisfatto e sostenuto da tuttele forme di pratica spirituale diverse dall'arte di totale auto-negazione di essere vigili e attenti al sé; non può reggersi da solo,ma deve essere accompagnato da un desiderio per qualcosadiverso da se stesso.

Questa esigenza è soddisfatta da ogni altra forma di praticaspirituale, perché tutte queste pratiche sostituiscono la nostramente focalizzandosi su qualcosa di altro da se stessa. Infatti,costringono la nostra mente a concentrarsi su qualcosa di diversoda se stessa. Pertanto, tali pratiche non possono allenare la nostramente ad abbandonare tutti i propri desideri, in particolare il suodesiderio di preservare la propria esistenza separata.

Alcune altre pratiche spirituali costringono la nostra mente acalmarsi, ma tale subsidenza (disattivazione) è solo temporanea,perché non è accompagnata da una chiara attenzione al sé. Quindinell'ottavo paragrafo di 'Nan Yar?', Sri Ramana ha detto:

“Per rendere il placarsi della mente [definitivo],non ci sono sufficienti mezzi diversi dal Vichara[investigazione, cioè l'arte di essere attenti al sé]. Setrattenuta con altri mezzi, la mente rimarrà come sefosse placata, [ma] emergerà di nuovo. Anche colprāṇāyāma [controllo del respiro], la mente sifermerà: tuttavia, [anche se] la mente resta disattivatafinché il respiro rimane fermo, quando il respiroriemerge [o diventa manifesto] anche la menteriemerge e vaga sotto l'influenza dei [suoi] vasanas[inclinazioni, impulsi o desideri].

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Il luogo di nascita sia della mente sia del prana [ilrespiro o forza vitale] è unico. Solo il pensiero è losvarupa [la 'propria forma'] della mente. Solo ilpensiero 'io' è il primo [o basilare] pensiero dellamente: esso solo è l'ego. Da dove nasce l'ego, da lìsolo nasce anche il respiro. Pertanto, quando la mentesi placa il prāṇa anche [scompare], [e] quando ilprāṇa si placa la mente si placa anche. Tuttavia nelsonno, anche sé la mente è placata, il respiro non siplaca. È organizzato così per ordine di Dio con loscopo di proteggere il corpo, e in modo che gli altrinon si chiedano se quel corpo è morto.

Quando la mente si placa nella veglia e nel samadhi[uno dei vari tipi di assorbimento mentale chederivano dalla pratica yogica o da altre forme dipratica spirituale], il prāṇa scompare. Il prāṇa è dettoessere la forma grossolana della mente. Fino almomento della morte la mente mantiene il prāṇa nelcorpo, e nel momento in cui il corpo muore, [la mente]lo afferra e lo porta [il prāṇa] via. Quindi prāṇāyāmaè solo un aiuto per frenare la mente, ma non porteràmanōnāśa [l'annientamento della mente]”.

Prima di passare a discutere l'efficacia di altre forme di praticaspirituale, Sri Ramana inizia questo paragrafo affermando la veritàimportante che 'Per rendere la mente placata [definitivamente],non ci sono mezzi adeguati diversi dal Vicāra [investigazione delSé]'. Perché è così? Poiché lo stato di vera conoscenza di sé, che èl'unico stato in cui la mente rimarrà disattivata definitivamente, èuno stato di solo essere, non può essere causato da qualsiasiazione o 'fare', ma solo con la pratica di solo essere.

Poiché Vicāra o indagine, che è semplicemente la praticadell'attenzione al sé non comporta alcuna azione, ma è solo uno

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stato di auto-consapevole essere, e poiché ogni altra forma dipratica spirituale è un 'azione di un tipo o di un altro, vicāra èl'unica pratica che ci consentirà di dimorare nello stato di eterno,infinito e assoluto essere, che è lo stato di vera conoscenza del sé.Questa stessa verità è anche chiaramente affermata da Sri AdiSankara nel versetto 11 del Vivēkacūḍāmaṇi:

“Azione [karma, che significa in genere un'azionedi qualsiasi natura ma che in questo contesto significaspecificamente qualsiasi azione che è eseguita perbeneficio spirituale] è [prescritto solo] per[raggiungere] cittaśuddhi [la purificazione dellamente] e non per [raggiungere] vastuupalabdhi [laconoscenza diretta o esperienza della realtà, la verasostanza o essenza, che è l'essere assoluto]. Ilraggiungimento di [questa esperienza] realtà [puòessere raggiunto solo] da vicāra e non da [anche] diecimilioni di azioni”.

Cioè, ad eccezione di vastu-vicāra, indagine o controllo delnostro essenziale essere o realtà, tutte le pratiche spirituali sonoazioni, e come tali possono solo servire a purificare la nostramente e quindi renderla adatta a placarsi e rimanere in modopermanente nel nostro essere essenziale o Vastu. Tuttavia, anchese esse possono purificare la nostra mente in una certa misura, nonpossono da sole permetterci di sperimentare il nostro vero esserecome realmente è.

Al fine di sperimentare una assolutamente chiara conoscenzadel nostro essere, dobbiamo rinunciare a tutte le azioni o 'fare' e sideve coltivare un amore perfettamente puro per solo essere, cosache possiamo fare solo con il vicāra: la pratica di essere attenti alsé. Pertanto, quando si discute l'efficacia di altre forme di praticaspirituale nei paragrafi ottavo e nono di 'Nan Yar?', Sri Ramanasottolinea ripetutamente che sono tutti solo aiuti che ci possono

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preparare per la pratica di vicāra o essere attenti al sé, ma che dasoli non possono portare manōnāśa, il completo annientamentodella nostra mente, che è lo stato di vera conoscenza di sé o diassoluto essere consapevole di sé.

Poiché l'obiettivo di Sri Ramana nell'ottavo comma è quello dispiegare il valore limitato del prāṇāyāma o controllo dellarespirazione, che è una delle pratiche centrali dello Yoga, spiega ilprincipio che sta alla base del prāṇāyāma nei termini dellafilosofia Yoga. È quindi solo dal punto di vista della filosofia yogache dice che il respiro non si ferma nel sonno, come Dio hadisposto, al fine di proteggere il corpo, e che la mente portalontano il prāṇa, al momento della morte.

Tuttavia, dal punto di vista dei suoi principali insegnamenti,dovremmo capire che tutto questo è solo relativamente vero, e sibasa sulla falsa convinzione cara a molti di noi che il corpo e ilmondo esistono indipendentemente dalla nostra mente. Secondo laverità rivelata e spiegata da lui in innumerevoli occasioni, il nostrocorpo e il mondo esistono solo nella fantasia della nostra mente,come il corpo e il mondo che viviamo in un sogno, e quindiquando la nostra mente si placa nel sonno o nella morte, non soloil nostro respiro o forza vitale si placano e svaniscono con essa,ma anche il nostro corpo cessa di esistere.

L'importanza centrale di questo paragrafo è la verità affermatanella prima delle due frasi. La nostra mente si disattiveràdefinitivamente solo rimanendo saldamente fissata nello stato diessere attenti al sé, perché solo in questo stato sarà rivelata laverità che la nostra mente è veramente sempre inesistente. Seinvece di praticare l'arte di rimanere così fissati nello stato diessere attenti al sé cerchiamo di placare la nostra mente colprāṇāyāma o qualsiasi altro mezzo, rimarrà come se fosse placataper un breve periodo, come avviene nel sonno, ma ancora unavolta sorgerà e vagherà sotto il dominio dei suoi impulsi o desideriprofondamente radicati, che non sono indeboliti minimamente datale disattivazione disattenta, non più di quanto siano indeboliti

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nel sonno.Come il prāṇāyāma, tutte le altre forme di pratica spirituale,

tranne l'arte di essere attenti al sé, sono solo aiuti che cipermettono di frenare la nostra mente temporaneamente, ma chenon possono da soli permetterci di distruggerla. Possiamoeffettivamente distruggere la nostra mente solo rimanendo nelnostro stato naturale di perfettamente chiaro essere attento al sé, econ nessun altro mezzo.

Questa verità, che è stata esplicitamente affermata da SriRamana nelle prime due proposizioni dell'ottavo paragrafo di'Nan Yar?', è ulteriormente sottolineata da lui con alcuni altriesempi nel nono paragrafo:

“Proprio come il prāṇāyāma, mūrti-dhyāna[meditazione su una forma di Dio], mantra-japa[ripetizione di parole sacre, come il nome di Dio] eāhāra-niyama [restrizione della dieta, in particolare larestrizione nel consumare solo cibo vegetariano] sono[solo] gli aiuti che limitano la mente [ma nonporteranno al suo annientamento].

Sia con mūrti-dhyāna che mantra-japa la menteguadagna acutezza [o concentrazione]. Come, se[qualcuno] mettesse una catena alla proboscide di unelefante, che è sempre in movimento [oscillandocercando di afferrare una cosa o l'altra], l'elefanteprocederà tenendola saldamente senza [afferrare e]mantenere saldamente nient'altro; così effettivamentela mente, che è sempre in movimento [girovagandopensando a qualcosa o a qualche altra], se addestratanella [pratica del pensare a] qualsiasi [particolare]nome o forma [di Dio], si fermerà tenendolasaldamente [senza pensare a inutili pensieri suqualcos'altro].

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Poiché la mente si disperde [disperdendo la suaenergia] in innumerevoli pensieri, ogni pensierodiventa estremamente debole. Per la mente che haguadagnato acutezza quando i pensieri si riducono e siriducono [cioè, che ha guadagnato concentrazione acausa della progressiva riduzione dei suoi pensieri] eche ha così guadagnato forza, ātma-vicāra[investigazione del sé, che è l'arte di essere attenti alsé] sarà facilmente realizzabile.

Con mita sattvika āhāra-niyama [la limitazione nelconsumo di solo una moderata quantità di cibo puro osattvika], che è la migliore tra tutte le restrizioni, ilsattva-guna [la qualità di calma, chiarezza e lo stato di'essere'] della mente aumenterà e [quindi] aiutosorgerà per l'auto-investigazione.

Entrambi mūrti-dhyāna e mantra-japa sonopratiche nel percorso di devozione dualistica, e quindisono efficaci nella misura in cui sono praticate conautentico amore per Dio. Se cerchiamo di praticareuna di loro senza vero amore, la nostra mente vagheràcostantemente verso altri pensieri a causa della forzadei desideri per qualsiasi cosa accade di pensare, equindi non saremo in grado di concentrarciinteramente su un singolo nome o forma di Dio”.

Pertanto, quando Sri Ramana dice che praticando mūrti-dhyāna o mantra-japa la nostra mente guadagnerà uni-direzionalità, vuole dire che il nostro amore per Dio saràconcentrato e focalizzato. Concentrando così il nostro amore eattenzione su un qualsiasi particolare nome o forma di Dio, ilnostro desiderio di pensare altri pensieri sarà indebolito, e il nostro

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amore nel pensare a Dio guadagnerà forza. Una volta che la nostramente ha guadagnato questa forza di amore unidirezionale perDio, sarà in grado di praticare l'arte di essere attenta al séfacilmente.

Dato che il nostro amore per Dio non può essere completo finoa quando non ci abbandoniamo interamente a lui, ogni devoto checerca sinceramente di pensare a Dio continuamente, naturalmentesvilupperà il desiderio di arrendersi interamente a lui. Al fine diarrenderci così, dobbiamo restare senza fare o pensare nulla, masemplicemente essere tranquillamente e pacificamenteconsapevoli della presenza di Dio che tutto abbraccia.

Poiché Dio è la totalità infinita o pienezza di essere, e poichéegli è quindi presente in ognuno di noi come nostro essereessenziale, 'Io sono', arrenderci {abbandonarci-dedicarci-consegnarci} a lui non è altro che arrendere noi stessi interamenteall'essere. In altre parole, è solo essere sottomessi e saldamentestabiliti nello stato di profonda attenzione al sé libero dal pensiero,che è il vero stato di ātma-vicāra o 'investigazione del sé'.Praticare l'arte di essere attenti al sé, è anche quindi il vero stato di'praticare la presenza di Dio', e per qualsiasi mente che hasviluppato l'amore per pensare a Dio costantemente eattentamente, raggiungere questo stato di Atma-Vicara o essereattenti al sé, sarà facile e naturale.

Pertanto, anche se la meditazione su un nome o forma di Dio èun'attività mentale e quindi non è di per sé lo stato in cui la mentesi è dissolta nell'essere, se praticata con il vero amore che si fondenel cuore, tale meditazione può essere di grande aiuto nelcondurre la nostra mente allo stato di maturazione spirituale in cuiessa sarà davvero disposta a fondersi, interamente nel sereno statodi essere che tutto consuma concentrati sul sé.

Considerando che la pratica del pranayama o controllo delrespiro, ci consentirà di raggiungere semplicemente uno statotemporaneo di cessazione mentale, la pratica di meditare conamore su di un nome o forma di Dio ci permetterà di raggiungere

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lo stato di travolgente amore per Dio e la conseguente libertà daaltri desideri, che è lo stato d'animo di cui abbiamo bisogno peressere in grado di rimanere fermamente stabiliti nel nostro statonaturale di essere concentrati sul sé. Tuttavia, così come l'attivitàmentale di meditare su un nome o una forma di Dio, se praticatacon vero amore, diventa un aiuto che prepara la nostra mente perla pratica d'indagine del sé o di essere concentrati sul sé, così ilpranayama, se praticato con l'atteggiamento giusto, può diventareanche un aiuto che prepara la nostra mente per la praticadell'indagine del sé.

Qual è l'atteggiamento giusto con cui una persona dovrebbepraticare il pranayama? È inteso che il raggiungimento di unostato simile al sonno, di sparizione temporanea della mente, non èun obiettivo utile, perché non può permetterci d'indebolire i nostridesideri; un vero beneficio spirituale può dunque essere realizzatopraticando il prāṇāyāma solo se, prima di consentire alla mente disparire in uno stato simile alla sospensione del sonno, usiamo lacalma della mente causata dal prāṇāyāma per ritirare la nostraattenzione dal nostro respiro e la fissiamo, invece nel nostrosemplice essere cosciente di sé.

Cioè, come mezzo per calmare la nostra mente, che di solito èagitata da molti pensieri, il pranayama può darci uno spaziorelativamente libero da pensieri nel quale possiamo praticare l'artedi essere attenti al sé con un minimo di distrazione. Tuttavia,quest'aiuto che può potenzialmente essere fornito dal prāṇāyāma èveramente inutile, perché possiamo rimanere nello stato di essereconcentrati sul sé solo se abbiamo un genuino amore per esso; seabbiamo un genuino amore per esso rimarremo in esso senzasforzo, senza la necessità di alcun aiuto esterno quale ilprāṇāyāma per calmare la nostra mente. Inoltre, poiché il relativospazio libero da pensieri fornito dal prāṇāyāma è prodotto da unmezzo artificiale e non da una riduzione della forza dei nostridesideri, se cerchiamo di utilizzare quello spazio ritirando lanostra attenzione dal nostro respiro e fissandola invece al nostro

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essere consapevole di sé, ci sono probabilità di sperimentare unpotente stimolo a pensare ad altro, non appena cerchiamo diconcentrarci sul nostro essere.

Pertanto, se vogliamo davvero fare qualcosa di diversodall'investigazione del sé nella speranza che alla fine ci aiuterà apraticare questa stessa indagine del sé, cercare di meditare conamore sul nome o su una forma di Dio è molto più sicuro enaturalmente più vantaggioso che seguire il prāṇāyāma.

Tuttavia, se veramente capiamo che Dio è sempre presente innoi come il nostro essere essenziale cosciente di sé, perchédovremmo fare lo sforzo di occuparci di qualsiasi altra cosainvece di cercare al nostro meglio di essere sempre attenti alnostro essere? L'altro aiuto all'investigazione del sé che SriRamana cita nel nono paragrafo di 'Nāṉ Yār?' è mita sattvikaāhāra-niyama.

Il termine āhāraniyama significa 'moderazione nel cibo', mapoiché la parola sanscrita āhāra etimologicamente significaprocurarsi, il recupero o l'assunzione, si può applicare non solo alcibo fisico che mettiamo in bocca, ma anche al cibo sensoriale cheprendiamo nella nostra mente attraverso i nostri cinque sensi.Pertanto, al fine di mantenere la nostra mente in una condizioneche è pi favorevole per noi nei nostri sforzi per coltivare l'abilitànell'arte di essere attenti al sé, dovremmo con ogni mezzoragionevole sforzarci di garantire che sia il cibo fisico cheingeriamo per il nostro corpo che il cibo sensoriale che prendiamonella nostra mente siano di opportuna quantità e qualità.

La quantità e la qualità del cibo che dovremmo consumare èdescritta da Sri Ramana come mita e sattvika. La parola mita siriferisce alla quantità di cibo che dovremmo consumare, esignifica misurato, limitato, frugale o moderato. La parola sattvikasi riferisce alla qualità del cibo che dovremmo consumare, esignifica sostanzialmente puro e sano, o pi precisamente, dotatodella qualità conosciuta come sattva, che letteralmente significa'con le qualità dell'essere', essenza o realtà, e che per estensione

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significa calma, chiarezza, purezza, saggezza, bontà e virtù. Larestrizione o niyama di mangiare solo cibi sattvika significaastenersi da tutti i tipi di prodotti alimentari non sattvika, cheincludono tutte le carni, i pesci, le uova, tutti i cibi intossicanticome alcol e tabacco, e tutte le altre sostanze che eccitanopassioni o opacizzano la chiarezza della nostra mente in ognimodo.

Anche se di solito gli Indù considerano i prodotti lattiero-caseari essere sattvika, nella maggior parte dei casi oggi questonon è il caso, perché l'industria casearia moderna si basa supratiche crudeli e sullo sfruttamento di allevamenti intensivi.Anche il latte che viene prodotto con mezzi meno crudeli qualil'agricoltura biologica non è totalmente incontaminato dallacrudeltà, perché ottenuto da mucche che sono state allevate perprodurre quantità innaturali e quindi fondamentalmente malsanedi latte, e perché il destino usuale delle vacche da latte e dei lorovitelli è di terminare la vita macellati sia per la loro carne che laloro pelle o entrambi.

Poiché uno dei principi importanti alla base dell'osservanza diconsumare solo cibo sattvika è ahiṁsā, il principiocompassionevole: 'non nuocere' o evitare di causare sofferenza aqualsiasi essere vivente; ogni alimento la cui produzione comportao è associato con la sofferenza di qualsiasi essere umano o altracreatura deve essere considerati come non sattvika. Nel nostrotempo, l'unico alimento che può veramente essere consideratocome sattvika è quello che viene prodotto biologicamente,equamente commercializzato e soprattutto vegano.

Oltre al principio importante e moralmente imperativo dellaahiṁsā, un altro motivo importante per prendersi cura del cibo chemangiamo è che l'effetto che il cibo ha sulla nostra mente èestremamente sottile. Se il nostro cibo è stato prodotto attraversola sofferenza di ogni creatura, la sottile influenza di tale sofferenzasarà contenuta in quel cibo, ed interesserà la nostra mente. Allostesso modo se il nostro cibo è stato manipolato, trasformati o

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cotto da una persona infelice con pensieri negativi nella mente, lasottile influenza di tali pensieri sarà contenuta in quel cibo.

Pertanto è generalmente raccomandato che un aspirantespirituale debba, per quanto possibile mangiare solo cibo che ècrudo o che è stato appena cucinato con ingredienti crudi ominimamente trasformati da una persona in uno stato d'animofelice e gentile, con pensieri premurosi e amorevoli nella mente,perché la gentilezza e l'amore sono gli ingredienti sattvici più importanti che è possibile aggiungere al cibo. Per quanto riguardail 'cibo' che prendiamo nella nostra mente attraverso i nostricinque sensi, dovremmo per quanto possibile, evitare dipartecipare a qualsiasi oggetto di senso che eccita: passione,avidità, lussuria, ira, invidia o qualsiasi altro, indesiderabilepensiero o emozione.

Anche se non possiamo sempre evitare di essere esposti aspettacoli o suoni indesiderati, dovremmo cercare di manteneretale esposizione al minimo. Inoltre, non solo dovremmo cercare divedere e sentire solo spettacoli o suoni sattvici, ma dobbiamoanche limitare la quantità delle percezioni dei nostri sensi ad unmita o livelli moderati. In altre parole, dovremmo evitarel'abitudine di bombardare costantemente i nostri sensi constimolazioni non necessarie, che con tutta la nostra tecnologiamoderna sono abbondantemente a nostra disposizione.

Che cosa esattamente ha a che fare tutto ciò con la praticadell'arte di essere concentrati sul sé? Per essere in grado dirimanere costantemente pronti nello stato estremamente sottile diessere concentrati sul sé, è essenziale che noi tratteniamo i nostridesideri e passioni; riduciamo la quantità e il vigore dei nostripensieri, e coltiviamo un atteggiamento contento, calmo e pacificodella mente. Tale assenza di desideri, l'appagamento, la calma e lapace sono qualità che in Sanscrito sono descritti come sattva-guṇao qualità dello stato dell'essere {esse-zza} (essenza), che è laqualità originale e naturale della nostra coscienza essenziale 'Iosono'.

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Anche se questa qualità sattva o 'being-ness' {lo stato di'essere'} è la qualità fondamentale che sottende sempre lacoscienza finita che noi chiamiamo la nostra 'mente', la nostraattività mentale tende a nasconderla ed oscurarla. Oltre a questaqualità sattva di base, ci sono sempre altre due qualità chefunzionano e competono alla nostra mente: cioè rajoguna, laqualità di dissipazione di rajas, passione, emozione, irrequietezza,agitazione e attività, e tamoguna, la qualità oscurante di tamas,oscurità, ottusità, fissazione, ignoranza, insensibilità, durezza dicuore, crudeltà, meschinità, egoismo, orgoglio ed emozioni bassecome la rabbia, l'avidità e la lussuria.

Considerando che sattva è la qualità naturale del nostro essereessenziale o sat, rajas e tamas sono le rispettive qualità di dueaspetti fondamentali del nostro potere di auto-inganno o maya,essendo il primo la qualità del nostro potere di dissipazione ovikṣēpa śakti, e l'ultimo essendo la qualità del nostro potere dioscuramento o di āvaraṇa śakti. La nostra mente è composta dauna miscela di queste tre qualità, ma in proporzioni variabili.Finchè la mente esiste, ciascuna di esse sarà sempre presente inuna maggiore o minore proporzione, e attraverso i nostri stati diveglia e sogno saranno in competizione per dominarla. In ognimomento uno o pi di essi predominano, e la loro relativapredominanza influenzerà la nostra capacità di essere concentratisul nostro essere essenziale, la nostra coscienza 'Io sono'.

Per essere in grado di rimanere calmi e profondamente attential nostro vero ma estremamente sottile essere consapevole di sé, laqualità di sattva o 'essenza' deve prevalere nella nostra mente,sopraffacendo e sopprimendo le altre due qualità. Finchè una oentrambe le altre due qualità predominano, la nostra mentemancherà la chiarezza e la calma che è necessaria per essere ingrado di rimanere acutamente attenti al sé. Sri Ramana ha usatodue similitudini per illustrare questo.

“Proprio come non saremmo in grado di separare le

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finissime fibre di un tessuto di seta utilizzando unasbarra di ferro spessa e pesante, così non saremmo ingrado di distinguere il nostro essere estremamentesottile fintantoché la nostra mente è sotto l'influenzadel tamas, la densa e pesante qualità delle tenebre,insensibilità e orgoglio. Allo stesso modo, propriocome non saremmo in grado di trovare un oggettoestremamente piccolo al buio con una lampadatremolante in un vento forte, così non saremo in gradodi discernere il nostro essere estremamente sottile eimmobile fintantoché la nostra mente è sottol'influenza di rajas, la dissipazione e la qualità delladistrazione della passione e delle attività inquiete”.

Pertanto al fine di stabilirci saldamente e stabilmente nel nostrostato naturale di chiaro e incrollabile essere attento al sé,dovremmo fare ogni sforzo possibile per coltivare e mantenereuna predominanza di sattva nella nostra mente. Poiché la qualitàdella nostra mente è fortemente influenzata dalla qualità del cibofisico che mangiamo, Sri Ramana dice che consumando solomoderate quantità di cibo sattvico la qualità sattva della nostramente aumenterà e questo ci aiuterà nella nostra pratica diindagine del sé.

Per coltivare questa qualità sattva, non si dovrebbe consumaresolo cibo sattvico, ma si dovrebbero anche consumare tali alimentisolo in quantità moderate, perché mangiare una quantità ineccesso di cibo, anche del più sattvico, avrà un effetto diottundimento sulla nostra mente.

Considerando che possiamo fare a meno di molti altri aiuti,come prāṇāyāma, mūrti-dhyāna e mantra-japa, osservare questalimitazione sulla quantità e la qualità del cibo che consumiamo èuno degli aiuti a cui non dovremmo, per quanto possibile mairinunciare, perchè mentre gli altri aiuti distraggono la nostramente dal nostro obiettivo centrale di praticare l'arte di essere

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attenti al sé, questa limitazione sulla natura e la quantità del nostrocibo non è una distrazione e può solo aiutare nella nostra pratica.

Se l'arte di essere attenti al sé fosse davvero difficile, potremmoaver bisogno di aiuti come il prāṇāyāma, mūrti-dhyāna e mantra-japa per aiutarci a praticarla, ma in realtà non è per nientedifficile. In realtà, è la cosa pi facile di tutte, perché mentre tuttigli altri sforzi che facciamo sono innaturali per noi, laconcentrazione al sé essendo il nostro stato naturale non richiededavvero alcuno sforzo a tutti gli effetti. Lo sforzo sembra esserenecessario solo perché abbiamo una maggiore inclinazione apartecipare ad altre cose che a rimanere con attenzione nel nostroessere.

Il nostro desiderio e l'attaccamento alle cose diverse da noistessi ci rende non disposti a lasciar andare tutto e a mantenercicalmi, senza legami e saldi nel nostro stato naturale di essereattenti al sé, liberi dai pensieri; la nostra mancanza di volontà dirimanere così, lo fa apparire difficile. Tuttavia, di per sé dimorarein questo vero stato di essere attento al sé, non è per nientedifficile.

Pertanto, nel ritornello e sub-ritornello che ha composto per lasua canzone Āṉma-Viddai Sri Ramana canta:

“Che meraviglia, ātma-vidyā [la scienza e l'artedella conoscenza di sé è [così] estremamente facile!Che meraviglia, [così] estremamente facile! [Il nostrovero] sé è [così] reale, anche per la gente comune[ignorante], che [in confronto anche] un fruttoāmalaka nel [nostro] palmo finisce [impallidiscenell'insignificanza] come irreale”.

La parola vidyā in sanscrito significa fondamentalmente'conoscenza', ma nell'effettivo utilizzo ha una vasta gamma disignificati, tra cui: filosofia, scienza, arte, apprendimento oqualsiasi abilità pratica. Così la parola composta ātma-vidyā, che

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in Tamil è generalmente modificato come āṉma-viddai, significa:la scienza pratica e l'arte di conoscere il nostro vero sé o essereessenziale. La nostra coscienza del nostro essere, 'Io sono', che è ilnostro vero sé è la nostra prima e fondamentale conoscenza, equindi è chiara e reale in ogni momento, ancor prima di imparareo capire niente altro. 'Così reale come un frutto āmalaka in mano'è un modo idiomatico di dire che è qualcosa perfettamente chiaroed evidente, ma in confronto alla nostra assolutamente chiara ereale coscienza 'Io sono', anche la chiarezza e la realtà di un talefrutto in mano impallidisce in totale insignificanza.

Quando il nostro vero sé o essenziale essere 'Io sono' è cosìreale per ciascuno di noi, la scienza e l'arte di conoscere e diessere noi stessi, è estremamente facile: molto più facile rispetto aqualsiasi altra cosa si possa immaginare. Per conoscere il nostrovero sé, non abbiamo bisogno di fare nulla. Poiché noi stessisiamo la realtà che chiamiamo il nostro 'sé' o Atman, nonpossiamo conoscerci come un oggetto.

Noi conosciamo gli oggetti con un atto di conoscenza, cioè,prestando attenzione a loro. Quest'atto di prestare attenzione a unoggetto è un movimento della nostra attenzione lontano da noistessi e verso quell'oggetto, che immaginiamo di essere altro danoi stessi. Poiché il processo di conoscere qualcosa di altro da noistessi comporta questo stimolo della nostra attenzione,suscitandola dal suo stato naturale ove riposa come la nostrasemplice non duale coscienza di essere, e indirizzandola versol'esterno a qualcosa che sembra essere diverso da noi stessi: èun'azione o 'fare'.

Tuttavia, non possiamo conoscere noi stessi in questo stessomodo, perché ogni movimento o azione della nostra attenzione loporta lontano da noi stessi. Pertanto non possiamo conoscere noistessi con qualsiasi atto di conoscere, o con qualsiasi altro tipo di'fare'. Poiché il nostro vero sé è l'essere perfettamente chiarocosciente di sé, possiamo conoscerlo solo essendo lui, e non col'fare' qualcosa.

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Semplicemente essendo attenti al sé, rimaniamo naturalmentecome il nostro essere consapevole di sé, senza fare nulla. Pertanto,poiché quest'arte di essere auto-attenti {attenti al sé} noncoinvolge anche la minima azione della nostra mente, della parolao del corpo, è il più facile mezzo e di fatto l'unico mezzoveramente adeguato per sperimentare la felicità infinita della veraconoscenza di sé. Quindi nel versetto 4 del Āṉma-Viddai SriRamana canta:

“Per sciogliere i legami che iniziano col karma[cioè, i legami d'azione, e di tutto ciò che deriva daun'azione], [ed] elevarsi al di sopra [o rivivere da] larovina che inizia con la nascita [cioè di trascendere ediventare liberi dalle miserie dell'esistenza incarnata,che inizia con la nascita e termina con la morte, soloper cominciare ancora una volta con la nascita di unaltro corpo creato dalla mente], [piuttosto] di qualsiasialtro percorso [], questo percorso [di semplice essereattenti al sé] è estremamente facile.

Quando [noi] solo siamo, dopo esserci stabiliti[tranquillamente e pacificamente in perfetto riposo,come il nostro semplice essere cosciente di sé] senzaneanche il minimo karma [azione] della mente,discorso o corpo, ah, nel [nostro] cuore [il nucleo piùprofondo del nostro essere] la luce del sé [risplenderàchiaramente come la nostra non duale coscienza diessere, 'Io sono Io']. [Avendo così annegato e perso ilnostro individuale sé in questo stato perfettamentetranquillo e infinitamente chiaro della vera conoscenzadel sé, la scopriremo come la nostra] esperienzaeterna. Paura non esisterà. Solo l'oceano di [infinita]beatitudine [rimarrà]”.

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Per raggiungere questa eterna esperienza di felicità infinita, nondobbiamo fare nulla con la mente, la parola o il corpo, madobbiamo placarci {immergerci} e stabilirci tranquillamente nelnostro stato naturale perfettamente chiaro di essere cosciente di sé.

Le parole che Sri Ramana usa per descrivere questo stato disolo essere Sono: summā amarndu irukka. La parola irukka è laforma infinita della radice verbale iru, che significa 'essere', ed èusato idiomaticamente nel senso, 'quando [noi] siamo'. La parolaamarndu è il participio presente o passato del verbo amar, chesignifica risiedere, restare, essere seduto, diventare immobile,diventare calmo, entrare in tranquillità, riposo, stabilirsi o essereestinto.

E l'avverbio summā significa soltanto, solo, senza fretta, insilenzio, con calma, immobile, inoperoso, senza fare nulla, oppurein perfetta pace e riposo. Poiché summā può essere preso comequalificazione sia di amarndu che di irukka, la frase summāamarndu irukka significa 'quando [noi] solo siamo, dopo averstabilito il silenzio, con calma e pacificamente in perfetta quiete'.Il senso di queste tre parole, soprattutto la parola summā, è anchesottolineato dalle parole precedenti, che significano 'senzanemmeno la minima azione della mente, della parola o del corpo'.

Pertanto, la pratica della ātma-vidyā, la scienza e l'arte diconoscere il nostro vero sé, è solo essere, senza neppure la minimaazione della mente, della parola o del corpo, essendo la nostramente placata e stabilita pacificamente come il nostro sempliceessere cosciente di sé.

Questa pratica di 'essere solo' o summā iruppadu è anchechiaramente spiegata da Sri Ramana nel sesto paragrafo di 'NāṉYār?', dove si definisce come 'portare [la nostra] mente aplacarsi [stabilirsi, fondersi, sciogliersi, sparire, essere assorbitao perire] in ātma-svarūpa [il nostro sé essenziale]'. pertanto,poiché questa pratica di ātma-vidyā è solo essere il nostro sempreconsapevole essere, non comporta alcuna azione della nostramente, della parola o del corpo, ed è davvero 'estremamente

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facile', molto più facile rispetto a qualsiasi altro 'percorso' o formadi pratica spirituale. Tuttavia, a causa della densità della nostraillusione auto-imposta o māyā,, e grazie alla forza dei nostridesideri rimasti, conoscere ed essere il nostro reale sé appare,nella visualizzazione della nostra mente, difficile.

Cioè, se lo stato assolutamente chiaro di essere cosciente di séè veramente il nostro stato naturale, e anche se è sempre vissutoda noi come 'Io sono', la sua chiarezza naturale appare alla nostramente offuscata e oscurata dai pensieri, che sono spinti dai nostriprofondi radicati desideri; quindi discernere ciò chiaramente inmezzo a tutti questi pensieri sembra per la nostra mente difficile.

Questa difficoltà apparente persisterà fintanto che la nostramente è sotto l'influenza di māyā, e dei suoi guṇas o 'qualità',tamas e rajas. Come abbiamo visto in precedenza, cercare difocalizzare la nostra attenzione sulla nostra coscienza essenzialedi essere quando la nostra mente è sotto l'influenza del tamo-guna,la qualità oscura delle tenebre e dell'insensibilità; è come tentaredi separare i fili sottili di un panno di seta con l'estremità smussatadi una sbarra di ferro pesante, o cercando di fare in modo chequando la nostra mente è sotto il dominio della rajo-guna, laqualità della dissipazione, dell'irrequietezza e dell'agitazione, ècome il tentativo di trovare un piccolo oggetto al buio con l'aiutodella luce tremolante di una lanterna sferzata da un vento forte.

Quindi per quelli di noi la cui illusione del sé e i desideri sonoforti, e nella cui mente questi due guna predominano, rimanerecalmi e dimorare come coscienza essenziale di essere sembreràessere non facile.

Tuttavia, proprio come l'unico modo per imparare a parlare èquello di parlare, l'unico modo per imparare a camminare ècamminare, e l'unico modo per imparare a leggere è quello dileggere, l'unico modo per imparare l'arte di concentrarsi e dirisiedere come nostro essere puro autocosciente è quello dipraticare questa arte.

Tuttavia anche se molte volte i nostri tentativi falliranno,

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dobbiamo perseverare nel provare ancora e ancora. Facendolo,gradualmente ma costantemente acquisiremo le abilità necessarieper risiedere con fermezza come nostro reale sé, la nostra vera edessenziale coscienza di essere, 'Io sono'. Dimorare nel sé, che èl'arte di essere concentrati sul sé, non è impossibile per chiunque.Tutto quello che serve è uno sforzo persistente.

Ogni momento che siamo attenti alla nostra coscienza naturaledel nostro essere, 'Io sono', per maldestramente e imperfettamenteche sia, la chiara luce di tale relativamente pura autocoscienza faràpulizia e purificherà la nostra mente, disperdendo il buio del tamo-guna e calmando l'agitazione di rajo-guna, e quindi permettendo lanaturale chiarezza di sattva-guna o 'essere' di manifestarsi.

Per esprimere la stessa verità in un altro modo: quandopratichiamo l'arte di essere attenti al sé, la chiarezza della nostraattenzione al sé si comporta come i cocenti raggi del sole: asciugatutti i semi del desiderio nel nostro cuore e in tal modo li rendesterili. Sebbene la distruzione di questi semi dei nostri desideri è ilfine ultimo e lo scopo di ogni forma di pratica spirituale; possonoinfatti essere effettivamente distrutti, bruciati e resi sterili solodalla chiarezza del nostro stato di essere {being-ness} concentratosul sé e in nessun altro modo.

Questi semi dei nostri desideri, che nella filosofia vēdānta sichiamano vāsanās, una parola che viene solitamente tradotta come'latenti tendenze mentali o inclinazioni', ma il cui vero senso puòessere meglio tradotto come latenti 'impulsi mentali' o 'forzemotrici' che sono ciò che sorge e si manifesta nella nostra mentecome pensieri. Poiché la loro stessa esistenza è minacciata dallachiarezza del nostro dimorare nel sé o essere attenti al sé; quandocerchiamo di praticare il dimorare in questo stato di essere attential sé questi si ribellano, manifestandosi nella nostra mente comeinnumerevoli pensieri di vario genere.

Quando si ribellano in questo modo contro il nostro stato diessere {being-ness} attenti al sé, l'unico modo per sconfiggerli èquello di ignorarli, mantenendo la nostra attenzione con fermezza

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fissa al nostro essere essenziale, come spiegato da Sri Ramana nelseguente passaggio del sesto comma di 'Nāṉ Yār?':

“[...] Se altri pensieri sorgono, senza cercare dicompletarli [si] deve indagare a chi si sono verificati.Tuttavia anche se molti pensieri sorgono, cosa[importa]? Non appena appare ogni pensiero, se [noi]vigili indaghiamo a chi si è verificato, 'a me' saràchiaro [cioè, sarà chiaramente ricordato a noi stessi, achi ogni pensiero si verifica].

Se [noi così] indaghiamo 'chi sono Io?' [Cioè, sevolgiamo l'attenzione indietro verso noi stessi e lateniamo ben fissata e vigile sul nostro essenzialeessere consapevole, al fine di scoprire cosa questo'me' è davvero], [la nostra] mente tornerà al suo luogodi nascita [il nucleo più intimo del nostro essere, che èla fonte da cui è sorta]: [e poiché in tal modo ciasteniamo dal partecipare ad essa] il pensiero che erasalito sarà anche dissolto. Quando [noi] la pratichiamoe pratichiamo in questo modo, il potere della [nostra]mente di stare saldamente ferma nel suo luogo dinascita aumenterà. [...]”

Nessun pensiero può sorgere senza che noi lo pensiamo.Pertanto, il modo più semplice di distogliere la nostra attenzionedai nostri pensieri come e quando sorgono è ricordare che si sonoverificati solo a noi stessi. Invece di permettere a noi stessi diessere distratti da ogni pensiero che sorge, se continuiamo vigili aricordarci di noi stessi, ognuno dei nostri pensieri perirà appenafarà il tentativo di sorgere, perché senza la nostra attenzione nonpuò sopravvivere.

Se invece diventiamo momentaneamente distratti da qualsiasipensiero, dovremmo distogliere immediatamente la nostra

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attenzione lontano da esso e verso noi stessi ricordando che si èverificato solo 'a me'. Non appena ci ricordiamo questo 'me' a cuisi era verificato il pensiero, la nostra attenzione tornerà alla suafonte, che è la nostra coscienza di essere, 'Io sono'.

Questo processo di portare la nostra attenzione verso il nostroessere cosciente di sé, scrutando noi stessi attentamente, neltentativo di scoprire 'chi sono Io a cui si sono verificati questipensieri?' è ciò che Sri Ramana descrive quando dice: “Se[noi]investighiamo indaghiamo 'chi sono Io?', [la nostra] mentetornerà al suo luogo di nascita”. La nostra mente è il nostropotere di attenzione, che diventa estroversa pensando ad altre coseoltre a noi stessi, e il suo luogo di nascita o sorgente è il nostroessere, la nostra coscienza di sé di base ed essenziale 'Io sono'.Pertanto, quando deviamo la nostra mente lontano da tutti ipensieri e la focalizziamo esclusivamente sul nostro essere, stiamosemplicemente ritornando al suo luogo di nascita, la fonte da cuiera sorta. La nostra mente sorge solo immaginando cose diverseda sé, quelle cose immaginate sono i suoi pensieri.

Pertanto, quando rivolgiamo la nostra mente o attenzione versoil nostro essere essenziale, questa è deviata lontano da tutti i suoipensieri immaginari, e quindi si immerge nella sua fonte e rimanecome il nostro semplice essere cosciente di sé. Quando rimaniamocome essere, invece di sorgere come la nostra mente pensante, inostri pensieri sono tutti privati della nostra attenzione, e poichénessun pensiero può esistere se non prestiamo attenzione a esso,Sri Ramana aggiunge che quando la nostra mente si placa nel suoluogo di nascita o sorgente, anche 'il pensiero che era sorto siriabbasserà'. Poi conclude dicendo:

“Quando [noi] pratichiamo e pratichiamo in questomodo, alla [nostra] mente aumenterà il potere di starefermamente nel suo luogo di nascita”.

Cioè, quando abbiamo ripetutamente esercitata quest'arte di

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volgere subito la nostra attenzione indietro verso la sua fonte ognivolta che ci si è distratti, anche al sorgere del più piccolo pensiero,la capacità della nostra mente di restare saldamente concentratasul sé e stabilita come puro essere aumenterà. Pertanto, la ripetutae persistente pratica di quest'arte, di essere attenti al sé, è l'unicomezzo con cui possiamo coltivare la capacità e la forza dirimanere non toccati dai pensieri, e quindi indebolire e infinedistruggere tutti i nostri vasanas, i semi dei nostri desideri, che lifanno sorgere.

Questo processo di fissare gradualmente la nostra mente ol'attenzione sempre più saldamente nel nostro essenziale esserecosciente del sé, ritirandoci ripetutamente e con insistenza da tuttii pensieri di qualsiasi cosa diversa da noi stessi è chiaramentedescritto da Sri Krishna in due versi molto importanti dellaBhagavad Gita, i versetti 25 e 26 del capitolo 6, che Sri Ramanaha tradotti in Tamil come versetti 27 e 28 della Bhagavad GītāSāram, una selezione costituita da quarantadue versi dellaBhagavad Gita che esprimono la sua 'sara' o essenza:

“Con [un] intelletto [un potere di discriminazione odiscernimento] imbevuto di fermezza [costanza,risolutezza, persistenza o coraggio] uno dovrebbedelicatamente e gradualmente ritirare [la propriamente] da [tutte le] attività.

Dopo aver fatto permanere [la propria] mente saldanell'ātman [il proprio sé reale o essere essenziale], nonsi deve pensare [anche solo un po'] a qualsiasi altracosa. Ovunque vada [sempre] la mente vacillante edinstabile, trattenendola [o ritirandola] da lì si dovrebbesoggiogarla [tenendola sempre fissata saldamente]solo nell'ātman [il proprio sé reale]”.

Le parole chiave utilizzate qui sono ātma-saṁsthaṁ manaḥ

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kṛtvā,, che letteralmente significano 'avendo fatto in modo che lamente stia ferma [o immobile] in sé', e per chiara implicazionedeve essere applicato a ciascuna delle tre frasi in questi due versi.

Cioè, dobbiamo dolcemente e gradualmente ritirare la nostramente da tutte le attività o pensieri mantenendola ferma eimmobile nel nostro sé essenziale, avendola così resa di sé ferma eimmobile nel nostro essenziale sé dovremmo evitare di pensare aqualsiasi cosa, e se a causa della nostra mancanza di vigilanzaessa s'aggira di nuovo verso qualsiasi altra cosa, renderla di nuovoferma nel nostro sé essenziale limitando le sue peregrinazioni,ritirandola da tutto ciò che sta pensando, e quindi sottometterla eplacarla nel nostro sé essenziale.

Che cosa esattamente Sri Krishna significa quando dice chedovremmo tenere la nostra mente ferma nel sé o Atman? La parolasaṁstha è la parola stha, che letteralmente significa 'permanere',qualificata dal prefisso sam, che letteralmente significa 'con' o'insieme', ma che è usato per esprimere non solo congiunzione ounione, ma anche l'intensità, la completezza o accuratezza. Cosìsaṁstha significa permanere con, permanere unito, permanerefermo, permanere fisso, o semplicemente saldamente risiedere,rimanendo o essendo.

Da qui le parole ātma-saṁsthaṁ manaḥ denotano lo stato incui la nostra mente è fermamente immobile stabilita nel nostroessere essenziale, in quanto nostro essere essenziale, essendoconsapevolmente placata e quindi fusa, unita e divenuta uno conesso. Pertanto ciò che Sri Krishna implica chiaramente da questeparole è che noi dovremmo tenere tutta la nostra mente, oattenzione fermamente fissa o acutamente focalizzata sul nostrovero sé o essere essenziale, e dovrebbe quindi rimaneresaldamente nello stato di chiaro essere concentrato nel sé.

Tuttavia, finché i nostri vāsanās o desideri latenti non sonomolto indeboliti, la nostra mente continuerà ad essere incerta einstabile, e si precipiterà ripetutamente verso altre cose diverse danoi stessi. Quando la nostra mente è in una tale condizione, non

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possiamo forzarla, contro la sua volontà, di rimanere in silenzio epacificamente nel nostro stato naturale di essere attento al sé;quindi praticando ripetutamente questa arte di essere fermamenteattenti al sé dobbiamo dolcemente e gradualmente addestrarla ecoltivare in essa la volontà di recedere dalla sua attività abituale dipensare a cose diverse da noi stessi.

Le parole nel versetto 25 che ho tradotto come 'dolce egraduale' sono śanaiḥ śanair. Questa ripetizione della parolaśanais, che è un avverbio che significa 'quietamente', 'con calma','piano', 'gentilmente' o 'gradualmente', trasmette il senso chequesta pratica di ritirarsi da ogni attività, per stabilire la nostramente fermamente nel nostro essere, deve essere fatta non solocon delicatezza e senza qualsiasi forza o costrizione, ma ancheripetutamente e con insistenza. Questo stesso senso è anchetrasmesso nel verso seguente. Cioè, quando e ovunque la nostramente possa vagare, dovremmo persistentemente praticare il suocontenimento, ritirandola ogni volta dagli oggetti ai quali stapensando, e soggiogandola stabilendola fermamente nel nostroessere essenziale.

Ogni volta che riusciremo nei nostri sforzi per stabilire lanostra mente così nel nostro reale sé o Atman, dovremmorimanere fermamente stabiliti in quello stato di essere attenti al séessendo senza pensare neanche minimamente a qualsiasi altracosa. Praticando questa arte di attirare indietro ripetutamente lanostra mente o l'attenzione dai pensieri e verso noi stessi,gradualmente indeboliremo e infine distruggeremo tutti i nostrivasanas o desideri profondamente radicati.

Questo processo di distruzione delle nostre vāsanās appena sialzano in forma di pensieri è descritto da Sri Ramana più indettaglio nel decimo e undicesimo paragrafo di 'Nāṉ Yār?'. Neldecimo paragrafo, dice:

“Anche se viṣaya-vāsanās [i nostri impulsi latenti odesideri di occuparci di altre cose che noi stessi], che

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vengono da tempi immemorabili, sorgono [come ipensieri] innumerevoli come onde dell'oceano,saranno tutti distrutti quando svarūpa-dhyāna[attenzione al sé] aumenta sempre più. Senza darespazio al pensiero che 'dubita', è possibile scioglierecosì tanti vasana ed essere [o rimanere] solo come 'sé',[noi] dovremmo aggrapparci tenacementeall'attenzione al sé.

Per quanto grande peccatore una persona possaessere, se invece di lamentarsi e piangere, 'io sono unpeccatore! Come faccio a essere salvato?', [egli]rigetta completamente il pensiero che lui è unpeccatore ed è zelante [o saldo] nell'attenzione al sé,egli sarà certamente ravveduto [o trasformato nellavera 'forma' di essere cosciente di sé libero dalpensiero]”.

I nostri vasanas o desideri latenti, che sono le forze trainantiche ci spingono a pensare, e i nostri pensieri, che sono le loroforme manifeste, non hanno alcun potere proprio. Essi traggono illoro potere solo da noi. Fintantoché gli diamo attenzione, li stiamoalimentando con il potere che è insito nella nostra attenzione.

Come Sri Sadhu Om diceva, la nostra attenzione è il poteredivino della grazia, perché è in sostanza la suprema cit-śakti opotere della coscienza, che è il nostro essere essenziale e la realtàassoluta. La nostra attenzione o coscienza è il potere che sta allabase, sostiene e dà vita alla nostra immaginazione, e come tale è ilpotere che crea tutto questo mondo di dualità e molteplicità.

Pertanto di qualunque cosa ci occuperemo sarà alimentato ereso apparentemente reale. I nostri desideri e pensieri sembranoessere reali solo perché ci occupiamo di loro, e quindi il potereche sembrano avere deriva solo dalla nostra attenzione. Propriocome la nostra esperienza di un sogno sembra essere reale e avere

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potere su noi solo fin tanto che siamo attenti a esso, così tutti inostri desideri e pensieri sembrano essere reali ed avere potere sudi noi solo finché ci occupiamo di loro.

Pertanto, se fissiamo la nostra attenzione interamente edesclusivamente nel nostro essere essenziale e ignoriamo tutti ipensieri che le nostre vasana o latenti desideri spingono amanifestarsi, priveremo quei desideri latenti del potere di cuihanno bisogno per sopravvivere, e che essi possono ottenere solodalla nostra attenzione. Tanto più li priviamo dell'attenzione checercano, tanto più deboli li faremo diventare, e quindi otterremocrescenti possibilità di resistere al potere di attrazione con cui cihanno fino ad ora dominato.

Questo è il motivo per cui Sri Ramana ha detto nel sestoparagrafo di 'Nāṉ Yār?': “Quando [noi] la pratichiamo semprepiù in questo modo, alla [nostra] mente il potere di starefermamente stabilita nel suo luogo natale aumenterà”. Cioè, piùsi pratica questa arte di essere vigilmente attenti al sé, ignorandofermamente tutti i nostri impulsi di pensare ad altro, piùguadagneremo la forza di rimanere fermamente stabiliti nel nostroessere naturale sempre chiaro e cosciente di sé.

Quando la nostra forza o il potere di rimanere saldamentefondati nel nostro essere cosciente di sé così aumenta, tutti i nostridesideri latenti o vasana saranno progressivamente indeboliti efiniranno per perdere il potere che ora hanno per distrarci dalnostro stato naturale di solo essere. Questo è il motivo per cui SriRamana dice che 'saranno tutti distrutti quando svarūpadhyāna[attenzione al sé] aumenta e aumenta', e perché egli dice che nondovremmo quindi dare spazio al sorgere di qualsiasi tipo dipensiero, ma dovremmo invece 'aggrapparci tenacementeall'attenzione al sé'.

Qualunque pensiero ci sentiamo spinti a pensare,aggrappandoci tenacemente all'attenzione al sé, possiamo subitoindebolire non solo quel particolare impulso o vāsanā, ma anchecontemporaneamente tutti i nostri altri impulsi latenti che ci

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spingono a pensare ogni pensiero, e con la continua tenaciapossiamo finalmente distruggere completamente tutti i nostriimpulsi latenti o desideri.

Pertanto, se vogliamo veramente distruggere tutti i nostridesideri latenti e quindi raggiungere il nostro stato naturale di veraconoscenza del sé, dobbiamo essere estremamente tenaci epersistenti nella nostra pratica di attenzione al sé, che è la vera artedi essere. Ciò che in pratica Sri Ramana dice con le parole 'senzadare spazio al pensiero' quando dice qui, 'Senza dare spazio alpensare dubitativo, se è possibile dissolvere così tanti vāsanās esolo essere il sé, dovremmo aggrapparci tenacemente a svarūpa-dhyāna [attenzione al sé]', e quando dice nel paragrafo XIII,'Senza dare anche il minimo spazio al sorgere di ogni pensierotranne ātma-cintana [il pensiero di sé], essendo completamenteimmersi nel ātma-niṣṭha [dimorare nel sé] è dare noi stessi aDio'.

Non dare spazio al sorgere di eventuali altri pensieri significaignorarli completamente, non permettendo loro anche il minimospazio all'interno del campo della nostra attenzione o coscienza.Come in pratica è possibile per noi escludere tutti i pensieri dallanostra coscienza?

E possibile farlo solo riempiendo la nostra attenzione ocoscienza interamente ed esclusivamente con il 'pensiero di sé'svarūpa-dhyāna o ātma-cintana, cioè con l'attenzione al sé chiara,perspicace e vigile. Sebbene Sri Ramana a volte si è riferitoall'attenzione al sé come 'pensiero del sé', usando le parole cheimplicano il pensiero come dhyāna o cintana, ha spesso chiaritoche in realtà è uno stato di solo essere, e non uno stato di 'pensare'o di attività mentale. Pertanto, poiché prestare attenzione a tuttociò che è diverso da noi stessi è 'pensare', e dato che essere attentisolo a noi stessi è uno stato non di 'pensare' ma solo di 'essere',l'attenzione al sé è l'unico strumento pratico ed efficace con cuipossiamo escludere tutti i pensieri dalla nostra coscienza.

Nell'ultima frase di questo paragrafo Sri Ramana ci assicura

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che se siamo zelanti o saldi nell'attenzione al sé, saremosicuramente 'riformati' o 'trasformati'. La parola che ho tradottocome zelante o costante è ūkkam-uḷḷavaṉ, che significa unapersona che ha ūkkam, impulso, ardore, zelo, forza, convinzione esincerità. Così, in questo contesto, la parola ūkkam implica lastessa tenacia ardente e fermezza che viene enfatizzato dalleparole viḍāppiḍiyāy piḍikka vēṇḍum, che compare in precedenzain questo paragrafo e che ho tradotto come 'dovremo aggrapparcitenacemente a'.

Aggrapparci tenacemente all'attenzione al sé con tanta ardentetenacia, zelo, fermezza e perseveranza è essenziale se vogliamoveramente avere successo nei nostri sforzi per raggiungere lafelicità assoluta, che può essere vissuta solo nella calma e nellostato senza pensieri di vera conoscenza di sé. La parola finale diquesto paragrafo è uruppaḍuvāṉ, che etimologicamente significa'diventerà forma', ma che è comunemente usato in un modoidiomatico di dire come 'sarà elevato' o migliorato nel corpo,nella mente o nella morale, e quindi l'ho tradotto come 'verràriformata' o 'sarà trasformata'.

Tuttavia, poiché la parola uru o 'forma' può anche indicaresvarupa, 'la nostra forma o sé essenziale', in questo contesto, ilsignificato implicito di uruppaḍuvāṉ non è solo che noi'diventeremo moralmente trasformati' o 'saremo trasformati inuna persona migliore', ma è che saremo trasformati nella nostraforma 'vera ed eterna, che è senza pensieri libera, infinita, chetutto trascende, l'essere assoluto e perfettamente chiaroconsapevole di sé'.

Nell'undicesimo punto di 'Nan Yar?' Sri Ramana continua aspiegare di più su come la pratica di essere attenti al sé ci permettedi distruggere tutti i nostri vasanas o desideri latenti disperimentare cose diverse da noi stessi:

“Finché viṣaya-vāsanās [impulsi latenti o desideridi prestare attenzione a qualcosa di diverso da noi

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stessi] esistono nella [nostra mente], così a lungol'investigazione 'chi sono Io?' è necessaria. Come equando i pensieri sorgono, subito è necessario [pernoi] annientarli tutti con l'investigazione [perspicace evigile attenzione al sé] nello stesso luogo da cuiderivano.

Essere [risiedere o rimanere] senza partecipare a[nulla] altro [che a noi stessi] è vairāgya [distacco] onirāśā [mancanza di desiderio]: essere [risiedere orimanere] senza abbandonare il [separarsi da olasciarsi andare dal nostro vero] sé è jñāna [laconoscenza]. In verità [questi] due [assenza didesiderio e vera conoscenza] sono solo uno.

Proprio come un pescatore di perle, legandosi unapietra alla cintola e sommergendosi, prende una perlache si trova nel mare, così ogni persona,sommergendosi [sotto l'attività di superficie dellamente] e affondando [profondamente] all'interno di sestessi con vairāgya [libertà dal desiderio o da passioneper qualsiasi cosa diversa dall'essere], può raggiungerela perla del sé. Se uno si aggrappa fermamente ad unaininterrotta svarūpa-smaraṇa [ricordo di sé] fino araggiungere svarūpa [il proprio sé essenziale], che dasolo [sarà] sufficiente.

Finché i nemici sono all'interno della fortezza,continueranno a venire fuori da essa. Se [noi]continuiamo a distruggere [o tagliar via] tutti lorocome e quando arrivano, la fortezza [alla fine] entreràin [nostro] possesso”.

L'indagine o vicāra 'chi sono Io?' alla quale Sri Ramana si

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riferisce qui è la stessa pratica di auto- attenzione di cui alprecedente paragrafo come svarūpa-dhyāna o 'meditazione sullapropria essenziale forma'.

Poiché questa pratica di essere attenti al sé è l'unico mezzoattraverso il quale possiamo effettivamente indebolire e infinedistruggere tutti i nostri vāsanās o latenti desideri, è necessario pernoi continuare a praticarla con tenacia fino a quando tutti questisono stati completamente sradicati. Poiché questi desideri latentisono le forze motrici che ci spingono a pensare, fintantoché ognipensiero, ogni traccia di conoscenza di altro che il nostro sempliceessere cosciente di sé 'Io sono', appare nella nostra coscienza, cosìa lungo dovremmo tenacemente perseverare nel restare aggrappatialla acuta e vigile 'attenzione del sé'.

Finché continuiamo ad essere vigili e attenti al sé, potremoannientare efficacemente ogni pensiero che tenta di sorgere.Poiché la nostra acuta attenzione al sé non darà spazio permanifestarsi a qualsiasi pensiero, come e quando qualsiasidesiderio latente tenta di sorgere nella forma di un pensiero saràimmediatamente annientato nel momento e nel luogo in cui tentadi sorgere. Il 'luogo' o origine in cui e da cui nascono tutti i nostripensieri è il nostro essere essenziale o coscienza, 'Io sono'.

Con l'attenzione al sé restiamo come il nostro essere coscientedi sé, e così abbiamo tagliato ogni pensiero lì per lì, non appenacomincia a manifestarsi. Se invece la nostra vigilanza al sé siallenta anche un briciolo, daremo spazio per il sorgere di pensierie quindi si affretteranno avanti in grande numero in un tentativo didistrarre la nostra attenzione lontano dal nostro essere. Se siamoattratti da questi pensieri e quindi non riusciamo a recuperareimmediatamente la nostra attenzione al sé, continueranno a salirecon grande vigore, sopraffacendoci e sottoponendoci ancora unavolta all'illusione della dualità. Questa negligenza al sé,odimenticanza di sé o lassismo nella nostra naturale attenzione al séè chiamata nella filosofia vēdānta come pramāda.

Poiché permette al nostro potere di māyā o illusione di

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sopraffarci con i molteplici prodotti della nostra immaginazione, acominciare con la nostra individualità illusoria e compresi tutti inostri desideri, i nostri pensieri e gli oggetti di questo mondo. Daitempi antichi i saggi hanno ripetutamente affermato la verità chetale negligenza al sé o pramāda è la morte. Cioè, quando a causadella nostra negligenza al sé noi scivoliamo giù dalla fermadimora di essere attenti al sé, apparentemente ci trasformiamonella coscienza individuale finita e irreale che chiamiamo la nostra'mente', e quindi, in effetti, moriamo per il nostro reale sé infinito.

Quando riusciamo nei nostri tentativi di aggrapparcitenacemente all'attenzione al sé, dovremo quindi evitare dipartecipare a qualsiasi altra cosa, o in altre parole, evitared'immaginare o pensare a qualsiasi cosa diversa da noi stessi.Poiché le forze che ci spingono a immaginare e conoscere altrecose oltre noi stessi sono i nostri desideri latenti, saremo in gradodi astenerci dal partecipare a qualsiasi altra cosa solo quandosiamo in grado di evitare l'errore fatale di soccombere allaattrazione illusoria degli oggetti immaginari dei nostri desideri.

Pertanto ogni volta che rimaniamo senza partecipare a qualcosadi diverso da noi stessi, in quei momenti saremo liberi da tutti inostri desideri, e quindi Sri Ramana dice:

“Essere senza partecipare a [nulla] altro [che noistessi] è vairāgya [distacco] o nirāśā [mancanza didesiderio]”.

In questo stato d'essere attenti al sé, in cui tutta la nostraconoscenza immaginaria di altre cose è del tutto esclusa, tutto ciòche conosciamo è la nostra propria non duale coscienza di essere,'Io sono'. Poiché (come abbiamo visto nei capitoli precedenti)questa non duale coscienza di sé 'Io sono' è l'unica veraconoscenza, perché è l'unica conoscenza che non è finita orelativa, Sri Ramana dice:

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“Essere senza lasciare [il nostro vero] sé [il nostroessere essenziale consapevole di sé, 'Io sono'] è jñāna[la conoscenza]”.

Cioè, ogni volta che siamo in grado di essere senza lasciare lapresa ferma e attenta al nostro chiaro, naturale ed eterno esserecosciente di sé, 'Io sono', stiamo vivendo in quel momento solo lavera, infinita e assoluta conoscenza.

Poiché non essere attenti a nulla di diverso da noi stessi e nonlasciare noi stessi, sono solo due modi alternativi di descrivere ilnostro stato naturale libero da pensieri, di essere attenti al sé; dopoaver definito la mancanza di desideri come 'essere senza dareattenzione a [nulla] altro [che noi stessi]' e la vera conoscenzacome 'essere senza lasciare noi stessi'. Sri Ramana concludedicendo: 'In verità [questi] due sono solo uno'. Cioè, l'unico statodi vera mancanza di desideri è lo stato di vera conoscenza di sé.

Poiché questo stato non è qualcosa di estraneo a noi, ma è ilnostro stato naturale ed eterno di essere, possiamo cominciare asperimentarlo anche ora semplicemente rimanendo vigili esaldamente come il nostro semplice essere attento al sé. Poichénoi sappiamo sempre 'Io sono', la coscienza del nostro essere èsempre presente.

Tuttavia, a causa del nostro desiderio di prestare attenzione aipensieri e agli oggetti che abbiamo creato col nostro potere diautoinganno della immaginazione, tendiamo a ignorare otrascurare questa coscienza del sé fondamentale. Più fortemente inostri desideri spingono la nostra mente o l'attenzione a fluirefuori verso gli oggetti della nostra immaginazione, tanto piùtenderemo a trascurare il nostro indispensabile essere coscientedel sé. In altre parole, tanto più forti diventano i nostri desideritanto più densa crescerà la nostra ignoranza del sé.

Viceversa, più deboli i nostri desideri diventano, più luminosa echiara la nostra naturale coscienza di sé o conoscenza di sébrillerà. In altre parole, il grado di chiarezza della coscienza di sé

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è inversamente proporzionale alla forza dei nostri desideri e allaconseguente densità dei nostri pensieri o attività mentale. Pertantola coscienza di sé o attenzione al sé, come la chiamiamo quando lapratichiamo come un esercizio spirituale, non è qualcosa che è siabianco o nero.

Cioè, non è una qualità che è presente o assente, ma è unaqualità che è sempre presente, ma in gradi molto diversi dichiarezza e intensità. Questo è vero, ovviamente, solo dal punto divista della nostra mente, che essendo una forma estroversa diattenzione o coscienza non sperimenta la propria coscienzaessenziale di essere con chiarezza perfetta e assoluta. Dal punto divista del nostro vero sé, che è la chiarezza assoluta della nostracoscienza di essere, non ci sono gradi relativi di coscienza di sé,perché solo la sua coscienza naturale e infinita del proprio essereveramente esiste.

Tuttavia, anche se la verità assoluta è che solo la nostracoscienza del sé esiste davvero, e che non vi è quindi alcun'altracosa che può mai oscurare o ridurre la sua chiarezza intensa eperfetta, nella relativa e dualistica visione della nostra mente lacoscienza del sé sembra essere qualcosa che sperimentiamo condiversi gradi di chiarezza e intensità. Dal punto di vista dellanostra pratica spirituale, dunque, il nostro obiettivo deve sempreessere quello di sperimentare la nostra coscienza del sé oattenzione al sé con il massimo possibile grado di chiarezza.

Quindi dovremmo cercare di concentrare la nostra attenzionecosì attentamente sul nostro essere cosciente di sé che tutta lanostra consapevolezza o conoscenza di qualsiasi altra cosa ècompletamente esclusa. Quanto più siamo in grado di siffattaappassionata attenzione al sé da escludere ogni altra conoscenza opensieri, più chiaramente e intensamente diventeremo coscienti dinoi stessi come siamo veramente.

Per illustrare questo processo attraverso cui possiamo fardiventare la nostra coscienza di sé sempre più chiara e intensa, SriRamana ci dà l'analogia di un pescatore di perle che affonda in

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profondità nell'oceano per raccogliere una perla. I nostri pensieri,che sono la conoscenza immaginaria che abbiamo delle cosediverse da noi stessi, sono come le onde sempre irrequiete sullasuperficie del oceano.

Quanto più siamo alla superficie della nostra mente, tanto piùsaremo squassati dal movimento dei nostri pensieri. Tuttavia,invece di fluttuare vicino alla superficie, se affondiamo e ciimmergiamo o penetriamo in profondità nel nostro essere, semprepiù ci avvicineremo al centro assoluto o essenza del nostro essere,che è completamente libero da ogni movimento.

Più profondamente affondiamo nel nostro essere, meno saremoinfluenzati dal movimento di ogni pensiero. Affondando oimmergendoci in profondità in noi stessi significa quindi penetrarein profondità sotto l'attività di superficie della nostra mente,concentrando la nostra attenzione sempre più sottilmente,acutamente, esclusivamente e con fermezza al 'nostro stato di Iosono' {'am'-ness} la nostra coscienza fondamentale del nostroessere essenziale, che sempre sperimentiamo come 'Io sono'.

Quando la nostra attenzione penetra quindi nella vera essenzadel nostro essere, la nostra mente si abbasserà o affonderà nellostato di solo essere, e quindi tutta la sua attività o pensare cesseràautomaticamente e senza sforzo. Solo ripetutamente e coninsistenza penetrando così nella profondità del nostro stato di 'Iosono' {'am'-ness} il nostro essenziale essere cosciente di sé,saremo finalmente in grado di raggiungere la profondità piùintima o il centro assoluto, che è essa stessa la 'perla del sé', ilperfetto stato di vera e infinitamente chiara conoscenza di sé, chestiamo cercando di raggiungere.

Sri Ramana ha spesso usato questa analogia di immersioni oaffondamento nell'acqua per illustrare come profondamente eintensamente la nostra attenzione dovrebbe penetrare nel nucleopiù intimo o essenza del nostro essere. Ad esempio, nel versetto28 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', dice:

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“Come affondando [immergendosi] al fine ditrovare un oggetto che è caduto in acqua,immergendosi [affondamento, penetrando…] entro[noi stessi] frenando la [nostra] parola e il respiro per[mezzo di un] intelletto acuto [appassionato, intenso,penetrante potere del discernimento o attenzione]dovremmo conoscere il luogo [o fonte] dove [ilnostro] ego che sorge nasce. Conosci [questo]”.

Le parole chiave di questo versetto sono kūrnda matiyāl, (chesignifica da una forte, concentrata, attenta e intensa, e penetrantemente o intelletto o potere di discernimento, cognizione oattenzione); queste parole sono collocate in questo versetto inposizione tale che si applicano implicitamente a tutti i verbi che liseguono.

Cioè, dobbiamo limitare la nostra parola e il respiro con unintelletto acutamente focalizzato e penetrante, dobbiamoimmergerci o affondare all'interno di noi stessi con un intellettointensamente concentrato e penetrante, e dovremmo conoscere lafonte dalla quale il nostro ego sorge con un intelletto intensamenteconcentrato e penetrante. Ma cosa vuol dire esattamente SriRamana in questo contesto, con queste parole kūrnda mati: unamente o intelletto forte, acuto, intensamente focalizzato epenetrante?

L'indizio che ci dà per rispondere a questa domanda si trovanegli ultimi due verbi indicati. Cioè, poiché questo acuto epenetrante intelletto è il mezzo o strumento con cui siamo in gradodi immergerci, affondare, o penetrare profondamente all'interno dinoi stessi, e da cui possiamo così conoscere la fonte da cui ilnostro ego si alza, deve essere un intelletto, un potere didiscernimento o di attenzione che è rivolto verso l'interno,concentrato acutamente, significativo e penetrante nel nostro verosé o essere essenziale, che è la fonte o il 'luogo' da cui il nostroego o senso individuale di 'io' sorge.

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Quindi un kūrnda mati è un acuto, forte, intenso e penetranteintelletto attento al sé. In questo contesto è importante notare cheanche sé le parole sanscrite buddhi e mati di solito sono tradotte ininglese con la parola 'intelletto', essi non si limitano a significare'intelletto', nel senso superficiale in cui questa parola ènormalmente utilizzata in inglese. Cioè, in inglese la parola'intelletto' normalmente intende solo la nostra potenza superficialedi ragionamento o pensiero razionale, mentre in Sanscrito, Tamil ealtre lingue indiane le parole buddhi e mati trasmettono unsignificato molto più profondo di questo.

Il vero significato di queste due parole; in particolare nel sensoin cui Sri Ramana usa la parola mati in questo verso, è 'intelletto'nel suo originario senso, che deriva dalle parole latine 'inter-legere', che significano 'scegliere tra', e che denotano quindi ilnostro potere o facoltà di discernimento e discriminazione. Quindiin questo verso la parola mati denota la nostra profonda forzainteriore di discernimento o capacità di distinguere e chiaramentericonoscere ciò che è reale, un potere che non deriva solo dalragionamento intellettuale o pensiero razionale, ma piuttosto dallaprofonda chiarezza naturale di pura coscienza del sé che esistesempre dentro di noi, ma che di solito è annuvolata dalla densità edall'intensità dei nostri desideri e attaccamenti e dai nostri pensiericonseguenti.

Anche se nella filosofia di Advaita Vedanta due parole: 'manas'o 'mente' e 'buddhi' o 'intelletto' sono spesso utilizzate in modotale che esse sembrano indicare due entità diverse, Sri Ramana hachiarito il fatto che in realtà non sono due entità diverse, ma sonosolo due aspetti diversi o funzioni di una singola entità: cioè lanostra individuale finita coscienza, che di solito chiamiamo lanostra 'mente'. Quindi ogni volta che una distinzione è implicitanel significato di queste due parole, la parola manas o 'mente'denota la nostra mente nella sua funzione più superficiale edinamica come potere di pensare, sentire e percepire, mentre laparola buddhi o 'intelletto' denota la nostra mente nella sua

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funzione più profonda e più statica come un calmo potere dichiarezza interiore, discernimento, discriminazione o veracomprensione.

Quindi la parola mati, che viene utilizzata in questo verso comeun equivalente della parola buddhi, non significa la nostra mentein un vago senso generale, ma significa più specificamente lanostra mente come potenza di interiore chiarezza e discernimento:una potenza di attenzione che è in grado di ritirarsi da tutte leapparenze, concentrandosi in sé profondamente e chiaramentesull'unica realtà che le sottende, vale a dire la nostra autocoscienzaessenziale 'Io sono'.

Poiché la nostra mente è una coscienza individuale separata,che merita questo nome 'mente' solo quando si occupa di qualcosadi diverso dal nostro essere essenziale; poiché si placa e diventaun tutt'uno con il nostro essere quando si concentra veramente sudi lui, interamente ed esclusivamente, con mente acutamenteattenta che viene indicata con le parole kūrnda mati cessaeffettivamente di essere una mente individuale o ego non appenadiventa veramente attenta al sé e quindi si immerge e affondanella profondità del nostro essere e, quindi è trasformata dalla suaattenzione al sé nel nostro sé reale, di cui è ora interamentecosciente.

In altre parole, un vero kūrnda o mente attenta al sé in realtànon è altro che il nostro essere naturale ed eternamenteconsapevole. Sebbene Sri Ramana cita: 'limitando [la nostra]parola e il respiro in associazione con l'immersione[affondamento, penetrare] entro', non è effettivamente necessariofare uno sforzo speciale per frenare sia la nostra parola o ilrespiro, perché, proprio come i nostri pensieri o attività mentalisaranno tutti placati automaticamente e senza sforzo quandodiventiamo intensamente attenti al sé, così anche lo saranno lanostra parola e il respiro.

Pertanto, se ci impegniamo in questa pratica semplice e direttadi essere attenti al sé fin dall'inizio, non ci sarà mai alcuna

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necessità per noi di praticare uno qualsiasi degli esercizi artificialidi pranayama o controllo della respirazione, perché per la nostramera attenzione al sé, naturalmente controlleremo e porteremo aun arresto completo tutta l'attività della nostra mente, la parola, ilrespiro e il corpo. Poiché tutte queste attività sono solo fantasieche sorgono solo quando permettiamo alla nostra attenzione diandare verso qualcosa di diverso da noi stessi; tutte scomparirannoe diventeranno inesistenti, non appena abbiamo effettivamenteritirato tutta la nostra attenzione nella profondità più intima onucleo del nostro essere, che è la fonte da cui nasce e scorre versol'esterno come la nostra mente, intelletto o ego.

Anche se la parola mati è usata in Tamil nel senso di mente,intelletto, comprensione, discriminazione o discernimento, inrealtà è una parola di origine sanscrita, e in sanscrito oltre a questisignificati può anche significare intenzione, risoluzione, volontà,desiderio o devozione. Se comprendiamo le parole kūrnda matiyālin quest'ultimo senso, dovrebbero significare 'dalla devozioneintensa o amore'.

Anche se questo non è il significato principale di queste parolein questo contesto, è tuttavia opportuno un significato secondario,perché saremo in grado di affondare o penetrare in profonditàall'interno di noi stessi solo se abbiamo grande amore per lo statodi solo essere, che è la vera forma di Dio. A meno che nonabbiamo vero e intenso amore per l'essere, saremo riluttanti adarrenderci a esso, e quindi la nostra mente insieme a tutti i suoivasana o desideri latenti continueranno ad aumentare in ribellioneogni volta che cerchiamo di aggrapparci saldamente all'attenzioneper il sé e quindi ad affondare in profondità nel nostro intimoessere.

Devozione e assenza di desideri cioè, il vero amore per l'esseree la libertà dal desiderio di qualcosa di diverso dall'essere, sonocome le due facce inseparabili di un singolo foglio di carta, eognuna aumenta in proporzione diretta all'aumento dell'altra.Pertanto, quando Sri Ramana confronta vairāgya o libertà dal

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desiderio con la pietra che un pescatore di perle lega alla sua vita,dicendo: che immergendosi sotto l'attività di superficie dellanostra mente e affondando profondamente dentro di noi convairāgya possiamo raggiungere la 'perla del sé', egli implica cheper essere in grado di depositarsi sul fondo più intimo del nostroessere abbiamo bisogno non solo di vairāgya ma anche di grandeamore o bhakti.

Devozione e mancanza di desiderio, o bhakti e vairāgya, comesono rispettivamente chiamate in sanscrito e in altre lingueindiane, non sono solo inseparabili ma in realtà sono solo duemodi diversi di descrivere lo stesso stato d'animo. Tuttavia sono disolito considerate come due qualità distinte perché sono ciascunaun aspetto particolare di uno stato mentale. Poiché sono duequalità indispensabili di cui abbiamo bisogno per essere in gradodi raggiungere la vera conoscenza di sé, sono a volte dette esserele due ali con le quali dobbiamo imparare a volare allo statotrascendente di essere assoluto.

Sia la devozione che la mancanza di desiderio nascono a causadi un'altra qualità essenziale, che si chiama vivēka, una parolasanscrita che significa discriminazione, discernimento o lacapacità di distinguere il reale dall'irreale, l'eterno dall'effimero, lasostanza dalla forma, o la verità reale da ciò che si limita asembrare vero. La vera vivēka non è solo un'intellettualecomprensione della verità, ma è una chiarezza interiore profondache esiste naturalmente nel nucleo del nostro essere e che sorgenella nostra mente quando diventa purificata o ripulita dalle formepiù grossolane dei suoi desideri.

Una comprensione intellettuale della verità è un utile punto dipartenza dal quale possiamo cominciare il nostro attivo cercarel'esperienza reale della vera conoscenza, ma sboccerà in veradiscriminazione o vivēka solo se la applichiamo in praticaeffettivamente, trasformando la nostra mente verso l'interno perscoprire la vera natura del nostro essere essenziale. Nella misurain cui la nostra mente si purifica dei suoi desideri, nella stessa

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misura la chiarezza della vera discriminazione o vivēka sorgeràall'interno di essa.

Al contrario, più chiaramente siamo in grado di discriminare,capire ed essere veramente convinti che la felicità esiste soloall'interno di noi stessi e non in qualsiasi altra cosa, e più fortidiventeranno la nostra devozione e la mancanza di desiderio. Cosìla vera discriminazione o vivēka accende nella nostra mente lavera devozione o bhakti e la vera mancanza di desideri ovairāgya; la vera devozione e mancanza di desiderio chiarisce lanostra mente, aumentando così il nostro potere di discriminazione.

Il mezzo più potente ed efficace con cui siamo in grado disuscitare la chiarezza della vera discriminazione nella nostramente è quello di essere costantemente e profondamente attenti alsé, perché quando siamo attenti al sé stiamo concentrando lanostra attenzione sulla nostra coscienza di essere, che non è solola luce che illumina la nostra mente, ma è anche la pienezzainfinita e fonte di ogni chiarezza, conoscenza o comprensione.

Oppure, per spiegare la stessa cosa in un altro modo: quandosiamo attenti al sé stiamo allontanando tutti i pensieri cheoffuscano e oscurano la chiarezza infinita di essere che splendesempre nel nostro cuore o essenza più intima. Così conl'attenzione al sé stiamo aprendo il nostro cuore alla vera grazia diDio, che è la nostra naturale chiarezza della perfetta coscienza disé, e che per la sua pura luce ci permette di discriminare,comprendere ed essere veramente e profondamente convinti dellaverità.

Se la nostra comprensione e discriminazione non ci dàsufficiente forza di convinzione per permetterci di ritirare la nostramente facilmente da tutto ciò che è diverso da noi stessi e diconcentrarci intensamente sul nostro essere essenziale, deveessere solo una forma superficiale e poco chiara didiscriminazione o vivēka.

Quando la nostra discriminazione diventa veramente profonda,chiara e intensa, cioè, quando diventa un vero kūrnda mati o acuto

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e penetrante potere di discernimento, brillerà dentro di noi comeun'incrollabile forza di convinzione, che sperimenteremo comeintensa bhakti o amore per il nostro stato naturale di solo essere ecome ferma vairagya o libertà dal desiderio per qualcosa didiverso dall'essere, e così ci permetterà di far arrendere il nostro séfinito e individuale, la nostra mente o ego, e quindi affondaresenza sforzo nella profondità più intima del nostro essereessenziale.

Proprio come il peso di una pietra consente a un pescatore diperle di affondare in profondità nell'oceano, così l'intensità delnostro bhakti e vairāgya ci permetteranno di affondare inprofondità nel nucleo più profondo del nostro essere. Tuttavia,fino a quando non abbiamo effettivamente coltivato unasufficientemente intensa bhakti e vairāgya, ogni volta checerchiamo di essere vigili e attenti al sé, non saremo in grado diaffondare molto profondamente, ma continueremo a galleggiareappena sotto la superficie della nostra mente, dove i nostri pensierici continueranno a disturbare.

Cioè, la nostra attenzione al sé non sarà molto profonda echiara, ma continuerà ad essere superficiale e offuscata daipensieri che costantemente ci piacerà pensare a causa della nostramancanza di vero vairāgya o mancanza di desiderio.

La nostra tendenza a pensare a qualcosa di diverso da noi stessiè l'unico ostacolo che ci impedisce di affondare in profondità nelnostro vero essere consapevole di sé, e tale tendenza {simpatia} ècausata dalla nostra mancanza di vera discriminazione o vivēka.Se fossimo veramente convinti che la felicità esiste solo dentronoi stessi e non in qualsiasi altra cosa, vorremmo certamenteconquistare l'amore per affondare nella profondità beata e senzapensieri del nostro essere cosciente di sé, e vorremmo perdere ilnostro desiderio di pensare ad altro.

Tuttavia, anche se abbiamo bisogno di questa fermaconvinzione, che è il risultato di una discriminazione chiara, peressere in grado di rimanere saldamente e profondamente attenti al

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sé, l'unico modo per ottenere ciò è praticare l'attenzione al sé.Praticando ripetutamente e con insistenza l'arte di essere attenti

al sé in qualunque misura ci sarà possibile, gradualmentesusciteremo nella nostra mente la necessaria chiarezza della veradiscriminazione o viveka, e così coltiveremo una forza semprecrescente di vero amore o bhakti e vera mancanza di desiderio ovairāgya, che a sua volta ci permetterà di andare più a fondo nelnostro naturale essere sempre consapevole di sé. Così le tre qualitàinseparabili di viveka, bhakti e vairāgya, che Sri Ramana descrivecollettivamente come kūrnda mati o acuta e penetrante potenza didiscernimento e di amore, guideranno la nostra mente più inprofondità nel nostro stato naturale di essere cosciente del sé oattenti al sé; affondando in profondità in questo stato coltiveremoe incrementeremo queste tre qualità.

Pertanto, per quanto debole o forte che sia il nostro presenteviveka, bhakti e vairagya, l'unico modo per noi di progredire dalpunto in cui ci troviamo ora verso il nostro obiettivo diraggiungere l'esperienza infinitamente felice della veraconoscenza di sé è tentare ripetutamente e con insistenza di esseresempre attenti al sé.

Dopo aver detto che per raggiungere la perla della conoscenzadi sé dovremmo affondare in profondità dentro di noi con costantemancanza di desiderio, Sri Ramana continua dicendo, 'Se uno siaggrappa saldamente e ininterrottamente a svarūpasmaraṇa[ricordo del sé] fino a quando si raggiunge svarùpa [il proprioessere essenziale o reale sé], da solo [sarà] sufficiente'. Perchéesattamente egli usa il termine svarūpasmaraṇa o 'ricordo del sé'qui?

Non abbiamo mai realmente dimenticato noi stessi, perchéconosciamo sempre 'Io sono'. Tuttavia, anche se siamo sempreconsapevoli del nostro essere come 'Io sono', tendiamo a ignorarloo trascurarlo, perché siamo così interessati a partecipare ad altrecose diverse da noi stessi, che sono tutte semplici prodotti dellanostra immaginazione. Quando la nostra mente è quindi

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costantemente assorbita nel pensiero di altre cose, in effetti,dimentica il proprio vero sé, il suo essere essenziale, che nonpensa a nulla, ma semplicemente è.

Poiché tutti i nostri pensieri e immaginazioni distraggonocostantemente la nostra attenzione dalla nostra coscienza naturaledi solo essere, siamo in grado di porre fine alla loro influenzadistraente solo cercando di ricordare il nostro essereininterrottamente. Il ricordo del sé è dunque l'antidoto alla nostratendenza a pensare altre cose che noi stessi. Tuttavia, poiché ilnostro desiderio di pensare altre cose è così forte, quandocerchiamo di aggrapparci fortemente al ricordo del sé la nostramente si ribellerà e sorgerà in forma di innumerevoli pensieri,interrompendo così il nostro sforzo di ricordare solo noi stessi.

Ogni volta che il nostro ricordo del sé è così interrotto dalsorgere di altri pensieri, dobbiamo ancora una volta ricordare ilnostro essere e quindi ritirare la nostra attenzione da loro. Piùpratichiamo il ricordo del sé in questo modo, più otterremo laforza e la capacità di aggrapparci esclusivamente eininterrottamente al nostro ricordo del nostro semplice esserecosciente di sé.

Questa pratica o l'esercizio di ricordo del sé, non è un tentativodi riguadagnare il ricordo di qualcosa che abbiamo dimenticato,come per esempio sarebbe cercare di ricordare dove abbiamomesso qualcosa che abbiamo perso e che ora cerchiamo di trovare,perché il nostro stesso sé o essere essenziale è sempre presente econosciuto da noi, ed è quindi qualcosa che non abbiamo maiveramente perduto o dimenticato. Piuttosto questa pratica è untentativo di mantenere la memoria di qualcosa di cui vogliamoevitare l'oblio, come ad esempio ci piacerebbe ricordarecostantemente una persona o una cosa la cui memoria ci dà grandegioia.

Il ricordo del sé è quindi semplicemente un altro nome perl'attenzione al sé, cioè, essere costantemente attenti, consci,memori o consapevoli del nostro semplice essere o lo stato di 'Io

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sono' {'am'-ness }Quindi questo termine svarūpa-smaraṇa o 'ricordo del sé' che

Sri Ramana usa qui, in questo undicesimo paragrafo, il terminesvarūpa-dhyāna o 'meditazione sul sé' che ha usato nel paragrafoprecedente, il termine ātmacintana, 'pensare il sé', 'pensiero delsé', 'considerazione del sé' o 'contemplazione del sé' che usa nelparagrafo XIII, e il termine ātmavicāra, 'inchiesta del sé', 'esamedel sé' o 'investigazione del sé' che egli utilizza in molti altriluoghi; in tutti denota la stessa semplice pratica di essere attenti alsé.

Come dice Sri Ramana nel paragrafo XVI di 'Nāṉ Yār?':

“[...] Il nome 'ātma-vicāra' [è veramenteapplicabile] solo per [la pratica di] essere sempre[dimorare o rimanere] dopo aver messo [posto, tenuto,stabilito, depositata, detenuta, fissata o stabilita lanostra] mente in Ātmā [il nostro vero sé] [...]”

Che cosa intende esattamente Sri Ramana quando parla dimettere, sistemare, mantenere o detenere la nostra mente in ātmāo nostro vero sé? Il nostro vero sé o essere essenziale è l'unicarealtà che sottende l'apparenza della nostra mente, e come tale è lasua fonte e dimora naturale. Finché non sappiamo null'altro che ilnostro essere, la nostra mente rimane naturalmente come il nostroinfinito, indiviso e non duale vero sé.

Quando però cominciamo a immaginare e conoscere qualcosadi diverso dal nostro essere, la nostra mente apparentemente escedal nostro vero sé come separata, finita e individuale coscienza, lacui natura sembra essere il pensiero, che è costantemente attento aqueste altre cose, che ha creato con la sua fantasia. Quindimettendo, ponendo, mantenendo o detenendo la nostra mente nelnostro reale sé, significa prevenire che sorga e che esca comepensiero separato o coscienza che conosce gli oggetti.

Pertanto, poiché la nostra mente viene fuori dal nostro vero sé

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solo dando attenzione ad altre cose oltre se stesso, e poiché rimanenel nostro vero se ogni volta che da attenzione e conosce solo ilnostro essere; mettendo, ponendo, possedendo o detenendo lanostra mente nel nostro vero sé significa fissare o mantenere lanostra attenzione interamente ed esclusivamente nel nostroessenziale essere consapevole di sé, senza permetterle di uscireper conoscere o sperimentare qualsiasi altra cosa.

Così questa semplice definizione data da Sri Ramana, cheesprime perfettamente l'essenza stessa della pratica chiamataātma-vicāra o investigazione del sé, può essere parafrasatadicendo che ātma-vicāra è un nome che è applicabile solo allapratica di essere sempre fermamente attenti al sé o consapevolisolo del nostro essere essenziale, 'Io sono'. Ricordo del sé oattenzione al sé è una pratica che possiamo imparare da noi stessie mantenere anche mentre siamo impegnati in altre attività.

Qualunque cosa stiamo facendo con la mente, la parola o ilcorpo, sappiamo sempre ciò che siamo, così con una praticapersistente è possibile acquisire la capacità di mantenere una tenuecorrente di attenzione al sé in mezzo a tutte le altre attività.Quando coltiviamo questa abilità per essere sempre debolmenteconsapevoli della nostra sottostante coscienza del sé durante tuttala nostra veglia e sogno, diventeremo anche più chiaramenteconsapevoli della nostra costante coscienza del sé nel sonnoprofondo.

Cioè, praticando persistentemente l'attenzione al sé o il ricordodel sé ogni volta che la nostra mente è libera da qualsiasi altrolavoro, diventerà gradualmente così familiare con la nostranaturale ed essenziale coscienza di sé che continueremo ad esseredebolmente consapevoli di ciò, anche quando la nostra mente èimpegnata in attività, e anche quando si è placata nel sonno.Anche se non possiamo essere, in tutto o profondamente, attenti alnostro essere quando la nostra mente è impegnata in altre attività,possiamo comunque essere debolmente attenti a essa in ognimomento.

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Questo è lo stato che Sri Ramana descrive come 'aggrappatafortemente senza interruzioni a svarūpa-smaraṇa o ricordo del sé,come essere' o 'rimanere sempre mantenendo la nostra mentefissa nell'ātmā o nostro reale sé', e dice che praticare cosi 'èsufficiente'. Perché dice che solo 'aggrapparsi fortemente eininterrottamente a svarūpasmaraṇa o il ricordo del sé, fino aquando raggiungiamo il nostro vero sé, sarà sufficiente'?

Anche se nelle fasi iniziali di questa pratica il nostro ricordodel sé sarà spesso interrotto dal sorgere dei pensieri e dallaconseguente attività della nostra mente; anche se nelle fasi piùavanzate della pratica non può essere del tutto interrotto, ma ètuttavia notevolmente diminuito con qualsiasi attività che la nostramente possa svolgere; grazie alla nostra perseveranza in questapratica i nostri vasanas o desideri latenti di pensare a cose diverseda noi stessi saranno costantemente indeboliti, e quindi otterremoil vairāgya o la libertà dal desiderio che è necessario per essere ingrado di affondare nella profondità più intima del nostro essere,dove possiamo trovare la perla della vera conoscenza di sé.

Finché consideriamo erroneamente di essere questo corpofisico, ci sentiremo spinti a impegnarci in attività fisiche, vocali ementali, se non a tutte le ore almeno in certi momenti, perché taliattività sono necessarie per il mantenimento della nostra vita inquesto corpo. Pertanto, fino a quando non trascendiamo l'illusionedi essere questo corpo, non saremo in grado di rimanerecompletamente incontaminati dal sorgere dei pensieri. Quindiaffondare o immergerci in profondità all'interno di noi stessi è unapratica nella quale non possiamo impegnarci ininterrottamenteogni volta.

Tuttavia, anche se non possiamo ininterrottamente e in ognimomento essere profondamente, intensamente e chiaramenteattenti al sé, fino a quando non abbiamo effettivamente raggiuntala perfetta esperienza della vera e assoluta conoscenza di sé, anchedurante la fase di pratica, ci si può sforzare di essereininterrottamente attenti al sé almeno in modo tenue.

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Cercando di mantenere almeno un tenue grado di attenzione alsé in ogni momento, possiamo costantemente indebolire i nostridesideri latenti e in tal modo rendere più facile per noi stessiaffondare in profondità nel nostro essere un certo numero di volte.Affondando talvolta in profondità nel nostro essere, potremoottenere un maggior grado di chiarezza della coscienza di sé, cherenderà più facile per noi mantenere una corrente tenue maininterrotta di attenzione al sé anche nel bel mezzo delle varieattività.

Tuttavia, anche se il tentativo di mantenere ininterrottamenteuna tenue corrente di attenzione al sé in questo modo è unelemento importante della nostra pratica spirituale, non possiamorealmente raggiungere la vera esperienza di assoluta conoscenzadi sé fino a che non otteniamo sufficiente vivēka, bhakti evairāgya da essere in grado di affondare nel fondo più intimo delnostro essere, dove la luce luminosa e infinita della perfettamentechiara e assolutamente non duale coscienza di sé splendeeternamente come 'Io sono'.

Nelle ultime due frasi di questo undicesimo paragrafo SriRamana dà un'altra analogia per illustrare ciò che aveva dettonelle prime due frasi, vale a dire:

“Finché viṣaya-vāsanās [desideri latenti per altrecose diverse da noi stessi] esistono nella [nostra]mente, è necessaria l'investigazione 'chi sono Io?'Come e quando nascono i pensieri, subito è necessario[per noi] annientarli tutti con vicāra [auto-investigazione del sé o attenzione al sé] nel luogostesso da cui essi provengono [...]”

L'analogia che egli dà per illustrare questo processo diannientare tutti i pensieri non appena si presentano è la seguente:

“[...] Fino a quando i nemici sono all'interno della

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fortezza, continueranno a venire fuori da questa. Se[noi] continuiamo a distruggere [o tagliare] tutti lorocome e quando arrivano, la fortezza [alla fine] entreràin [nostro] possesso”.

In questa similitudine, la fortezza è il nostro vero sé, il nucleodel nostro essere, che è la fonte della nostra mente, ed i nemici chesi trovano all'interno di essa sono le nostre vāsanās o desiderilatenti per altre cose diverse dal nostro essere. Per prendere ilpossesso di un forte, dobbiamo assediarlo, e quando lo facciamo inemici interni rimarranno lì pacificamente e in sottomissione.

Per la sopravvivenza è necessario per loro uscire, nel tentativodi rompere il nostro assedio e ricostituire il loroapprovvigionamento di cibo. Il cibo che i nostri desideri latentirichiedono per la loro gratificazione e sopravvivenza è laconoscenza di altre cose diverse dal nostro essere. Finchénutriamo la nostra mente con la conoscenza dell'alterità o dualità,essi sopravvivranno e prospereranno, ma se li priviamo di taleconoscenza, cresceranno deboli, perché in mancanza di taleconoscenza la loro identità o individualità distinta potrà esseredisciolta.

Per la propria sopravvivenza, dunque, la nostra menteaumenterà la ribellione non appena cercheremo di mantenerla nelnostro semplice essere. Cioè, si ribellerà costantemente cercandodi pensare a qualcosa di diverso dal nostro essere essenzialecosciente di sé Poiché pensieri possono sorgere solo quando cioccupiamo di loro, possono essere distrutti nel luogo e nelmomento ove nascono solo col nostro attaccamento tenaceall'attenzione di sé. Se siamo saldi nella nostra attenzione al sé oricordo del sé, ogni pensiero che la nostra mente cerca di pensareperirà essendo da noi ignorato.

Questo ignorare tutti i pensieri aggrappandoci tenacementeall'attenzione del sé è ciò che Sri Ramana descrive come abbatteretutti i nemici appena escono dal forte. Se ci ostiniamo abbastanza

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a lungo nella nostra pratica di essere attenti al sé, tutti i nostrivasanas o desideri latenti di pensare alla fine saranno distrutti, e lanostra mente potrà così sprofondare di nuovo nella fonte da cui èsorta. Questo eventuale affondamento della nostra mente oattenzione di nuovo nella nostra sorgente o essere essenziale è ciòche Sri Ramana descrive dicendo che 'il forte [infine] entrerà in[nostro] possesso'.

Non è necessario per noi continuare a lottare eternamente perresistere al fascino di cose diverse da noi stessi e, quindi, rimanerenel nostro semplice essere, perché, continuando a lottare dopo unpo' saremo in grado di annientare completamente i nostri desideri,che rendono quelle altre cose così attraenti. Le altre cose ciattirano perché erroneamente crediamo di poter ottenere felicità daloro, e crediamo questo a causa della nostra mancanza di vivēka overa discriminazione.

Tuttavia, essendo costantemente attenti al sé, alimenteremo lanostra mente con la chiarezza naturale di vivēka che esiste dentrodi noi come la chiara luce della nostra coscienza sempre luminosadel sé del nostro essere, e così acquisiremo costantemente unasempre più forte convinzione che la felicità si trova soloall'interno di noi stessi e non in qualsiasi altra cosa.

Tanto più forte questa convinzione diventa, tanto più cresceràla nostra bhakti o amore per il nostro essere e il nostro vairāgya olibertà dal desiderio di qualcosa di diverso dal nostro essere, etanto più facile diventerà per noi resistere alla falsa e illusoriaattrazione di conoscere cose diverse dall'essere. Pertanto, lapratica dell'attenzione al sé è necessaria per noi solo fino almomento in cui tutti i nostri vasanas o desideri latenti verrannodistrutti dalla nascita della vera conoscenza di sé, dopodichéscopriremo che l'attenzione al sé o coscienza di sé è la naturastessa del nostro essere, ed è quindi qualcosa che veramente nonrichiede alcuno sforzo o pratica.

Quando la nostra mente e tutti i suoi vasanas sono quindidistrutti dalla nostra esperienza di vera conoscenza di sé, la nostra

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individualità falsa e immaginaria verrà dissolta e noi rimarremosenza sforzo ed eternamente come l'infinita e assoluta coscienza disolo essere, 'Io sono'. In questo stato di manōnāśa o totaleannientamento della nostra mente, che è lo stato che è ancheconosciuto come Nirvana o totale estinzione dell'illusione delnostro sé individuale, non c'è più nulla da fare per noi, e nientealtro da conoscere che il nostro essere.

Questa è la vera esperienza di Sri Ramana e di tutti gli altrisaggi, ed è chiaramente espressa da lui nel versetto 15 di'Upadēśa Undiyār' e al versetto 31 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu':

“Quando [la sua] mente-forma è annientata, per ilgrande yogi che è [così] affermato come la realtà, nonvi è una singola azione [o 'fare'], [poiché] ha raggiunto[la sua vera] natura [che è essere senza azione]. Perchi è [completamente immerso e quindi uno con]tanmayānanda [beatitudine composta solo da tat,'egli' o l'infinita e assoluta realtà], che è sorto [comevera conoscenza di sé, 'Io sono Io'] avendo distrutto il[suo finito individuale] sé, che cosa c'è da fare [o per'fare']? Lui non conosce qualsiasi altra cosa, ma solo[il suo vero] sé. [Pertanto] come pensare [o chi puòpensare] che il suo stato è così e così?”

Lo stato di vera conoscenza di sé, che è lo stato di infinita eassoluta felicità, è lo stato di solo essere, lo stato in cui abbiamoscoperto che la coscienza pensante finita che abbiamo chiamato lanostra 'mente' era una mera illusione che esisteva solo nella suavisione limitata e distorta, ed è quindi, in realtà, del tuttoinesistente.

Poiché la nostra mente è la causa originaria, fonte e base ditutte le attività, questo stato di solo essere, libero dalla mente, èdel tutto privo anche della minima attività, azione, karma o 'fare'.Poiché questo stato di vera conoscenza di sé è del tutto privo del

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nostro 'pensare', 'fare' e 'conoscere', è anche privo di ogniconoscenza dell'alterità o dualità. Poiché è uno stato che trascendecompletamente tutti i pensieri e le parole, Sri Ramana si chiedecome qualcuno possa concepirlo o pensarlo come realmente è.

Ogni concezione che noi possiamo formare nella nostra mentesu questo stato di vera conoscenza di sé è quindi inesatta, perché èsolo un tentativo di concepire l'inconcepibile. Allo stesso modotutte le parole che possiamo usare per descriverlo sonoinadeguate, perché sono solo un tentativo di definire l'indefinibile.Lo stato di vera conoscenza di sé non può mai essere conosciutodalla nostra mente finita, ma può essere vissuto da noi soloquando la nostra mente pensante è distrutta.

Per sperimentarlo, quindi, dobbiamo rivolgere la nostra menteverso l'interno e annegarla nella nostra propria sorgente, che è ilnostro vero ed essenziale essere. Perciò non possiamo maiacquisire vera conoscenza da semplici parole, oppure volgendo lanostra attenzione verso l'esterno leggendo libri pieni di parole, masolo rivolgendo la nostra attenzione verso l'interno per leggere illibro silenzioso del nostro cuore. Parole e libri possono servire aduno scopo utile solo nella misura in cui indirizzano la nostramente nella giusta direzione in cui deve concentrare la suaattenzione al fine di provare la vera conoscenza.

Tuttavia, anche quei pochi libri che ci spingono a volgere lanostra mente all'interno saranno veramente utili per noi solo seseguiamo le loro indicazioni e tentiamo di affondare la nostramente con vero amore e incrollabile mancanza di desideri nelnucleo più profondo del nostro essere. Pertanto, invece diconcentrare i nostri sforzi nello studiare ripetutamente i pochi libriche veramente ci convincono e ci ricordano la necessità dirivolgere la nostra mente verso l'interno, cerchiamo sinceramentee costantemente di praticare l'arte dell'attenzione al sé che queilibri ci insegnano. Se continuiamo a leggere innumerevoli libri perraccogliere conoscenze sempre più estranee, sprecheremo il nostrotempo prezioso e distrarremo la mente dal nostro vero scopo, che

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è quello di rinunciare a ogni altra conoscenza e quindi affondarenella sola vera conoscenza: la semplice non duale conoscenza oconsapevolezza del nostro essere, 'Io sono'.

Pertanto, nel paragrafo XVI di 'Nan Yar?', Sri Ramana dice:

“Poiché in ogni [vero spirituale] trattato si dice cheper raggiungere muti [emancipazione spirituale, laliberazione o salvezza] è necessario [per noi]trattenere [la nostra] mente, dopo aver conosciuto chemanōnigraha [mantenere verso il basso, manteneredentro, trattenere, soggiogare, sopprimere odistruggere la nostra mente] è l'intenzione ultima [oscopo] di [tali] trattati, non vi è alcun beneficio [daguadagnare] studiando senza limiti [innumerevoli]trattati. Per il contenimento [della nostra] mente ènecessario [per noi] investigare noi stessi [perconoscere] ciò che [noi siamo realmente], [ma] invece[di fare ciò] come [possiamo conoscere noi stessi da]indagando nei trattati? È necessario [per noi] perconoscere noi stessi solo col nostro occhio jñāna [lavera conoscenza, cioè, dalla nostra coscienza rivoltaall'interno].

Ha [una persona chiamata] Raman bisogno di unospecchio per conoscere se stesso come Raman? [Ilnostro] 'sé' è all'interno dei pañca-kōśas [i 'cinqueinvolucri' con cui ci sembra di avere coperto eoscurato il nostro vero essere, cioè il nostro corpofisico, il nostro prana o forza vitale, la nostra mente, ilnostro intelletto e l'oscurità apparente o ignoranza delsonno], considerando che i trattati sono al di fuori diloro.

Pertanto investigare nei trattati [sperando di essere

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in grado in tal modo di conoscere] noi stessi, ovverochi dovremmo investigare [con un'attenzione voltaverso l'interno] avendo tolto [accantonato,abbandonato o separato] tutte le pañca-kōśas, è inutile[o non redditizio].

Conoscere il nostro yathārtha svarūpa [il nostrovero sé o essere essenziale] avendo indagato chi è [ilnostro falso individuale] sé, che è in schiavitù[essendo vincolato entro i confini immaginari dellanostra mente], è mukti [emancipazione]. Il nome'ātma-vicāra' [è veramente applicabile] solo per [lapratica] di essere sempre [costantemente o rimanendo]dopo aver stabilito [posto, mantenuto, depositato,detenuto, fissato la nostra] mente in ātmā [nostro séreale], mentre dhyāna [meditazione] è immaginare noistessi essere sat-cit-ānanda brahman [la realtàassoluta, che è l'essere-coscienza-beatitudine]. Ad uncerto momento diventerà necessario [per noi]dimenticare tutto quello che [noi] abbiamo imparato”.

Per raggiungere l'emancipazione o la salvezza dalla schiavitù diimmaginare di essere una persona finita dobbiamo conoscerecome siamo veramente, cioè, come la coscienza infinita, assoluta,non duale, del nostro essere essenziale. Ma dove dobbiamoguardare per conoscere noi stessi così?

Possiamo conoscere noi stessi solo cercando in libri o testisacri? No, ovviamente non si può, perché per conoscere noi stessi,veramente e con precisione, dobbiamo guardare dentro noi stessiper discernere la vera essenza del nostro essere. Cioè, poiché noistessi siamo il 'sé' che vogliamo conoscere, possiamo conoscerenoi stessi solo indagando o esaminando il nostro intimo essere conun'attenzione acutamente focalizzata e interiormente penetrante. Ilnostro potere di attenzione, che è il nostro potere di indirizzare e

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focalizzare la nostra coscienza su qualcosa, è lo strumentofondamentale ed essenziale con il quale siamo in grado diconoscere qualcosa.

Senza dare attenzione a qualcosa, non possiamo conoscerla.Pertanto, a meno che non ci occupiamo effettivamente di noistessi molto profondamente e con attenzione, non possiamoveramente conoscere accuratamente noi stessi come siamoveramente. La vera conoscenza di sé non è solo una conoscenzateorica che possiamo capire col nostro intelletto, ma è solo unachiara e diretta non duale conoscenza che possiamo acquisire soloattraverso la reale esperienza di sé.

Interessandoci di libri che forniscono informazioni concettualisul nostro vero sé, possiamo solo conoscere informazioniconcettuali, ma non possiamo realmente conoscere noi stessi.Qualunque informazione concettuale o conoscenza teorica chepossiamo acquisire circa noi stessi è estranea a noi, e quindi èqualcosa di diverso da noi stessi. Imparare alcune informazioniteoriche circa il gusto del cioccolato è completamente diversodallo sperimentare il gusto del cioccolato.

Allo stesso modo, imparare alcune conoscenze teoriche sulnostro sé reale è completamente diverso dallo sperimentarerealmente noi stessi come siamo veramente. Non possiamoconoscere noi stessi, cercando fuori di noi stessi, ma sologuardando dentro noi stessi. In realtà, è nostra abitudine guardarefuori noi stessi, e la nostra intensa tendenza a farlo che in realtà ciimpedisce di conoscere noi stessi come siamo davvero.

Non abbiamo bisogno di qualsiasi altra pratica per conoscerenoi stessi, perché sappiamo sempre che 'Io sono'. Ciò che abbiamobisogno di 'fare' per conoscere noi stessi è di rimuovere tutta laconoscenza estranea che abbiamo sovrapposto sulla nostraconoscenza di base di noi stessi come 'Io sono'. La conoscenzaestranea che abbiamo sovrapposto su noi stessi si presenta inmolte forme diverse, ma ciò che è comune a tutte queste multipleforme di conoscenza è che noi tutti le sperimentiamo come 'sto

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conoscendo questo'.Ciò che è reale in questa esperienza è solo l''Io sono' e non il

'sapere questo', che è solo un aspetto transitorio. Pertanto, al finedi conoscere il reale 'Io sono' com'è, tutto quello che dobbiamo'fare' è di sperimentarlo senza la sovrapposizione di questaapparizione o aggiunta {nome-forma} effimera 'conoscere questo'.Di tutte le appendici effimere e immaginarie che abbiamosovrapposto sulla nostra conoscenza di base 'Io sono', la piùfondamentale è il nostro corpo e gli altri oggetti che scambiamoper noi stessi.

Poiché immaginiamo certi oggetti, come il nostro corpo, esserenoi stessi; immaginiamo altri oggetti, fuori di questo corpo, esserealtro da noi stessi; quindi creiamo l'illusione di una distinzione tranoi stessi e le altre cose, e la parallela illusione di 'dentro' e 'fuori'.Nella filosofia del vēdānta, gli oggetti che ci immaginiamo diessere noi stessi sono descritti come pañca-kōśas i 'cinqueinvolucri' o 'cinque coperture', perché in effetti essi racchiudono ocoprono il nostro vero sé, oscurando a nostro avviso la sua veranatura infinita. Queste 'cinque guaine' che sono classificate nelvēdānta, sono: il nostro corpo fisico, il nostro prāṇa o forza vitaleall'interno di questo corpo, la nostra mente pensante, il nostrointelletto discriminante, e la felicità che sperimentiamo nel sonnocome un buio apparente o ignoranza.

Poiché la distinzione tra alcuni di questi 'involucri' è piuttostoarbitraria, questa classificazione è spesso semplificata dicendo cheil nostro 'vero Io' è apparentemente racchiuso all'interno di trecorpi, il nostro 'corpo grossolano', che significa il nostro corpofisico, il nostro 'corpo sottile', che è la nostra mente, e che disolito è detta comprendere sia il prāna che il nostro intelletto, e ilnostro 'corpo causale', che è l'apparente oscurità o la felicità chesperimentiamo nel sonno.

Tuttavia, come abbiamo scelto di classificare questi fenomeniche immaginiamo di essere noi stessi non è importante, perchénessuno di loro è il vero 'sé' che cerchiamo di conoscere. Sri

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Ramana menziona questo termine pañca-kōśas o 'cinqueinvolucri' in questo contesto solo per sottolineare il fatto che noisperimentiamo noi stessi come se esistessimo all'interno di queste'guaine' o aggiunte estranee, mentre noi sperimentiamo i libricome se esistessero fuori di esse.

Anche se i libri sembrano esistere fuori di noi stessi, possiamoconoscerli e capirli solo attraverso il mezzo di almeno tre diqueste guaine, cioè i sensi del nostro corpo fisico, la nostra mentee il nostro intelletto. Tuttavia, per conoscere il nostro vero sé,dobbiamo annullare o ignorare tutti questi cinque involucri, inquanto non sono realmente noi stessi, e dobbiamo concentraretutta la nostra attenzione sulla nostra essenziale coscienza di sé, lanostra coscienza fondamentale del nostro essere, 'Io sono'.Pertanto, poiché non possiamo studiare qualsiasi libro, senzailludere noi stessi di essere questo corpo e questa mente, e datoche non possiamo conoscere il nostro vero sé, senza rinunciare aquesta identificazione sbagliata, non potremo mai conoscere noistessi semplicemente studiando libri.

Poiché il significato definitivo di tutti i testi sacri e altri libriveramente utili è che dobbiamo conoscere noi stessi, al fine disperimentare la vera e perfetta felicità, dobbiamo infinedimenticare tutto quello che abbiamo imparato nei libri deviandola nostra attenzione verso l'interno con amore travolgente perconoscere solo il nostro sé reale o essere essenziale. Tutto ciò cheimpariamo dai libri o da qualsiasi altra fonte esterna a noi stessi èuna conoscenza estranea, che, essendo venuta a noi in unmomento, dobbiamo lasciarla in un altro momento. L'unicaconoscenza che è eternamente con noi è la nostra conoscenza dibase 'Io sono', che è la nostra coscienza, del nostro essereessenziale.

Tuttavia, anche se è sempre presente e conosciuto da noi comeil nostro essere cosciente di sé, la vera natura di questaconoscenza eterna ora sembra essere offuscata e oscurata dallasovrapposizione transitoria di tutte le nostre altre conoscenze.

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Poiché nessuna conoscenza che viene e va ci può dare permanentefelicità, l'unica conoscenza che dovremmo cercare è la conoscenzaperfettamente chiara e accurata del nostro essere: cioè, laconoscenza di noi stessi libera dalla sovrapposizione di qualsiasialtra forma di conoscenza.

L'unica conoscenza veramente utile e benefica che possiamoacquisire dai libri o da altre fonti esterne, incluso il più sacro esanto libro, è la conoscenza che imprime su di noi e ci convincedella necessità di rivolgere la nostra attenzione al sé al fine disperimentare e direttamente conoscere il nostro essere essenziale.Fino a quando la nostra mente si sente spinta dal suo desiderio diessere attiva, studiando pochi selezionati libri che costantemente,ripetutamente e in modo convincente, sottolineano la verità che, alfine di sperimentare l'eterna e infinita felicità, dobbiamoconoscere il nostro vero sé, e meditando frequentemente sullaverità rivelata in questi libri, ciò sarà un grande aiuto nel dareslancio al nostro amore e agli sforzi per praticare l'attenzione al sé.

Questo triplice processo di leggere ripetutamente tali libri,meditando sul loro significato, e cercando di mettere in pratica ciòche impariamo da loro è conosciuto nel vēdānta come śravaṇa,manana e didhyāsana, ed è consigliato da Sri Ramana e altrisaggi, come il mezzo con cui possiamo gradualmente acquisire lacapacità di rimanere fermamente nello stato di essere attenti al sé.Tuttavia, anche se śravaṇa o leggere il giusto tipo di libri èconsigliato da Sri Ramana, questo non significa che dobbiamoleggere un numero infinito di libri. Solo pochi libri veramentepertinenti sono sufficienti a sostenerci nei nostri sforzi perpraticare l'attenzione al sé.

Considerando che studiare a fondo un paio di libri veramentepertinenti può essere un grande aiuto per la nostra pratica di essereattenti al sé, la lettura di un vasto numero di libri può essere unserio impedimento. Pertanto, nel versetto 34 di 'Uḷḷadu NāṟpaduAnubandham', Sri Ramana dice:

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“Per le persone di poca intelligenza, moglie, figli ealtri [altri parenti] formano [solo] una famiglia.[Tuttavia] sappiate che nella mente delle persone chehanno un vasto apprendimento, non c'è [solo] una[ma] molte famiglie [in forma] di libri [che sono]come ostacoli allo yōga [pratica spirituale]”.

Anche un forte attaccamento alla nostra famiglia può essere unostacolo alla nostra pratica spirituale, perché può attirare la nostramente verso l'esterno e renderci difficile rimanere, nello statolibero da pensieri di essere attenti al sé; un forte attaccamento atutte le conoscenze che abbiamo acquisito studiando molti libri èun ostacolo ancora più grande, perché riempirà la nostra mentecon molti pensieri. Se siamo veramente intenzionati asperimentare il vero scopo dello yoga, che è la perfettamentechiara conoscenza di sé, non ci sentiremo inclini a leggere unagran quantità di testi sacri o di altri libri di filosofia, perchésaremo desiderosi di mettere in pratica quello che abbiamoimparato dai pochi libri davvero pertinenti che spiegano che ilsemplice essere attento al sé è l'unico mezzo per sperimentarequesto obiettivo.

Se invece sentiamo entusiasmo per studiare un numero infinitodi libri, riusciremo solo a riempire la nostra mente coninnumerevoli pensieri, che attireranno la nostra attenzione lontanodalla coscienza essenziale del nostro essere. Così riempire lanostra mente con conoscenze raccolte da molti libri sarà un grandeostacolo alla nostra pratica di essere attenti al sé.

Lo studio eccessivo non solo riempirà la nostra mente coninnumerevoli pensieri, che offuscano la nostra naturale chiarezzainteriore della coscienza di sé, ma ci riempirà anche con l'orgogliodell'apprendimento, che ci chiederà di mostrare la nostra vastaconoscenze ad altre persone, aspettandosi che queste ci apprezzinoe ci lodino. Pertanto, nel versetto 36 di 'Uḷḷadu NāṟpaduAnubandham', Sri Ramana dice:

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“Piuttosto delle persone che sebbene erudite non sisono abbandonate [arrese o sono divenute sottomesse,umili o silenziose], gli ignoranti si sono salvati. Questisono salvi dal fantasma dell'orgoglio che possiede [lostudioso]. Si sono salvati dalla malattia dei moltipensieri vorticosi. Si sono salvati dal correre in cercadi fama [reputazione, rispetto, stima o gloria].Sappiate che quello da cui si sono salvati non è [solo]un [male].

Di tutti gli ostacoli che possono sorgere nel nostro cammino,quando stiamo cercando vera conoscenza di sé, il desiderio dilode, apprezzamento, rispetto, grande considerazione, fama onotorietà è uno dei più ingannevoli e quindi pericolosi, ed è uno acui i dotti sono particolarmente suscettibili. Pertanto, nel verso 37di 'Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham', Sri Ramana dice:

Anche se tutti i mondi sono [considerati da lorocome] la pagliuzza, e se tutti i testi sacri sono nelle[loro] mani, [per] le persone che sono sotto l'influenzadella malvagia prostituta che è 'puhaṙcci' [lodi,applausi, apprezzamento, rispetto, grandeconsiderazione, fama o notorietà], sfuggire [alla loro]schiavitù [o a lei], ah, è raro [o molto difficile]”.

La prima frase di questo versetto, 'se tutti i mondi sono lapagliuzza', implica che quelli di noi che hanno studiato una grandequantità di filosofia possono guardare dall'alto in basso i normalipiaceri mondani di questo mondo, del cielo e di tutti gli altrimondi considerandoli essere una pura sciocchezza, e possonoquindi immaginare di aver rinunciato a ogni desiderio per loro.

La seconda clausola, 'se tutti i sacri testi sono nelle loro mani',si riferisce a chi ha acquisito una vasta gamma di conoscenze sui

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vari sistemi di filosofia, fede religiosa e altre materie. Tuttavia, adispetto di tutta la nostra vasta dottrina e la nostra apparenterinuncia, se cadiamo in preda al desiderio per il piacereestremamente illusorio di essere un oggetto di lode,apprezzamento, ammirazione, rispetto o alta considerazioneplauso o fama, sarà poi molto difficile liberarci da tale desiderio.

Il desiderio di apprezzamento e rispetto è molto sottile e quindipotente nella sua capacità di illuderci, ed è un desiderio di cuianche persone d'altra parte molto buone possono facilmentecadere preda, soprattutto se ci si impegnano in qualsiasi attivitàche sembra a beneficio degli altri, come ad esempio insegnare iprincipi della religione, filosofia o condotta morale attraverso siala parola che la scrittura.

Questo desiderio è particolarmente pericoloso per un aspirantespirituale, perché il piacere che sentiamo nell'essere apprezzati erispettati deriva dal nostro attaccamento al nostro ego opersonalità individuale, il nostro senso illusorio di essere lapersona che è apprezzata e rispettata. Quindi, se siamo sinceri nelnostro desiderio di raggiungere la vera conoscenza di sé, sidovrebbe essere estremamente vigili per evitare di dare qualsiasispazio nella nostra mente al presentarsi di questo desiderio. Fino aquando non raggiungiamo la non duale esperienza della veraconoscenza di sé, non saremo in grado di rimanere completamenteinalterati sia da qualsiasi riconoscimento, rispetto, apprezzamentoo lode che possiamo ricevere, che da uno dei loro opposti come ildisprezzo, mancanza di considerazione, svalutazione o critiche.

Solo quando raggiungiamo la vera conoscenza di sé e cosìscopriamo che non siamo questa singola persona che vienericonosciuta, apprezzata e lodata, o ignorata, non considerata,disprezzata o criticata, possiamo essere veramente non influenzatida essi. Pertanto, nel versetto 38 di 'Uḷḷadu NāṟpaduAnubandham', Sri Ramana dice:

“Quando sempre rimaniamo fermamente nel nostro

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[vero] stato [di non duale conoscenza di sé], senzaconoscere [la distinzione illusoria tra] 'me stesso' [egli] altri, chi c'è là oltre noi stessi? Che cosa [importa]se qualcuno dice qualunque cosa su di noi? [Poiché intale stato sappiamo che non c'è nessun altro che ilnostro essere essenziale, sarebbe come se ciesaltassimo o denigrassimo da noi stessi.] Cosadavvero [importa] se [da noi stessi] ci esaltiamo o cidenigriamo?”

Finché noi sperimentiamo l'esistenza di qualsiasi persona oltrea noi stessi, o l'esistenza di qualsiasi cosa diversa dalla nostraunica, indivisa e non duale coscienza del nostro essere, 'Io sono',non dobbiamo pensare che abbiamo raggiunto la vera conoscenzadi sé, o che siamo impermeabili a ogni forma di apprezzamento edeprezzamento. Soprattutto, non dobbiamo mai illuderciimmaginando che possiamo essere un vero guru spirituale peraltre persone, o posare come tale, perché il vero guru spirituale èsolo la 'persona' che ha cessato di esistere come individuoseparato, dopo essersi fuso e dissolto nella realtà assoluta,diventando uno con essa, e che perciò sa che la realtà assoluta, cheè il nostro essere essenziale, solo esiste, e che non c'è davveronessuna persona diversa da essa.

Finché ci sentiamo di essere un individuo separato, dovremmosempre diffidare del delirio dell'orgoglio, che può così facilmentemanifestarsi dentro di noi. Anche se, per esempio, ci capita discrivere un libro come questo che sto scrivendo, esplorando ediscutendo gli insegnamenti di un vero guru spirituale, come SriRamana, non dovremmo mai permettere a noi stessi di cadere inpreda della sottile e potente illusione dell'orgoglio o dell'egoismo,immaginando che possiamo rivendicare il merito per ognichiarezza o saggezza che possa apparire in ciò che scriviamo. Sesiamo in grado di dare qualche chiarezza nella comprensione dellanatura della realtà assoluta, o dei mezzi con cui possiamo

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raggiungerla, dovremmo capire che la chiarezza non è nostra, maappartiene solo alla fonte da cui deriva, che è quella realtàassoluta che esiste all'interno di ognuno di noi come il nostroessenziale essere cosciente di sé, che si manifesta esteriormentenella forma del vero guru per indicare la verità che noi siamoquesta realtà, e che per conoscerla dobbiamo rivolgere la nostraattenzione a noi stessi, al fine di sperimentarla e quindiimmergerci nel nostro essere essenziale.

Se abbiamo veramente capito gli insegnamenti di ognimanifestazione di un vero guru, come Sri Ramana, capiremo checome persona individuale siamo veramente nulla, e che la nostramente o personalità individuale è una mera illusione, e quindi nonè degna di ogni lode o altra forma di apprezzamento. L'orgoglioche inganna se stessi è il più grande pericolo che può derivarecome conseguenza di eccessivo studio dei testi sacri e di altri librifilosofici.

Il vero scopo di studiare tali libri, e il vero vantaggio chepossiamo ricavare dal farlo, è duplice. In primo luogo è il capirechiaramente i mezzi con i quali possiamo annientare il nostro ego,il nostro senso di individualità separata, e così sperimentare lavera ed assoluta conoscenza, che è la nostra non duale coscienzadel nostro essere essenziale. In secondo luogo e più importanteancora, è quello di coltivare un amore travolgente per praticarequesti mezzi e quindi annegare nell'infinita felicità e pace diquella vera non duale coscienza di sé. Pertanto, al versetto 35 di'Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham', Sri Ramana dice:

“A cosa [serve] alle persone che non intendonocancellare la lettera [del destino], esaminando dovecoloro che conoscono la lettera [le parole scritte neilibri] sono nati, conoscendo [quella] lettera? OSonagiri il Saggio, dice, chi altro essi [sono], se nonpersone che hanno acquisito l'erudizione [o la natura]di una macchina di registrazione del suono?”

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La 'lettera' è un modo idiomatico di riferirsi al destino, (la'scrittura del destino'), e anche le parole scritte nei libri, (la'lettera delle Scritture'), come opposte al loro spirito o verosignificato.

Lo scopo o spirito delle parole scritte nei testi sacri è quello diinsegnare a noi come possiamo 'cancellare le lettere del destino'solo annientando il nostro ego o mente, che immagina che stafacendo azioni o karma e sperimentare il destino o il fato chederiva da tali azioni.

Se studiamo le parole scritte nei testi sacri e in altri librifilosofici, ma non facciamo nessuno sforzo per mettere in praticaciò che impariamo da questi libri portando la nostra mente versol'interno per sperimentare il nostro essere essenziale che è la fonteda cui noi, come nostro ego siamo nati o originiamo, e quindiannientando in tal modo questo ego, che sperimenta le lettere deldestino, tutto il nostro studio ed erudizione non sarà di alcunautilità.

Quindi, rivolgendosi a Dio poeticamente come 'Sonagiri ilSaggio', Sri Ramana conclude che se otteniamo vasta erudizionestudiando i libri che insegnano che possiamo raggiungere la vera eduratura felicità solo annientando il nostro ego o mente, ma senzaavere alcuna intenzione di praticare il controllo di sé, che è l'unicomezzo attraverso il quale possiamo annientarlo, noi stiamosemplicemente guadagnando l'erudizione di un apparecchio diregistrazione sonora: cioè la capacità di rigurgitare ripetutamentequalunque parola o concetto che abbiamo registrato nella nostramente come risultato del nostro studio.

Quello che inizialmente ci da motivo per leggere libri difilosofia o di religione è il nostro desiderio di conoscere la verità,ma la vera conoscenza che cerchiamo di acquisire non può esserecontenuta in qualsiasi libro o in qualsiasi parola. La veraconoscenza è solo la conoscenza assoluta che si trova al di là dellaportata di tutti i pensieri e le parole. Le parole e i concetti che siesprimono negli scritti filosofici possono solo mostrarci il mezzo

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attraverso il quale possiamo raggiungere la vera conoscenza checerchiamo, che esiste sempre in noi come la nostra fondamentalenon duale coscienza del nostro essere essenziale, 'Io sono'.

Pertanto, al fine di raggiungere la vera conoscenza, dobbiamorivolgere la nostra attenzione lontano dai libri e concentrarciinvece sul nostro indispensabile essere cosciente di sé. Il verojñāna-vicāra, investigazione o esame della conoscenza, non è lostudio di eventuali concetti filosofici, ma è solo l'acuta e vigileinvestigazione della nostra fondamentale coscienza di sé. Pertanto,nel versetto 19 di 'Upadēśa Undiyār', Sri Ramana dice:

“Quando [noi] esaminiamo entro [noi stessi] 'ciòche è il luogo in cui [la nostra mente] sorge come io?'[questo falso] 'io' morirà. Questo [solo] è jñāna-vicāra”.

La parola che ho tradotto qui come 'morirà' è il verbocomposto talai-sāyndiḍum, che letteralmente significa 'diventa colcapo piegato', cioè, china la sua testa per la vergogna, modestia oriverenza, ma che è comunemente usato in un senso idiomaticoper significare 'muore'.

Fino a quando la nostra mente o ego, il nostro falso sensoindividuale di 'io', che è la nostra coscienza di base 'Io' è miscelatacon varie aggiunte o upādhis che immaginiamo di essere noistessi, sembra esistere, non possiamo sperimentare la vera naturalibera da aggiunte della nostra vera coscienza di sé 'Io sono': cioè,la nostra non qualificata, indivisa, non duale e assoluta coscienzadel nostro essere essenziale.

Poiché questa mente, il nostro falso 'io' o ego, sorge soloconoscendo le cose che sembrano essere diverse da sé, e poichésembra esistere soltanto finché noi le permettiamo di continuare asoffermarsi su quelle altre cose, al fine di annientarla dobbiamoportarla lontano da tutti i suoi pensieri e concetti, cioè, da tutte leforme di conoscenza che sono estranee alla nostra fondamentale

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coscienza di sé, concentrandola interamente ed esclusivamente sulnostro essere essenziale cosciente di sé, che è la fonte da cui erasorta per conoscere tutte le altre forme di conoscenza.

Non importa quanti libri possiamo leggere, non raggiungeremola vera conoscenza fino a quando non dimentichiamo tutto quelloche abbiamo imparato da loro, concentrando quindi tutta la nostraattenzione solo sul nostro vero essere non duale cosciente di sé. Seabbiamo tanto entusiasmo per studiare un gran numero di libri ericordare tutti i concetti che abbiamo imparato da loro, è probabileche dimenticheremo il vero scopo dei libri che studiamo.

Pertanto, piuttosto che leggere molti libri, sarebbe saggiosceglierne pochi che chiaramente e ripetutamente sottolineino lanecessità di volgere la mente verso l'interno e annegarla nellafonte da cui è sorta e che, pertanto suscitino e sostengano il nostroentusiasmo per praticare l'arte di essere vigilmente attenti al sé equindi privi di pensieri. Per noi i libri più importanti da studiaresono quelli che contengono gli insegnamenti del nostro guru.

Anche se tutti i saggi hanno insegnato la stessa verità, ognunodi loro l'ha espressa in termini diversi e con differenti gradi diesplicitazione, in modo da adattarsi alle circostanze e allacomprensione di quelli a cui ci si stava indirizzando. Anche se ilnostro vero sé in vari momenti si è manifestato sotto forma di varisaggi, ora si è manifestato per noi nella forma del nostroparticolare guru: al fine di insegnarci la verità in un modo che èpiù adatto alle nostre particolari esigenze.

Non importa se non abbiamo mai visto il nostro guru in formafisica, infatti la maggior parte di noi non ha mai visto Sri Ramana,perché lui è sempre manifesto e a nostra disposizione sotto laforma dei suoi insegnamenti. Pertanto, anche se dovremmo avererispetto per gli ammaestramenti di tutti i saggi, gli insegnamentidel nostro guru sono sufficienti per noi e ci forniranno tutto l'aiutoe la guida che ci serve per essere in grado di deviare la nostramente verso l'interno e praticare con fermezza l'arte di essereattenti al sé.

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Qualunque libro possiamo leggere, dobbiamo sempre ricordareche l'unico vero beneficio che possiamo trarre dalla lettura è unulteriore impulso o spinta a volgere la nostra mente verso l'internoe rimanere fermamente attenti al sé. Se un libro non accende nellanostra mente una comprensione chiara e una forte convinzione cheil solo mezzo per raggiungere la vera felicità è di praticarecostantemente l'arte di essere attenti al sé, o se non è rinforzata lanostra attuale comprensione e convinzione al riguardo di questaverità, non c'è davvero alcun beneficio nella lettura di un libro.

Per sviluppare l'abilità di cui abbiamo bisogno per mantenereuna salda attenzione {concentrazione} sul sé, cioè, per coltivare labhakti necessaria o l'amore per il nostro essere e la vairāgya o lalibertà dal desiderare qualsiasi cosa diversa dal nostro essere,dobbiamo essere risolutamente interessati e concentrati suquest'obiettivo, e quindi dovremmo evitare per quanto possibile,qualsiasi cosa che ci distrae da esso o che disperde la nostraconcentrazione.

Pertanto, se ci possono essere molti libri che enfatizzano più omeno direttamente che dobbiamo limitare alla nostra mente dicorrere verso l'esterno e che questa dovrebbe invece volgersi versol'interno per dare attenzione al nostro puro essere; sarebbecomunque saggio evitare di leggerne più di pochi e selezionati diquesti. La stessa verità è espressa in molti libri in molti modidifferenti e con diversi gradi di chiarezza e intensità, e quindileggendone troppi la nostra mente tenderà a diventare dispersa equindi a perdere la sua concentrazione e il suo focalizzato epenetrante impulso mirato ad aggrapparsi tenacemente allasemplice attenzione al sé. Inoltre, anche se la lettura ripetuta dipochi selezionati libri può aiutare a chiarire la nostracomprensione e rafforzare la nostra convinzione, dovremmosempre ricordare che la verità che cerchiamo non è in realtàcontenuta in quei libri, ma solo all'interno di noi stessi.

La verità o la realtà trascende tutti i pensieri e le parole, cosìche non può mai essere espressa adeguatamente in nessun libro,

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non importa quanto questo sia sacro. Le parole nei libri sacri nonpossono mai esprimere la verità com'è realmente, ma possono soloindirizzare la nostra mente verso quella verità, che esiste nellaprofondità più interna del nostro essere. Pertanto, il beneficio chesi può ottenere leggendo qualsiasi libro è molto limitato. Come SriAdi Sankara ha scritto nel verso 364 del Vivēkacūḍāmaṇi:

“Cento volte superiore al beneficio di śravaṇa olettura è il vantaggio di manana, meditare o rifletteresulla verità che abbiamo letto, ma centomila voltesuperiore al beneficio di manana è il beneficio dinididhyāsana o appassionata attenzione al sé, che è lacorretta applicazione della verità che abbiamoimparato da śravaṇa e compreso da manana”.

Nella prima frase del presente paragrafo XVI, Sri Ramana diceche ogni testo sacro o trattato insegna che per raggiungerel'emancipazione o la salvezza dovremmo controllare la nostramente, e che l'insegnamento del controllo della mente è quindil'obiettivo finale o l'intento di tutti questi testi.

Tuttavia, anche se tutti i testi sacri sono d'accordo sul fatto chedovremmo dominare la nostra mente, testi diversi spiegano intermini diversi cosa s'intende per 'controllare la mente'. Alcunitesti sacri sottolineano solo gli aspetti meno sottili della ritenzionedella mente come arginare le forme più grossolane dei nostridesideri, ma anche se possiamo frenare molti o addirittura lamaggior parte dei nostri desideri, non possiamo controllare lanostra mente completamente e perfettamente se non riusciamo adevitare del tutto il suo sorgere per conoscere anche la minima cosadiversa da noi stessi. Pertanto, poiché possiamo impedire olimitare il sorgere della nostra mente solo essendo vigili e attential sé, nella seconda frase Sri Ramana chiarisce il vero significatodel termine controllo della mente o manōnigraha dicendo:

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“Per contenere [la nostra] mente è necessario [pernoi] indagare noi stessi [per conoscere] quello [chesiamo veramente]”.

Che cosa succede quando abbiamo veramente indagato noistessi, è rivelato da lui nel versetto 25 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu' e nelverso 17 di 'Upadēśa Undiyār':

“Afferrando una forma [un corpo] essa [la nostramente o ego] viene in esistenza. Afferrando una formao un corpo] persiste. Afferrandosi e nutrendosi di unaforma [pensieri o oggetti] fiorisce abbondantemente.Abbandonando una forma [un corpo o un pensiero]afferra una forma [un altro corpo o un altro ilpensiero]. [Ma] se [noi] esaminiamo [esso], [questo]informe ego fantasma fugge.

Conosci ciò [cioè, conosci questa verità, osperimenta questa scomparsa dell'ego esaminandolo].Quando [noi] esaminiamo la forma della [nostra]mente senza dimenticanza, [scopriremo che] nonesiste una cosa come la 'mente' [distinto da o altro cheil nostro sé reale ed essenziale]. Per tutti, questo è ilpercorso diretto [alla vera conoscenza di sé]”.

Cioè: più acutamente indaghiamo, esaminiamo o scrutiamo noistessi, che ora sentiamo di essere questa coscienza individualefinita che chiamiamo il nostro 'ego' o 'mente', più questa 'mente' siplacherà e si dissolverà nel nostro essere, perché, non avendoesistenza sostanziale o forma propria, non può sussistere di fronteallo sguardo limpido e intenso della nostra attenzione al sé.

Quando, ripetendo la pratica, otteniamo la capacità dimantenere la nostra attenzione all'investigazione del sé, senzadimenticanza, la nostra mente finirà per affondare nella profondità

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più intima o nucleo del nostro essere, dove sperimenteremol'infinita chiarezza della vera conoscenza di sé, che dissolveràinteramente la nostra mente rivelando la verità che nulla di simileè mai realmente esistita.

Cioè, nella chiara luce della vera conoscenza di sé scopriremoche non siamo mai stati la mente che abbiamo immaginato diessere, ma che siamo sempre stati la coscienza reale, infinita eassoluta del solo essere, proprio come nella chiara luce del giornoscopriremmo che una corda che nel buio della notte abbiamoimmaginato come un serpente non è mai stato un serpente, ma erasempre solo una corda. Come il serpente, la nostra mente è unmero frutto della nostra immaginazione, e come la corda, la nostracoscienza infinita di essere è l'unica realtà sottostante, l'illusoriaapparenza di questa mente.

Proprio come stavamo vedendo solo una corda anche quandoabbiamo immaginato che fosse un serpente; così in realtà stiamosperimentando solo la nostra infinita e assolutamente non dualecoscienza di sé, anche quando ci immaginiamo che sia questacoscienza che conosce la dualità, che chiamiamo la nostra 'mente'.Pertanto, poiché la nostra mente è solo un'illusione, uninconsistente, sfuggente e sempre fugace fantasma creato dallanostra immaginazione, possiamo controllarla efficacemente soloconoscendo la verità che non siamo davvero la mente, come noiora immaginiamo di essere, ma siamo solo l'infinita pienezza diessere-coscienza-felicità.

Fino a quando non conosciamo questa verità come la nostraattuale esperienza di noi stessi, continueremo ad essere illusi daquesta immaginaria mente che non saremo mai veramente ingrado di controllare completamente. Quindi, poiché possiamoconoscere come siamo veramente solo osservando intensamente eattentamente il nostro essere; questa pratica di osservazione del sé,di attenzione al sé o investigazione del sé è l'unico mezzoattraverso il quale possiamo accuratamente ed efficacementecontrollare la nostra mente.

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La Pratica dell'Arte di Essere

Dopo aver detto che per raggiungere mukti o l'emancipazionedobbiamo frenare la nostra mente, e che, per frenare la nostramente dobbiamo indagare o esaminare noi stessi, al fine di saperechi o che cosa siamo veramente; Sri Ramana continua a definire lavera emancipazione più avanti nello stesso paragrafo dicendo:

“[...] Conoscere il nostro yathārtha svarūpa [ilnostro vero sé o essere] dopo aver indagato, chi è [ilnostro individuale falso] sé, che è in schiavitù, è mukti[emancipazione o liberazione]. [...]”

Che cosa esattamente vuol indicare dicendo che siamo inschiavitù? La 'schiavitù' nella quale ora siamo non è solo il nostroconfinamento immaginario all'interno dei limiti di questo corpofisico, ma è più fondamentalmente il nostro immaginarioconfinamento entro i limiti di questa coscienza finita chechiamiamo la nostra 'mente'. Siamo, in realtà, l'infinita non dualecoscienza che non conosce null'altro che il proprio essere, che è lapace assoluta e la perfetta felicità.

Pertanto, immaginandoci di essere tale mente finita, che sorgeconoscendo la dualità o alterità, stiamo apparentemente limitandoil nostro essere, perfettamente felice e infinito, nel regno finitodella conoscenza dualistica, in cui sperimentiamo una miscela direlativa felicità e infelicità. Se vogliamo essere eternamente liberida ogni infelicità, dobbiamo liberarci dall'illusione che siamoquesta mente finita, e per liberare noi stessi da questa illusionedobbiamo conoscere come realmente siamo, cioè, l'infinito essere-coscienza-felicità.

Poiché la vera conoscenza di sé è la nostra reale condizione diassoluta non-dualità, lo stato di libertà infinita: perché quando losperimentiamo, sapremo che solo noi esistiamo, e che non vi èquindi nient'altro che noi stessi a limitare la nostra libertà. Laschiavitù che ora sperimentiamo è un'illusione, un parto dellanostra immaginazione, perché in realtà il nostro essere infinito

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non è mai limitato o vincolato in alcun modo. Pertanto, quandosperimenteremo la vera conoscenza di sé, conosceremo la veritàche siamo sempre stati perfettamente liberi.

La schiavitù è uno stato che è vissuto solo dalla nostra menteirreale, e non dal nostro vero sé. Pertanto, poiché la schiavitùesiste solo nella visione limitata e distorta della nostra mente, enon nella visione illimitata e chiara del nostro sé reale, il concettodi liberazione o emancipazione è vero solo riguardo alla nostramente irretita nella schiavitù. Nel versetto 39 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu',Sri Ramana dice:

“Solo fintanto che [immaginiamo] 'io sono unapersona in schiavitù', […] pensieri di schiavitù eliberazione [sorgeranno]. Quando [noi] vediamo [ilnostro vero] sé [indagando] 'chi è [questa] persona inschiavitù?', [il nostro vero] sé, [che è] eternamenteliberato, rimarrà [solo sperimentando se stesso] comeciò che è [sempre]conquistato. Quando [il nostro realesé resta sperimentando se stesso così], dal momentoche il pensiero di schiavitù non può rimanere, può ilpensiero della liberazione rimanere [solo] davanti [atale chiara conoscenza di sé]?”

Liberazione o vera conoscenza di sé in realtà non è uno statoche possiamo nuovamente raggiungere, perché in verità noi siamosempre la non duale coscienza di essere, che non cessa mai diconoscere se stessa e che è quindi eternamente liberata. Tuttavia,poiché ora immaginiamo noi stessi come questa mente irretitanella schiavitù; dal punto di vista di questa esperienzaimmaginaria è necessario liberarci da questa illusione d'ignoranzae di schiavitù del sé.

Pertanto, mentre sperimentiamo di essere questa mente, lenostre nozioni di schiavitù e liberazione sono in effetti del tuttovere e perfettamente valide. Cioè, finché ci sperimentiamo come

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vincolati da limitazioni, il nostro desiderio di raggiungere la veraconoscenza di sé e quindi, di essere liberati da tale schiavitù è siavalido che necessario. Tuttavia, anche se è necessario per noi orafare ogni sforzo possibile per raggiungere la vera conoscenza disé, indagando la realtà della nostra mente che è in schiavitù,quando abbiamo effettivamente sperimentato la conoscenza di séche ora noi cerchiamo, scopriremo che non siamo questa menteirretita nella schiavitù, ma solo il nostro vero sé eternamenteliberato.

Quando scopriamo che la nostra schiavitù è del tutto irreale,essendo un mero frutto della nostra immaginazione, la nostraliberazione o emancipazione dalla schiavitù sarà anche irreale.Cioè, scopriremo che siamo eternamente e infinitamente liberi, equindi non ci sentiremo di essere mai stati rilasciati o liberati daqualsiasi cosa. Dopo aver definito la mukti o liberazione, eindicando che possiamo raggiungerla solo indagando o scrutandonoi stessi, Sri Ramana continua a parlare di ātmavicāra o'inchiesta del Se', e così facendo contrasta con la pratica didhyāna o 'meditazione', dicendo:

“[...] Il nome 'ātma-vicāra' [è veramenteapplicabile] solo per [la pratica di] sempre essere [orimanere] dopo aver messo [posta, tenuta, seduta,depositata, detenuta, fissata o stabilita la nostra mente]in ātmā [nostro vero sé], mentre dhyāna [meditazione]è immaginare noi stessi come sat-citānanda brahman[la realtà assoluta, che è essere-coscienza-beatitudine]”.

Dal momento che l'auto-investigazione o ātma-vicāra è lapratica di rimanere con la nostra mente fissa nel nostro vero sé,che è l'essere infinito e assoluto, è una pratica di solo essere, senzaalcuna attività mentale. Al contrario, il termine meditazione odhyāna è comunemente intesa a indicare la pratica del pensare o

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immaginare noi stessi come Dio o Brahman, la realtà infinita eassoluta, la cui natura è sat-cit-ananda o essere-coscienza-beatitudine, e come tale la meditazione è semplicementeun'attività mentale.

Questa distinzione radicale tra la pratica della vera indagine delsé o ātmavicāra e la pratica della meditazione 'Io sono Brahman',era spesso sottolineata da Sri Ramana, come ad esempio nelversetto 29 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', in cui dice:

“Senza dire 'Io' con la bocca, scrutando per mezzodella [nostra] mente che affonda [si immerge o si apreun varco] verso l'interno, dove essa [questa mente]sorge come 'Io' è solo il percorso del jñāna [la praticache conduce alla vera conoscenza]. Invece [dipraticare un così profondo, libero da pensiero, esamedel sé], pensando '[Io sono] non questo [corpo omente], Io sono quello [brahman [la realtà assoluta] è[solo] un aiuto, [ma] può essere vicāra [investigazionedel sé o scrutinio del sé]?”

Il vero vicāra o indagine del sé è solo la pratica della nostraimmersione o penetrazione verso l'interno con tutta la nostramente, o attenzione focalizzata sulla nostra fonte o vero essere, lanostra coscienza fondamentale 'Io sono'. Meditare o dimorare nelpensiero che non siamo questo corpo o questa mente, ma siamosolo l'infinita e assoluta realtà, può essere un aiuto per convincercidel nostro bisogno di volgerci verso l'interno per conoscere noistessi, ma non può essere di per sé l'attuale processo diinvestigazione del sé, perché è un'attività estroversa della nostramente.

Quando saggi e libri sacri ci dicono che non siamo questocorpo finito o questa mente, ma siamo solo la realtà infinita eassoluta, il loro scopo è quello d'indurci a rivolgere la nostraattenzione verso l'interno per scrutare noi stessi per scoprire ciò

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che siamo veramente. Invece di deviare ed immergerci versol'interno, se ci limitiamo a pensare 'Io non sono questo, sonoquello', abbiamo chiaramente frainteso lo scopo del loroinsegnamento. Pertanto, nel versetto 32 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu' SriRamana dice:

“Quando i Veda [o altri testi sacri] proclamano 'che[l'assoluta realtà] sei tu', il nostro pensiero 'Io sonoquello [la realtà assoluta], [e] non questo [corpo omente]' [e] non [solo] essere [quella realtà assoluta]esaminando noi stessi [per accertare] 'cosa [sono Io]?'è dovuto alla mancanza di forza mentale [odiscriminazione], perché quella [la realtà assoluta]permane sempre come noi stessi”.

Quando ci viene detto 'ciò sei tu', dovremmo indagare e sapere'che cosa sono Io?'. Se invece ci limitiamo a meditare 'Io sonoquello', Sri Ramana dice che questo è a causa di assenza omancanza di uraṉ o di forza mentale. La parola 'uran'letteralmente significa forza di volontà, autocontrollo oconoscenza, ma in questo contesto significa specificamente forzadi convinzione.

Se siamo veramente convinti che siamo questo, non sentiremoalcun bisogno o desiderio di meditare 'Io sono quello', masentiremo un forte bisogno e amore per scrutare noi stessi, al finedi scoprire 'Io sono cosa?'. Dal momento che la realtà assoluta einfinita esiste sempre come il nostro vero sé o essere essenziale,non possiamo conoscerla finché non conosceremo noi stessi.Pertanto, se si ha veramente amore per l'infinita pienezza di essereche noi chiamiamo 'Dio', dovremmo meditare solo su noi stessi, enon su ogni pensiero di Dio, e non sul pensiero 'Io sono Dio'.

Ogni pensiero che formiamo nella nostra mente è una fantasia,ed è vissuto da noi come qualcosa di diverso da noi stessi, inmodo che nessun pensiero può essere Dio. Qualunque sia la nostra

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idea di Dio, questa concezione non è Dio, e non arriva nemmenovicino alla sua definizione, perché egli è l'infinita realtà, chetrascende tutti i pensieri e concezioni mentali.

Il pensiero di Dio c'è utile solo finché ci immaginiamo diessere questo individuo finito che si sente 'io sono questo corpo',ma se ci liberiamo di questa immaginazione, conoscendo noistessi come realmente siamo, nessun pensiero di Dio sarànecessario, perché lo sperimenteremo direttamente come il nostrovero sé. Fino a quando non lo sperimentiamo così, pensare a lui èutile, ma piuttosto che pensare a lui come diverso da noi stessi,pensare a lui come nostro vero sé è più benefico. Pertanto, nelversetto 8 di 'Upadēśa Undiyār', Sri Ramana dice:

“Invece di anya-bhāva [considerare Dio come anyao diverso da noi stessi], ananya-bhāva [considerarloananya o non altro che noi stessi], 'egli è Io', è davveromigliore tra tutti [i modi di pensare a Dio]”.

Tuttavia, poiché Dio è il nostro vero sé, piuttosto che meditare'egli è Io' o pensare a lui come non altro che noi stessi, mettere daparte tutti i pensieri di Dio e meditare solo su noi stessi o essereessenziale è il più perfetto modo di meditare su di lui. Se siamodavvero convinti che 'egli è Io', perché dovremmo continuare apensare ripetutamente 'egli è Io', invece di essere solointensamente attenti al sé al fine di sperimentare noi stessi come ilpuro e infinito essere che siamo veramente? Pertanto, nel versetto36 di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana chiede:

“Se pensiamo che siamo [questo] corpo, quella[meditazione], che è il pensare [invece] che 'no [nonsiamo questo corpo], siamo quello' è un buon aiuto[per convincerci e ricordarci la necessità] di dimorare[nello stato di vera non duale coscienza di sé, in cuisperimentiamo noi stessi] come 'noi siamo quella

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[realtà assoluta]'. [Tuttavia] dato che [in veritàsempre] dimoriamo come quello, perché [dovremmo]sempre pensare che siamo quello? [Per sapere chesiamo umani] abbiamo [bisogno di] pensare 'io sonoun uomo'?”

Pensare che noi siamo Dio o la realtà assoluta è utile solo nellamisura che ci può aiutare a convincerci e ricordare che nondobbiamo sorgere come questa mente pensante, ma dovremmoinvece dimorare come il nostro vero sé, che è quella realtàassoluta, la cui natura è solo essere e non fare o pensare nulla.Proprio come non sentiamo alcun bisogno di pensare: 'io sono unessere umano', perché abbiamo sempre sperimentato noi stessicome tale, quindi non c'è bisogno per noi di pensare più volte 'Iosono quello', perché siamo sempre quello, sia che lo pensiamo ono.

Pertanto, poiché siamo in verità sempre e soltanto quella realtàassoluta, il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di sperimentarenoi stessi come tale, e al fine di sperimentare noi stessi così,dobbiamo sprofondare nel nostro essere, rimanendo senza sorgereper pensare a qualcosa. Pertanto, nel versetto 27 di 'UḷḷaduNāṟpadu', Sri Ramana dice:

“Lo stato di [solo] essere, in cui 'io' [questa mente]non sorge [come entità apparentemente separata], è lostato in cui siamo quello. Senza scrutare il luogo[dimora o fonte] dove l''Iio' sorge, come [è possibileper noi] raggiungere la perdita del [nostro individuale]sé, [che è lo stato privo di ego], in cui l''io' non sorge?Senza raggiungere [questo stato di assenza di ego o diannientamento della nostra individualità], dite come[possiamo rimanere] dimorando nello stato di [nostrovero] sé, in cui [sperimentiamo noi stessi come] 'mestesso è quello'?”

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Possiamo sperimentare noi stessi come Dio, la realtà infinita eassoluta, solo nel nostro stato naturale di completa assenza di ego,in cui non sorgiamo come individuale 'io' o mente. Al fine dirimanere senza sorgere come questa mente, dobbiamo esaminareprofondamente il nostro essere più profondo, che è la fonte da cuisiamo sorti.

Quando attentamente, vigili e senza tentennamenti scrutiamo ilnostro essere più profondo, affonderemo e ci fonderemo in esso,diventando uno con esso, e nel conseguente stato senza ego nonduale e cosciente di sé sperimenteremo la verità che siamo larealtà assoluta che ora chiamiamo 'Dio' o brahman. Questa praticad'intenso, vigile e costante esame del sé o attenzione al sé è lapratica di 'essere avendo posto [la nostra] mente nel [nostro vero]sé', che Sri Ramana ha descritto quando ha detto,

“Il nome 'ātma-vicāra' [è veramente applicabile]solo per [la pratica di] essere sempre [dimorare orimanere] dopo aver messo [posto o fissato la nostra]mente in ātmā [nostro reale sé], ed è l'unico mezzoattraverso il quale possiamo efficacemente frenare oimpedire l'attivazione della nostra mente”.

In contrasto con questa semplice pratica di essere attenti al sé,che è del tutto priva di attività mentale, la pratica di meditare 'iosono la realtà assoluta' è un'attività mentale, e, quindi, in realtàsostiene la sollevazione della nostra mente e impedisce la suasubsidenza {disattivazione}. In pratica, la meditazione o dhyānache Sri Ramana ha descritto quando ha detto:

“[...] mentre dhyāna è immaginare noi stessi diessere sat-cit-ānanda Brahman [la realtà assoluta, cheè l'essere-coscienza-beatitudine], è solo un processo diricordare alcune informazioni che abbiamo imparatodai sacri libri o dai saggi, cioè che siamo in verità la

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realtà assoluta, che è infinito essere, coscienza efelicità, cercando di immaginare noi stessi come tale”.

Finché esercitiamo tale bhāvana o meditazione immaginativa,evidentemente non conosciamo il nostro vero sé, perché se loconoscessimo, non avremmo alcuna necessità di tale pratica.

Pertanto, poiché non conosciamo il nostro vero sé, chiaramentenon conosciamo brahman o la realtà assoluta, né conosciamo lavera esperienza di essere l'infinito essere-coscienza-beatitudine.Per la nostra mente ignorante del sé, termini come Dio, brahman,la realtà assoluta e sat-cit-ānanda o l'essere-coscienza-beatitudine,tutti denotano solo concetti mentali, e non alcuna esperienza reale.Sri Ramana termina questo paragrafo XVI dicendo:

“In un certo momento diventerà necessario [pernoi] dimenticare tutto quello che [noi] abbiamoimparato, perché tutte le informazioni che abbiamoappreso, compreso tutto quello che abbiamo imparatodai libri sacri su Dio o la realtà assoluta, è solo unaraccolta di pensieri o concetti mentali, mentre la realtàtrascende non solo tutti i pensieri e concetti, ma anchela mente che pensa e conosce questi pensieri econcetti”.

Pertanto, per conoscere noi stessi come la realtà assoluta obrahman, dobbiamo dimenticare tutti questi pensieri e anche lanostra mente che li pensa, e dobbiamo invece rimanere attenti alsé come il nostro puro essere, che è privo di ogni pensiero eattività mentale.

Quando Sri Ramana definisce dhyāna o 'meditazione' come lapratica d''immaginare noi stessi di essere sat-cit-anandabrahman', non dobbiamo confondere l'uso della parola dhyāna inquesto contesto con il precedente uso del termine svarūpadhyānao 'meditazione del sé' nel decimo paragrafo. Il Sanscrito dhyāna

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deriva dalla radice verbale dhyai, che significa pensare,immaginare, meditare, ponderare, riflettere, considerare oricordare, e quindi letteralmente significa meditazione, pensiero oriflessione.

Come tale, dhyāna è sicuramente un'attività mentale, unprocesso d'immaginare o pensare a qualcosa. Tuttavia, quando laparola dhyāna è applicato a noi stessi come in svarūpadhyāna,essa non significa letteralmente meditazione o riflessione, perchéil nostro vero sé o essere non è un oggetto che possiamo pensare.Se proviamo a pensare o meditare su noi stessi, la nostra mentepensante inizierà a scemare, perché può sorgere ed essere attivasolo pensando o dando attenzione ad altre cose diverse da sestessi.

Pertanto, la pratica di svarupa-dhyāna o 'meditazione del sé' èdiversa da tutte le altre forme di meditazione, poiché non èun'attività mentale o qualsiasi forma di 'fare' o 'pensare', ma è sololo stato di essere attenti al sé. Il vero significato della'meditazione' sull'essere, la realtà o 'quello che è', è ben spiegatoda Sri Ramana nel primo dei due versi del maṅgalam o'introduzione di buon auspicio' per 'Uḷḷadu Nāṟpadu', che hainizialmente composto come un verso di due righe nel metrokuṟaḷ veṇbā, in cui ha detto:

“Come [o chi può] meditare sul [nostro] essere-essenza? Essere nel [nostro] cuore come [veramente]solo siamo è meditare [sul nostro essere]. Conosci[questo]”.

Tuttavia, al fine di corrispondere al metro di tutti gli altri versiin 'Uḷḷadu Nāṟpadu' e spiegare più in dettaglio la verità sottile cheha espresso così succintamente in questo versetto kuṟaḷ, ha poiaggiunto ad esso due righe di apertura, trasformandolo in tal modonella sua forma attuale, che è un verso di quattro righe nel metroveṇbā, in cui dice:

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“Oltre a uḷḷadu ['ciò che è' o essere], potrebbeesserci la coscienza di essere? Poiché [questo] essere-essenza [questa sostanza o realtà esistente che è] nel[nostro] cuore privo di [ogni] pensiero, come [o chipuò] pensare [o meditare su questo] essere-essenza,che si chiama 'cuore'? Essere nel [nostro] cuore come[veramente] siamo [cioè, come la nostra priva dipensieri non duale coscienza di essere, 'Io sono'] èsolo meditare [sul nostro essere]. Conosci [questaverità sperimentandola]”.

L'originale Tamil di questo versetto è una bella composizionericca di allitterazioni e profondi significati. Dei suoi quindici piedimetrici, i primi quattordici iniziano con la sillaba uḷ,, che è unaradice che ha due significati distinti ma strettamente correlati.Cioè, uḷ, è la base di un verbo senza tempi che significa 'essere' o'avere', ed ha anche un significato diverso ma collegato: 'dentro','interno' o 'interiore'.

Delle quattordici parole in questo verso che iniziano con questasillaba uḷ, otto sono parole derivate dal primo senso di uḷ, comebase di un verbo senza tempi che significano in questo contesto'essere', mentre le altre sei sono parole derivate dall'ultimo sensodi uḷ che significano 'dentro', 'interno' o 'interiore'. Di queste seiparole, tre sono le forme di uḷḷam, che significa 'cuore', 'nucleo','mente', 'coscienza' o 'sé', e le altre tre sono uḷḷal,, che significa'pensiero', 'pensare' o 'meditare'. La prima frase di questo versettoè una domanda semplice, ma con un significato profondo e ampio,'uḷḷadu aladu uḷḷa-v-uṇarvu uḷḷadō?'

Come sostantivo uḷḷadu, che è un termine usato nella letteraturafilosofica Tamil per indicare la realtà, la verità o lo spirito, è sia unnome composto che significa 'quello (adu) che è (uḷḷa)' sia ungerundio che significa 'essendo'. Tuttavia questi due significatisono sostanzialmente identici, perché 'ciò che è', non è altro che oin ogni modo distinto dal proprio stato naturale di essere, e quindi

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sono entrambi appropriati in questo contesto. La parola aladu puòessere una congiunzione avversativa che significa 'o', 'se non' o'altro', o può significare 'eccetto come', 'altro che' o 'inoltre'.

La parola composta uḷḷa-v-uṇarvu significa 'coscienza che è','coscienza esistente', 'essendo coscienza' o 'coscienza di essere', euḷḷadō è una forma interrogativa della terza persona singolare delverbo uḷḷadu e quindi significa 'c'è?' o '[egli] esiste?'. Così questaprima frase dà varie sfumature di significato come 'Se l'essere nonc'era, potrebbe esserci coscienza di essere?', 'Salvo come [diversoo oltre a] ciò che è, c'è [qualche] coscienza di essere?' o 'Può la[nostra] coscienza di essere ['Io sono'] essere diversa dal[nostro] essere?'.

Anche se tutte queste sfumature sono strettamente correlate,parallele e compatibili fra loro, ciascuna di esse è un modoalternativo e utile per comprendere la stessa verità di base. Tra levarie sfumature di significato implicite in questa prima frase, unaimportante deriva dal fatto che uḷḷadu significa 'ciò che è', equindi nel suo senso letterale denota solo ciò che è realmente, enon tutto ciò che sembra solo essere. Cioè, non indica una formarelativa, finita, parziale o forma qualificata di essere, ma solo laforma assoluta, infinita, indivisibile e non qualificata di essere:l'essere che in realtà è.

Quindi un importante significato implicito in questa frase è chese non ci fosse un essere assoluto, potremmo essere consapevoli diessere? Cioè, siamo consapevoli di solo essere perché c'è qualcosache realmente è; qualcosa che è assolutamente,incondizionatamente, infinitamente, eternamente eimmutabilmente reale. Così questa frase è un potente argomentoche stabilisce la verità che la mera consapevolezza di essere indicachiaramente l'esistenza di una realtà assoluta, una forma senzaqualificazioni di essere, un essenziale 'egli è' {is-ness} o 'Io sono'{ am-ness} che sono alla base di tutte le forme di conoscenza.

Questo essere essenziale e assoluto è il nostro stesso essere, 'Iosono', perché 'Io sono' è l'essere fondamentale che sempre

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sperimentiamo e che è la base della nostra conoscenza di tutte lealtre forme di essere. Poiché il nostro essere essenziale o 'Io sono'{am-ness} sottostà e supporta tutte le nostre conoscenze,compresa la nostra conoscenza del tempo, dello spazio e tutte lealtre dimensioni limitanti, deve trascendere tutti i limiti e devequindi essere eterno, immutabile, ed infinitamente e assolutamentereale.

Anche se la parola uḷḷadu o 'quello che è' può superficialmenteapparire denotare un essere che esiste come 'quello', un oggettodiverso da noi stessi, questo non è il senso che Sri Ramana intendefarci capire. Ciò che esiste davvero, e che noi sappiamo semprecome esistente, è solo il nostro stesso essere, che sperimentiamocome 'Io sono'.

La nostra conoscenza o coscienza di essere o l'esistenza diqualsiasi altra cosa appare e scompare, ed è quindi soloun'apparizione effimera. Inoltre, la 'coscienza' che conosce l'essereo l'esistenza di altre cose è solo la nostra mente, e quelle 'altre'cose che conosce sono tutte solo pensieri o immagini mentali cheessa forma in sé col suo potere d'immaginazione.

Giacché la nostra mente e tutte le 'altre' cose che conosceappaiono e scompaiono, hanno una realtà apparente finita, relativae condizionale, e quindi non possono essere la realtà assoluta cheè indicata con il termine uḷḷadu o 'quello che [realmente] è'.Pertanto, nel contesto in cui Sri Ramana la utilizza, la parolauḷḷadu non denota alcuna apparente realtà che la nostra menteconosce come altro da sé, ma denota solo la realtà assoluta chesottende e sostiene l'apparizione della nostra mente.

Cioè, denota solo il nostro stesso essere, la prima persona 'Iosono', e non qualsiasi altra forma di essere, ogni seconda o terzapersona di essere come 'esso è'. Questo fatto è reso ancora piùchiaro da Sri Ramana nella seconda frase di questo versetto, in cuidice che l'uḷḷaporuḷ, la 'sostanza che è' o 'realtà che è', esiste nelnostro cuore ed è priva di pensieri, e che in realtà è ciò chechiamiamo 'cuore' o il nucleo del nostro essere.

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Pertanto le parole uḷḷadu e uḷḷa-poruḷ denotano solo la realtàpriva di pensieri che esiste dentro di noi, come il nostro essereessenziale. Mentre la maggior parte dei testi sacri e altri scrittifilosofici che tentano di stabilire l'esistenza di Dio o la realtàassoluta lo fanno sostenendo che ci deve essere una causaassoluta, sorgente o base per la comparsa di questo mondo, inquesta prima frase di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', Sri Ramana stabiliscel'esistenza della realtà assoluta, semplicemente sottolineando chenon potremmo essere consapevoli del nostro essere o esistenza senon fossimo ciò che realmente è. Cioè, se non esistevamorealmente, non potevamo conoscere 'Io sono'.

Pertanto il nostro essenziale essere cosciente di sé, cheabbiamo sempre sperimentato come 'Io sono', è assolutamentereale. Dal momento che tutte le altre cose dipendono per la loroesistenza o essere apparente dalla nostra conoscenza di loro, sonotutte solo relativamente reali, e non assolutamente reali. L'unicacosa che conosciamo come la realtà assoluta è il nostro essereessenziale o 'Io sono', mentre l'essere o 'egli è' {is-ness} di tutte lealtre cose, incluso tutto il mondo e ogni Dio che concepiamocome essere separato dal nostro essere, sono solo forme relative direaltà.

Pertanto, in questa semplice frase, 'Se ciò che è non fosse, cipotrebbe essere una coscienza di essere?', Sri Ramana indica chel'unica prova che richiediamo per dimostrare l'esistenza dellarealtà assoluta, 'quello che è realmente', è la semplice coscienzadel nostro essere. Così egli implica che, poiché la nostraconoscenza di tutte le altre cose dipende dalla nostra conoscenzadel nostro essere, 'Io sono', ogni argomento che possiamo dare perstabilire l'esistenza della realtà assoluta basato solo sull'esistenzaapparente dell'alterità anziché sulla nostra conoscenzafondamentale del nostro essere è intrinsecamente viziato.

Questo è il motivo per cui tutte le solite argomentazioni circal'esistenza o la non esistenza di Dio non possono mai essere risoltese prima non consideriamo la realtà della nostra esistenza. Non

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potremo mai dimostrare l'esistenza della realtà assoluta o 'Dio'sulla base dell'esistenza apparente di questo mondo, ma solodall'esistenza indubitabile di noi stessi. Poiché conosciamo ilmondo, sappiamo che certamente esistiamo per saperlo.

L'esistenza del mondo può essere una semplice apparizione ofantasia, come l'apparente esistenza del mondo che conosciamo inun sogno, ma la nostra esistenza è senza dubbio vera, perché senon esistiamo realmente, non avremmo potuto conoscere né lanostra stessa esistenza né l'esistenza apparente di qualsiasi altracosa. Pertanto Sri Ramana inizia il testo principale di 'UḷḷaduNāṟpadu', dicendo nel verso 1:

“Poiché vediamo [o percepiamo] il mondo,accettando [l'esistenza de] l'unico mudal [primoprincipio, l'origine, la fonte, la base, la realtàfondamentale o sostanza primaria] che ha un potereche è molteplice [o diverso, cioè un potere di apparirecome se fosse molte cose diverse] è davveroinevitabile.

L'immagine di nomi e forme [tuttaquest'apparizione del mondo], il veggente [la nostramente che lo percepisce], il sottostante [o esistente]schermo [su cui appare] la luce splendente [dellacoscienza con cui lo percepiamo] tutti questi sono egli[quest'unica sostanza primordiale], che è [il nostrovero] sé”.

L'unico mudal, l'unica realtà fondamentale, l'essenza di base oprimaria sostanza a cui Sri Ramana si riferisce in questo versetto,e che lui dice è il nostro vero sé, è la stessa realtà assoluta chedescrive come uḷḷadu o 'ciò che è' nel primo versetto maṅgalam.Poiché sappiamo che 'Io sono', sappiamo che quest'unica realtàoriginale, fondamentale e assoluta, che è il nostro vero sé o essere

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essenziale, effettivamente esiste. E poiché quando sorgiamo comenostra mente, sperimentiamo apparentemente all'interno di essamolte altre cose oltre il nostro essere; sappiamo che il nostro unicoessere cosciente di sé ha il potere di apparire come se fosse moltecose diverse.

Tutte queste cose diverse: cioè questo mondo intero, che sorgenella nostra mente come una serie di immagini mentali, che sonocome immagini proiettate su uno schermo, la nostra mente, chesperimenta queste immagini, lo 'schermo' alla base o substrato diessere da cui, in cui e su cui sia la nostra mente che tutta questaintera pellicola in continua evoluzione mentale su cui le immaginiappaiono, e la chiara luce della coscienza che ci permette disperimentare tutto questo sogno-spettacolo, sono in sostanza soloquell'unica primaria sostanza o fondamentale realtà non duale, cheè il nostro vero sé o essere essenziale.

Cioè, poiché tutta questa molteplicità nasce in noi come unsogno, e scompare quando la nostra mente s'immerge nel sonnoprofondo, la sostanza da cui è formata è solo il nostro non dualeessere consapevole di sé, che è l'unica realtà fondamentale eassoluta. Anche se in questo verso Sri Ramana sembra affermarel'esistenza di questa non duale realtà assoluta alla base della nostraesperienza di quest'apparizione del mondo, egli in realtà iniziaquesto verso con la parola nām, il che significa 'noi', ponendol'accento non sul mondo in quanto tale, ma solo su noi stessi, chesembriamo percepire questo mondo.

Questa enfasi è ribadita da lui ancora più fortemente nelleparole finali di questo versetto, tāṉ ām avaṉ, che significano 'chi èse stesso', e che quindi indicano chiaramente che cosa significa inrealtà il termine 'unico mudal', vale a dire che 'lui', l'unico mudal o'Dio', che è l'unica realtà fondamentale o sostanza primordiale cheè alla base e appare come tutta questa molteplicità, è solo il nostrovero sé o essere essenziale. Così in questo versetto Sri Ramanaeffettivamente stabilisce l'esistenza dell'assoluta realtà non fondatasull'esistenza apparente del mondo, ma solo dall'esistenza

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indubitabile di noi stessi, che sembriamo conoscerla.Tuttavia, mentre in questo primo versetto del testo principale di

'Uḷḷadu Nāṟpadu' egli stabilisce l'esistenza della realtà assoluta inmaniera indiretta basata sulla nostra coscienza transitoria diquesto mondo, nella prima frase del primo verso del maṅgalam o'introduzione di buon auspicio' per 'Uḷḷadu Nāṟpadu' egli lastabilisce in maniera diretta basata sulla nostra permanentecoscienza del nostro semplice essere.

Cioè, se percepiamo o meno questo mondo, sperimentiamosempre la realtà assoluta, 'ciò che è', perché siamo sempreconsapevoli del nostro essere essenziale, 'Io sono'. Poichéconosciamo sempre chiaramente il nostro essere o 'Io sono', egli èdavvero 'ciò che realmente è', e quindi non abbiamo bisogno dialtre prove per convincerci dell'esistenza indubitabile di 'ciò cheè'.

Noi, che siamo in essenza l'essere cosciente di sé che sempresperimentiamo come 'Io sono', siamo ciò che veramente è, ciò cheè sicuramente, ciò che esiste incondizionatamente e in modoindipendente, e che è quindi assolutamente reale. Un'altrasfumatura di significato veicolata in questa prima frase si basa sulsignificato implicito dalla parola composta uḷḷa-v-uṇarvu. Cioè,dal momento che uḷḷa-v-uṇarvu. che significa 'essere-coscienza' o'coscienza di essere', e poiché la prima e fondamentale forma incui siamo consapevoli di essere è la coscienza o conoscenza cheabbiamo del nostro essere, che sperimentiamo come 'sono', ilsignificato implicito di uḷḷa-v-uṇarvu. è questa fondamentalecoscienza 'sono', che è la nostra prima persona cosciente delnostro essere.

Poiché 'sono' è un predicato, deve avere un soggetto, e ilsoggetto può solo essere 'io', che è il vero essere indicato qui conla parola uḷḷadu. Pertanto, un significato implicito in questa primafrase è: “Se il fondamentale essere 'Io' non esiste realmente,potremmo sperimentare questa coscienza 'sono'?”. Inoltre, poichéaladu non significa solo 'a meno che' o 'se non', ma anche 'altro

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che' o 'inoltre', un altro significato parallelo ma leggermentediverso convogliato in questa frase è: “Può la nostra coscienza'sono' essere altro che il nostro essenziale 'Io'?”.

Cioè, la coscienza del nostro essere, che è indicato con laparola 'sono', non è altro che il nostro essere, che è indicato con laparola 'Io'. Quando interpretiamo aladu nel senso di 'diverso','altro che', questo stesso significato di base è valido anche senzacoinvolgere le parole derivate 'Io' e 'Sono'. Cioè, un significatoche è chiaramente trasmesso in questa prima frase è:

“Altro da quello che è, vi è [qualsiasi] coscienzache è [per conoscere ciò che è]?”. O piùsemplicemente: “Oltre ad essere, c'è [qualsiasi]coscienza di essere?”.

In altre parole, la coscienza è essa stessa essere, perché se fossediversa dall'essere, la coscienza non sarebbe stata e quindi nonavrebbe potuto sapere di essere. Questa è la stessa verità dicruciale importanza che Sri Ramana esprime con parole moltosimili nel versetto 23 dell'Upadesa Undiyār:

“A causa della non-esistenza di [ogni] uṇarvu[coscienza] diversa [da uḷḷadu] per conoscere uḷḷadu['ciò che è' o essere], uḷḷadu è uṇarvu. [Questo]uṇarvu esiste come 'noi' [il nostro essere essenziale overo sé]”.

La verità decisiva che è riportata esplicitamente in questo versodi 'Upadēśa Undiyā', ed è anche implicata chiaramente in questaprima sentenza di 'Uḷḷadu Nāṟpadu', è in perfetto accordo conl'esperienza di ognuno di noi, perché la forma di base in cuiognuno di noi sperimenta la coscienza è la coscienza di noi stessio del nostro stesso essere. La nostra coscienza è cosciente delproprio essere perché, poiché è coscienza, il suo essere è

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essenzialmente cosciente di sé. O per esprimere la stessa verità piùdirettamente, siamo consapevoli del nostro essere, perché, dalmomento che noi stessi siamo la coscienza, il nostro essere èessenzialmente cosciente di sé, e quindi la nostra coscienza e ilnostro essere sono inseparabili.

Cioè, non siamo solo essere o uḷḷadu, 'ciò che è', ma siamoanche la coscienza di essere o uḷḷa-v-uṇarvu, 'ciò che è coscientedi ciò che è'. Ancora un'altra sfumatura di significato, che èimportante nel contesto del resto di questo verso, deriva dal fattoche uḷḷa non è solo l'infinito, participio relativo e formaaggettivale del verbo uḷ,, e quindi significa 'essere', 'che è','esistente', 'essere vero' o 'reale', ma è anche l'infinito del verbouḷḷu, e quindi significa 'pensare'. Visualizzato in quest'ultimosenso, il significato di questa prima frase sarebbe,

“Diverso da quello che è, vi è una la coscienza perpensare [ad esso]?”.

Cioè, dal momento che non siamo separati dalla realtà assolutasulla quale vogliamo meditare, possiamo solo meditaresperimentandola veramente come noi stessi, e poiché è priva ditutti i pensieri, possiamo sperimentarla come noi stessi solosperimentando noi stessi senza alcun pensiero: come il nostrosemplice essere cosciente di sé.

La seconda frase di questo versetto è più lunga, ma è ancorauna domanda abbastanza semplice, 'uḷḷa-poruḷ uḷḷal aṟa uḷḷattēuḷḷadāl, uḷḷam eṉum uḷḷa-poruḷ uḷḷal evaṉ?' La parola compostauḷḷa-poruḷ, che denota lo stesso essere reale e assoluto che èindicato con la parola uḷḷadu nella prima frase, letteralmentesignifica la cosa, entità, realtà, sostanza o essenza che è, o in altreparole, la realtà esistente o l'essenza di essere.

La parola uḷḷal significa 'pensiero' o 'pensare', e aṟa significa'privo di'. La parola uḷḷattē è una forma locativa di uḷḷam e quindisignifica 'nel [nostro] cuore', cioè, nel nucleo o la profondità più

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interna del nostro essere, e uḷḷadāl significa 'poiché [egli] è'. Leparole uḷḷam eṉum uḷḷa-poruḷ significano 'l'essenza di essere chesi chiama cuore', uḷḷal qui significa 'pensare' o 'meditare', e evaṉsignifica 'come' o 'chi'. Così questa frase significa:

“Dal momento che [questa] essenza di essere è nel[nostro] cuore priva di [ogni] pensiero [o di tutto ilpensare], come [o chi può] meditare [su questa]essenza di essere, che si chiama [nostro] cuore?”.

Cioè, dal momento che il nostro vero essenziale esseretrascende ed è quindi privo di tutti i pensieri, come può qualsiasipersona pensare, concepire o meditare su di esso? In questa frasel'uso della parola uḷḷam o 'cuore' è molto significativo, perché SriRamana dice non solo che il nostro essere essenziale esiste nelnostro cuore o nucleo più intimo, ma dice anche che è chiamatonostro cuore. In altre parole, uḷḷam o 'cuore' è solo un altro nomeper il nostro essere essenziale, che è la realtà infinita e assoluta.Dato che il nostro 'cuore' o nucleo più intimo è il nostro vero Io,noi stessi siamo la realtà assoluta o essere che esiste nel nostrocuore come 'nostro cuore'.

Inoltre, in letteratura Tamil, uḷḷam può essere utilizzato comeuna forma alternativa di uḷḷōm, la prima persona plurale del verbouḷ, e come tale significa 'sono' come in 'noi siamo'. In questocontesto, tuttavia, uḷḷam non è destinato a significare 'sono' comeprima persona plurale, ma piuttosto 'sono' come forma inclusivadella prima persona singolare del verbo 'sono', e quindi possiamotradurlo semplicemente come 'sono'.

Interpretata in questo senso, dunque, le parole uḷḷam eṉumuḷḷa-poruḷ significherebbero l'essenza di essere, che è chiamato'sono'. Pertanto utilizzando questa parola uḷḷam in questo contesto,Sri Ramana indica che il vero significato della parola 'cuore' o'nucleo', quando utilizzato in un contesto spirituale è solo il nostroessenziale essere cosciente di sé, 'sono', e anche che un nome

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appropriato per la realtà assoluta, l'essenza o la sostanza che soloè, non è solo 'cuore' o 'nucleo', ma anche 'sono'.

Infatti, poiché la parola 'sono' implica necessariamente laparola 'Io', e viceversa, congiuntamente o separatamente, 'Io' e'sono' sono il più adatto di tutti i nomi che possiamo usare perindicare la realtà assoluta o 'Dio', perché la realtà assoluta èsempre sperimentata direttamente da ognuno di noi come 'Iosono'. Nella terza frase Sri Ramana termina definendo cosa è lavera 'meditazione' sulla realtà, dicendo: 'uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadēuḷḷal'.

Come noi abbiamo visto, uḷḷattē significa 'nel [nostro] cuore', oimplicitamente 'nel sono', e uḷḷal qui significa 'meditazione' o'meditando'. La parola uḷḷadē è il gerundio di uḷḷadu significando'essendo' con il suffisso intensificativo 'ē', che significa 'solo', 'séstesso', 'certamente' o 'davvero'. Così queste tre parole uḷḷattēuḷḷadē uḷḷal significano 'essendo nel [nostro] cuore [o 'sono'] è lasola meditazione', o in altre parole, essendo nel nostro vero sé oessenziale essere cosciente di sé, 'Io sono', è veramente 'meditare'su di esso.

Tuttavia, la parola più importante in questa frase è uḷḷapaḍi,perché spiega esattamente cosa s'intende con le parole uḷḷattēuḷḷadē o 'solo essere nel [nostro] cuore'. Come esattamentedobbiamo essere nel nostro cuore o vero essere è uḷḷapaḍi, chesignifica 'come [egli] è' o 'come [noi] siamo'. Ma cosa SriRamana vuole in realtà implicare, in questo contesto, utilizzandoquesto termine 'come [egli] è' o 'come [noi] siamo'?

Il significato che egli implica è: 'privo di pensiero' o 'senzapensare', perché nella frase precedente, ha rivelato la vera naturadella nostra essenza di essere dicendo che esiste dentro di noiprivo di [tutto] il pensiero 'o privo di [tutto] il pensare'. Inoltre,dato che ha indicato nella prima sentenza che il nostro vero essereè la nostra stessa coscienza di essere; in altre parole, che il nostrovero essere è coscienza di sé e che siamo pertanto la perfettacoscienza non duale del nostro essere, 'Io sono'; egli usa qui

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questo termine uḷḷapaḍi non solo per implicare 'privo di pensiero',ma anche per implicare 'come la nostra non duale coscienza diessere' o 'come la nostra non duale coscienza di sé'.

Pertanto il significato di questa intera frase, 'uḷḷattē uḷḷapaḍiuḷḷadē uḷḷal', è: “Essere nel [nostro] cuore come [veramente]siamo [cioè, come il nostro essere non duale cosciente di sé, privodi pensieri, 'Io sono'] è solo meditare [sul nostro essere, che è larealtà assoluta]”. L'ultima parola con cui Sri Ramana poi finiscequesto versetto è uṇar, che è un significato imperativo 'sappi' o'sii cosciente', e che implica in tale contesto sia 'capire questaverità' o 'sperimentare il vostro reale essere essendo così come seiveramente'.

Così in questo versetto la conclusione a cui Sri Ramana ciporta è che noi non potremo mai concepire o pensare la realtàassoluta, che è sia il nostro essere che la nostra coscienza delnostro essere, perché trascende ogni pensiero e non può quindiessere raggiunta o afferrata da qualsiasi pensiero: l'unico modo per'meditare' su di essa o conoscerla è quindi solo essere così come siè, cioè, come la nostra semplice coscienza, libera da pensieri, enon duale del nostro essere, 'Io sono'. Nel primo dei due versi delsuo pāyiram o prefazione a Uḷḷadu Nāṟpadu, Sri Muruganarscrive che Sri Ramana gioiosamente compose questo chiaro eautorevole testo come risposta alla sua richiesta,

“Per essere salvati, [benignamente] rivelaci lanatura della realtà e dei mezzi per raggiungerla [unirci,raggiungere, fare esperienza o essere uniti con]”.

Pertanto, in questo primo verso maṅgalam Sri Ramana ci rivelasia la natura essenziale della realtà che i mezzi con cui possiamosperimentarla; il che è possibile solo essendo uno con essa. Nelleprime due frasi di questo verso Sri Ramana rivela alcune veritàcruciali sulla natura dell'unica realtà assoluta, che è uḷḷadu o'quello che è'.Per prima cosa spiega che la realtà non è solo essere,

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ma anche coscienza, perché diversa da 'ciò che è' non ci puòessere alcuna coscienza di conoscere 'ciò che è'.

Quindi 'quello che [veramente] è' è cosciente di sé, cioè, èessere assolutamente non duale cosciente di sé. In secondo luogoegli dice che quella realtà veramente esistente o 'essenza diessere', esiste priva di pensieri, o priva di pensare. Cioè, non è unsemplice pensiero o concezione mentale, ma è la realtàfondamentale che sottende e sostiene l'esistenza apparente dellanostra mente pensante e di tutti i suoi pensieri.

Tuttavia, sebbene supporti l'apparizione immaginaria deipensieri, in realtà è privo di pensieri, e quindi privo di coscienzapensante che chiamiamo la nostra 'mente', perché questa mentepensante ed i suoi pensieri sono irreali. Nella visione chiaradell'unica realtà cosciente di sé, i pensieri non esistono, perchésembrano esistere solo nella visione distorta della nostra mente,che è essa stessa uno tra i pensieri che immagina e conosce. Interzo luogo egli dice che esiste 'nel cuore', cioè, nel nucleo piùinterno del nostro essere.

In altre parole, non è solo qualcosa che esiste fuori di noi oseparato da noi, ma è ciò che esiste dentro di noi come la nostraessenziale realtà. Egli aggiunge, inoltre, che si chiama 'cuore',indicando così che la parola 'cuore' non si limita a indicare ladimora in cui esiste la realtà, ma denota la realtà stessa. Inoltre,poiché la parola uḷḷam significa non solo 'cuore', ma anche 'sono',dicendo che la realtà veramente esistente o 'essenza di essere' sichiama uḷḷam Sri Ramana rivela che non è qualcosa che esistecome un oggetto, ma è il nostro sé, il nostro essere essenziale o 'Iosono' {am-ness} In altre parole, l'assoluta realtà esiste non solo innoi ma anche come noi. Essa è il vero 'cuore' o nucleo del nostroessere.

Cioè, è la nostra vera essenza, sostanza o realtà. È quello chesiamo veramente. Oltre che come l'unica realtà assoluta, nonesistiamo veramente. Poiché ci inganniamo ritenendo di esserequesta mente pensante o la coscienza che conosce gli oggetti, si

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dice che l'unica realtà fondamentale esiste dentro di noi, ma questaè solo una verità relativa, una verità che è vera solo in relazionealla distorta prospettiva della nostra mente, che sperimenta ledualità come soggetto e oggetto, 'sé' e 'altro', 'dentro' e 'fuori', ecosì via.

Poiché l'unica realtà fondamentale trascende tutte questedualità, la verità assoluta sulla sua natura non è semplicementeche esiste dentro di noi, ma che esiste come noi. Infine,chiedendo, 'uḷḷa-poruḷ uḷḷal evaṉ?', che significa 'come [o chipuò] meditare [su questa] essenza di essere?', Sri Ramanaenfatizza la verità che, poiché la realtà assoluta è quella chetrascende il pensiero, non può essere concepita dalla mente oraggiunta col pensiero.

Pertanto, poiché la sua natura è così, qual è il mezzo con cuinoi la possiamo 'raggiungere', 'ottenere' o sperimentare come èdavvero? Dal momento che è non solo ciò che è, completamentepriva di pensiero, ma è anche ciò che è essenzialmente coscientedi sé, e dal momento che è il nostro 'cuore' o essere essenziale,l'unico modo con cui possiamo sperimentarla è solo essendo essa.In altre parole, l'unico mezzo attraverso il quale si può'raggiungere' questa unica non duale realtà assoluta èsemplicemente rimanendo come sempre veramente siamo: cioècome il nostro vero, essenziale, privo di pensiero, essere coscientedi sé.

Pertanto nella terza frase di questo verso Sri Ramana dice:“Essere nel [nostro] cuore come è, è solo meditare [su questarealtà veramente esistente, che si chiama 'cuore']”, dichiarandocosì enfaticamente che questa pratica di 'essere come siamo' è ilsolo mezzo per sperimentare la realtà assoluta come è. Così inquesto primo versetto maṅgalam Sri Ramana rivela sinteticamentesia la natura essenziale della realtà sia il mezzo con cui si può'raggiungerla', 'conseguirla' o 'viverla' come realmente è.

Quindi, in poche parole questo versetto esprime l'essenza stessadi 'Uḷḷadu Nāṟpadu', e tutti gli altri quarantuno versi di questo

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testo profondo sono una spiegazione riccamente elaborata delleverità fondamentali che ha espresso così brevemente eppure cosìchiaramente e con forza in questo primo versetto. Infatti, poichérivela così chiaramente non solo la natura dell'unica assolutarealtà, ma anche l'unico mezzo attraverso il quale possiamorealmente sperimentarla, questo verso riassume l'essenza non solodi 'Uḷḷadu Nāṟpadu', ma di tutti gli insegnamenti di Sri Ramana.

Quindi è veramente il cūḍāmaṇi o gioiello-supremo dei suoiinsegnamenti, e se siamo in grado di comprendere correttamente ilsuo pieno significato, completo e chiaro, abbiamo veramentecompreso l'essenza stessa dei suoi insegnamenti. Come in tutti glialtri insegnamenti, in questo verso Sri Ramana ci spiega la naturadella realtà per un unico scopo, cioè quello di dirigere la nostramente verso la pratica che effettivamente ci permetterà disperimentare la realtà come è veramente.

Se non abbiamo capito la vera natura del nostro obiettivo, nonsaremo in grado di capire perché l'unica via per la quale siamo ingrado di 'raggiungere' questo scopo è di praticare il solo esserecome sempre realmente siamo. Se il nostro obiettivo fossequalcosa di diverso da noi stessi, ci sarebbe qualche distanza dapercorrere per raggiungerla. Ma giacché noi stessi siamo la metache cerchiamo, non c'è assolutamente alcuna distanza tra noi edessa, e quindi il percorso attraverso il quale possiamo raggiungerlanon può essere essenzialmente diverso da essa.

Cioè, tra noi e il nostro obiettivo, che è il nostro vero sé, nonc'è davvero alcuno spazio per ospitare qualsiasi percorso diversodal nostro obiettivo. Da qui il nostro percorso e il nostro obiettivodevono essere uno nella loro natura essenziale. Poiché il nostroobiettivo è solo essere liberi da pensieri, coscienti di sé, il nostropercorso deve essere altrettanto solo essere cosciente di sé.

Questa è la verità fondamentale che Sri Ramana rivela cosìchiaramente in questo verso, e che ribadisce con tante parolediverse attraverso i suoi altri insegnamenti. Nel nostro statonaturale di assoluta non duale conoscenza di sé, che è il nostro

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obiettivo, la nostra esperienza del nostro essere libero da pensieri,cosciente di sé, è senza sforzo, perché è quello che veramentesempre siamo. Tuttavia nel nostro stato attuale, in cuiimmaginiamo di essere questa mente pensante, sembriamo nonessere privi di pensiero, come in verità siamo, e quindi riteniamoche dobbiamo fare uno sforzo per sperimentare il nostro essereprivo di pensieri cosciente di sé.

Così l'unica differenza tra il nostro cammino e il nostroobiettivo è lo sforzo che ora sembra essere necessario perdimorare nel nostro stato naturale di essere cosciente di sé liberoda pensieri. In questo percorso, lo sforzo che dobbiamo fare non èin realtà uno sforzo per essere, perché in questo caso non si devefaticare, ma è uno sforzo per evitare di confondere noi stessi conquesta mente pensante. Finché ci immaginiamo di essere talemente, noi non sperimentiamo noi stessi come la vera coscienza disé libera dal pensiero che è la nostra vera natura. Pertanto, al finedi evitare di confonderci di essere questa mente pensante,dobbiamo fare lo sforzo di concentrare tutta la nostra attenzione alnostro essere essenziale cosciente di sé, 'Io sono', ritirandola datutti i pensieri.

Questo stato in cui concentriamo tutta la nostra attenzione sulnostro essere cosciente di sé, escludendo quindi tutti i pensieri, è ilvero stato di 'meditazione', che Sri Ramana descrive in questoversetto come uḷḷattē uḷḷapaḍi uḷḷadē o 'solo essere nel cuorecome è [o come siamo]'. Cioè, poiché la vera natura del nostro séessenziale o 'cuore' è solo essere libero dal pensiero, consapevoledi sé, 'essere nel cuore come è', è solo lo stato di rimanere calmi esereni nel nostro sé essenziale come il nostro essenziale sé, cioè,libero da tutti i pensieri come il nostro vero essere non dualeconsapevole di sé, 'Io sono'.

Così l'unica via con cui possiamo 'ottenere' o 'raggiungere' ilnostro essenziale sé, che è la sola e unica realtà assoluta, è questasemplice pratica di essere intensamente attenti alla coscienza disé, così intensamente attenti da non dare assolutamente spazio al

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sorgere di ogni pensiero. Poiché nessun pensiero può sorgere senon diamo loro attenzione, quando concentriamo tutta la nostraattenzione sulla nostra essenziale coscienza di sé, 'Io sono', siesclude automaticamente la possibilità che sorga qualsiasipensiero.

Cioè, i pensieri nascono solo perché li pensiamo, e quest'atto dipensare comporta una deviazione immaginaria della nostraattenzione lontano dalla nostra essenziale coscienza di sé, 'Iosono'. Quindi l'unico mezzo efficace col quale possiamo rimanerecompletamente liberi da tutti i pensieri e quindi completamenteliberi dalla nostra mente, (che può sorgere e sembrare esistere solopensando), è solo con l'essere attenti, vigili e acutamenteconsapevoli di sé.

Questo stato di essere coscienti di sé, senza pensiero e quindisenza mente è solo lo stato che Sri Ramana descrive come 'esserecome siamo', e non è solo il nostro percorso, ma anche il nostroobiettivo. Quando pratichiamo questa coscienza di sé, vigili eattenti, e quindi escludendo il pensiero con uno sforzo, è ilpercorso; quando lo sperimentiamo senza sforzo come il nostroinevitabile stato naturale, è il nostro obiettivo, che è lo statoassolutamente non duale di vera conoscenza di sé. L'esperienzadella vera conoscenza di sé che potremo raggiungere praticandoquest'arte di essere come siano veramente senza pensare anessun'altra cosa è descritta chiaramente da Sri Ramana nel quintoe finale versetto del Āṉma-Viddai:

“Nell'uḷḷam [cuore, mente o coscienza] che indaga[se stessa] entro [se stessa], [solo essendo] come lei è[come chiaro essere cosciente di sé] senza pensare a[nulla] diverso [da sé], ātmā [il nostro reale sé], che èchiamato Annamalai [e che è] l'unico poruḷ [assolutarealtà o essere essenziale] che brilla come l'occhio al[nostro] occhio della mente, che è l'occhio per [i nostricinque fisici] sensi iniziando con [i nostri] occhi, che

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illuminano [o ci consentono di conoscere il mondomateriale, che è composto da cinque elementi] cheiniziano con lo spazio, [e] come spazio per [la nostra]mente-spazio, potrà davvero essere visto. [Per esserein grado di rimanere così come siamo realmente] lagrazia è anche necessaria. [Per essere un adattoricettacolo per assorbire la grazia, dobbiamo] essereposseduti dall'amore [solo per essere come siamo]. Lafelicità [Infinita] [poi] appare [o è sperimentata]”.

La parola Annamalai è un nome che Sri Ramana ha spessousato quando si riferiva a Dio, la realtà assoluta, che è ilparamātman, lo spirito trascendente 'Io sono', l'unico vero sé ditutti gli esseri viventi. Utilizzando la parola kan o 'occhio' comeuna metafora per la coscienza, egli descrive questa realtà assolutacome: “L'occhio per la [nostra] mente-occhio, che è l'occhio dei[nostri cinque fisici] sensi ad iniziare con [i nostri] occhi, cheilluminano [o ci permettono di conoscere il mondo materiale, chesi compone di cinque elementi] iniziando con lo spazio”.

Cioè, la realtà assoluta è la nostra fondamentale coscienza disé, la nostra coscienza fondamentale del nostro essere, 'Io sono'che è la vera luce della coscienza che illumina la nostra mente,permettendole di conoscere se stessa e tutte le altre cose, che sonosolo pensieri che essa forma dentro di sé con il potere della suafantasia, che è una funzione della coscienza distorta. Non c'èveramente nessun 'occhio', 'luce' o 'coscienza' altro che la nostranon duale fondamentale coscienza del nostro essere, ma quandoimmaginiamo che questa coscienza è la nostra mente, essa èapparentemente riflessa negli aggiunti o upadhi che immaginiamodi essere noi stessi, e quindi ci sembra di conoscere cose diverseda sé stessa.

Cioè, la coscienza limitata che chiamiamo la nostra 'mente',alla quale Sri Ramana qui si riferisce come la nostra 'mente-occhio', è una forma di coscienza riflessa e distorta,

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un'apparizione la cui sola realtà sottostante è la nostra reale nonduale coscienza di essere. Quindi egli descrive la nostra veracoscienza come 'l'occhio per la [nostra] mente', 'occhio' nonperché in effetti conosce qualcosa attraverso la nostra mente, maperché è l'unica realtà che erroneamente sperimentiamo come lanostra mente.

Dal momento che la nostra mente non potrebbe conoscere nullase la luce della nostra vera coscienza non brillasse all'interno diessa come 'Io sono', quella 'luce' è l'occhio che illumina la nostramente. La nostra mente è a sua volta l'occhio per i nostri cinquesensi, perché è la coscienza che vede attraverso i nostri occhi,ascolta attraverso le nostre orecchie, e così via. I nostri cinquesensi funzionano come lenti attraverso cui indirizziamo la nostramente nella forma della nostra attenzione per percepire il mondoapparentemente esterno, che è da considerarsi composto di cinque'elementi' o qualità di base conosciuti come spazio, aria, fuoco,acqua e terra (che in termini approssimativi possono esseredescritti rispettivamente come: le qualità di sistemazione, mobilitào fluidità non coesiva, trasformazione, fluidità e solidità coesive).

Poiché questo orientare la nostra attenzione attraverso i nostrisensi ci permette di conoscere questo mondo immaginario, SriRamana dice in senso figurato che i nostri sensi 'illuminano [ilmondo materiale, che si compone dei cinque elementi] acominciare dallo spazio'. Oltre a descrivere la realtà assoluta, cheè il nostro vero io, la nostra coscienza fondamentale ed essenzialedi essere, come 'l'occhio per [il nostro] occhio della mente', eglilo descrive anche come 'spazio per [la nostra] mente-spazio'. Lospazio fisico o bhūtākāśa in cui tutti gli oggetti di quest'universosono contenuti è egli stesso contenute all'interno del nostrospazio-mente o cittākāśa, che a sua volta contenuta all'internodella nostra coscienza spazio o cidākāśa.

Cioè, proprio come il mondo che sperimentiamo nel nostrosogno, tutto quest'universo e lo spazio fisico in cui è contenutosono semplici pensieri o immagini mentali che formiamo nella

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nostra mente col nostro potere d'immaginazione, e quindi lo'spazio' in cui questo spazio fisico è contenuta è la nostra mente.Allo stesso modo, dal momento che la nostra mente sorge escompare dentro di noi, lo 'spazio' in cui questo 'spazio-mente' ècontenuto è la stessa coscienza fondamentale del nostro essere.

Per 'vedere' o sperimentare all'interno di noi stessi questa realtàassoluta, che è ātman, il nostro vero sé o spirito, l'occhio della[nostra] 'mente-occhio' e lo 'spazio della [nostra] mente-spazio',Sri Ramana dice che dobbiamo solo 'indagare dentro come è,senza pensare [a nulla di] altro'. Cioè, dobbiamo indagare oesaminare noi stessi all'interno di noi stessi, solo essendo comeveramente siamo, cioè, come il nostro chiaro essere consapevoledi sé, senza pensare a nulla diverso da noi stessi. Solo praticandoquest'arte di semplice essere attenti al sé possiamo sperimentare larealtà assoluta come il nostro stesso o essenziale essere.

Tuttavia, dopo aver detto questo, Sri Ramana aggiunge unaclausola importante, 'aruḷum vēṇumē', che significa 'la grazia èanche certamente necessaria'. Che cosa è esattamente la 'grazia',alla quale si riferisce qui, e perché egli ne sottolinea la necessità inquesto contesto? La grazia è un potere, il potere supremo e unicoveramente esistente. È il potere che è insito nel nostro vero sé, chenon è effettivamente diverso dal nostro vero sé, perché il nostrovero sé è assoluto, infinito e quindi perfettamente non dualeessere-coscienza-felicità e amore.

La grazia è il potere dell'amore, l'amore che il nostro vero sé haper sé stesso, l'amore che deve solo essere come è, essereperfettamente cosciente di sé e infinitamente felice. La grazia nonè dunque un potere che è estraneo o alieno a noi. È il nostropotere, il nostro potere di amore per noi stessi per il nostro essereessenziale cosciente di sé e felice. Il nostro potere di grazia è lanatura vera e originale di tutte le altre forme di potere.

La prima altra forma di potere che deriva apparentemente dallagrazia, che è l'unico vero potere, è il nostro potere di māyā o autoinganno. Il nostro potere di māyā nasce dal fatto che

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apparentemente scegliamo di dimenticare o ignorare il nostrovero, infinito, indiviso e non duale essere consapevole di sé, e diimmaginare noi stessi come una coscienza finita che sperimental'esistenza della dualità o alterità. Questa dimenticanza di sé auto-imposta o ignoranza del sé non è reale, ma è una meraimmaginazione, e non è vissuta dal nostro vero sé, ma solo dallanostra mente, che è essa stessa parte dell'immaginario che essasperimenta.

Oltre la nostra mente o potere d'immaginazione, che è solo unafunzione distorta e illusoria della nostra semplice non dualecoscienza di essere, non vi è una cosa come māyā o illusione delsé. Il nostro potere di māyā, sorge nella forma della nostra mente,lei ed i suoi effetti sembrano esistere solo finché immaginiamo noistessi di essere questa mente, cioè, solo finché ignoriamo il nostrovero essere non duale cosciente di sé, e quindi non riusciamo aindagare o controllare la reale natura, fondamentale ed essenzialedella nostra mente.

Se scrutiamo intensamente la nostra mente, che sperimentiamocome la nostra apparentemente finita coscienza individuale 'io',per scoprire ciò che realmente è, questa si fonde e si dissolve nelnostro essere reale non duale consapevole di sé, perché non hanessuna realtà diversa da questo. Tuttavia, per indagare oesaminare la nostra mente in modo efficace, Sri Ramana dice chela grazia è necessaria. Perché è così?

Quando intraprendiamo la pratica di indagine del sé o di essereattenti al sé, ci sentiamo di essere questa mente, che è il potere dimāyā o illusione del sé. Se crediamo che possiamo raggiungere ilnostro stato naturale di vera conoscenza di sé con le nostre soleforze, cioè, col potere della nostra mente, sicuramente falliremo,perché la nostra mente è il potere dell'illusione del sé, e, quindi, ciingannerà in una varietà infinita di modi per garantire la propriasopravvivenza.

Per raggiungere la vera conoscenza del sé, quindi, dobbiamofar arrendere {abbandonare} la nostra mente, cioè, dobbiamo

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completamente dissociare noi stessi da essa. Finché continuiamoad aggrapparci all'illusione che questa mente è noi stessi,continuerà ad illuderci. Pertanto, dal momento che non possiamocontare sul potere della nostra mente che ci permetta disperimentare noi stessi come realmente siamo, su quale poteredobbiamo invece basarci?

Solo sul potere della grazia, che è la fonte da cui la nostramente deriva il suo potere limitato. Possiamo raggiungere l'unicavera conoscenza assoluta solo per l'infinita potenza della grazia, enon col potere della nostra mente finita, perché nessun poterefinito può produrre un risultato infinito o assoluto. Pertanto,fintanto che continueremo a sperimentare noi stessi come questafinita coscienza che chiamiamo la nostra 'mente', e continueremo afarlo fino a quando non è dissolta interamente nella chiarezzadella vera conoscenza di sé, dobbiamo dipendere interamente dalpotere della grazia di motivarci e spingerci nei nostri sforzi dipraticare l'arte di essere attenti al sé, liberi dai pensieri e quindiliberi dalla mente Come in pratica possiamo dipendereinteramente dalla potenza della grazia?

O in altre parole, come possiamo evitare di dipendere ancheminimamente dal potere di auto illusione della nostra mente? Larisposta è data da Sri Ramana nella clausola successiva, 'aṉbupūṇumē', in cui 'aṉbu' significa 'amore' e pūṇumē letteralmentesignifica 'mettere su', 'vestirsi', 'intraprendere', 'assumere', 'esserein possesso di', 'essere aggiogati da', 'essere catturato da', 'essereirretiti da', 'essere intrappolati da' o 'essere incatenati con'. Così'aṉbu pūṇumē' fondamentalmente significa 'essere possedutidall'amore', o semplicemente 'avere amore'.

Solo col vero, sincero e divorante amore per il nostro statonaturale di solo essere possiamo veramente diventare unricettacolo per ricevere, assorbire e assimilare la grazia. Comespiegato da Sri Ramana nel versetto 966 della Guru VācakaKōvai, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, la grazia èsempre disponibile per noi, esistente nel centro del nostro essere,

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come la chiara luce della nostra assoluta coscienza di sé, 'Io sono'.Per riceverla, assorbirla e assimilarla, perciò, tutto quello chedobbiamo fare è di volgere tutta la nostra attenzione ad essa.

Ma per essere in grado di trasformare e mantenere la nostraattenzione fissa saldamente nella chiara luce della grazia, che è lanostra coscienza essenziale di essere, priva anche della minimacontaminazione in forma di pensare o conoscere alterità,dobbiamo avere amore travolgente per essere. Ciò che ostacola eoscura la chiara luce della grazia è soltanto il sorgere della nostramente con tutta la sua attività inquieta di pensiero e la suaderivante conoscenza della dualità o alterità.

Quindi possiamo sperimentare e ad assimilare grazia solo nellamisura in cui la nostra mente scompare, o in altre parole, solonella misura in cui ci abbandoniamo all'essere. Normalmente,però, la nostra mente non è disposta a consegnarsi interamenteimmergendosi nell'attenzione del sé del nostro essere essenziale, equindi quando cerchiamo di rivolgere la nostra attenzione versonoi stessi sorge in rivolta, cercando di pensare a qualcosa didiverso dal nostro semplice essere.

Solo quando riusciremo a coltivare una travolgente bhakti oamore per il solo essere, e di conseguenza una costante vairāgya olibertà persino dalla minima voglia di pensare a qualcosa didiverso dall'essere, la nostra mente si sottometterà al proprioannientamento. L'amore travolgente e divorante per l'essereassoluto, che abbiamo bisogno di avere per essere in grado dicedere noi stessi interamente all'infinita pienezza di essere chechiamiamo 'Dio', è coltivato dentro di noi sia dalla magneticaforza attrattiva della grazia, che sempre splende nel nucleo pi interno del nostro essere come infinita pace, felicità e amore, edalla nostra risposta volgendo volentieri la nostra attenzione versoessa e, quindi, cercando di permanere come nostro essere naturalecosciente di sé.

Tutto ciò che possiamo 'fare' per coltivare l'amore richiesto nelnostro cuore è di cedere all'attrattivo potere della grazia

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perseverando tenacemente nella nostra pratica dell'arte di essereattenti al sé. Se cerchiamo sinceramente e ripetutamente ecerchiamo di mantenere la nostra intera attenzione fissa nel nostropuro essere, la grazia ci donerà ogni forma di aiuto di cui abbiamobisogno, sia interiormente che esteriormente, e nutriràcostantemente in noi il vero amore di cui abbiamo bisogno. Ilpotere che ci motiva e ci permette di trasformare la nostra menteverso l'interno e di permanere con fermezza come il nostrosemplice essere cosciente di sé non è il potere della nostra mente,ma solo il potere del vero amore o grazia, che è la forza del nostrovero sé.

Il potere della nostra mente è un potere di estroversione, auto-illusione e di desiderio egocentrico, e quindi non ci permetteràmai né di volgerci all'interno né di rimanere saldamente nello statosenza ego o di solo essere senza pensiero. È infatti il potere cheper sua natura guida la nostra attenzione verso l'esterno e chequindi ci impedisce di dimorare come essere. Pertanto, nondobbiamo mai pensare che con le nostre sole forze egoistepossiamo raggiungere la non duale esperienza della veraconoscenza di sé.

Senza il potere della grazia non potremo mai coltivare l'amoreperfettamente sottomesso che fonde il cuore di cui abbiamobisogno per risiedere eternamente come la realtà infinita e senzamente. Se immaginiamo di poter raggiungere lo stato supremo,senza ego, di assoluta unione con l'infinita realtà, col potere finitodella nostra mente e dei nostri sforzi pilotati dalla mente, stiamosemplicemente permettendo alla nostra mente di illudercifacendoci credere che il suo potere sia reale. Il potere apparentedella nostra mente non è solo banale in confronto con l'infinitapotenza della grazia, ma in realtà è del tutto irreale.

È in realtà solo un'illusione auto ingannevole, e se laesaminiamo intensamente per scoprire la realtà che la sottende, sidissolverà e scomparirà nella chiara luce del puro essere coscientedi sé. Fintantoché la nostra mente cerca di affermare il proprio

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potere nel tentativo di volgere la sua attenzione lontano da tutti ipensieri e verso se stessi, è solo alle prese con se stessa, dandocosì realtà alla propria esistenza apparente, e quindi non sarà ingrado di disattivarsi veramente e completamente.

Si può placare completamente solo dando con amore sé stessa etutto il suo potere auto-assertivo al vero potere della grazia, che èil potere naturalmente attraente della pace perfetta e della felicitàche possiamo sperimentare solo nello stato di essere coscienti disé liberi da pensieri. Quindi saremo in grado di cederecompletamente la nostra mente solo quando, con la forza che tuttoama della grazia e col nostro reciproco amore e lo sforzo solo peressere, acquisiamo saldamente la chiarezza interiore che ènecessaria per essere in grado di provare pienamente latravolgente attrazione per lo stato infinitamente felice di soloessere.

Quando sinceramente, amorevolmente e con sottomissioneperseveriamo nella pratica dell'arte di essere al meglio delle nostrecapacità, la potenza della grazia, che è la felicità infinitadell'assoluto essere cosciente di sé, attirerà costantemente la nostramente sempre pi fortemente, e così sarà, naturalmente edelicatamente attirata all'interno, nel fondo più intimo del nostroessere, dove si consumerà nella perfetta chiarezza della vera nonduale conoscenza di sé. Che cosa sperimenteremo allora èespresso da Sri Ramana nella clausola finale di questo versetto,'iṉbu tōṇumē', che significa semplicemente 'la felicità certamenteapparirà' o 'la felicità certamente risplenderà'. Cioè, quando, peril potere della grazia e per la nostra risposta ad essa in modoappropriato, abbandonandoci ad essa volentieri nel nostro statonaturale di essere cosciente di sé, siamo finalmente sopraffattiinteramente dal nostro amore per solo essere, l'apparizione dellanostra irreale mente o ego svanirà, e al suo posto sperimenteremonoi stessi come felicità infinita ed eterna.

Al fine di dare noi stessi interamente al potere della grazia e,quindi, per essere solo come realmente siamo, dobbiamo essere

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estremamente vigili per evitare di dare anche il minimo spazio alsorgere della nostra mente pensante. Dato che permettiamo allanostra mente di attivarsi solo immaginando qualcosa di diversodal nostro essere, al fine di evitare di permetterle di sorgeredobbiamo mantenere la nostra attenzione saldamente nel nostrosemplice essere. In altre parole, per essere come realmente siamo,dobbiamo essere vigili e attenti al sé. Sri Ramana ci ha insegnatoche praticare vigili, con fermezza e tenacemente quest'arte diessere attenti al sé è l'unico mezzo per cedere la nostra mente, ofalso sé individuale, interamente e così sperimentare il nostro verosé o essere infinito.

Per praticare quest'arte con successo dobbiamo avere un vero eprofondo amore per essere. Cioè, dobbiamo avere un amoresincero e incondizionato solo per essere, e di non essere 'questo' o'quello' o qualsiasi altra cosa. Finché abbiamo anche la minimasimpatia o desiderio di qualcosa di diverso dall'essere, saremospinti da quella voglia a manifestarci come la nostra mente esperimentare quella cosa. Perciò dobbiamo liberarci da ognidesiderio di null'altro che il nostro essere essenziale, e comeabbiamo visto in precedenza, l'unico modo possibile per farlo inmodo efficace e completo è aggrapparci tenacemente alla nostrapratica di attenzione al sé o svarūpa-dhyāna.

Essere attenti al sé, è sia uno dei nostri mezzi che il nostro fine:il nostro cammino e il nostro obiettivo. Dal momento che la naturadel nostro vero sé o la realtà assoluta è l'essere che è eternamentecosciente di sé, l'essere che è sempre chiaramente consapevolesolo di se stesso e di niente d'altro; possiamo sperimentarlo soloessendo, così come è, cioè senza pensieri, cosciente di sé.

L'unica differenza tra il nostro cammino, che è la nostra praticadi essere consapevole di sé, e il nostro obiettivo, che è il nostrostato naturale privo di sforzo, di essere cosciente di sé, si trovanello sforzo che ora sembriamo richiedere al fine di rimanerecome nostro essere auto-cosciente.

Lo sforzo di cui abbiamo ora bisogno per rimanere come nostro

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naturale ed eterno essere consapevole di sé o attento al sé: è sololo sforzo che dobbiamo fare per resistere alla forza impellente deinostri desideri. I nostri desideri ci spingono a manifestarci comequesta coscienza finita che conosce gli oggetti {oggettivante} chechiamiamo la nostra 'mente', per immaginare altre cose diverse danoi stessi, e per occuparci o pensare a queste 'altre' cose. Pertanto,fintanto che anche il minimo desiderio rimane nel nostro cuore,dobbiamo fare uno sforzo tenace per rimanere con attenzionecome il nostro essere cosciente di sé. Sforzo è l'applicazione dellaforza. Per resistere alla forza trainante dei nostri desideri erimanere costantemente immobili come essere, dobbiamoapplicare una forza uguale e contraria.

Questa forza opposta è la forza del nostro amore per l'essere.Se la forza del nostro amore per l'essere non è uguale o superiorealla forza dei nostri desideri per pensare, i nostri desideri cisconfiggeranno e noi cominceremo a pensare gli oggetti del nostrodesiderio. Pertanto, la pratica dell'arte di essere è la pratica dicoltivare la forza del nostro amore di essere applicandola aresistere alla forza illusoria dei nostri desideri per altre cose.

Con una pratica ripetuta e persistente di quest'arte di essereattenti al sé, otterremo gradualmente l'amore di cui abbiamobisogno per rimanere senza sforzo come essere. Solo quando ilnostro amore cresce attraverso i nostri sforzi sinceri e tenaci peressere sempre attenti al sé, e quando così finalmente ci travolgeinteramente, otterremo la capacità di rimanere senza sforzo nelnostro stato naturale di solo essere, che è la nostra coscienza di séperfettamente chiara e libera da pensiero, 'Io sono'.

L'amore che abbiamo per il solo essere è la forma più pura epiù perfetta di amore. Poiché il nostro stato naturale di solo essereè la vera forma di Dio, prestarle attenzione e dimorare con essacome il nostro essere essenziale è l'unico modo in cui possiamoveramente esprimere il nostro amore per Dio. Come dice SriRamana nel versetto 9 di 'Upadēśa Undiyār e nel verso 15 di'Upadēśa Taṉippākkaḷ':

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“Con la forza di [tale ananya] bhāva[l'atteggiamento o convinzione che Dio non è altro chenoi stessi], essendo [dimorando o rimanendo] insatbhāva [il nostro stato naturale di essere], chetrascende [tutti] bhāvana [immaginazione, il pensieroo la meditazione], è solo para-bhakti tattva [il verostato di suprema devozione]. Poichè Dio esiste comeātmā [il nostro vero sé o essere essenziale],ātmānusandhāna [contemplazione del sé o attenzioneal sé è paramēśa-bhakti [devozione suprema a Dio]”.

Quando ci attiviamo come la nostra mente finita o séindividuale, apparentemente ci separiamo da Dio, che è il nostrovero essere, e quindi commettiamo il 'peccato originale' diimmaginare la divisione nell'essere infinito e indivisibile che èDio stesso. Immaginandoci separati da Dio, stiamo profanando lasua infinità, riducendolo a nostro avviso a qualcosa di menodell'infinita pienezza di essere che egli è veramente.

Quindi se vogliamo ridare a Dio quello che abbiamoingiustamente usurpato da lui, dobbiamo arrendere il nostro finitosé indietro nel suo essere infinito, e possiamo farlo solorimanendo nello stato senza ego di assoluta non duale coscienza disé, che è il nostro stato naturale di essere infinito, indiviso equindi senza pensiero. Al fine di poterci dare interamente a Dio inquesto modo, dobbiamo essere sopraffatti da un amoreincondizionato e divorante per lui. Finché conserviamo anche ilminimo amore per la nostra esistenza come un individuo separato,resisteremo al cederci interamente a lui.

Tuttavia, pi si pratica permanendo come il nostro perfettoessere libero da pensieri e chiaramente consapevole di sé, pi sperimenteremo il gusto della pace e della felicità infinita chesono la vera natura del nostro essere; quindi il nostro amore perl'essere aumenterà costantemente, fino a consumare la nostramente e annegarla per sempre nell'oceano infinito di essere,

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coscienza, felicità, pace e amore. Dimorare in questo stato dibeatitudine assoluta è il vero modo di servire Dio nel modo in cuivuole che noi serviamo lui. Questa importante verità sull'unicomodo in cui possiamo rendere un servizio reale a Dio è affermatoda Sri Ramana nel verso 29 del Upadesa Undiyār:

“Dimorare permanentemente in questo stato dipara-sukha [suprema o trascendente felicità], che èpriva di [sia] schiavitù che di liberazione, è dimorarenel servizio di Dio”.

Quando ci immaginiamo di essere una persona finita, stiamofacendo un gran cattivo servizio a Dio, perché stiamo rendendonecessario che lui ci trascini di nuovo in se stesso. Pertanto,fintanto che ci immaginiamo di essere separati da lui, niente di ciòche possiamo fare è davvero un servizio per lui. Il solo servizioche ci richiede è di abbandonarci interamente alla sua volontà, cheè di rimanere felicemente uniti a lui.

Pertanto cedere il nostro finito sé permanendo come il nostroessenziale essere non duale cosciente di sé, che è sia lo stato liberodal pensiero della suprema felicità che la realtà assoluta chechiamiamo 'Dio', è veramente dimorare al suo servizio. Poiché ilnostro stato naturale di suprema felicità è lo stato di solo essere, ècompletamente libero da ogni fare o pensare, e quindi è privo diogni pensiero, compresi i pensieri di schiavitù e liberazione.Schiavitù e liberazione sono una coppia di opposti, e quindiesistono solo nell'irreale stato di dualità.

Nel non duale stato di vera conoscenza di sé o assoluta unionecon Dio, tutti i pensieri di schiavitù e liberazione scompaiono alloscomparire della nostra mente pensante con tutta la sua dualitàimmaginaria. Quando all'inizio impariamo a conoscere quest'artedi essere attenti al sé, e comprendiamo l'importanza di praticarlaalla nostra massima capacità, molti di noi si chiedono comepossiamo praticare in mezzo a tutte le nostre attività giornaliere.

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La nostra vita mondana in questo mondo e la verità assolutainsegnata da Sri Ramana e da altri saggi sembrano essere due staticompletamente diversi di realtà, divisi da un così vasto abisso cheè difficile per noi immaginare come possiamo in pratica soloiniziare a conciliarle. Come possiamo realmente praticarequest'arte di essere quando la nostra mente viene costantementetirato qua e là dalle esigenze esterne della nostra vita in questomondo e dalla pressione interna dei nostri desideri e dei nostriattaccamenti? Qualunque siano le circostanze della nostra vita, eper quanto grandi siano le pressioni esterne ed interne su di noi,sappiamo sempre che 'Io sono'.

Pertanto, il baratro che ci immaginiamo esista tra noi stessi e larealtà assoluta non è reale. La realtà assoluta è il nostro sempliceessere cosciente di sé, che sempre sperimentiamo come 'Io sono',e che quindi è la nostra cosa più vicina e più cara. Non c'è nulla dicosì vicino e così caro a noi come la realtà assoluta, perché è ilnostro vero sé. Dal momento che sempre la sperimentiamo come'Io sono', è sempre possibile per noi dare attenzione ad essa.

Niente può veramente impedirci di essere attenti al sé ognivolta che vogliamo esserlo. L'abisso o la divisione immaginariache sembra separarci dalla infinita pienezza di essere, la coscienzae la felicità è infatti nient'altro che i nostri desideri. Tuttavia, inostri desideri non hanno alcuna realtà o potere proprio. Appaionocome reali e potenti solo perché diamo loro realtà e potere dandoloro attenzione.

Se li ignoriamo fermamente aggrappandoci tenacementeall'essere attenti al sé, saranno impotenti a distrarci dal nostronaturale stato d'essere. In pratica, tuttavia, la maggior parte di noisperimenta difficoltà nel tenere saldamente e ininterrottamenteattenzione al sé, perché il nostro desiderio di pensare ad altre coseè pi grande del nostro amore per rimanere come il nostro naturaleessere libero da pensieri e cosciente di sé.

Ma non importa quanta difficoltà sperimentiamo, se ciostiniamo nei nostri sforzi per portare la nostra attenzione al

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nostro essere, ogni volta che ci accorgiamo che è scivolato via perpensare ad altre cose, si acquisirà gradualmente l'abilità, l'amore ela mancanza di desiderio di cui abbiamo bisogno per rimaneresemplicemente come il nostro essere cosciente di sé. Come SriSadhu Om diceva: “Dove c'è una volontà c'è una strada, ma dovenon c'è volontà c'è una collina”.

Cioè, se noi sinceramente vogliamo praticare l'attenzione al sé,vi accorgerete che è possibile per noi farlo, anche se solo in modoesitante e intermittente, ma se ci manca un sincero desiderio dipraticarla, ci sembrerà troppo difficile. In definitiva tutte ledifficoltà sono nella nostra mente, perché non può mai esseredifficile essere attenti al sé, anche se solo momentaneamente. Seriteniamo che essere attenti al sé, è troppo difficile per noi, cisentiamo così solo perché in realtà non abbiamo sufficientevolontà anche solo per provare, o dopo aver provato per persistereun po' nei nostri tentativi. Anche se siamo in grado di essereattenti al sé solo momentaneamente, ciò sarà sufficiente periniziare.

Tuttavia, per ottenere un reale beneficio da tale momentaneaattenzione al sé, dobbiamo persistere nei nostri tentativi percatturare questi momenti il pi frequentemente possibile, e pertrattenere ognuno di tali momento finché possibile. Pi spesso ciricordiamo di ritirare la nostra attenzione verso noi stessi, e pi alungo riusciremo a mantenere la nostra attenzione al sé ogni voltache noi la catturiamo, pi rapidamente noi coltiveremo l'amore dicui abbiamo bisogno per essere fermamente attenti al sé.

Una domanda che viene spesso sollevata è se sia o non sianecessario per noi sederci con gli occhi chiusi, per praticarel'attenzione al sé. La risposta semplice a questo è che non ècertamente necessario, perché possiamo essere attenti al séqualunque cosa il nostro corpo possa fare o non fare, e se i nostriocchi sono aperti o chiusi. L'attenzione al sé non ha nulla a chefare né con la postura del nostro corpo o la chiusura dei nostriocchi, ma è solo una questione della nostra attenzione. I nostri

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occhi possono essere aperti ma la nostra attenzione può ancoraessere focalizzata sul nostro essere, e viceversa i nostri occhipossono essere chiusi ma la nostra attenzione può comunquesoffermarsi su pensieri di altre cose diverse da noi stessi.

Tuttavia, anche se non è essenziale per noi sederci in'meditazione' con gli occhi chiusi per praticare l'attenzione al sé,può a volte essere utile fare così. Al fine di sprofondare in unostato di profonda e intensa attenzione al sé, possiamo trovare utileastenerci non solo da attività mentali ma anche dall'attività fisica.Tuttavia astenersi dall'attività fisica non significa necessariamentestare seduti con gli occhi chiusi. Il nostro corpo può essere sedutoo sdraiato o in qualsiasi altra postura, purché la nostra attenzionenon sia su di esso ma solo sul nostro essere essenziale cosciente disé. Allo stesso modo, i nostri occhi possono essere aperti o chiusipurché la nostra attenzione non stia andando verso l'esterno sia pervedere che pensare a qualsiasi oggetto del mondo esterno.

L'atteggiamento che dovremmo avere col nostro corpo ognivolta che si cerca di sperimentare la chiara e intensa di attenzioneal sé è espressa da Sri Ramana nelle parole piṇam pōl tīrnduuḍalam,, che significa 'lasciare il corpo come un cadavere', chesono state le parole che ha aggiunto tra i versi 28 e 29 quando haampliato i quarantadue versi di 'Uḷḷadu Nāṟpadu' in un unicoverso in metro kaliveṇbā. Anche se, ha aggiunto queste paroleall'ultima linea del versetto 28, con il loro significato formanoparte della prima sentenza del versetto 29, che con quantoaggiunto significa:

“Lasciando [il nostro] corpo come un cadavere, esenza dire 'io' con la bocca, scrutando con [la nostra]mente e affondando [immergendosi o penetrando]verso l'interno, dove sorge [questa mente] come 'io'? èil solo percorso del jñāna [la pratica che conduce allavera conoscenza]”.

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In questo contesto, 'lasciando [il nostro] corpo come uncadavere' può sia riferirsi allo atteggiamento con cui dobbiamoritirare la nostra attenzione da esso, o anche alla posizione in cuidovremmo lasciarlo. Quando era un ragazzo di sedici anni, SriRamana è stato travolto da una paura improvvisa e intensa dellamorte, giaceva disteso come un cadavere e rivolse tutta la suaattenzione verso il suo essere essenziale al fine di scoprire se ilsuo essere o 'Io' sarebbe sopravvissuto alla morte del suo corpofisico. Poiché aveva ritirato completamente la sua attenzione dalsuo corpo, dalla sua mente e da tutte le altre cose, e invece si eraconcentrato interamente ed esclusivamente sulla coscienza delproprio essere, ha subito sperimentato la vera conoscenza di sé, equindi la sua mente si era dissolta per sempre nell'infinita eassoluta realtà.

Così, nel suo caso Sri Ramana non solo ha ritirato la suaattenzione dal suo corpo come se fosse un corpo senza vita, maanche posto il suo corpo giù come se fosse un cadavere che erastato predisposto in preparazione per la sua cremazione. Questonon significa, tuttavia, che ci si debba necessariamente sdraiarequando pratichiamo l'attenzione al sé.

Possiamo certamente praticare l'attenzione al sé sdraiati, ma inpratica si può trovare spesso preferibile sedersi, invece di staredistesi, perché mentre siamo seduti in posizione verticale è disolito più facile per noi restare vigili e in tal modo evitare diaddormentarsi nel sonno profondo o nel sonno con sogni.

Tuttavia, la postura del nostro corpo realmente non importa,perché l'unica cosa che è importante durante la nostra praticaintensa di solo essere è che la nostra attenzione venga ritiratacompletamente dal nostro corpo e da ogni altro oggetto opensiero, e invece venga focalizzata intensa e vigile sulla nostramera coscienza di essere. Pertanto, quando Sri Ramana disse,'lasciando [il nostro] corpo come un cadavere', non si limita adire che dobbiamo fisicamente deporlo come un cadavere, ma chedobbiamo mentalmente ritirare la nostra attenzione da esso come

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se fosse diventato un corpo senza vita, qualcosa con cui nonabbiamo più alcun collegamento.

Dato che il nostro unico obiettivo durante i momenti di praticaintensa è quello di penetrare in profondità all'interno del nostroessere, dobbiamo completamente trascurare il nostro corpo, equindi non dovremmo preoccuparci minimamente della suapostura o di qualsiasi altra cosa di questa banale materia. Fino aquando la nostra attenzione è fissa solo su noi stessi e sunient'altro, non importa quale postura il nostro corpo può avere, ose capita di essere attivo o inattivo.

Come Sri Ramana diceva, l'unico asana (postura) che èrichiesto è nididhyasana (contemplazione profonda o attenzione,che nel contesto dei suoi insegnamenti significa intensa attenzioneal sé). In realtà possiamo spesso trovare più facile essere attenti alsé mentre il nostro corpo è impegnato in qualche attivitàmeccanica come camminare, che non richiede alcuna grandeattenzione, rispetto a quando siamo seduti o sdraiati con i nostriocchi chiusi, perché non appena chiudiamo gli occhi per meditaresul nostro essere, la nostra mente tende a lottare per resistere a talemeditazione o attenzione al sé, e quindi possiamo dimenticare infretta perché abbiamo chiuso gli occhi, invece di iniziare a pensarea nient'altro che al nostro stesso essere.

Se noi sinceramente tentiamo di praticare l'auto-attenzione{attenzione al sé} ogni volta che la nostra mente non è pressata daimpegni in qualsiasi altra attività, sapremo presto trovare quelloche è meglio per noi in termini di postura o attività. Se siamoseduti, sdraiati, o camminiamo o si è impegnati in qualsiasi altraattività fisica, dovremmo tentare tanto spesso e tanto intensamentequanto le circostanze lo consentano di focalizzare la nostraattenzione intensamente sul nostro essere, o almeno di mantenereun certo grado di attenzione al sé. Pertanto, tutte le domanderelative alla postura del corpo eludono lo scopo di tutta l'arte diessere attenti al sé, perché dovremmo concentrare tutta la nostraattenzione sul nostro essere e dovremmo quindi ignorare il nostro

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corpo e tutte le altre cose.Un'altra domanda che viene spesso sollevata è se dovremmo o

meno riservare determinati periodi di tempo ogni giorno perpraticare l'attenzione al sé. Ancora una volta la risposta a questadomanda è che non è necessario farlo, ma potremmo scoprire chefarlo può essere utile. È tutta una questione di preferenze personalie stile di vita.

Finché lo troviamo utile, possiamo riservare determinatiperiodi di tempo ogni giorno per praticare l'attenzione al sé; ma setroviamo che i nostri prescelti periodi di 'meditazione' sono solouna routine meccanica, e che non stiamo utilizzando veramentequesti periodi impegnandoci utilmente in una chiara e stabileattenzione al sé, dovremmo trovare un modo migliore pergarantirci di spendere un po' di tempo ogni giorno impegnatinell'attenzione al sé.

Sperimentare il nostro vero ed essenziale essere con perfettachiarezza in verità non richiede tempo. Se abbiamo un amoretravolgente e divorante per conoscere noi stessi, possiamoraggiungere la vera ed eterna conoscenza di sé con solo unmomento di totale attenzione al sé, come ha fatto Sri Ramanastesso. Proprio come la morte è qualcosa che accade in un istante,e non è qualcosa che possiamo mai sperimentare parzialmente,così l'esperienza della vera conoscenza di sé 'accade' in un istante,e non può mai essere sperimentata parzialmente.

O ci immaginiamo di essere un individuo limitato, come cisuccede quando abbiamo ancora la sensazione che l'attenzione alsé o di essere coscienti di sé è una pratica e non qualcosa dicompletamente naturale ed inevitabile, o siamo totalmenteconsumati dalla chiarezza assoluta della vera conoscenza di sé: nelqual caso sapremo che siamo sempre stati null'altro che infinitoessere, perfettamente chiaro e cosciente di sé. Il nostro obiettivodurante la pratica, dunque, è quello di sperimentare quell'unicomomento di assoluta e incondizionata attenzione al sé.

Quindi lunghi periodi di 'meditazione' non sono necessari. Può

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essere utile a volte sederci tranquillamente per un po' di tempo neltentativo di concentrare la nostra attenzione interamente edesclusivamente sul nostro essere, ma se la nostra mente si ribellatroppo fortemente è meglio rilassarci per un po' e riprovare piùtardi con una mente fresca e calma. Se lottiamo per un periodotroppo lungo opponendoci alla forza dei nostri desideri di pensare,la nostra mente diverrà agitata, e cesserà quindi di essere unostrumento adatto per praticare l'attenzione al sé.

Ma se rilassiamo i nostri sforzi per un po' e lasciamo che lanostra mente diventi ancora una volta relativamente calma, allorasaremo in grado di praticare l'attenzione al sé con un rinnovatovigore. In pratica quello che ci serve non è stare per lunghe oreseduti in una lotta disperata per mantenere una costante attenzioneal sé, ma piuttosto molti brevi periodi di tempo qui e là nel corsodi ogni giorno, quando cerchiamo con rinnovato vigore e intensoentusiasmo di vivere il nostro essere, naturalmente semprecosciente di sé.

Durante le nostre normali attività quotidiane, ci sono moltimomenti in cui la nostra mente non è impegnata pressantementein un lavoro particolare, e normalmente durante questi momentipermettiamo alla nostra mente di vagare e pensare a moltequestioni banali ed inutili. Ogni momento è una preziosaopportunità di essere attenti al sé. La maggior parte dei pensieriche pensiamo ogni giorno non sono pressanti e urgenti, ma sonosolo il modo in cui la nostra mente sceglie di solito di occuparsi.

Quindi se abbiamo un vero amore per l'attenzione al sé, invecedi sprecare la maggior parte della nostra giornata in pensierioziosi, possiamo facilmente passare molti momenti qui e làcercando di essere attenti al sé. Questa ritirata frequente dellanostra mente indietro verso noi stessi è ciò che Sri Ramana a volteha indicato come la pratica del ricordo di sé'.

Pertanto, come Sri Sadhu Om diceva, quello che ci serve nonsono lunghi periodi di 'meditazione', che di solito si rivelanoessere solo una lotta inutile nel tentativo di resistere alla forza dei

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nostri desideri di pensare, ma sono migliori molti tentativiintermittenti di essere attenti al sé. Se ci ricordiamo di fare talitentativi intermittenti frequentemente durante il giorno, ognisingolo tentativo può durare solo un breve tempo, ma tutti questibrevi tentativi insieme sommeranno una notevole quantità ditempo trascorso nello stato di essere attenti al sé.

Praticando così l'attenzione intermittente, faremo ogni tentativocon un nuovo vigore e quindi con una maggiore chiarezza.Anziché periodi più lunghi di instabile e quindi poco chiaraattenzione al sé, saranno più vantaggiosi periodi più brevi diattenzione al sé e più intensi e quindi più chiari e precisi.

Ancora un'altra domanda a volte è sollevata: “Se non sarebbevantaggioso per noi rinunciare a tutte le nostre attività eresponsabilità mondane e dedicare noi stessi unicamente a unavita di contemplazione”.

Per alcune persone uno stile di vita di rinuncia esterno puòessere utile, ma per molti di noi un tale stile di vita non è soloinutile, ma anche inappropriato. Ciò che è veramente importantenon è la rinuncia esterna ma solo la rinuncia interna. Qualunquesia il nostro stile di vita esterno, siamo sempre liberi interiormenteper rinunciare ai nostri desideri e attaccamenti.

Se riusciremo almeno in parte in tale rinuncia interna, lo stile divita esterna non sarà un ostacolo al nostro praticare l'arte di essereattenti al sé. Al contrario, però, se falliamo interiormente nelrinunciare ai nostri desideri, nessun tipo di rinuncia esterna sarà dialcuna utilità per noi. L'unico ostacolo alla nostra pratica diattenzione al sé sono i nostri desideri, e nulla del mondo esterno.La nostra capacità di essere chiaramente e stabilmente attenti al séè proporzionale solo al nostro amore per l'essere e alla nostracorrispondente libertà dai desideri di altre cose, e non ha nulla ache fare con il nostro stile di vita esterno.

Non importa quale sia il nostro stile di vita esterno, se abbiamoanche un po' d'amore per conoscere noi stessi e per essere privi deinostri desideri, saremo in tal senso in grado di praticare l'arte di

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essere attenti al sé. Tuttavia, sebbene il nostro stile di vita esternonon può influenzare direttamente la nostra capacità di essereattenti al sé, la nostra pratica di attenzione al sé può in qualchemisura influenzare il nostro stile di vita. Cioè, dal momento che lanostra pratica gradualmente indebolisce ed erode i nostri desideri,cominceremo naturalmente a perdere d'interesse per molti deipiaceri apparenti della vita che in passato desideravamo, e quindici sentiremo contenti con uno stile semplice, meno estroverso emeno occupato di vita.

Tuttavia, non c'è davvero alcun bisogno per noi di preoccuparcisulle modalità esteriori della nostra vita, perché la nostra vitaesterna è modellata dal nostro destino, e il nostro destino èordinato da Dio nel modo più vantaggioso per il nostro progressospirituale. Qualunque cosa sperimentiamo nella nostra vitaesteriore è secondo la volontà di Dio, ed è quindi ciò che è piùfavorevole alla nostra pratica di essere attenti al sé.

Anche le difficoltà apparenti e gli ostacoli che si presentanonella nostra vita sono voluti da Dio per creare nella nostra mentelo stato di Vairagya o di mancanza di desiderio, che è altrimentichiamato equanimità o 'santa indifferenza'. Solo se impariamo aessere interiormente distaccati dalla nostra vita in questo mondo,potremo ottenere la forza di cui abbiamo bisogno per volgere lanostra mente verso l'interno per annegare nella perfetta chiarezzadella vera conoscenza di sé.

Per la maggior parte di noi, questo percorso spirituale dicercare di praticare persistentemente l'arte di essere attenti al sépuò sembrare a volte qualsiasi cosa salvo che un percorso piano,tranquillo e senza problemi, perché la nostra auto-illusa mentepilotata dai desideri cercherà sicuramente di creare molti ostacolisul nostro cammino. Tuttavia, qualunque ostacolo la nostra mentepossa creare, possiamo superarli tutti con una perseveranzaimperterrita.

Salvo perseverando tenacemente nella nostra pratica diattenzione al sé, non c'è modo per poter efficacemente superare

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tutti gli ostacoli apparenti che noi e la nostra mente creiamo pernoi stessi. Uno dei tanti trucchi auto-ingannevoli che noi, comenostra mente, tendiamo di giocare a noi stessi è quello diaspettarsi qualche risultato tangibile della nostra pratica, e disentirci depressi quando non sperimentiamo i risultati chesperavamo.

Tuttavia, tutti i risultati conoscibili che possiamo sperimentarein questo cammino sono ingannevoli, perché sono vissuti solodalla nostra mente, la cui natura è di illuderci con le apparenze, edi distorcere e vedere fuori proporzione qualunque cosa ci succedadi sperimentare. Pertanto nulla che sia sperimentato dalla nostramente può essere un vero indicatore del nostro progressospirituale. Come Sri Ramana diceva, la nostra perseveranza èl'unico vero segno dei nostri progressi. Cioè, se perseveriamonella nostra pratica, ciò è una chiara evidenza del nostro amoreper essere, e finché abbiamo quest'amore, sicuramente faremoprogressi.

Se, invece, non riusciamo a perseverare, ciò indica che cimanca l'amore di cui abbiamo bisogno per fare rapidi progressi.Tuttavia, se facciamo anche solo un piccolo sforzo per essereattenti al sé, o almeno abbiamo solo una tendenza per provare, inquella misura abbiamo amore per essere, quindi non dobbiamosentirci depressi a causa della nostra perseveranza inadeguata, madobbiamo continuare a persistere nei nostri tentativi in qualunquemisura ci sia possibile.

Anche un piccolo sforzo sincero farà un lungo cammino versola coltivazione nel nostro cuore del vero amore di cui abbiamobisogno per raggiungere il nostro obiettivo finale dell'assolutaconoscenza di sé. Ogni volta che ci accorgiamo che il nostroentusiasmo e la perseveranza sono vacillanti, si dovrebberorileggere gli insegnamenti di Sri Ramana, o quei libri cheesplorano e discutono la loro importanza e il loro significato, edovremmo riflettere profondamente sul loro significato, perchétali ripetuti śravaṇa (letture) e manana (meditazioni)

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riaccenderanno il nostro entusiasmo a perseverare nellanididhyasana, la pratica appassionata dell'attenzione al sé.

Non possiamo costringere la nostra mente a rimanere calma epacificamente attenta al sé, ma da ripetute sravana, manana enididhyasana possiamo tentare delicatamente di tornare ancora eancora al nostro naturale stato di essere beatamente attenti al sé.La nostra mente è come un cavallo imbizzarrito, e il nostro statonaturale di essere calmi e coscienti di sé è come la sua scuderia.

Così come non useremmo la forza fisica per prendere e tirareun cavallo imbizzarrito di nuovo nella sua scuderia, masemplicemente tenteremmo di farlo tornare spontaneamentemostrandogli delicatamente e pazientemente una manciata di erbadi fronte a lui, così non dovremmo cercare invano di superare inostri desideri e le conseguenti attività auto-ingannevoli dellanostra mente attraverso il confronto e la lotta con loro, madovremmo delicatamente e furtivamente tentare la nostra mentecon qualsiasi mezzo possibile per farla tornare volentieri al nostrostato naturale di sereno cosciente essere, che è la sua sorgente edimora naturale.

Fino a quando la nostra mente non si è completamente dissoltanell'infinita luminescenza e chiarezza della vera conoscenza di sé,continueremo a sperimentare noi stessi come un'individualitàfinita, e come tale ci sentiremo di essere uno tra i tanti esseriviventi di questo mondo, e quindi dovremo interagirecostantemente con altre persone.

Quando interagiamo con altre persone, le nostre radicatevasanas o impulsi mentali tenderanno a risalire vigorosamentealla superficie della nostra mente in forma di simpatie e antipatiesottili e forti, attaccamenti e avversioni, possessività, egoismo,avidità, lussuria, ira, gelosia, orgoglio, egoismo e altre sensazionied emozioni indesiderate. Così le nostre interazioni con gli altrisono una buona opportunità per noi di riconoscere tali cattivequalità in noi stessi, e di resistere al dominio che mantengono sudi noi applicando la vairāgya o 'santa indifferenza' che stiamo

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gradualmente coltivando attraverso la nostra pratica di essereattenti al sé.

Pertanto negli ultimi due paragrafi di 'Nan Yar?', Sri Ramana cidà alcuni preziosi consigli per quanto riguarda l'atteggiamentoverso l'interno con cui dobbiamo interagire con altre persone econdurre noi stessi in questo mondo. Nel paragrafo XIX lui hadetto:

“Non ci sono due [classi di] menti, vale a dire unbuon [tipo di] mente e un cattivo [tipo di] mente. Lamente è una sola. Solo i vasanas [impulsi o desiderilatenti] sono di due tipi, vale a dire subha [buoni ogradevoli] e asubha [cattivi o spiacevoli].

Quando la mente [di una persona] è sottol'influenza di vasanas subha [impulsi piacevoli] sidice che è una buona mente, e quando è sottol'influenza di asubha vasana [impulsi sgradevoli] unamente è cattiva. Tuttavia per quanto cattive le altrepersone possono sembrare essere, detestarle non ègiusto [o appropriato].

Preferenze e antipatie sono entrambi adatti [pernoi] ad essere detestate [o rifiutate]. Non è corretto[per noi] lasciare [la nostra] mente [soffermarsi] moltosu questioni mondane.

Non è corretto [per noi] occuparci degli affari deglialtri [un modo idiomatico di dire che dovremmo farci ifatti nostri e non interferire negli affari altrui]. Tuttociò che si dà agli altri uno lo sta dando solo a sestesso. Se [ognuno] avesse conosciuta questa verità,chi quindi si sarebbe astenuto dal dare?”

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Le uniche cose che dovremmo veramente aborrire sono lenostre simpatie e antipatie, perché agitano la nostra mente edisturbano la nostra naturale pace ed equanimità. Non ci piaccionocerte persone, perché sentiamo che sono la causa dell'irritazione edel fastidio che proviamo quando interagiamo con loro opensiamo a loro, ma la vera causa della nostra irritazione efastidio sono solo le nostre simpatie e antipatie.

Se fossimo completamente privi di simpatie e antipatie,nessuna persona potrebbe farci sentire qualsiasi avversione o altraemozione negativa. Quello che veramente ci disturba quandointeragiamo con una persona che non ci piace, non sono in realtàgli aśubha vāsanās o impulsi sgradevoli di quella persona, masono solo i nostri aśubha vāsanās, perché gli aśubha vāsanāssono ciò che si manifestano come le nostre simpatie e antipatie.

Le nostre simpatie e antipatie sono entrambe forme didesiderio, e come tutte le forme di desiderio guidano la nostramente verso l'esterno, lontano dalla pace infinita e dalla felicitàche esiste nel nucleo del nostro essere. Pertanto, se vogliamoveramente volgere la nostra mente verso l'interno e quindidissolverla nella nostra perfettamente chiara coscienza di essere,dobbiamo respingere tutte le nostre simpatie e antipatie, esviluppare invece amore solo per essere. Tutti i nostriatteggiamenti egoistici, sentimenti, emozioni, reazioni ecomportamenti, come la nostra possessività, avidità, lussuria, ira,gelosia, orgoglio ed egoismo, sono radicate nelle nostre simpatie eantipatie.

Pertanto nella misura in cui siamo in grado di liberare noi stessidalle nostre simpatie e antipatie, saremo di conseguenza liberi daogni forma di egoismo e da tutte le sensazioni sgradevoli e leemozioni che esse suscitano in noi. Dal momento che le nostreinterazioni con altre persone tendono a portare alla superficie dellanostra mente tutte le nostre radicate simpatie e antipatie, sonoopportunità date da Dio non solo per identificare le nostresimpatie e antipatie, ma anche per frenarle.

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Praticando l'arte di essere attenti al sé, coltiviamo la capacità difrenare non solo le nostre simpatie e antipatie, ma anche la lororadice, che è la nostra mente. Quindi la nostra pratica di attenzioneal sé renderà più facile riconoscere e frenare le simpatie e antipatieche sorgono nella nostra mente quando dobbiamo interagire conaltre persone.

Al contrario, controllando le nostre simpatie e antipatie quandointeragiamo con altre persone, stiamo coltivando la nostravairāgya o libertà dai desideri, e questo a sua volta ci aiuterà nellanostra pratica di essere attenti al sé. Quando Sri Ramana dice chenon è appropriato permettere che la nostra mente si soffermi tantosu questioni mondane, o che noi interferiamo negli affari deglialtri, non significa che dobbiamo essere indifferenti allesofferenze di altre persone o creature.

È giusto che proviamo compassione ogni volta che vediamo oveniamo a conoscere la sofferenza di qualsiasi altra persona ocreatura, perché la compassione è una qualità essenziale che sorgenaturalmente nella nostra mente quando è sotto l'influenza delsattva-guna o la qualità di 'essere', bontà e purezza, ed è anchegiusto per noi fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile peralleviare tali sofferenze.

Tuttavia, la sofferenza è un fatto inevitabile dell'esistenzaincarnata, e c'è poco che con i nostri poteri limitati possiamo fareper alleviare le tante forme di sofferenza che esistono edesisteranno sempre in questo mondo. Pertanto se lasciamo che lanostra mente si soffermi sulle sofferenze e le ingiustizie di questomondo, perderemo solo la pace della nostra mente, e sarà di pocao nessuna utilità. Invece di immaginare che possiamo davvero farequalcosa di significativo per alleviare la sofferenza di questomondo, sarebbe più utile se si facesse attenzione a non contribuirein alcun modo a quella sofferenza.

Per esempio, centinaia di milioni di animali sono sottoposti ainutili e ingiustificabili sofferenze a causa delle pratiche crudeli diallevamento industriale, e ogni giorno milioni di loro sono

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crudelmente macellati solo per soddisfare il desiderio innaturale edisumano che le persone hanno di mangiare la loro carne. Questaè una triste realtà della vita, e una riflessione molto triste sullacosiddetta civiltà e umanità del genere umano moderno, ma c'èpoco che possiamo realmente fare per prevenire che tutte questecrudeltà accadano.

Tuttavia, anche se non possiamo impedirlo, possiamofacilmente evitare di contribuire ad essa semplicementeastenendoci da mangiare carne, pesce, uova o altri prodotti diorigine animale. Allo stesso modo, tante guerre ingiustificate sonocombattute in questo mondo, tutte come risultato dell'aviditàumana. Ogni anno più di un centinaio di milioni di bambini eadulti muoiono di fame e di altre cause legate alla povertà, adispetto del cibo abbondante e di altre risorse materiali che unagran parte della razza umana sta godendo.

Molti fattori contribuiscono a tali sofferenze, ma alla radice ditutti questi fattori si trova l'egoismo e l'avidità umana. Anche senella complessa economia del mondo moderno, in cui tutti siamoin qualche misura inevitabilmente coinvolti, è difficile per noisapere esattamente quali effetti hanno i nostri mezzi di guadagno eciascuna delle nostre abitudini di spesa e le altre forme dicomportamento sulle vite di chi è meno fortunato di noi, inqualunque modo possibile; dovremmo cercare di evitare dicontribuire con le nostre azioni alle sofferenze che sono causate daquesta economia ingiusta, e possiamo evitare questosemplificando il nostro stile di vita e riducendo al minimo lanostra dipendenza da beni materiali e altri oggetti del piacere deisensi.

Soprattutto, però, anche se non possiamo conoscere tutte leripercussioni che ogni nostra azione potrebbe avere su altrepersone e creature, sappiamo che la causa principale di gran partedella sofferenza che esiste in questo mondo è l'egoismo e l'aviditàche esiste nella mente delle persone come in noi stessi.

Pertanto, per evitare di contribuire alle sofferenze degli altri, la

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cosa più essenziale che dobbiamo fare è quella di sradicare ogniegoismo e avidità dalla nostra mente, e possiamo farlo in modoefficace solo volgendo la nostra mente verso l'interno perannegarla nel nostro essere cosciente di sé, che è la fonte da cuisorge insieme a tutto il suo egoismo e avidità.

Fino a quando la nostra mente è rivolta verso l'esterno,soffermandosi su questioni mondane o cercando di interferirenegli affari degli altri, staremo ignorando i difetti che esistononella nostra mente. Pertanto, prima di tentare di correggere idifetti di questo mondo o di altre persone, dobbiamo riuscire arettificare i nostri difetti, cosa che possiamo effettivamente faresolo ritirando la nostra attenzione del tutto da questo mondo edalle questioni che riguardano le altre persone, e vigilandofocalizzarci sul nostro stesso essere cosciente di sé al fine dicontenere e prevenire il sorgere della nostra mente, che è la radicedi tutti i nostri difetti.

Questo è il motivo per cui Sri Ramana dice che non èopportuno permettere alla nostra mente di soffermarsi molto suquestioni mondane, o interferire negli affari degli altri. Inoltre, inultima analisi, questo mondo e tutte le sofferenze che vediamo inesso sono create dal nostro potere d'immaginazione ed esistonosolo nella nostra mente, proprio come sono il mondo e lesofferenze che vediamo in un sogno.

Se sentiamo compassione nel vedere le sofferenze di altrepersone e animali nel nostro sogno, e se vogliamo alleviare tuttequeste sofferenze, tutto quello che dobbiamo fare è svegliarci daquel sogno. Allo stesso modo, se vogliamo veramente porre fine atutte le sofferenze che vediamo in questo mondo, dobbiamocercare di svegliarci da questo sogno che riteniamo erroneamenteessere la nostra vita di veglia, entrando nel vero stato di vegliadella perfetta non duale conoscenza di sé, praticando tenacementel'arte di essere attenti al sé.

Tuttavia, se la nostra vita in questo mondo è in realtà solo unsogno, finché stiamo vivendo questo sogno non dovremmo

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allontanare le sofferenze degli altri come se fosserosemplicemente irreali e quindi di nessuna conseguenza. Noi chesperimentiamo questo sogno immaginario siamo una parte di esso,e quindi tutto ciò che sperimentiamo o testimoniamo in questosogno è altrettanto reale come lo siamo noi.

Finché ci sentiamo di essere una persona, una mente legata adun corpo, che sta vivendo questo sogno, non possiamo non sentireche le gioie e le sofferenze che stiamo subendo sono perfettamentereali, e finché ci sentiamo così le nostre gioie e sofferenze sonoreali, e non possiamo negare che le gioie e le sofferenze di altrepersone e creature sono ugualmente reali e altrettantoconsequenziali.

Quindi, dal momento che ognuno di noi naturalmente vuoleevitare qualsiasi forma di sofferenza causata a noi stessi,dovremmo desiderare ugualmente vivamente di evitare ogni formadi sofferenza causata a qualsiasi altro essere senziente. Pertanto,quando Sri Ramana ci consiglia di evitare di interferire negli affaridi altri o permettere alla nostra mente di soffermarsi molto suquestioni mondane, non suggerisce di evitare tali azioni del corpo,della parola e della mente grazie all'indifferenza senza cuore, masolo che dobbiamo farlo a causa della santa indifferenza:l'indifferenza compassionevole, l'indifferenza veramenteamorevole e premurosa.

Sri Ramana non ha mai consigliato a nessuno di essere senzacuore e indifferente, insensibile e scortesemente indifferente allesofferenze degli altri. Al contrario, attraverso le sue azioni hachiaramente esemplificato come si dovrebbe esserecompassionevoli, di cuore tenero e premurosi, e come dovremmoevitare totalmente di causare anche il minimo hiṁsā o danno aqualsiasi altro essere vivente. Sebbene Sri Ramana raramenteabbia insegnato l'importanza della compassione esplicitamente aparole, lo ha insegnato molto chiaramente attraverso la propriavita; attraverso ogni sua azione e atteggiamento. In ognisituazione, il suo atteggiamento e la sua risposta tramite la parola

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o l'azione hanno chiaramente dimostrato il suo amore sconfinato,la compassione, il cuore tenero, la gentilezza, la considerazione eahiṁsā, il comportamento sensibile e attento ad evitare di causarequalsiasi danno, ferita o male a qualsiasi essere vivente.

La compassione, la gentilezza e l'amore brillavano attraversoogni azione di Sri Ramana perché questo è quello che era. Il suovero essere era la pienezza dell'amore: amore infinito e tuttoincludente. Poiché la sua individualità apparente si era immersa edera stata consumata alla luce infinita della vera conoscenza di sé,era veramente uno con la realtà assoluta, la cui natura èperfettamente non duale l'indivisibile essere, coscienza, felicità eamore. Egli ha quindi amato tutti noi, ogni essere senziente, comeproprio sé, perché si sperimentava come l'unica realtà infinita, aldi fuori della quale nessuno di noi può essere.

Lui era veramente ed è il sé reale ed essenziale di ognuno dinoi, e quindi nessuno di noi può essere escluso dal suo amoreinfinito, il suo onnicomprensivo amore del sé, che è il suo essereessenziale. Pertanto, la 'persona' apparente che era Sri Ramana erauna perfetta realizzazione di parama karuṇā, supremacompassione, grazia, gentilezza e amore. La sua gentilezza el'amore erano uguali per tutti.

Per lui peccatore e santo erano tutti uguali. Ha mostrato lastessa semplice cura, la gentilezza, la tenerezza, l'amore e lacompassione a persone che possiamo considerare cattive come loha fatto a persone che possiamo considerare buone. Il suo amore ela gentilezza erano assolutamente imparziali. Egli non ha mostratomaggiore amore, gentilezza e preoccupazione per i suoi piùsinceri devoti, che più hanno compreso e messo in pratica i suoiinsegnamenti, che per quelle persone che lo hanno ignorato,denigrato o addirittura maltrattato, o per quei devoti che eranoincuranti dei suoi insegnamenti, o che lo hanno frainteso, o cheaddirittura hanno tentato di distorcerli, travisarli o deformarli.

In realtà, se mai sembrava mostrare qualsiasi parzialità {opreferenza}, non era per coloro che lo amavano sinceramente, ma

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solo per chi aveva meno amore o nessun amore per lui. I devotiche lo amavano sinceramente, e che sinceramente hanno provato aseguire i suoi insegnamenti volgendo la mente verso l'internoarrendendosi a lui nel nucleo del loro essere, a volte sentivano cheesteriormente sembravano essere da lui ignorati, per dare la suaattenzione ad altri devoti meno sinceri.

Tuttavia, se lo hanno capito correttamente, sapevano che luiesteriormente ha dato la sua attenzione a chi era più bisognoso diessa, e che se lui esteriormente li ha ignorati era solo perincoraggiarli a volgersi verso l'interno per cercare la vera formadel suo amore, che sempre splende beatamente nel nostro cuorecome il nostro essere non duale consapevole di sé, 'Io sono', inattesa di attrarli all'interno col suo potere magnetico di attrazione.

Il motivo per cui ha mostrato uguale amore e gentilezza adogni persona, indipendentemente dal fatto che una personaparticolare poteva essere stato il peggiore dei peccatori o il piùgrande dei santi, era che a suo avviso non vi è differenzaessenziale tra un peccatore e un santo, tra un ateo e un devoto, otra una persona crudele e una persona gentile.

Sapeva che in essenza ogni persona è lo stesso singolo nonduale sé, che sperimentava come se stesso. Se sembravano essercipersone separate, sembravano essere tali solo grazie alla loroignoranza immaginaria della vera natura dell'unico vero non dualesé, che tutti sperimentiamo sempre come la nostra essenzialecoscienza di sé, 'Io sono'.

Non solo siamo tutti, in sostanza, lo stesso non duale sé, macome persone siamo tutti ugualmente ignoranti della nostra veranatura. Anche la nostra teorica conoscenza della nostra vera naturanon ci rende meno ignoranti di un'altra persona che non ha taleconoscenza teorica, perché questa conoscenza teorica esiste solonella nostra mente, che sorge solo a causa della nostra basicasottostante ignoranza del sé o di oblio di sé. Secondo il nostroignorante avviso, Sri Ramana ci sembra una persona come noi, edanche la nostra fede onesta e la convinzione che egli in realtà, non

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è una persona ma solo il nostro infinito vero sé, è una fede cheesiste solo nella nostra mente.

Finché sperimentiamo noi stessi come persona, e non comequell'infinito e indiviso vero sé, non possiamo sperimentare SriRamana come il nostro essenziale sé, ma lo possiamo soloconoscere come persona, anche se come una personaincommensurabilmente superiore a noi stessi. Pertanto, a nostroignorante avviso, Sri Ramana sembrava una persona, e come talepareva vedesse ognuno di noi come una persona separata.

Tuttavia, anche nella misura in cui gli pareva di vedere ognunodi noi come persona, non ha visto alcuna differenza essenziale tranoi. Egli ci vedeva come uguali nella nostra ignoranza del nostrovero sé. A suo avviso non vi era alcuna persona che fosse più omeno ignorante di qualsiasi altra persona. Noi o ci conosciamocome siamo veramente, o ignoriamo la nostra vera natura esperimentiamo noi stessi come una persona, una mente legata adun corpo finito.

Dal momento che a suo avviso siamo tutti ugualmenteignoranti, siamo tutti ugualmente bisognosi della sua kāraṇamillāda karuṇai, la sua grazia senza causa, misericordia,compassione, gentilezza e amore. Nulla di ciò che possiamo farepuò renderci degni della sua grazia, e altrettanto nulla chepossiamo fare può renderci indegni della sua grazia.

Proprio come la pioggia cade sul bene e sul male, allo stessomodo, la sua grazia e amore divino è ugualmente a disposizione ditutte le creature, compresi i più grandi santi e i più malvagipeccatori, i più brillanti intellettuali e il più noioso degli sciocchi, ipiù ricchi e i più poveri, re e mendicanti, esseri umani e tutti icosiddetti animali minori. La sua grazia o amore è non causataperché è la sua natura essenziale.

Come l'unico infinito vero sé, egli non può, non amarci tutticome se stesso, perché egli sperimenta noi tutti come lui. Dalmomento che la sua grazia è infinita, e non dipende da alcunacausa altro che da sé, non può mai aumentare o diminuire. In

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realtà si tratta dell'unica realtà, l'unica realtà assoluta, che è eterna,immutabile e auto-splendente.

Sebbene Sri Ramana sia veramente l'unica realtà infinita chechiamiamo 'Dio', che sempre mette la sua grazia a disposizione diognuno di noi splendendo eternamente nella profondità più intimadel nostro cuore come il più vicino e più caro nostro vero esserecosciente di sé, 'Io sono', egli si manifestò in forma umana.

Si manifestò così per insegnarci che possiamo sperimentare laperfetta e sempre inalterata felicità che tutti noi cerchiamo. Ciò èpossibile solo deviando la nostra mente all'interno e quindiimmergendola nella chiarezza assoluta del nostro non duale essereconsapevole di sé, che è la vera forma della sua grazia e amore.

La sua forma umana è dunque una forma di parama karuṇā osuprema compassione, grazia, misericordia, tenerezza, gentilezza,cura e amore, e come tale nessuna creatura potrà mai essereesclusa dalla sua infinita bontà e amore. E anche se la sua formaumana morì nel 1950, prima che la maggior parte di noi fossenemmeno nata, la sua grazia, amore e la guida interiore sonosempre a nostra disposizione, perché sono una realtà eterna chebrilla sempre dentro di noi come 'Io sono', il nostro sé più amato.

Inoltre, non solo rimane sempre come il nostro sé essenziale,ma continua anche ad essere manifestato esteriormente nellaforma dei suoi preziosi insegnamenti, che sono ancora disponibiliper ricordarci costantemente il nostro bisogno di volgerciall'interno al fine di sperimentare l'infinita felicità della veraconoscenza di sé. Al fine di usufruire del suo amore o grazia intutta la sua infinita pienezza, tutto quello che dobbiamo fare èvolgerci all'interno e bere così alla fonte da cui scaturisce.

Anche se la sua grazia ci aiuta sempre, finché ci occupiamo diqualsiasi cosa diversa dal nostro sé essenziale noi la stiamoignorando, e così facendo stiamo chiudendo in effetti le porte delnostro cuore ad essa, ostacolandone il fluire ulteriore per essereconsumati nella sua chiarezza infinita. La sua grazia è la luce dellacoscienza che brilla dentro di noi, che ci permette di conoscere sia

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noi stessi che tutti gli oggetti immaginari che abbiamo creato nellanostra mente.

Sia il soggetto che gli oggetti sono illuminati solo dalla suagrazia, e senza la sua grazia, come loro sostanza essenziale erealtà, non avrebbero potuto nemmeno sembrare di esistere.Tuttavia, fintantoché ci occupiamo di qualsiasi forma di oggetto,sia gli oggetti che riconosciamo come essere solo pensieri nellanostra mente, o gli oggetti che immaginiamo esistere in un mondofuori dalla nostra mente, stiamo usando male la luce della suagrazia, e stiamo distorcendo il suo infinito non duale amore del sée lo sperimentiamo come il nostro desiderio per alcuni oggetti e lanostra avversione per altri oggetti. Piuttosto che usar male la suagrazia in questo modo per conoscere gli oggetti, o aspettare disoddisfare uno qualsiasi dei nostri desideri meschini, dobbiamotrarre effettivo vantaggio da essa utilizzandola per conoscere noistessi.

Cioè, la nostra mente, che è la luce distorta della coscienza cheora utilizziamo per conoscere gli oggetti, è una forma riflessadella nostra luce originaria di coscienza del sé, che è la sua grazia.Pertanto, se volgiamo la nostra mente lontano da tutti gli oggettiverso la fonte della sua luce, si fonderà in quella sorgente come unraggio di luce che è riflesso da uno specchio verso il sole. Girandocosì la luce riflessa della nostra mente indietro su noi stessi, ciabbandoniamo alla nostra luce originale della grazia: la nostrafondamentale coscienza di sé, 'Io sono', che è la vera forma diamore che noi chiamiamo 'Sri Ramana'.

Quando Sri Ramana si è manifestato in forma umana, lacompassione, la tenerezza di cuore, la gentilezza e l'amore che hamostrato verso ogni persona che incontrò era l'espressioneesteriore dell'amore infinito, eterno, indiviso e non duale che havissuto come proprio sé, e che sempre brilla in ognuno di noicome il nostro essenziale essere cosciente di sé, 'Io sono'.

Pertanto, l'imparzialità della sua bontà e del suo amore versol'esterno ha dimostrato chiaramente l'assoluta imparzialità della

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sua vera grazia interiore, che sorge sempre, nel cuore di ogniessere senziente. Lo stesso amore che ha mostrato a tutte lepersone lo ha mostrato a tutte le altre creature. Egli non haconsiderato nessun animale meno degno della sua bontà, amore ecompassione per ogni essere umano; gli animali naturalmentehanno risposto all'amore che sentivano in lui, e quindi gli siavvicinavano senza alcun timore.

Numerose storie e avvenimenti della sua vita sono statiregistrati che illustrano in modo stupendo il suo straordinariorapporto con gli animali sia selvaggi che domestici: la tenerezza dicuore, la gentilezza, la cura e l'amore che mostrò loro, e il loroaffetto reciproco e la fiducia in lui. Inoltre, non solo era altrettantogentile e si preoccupava di singoli animali di ogni specie, ma haanche mostrato la sua forte disapprovazione ogni volta che unapersona trattava con cattiveria o causava qualche danno a qualsiasianimale.

Lui non tollerava o permetteva alle persone di uccidere anchegli animali velenosi come serpenti e scorpioni, e ha sottolineatoche la nostra paura di questi animali è causata solo dal nostroattaccamento ai nostri corpi. Ha detto che così come noi amiamola nostra vita nel nostro attuale corpo, così ogni altra creatura amala vita del proprio corpo, e quindi non abbiamo il diritto di privarequalsiasi creatura della sua amata vita, o causare danni osofferenze di qualsiasi natura.

Un esempio molto chiaro della sua sconfinata e assolutamenteimparziale compassione e amore è stato un episodio che accaddequando era un giovane uomo. Un giorno, mentre stavacamminando attraverso un boschetto accidentalmente sfiorò con lacoscia un vespaio, disturbando i suoi numerosi occupanti, chesubito volarono furenti e cominciarono a pungere la dannosacoscia.

Comprendendo la loro naturale risposta, e dispiaciuto per ildisturbo che aveva accidentalmente provocato, rimase immobile e,nonostante il dolore intenso che stavano infliggendogli, con

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pazienza ha permesso loro di pungere la sua coscia fino a quandofurono tutti pienamente soddisfatti e tornati al loro nido. Anni piùtardi, quando Sri Muruganar ha scritto un versetto (che è oraincluso in Guru Vācaka Kovai come versetto 815) chiedendogliperché si sentiva pentito ed aveva permesso ai calabroni dipungere la sua coscia, anche se il disturbo causato a loro non eraintenzionale, egli rispose componendo il versetto 7 dell'UpadesaTaṉippākkaḷ, in cui ha detto:

“Anche se i calabroni brulicanti punsero la gambache è diventata infiammata e gonfia, quando hatoccato e danneggiato il loro nido, che era disposto [enascosto] in mezzo a foglie verdi, e anche se [l'atto didanneggiare il loro nido] è stato un errore che èaccaduto accidentalmente, se uno non abbia almenodispiacere [pietà per i calabroni pentendosi per ildisturbo causato loro], quale sarebbe la natura dellasua mente [cioè, quanto completamente duro einsensibile sarebbe il suo cuore]?”

Con la sua stessa vita e con l'esempio Sri Ramana ci hainsegnato la grande importanza non solo della bontà, dell'amore,della tenerezza di cuore, della considerazione, della compassionee dell'Ahimsa, ma anche dell'umiltà, dell'altruismo, dell'assenza didesideri, della non accumulazione, della non-possessività, non-spreco, della generosità, della contentezza, dell'autocontrollo,dell'abnegazione e dell'assoluta semplicità dello stile di vita.

Nessuna di queste qualità sono state coltivate o praticate da luicon uno sforzo, ma erano tutte senza sforzo, perché erano effettinaturali della sua assoluta assenza di ego. Perché lui non havissuto come un ego, una finita e separata coscienza individuale,non ha sperimentata alcuna persona, animale, vegetale o oggettoinanimato come altro da sé, e quindi nell'infinita pienezza del suoamore e del suo assoluto non duale amore del sé, non c'era posto

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anche per la minima traccia di egoismo, avidità, desiderio,attaccamento, possessività, scortesia, insensibilità o qualsiasi altrodifetto che tende a sorgere quando riteniamo erroneamente diessere un ego limitato da un corpo finito o mente.

Lui quindi ha vissuto ciò che insegnava, e ha insegnato solo ciòche egli stesso ha vissuto. Le sue azioni, il suo atteggiamento e lasua risposta ad ogni persona, ad ogni animale e ad ogni situazioneesterna ed evento erano quindi insegnamenti che erano non menopotenti o importanti delle sue parole e dei suoi scritti.

Lui ha incarnato nella sua vita lo stesso stato di assolutaassenza di ego che ci ha insegnato come l'unico scopo che vale lapena cercare. Pertanto, anche se non possiamo emulare la sua vitaperfettamente senza ego finché ci illudiamo di essere una persona,una mente limitata da un corpo o la coscienza di un ego, possiamoimparare molto da lui, e se vogliamo veramente perdere il nostrofalso sé individuale nel nostro naturale stato assolutamente privodi ego ed essere cosciente di sé, dovremmo umilmente esinceramente cercare di applicare ciò che siamo in grado diimparare dalla sua vita esteriore nella nostra vita esteriore.

Cioè, se vogliamo veramente essere assolutamente privi di ego,dobbiamo cominciare anche ora a praticare le qualitàdisinteressato e le virtù che sono naturali per l'assenza di ego. Senon amiamo e apprezziamo tali qualità, vuol dire che non amiamodavvero lo stato di perfetta mancanza di ego. La semplicitàcostantemente disinteressata dello stile di vita di Sri Ramana eraleggendaria e testimoniata da migliaia di persone.

Anche se i suoi devoti costruirono un āśrama, un luogo perdimorare in comunità ed un'istituzione religiosa, intorno a lui, nonha mai rivendicato nulla come suo. E anche se c'erano personericche che gli hanno offerto, sinceramente desiderosi di darglitutto ciò poteva volere, ha beneficiato di nient'altro che di unminimo di cibo, vestiti e riparo che erano necessari per lasopravvivenza del suo corpo.

Dal momento in cui ha lasciato casa all'età di sedici anni e fino

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alla fine della sua vita corporea, ha vissuto la vita semplice di unsadhu, un mendicante religioso. Il suo unico abbigliamento era unkaupīna, un semplice perizoma. Fino a quando i suoi devoti noncostruirono una semplice dimora per lui, viveva solo in grotte o inmaṇḍapams, corridoi aperti del tempio.

Anche negli ultimi anni della sua vita, quando viveva in unpiccolo salone che i suoi devoti avevano costruito per lui, le cuiporte erano aperte ai visitatori di giorno e di notte, e che hacondiviso liberamente con altri residenti permanenti o temporanei,che vivevano e dormivano lì con lui. Non aveva vita privata otempo per se stesso, ma era sempre disponibile per chi avevabisogno di lui.

Preferiva mangiare solo il più semplice degli alimenti, e anchequando gli veniva offerto qualche tipo di cibo speciale, unadelicatezza come un dolce o un bocconcino saporito, un elaboratobanchetto preparato, o anche un tonico medicinale per la salute delcorpo, avrebbe mangiato solo se fosse stato prima condivisoequamente con tutte le persone che erano presenti. Proprio comeha condiviso il suo rifugio, il suo tempo e tutta la sua vita con tutticoloro che erano in sua presenza, così ha condiviso con loroliberamente e allo stesso modo qualunque cibo o altra cosamateriale gli era stata data.

L'unico tipo di cibo che assolutamente evitava, e che haconsigliato gli altri di evitare altrettanto rigorosamente, eraqualsiasi forma di cibo non vegetariano come la carne, il pesce ole uova. In questo e in molti altri modi egli ci ha insegnato conforza che noi dobbiamo sempre evitare qualsiasi azione che possacausare anche il minimo danno, oltraggio o sofferenza ad ognicreatura. Sia con le sue parole che con il suo esempio ci hainsegnato la virtù della perfetta ahimsa o evitarecompassionevolmente di causare qualsiasi danno, oltraggio o malea qualsiasi essere senziente.

Attraverso la sua vita e i suoi insegnamenti ci ha indicatochiaramente che ha considerato ahimsa o 'non nuocere' essere una

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virtù superiore al cercare attivamente di 'fare del bene'.Considerando che Ahimsa è uno stato passivo di astenersi dal farequalsiasi azione che possa direttamente o indirettamente, causarequalche danno o sofferenza a qualsiasi persona o creatura. Faredel bene è un'interferenza attiva nel corso esterno degli eventi enegli affari degli altri, e anche quando interferiamo quindi conbuone intenzioni, le nostre azioni hanno spesso dannoseripercussioni.

Quando cerchiamo di fare azioni che crediamo si tradurrannonel 'bene', spesso finiscono per causare danni sia a noi stessi chead altri, o ad entrambi. Il pericolo per noi stessi nel nostrotentativo di fare 'del bene' ad altri si trova principalmente nelsenso che tali azioni possono avere sul nostro ego. Se ciimpegniamo noi stessi alacremente e ambiziosamente nel tentativoesteriore di fare 'del bene', è facile per noi trascurare i difetti nellanostra mente, e non riuscire a notare il sottile orgoglio, l'egoismo el'ipocrisia che tendono a sorgere nella nostra mente quando ciconcentriamo nel correggere i difetti del mondo esterno anzichérettificare i nostri difetti interni. Inoltre, ciò che consideriamoessere 'il bene' è spesso molto diverso da quello che le altrepersone considerano 'il bene'.

Quindi a meno che non siamo molto attenti il 'bene' checerchiamo di fare agli altri può in effetti essere indesiderato.Anche se sentiamo fortemente che la nostra idea di 'bene' è giustae che l'idea di altre persone è sbagliata, dobbiamo essere attenti anon cercare di imporre la nostra idea di 'bene' su di loro, perchéquando lo facciamo i nostri sforzi potranno solo crearerisentimenti e conflitti, che di solito si tradurranno nel causare piùdanni di qualsiasi bene reale.

La maggior parte delle azioni hanno effetti multipli, in modotale che le conseguenze delle nostre azioni non sono spesso quelloche vogliamo che siano. Quanto maggiore è il 'bene' checerchiamo di fare, tanto maggiore è il danno che può risultarne.Dall'inizio della storia umana, molti riformatori sociali, politici e

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religiosi sono andati e venuti, ma nessuno dei loro tentativi diriforme ha mai portato al bene soltanto.

Qualsiasi azione o serie di azioni che ha un impattosignificativo su questo mondo inevitabilmente si traduce in unmisto di bene e male, benefici e danni. Molti dei più grandi mali eingiustizie in questo mondo sono risultati da presumibilmente benintenzionate riforme sociali, politiche, economiche o religiose.Anche in nome di Dio si sono verificati innumerevoli conflitti, chehanno a volte anche provocato crudeli persecuzioni, guerre eterrorismo.

Da tutto questo si dovrebbe capire che il tentativo di fare ilbene può portare a gravi danni, e che il nostro dovere moraleprimario è quindi quello di evitare di causare danni piuttosto checercare di fare del bene. In molte situazioni, può derivare un benedi gran lunga maggiore dal nostro astenerci dal fare qualsiasiazione perché il buono che potrebbe derivare da qualsiasi azioneche noi potremmo fare può non compensare il danno che potrebbederivarne. In altre parole, la nostra inazione, il nostro stare senzafare nulla, spesso può essere veramente più vantaggioso chequalsiasi quantità di azione o 'fare'.

Come regola generale, se un'azione può causare danni aqualsiasi essere senziente, dovremmo astenerci dal farla, anche sepuò tradursi in qualcosa di buono. Inoltre, qualsiasi azionepossiamo decidere di fare o di astenerci dal fare in ogni situazioneparticolare, dobbiamo sempre ricordare che il bene ultimo, che èl'infinita felicità della vera conoscenza del sé, non potrà mai essereraggiunta da qualsiasi quantità di azione o 'fare', ma solodall''essere': vale a dire, dal nostro permanere beatamente nelnostro naturale stato, che è lo stato senza ego, privo di pensiero equindi assolutamente senza azione dell'essere perfettamentechiaro, cosciente di sé.

Questo non vuol dire, però, che non dovremmo fare nulla peraiutare le altre persone o creature quando si presenta un bisognoimmediato, ma solo che non dovremmo essere troppo ambiziosi

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nel nostro desiderio di fare del bene. Dovremmo rispondereadeguatamente ad ogni situazione in cui ci troviamo, ma nondobbiamo attivamente cercare situazioni in cui ci immaginiamoche il nostro aiuto può essere richiesto.

Inoltre, anche quando si verifica una situazione nella quale ilnostro aiuto sembra essere necessario, dovremmo prendere cura difare solo quell'aiuto o 'bene' che è davvero appropriato, edovremmo allo stesso tempo essere molto vigili per non causareogni forma di male nel nostro tentativo di fare del bene.Dall'esempio dato da Sri Ramana, dobbiamo capire che è bene pernoi di essere sempre umili, altruisti, gentili, attenti, premurosi,gentili, compassionevoli, generosi e condivisivi e che tutte lenostre azioni esteriori e le reazioni che in molti casi possonoopportunamente includere la nostra astensione dal faredeterminate azioni o qualsiasi azione, devono essere sempreguidate da queste qualità interiori della mente e del cuore. Lagrande importanza della vera generosità, della gentilezza edell'attenzione erano chiaramente enfatizzate da Sri Ramanaquando ha concluso il diciannovesimo paragrafo di 'Nan Yar?',dicendo:

“Tutto ciò che si dà agli altri uno lo sta dando soloa se stesso. Se [tutti] avessero conosciuta questaverità, chi quindi si sarebbe astenuto dal dare?”

Tutto ciò che diamo agli altri (soprattutto l'amore tenero dicuore, la gentilezza, la compassione, la simpatia, l'affetto,l'attenzione e la considerazione che diamo a loro) la stiamo dandosolo a noi stessi perché nessuno, nessuna persona, animale, piantao qualsiasi altra cosa, è davvero diverso da noi stessi, il nostroessenziale essere cosciente di sé o 'Io sono' {am-ness}

Questo è il vero significato dell'insegnamento di Cristo: “Amail Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima econ tutta la tua mente [...] Ama il tuo prossimo come te stesso”

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(Mt 22, 37, 39, e Marco 12, 30-31). Non possiamo amareveramente Dio o il prossimo, o uno qualsiasi degli altri esserisenzienti simili a noi, come noi stessi a meno che non li abbiamoin realtà sperimentati come noi stessi; se non li amiamo come noistessi, non possiamo davvero amarli con tutto il cuore, l'anima e lamente.

L'amore per qualcosa di diverso da noi stessi non può maiessere un completo amore, ma può solo essere un amore diviso equindi parziale, perché abbiamo sempre amato noi stessi più diquanto possiamo amare qualsiasi altra persona o cosa. Quindi severamente desideriamo amare Dio o il prossimo, totalmente, contutto il cuore, l'anima e la mente: noi dobbiamo sperimentarlocome noi stessi.

Al fine di sperimentarlo così, dobbiamo sperimentare noi stessicome siamo veramente, cioè, come quella realtà assoluta infinita eindivisibile, che è la vera essenza o vera sostanza di tutto ciò cheè. Non possiamo sperimentarci come quell'infinito, indiviso, nonduale e onnicomprensivo, finché diamo attenzione a tutto ciò chesembra essere diverso da noi stessi.

Al fine di sperimentare l'amore per Dio e per il nostro prossimocome noi stessi, dobbiamo ritirare la nostra mente completamentedalle sue forme esteriori e immaginarie e focalizzarlaintensamente ed esclusivamente sul nostro essenziale esserecosciente di sé, 'Io sono', che è la sua sola forma reale edessenziale. Pertanto, fino a quando non ci fondiamo e non ciperdiamo interamente nel nostro stato naturale di assolutamentenon duale essere cosciente del sé, che è il solo stato di veraconoscenza di sé, il nostro amore per Dio e per il prossimo saràsolo parziale e imperfetto.

Tuttavia, anche se non possiamo ancora effettivamentesperimentare e amare tutti gli altri esseri senzienti come noi stessi,se abbiamo veramente compreso almeno teoricamente che nonsono realmente diversi da noi stessi, sentiremo naturalmentecompassione per loro e quindi entreremo in empatia con tutte le

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loro sofferenze.Quando sentiamo tale compassione ed empatia per tutti gli

esseri senzienti, ci asterremo naturalmente per quanto possibiledal causare anche il minimo danno o sofferenza a qualsiasi di essi.Tuttavia, il nostro amore, compassione e preoccupazione per lealtre persone e per gli animali non ci deve portare a credere chepossiamo fare un gran bene a questo mondo, o che questo mondoha bisogno di noi per riformarsi.

Ogni volta che una persona diceva a Sri Ramana che aveval'ambizione di riformare il mondo in qualche modo o di fare aqualsiasi altro simile 'del bene', lui diceva: “Colui che ha creatoquesto mondo sa come prendersi cura di esso. Se credi in Dio,fidati di lui che farà tutto il necessario per questo mondo”. Inmolte occasioni e in molti modi, Sri Ramana ha chiarito che ilnostro dovere non è quello di riformare il mondo, ma solo diriformare noi stessi.

Alle persone che non avevano una comprensione sottile, eglidiceva che dal momento che questo mondo è creato da Dio, egli sacome prendersi cura di esso, indicando così che questo mondo èesattamente come Dio vuole che sia, e che vuole che sia così per ilvero beneficio di tutti.

Tuttavia, per le persone di più sottile comprensione, diceva chequesto mondo è una creazione della nostra mente, ed esiste solonella nostra mente nello stesso modo che un sogno esiste solonella nostra mente, e che tutti i difetti che vediamo in questomondo sono quindi riflessi di difetti della nostra mente. Quindi,piuttosto che cercare di riformare il riflesso, dovremmo cercare diriformare la fonte di esso, che è la nostra mente.

Se riformiamo la nostra mente ripristinando il nostro statonaturale di solo essere, il suo riflesso potrà fondersi e diventareuno con il nostro vero essere, che è l'infinita pienezza di purafelicità e di amore. Anche se tutti i molteplici problemi di questomondo possono essere efficacemente risolti solo volgendo lanostra mente verso l'interno e immergendola nella sua sorgente,

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che è il nostro essere assolutamente non duale consapevole di sé,finché la nostra mente è rivolta verso l'esterno, continueremo aerrare credendo di essere solo una persona limitata da un corpo,una tra le tante creature limitate da un corpo che vivono in questomondo materiale.

Quando ci sbagliamo ritenendo di essere una persona finita,inevitabilmente siamo coinvolti nelle attività del nostro corpo,parola e mente, e le nostre azioni hanno inevitabilmente un effettosu altre persone e creature.

Quindi in questo stato dualistico di attività siamo responsabiliper gli effetti delle nostre azioni, e quindi dobbiamo fareattenzione a non causare alcun danno ad uno qualsiasi dei nostriuguali esseri incarnati. Il vantaggio di praticare con attenzione lavirtù dell'ahimsa o 'non nuocere' è duplice.

Non solo evitiamo per quanto possibile di causare danni osofferenze a qualsiasi altro essere senziente, ma così coltiviamo latenerezza di mente che è necessaria per essere in grado di volgerciall'interno e fonderci nel nostro stato naturale di solo essere. Sesiamo spietatamente indifferenti alle sofferenze degli altri, nonsaremo in grado di riuscire in ogni sforzo che potremo fare pervolgerci all'interno, in quanto tale mancanza di cuore è causatasolo dalla densità del nostro ego, il nostro forte attaccamento eidentificazione con il nostro sé individuale.

Solo quando il nostro attaccamento al nostro ego ènotevolmente attenuato avremo vairāgya,, mancanza di desideri odistacco che è necessario per essere in grado di abbandonare tutti ipensieri o l'attenzione a ogni cosa diverso dal nostro essenzialeessere consapevole di sé, e come conseguenza inevitabile diquesta attenuazione il nostro ego, la vera tenerezza di cuore,l'amore e la compassione potranno sorgere naturalmente dentro dinoi. Solo nella misura in cui il nostro ego e tutti i suoi desideri egli attaccamenti saranno veramente attenuati, si avrà nel nostrocuore il vero amore per il solo essere.

Quando questo vero amore per il solo essere nasce dentro di

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noi, ci spingerà a cercare ripetutamente di ritirare la nostra menteda tutti gli oggetti e di farla riposare nel nostro essere essenzialecosciente di sé. Tuttavia, fino a quando il nostro amore per il soloessere non ci consuma completamente, la nostra mente spessoscivolerà giù dal nostro stato naturale di riposo cosciente del sé, eogni volta che sperimentiamo questo apparente mondo esterno ilnostro cuore si manifesterà come tenerezza, compassione, bontà,amore e considerazione per tutti gli altri esseri senzienti, che sonociascuno in sostanza nulla altro che il nostro stesso essereconsapevole di sé. Sri Ramana diceva che bhakti è jñāna-mātā:cioè, che la devozione o l'amore è la madre della vera conoscenzadi sé. In questo contesto bhakti significa vero amore per il soloessere, cioè l'amore per il nostro infinito essere cosciente di sé

Dato che il nostro vero essere cosciente di sé è infinito, nonconosce nessun altro, e quindi se veramente amiamo il nostroessere noi non percepiremo nulla di altro (in particolare qualsiasiessere senziente) che possa essere escluso da esso o dal nostroamore per esso. Pertanto, fintanto che noi sperimentiamo anche laminima dualità o alterità, il nostro vero amore per il proprio esseresarà vissuto da noi come un cuore tenero e un amore omni-inclusivo e compassionevole per i nostri uguali esseri senzienti.

Quindi se coltiviamo il vero amore per il solo essere, comesuccederà naturalmente con la nostra persistente pratica diattenzione al sé, non avremo bisogno di fare alcuno sforzo percoltivare tutte le altre qualità come la compassione, la tenerezza ola gentilezza per gli altri esseri senzienti, perché tali qualitàrisulteranno automaticamente dal nostro amore per l'essere vero.

Tuttavia, anche se non abbiamo bisogno di fare alcuno sforzoparticolare per coltivare qualità come la compassione o lasensibilità per i sentimenti degli altri, avendo care queste qualitàpossiamo indirettamente nutrire il nostro amore per il solo essere,che solo ci può consentire di sperimentare lo stato senza ego divera auto-conoscenza. Solo una mente estremamente tenera dicuore sarà sopraffatta da un amore così grande per il solo essere e

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La Pratica dell'Arte di Essere

sarà disposta a cedere interamente se stessa, volgendo la suaattenzione interamente verso il proprio nucleo consapevole di sé oessenza e così placarsi e fondersi interiormente, perdendosinell'assoluta chiarezza della vera conoscenza del sé non duale.

Proprio come la compassione è un effetto naturale del veroamore per il solo essere, così ahimsa o 'non nuocere' è un effettonaturale della compassione. Se sentiamo vera compassione etenerezza per i sentimenti degli altri, automaticamente faremoattenzione a non fare alcuna azione che possa causare danni osofferenze.

Pertanto, la qualità più importante che dobbiamo sforzarci dicoltivare è il vero amore a fondersi e riposare nel nostro statonaturale di essere cosciente di sé. Se coltiviamo questa qualitàessenziale, tutte le altre qualità fioriranno senza sforzo enaturalmente nel nostro cuore. L'assoluta ahimsa è possibile solonel non duale stato di vera conoscenza del sé. Il primo hiṁsā o'danno', che è la prima azione che provoca danni, lesioni esofferenze sia per noi stessi che per tutti gli 'altri', è il sorgeredella nostra mente.

Quando la nostra mente non sorge, tutto resta beatamente fusonel vero stato di non duale essere consapevole di sé, che è lo statodi felicità infinita. L'attivazione immaginaria della nostra mentenon è solo la forma primordiale di hiṁsā, ma è anche la causa el'origine di tutte le altre forme di hiṁsā. Pertanto, fintanto cheimmaginiamo noi stessi di essere questa mente legata ad un corpoo ego, non possiamo sperimentare ahiṁsā assoluta, e nonpossiamo evitare del tutto di fare qualsiasi forma di hiṁsā.

Quindi se vogliamo veramente evitare di causare qualunquedanno, non dobbiamo solo cercare con attenzione di controllaretutte le azioni della mente, la parola o il corpo secondo il principiomoralmente imperativo di ahiṁsā, ma dovremmo anche cercare didistruggere la causa principale di ogni forma di hiṁsā, che è lanostra mente o ego.

Per distruggere questa causa radice di tutta la sofferenza,

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l'unico mezzo è quello di condurre la nostra mente lontano da tuttele alterità o dualità e di annegarla nell'infinita chiarezza del nostroessere cosciente di sé. Questo è il motivo per cui Sri Ramana dicenel XIX paragrafo di 'Nan Yar?':

“[...] Non è appropriato [per noi] lasciare [la nostra]mente [soffermarsi] tanto su questioni mondane. Perquanto possibile, non è appropriato [per noi] entrare [ointerferire] negli affari di altre persone [...]”.

Il fatto che possiamo veramente fare del bene al mondo soloritirando la nostra mente da esso e cercando dentro di noi la veracausa di ogni sofferenza è adeguatamente e splendidamenteillustrato dalla vita compassionevole del Signore Buddha. ComeBhagavan Ramana, Bhagavan Buddha era l'incarnazione dellaparama karuṇā o suprema compassione, gentilezza e amore.

Quando da giovane 'uomo, è venuto a conoscenza dellesofferenze inevitabili dell'esistenza incarnata come la malattia, lavecchiaia e la morte, è stato travolto da un intenso desiderio discoprire la causa principale di tutte le sofferenze ed i mezzi perdistruggere quella causa. Pertanto, anche se aveva un grandeamore per la moglie, il figlio, padre, zia e altri parenti e amici, liha tutti lasciati e ha vissuto la vita di un mendicante girovago,sinceramente alla ricerca della vera conoscenza che avrebbemesso fine a tutte le sofferenze.

Anche se in una fase iniziale della sua ricerca sperava diraggiungere tale conoscenza praticando severe austerità corporali,alla fine ha capito che con tali mezzi esterni non potevaraggiungere la verità che stava cercando, e che potevaraggiungerla solo ricercandola con calma dentro di sé.

Così volgendo la sua mente lontano dal suo corpo e da questomondo, egli fu in grado di sperimentare il vero stato del Nirvana:l'estinzione assoluta della sua mente o falso sé finito. Il motivo percui Buddha ha lasciato la sua amata moglie, i figli e gli altri

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parenti non era perché non voleva prendersi cura di loro.Li lasciò solo perché il suo amore per loro era così grande che

non poteva sopportare il pensiero che era impotente a salvarlidalle sofferenze inevitabili dell'esistenza incarnata, e lui è statoquindi determinato a trovare i mezzi per farlo. Solo perché il suoamore e la sua compassione erano così grandi è stato spinto aritirare la sua mente da quelli che amava di più al fine di trovare lavera soluzione alle sofferenze di tutti gli esseri incarnati; fu ingrado di raggiungere la vera conoscenza che gli permise diinsegnare a noi tutti i mezzi con cui possiamo raggiungere ilnirvāṇa, il vero stato di solo essere, in cui ogni sofferenza èestinta con la sua causa, la nostra mente o il senso illusorio difinita individualità.

Al fine di raggiungere la vera conoscenza di sé, lo stato diassoluto non duale essere cosciente di sé, e in tal modo estinguerela radice di ogni sofferenza, non è necessario che esteriormenterinunciamo né alla nostra famiglia né al mondo intero, come ilSignore Buddha ha fatto, ma dobbiamo interiormente rinunciare atutti i pensieri del nostro falso finito sé e a tutto il resto diverso dalnostro essenziale essere cosciente di sé.

Ancora più importante, per essere sufficientemente motivatiper poterci arrendersi o lasciar andare il nostro falso sé finito,dobbiamo essere spinti dalla stessa intensità del tenero amore nelcuore che spinse il Signore Buddha e ogni altro vero saggio afondersi interiormente e abbandonare se stessi nel fuoco che tuttoconsuma della vera conoscenza di sé. Tutta la sofferenza chevediamo in questo mondo è solo un sogno che si manifesta acausa del sorgere della nostra mente, quindi se siamo veramentepreoccupati per le sofferenze degli altri, dovremmo seriamentecercare di svegliarci da questo sogno, abbandonando la nostramente auto-ingannevole nella chiarezza del nostro essereessenziale cosciente di sé.

Tuttavia, anche se il vero amore per il proprio essereessenziale, che è anche l'essere essenziale di ogni altra persona e

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creatura, è l'unico mezzo attraverso il quale siamo in grado disvegliarci da questo sogno di dualità o alterità, il nostro presenteamore finito sboccerà come assoluta pienezza dell'amore infinitosolo quando avremo effettivamente distrutto questo illusoriosogno di dualità nella chiarezza perfetta della vera conoscenza delsé non duale.

Questo mondo e tutto ciò che sperimentiamo in esso, compresoil nostro corpo e la nostra personalità individuale con tutte le suesimpatie e antipatie, sembrano esistere solo perché siamo sorticome questa coscienza finita conoscitrice di oggetti {oggettiva}che chiamiamo la nostra mente. Pertanto, se la nostra mente sidissolve e cessa di esistere come coscienza individuale separata,anche tutto il resto si dissolverà e cesserà di esistere. Quindi nelparagrafo finale di 'Nan Yar?', Sri Ramana conclude dicendo:

“Se [il nostro individuale] sé sorge, tutto sorge; se[il nostro individuale] sé si placa [o cessa], tutto sidissolve [o cessa]. In qualunque misura cicomportiamo umilmente, nella stessa misura ci sarà labontà [o virtù]. Se [noi] stiamo contenendo [frenando,sottomettendo, condensando, contraendo o riducendola nostra] mente, ovunque [noi] possiamo essere [noi]possiamo essere [o ovunque possiamo essere siamo]”.

La parola chiave nella seconda frase di questo paragrafo ètaṙndu, che ho tradotto come 'umile', ma che è in realtà il passatoo participio perfetto di taṙ un verbo che ha molti significati comepiegarsi, adorare, cadere in basso, essere in basso, prostrarsi,diventare sottomesso, essere sospeso, essere profondo, essereassorto in nulla, scendere, declinare, affondare, diminuire,decrescere, fermarsi, riposare, fermare, piegare, abbattersi oappendere in giù.

In tale contesto, pertanto, procedere o comportarsi taṙndusignifica condurre noi stessi umilmente in questo mondo,

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sottomettersi alla volontà di Dio, con la nostra mente placata,sottomessa, sommersa o in riposo tranquillamente nel nostroessenziale essere autocosciente. Nella misura in cui viviamo lanostra vita così, dice Sri Ramana, c'è naṉmai: bontà, giustizia,beneficio, beneficenza, virtù o moralità. Cioè, la relativa bontà diuna qualsiasi delle nostre azioni e del nostro comportamento ingenerale è determinata esclusivamente dalla misura in cui, agendoo comportandoci, siamo veramente umili, sottomessi, senzadesideri, calmi, equanimi e rassegnati alla volontà di Dio.

Nella frase finale Sri Ramana dice che se siamo in grado diessere così, sempre trattenendo, frenando, soggiogando oriducendo la nostra mente, 'ovunque [noi] possiamo essere [noi]possiamo essere' o 'ovunque [noi] possiamo essere [noi] siamo'.Queste parole conclusive, eṅgē-y-irundālum irukkalām, implicanoche in qualunque luogo o circostanza in cui possiamo essereimmessi nella nostra vita, è sempre possibile per noi solo essere.

Se teniamo sempre la nostra mente placata nel nostro vero enaturale stato d'essere consapevole di sé, nessuna circostanzaesterna può impedirci di rimanere così. Pertanto, dal momento chenon abbiamo alcun obbligo o responsabilità diversa dal solorimanere nel nostro essere beato, cosciente di sé e poiché non c'èfelicità superiore che semplicemente essere così, summāirukkalām, semplicemente siamo.

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Bibliografia

Quando cito gli scritti Tamil e altri insegnamenti di Sri Ramanariportati in questo libro, mi riferisco alle mie traduzioni(M.James), molte delle quali sono basate, in gran parte, sullespiegazioni e interpretazioni della prosa Tamil di Sri Sadhu Om. Iseguenti sono alcuni dettagli circa i lavori che ho citato:

Poesie filosofiche di Sri Ramana

Upadesa Undiyār (உபத�ச வநத�ய ர) - Una poesia Tamildi trenta versi che Sri Ramana ha composto nel 1927 in rispostaalla richiesta di Sri Muruganar, e che ha poi redatto in Sanscrito,Telugu e Malayalam sotto il titolo Upadesa Saram, 'Essenza delleistruzioni'.

Uḷḷadu Nāṟpadu (உளளத ந றபத) - i 'Quaranta [Versi] suciò che è'. Un'altra poesia Tamil che Sri Ramana ha composto nel1928, quando Sri Muruganar gli chiese di insegnare la natura dellarealtà e dei mezzi per raggiungerla.

Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham (உளளத ந றபதஅனபநதம) Il 'Supplemento ai Quaranta [Versi] su ciò che è',una raccolta di quarantuno versi Tamil che Sri Ramana hacomposto in diversi momenti tra il 1920 e il 1930.

Ēkāṉma Pañcakam (ஏக ன ம பஞசகம - Noto anche comeEkatma Pañcakam) - I 'Cinque [Versi] sull'Unità del sé'; unapoesia che Sri Ramana compose nel 1947, prima in Telugu, poi inTamil, e più tardi in Malayalam.

Anma - Viddai (ஆன ம வ�த� - Noto anche come Atma-

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Vidya Kirtanam) Il 'Canto sulla Scienza del Sé', una canzoneTamil che Sri Ramana ha composto nel 1927 in risposta allarichiesta di Sri Muruganar.

Upadesa Taṉippākkaḷ (உபத�ச� தன�பப ககள) 'VersiSolitari di istruzione', una raccolta di ventisette versi Tamil cheSri Ramana ha composto in tempi diversi.

Poesie devozionali di Sri Ramana

Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai (ஸ அரண சலஅகரமணம �ல) - La 'Ghirlanda matrimoniale delle lettere' o'Ghirlanda dell'unione che non perisce'. Un inno Tamil di 108versi indirizzato a Dio nella forma del santo monte Arunachala,che Sri Ramana ha composto spontaneamente uno giorno del 1914o 1915.

Śrī Aruṇācala Aṣṭakam (ஸ அரண சல அஷ டகம) Gli'Otto [Versi] a Sri Arunachala', altro inno Tamil che Sri Ramanaha composto nella stessa epoca

Scritti in prosa di Sri Ramana

Nan Yar? (ந ன ய ர, conosciuta anche come Nāṉ-Ār?,ந ன ர?) - 'Chi sono Io?'. Un trattato di venti punti che SriRamana ha scritto alla fine del 1920, del quale tutti, meno il primoparagrafo sono una versione modificata di una raccolta di risposteche aveva dato a una serie di domande poste da Sri SivaprakasamPillai negli anni 1901-1902.

Vivekacudamani Avatārikai (வ�வகசட மண�அதவ ர��க) - Introduzione che Sri Ramana scrisse,

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Bibliografia

probabilmente nel 1903 o 1904, alla sua traduzione in prosa Tamildel grande poema filosofico di Sri Adi Sankara, Vivekacudamani.

Antichi testi tradotti da Sri Ramana

Bhagavad Gita Saram (பகவ� கத ச ரம) La 'Essenzadella Bhagavad Gītā', una selezione di quarantadue versi dellaBhagavad Gītā che Sri Ramana ha tradotto come una poesiaTamil.

Insegnamenti orali di Sri Ramanaregistrati da Sri Muruganar

Guru Vācaka Kovai (கரவ சகக �க �வ) - la 'Serie Deidetti del Guru'. La raccolta più completa e affidabile dei detti diSri Ramana, registrata in 1255 versi Tamil composti da SriMuruganar, con l'aggiunta di 42 versi composti da Sri Ramana (dicui 27 inclusi in Upadēśa Taṉippākkaḷ, 12 in Uḷḷadu NāṟpaduAnubandham, 2 in

Ēkātma Pañcakam and 1 in Uḷḷadu Nāṟpadu. Gli originaliTamil della maggior parte di queste opere sono disponibili indiversi libri, spesso con le spiegazioni di base o commentidettagliati, e molte traduzioni di loro sono disponibili in varielingue. Tuttavia, la principale fonte di tutti loro, tranne UpadēśaTaṉippākkaḷ e Guru Vācaka Kōvai, è Śrī Ramaṇa Nūṯṟiraṭṭu (ஸரமண நறறரடட) Opere complete di Sri Ramana, pubblicatoda Sri Ramanasramam, Tiruvannamalai, Tamil Nadu, India(www.sriramanamaharshi.org).

La principale fonte di Upadēśa Taṉippākkaḷ è ŚrīRamaṇōpadēśa Nūṉmālai - Viḷakkavurai (ஸ ரம�ண பத�ச

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நன ம �ல - வளககவ�ர), un commento Tamil di Sri SadhuOm su tutte le poesie filosofiche di Sri Ramana, pubblicato da SriArunachalaramana Nilayam, Tiruvannamalai, India(www.sriarunachalaramananilayam.org).

Il testo originale Tamil del Guru Vācaka Kovai, e unatraduzione in prosa Tamil da Sri Sadhu Om, sono pubblicati in duevolumi separati da Sri Ramanasramam.

Una traduzione completa Inglese, di Sri Sadhu Om e me stesso,unitamente alle osservazioni da parte sia di Sri Muruganar sia diSri Sadhu Om, è pubblicata separatamente da SriArunachalaramana Nilayam

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Glossario

In questo glossario: {T} dopo una parola, indica che si tratta diTamil; {TS} indica che si tratta di una forma Tamil di una parolasanscrita; {Ts} indica che si tratta di una parola o una frase Tamilderivata in parte dal sanscrito; {S} indica che è Sanscrito (lamaggior parte delle parole sanscrite qui elencate sono anche usatefrequentemente nella letteratura spirituale Tamil, o nella stessaforma o in una forma eufonicamente modificata).

Aa {T} che, chi (un prefisso dimostrativo)ā {T} venire in essere, diventare, essere, accadere, accade, fare,essere completato, essere in forma, essere appropriato, esserecorretto - vedi ādal, ām, āy, etc.abheda {S} non diverso, indiviso, identicoadal {T} essere, divenire (sostantivo verbale formata da una)aḍaṅgi {T} cedevole, la presentazione, cedimento (participioverbale di aḍaṅgu)aḍaṅgu {T} rendimento, a presentare, placarsi, ridursi, esseresottomesso, ancora risolvere, cessare, scompaiono - vedi aḍaṅgiadaṟku {T} per taleadaṟku aḍaṅgi-y-irāmal {T} 'invece di aver ceduto a quel'adhara {S} supporto, substrato, suolo, containeradhiṣṭhāna {S} posto in piedi, base, substrato, suolo, dimoraādi {S} inizioādi-guru {S} guru originalea-dvi-tā {S} non-dualitàadvaita {S} non-dualitàAdvaita Vedanta {S} Vedanta non-dualisticaaham {S} 'Io'aham {T} dentro, il cuore, casa, dimora, lo spazioahaṁ brahmasmi {S} 'Io sono Brahman'

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ahamukham {Ts} rivolto verso l'interno, l'introspezione,introversione, 'Io' avanti di fronte, auto-attenzioneahandai {TS} (Ahanta {S}) egoahantā (ahaṁtā) {S} egoità, ego - vedi ahandaiāhāra {S} ciboāhāra-niyama {S} alimentare moderazioneahiṁsā {S} non nuocereajñāna {S} ignoranza, la mancanza di conoscenza di sé - vediajnaniajñāni {S} una persona che manca di conoscenza di séākāśa {S} spazio - vedi bhūtākāśa; cidākāśa; cittākāśaakhaṇḍa {S} ininterrotta, non frammentato, indiviso, indivisibile,tutto, interoakṣara {S} imperituro, lettera [dell'alfabeto], sillaba - vedi ŚrīAruṇācala Akṣaramaṇamālaiakṣaramaṇamālai (akṣara-maṇa-mālai) {Ts} ghirlanda dimatrimonio, di lettere, fragrante ghirlanda di lettere, ghirlanda diunione imperitura - vedi Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālaiallāh {arabo} Dioam {T} bellezza (o prima di una parola che inizia con 'm', am puòanche essere il prefix dimostrativo 'a' = un [che significa 'che' o'quelli'] (con un extra 'm' aggiunto per eufonia)ām {T} [egli] è, [essi] sono (futuro singolare o plurale o abitualeterza persona di 'a' = uno; che è, che sono, chi è, chi sono (futuroo abituale participio relativo di un)amalaka {S} un frutto con dimensioni dell'uvaamar {T} risiedere, restare, essere seduto, diventare fermo,calma, riposo,sistemareamarndu {T} assestamento, dopo aver sistemato (senza tempoparticipio verbale di amar)anādi {S} senza inizioānanda {S} felicità, la gioia, la beatitudine (vedi anche sat-cit-ananda)ānandamaya kōśa {S} 'guaina' composta di felicità (l'auto-

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Glossario

ignoranza che resta nel sonno, anche se la mente è placata)ananta {S} infinitaananya {S} non altri, non altro, otherless senza alteritàananya bhāva{S} meditazione su [Dio] non altro [che noi stessi]anātmā {S} non-sé, non autoanattā {Pali} (Anatman {S}) non-sé, non sé, priva di sé, nessunaséAnbu {T} amoreaṉbu pūṇumē{T} essere posseduto con l'amoreaṉḏṟi {T} eccezione, inoltre, nonāṉmā {TS} (Ātmā {S}) autoāṉma-viddai {TS} (Atma-Vidya {S}) scienza di sé (vedi ancheAnma-Viddai; Atmavidya)Āṉma-Viddai {TS} '[cantico su] Scienza del Sé'annamayakosa {S} 'guaina' composta di cibo (il corpo fisico)anta {S} endantar {S} all'interno, dentroantarmukham {TS} rivolto verso l'interno, l'introspezione,l'introversione, l'auto-attenzioneanubandham {TS} appendice, appendice, supplemento - vediUḷḷadu Nāṟpadu Anubandhamanugraha {S} grazia, gentilezzaanusandhāna (anusaṁdhāna) {S} indagine, controlloravvicinato, la contemplazioneaṇu {S} atomoaṇuvum (anu-v-um) {Ts} anche un atomoanya {S} altro, un altroanya bhāva {S} meditazione su [Dio come] altro [che noi stessi]ār{T} che (interrogativo, pronome personale) - vedi Nan-Ar?, yarār {T} diventa pieno, si sviluppa su, risiede, essere, si combinacon, mangiare, esperienza, ottenere, messo su, usura, cingere,unire (utilizzato anche in poesia come un participio significatorelativo, 'che è', 'che si combina con', 'che è vincolato da')ārāy {T} indagare, scrutare, esaminare, ispezionare, esplorare

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ārāycci {T} indagine, controllo, ispezione, l'esplorazione, laricercaari {T} conoscere, sapere, esperienza, essere consapevole di -vedi Arivu, aṟiyādu, eccarive (Arivu-e) {T} coscienza da sola, la coscienza certamenteaṟivē nāṉ {T} coscienza da solo [o certamente] è 'I'aṟivu {T} conoscenza, coscienza (sostantivo formato da aṟi)aṟiyādē (aṟiyādu-e) {T} non solo conoscendoaṟiyādē muyalum {T}, 'che [noi] pratichiamo solo [a causa di]non sapere'aṟiyādu {T} non sapere (negativo participio verbale di aṟi)artha {S} scopo, lo scopo, il significato, la sostanza, la ricchezza,proprietà, oggetto, cosaaruḷ {T} grazia, benevolenzaaruḷum vēṇumē {T} grazia è certamente necessariaaruṇācala {TS} Arunachala (il nome del colle sacro ai piedi delquale Sri Ramana visse, e che ha adorato come unamanifestazione fisica di Dio e guru, il nostro vero sé)Aruṇācala Akṣaramaṇamālai {Ts} - vedi Śrī AruṇācalaAkṣaramaṇamālaiAruṇācala Aṣṭakam {TS} - vedi Śrī Aruṇācala Aṣṭakamāśā {S} desiderio - vedi nirāśāasaiyādu {T} [it] non si muoveāsana {S} seduta, costante, la posturaasat {S} irreale, inesistenteasher {Ebraico} quello, chi, che, cosa (a 'relativizer', una parolache indica una proposizione relativa, come un pronome relativo ininglese)asi {S} [tu] sei - vedi tat tvam asiasmi {S} [Io] sonoaṣṭakam {TS} collezione di otto pezzi (in particolare una poesiadi otto versi) - vedi Śrī Aruṇācala Aṣṭakamashrama {S} 'ashram', eremo, dimora di un asceta, istituzionereligiosa formata attorno ad una dimora, dimora di una comunità

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Glossario

religiosaaṣṭan (aṣṭa in composite) {S} ottoasti {S} [egli] è, [egli] esiste, c'è, l'esistenza, la presenza, essendoasti-bhāti-priya {S} essere-illuminazione-amoreasubha {S} brutto, spiacevole, sgradevole, infausto, maleaśubha vāsanā {S} propensione sgradevoleatiśaya śakti {S} potere straordinario, meraviglioso potereatītam {TS} ciò che è andato al di là, ciò che trascendeātmā {S} sé, lo spirito (forma nominativo singolare dell'Atman,usato in Tamil sia come il suo nominativo che la sua base flessiva)ātmānusandhāna (Atma-anusaṁdhāna) {S} auto-indagine,auto-contemplazioneātma-cintana {S} auto-contemplazioneātma-jñāna {S} conoscenza di séātma-jñāna {S} saggio, colui che conosce séātman (Atma in composite, Ātmā in nominativo) {S} sé, lospirito, l'anima, la vita, l'essenza (serve anche come pronomeriflessivo per tutte le persone e generi: se stessi, me stesso, te, si,noi stessi, ecc)ātma-niṣṭha {S} self-dimorare, fissata in séātma-saṁsthaṁ manaḥ kṛtvā {S} 'aver reso la mente ferma nelsé'ātma-siddhi {S} auto-realizzazioneātma-sukha {S} self-felicitàātma-svarūpa {S} il nostro sé essenziale, la 'forma propria' dinoi stessiātma-vicāra {S} auto-indagine, l'auto-controllo, l'auto-attenzione,auto-inchiestaātma-vidyā {S} scienza di séĀtma-Vidyā Kīrtanam {TS} 'Cantico della Scienza del Sé'ātmāvil (Atma-v-il) {TS} in sé (forma locativa singolare diĀtmā)a-t-taṉmai {T} quella prima personaāttumā {TS} (Ātmā {S}) sé

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avaṉ {T} haavaṉ aruḷ aṉḏṟi ōr aṇuvum asaiyādu {T} 'se non per la suagrazia, nemmeno un atomo si muove'āvaraṇa {S} mantello, velare, nascondere, occultare, oscurareāvaraṇa śakti {S} potere del velo, nascondere, oscuramentoavastha {S} stato, condizioneavatārikai {TS} (avatārikā {S}) introduzioneay {T}, essendo divenuto, essendo, come (participio verbale di ā,spesso usato come suffisso avverbiale, come '- ly' in inglese)ayaṁ {S} questaayaṁ ātmā brahma {S} 'questa sé è Brahman'

Bbahirmukham {TS} rivolta verso l'esterno, estroversioneBhagavad Gita {S} 'Divine Song', 'Canzone di Dio'Bhagavad Gita Saram {TS} 'L'essenza della Canzone di Dio'Bhagavân {S} Signore, DioBhâgavatam {S} '[Libro] di Dio' - vedi Bhagavatambhakti {S} devozione, amorebhakti-marga {S} sentiero della devozioneBhati {S} brillante, la luce, l'illuminazione, la conoscenza, lacoscienzabhava {S} essere, stato, stato di essere, modo di pensare,l'atteggiamento, idea, concetto, parere, la convinzione, lacontemplazione, la meditazioneBhavana {S} forma nella mente, l'immaginazione, il pensiero, lameditazionebhramaṇa {S} esitazioni, smarrimento, confusionebhūtākāśa (bhùta-Akasa) {S} spazio fisicobrahman (brahma nei compositi e nei nominativi neutro [danon confondere con il maschile nominativo, Brahma, che è unnome di Dio come creatore]) {S} Dio (l'essere puro,impersonale), la realtà assoluta, lo spirito infinito, l'unico non

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Glossario

duale essere coscienza, 'Io sono', il nostro essere essenziale o verosé, la fonte, base e sostanza di tutte le cosebrahma-rsi {S} saggio, che si sperimenta come BrahmanBrahma Sutra {S} 'Aforismi su Brahman'buddhi {S} intelletto, la mente, la facoltà di discernimento, ladiscriminazione, la ragione, comprensione (vedi anche Dehatmabuddhi)

Ccakra {S} ruota, cerchio, centro mistico del corpocāvādavar {T} - vedi sāvādavarcāyndiḍum {T} - vedi sāyndiḍumcidākāśa (cit-Akasa) {S} spazio della coscienzacintana {S} pensiero, il pensiero, la meditazione - vedi Atma-cintanacit {S} facoltà di conoscere e sperimentare, quello che conosce,sperimenta o è cosciente, consapevolezza (particolarmente puracoscienza non-oggettiva), consapevolezza (che significaconoscere, sperimentare, cognizione, percepire, osservare,occuparsi, essere attenti, essere coscienti); (come altre paroletamil e sanscrito che sono tradotte come 'coscienza' o'consapevolezza', come aṟivu, uṇarvu, jñāna e rajñāna, negliinsegnamenti di Sri Ramana cit significa non solo lo stato diessere cosciente, ma più specificamente, che è cosciente, cioè noistessi)cit-Jada-granthi {S} il nodo che lega la coscienza alla non-coscienza [corpo]cit-śakti {S} potere della coscienzacitta {S} mente, volontà, facoltà di volontàcittākāśa (citta-Akasa) {S} spazio-mentecitta-bhramaṇa {S} esitazioni mentale, disorientamento,confusionecitta-suddhi {S} purificazione della mente

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cittattiṉ {TS}della mente (una forma di cittam, spesso servecome una forma genitiva)cittattiṉ śānti {TS} pace della mentecogito ergo sum {latino} '[I] penso quindi [Io] sono'col {T} - vedi solcoṯporuḷ {T} - vedi soṯporuḷcūḍāmaṇi (cuda-Mani) {S} gioiello - diademacumma {T} - vedi Summacummā-v-iru {T} - vedi Summa iru

Ddarśana {S} vedere, guardare, la percezione, il discernimento, lavisione, l'esperienzadaśamaṉ {TS} decimo uomo (un sostantivo personale formato dadaśama, decimo)dēha {S} corpodēhātma buddhi {S} 'il corpo [è] idea di me stesso', il senso di'io sono il corpo'dēva {S} dio, divinità, essere divinodharma {S} ciò che sostiene, supporta, sostiene, conserva,mantiene trattiene, mantiene in luogo o regola; la natura, lafunzione, il dovere, l'obbligo, la giustizia, correttezzafondamentale, ordine, come qualsiasi cosa deve essere o agire,legge morale, la giustizia, religione [come modo ordinato ecorretto di vita, piuttosto che come un insieme particolare dicredenze o dottrine], la legge [della natura umana e lo sviluppospirituale] ('Dharma' è un concetto estremamente importante eprofondamente significativo in tutte le filosofie e religioni diorigine indiana, che sono collettivamente descritti come 'religionidharmiche'. La parola deriva dalla DHR radice verbale, chesignifica tenere, difendere, trasportare, sostegno, sostenere,preservare, mantenere, tenere insieme, trattenere, frenare, tenerein luogo, controllare o regolare; tutto - anche un oggettoinsensibile, un elemento come il fuoco o nell'acqua, o di qualsiasi

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Glossario

qualità astratta - ha un proprio dharma, ciò che tiene insieme, ilche rende quello che è, impedendole di essere qualsiasi altra cosa,la sua natura essenziale, la sua particolare proprietà o la qualità, lasua funzione, il suo 'dovere', il suo ordine, come dovrebbe essereo di un atto, la legge del suo essere e di azione; visto che siamosenziente, esseri razionali e sociali, con un senso di giusto esbagliato, e che aspirano a salire al di sopra dei limiti della nostrapresente finitezza, il nostra dharma include la nostra moraledharma, il nostro dharma sociale, il nostro dharma religioso, ilnostro dharma spirituale; i nostri doveri naturali e obblighi in ogniambito della nostra vita, tutti insieme costituiscono il nostrosvadharma o 'proprio dharma'; analogamente, ogni società osezione di società, ogni professione o mestiere, ogni ruolo sociale,ogni relazione familiare, ogni modo di vita o fase della vita, hauna sua particolare dharma)dhātu {S} strato, elemento costitutivo, ingredientedhyai {S} contemplare, meditare, pensare, immaginare,rammentare, tenere a mentedhyāna {S} contemplazione, la meditazione, la consapevolezza,l'attenzionedirgha {S} di lunga duratadṛg {S} vedi dṛśdṛg-dṛśya-vivēka {S} discriminazione tra il vedente e il vistodṛś (dṛk o dṛg nei composti) {S} vedere, guardare, conoscere,discernere, vista, occhio, quello che vede, quello che conosce (lacoscienza, il soggetto, veggente o conoscitore)dṛśya {S} oggetto visibile, ciò che si vede, ciò che è conosciuto(l'oggetto, visto o noto)dṛṣṭi {S} vedere, vistadvaita {S} dualitàdvandva (dvaṁdva) {S} paio [di opposti] - vedi iraṭṭai

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E-ē {T} un intensificatore, un suffisso utilizzato per enfatizzare(che significa 'solo', 'se', 'certamente', 'anzi')edu {T} cosaedu nāṉ? {T} 'quello che [sono] Io?'ego {Greek} Ioego eimi {Greek} Sonoehyeh {Ebraico} [Io] sono, Io sonoehyeh asher ehyeh {Ebraico} '[Io] sono ciò che [Io] sono'eimi {Greek} [Io] sonoeka {S}, quelloēkāṉmā (ēkāṉma in compound) {TS} - vedi ēkātmanĒkāṉma Pañcakam {TS} - vedi Ekatma Pañcakamēkātman (Eka-ātman; Ekatma nel composto) {S} se stessi, 'sé,quello [la realtà]' (vedi anche Ekatma Pañcakam)Ekatma Pañcakam (Ēkāṉma Pañcakam) {TS} 'Cinque [Versi]sul Sé, l'Uno', 'Cinque [Versi] sulla Unicità del Sé'Ekatma vastu {S} l'unica sostanza del sé {T} pensare,considerare, meditare, scrutareeṉḏṟum {T} sempre, per sempre, costantementeeṉḏṟum taṉṉai viṉavum usāvāl {T} 'di indagine sottile, checostantemente scruta il sé'eṅgē {T} dove in effetti, ovunque (pronome interrogativa eṅgu,che significa 'dove', con intensificazione suffisso ē)eṅgē-y-irundālum irukkalām {T} 'ovunque [un] può essere[un] può essere', 'ovunque [si] può essere lasciato [un] essere'eṇṇa {T} quando [ci] pensiamo, consideriamo, meditare,esaminiamoeṇṇa naṙuvum {T} 'quando [siamo] esaminiamo, svanirà'eṉṉum {T} chi dice, cosa dice, che si chiama (un participiorelativo [come iti in sanscrito], che spesso funziona come levirgolette che racchiudono la precedente, parola o frase)enum {T} che dice, che dice, che si chiama (un'abbreviazionepoetica di eṉṉum)

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eppōdum {T} sempre, in ogni momentoergo {Latin} quindiēttiṉum {T} anche se uno adoraevaiyum {T} tuttoevaiyum Kanum {T} che vede tutto

Ggarbha {S} utero, embrionegati {S} modo, percorso, mezzi, rifugio, la liberazioneGita {S} canzone - vedi Bhagavad Gitagranthi {S}nodoguna {S} [finito] qualità, proprietà, un attributoguru {S} [spirituale] insegnante, guidaGuru Vācaka Kovai {T} 'Serie di detti del Guru'

Hhiṁsā {S} danno, lesione, feritohrdaya {S} cuore, anima, l'essenza

IIccha {S} voglia, desiderio, simpatia, inclinazioneiḍam{T} luogo, la posizione, la posizione, la stazione, luogo,situazione, stato, stanza, spazio, dimora, casa, terra (vedi anchemuviḍam)iladāl {T} poiché [it] non è, in quanto [it] è privo diiṉbu {T} felicitàiṉbu tōṇumē {T} 'felicità certamente comparirà'innan {T} così e così, come una personairāmal {T} non essere, senza essere, invece di essere (participioverbale negativo di IRU)

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iraṭṭai {T} paio [di opposti], dvandvairaṭṭaigaḷ {T} [coppie di opposti] (plurale di iraṭṭai)iru {T} essere, esistere, rimangonoiṟudi {T} fine, il limite, la cessazione, la morteiṟudi taṉṉai-y-uṇarndu tāṉ-ādal {T} 'infine conoscere noi stessi[e] di essere noi stessi'irukka {T} per essere, quando [si], quando [siamo] sonoirukkalām {T} lasciare [noi] essere, diciamo [un] essere, [si] puòessereirukkiṟēṉ {T} [I] sonoirundālum {T} anche se [un] è, anche se [un] èiruppadu {T} essere, già esistente, rimanendo (sostantivo verbaleformato da iru, sia, esiste, restano)iruḷ {T} tenebre (di auto-ignoranza), ignoranza spiritualeīśaṉ {TS} Dioīśaṉ sannidhāna {TS} (īśa-saṁnidhāna {S} presenza di Dio

Jjaḍa {S} non cosciente, insensibile, materiale, materia inanimatajāgrat {S} [stato] veglia, vegliajāgrat-suṣupti {S} sonno vegliajāla {S} net, rullante, web, l'inganno, la raccolta, moltitudinejapa {S} sussurrando, la ripetizione [di un nome di Dio, lapreghiera o mantra], l'invocazionejīva {S} vita, essere vivente, l'animajīvātmā {S} sé personale, animajñā {S} sa, essere consapevole di, cognise, accertare, l'esperienzajñāna {S} la conoscenza, la coscienza (spesso usato per indicareAtma-jñāna, auto-conoscenza)jñāna-dṛṣṭi {S} conoscenza vistajñāna-mārga {S} percorso di conoscenzajñāna-mātā {S} madre della conoscenzajñāna-vicāra {S} conoscenza dell'inchiesta

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jnanendriya {S} organo di sensojñāni {S} un conoscitore, saggio, uno che sa [auto]

Kkaḍa {T} passare attraverso, andare attraverso, superare,eccellere, trascendere, fuga dalla) - vedi kaḍandukaḍandu {T} trascendere (participio verbale di Kada)kaḍandu-uḷḷavaṉ {T} colui che esiste trascenderekaḍavuḷ {T} Diokālam {TS} tempokalaṅgārē (kalaṅgār-e) {T} che certamente non illudekaliveṇbā {T} una versione estesa del metro veṇbākalpanā {S} creazione mentale, l'immaginazione, lafabbricazione, l'immagine mentale - vedi kaṯpaṉaikan {T} eyekan {T} vedere, percepire, scoprire, conoscere, esperienza(utilizzato anche in poesia come un verbale sostantivo chesignifica 'vedere', ecc)kaṇḍavarē (kaṇḍavar-e) {T} solo coloro che hanno vistokāṇum {T} che vede, percepisce, conosce (participio relativa diKAN)kāraṇa {S} causakāraṇa śarīra {S} corpo causalekāraṇam illāda karuṇai {T} grazia senza causakarma {S} azione, attivitàkarma-mārga {S} sentiero dell'azionekarma-vāsanā {S} propensione o desiderio che spinge a farericorsokarmēndriya {S} organo di azionekartrtva {S} doershipkaru {T} (garbha {S}) embrioni, uova, causa efficientekaruṇā {S} compassione, graziakaruṇai {T} - vedi Karuna

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karuvām ahandai (karu-v-ām ahandai) {Ts} 'ego, che èl'embrione'kāṭci {T} ciò che si vede, la vista, la visione, l'aspettokaṯpaṉai {Ts} (kalpanā {S}) creazione mentale, l'immaginazione,la fabbricazione, l'invenzione, immagine mentale, illusione,sovrapposizione illusoriakaṯpaṉaigaḷ {Ts} immaginazioni, illusioni, immagini mentali(forma plurale di kaṯpaṉai)kaupīna {T} perizomakēḷ {T} sentire, ascoltare, imparare, chiedere, domanda, indagarekhaṇḍa {S} rotto, frammentata, divisa, divisione, rottura, parte,frammentokirtanam {TS} canto, lodekōśa {S} 'guaina', che coprekōvai {T} incordatura, serie, successione, disposizione - vediGuru Vācaka Kovaikṛ {S} fare, creare, causa, effetto - vedi kṛtvā, kṛtyakṛtvā {S} aver fatto, reso (participio passato di kr)kṛtya {S} azione, la funzione - vedi pañcakṛtyakṣaṇika {S} momentaneakuṟaḷ veṇbā {T} una versione a due linee della metro veṇbākūr {T} essere abbondante, intenso, tagliente, acuto, acuta,penetrante - vedi kūrndakūrnda {T} affilato, appuntito, tagliente, acuto, acuta (participiopassato parente di kūr)kūrnda mati {Ts} acuto, penetrante, acuto, attento, concentrato,sottile, la mente discernente

Llaksya {S} scopo, obiettivo, obiettivolakṣyārtha (laksya-artha) {S} significato obiettivo/scopo,significato desiderato/intesolaya {S} sdraiata, subsidenza temporanea, sospeso

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Mmā {S} nonmahākartā (maha-karta) {S} la 'grande agente' (Dio)mahāraṇya (maha-aranya) {S} grande foresta, deserto, desertomaharṣi (maha-ṛṣi) {S} grande 'veggente', salviamahāvākya (mahā-vākya) {S} grande dettomahēśaṉ (mahā-īśaṉ) {TS} gran Signore, Diomai {T} tenebre, l'ignoranza-mai {T} suffisso che indica uno stato astratto o di qualità (simileal suffisso '-ness' in inglese) (vedi naṉmai anche, taṉmai, uṇmai;viṇmai)mālai {TS} (mālā {S}) Ghirlanda - vedi akṣaramaṇamālai enūṉmālaimanaḥ {S} mente (nominativo, accusativo e vocativo singolareforma di manas)maṉam {TS} (manas {S}) mentemaṇam (maṇa nel composto) {T} matrimonio, unione, fragranza- vedi Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālaimanana {T} pensare, riflettere, meditare, meditare, rifletteremanas {S} mente (vedi anche Manam)maṉattai {TS} mente (accusativo singolare forma di Manam)maṇḍapam {TS} sala del tempiomaṅgalam {TS} buon auspicio, strofa composta comeintroduzione di buon auspiciomaṉidaṉ {TS} (manu-ja {S}) uomo, persona di sesso maschilemāṉiḍaṉ {TS} (Manusa {S}) l'uomo, essere umanomāṉiḍaṉāy (māṉiḍaṉ-ay) {Ts} divenuto umano, essere umano,come esseri umani, come [un] uomomāṉiḍaṉāy irukkiṟēṉ {Ts} '[I] esistere come [a] man', '[I] sono[a] man'maṉṉu {T} essere permanente, sopportare, rimase a lungo,soggiorno, perseverare, essere costante, abbondano - vediMannummaṉṉum {T} che dura (participio relativa di Mannu)

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manō - (per manas nei composti) {S} mente, della mentemanōlaya {S} sospensione della mentemanōmaya kōśa {S} 'guaina' composto di mentemanōmayam {TS} (manomaya {S}), composta [solo] dellamentemanōmayam-ām kāṭci {T} 'visione che si compone di mente',fatto di mente aspettomanōnāśa {S} annichilimento della mentemanōnigraha {S} controllo/limitazione mentemantra {S} sacra sillaba, parola, frase (ad esempio il nome diDio o una preghiera)mantra-japa {S} ripetizione di un mantramārga {S} percorso, strada, mezzi (vedi anche Marga bhakti;jñāna Marga, karma marga; Yoga Marga; Vari)mātā {S} madremati {S} mente, l'intelletto, il potere di discernimento (vedi anchebuddhi, kūrnda mati; nun mati)matiyāl (mati-y-Al) {TS} dalla mente (forma strumentale dimati)mati-y-iladāl {T} 'dal momento che è privo di coscienza'Matra {S} mero, solo, nient'altromauna {S} silenzio-maya {S} suffisso che significa 'fatto di', 'composto di','costituita esclusivamente da' - vedi Anandamaya, annamaya,manomaya, Pranamaya, Tanmaya, vijnànamayamāyā {S} ciò che non è (vedi yā mā), illusione, inganno,autoingannomey {T} la realtà, la veritàmeypporuḷ (mey-p-poruḷ) {T} vera sostanza, la vera essenza, larealtà, Diomeypporuḷ-viḷakkam {T} luce della reale sostanza - la coscienzadi essere, 'Io sono'mita {S} misurato, moderatomudal {T} origine, la causa, la radice, la base

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muḍiyum {T} [it] finirà, cesserà, sarà possibilemukti {S} liberazione, emancipazionemuṉṉilai (muṉ-nilai) {T} 'quella che si trova di fronte', laseconda personamuppuḍi {Ts} (triputi {S}) triade, tre fattori [di conoscenzaoggettiva] (Conoscitore, conoscere e conosciuto)muppuḍigaḷ {Ts} triadi (forma plurale di muppuḍi)mūrti-dhyāna {S} meditazione su una forma [di Dio]muttoṙil (mu-t-toṙil) {T} triplice funzione [di Dio]mūviḍam (mū-v-iḍam) {T} 'tre luoghi', tre persone (ingrammatica) (vedi anche muṉṉilai; paḍarkkai; taṉmai)muyal {T} cominciare, si impegnano, tentativo, pratica, faresforzo, esercitare, perseverare - vedi muyalummuyalum {T} che [noi] intraprendiamo, pratichiamo (participiorelativo di muyal)

Nna-iti {S} 'non [questa]' (vedi anche neti neti)naḍakka {T} per camminare, andare, comportarsināḍu {T} ricercare, perseguire, ispezionare, esaminare, indagare,esplorare, conoscerenam {T} noi (inclusivo di chi è indirizzato)nāma-rūpa {S} nome-formanāṉ {T} 'I'Nāṉ-Ār?{T} 'Io [sono] Chi?', 'Chi sono Io?'nāṉ ār iḍam edu {T} 'chi sono Io? qual è il posto [da cui mialzai]?', 'ciò che è il luogo dove Io dimoro?'nāṉ eṉum sol-poruḷ {T} 'l'importazione della parola I'nāṉ iṉṉāṉ {T} 'I [am] così e così'nāṉ maṉidaṉ {T} 'I [Sono] uomo', 'I [Sono] persona di sessomaschile'nāṉ māṉiḍaṉ {T} 'I [Sono] uomo', 'io [sono] umano'nāṉ māṉiḍaṉāy irukkiṟēṉ {T} 'io esisto come [un] uomo', 'io

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sono [un] uomo'nāṉ nāṉ {T} 'Io [sono] Io'nāṉ yār? {T} 'Io [sono] chi?', 'Chi sono Io?'naṉavu {T} [stato] veglia, veglianaṉavu-tuyil {T} sonno veglianaṉmai (nal-mai) {T} bontà, giustizia, beneficio, la virtù, lamoralitànāṟpadu {T} quaranta - vedi Uḷḷadu Nāṟpadunaṙuvum {T} '[it] svanirà'nāśa {S} annientamento, distruzione - vedi manōnāśanāṭṭam {T} indagine, l'esame, il controllo, l'ispezione,l'osservazione, l'attenzione, attenzionenēti nēti (na-iti, na-iti) {S} 'non [questo], non [questo]' (cheimplica '[Io sono] non [questa aggiunta], né [questa aggiunta]',la parola iti è un indicatore quotativo che è equivalente all'uso divirgolette in inglese)nididhyāsana {S} contemplazione profonda, la meditazione,l'attenzione, l'osservazione, controllo (derivato dal verbo nidhyai,in cui il ni prefisso significa giù, in profondità, indietro, oall'interno, e dhyai significa contemplare o meditare, da cuidhyāna è derivato)nihaṙviṉai {T} tempo presentenihaṙvu (spesso traslitterato come nihaḻvu e trascritto vagamentecome nihazhvu) {T} tempo presenteniṉaivu {T} pensiero, la menteniṉḏṟa {T} che sorge, esiste, abita, rimane, resiste, continua, èpermanente (anche se in realtà il participio passato del verborelativo nil, indica permanenza e, quindi, implica la continuità dalpassato al futuro)nirāśā (nir-āśā) {S} senza desiderio, assenza di desiderinirguna (nir-guna) {S} senza qualità, senza [finite] proprietà, nonqualificatanirguṇa brahman {S} 'brahman senza [finite] qualita', la realtànon qualificato, Dio (come puro essere, 'Io sono', la base

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impersonale, sostanza essenziale o infinito tutto)nirguṇa upāsana {S} culto senza attributi, il culto della realtànon qualificato (Dio come puro essere)nirvāṇa {S} spinto fuori, estinto, estinzione, annientamentonistha (o nistha) {S} in piedi, fissato, fondata, essendo in,dimorare in, intenti su, dedicato a, attaccato a, costanza, fermezza,dimorare, attaccamento, devozione, applicazione, abilità,conoscenza, conoscenza certa di posizione, stato, statonitamum Mannum {T} 'che dura da sempre'nitya {S} innata, fissa, perpetua, eternaniyama {S} restrittivo, la moderazione, la restrizionenul {T} filo, trattato, testo scientifico, testo spirituale, Scrittura -vedi nūṉmālai e nūṯṟiraṭṭunuṇ {T} sottile, raffinato, preciso, acuto, affilato, discernendonūṉmālai (nūl-mālai) {Ts} ghirlanda di testi - vedi ŚrīRamaṉōpadēśa Nūṉmālainuṇ mati {T} mente esigentinūṯṟiraṭṭu (nul-tiraṭṭu) {T} raccolta di testi, compilazione ditesti - vedi Śrī Ramana Nūṯṟiraṭṭu

Ooḍukkiḍavē {T} quando viene sottomesso, ridotto, condensato,sciolta, fusa, distruttooḷi {T} luceoḷirum {T} [it] splendeoḷiyāl (oḷi-y-āl) {T} dalla luce (forma strumentale di oli)oṉḏṟu {T} unoōr {T} uno, unōr {T} considerare con attenzione, indagare, esaminare, conoscere(usato anche come una forma poetica del relativo participio ōrum)ōr vaṙi {T} 'un percorso', 'indagando percorso', 'conoscendopercorso', 'percorso di ricerca [o conoscere]'oru {T} uno, un

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ōrum {T} che indaga, che non conosce, indagare, conoscere(relativa participio OR)

Ppaḍarkkai {T} quella che si è diffusa fuori [e diventare remoto],la terza personapākkaḷ {T} versi (plurale di Pa) - vedi taṉippākkaḷpañcakam {TS} raccolta di cinque parti (in particolare una poesiadi cinque versi) - vedi Ekatma Pañcakampañca-kōśa {S} cinque 'involucri' o rivestimentipañcakṛtya (Panca-kṛtya) {S} cinque funzioni (di Dio)pañcan (pañca in composti) {S} cinquepañca vāyu {S} cinque 'soffi vitali'para-bhakti {S} devozione supremaparama-īśa-bhakti {S} - vedi paramēśa -bhaktiparama karuṇā {S} suprema compassioneparamartha (parama-artha) {S} obiettivo più eccellente,principio di significato, ultimo sostanza, vera essenza, la più altaverità, tutta la verità, la realtà ultimapāramārthika {S} legati alla realtà ultima, più vera, piùessenziale (aggettivale forma di paramartha)pāramārthika satya {S} verità essenziale, realtà ultima, la realtàassolutaparamàtman {S} suprema autoparamēśa-bhakti (parama-isa-bhakti) {S} suprema devozione aDiopāramārthika satya (parama-Isvara-Śakti) {S} potere supremodi Diopara-sukha {S} suprema felicitàparā-vāk {S} parola supremapati {S} signore, padrone, Diopāyiram {T} prefazione, introduzione (in particolare un verso oun gruppo di versi spiegare la genesi di un'opera o dare una

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sinossi del suo oggetto)pēr {T} nomepēr-uruvil {T} 'in nome e forma', 'senza nome e senza forma'piḍikka {T} a cui aggrapparsi (infinito di PIDI, presa, afferrare,tenere, si aggrappano a)piṇam {T} cadaverepiṇam pōl tīrndu uḍalam {T} 'lasciare il corpo come uncadavere'pōl {T} comepoṉ {T} oropōṉḏṟa {T} che assomigliapoṟi {T} organo di senso, menteporuḷ {T} sostanza, l'essenza, la realtàpoy {T} falsità, irrealtà, illusione, apparenza ingannevole (ancheusato come aggettivo per significa 'falso', 'irreale', 'illusorio')poy mai-y-ār niṉaivu aṇuvum uyyādu oḍukkiḍavē {T}'quando il pensiero, che è buio irreale, è distrutto senza farrivivere nemmeno uno iota'pōy {T} andare, essendo andatoprajñāna {S} coscienza pura (libero aggiunto autocoscienza, 'Iosono')prajñānaṁ brahma {S} 'pura coscienza è brahman'pramāda {S} intossicazione, negligenza, imprudenza,disattenzione (in una spirituale contesto, in particolare l'auto-negligenza o mancanza di auto-attenzione)prāṇa {S} respiro, vita, forza vitale, vitalitàprāṇamaya kōśa {S} 'guaina' composto di respiroprāṇāyāma {S} respiro moderazioneprārabdha {S} azione (karma) che ha cominciato a dare frutti,destino, fatoprasthāna {S} fonte, origine, punto di partenzaprasthāna-traya {S} triplice fontepratibhāsa {S} apparenza, apparenza, illusioneprātibhāsika {S} apparente, esistente solo come un aspetto

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prātibhāsika satya {S} realtà apparentepravrtti {S} sforzo uscente, attività estroversopriya {S} amore, gentilezza amorevole, amato, voluto, gradevolepuhaṙcci {T} lodi, applausi, apprezzamento, adulazione, elogio,fama, fama, gloria, celebritàpūṇumē {T} messo su, usura, essere ornato con, essere inpossesso di essere aggiogato a, essere intrappolato inpūjā {S} culto (culto particolare rituale), l'adorazione, lariverenzapūrṇa {S} pieno, pieno, completo, intero, intero, pienezza,completezza, interezzapuruṣa {S} uomo, essere umano, persona, primordiale 'persona',essere supremo, lo spirito (come l'origine e la sostanza di ognicosa originale)

Rrajas {S} passione, l'emozione, l'attività inquietarajō- (per rajas in compound) {S} passione, l'emozione, l'attivitàinquietorajoguna {S} la qualità della passione (rajas)ram {S} stabilirsi, diventata calma, riposo, esperienza di gioia,dare gioia, delizia, per favoreRamana {S} gioia, piacere, ciò che dà gioia, amato, amante,maritoRamana Nūṯṟiraṭṭu {Ts} - vedi Sri Ramana Nūṯṟiraṭṭuramaṇōpadēśa (ramaṇa-upadēśa) {Ts} insegnamenti di SriRamana - vedere Śrī Ramaṇōpadēśa NūṉmālaiRamaṉōpadēśa Nūṉmālai {Ts} - vedi Śrī RamaṉōpadēśaNūṉmālaiṛṣi {S} (comunemente trascritto come Rishi) 'veggente', salviarūpa {S} forma, aspetto esteriore, la natura (vedi anche nāma-rūpa; svarūpa)

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Sśabda {S} suono, rumore, parolaśabda jālaṁ mahāraṇyaṁ {S} 'grande foresta di insidie diparole'saccidananda (sat-cit-ānanda) {S} essere-coscienza-beatitudine(vedi anche satcitānanda)sadā {S} sempre, sempre, sempre, perpetuamentesadākālam (sadā-kālam) {TS} sempre, in ogni momentosadākālamum maṉattai ātmāvil vaittiruppadu {T} 'esseresempre tenendo la mente fissata nel sé'sadguru (sat-guru) {S} vero guru, essendo-guru, vero maestrospiritualesādhakattil {TS} nella pratica spirituale (locativo singolare formadi sādhakam)sadhu {S} brava persona, persona gentile, persona santa,mendicante religiososaguṇa (sa-guṇa) {S} con qualità, con [finiti] immobili,qualificatisaguṇa brahman {S} 'brahman con [finite] qualita', la realtàqualificata, Dio (come una 'persona' o essere separato)saguṇa upāsana {S} culto con attributi, il culto della realtàqualificata (Dio come persona)sahitar {TS} persona che è unita, connessa, associata a, inpossesso diśakti {S} poteresamādhi {S} stato di quiete mentale, subsidenza, l'assorbimento,compostezza, intenso la meditazione, la contemplazione costantesaṁhāra {S} disegno insieme, la chiusura, la contrazione, ladissoluzione, distruzione [dell'universo]saṁsāra {S} scorre insieme, andare in giro, vagando, diffondendotra, essendo diffusa, spostamento a fondo, attività inquieta[mentale]saṁstha {S} in piedi insieme, in piedi saldamente, dimorare,riposa in, essendo come

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śanaiḥ śanair (śanais śanais) {S} dolcemente, con calma egradualmenteśanais {S} con calma, in silenzio, dolcemente, delicatamente, apoco a pocosanātana {S} antica, primordiale, eterno, eterno, costante,perpetuaSanatana Dharma {S} ciò che sostiene eternamente,, sostiene,tiene insieme, mantiene in luogo o regola; legge eterna [dellanatura umana e sviluppo spirituale], eterno 'religione' (cioè, lareligione come un ordinato e corretto modo di vita, piuttosto checome un particolare insieme di credenze o dottrine)sankalpa (saṁkalpa) {S} volontà, intenzione, desiderio, volontà,desideriosankalpa sahitar {TS} persona in possesso di volontàsannidhāna (saṁnidhāna) {S} vicinanza, presenzaśānti {S} pace, tranquillità, calmasapta {S} settesapta dhātu {S} sette componenti [del corpo fisico] (ossia chilo,sangue, carne, grasso, ossa, midollo e sperma)sāra {S} essenza, la sostanza, nucleo, midollo (vedi anche saram)sāram {TS} essenzasarira {S} corposarva {S} tutto, tutto, tutto, ognisarvakartā (sarva-karta) {S} tutto agente, quello che fa di tutto(Dio)śāstra {S} regola, precetto, insegnamento, istruzione, libro,trattato scientifico, religioso trattato, Scrittura, libro sacrosat {S} essere, già esistente, l'esistenza, quello che è, la realtà, laverità, l'essenza, reale, vero, giusto, buono, onesto, saggiosat-bhāva {S} essere reale, stato di esseresat-cit {S} essere-coscienzasat-cit-ānanda {S} essere-coscienza-beatitudinesattva {S} essere-ness, la realtà, la calma, la chiarezza, la purezza(la vera natura o essenza della mente e tutte le sue creazioni)

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sattva-guna {S} qualità di essere-ness, calma, chiarezza, lapurezzasāttvika {S} puro, incontaminato, dotato di sattvasatya {S} vera, reale, la verità, la realtàsāvādavar {T} coloro che non muoiono, immortalisāyndiḍum {T} [it] pende verso il basso, si china, si sdraia, pause(come ramo sotto pressione)siddha {S} compiuta, soddisfatta, effettuata, raggiunto, raggiunto,ha acquisito, persona che ha compiuto [sia un obiettivo spiritualeo non spirituale]siddhi {S} realizzazione, realizzazione [spirituale osoprannaturale], miracoloso potenzaśiva-svarūpa {S} Dio come nostro 'propria forma' o vero sé, larealtà assolutasmarana {S} ricordare, tenendo conto, ricordo, laconsapevolezza, attenzione, la meditazionesol {T} parola, termine, dicendo (anche un verbo che significadire, parlare)sol-poruḷ {T} - vedi soṯporuḷsoṯporuḷ (sol-poruḷ) {T} sostanza della parola (la sostanza,l'importazione o il significato di una parola)sorūpam {TS} (svarupa {S}) 'propria forma', essenziale séśravaṇa {S} 'udienza', l'apprendimento, lo studio, la letturaśrī {S} luce, lustro, radiosità, splendore (spesso usato come unprefisso onorifico [intendendo 'sacro'] prima dei nomi di divinità,santi, luoghi o oggetti)Śrī Aruṇācala Akṣaramaṇamālai {T} 'Ghirlanda di lettere delmatrimonio con Sri Arunachala', 'Fragrante Ghirlanda di Letterea Sri Arunachala', 'Ghirlanda di Imperitura unione con SriArunachala'Śrī Aruṇācala Aṣṭakam {TS} 'Otto [Versi] a Sri Arunachala'Śrīmad Bhagavatam {S} 'Sacro [Libro] di Dio'Sri Ramana Nūṯṟiraṭṭu {T} 'Raccolta di testi di Sri Ramana','Raccolta Opere di Sri Ramana'

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Śrī Ramaṇōpadēśa Nūṉmālai-Viḷakkavurai {T} 'CommentarioSri Ramana di Upadesa Nūṉmālai (Ghirlanda di testi didattici)'sṛṣṭi {S} lasciarsi andare, portando avanti, lo scarico, l'emissione,la proiezione, la creazione [dell'universo]Sthana {S} in piedi, stato, situazione, luogo, località, dimorasthiti {S} standing, stare, continua, durevole, manutenzione,sostentamento [del universo], stato, situazione, statosthūla {S} massiccia, lordo, materiale, fisicosthūla dēha {S} corpo fisicosthūla śarīra {S} corpo fisicośubha {S} luminoso, bello, gradevole, piacevole, di buonauspicio, buono, giusto, virtuosa, puraśubha vāsanā {S} buona inclinazione, propensione gradevoleśuddhi {S} pulizia, la purificazione, la purezza, chiarezzasukha {S} facile, piacevole, gradevole, facilità, comfort, lafelicitàsūkṣma {S} sottile, fine, minuto, appassionato, acuto, affilatosūkṣma śarīra {S} corpo sottile (la mente, ego o anima)sum {latino} '[io] sono'summā {T} facile, piacevole, inoperose, a riposo, a proprio agio,in pace, felici, tranquilli, in silenzio, a malapena, solo, solo(derivato da sukhamā, una forma avverbiale Tamil della parolasanscrita sukha)summā amarndu irukka (summā-v-amarndirukka) {T}'quando [un] appena è, avendo costante'summā iru (summā-v-iru) {T} essere solo, tranquillamenteessere, essere senza attività [della mente, discorso o corpo]summā irukkalām (summā-v-irukkalām) {T} 'cerchiamo solodi essere'summā iruppadu (summā-v-iruppadu) {T} solo di essereśūnya {S} vuotosusupti {S} sonno (sonno profondo e senza sogni)sūtra {S} fili, corde, spago, breve stringa di parole, aforisma,istruzioni concise, testo costituito da una serie di aforismi

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(istruzioni, in particolare aforismi)sva {S} proprio (riferimento a qualsiasi delle tre persone o tre ilnumero [singolare, doppio o plurale]), la propria, se stessi (serveanche [come ātman] come un pronome riflessivo)svarūpa {S} propria forma, natura, essenziale autosvarūpa-darśana {S} vedendo il sé, auto-discernimento,esperienza di sésvarūpa-dhyāna {S} attenzione al sé, auto-contemplazione, diauto-meditazionesvarūpa-smarana {S} ricordo del sé, auto-attenzionesva-svarūpa-anusandhāna {S} auto-indagine, auto-controllo,contemplazione del sé, auto-attenzione, attenzione al sé.

Ttalai {T} testa (letteralmente o metaforicamente)talai-sāyndiḍum {T} [it] testa-piegata, diventa testa piegata, siblocca [sua] testa [vergogna o modestia], muoretamas {S} tenebre, illusionetamo - (per tamas nei composti) {S} tenebre, illusionetamoguna {S} qualità delle tenebre (tamas)taṉ {T} auto sé (base inflessionale di tāṉ, e la sua forma indiretta,spesso utilizzato come genitivo [di sé, la sua, lei, la sua, proprio])tāṉ {T} sé (serve anche come pronome di terza persona [lui, lei oit], un indefinito pronome [uno o nessuno], il pronome riflessivoper tutte le persone e generi [se stessi, io, te, si, noi stessi, ecc], eun suffisso intensificativo [certamente, solo o da sola])tāṉ-ādal {T} divenire sé, essendo sétāṉ ām avaṉ {T} 'colui che è il sé'taṉadu {T} di sé, la sua, lei, la sua, la propria (una forma genitivodi tan)taṉadu oḷiyāl eppōdum uḷḷadu {T} 'quella che esiste da sempredi luce propria'tāṉē (tāṉ-ē) {T} sé stessa, sé sola, self certamente

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tāṉē tāṉē tattuvam {T} 'il sé da solo è certamente la realtà'taṉi {T} unicità, la solitudine, l'indipendenza, l'unicità, la purezza(anche usato come aggettivo) - vedi taṉippākkaḷtaṉippākkaḷ (tani-p-pākkaḷ) {T} versi solitari - vedi UpadesaTaṉippākkaḷtaṉmai (tan-mai) {T} 'self -ness', la prima persona, lo stato di sétaṉmaiyiṉ (taṉmai-y-in) {T} della prima persona (una forma nelcaso indiretto di taṉmai, usato come genitivo)taṉmaiyiṉ uṇmai {T} la verità della prima personatanmatra (tat-matra) {S} egli-solo, solo che, elementofondamentale, l'essenzatanmayānanda (tat-maya-ananda) {S} beatitudine compostasolo di tat ('egli', l'assoluta realtà)Tanmaya-nistha (tat-maya-nistha) {S} dimorare come tat ('it', larealtà assoluta)Tannai {T} sé (accusativo forma singolare di tan)Tannai-y-uṇarndu {T} conoscendo sétaṉṉāṭṭam (tan-nāṭṭam) {T} auto-indagine, auto-osservazione,auto-controllo, auto-attenzionetaṉṉuḷ (taṉ-ṉ-uḷ) {T} dentro di sé, in se stessitāṙ {T} cadere in basso, scendere, declino, lavello, placarsi,soggiorno, stop, riposo, chinarsi, arco giù, essere sottomessotāṙndu {T} cadere basso, cedimento, inchinarsi, essendosottomesso, essere umili (participio verbale di tāṙ)tat {S},egli, questo, che (il pronome terza persona, che vieneutilizzato nella filosofia per denotare brahman, quella non dualerealtà assoluta)tat tvam asi {S} 'ciò che sei', 'quello che tu sei'tattuvam {TS} realtà - vedi tattvatattva (tat-tva) {S} it-ness, that-ness, la realtà, la verità, principio(usato per indicare sia l'unica realtà assoluta che uno qualsiasi deiprincipi ontologici variamente enumerati)tēḍu {T} cercare, ricercare, indagare, esaminare, indagareTipiṭaka {Pali} (Tripitaka {S}) 'Tre cesti' (la più antica raccolta

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scritta degli insegnamenti del Buddha, popolarmente noto come il'Canone Pali')tiraṭṭu {T} raccolta, la raccolta, la compilazione - vedi nūṯṟiraṭṭutirōbhāva {S} - vedi tirōdhānatirōdhāna {S} occultamento, oscuramento, velandotīr {T} end, scadenza, svanire, separato, lasciare, cessare, morire,perire - vedi tīrndutīrndu {T} finale, separare, lasciando (participio verbale di TIR)Tiru {T} luminosità, brillantezza, lucentezza, splendore,eminenza, distinzione, fortuna, benedizione, la santità, la sacralità,la divinità (usato come lo Sri come un prefisso onorifico [chesignifica 'sacro'] prima dei nomi di divinità, santi, luoghi ooggetti) - vedi tiruvaruḷtiruvaruḷ (tiru-v-aruḷ) {T} grazia divinatōṉḏṟum {T} [it] apparirà, sorgere, diventare visibile, venire inmente, essere conosciuto, diventare chiarotōṇumē {T} [egli] certamente appare, farsi conosceretraya {S} triplo, triplice, composto da tretriputi {S} triade, tre fattori [di conoscenza oggettiva](conoscitore, conoscenza e conosciuto)turiya {TS} (Turya {S}) quarto (il 'quarto' stato, lo stato dichiara autocoscienza libero dal pensiero, noto anche come 'sonnoveglia')turiya {S} quarto (il 'quarto' stato)Turiya (o Turya) avastha {S} il quarto statoturiyatita (turiya-atīta) {S} il quarto-trascendente, ciò chetrascende: il quarto (un nome alternativo di turiya, così chiamataperché trascende i tre stati falsi di coscienza, veglia, sogno esonno, e quindi non è in realtà il 'quarto' ma l'unico stato reale)turiya-v-atīta {TS} (turiyatita {S}) quarto trascendenteTurya {S} quarto (il 'quarto' stato)tuyil {T} sonno

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Uuḍal {T} corpouḍal nāṉ {T} '[questo] corpo [è] io', 'io [sono questo] corpo'uḍal nāṉ eṉṉum a-t-taṉmai {T} che in prima persona, che sichiama 'io [sono questo] corpo'uḍalam {T} corpoUdana {S / pali} 'esaltazione gioiosa'ūkkam {T} impulso, ardore, zelo, fatica, sforzo, fermaconvinzioneūkkam-uḷḷavaṉ {T} chi ha zelo, colui che fa [serio] sforzouḷ {T} essere, esistere, hanno (un verbo senza tempi, da cui lamaggior parte delle seguenti parole che cominciano con ul sonoderivate)uḷ {T} dentro, dentro, interno, cuore, menteuḷ-mai {T} 'be'-ness, (l'essenza di essere 'am'-ness (l'essenza di'Io sono')ulla {T} per essere, che è, che è, essendo (come aggettivo),esistente, reale, vero, reale (infinito, participio relativa e la formaaggettivo di UL)ulla {T} per pensare (infinito di uḷḷu, pensare, cogitare, meditare)uḷḷa-poruḷ {T} sostanza che è, vera sostanza, essendo essenza, larealtà esistenteuḷḷa-v-uṇarvu {T} coscienza che è, la coscienza esistente,essendo consapevolezza, coscienza realeuḷḷadē (uḷḷadu-ē) {T} solo essereuḷḷadu {T} essere (sostantivo verbale formato da uḷ, essere), ciòche è (uḷḷa-adu), quello che [davvero] esisteUḷḷadu Nāṟpadu {T} 'Forty [Versetti] sul Being', 'Quaranta[Versi] su ciò che è'Uḷḷadu Nāṟpadu Anubandham {T} 'appendice dell'UḷḷaduNāṟpadu'uḷḷal {T} pensiero, il pensiero, la meditazione (sostantivo verbaleformato da ullu)uḷḷam {T} mente, cuore, anima spirituale (anche una forma

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poetica di uḷḷōm, il che significa '[noi] siamo', e che è quindi unmodo inclusivo di esprimere la nostra singolare la coscienza diessere, '[Io] sono')uḷḷattē (uḷḷattu-e) {T} nel cuore, solo nel cuore, nel cuore stessouḷḷavaṉ (uḷḷa-avaṉ) {T} colui che è, colui che esiste, che hauḷḷu {T} pensare, ricordare, cogitare, meditare, indagareūṇ {T} ciò che si mangia, il ciboūṇ {T} carne, carne, corpoūṇ ādal kāṇ {T} 'divenire cibo [è] vedere'ūṉ ār karu ahandai {Ts} ego, [che è] l'embrione - legato al corpouṇar {T} essere consapevole di, sapere, esperienza, sentire,capire, studiare, scrutare, pensareuṇara {T} per sapere (infinito di uṇar, conoscere, essere coscientedi)uṇara niṉḏṟa poruḷ {T} 'la realtà che sta [esiste, resiste econtinua] per sapere', 'la realtà che esiste e sa'uṇarndu {T} sapere, avendo conosciuto (participio verbale senzatempi di uṇar)uṇarvu {T} consapevolezza, conoscenza, chiaro discernimento,percezione, sensazione, senso, risvegliando (nome formato daUNAR, sanno, essere consapevoli di)undiyār (un particolare stile poetico) {T} - vedi UpadesaUndiyāruṇmai (uḷ-mai) {T} 'being-ness' (l'essenza di essere), l'esistenza,essendo la natura, l'essenza, la realtà, la veritàupadēśa {S} punta verso, indicando, istruire, precisando,istruzione, insegnamentoUpadesa Nūṉmālai {T} 'Ghirlanda di testi didattici' - vedi ŚrīRamaṉōpadēśa NūṉmālaiUpadesa Saram {S} 'Essenza di istruzioni', 'Essenza degliinsegnamenti'Upadesa Taṉippākkaḷ {Ts} 'Versi Solitari d'istruzione'Upadesa Undiyār {Ts} 'Insegnamenti [stile poetico chiamato]Undiyār'

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upādhā (o upadhā) {S} luogo al momento, sovrapporre,prendere, cogliereupādhi {S} aggiunta, sovrapposizione, travestimento, sostituto,ciò che viene messo in atto da qualcos'altro, ciò che èconfuso(sbagliato) essere qualcosa d'altroupādhi-uṇarvu {Ts} coscienza-aggiunta, conoscenza-aggiunta,sensazione-aggiuntaupalabdhi {S} acquisizione, la realizzazione, la percezione, laconoscenzaupaniṣad {S} uno qualsiasi di un gruppo di testi filosofici deiVeda (vedi anche Indice dei testi)upāsana {S} attesa su, che serve, la partecipazione, la riverenza,adorazione, culto, la meditazione, la contemplazione, essendointento aupāya {S} avvicinarsi, approccio, modo, significa che da che unobiettivo è stato raggiunto o raggiuntoupēya {S} scopo, obiettivo, quello che deve essere avvicinato,raggiunto o raggiuntoupēyamum tāṉē upāyamum tāṉē {T} 'lo scopo è soltanto di sé,e il mezzo è solo sé'urai {T} parlando, dicendo, spiegazione, interpretazione,esposizione, commenti - vedi viḷakkavuraiuraṉ {T} forza mentaleuru {T} formauruvil (uru-v-il) {T} in forma (forma locativa di uru), senzaforma (forma privativo di uru)uruppaḍuvāṉ (uru-p-paḍuvāṉ) {T} [egli] si formerà, riformatousā {T} indagine sottile, attento esame, appassionato controllousāvāl (usā-v-āl) {T} dall'indagine sottile (forma strumentale diusā)usāvu (o usavu) {T} ponderare, considerare, indagare acutamenteuy {T} vivere, sussistere, rivivere, fuga, essere salvato - vediuyyāduuyarvu {T} altezza, altitudine, elevatezza, eminenza, la

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grandezza (anche usato come aggettivo a significare 'elevato','eminente', 'superiore')uyir {T} vita, anima, essere viventeuyyādu {T} non vive, non fuggire, non facendo rivivere, senzafar rivivere (participio verbale negativo di uy)

Vvācaka {S} parlando, raccontando, dicendo parola - vedi GuruVācaka Kovaivācya {S} parlato, ha detto, ha raccontato, ha espresso - vedivācyārthavācyārtha (vācya-artha) {S} significato detto, significatoespresso, significato letteralevai {T} messo, luogo, posto, mantenere, tenere, fissare - vederevaittuvairāgya {S} distacco, libertà dal desiderio, di desideri, diindifferenza (da viraga, senza passione, desiderio, simpatia,interesse)vaittu {T} sistemazione, tenendo, presa a terra, che fissa(participio verbale di vai)vaittiruppadu (vaittu-iruppadu) {T} mantenendo fisso, essendotenuta, essendo avendo mantenuto (sostantivo verbale formato davaittiru, un verbo composto in cui IRU [essere] serve comeausiliario vaittu [tenuta])vāk {S} parolavaṙi (spesso traslitterato come vaḻi e trascritto vagamente comevazhi) {T} percorso, strada, mezzivāsanā {S} disposizione, propensione, tendenza, inclinazione,impulso, il desiderio (derivato da vāsa, che significa dimora orimanere, perché un vāsanā è una disposizione che rimane nellamente come conseguenza delle azioni o esperienze precedenti)vastu {S} sostanza, l'essenza, la realtàvastu-upalabdhi {S} conoscenza diretta della realtà o vera

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essenzavastu-vicāra {S} controllo della nostra realtà essenzialevattu {TS} (vastu {S}) sostanzavattuvām (vattu-v-ām) {T}, che è la sostanzavēda {S} conoscenze (derivato da vid, sapere), il 'Veda' (tutti ouno qualsiasi dei quattro gruppi di antichi testi scritturali, Ṛg-Vēda, Yajur-Vēda, Sāma-Vēda and Atharva-Vēdavēdānta (vēda-anta) {S} 'fine' o conclusione definitiva dei Veda(spirituale filosofia e scienza delineati nelle Upanisad, Brahma-Sutra e Bhagavad Gita, e chiarito da molti saggi, tra cui SriRamana)vēdāntic {aggettivo inglese formato da Vedanta}veṇbā {T} un metro poetico a quattro linee Tamil(vedi anchekaliveṇbā; kural veṇbā)vēṇḍum {T} [it] è voluto, desiderato, necessario, indispensabile(spesso utilizzato con un infinito come un ausiliario ottativo nelsenso che si dovrebbe o deve fare un certa azione o di essere in uncerto stato)venum {T} [it] è necessario, necessario, indispensabile (comeVendum)vēṇumē {T} [it] è certamente necessariavicario {S} indagare, esaminare, controllare, verificarevicāra {S} indagine, esame, esamevicāri {TS} (vicar{S}) investigare, esaminare, controllare,ispezionare, esplorarevicārikka {TS} indagarevicārikka vēṇḍum {TS} [egli] è necessario per indagare, [un]dovrebbe indagareviḍāppiḍiyāy (viḍā-p-piḍi-y-āy) {T} fermezza, tenacia,incessantemente (letteralmente, afferrarsi tenacemente)viḍāppiḍiyāy-p piḍikka vēṇḍum {T} [egli] è necessarioaggrapparsi tenacemente, [un] dovrebbe aggrapparsi tenacementeviddai {TS} (Vidya {S}) la conoscenza, la scienzavidyā {S} la conoscenza, la filosofia, la scienza, l'arte pratica,

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l'apprendimentovijnànamaya kosa {S} 'guaina' composto di conoscenzadiscriminativaviksepa {S} buttare fuori, proiezione [di pensieri checostituiscono l'aspetto mondo], gettando in merito, diffusione,dispersione, dissipazione, distrazione, confusione, agitazioneviksepa Śakti {S} potere di proiezione, dispersione, dissipazioneviḷakkam {T} luce, lampada, chiarezza, delucidazione,spiegazioneviḷakkavurai (viḷakka-v-Urai) {T} spiegazione, interpretazione,esposizione, commenti - vedi Śrī Ramaṉōpadēśa Nūṉmālai -Viḷakkavuraiviṉavu {T} questione, indagare, investigare, esaminare, scrutare,ascoltare, prestare attenzione a, tenere a mente, ascoltareviṉavum {T}, che scruta, che sta esaminando (participio relativodi viṉavu)viṇmai (vin-mai) {T} essenza del cielo (illusorio come l'azzurrodel cielo)Vinai {T} azione (karma),viṉai-mudal {T} 'colui che fa' (letteralmente, l'origine o la causa)dell'azione, soggetto (come il creatore di ogni azione)visesa {S} distinzione, differenza, particolarità, specialità,particolare qualità, l'eccellenzavisaya {S} misura, la gamma, la regione, dominio, sfera, sfera diattività, [mondana] affare, senso 'regione', percezione sensoriale,senso oggetto, senso di piacere, oggetto del desiderioviṣaya-vāsanā {S} desiderio che spinge a partecipare a rilevare lepercezioni e agli affari mondani, e di cercare il piacere in questecosevisistàdvaita (viśiṣṭa-advaita) {S} non-dualità differenziale, non-dualità qualificata (una filosofia antica che è distinta dalla non-dualità assoluta dell'advaita, perché sostiene che le differenze sonosolo false apparenze reali e non)vittu {T} seme

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vittu-p-pōṉḏṟa {T}, 'che assomiglia a un seme', sementi similevivēka {S} discriminazione, il discernimento, il potere didistinguere il vero dal irrealeVivēkacūḍāmaṇi (vivēka-cūḍā-maṇi) {S} 'Gioiello delladiscriminazione'vyavahara {S} facendo, attività, comportamenti, faccenda,occupazione, transazione, affari, commerce, dispute, controversie,la materia banalevyāvahārika {S} transazionale, legato agli affari mondani, banalerelativa (forma aggettivale di vyavahara)Vyavaharika satya {S} realtà transazionale, realtà mondana,realtà relativa

Yyā {S} colei che (forma femminile di ya o yad, che, quale o quali)yā mā {S} colei che non è, ciò che non è, ciò che non è (vediMāyā)yār {T} che (pronome personale interrogativo)artha {S} scopo, lo scopo, il significato, la sostanza, la ricchezza,proprietà, oggetto, cosayathārtha (yathà-artha) {S} secondo il significato, genuino,vero, vero, veroyathārtha svarùpa {S} sé realeyatna {S} sforzo, sforzo, energia, zelo, impegno, sforzandosiyōga {S} aggiogare, unire, congiungere, unione, mezzi [perraggiungere l'unione]yōga-mārga {S} percorso di unioneyōgi {S} uno che cerca l'unione, quello che ha raggiunto l'unioneyogica {aggettivo inglese formato da yoga} pertinenza yōga

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Dizionario Italianodi alcuni termini usati nel testo

- limitatamente ai significati che interessano questo testo -Advaita-Vedanta-Ramana

Abbandono = (al Sé) (del sé) vedi resaAbitare = /risiedere/permanere (nel Sé) attenersi; obbedire;restare con; restare in; rispettare. Vivere nel Sé senza la presenzadella mente e senza percezione degli oggettiAggiunto/Allegato = aggiunta/o; aggregato; complemento;accessorio; appendice. Elementi illusori o immaginari (duali)aggiunti dalla mente alla realtà di base che la oscurano enascondono. Il serpente (illusorio) è un aggiunto o allegato allacorda che è la realtà. Le percezioni dei sensi (il mondo) e leimmagini o costruzioni mentali sono allegati o aggiunti sullarealtà (il Sé). L'azzurro del cielo è un'aggiunta al vero cielo che diper sé non ha coloreAllegato = vedi aggiuntoArrendersi abbandonarsi = vedi resa = cedere; resa; lasciarsitrasportare; farsi trasportare; rinunciare; concedere; consegnare;soccombere; abbandonarsi; capitolare; dedizione.Attenzione = dare ( prestare) attenzione; occuparsi; assistere;attendere; curare; focalizzare; badare; concentrarsi su.Sostanzialmente: focalizzare l'attenzione; dare attenzione;concentrarsi su. La facoltà della mente di occuparsi di una cosa. Inparticolare dare attenzione al nostro vero essere, al nostro SéAuto-splendente = 'che conosce sé' o è 'cosciente di sé', cioè, checonosce se stesso per mezzo della propria luce di consapevolezza.Brillare - splendere = riferiti al Sé all'Atman a Siva all'Assolutoecc… Usate metaforicamente indicano (in modo inadeguato) lostato di manifestarsi come essere-coscienza-beatitudine. Possonoanche essere riferite a concetti duali e non assoluti per indicare la

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condizione di 'manifestarsi o di essere percepiti o di attivarsi' inambito empirico o limitato come oggetti, energie, attività. Auto-brillante = brillante da se stesso = cosciente di se stesso.Dimenticanza = (riferita al Sé) non ricordare il Sé; non esserecoscienti del Sé; oblio.Dio = Nel testo questa parola viene usata con due significati chebisogna desumere dal contesto:1) Dio come sinonimo di Atman o Brahman o l'Assoluto-Eterno-Infinito Sé2) Dio come concepito dalla mente [che crea, sostiene e distruggel'immagine del mondo (l'universo) e l'immagine delle anime (icorpi)]. Questo secondo Dio è un concetto della mente e quindiun'immagine irreale e destinata a scomparire al pari dell'anima edel mondo.Esterno = vedi internoInchiesta = investigazione accurataIndagine/indagare = investigazione; analisi accurata. Attivitàdiligente e sistematica di ricerca, volta alla scoperta della veritàintorno a fatti determinati, pratici o intellettualiInganno (della mente) = errore; inesattezza; peccare; sbagliare;sbaglio; scambiare; illudersi; fraintendere; travisare. La mente chefa vedere il corpo, le cose ed i pensieri come cose reali esterne anoi nascondendo il nostro vero SéInterno-Esterno = dentro - fuori: non esiste realmente un internoed esterno o un dentro e fuori se ci si riferisce al Sé o all'Essere:non esiste un concetto di spazialità o di posizione nel Sé. Nonesiste lo spazio e nemmeno il tempo nel Sé. In linea di massima'interno o dentro' si usa per indicare il Sé o ciò che si riferisce alSé ed 'esterno o fuori' ciò che si riferisce agli oggetti, a ciò chesembra estraneo alla mente, alle 2° e 3° persone. Il 'Cuore(spirituale) è dentro il petto' non indica una posizione ma solo unriferimento esistenziale del nostro Sé o centro.Investigazione/investigare = indagine inchiesta (indaginediligente e giudiziosa) ricerca attenta, accurata e minuta della

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verità sia nell'ordine intellettuale sia riguardo a cose praticheIo = Nel testo è usato (come la parola Dio) con due significati chedevono essere identificati dal contesto:1) Io sinonimo di Atman - Brahman o il Sé Assoluto-Eterno-Infinito2) Io o Jiva o anima individuale, relativo opposto ai molti. È unconcetto della mente e quindi un'immagine irreale e destinata ascomparire al pari del Dio della mente e del mondo.Io-Io = Vedi sphurana (la pura mente sattvica che brillaaggrappata al Sé)Oggettivo = che ha le qualità dell'oggetto; percepito dai sensi odalla mente; che sembra altro o esterno a noi stessiOggetto = Le cose illusorie viste o percepite o create dalla mentecome esterne a se stessa nel campo della dualità. Dal punto divista della mente (o Io prima persona) sono oggetti solo leseconde e terze persone Dal punto di vista del Sé sono oggetti leprime-seconde e terze persone.Pensiero (secondo Ramana) = ogni tipo di percezione oesperienza mentale, concetti, idee, fantasie, credenze, sentimenti,emozioni, desideri, paure e qualsiasi altra cosa che sperimentiamocome altro o diverso dal nostro Sé o 'Io sono'. Il prodottodell'attività psichica per cui l'uomo acquista coscienza di sé e delmondo in cui vive.Pensiero prima persona (secondo Ramana) = è solo il pensieroIo (o ego) (o 'io sono questo corpo') (soggetto separato e duale) lacui apparizione crea e sperimenta le seconde e terze persone.Investigando sul pensiero Io (dandogli attenzione) questoscompare e si rivela il Sé o 'Io sono' non duale (il nostro statonaturale), di conseguenza scompaiono anche le seconde e terzepersone (pensieri e mondo). La prima persona è cosciente e puòesistere solo se crea delle seconde o terze persone. Solo se siguarda con attenzione questo falso 'io' (o ego) (che è una miscelaconfusa della vera coscienza 'Io', con una collezione di aggiuntenon coscienti, tra cui un corpo fisico, un corpo sottile e tutto ciò

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ad essi associato), saremo in grado di provare il nostro vero 'IO'(che è pura coscienza di essere, non contaminato da eventualiaggiunte o Sé). Tutto il resto (tutte le seconde e terze persone)sembra esistere solo perché l'ego (la prima persona) sembraesistere, così l'ego è il seme, embrione, radice e la causa dellafalsa apparenza di tutto il resto. Prima della rivelazione del Sécompare (una volta eliminata ogni sovrapposizione) lo sphurana'Io-Io' che è un elemento intermedio tra il duale ed il Sé: la puramente sattvica che brilla aggrappata al Sé.Pensieri seconda persona (secondo Ramana) = apparentementeinterni alla nostra mente: mentali o soggettivi (per la mente).Indica gli oggetti direttamente percepiti di fronte a noi (dallamente) attraverso i cinque sensi.Pensieri terza persona (secondo Ramana) = apparentementeesterni alla nostra mente: oggetti fisici, oggettivi (per la mente)percepiti tramite i sensi. In genere seconde e terze persone sonoconsiderate insieme come elementi alieni al Sé. Le seconde e terzepersone possono esistere solo se diamo attenzione a loro (tramitela prima persona) perché non sono coscienti. Indica gli oggetti chenon sono ora percepiti di fronte a noi (ma esterni a noi) e che sonopensieri della mente.Persona = (prima-seconda e terza) vedi pensieriPiedi del Signore (di Dio) = modo ossequioso ed umile di riferirsial Sé all'Atman a Brahman. Il jiva s'inchina e si piega sotto i piedidi Dio perdendo la propria individualità e fondendosi con Dio.Placare = vedi subsidere (della mente)Prima persona = vedi pensieri prima personaResa/abbandono = al Sé resa a Dio nel senso di affidarsi edabbandonarsi al Sé/Dio che agisce per noi e come noi. È possibilecompletamente solo dopo aver realizzato il Sé, aver distrutto l'ego,silenziata la mente e non avendo più desideri.Resa/abbandono del sé = abbandono o resa del sé o ego al Sécioè all'AtmanSé / sé / se stesso = Può avere due significati che devono essere

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desunti dal contesto:1) l'essere assoluto, eterno, unico, auto-splendente, onnipotente,l'Atman, Dio;2) il sé creato dalla mente finito e limitato, l'individualità, l'ego. InTamil non esistono le lettere maiuscole e pertanto l'autore hapreferito scrivere 'se' preferibilmente sempre in minuscolo.Seconda persona = vedi pensieri seconda persona.Schiavitù /legame = limitato o confinato nel corpo quando lamente si identifica col corpo o limitato dalle immagini duali ooggettive non essendo coscienti del sé.Sogno = è lo stato del dormire in cui noi facciamo sogni o 'sonnocon sogni'. Non sempre i sogni si ricordano per cui si può aversognato ma non ricordare nulla allo svegliarsi . Si ritiene sia lostato in cui la coscienza è attiva su piani sottili e non si è coscientidel piano materialeSonno (profondo) = è lo stato del dormire in cui noi nonconosciamo le altre cose, nemmeno il corpo, ma in cui il Sé èsempre presente. È lo stato in cui la mente non è attiva. È unostato di beatitudine. È il dormire senza sogni. È ritenuto lo stato incui si ricaricano le energie del pensiero. È lo statodell'Anandamaya kosha sede del Jiva nel sonno.Spazio = come in 'Spazio della Grazia', 'Spazio della Coscienza','Spazio di Felicità', ecc... Sri Bhagavan lo usa per denotare l'ideadella vastità che tutto pervade, l'abbondanza, e la finezza, chesono tutte qualità del Sé.Sorgere (della mente) = manifestarsi, verificarsi, spuntare,alzarsi, levarsi, uscire, salire nascere, avere origine, scaturire,derivare, ergersi, innalzarsi, salire, aumentare, alzarsi, crescere. Rise of mind = sorgere della mente. È usato (assieme ai varisinonimi = salire, nascere, innalzarsi, ecc…) perlopiù per indicare(l'apparente) manifestarsi e l'attivarsi della mente per conoscere ilmondo della dualità identificandosi con un corpo, scaturendo dalSé che è il suo substrato.Splendere/brillare = essere chiaramente sperimentato-percepito.

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Riferiti al Sé all'Atman a Siva all'Assoluto ecc... Usatemetaforicamente indicano (in modo inadeguato) lo stato dimanifestarsi come essere-coscienza-beatitudine. Possono ancheessere riferite a concetti duali e non assoluti per indicare lacondizione di 'manifestarsi o di essere percepiti o di attivarsi' inambito empirico o limitato come oggetti, energie, attività.Subsidere/subsidenza (della mente) = diminuzione dell'attività,placare, dissolvere, cessare, calare, scendere, diminuire, calmare,affondare, sprofondare, disattivare, scomparire, ritirarsi, sparire,essere assorbita, perire, tramontare, sparire, svanire, scemare(figurato). Stato di diminuzione e quindi cessazione dell'attività(mentale) e dissolvimento/assorbimento nel Sé, immobilità nel Sé(normalmente in italiano è usato solo in campo geologico perindicare una placca tettonica che s'immerge lentamente sottoun'altra placca)Terza persona = vedi 'pensieri terza persona'Veglia = è lo stato in cui, insieme con la conoscenza della propriaesistenza ['Io sono'], vi è anche la conoscenza di altre cose(oggetti), considerate esterne a noi, del piano grossolano omateriale o di pensieri o di sentimenti. È lo stato in cui la mente èattivaVolgersi = (della mente o dell'attenzione all'interno) Spostarel'attenzione (concentrarsi) verso l'interno di noi stessi, verso lacoscienza di essere l'Io sono, il Sé, non dando più attenzione aglioggetti esterni e ai pensieri che quindi scompaiono dalla vista edalla percezione.

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NOTE

1) Tutte le parole composte inglesi che cominciano con ilprefisso self… (che significa 'Sé' o 'se stesso', 'ego', 'io', 'auto',ecc…) ('self-consciousness', 'self-knowledge', 'self-surrender','self-investigation', 'self-forgetfulness') sono tradotte (dipreferenza) con 'xxxxxx del sé', 'xxxxxx al sé', 'xxxxx di sé', eccquando si riferiscono al 'sé' (o Sé) (coscienza del sé, conoscenzadi sé, resa al sé, investigazione del sé, oblio del sé, ecc…) ed inalternativa e con lo stesso identico significato con la modalità'auto-xxxxxx' soprattutto per le parole più ricorrenti (auto-investigazione, auto-resa, auto-indagine, auto-dimenticanza).Sono tradotte solo con il prefisso 'auto' o in altro modo quandosignificano un'azione automatica o qualcosa di insito o implicito(che non sia il sé) (per es. self-evident = auto-evidente(assiomatico), self-defense = autodifesa, self-portrait =autoritratto...)

2) Le 'am-ness', 'is-ness', 'being-ness', 'mine-ness' dell'originaleinglese, non avendo (quasi mai) in italiano una traduzionecorrispondente sono tradotte con una perifrasi (lo stato di 'io sono'ecc...). Per chiarezza si è preferito, a volte, riportare a fiancol'originale inglese 'am-ness', 'it-ness', 'being-ness', ecc..

FINE

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