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Kant, «Critica del Giudizio» * Il problema dell'opera . Il dualismo fra mondo della necessità e mondo della finalità Sia questo passo sia il successivo sono tratti dall'Introduzione all'opera, quella che Kant redasse per seconda: la prima stesura, un più ampio ma anche più contorto rendiconto dei contenuti dell'intera terza Critica venne infatti sostituita con que- sta, che presenta un inquadramento della facoltà del Giudizio di fondamentale importanza. Ricordiamo incidentalmente che nelle traduzioni in lingua italiana vige la convenzione di tradurre con Giudizio --- e dunque con l'iniziale maiuscola --- l'espressione kantiana Urteilskraft, che letteralmente significa ``facoltà del giudi- zio'', laddove ``giudizio'' ( Urteil) rende il semplice atto del giudizio Tutti i passi sono dati secondo la seguente edizione: I. Kant, Critica del Giu- dizio, a cura di A. Bosi, UTET, Torino . I concetti della natura, che comprendono il fondamento di ogni conoscenza teoretica a priori, si basavano sulla legislazione dell'intelletto. --- Il concetto di libertà, che comprendeva il fondamento di tutte le prescrizioni pratiche a priori indipendenti dalla sensibilità, si basava sulla legislazione della ragione. Entram- be le facoltà pertanto, a parte l'applicazione, secondo la forma logica, a princìpi 5 (quale che ne sia l'origine), hanno ancora ciascuna una propria legislazione se- condo il contenuto, al di sopra della quale non ne esiste alcun'altra (a priori), e che perciò giustificava la divisione della filosofia in teoretica e pratica. Tuttavia, nella famiglia delle facoltà conoscitive superiori esiste ancora un termine medio tra l'intelletto e la ragione. Si tratta del Giudizio, del quale si ha ragione di 10 presumere, per analogia, che possa anch'esso contenere, se non una sua propria legislazione, almeno un suo proprio principio a priori (comunque puramente sog- gettivo) di ricerca secondo leggi; un principio che, se anche non gli spetterà alcun campo di oggetti come dominio, potrà tuttavia avere un suo territorio, nel quali si trovi una qualche caratteristica per la quale valga proprio solo questo principio. 15 (Introd., ; trad. it. pp. --) 1–8. Com’è noto, Kant non aveva in men- te la terza Critica allorché stese le prime due perché non aveva ancora individuato la nuo- va facoltà qui eretta a protagonista. Nella Critica della ragion pura si ammetteva il so- lo intelletto per fini conoscitivi (col contribu- to della ragione in forma regolativa), men- tre il gusto era ritenuto arbitrario, individua- * Questo testo è stato composto con X E L A T E X

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Kant, «Critica del Giudizio»*

Il problema dell'opera

. Il dualismo fra mondo della necessitàe mondo della finalità

Sia questo passo sia il successivo sono tratti dall'Introduzione all'opera, quella cheKant redasse per seconda: la prima stesura, un più ampio ma anche più contortorendiconto dei contenuti dell'intera terza Critica venne infatti sostituita con que-sta, che presenta un inquadramento della facoltà del Giudizio di fondamentaleimportanza.

Ricordiamo incidentalmente che nelle traduzioni in lingua italiana vige laconvenzione di tradurre con Giudizio --- e dunque con l'iniziale maiuscola ---l'espressione kantiana Urteilskraft, che letteralmente significa ``facoltà del giudi-zio'', laddove ``giudizio'' (Urteil) rende il semplice atto del giudizio

Tutti i passi sono dati secondo la seguente edizione: I. Kant, Critica del Giu-dizio, a cura di A. Bosi, UTET, Torino .

I concetti della natura, che comprendono il fondamento di ogni conoscenzateoretica a priori, si basavano sulla legislazione dell'intelletto. --- Il concetto dilibertà, che comprendeva il fondamento di tutte le prescrizioni pratiche a prioriindipendenti dalla sensibilità, si basava sulla legislazione della ragione. Entram-be le facoltà pertanto, a parte l'applicazione, secondo la forma logica, a princìpi 5

(quale che ne sia l'origine), hanno ancora ciascuna una propria legislazione se-condo il contenuto, al di sopra della quale non ne esiste alcun'altra (a priori), eche perciò giustificava la divisione della filosofia in teoretica e pratica. Tuttavia,nella famiglia delle facoltà conoscitive superiori esiste ancora un termine mediotra l'intelletto e la ragione. Si tratta del Giudizio, del quale si ha ragione di 10

presumere, per analogia, che possa anch'esso contenere, se non una sua proprialegislazione, almeno un suo proprio principio a priori (comunque puramente sog-gettivo) di ricerca secondo leggi; un principio che, se anche non gli spetterà alcuncampo di oggetti come dominio, potrà tuttavia avere un suo territorio, nel quali sitrovi una qualche caratteristica per la quale valga proprio solo questo principio. 15

(Introd., ; trad. it. pp. --)

1–8. Com’è noto, Kant non aveva in men-te la terza Critica allorché stese le prime dueperché non aveva ancora individuato la nuo-va facoltà qui eretta a protagonista. Nella

Critica della ragion pura si ammetteva il so-lo intelletto per fini conoscitivi (col contribu-to della ragione in forma regolativa), men-tre il gusto era ritenuto arbitrario, individua-

*Questo testo è stato composto con X ELATEX

Kant, «Critica del Giudizio»

le e nessuna autonomia era attribuita al sen-timento (fin da allora tuttavia la sensibilitàera riconosciuta in possesso di valenze nonsolo conoscitive, in quanto accoglieva le in-tuizioni, ma anche emotive, in quanto face-va sì che il soggetto ricevesse dalle impres-sioni sensibili piacere o dispiacere). Nella Cri-tica della ragion pratica, al contrario, il senti-mento era ammesso, ma solo nella sua spe-cie morale, poiché gli uomini erano in gradodi percepire a priori l’accordo del loro com-portamento con le norme. Non è dunque in-spiegabile se nella terza CriticaKant, dietro lasollecitazionee l’influenza considerevole del-le dottrine estetiche settecentesche, ammet-te uno spazio autonomo per il sentimento ecerca di individuarne il principio a priori.

Il secondomotivo che condusse Kant allaCritica del Giudizio è interno al sistema: si trat-ta del bisogno di mediare, individuando unmomento di accordo, il determinismo natu-rale controllato dall’intelletto e la libertà pra-tica governata dalla ragione. Si noti tuttavia,ed è cosa essenziale, che Kant non si riferisceche alle facoltà teoretica e pratica, ricercan-done una terza: non si tratta cioè di collegareilmondo teoretico e quello pratico, quasi fos-se possibile trovarne un terzo che li sintetizzi.Questa soluzione era stata scartata già nellaCritica della ragion pura (e precisamente nellaDialettica trascendentale), dove le antinomiedinamiche (intorno alla libertà e aDio) aveva-no chiarito che i due regni erano compatibilisolo in quanto separati. Si tratta piuttosto diproseguire la ricerca avviata nell’Analitica deiPrincìpi sulla possibile applicazione delle for-me a priori a unmateriale che ha un’origine aposteriori.

8–14. La mediazione consiste perciò nel-l’individuare non un terzo mondo, una terzadimensione oltre a quelle teoretica e prati-

ca, bensì una terza facoltà oltre all’intellettoe alla ragione. La mediazione possibile nonè oggettiva, ma soggettiva: il punto d’incon-tro risiede infatti all’interno del soggetto; imondi continuano a essere due, ma le facol-tà soggettive che li pensano sono tre. Il filo-sofo giunse così alla conclusione che accan-to all’intelletto e alla ragione esisteva un al-tro strumento a priori dell’animo umano, do-tato di leggi sue proprie, ovvero in possessodi una perfetta autonomia: il sentimento. Lostrumento per operare in questo ambito è ilGiudizio.

La terza Critica non è stata redatta solo etanto per far posto a interessi nuovi di Kant,quasi che egli si fosse accorto solo tardiva-mente della dimensione del gusto: perché al-lora non considerare altri ambiti ancora, co-me la logica del sapere storico? Non è suffi-ciente richiamarsi al tessuto culturale in cuiKant venne a operare. La risposta è inveceche la Critica del Giudizio non complementa lealtredue Critiche, bensì neprosegue la fonda-mentale linea problematica: com’è possibile,muovendo dai generali presupposti apriori-stici, pervenire alle leggi particolari di natu-ra, anzi, meglio, alla loro applicazione all’ete-rogenea molteplicità dei casi singoli? Il tema,già discusso in una poco studiata opera, i Pri-mi princìpi metafisici della scienza della natura(1786), ritorna qui protagonisticamente ed èil problema stesso del Giudizio. Non si trattadi una semplice integrazione alla Critica del-la ragion pura, poiché obiettivo della scienzanon è la formulazione di generalissimi quan-to astratti princìpi,ma la funzionalità nel casoparticolare: si tratta dunquepropriodi rende-re operanti le categorie secondo unamodali-tà analoga a, ma più felice di, quella espressanella dottrina della schematismo.

. Giudizi determinanti e giudizi riflettenti

Da questo brano, come dal precedente, si chiarisce che i problemi estetico e te-leologico sono strumenti (fondamentale il primo, più marginale il secondo) perla soluzione di una questione schiettamente epistemologica.

Il Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare in quanto contenutonell'universale. Se l'universale (la regola, il principio, la legge) è dato, il Giudizioche sussume sotto questo il particolare (anche se, come il Giudizio trascendentale,indica a priori le condizioni indispensabili per la sussunzione a quell'universale),

Kant, «Critica del Giudizio»

è determinante. Se invece è dato soltanto il particolare, ed il Giudizio deve 5

trovargli l'universale, allora esso è meramente rif lettente.…le forme nella natura sono tanto varie, e per così dire tanto numerose le

modificazioni dei concetti trascendentali universali della natura, lasciate indeter-minate da quelle leggi che l'intelletto puro fornisce a priori queste ultime infattinon riguardano che la possibilità di una natura come oggetto dei sensi in ge- 10

nerale), --- da richiedere perciò leggi che, in quanto empiriche, possono esserecontingenti dal punto di vista del nostro intelletto, ma che, per ricevere il nomedi leggi (come è richiesto anche dal concetto di una natura), debbono venir con-siderate come necessarie a partire da un concetto (per quanto a noi sconosciuto)dell'unità del molteplice. --- Il Giudizio riflettente, cui tocca risalire dal partico- 15

lare della natura all'universale, ha dunque bisogno d'un principio che non puòricavare dall'esperienza, perché deve appunto fondare l'unità di tutti i princìpiempirici sotto princìpi anch'essi empirici, ma più elevati, e quindi la possibilitàdi una sistematica subordinazione di tali princìpi gli uni agli altri. Un tale princi-pio trascendentale, il Giudizio riflettente può dunque darselo soltanto esso stesso 20

come legge, senza prenderlo dall'esterno (perché allora si trasformerebbe in Giu-dizio determinante), né può prescriverlo alla natura, poiché la riflessione sulleleggi della natura si adegua alla natura, mentre quest'ultima non si adegua al-le condizioni secondo le quali noi aspiriamo a formarci di essa un concetto che,rispetto a tali condizioni, è del tutto contingente. 25

Ora questo principio non può essere che il seguente: poiché le leggi universalidella natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, che le prescrive allanatura (benché solo secondo il concetto universale della natura in quanto tale),le leggi empiriche particolari, relativamente a ciò che rimane in esse non determi-nato dalle prime, devono venire considerate secondo un'unità quale un intelletto 30

(sebbene non il nostro) avrebbe potuto stabilire a vantaggio della nostra facoltàconoscitiva, per rendere possibile un sistema dell'esperienza secondo leggi parti-colari della natura. Questo non nel senso di dover ammettere la reale esistenzad'un tale intelletto (perché questa idea funge da principio solo per il Giudizio ri-flettente, per riflettere, non per determinare); in questo modo essa dà una legge 35

solo a se stessa, e non alla natura.Ora, poiché il concetto di un oggetto, nella misura in cui contiene anche il

principio della realtà di questo oggetto, si dice scopo, mentre si dice finalità dellaforma d'una cosa l'accordo di questa con quella costituzione delle cose che èpossibile solo mediante fini, il principio del Giudizio, rispetto alla forma delle cose 40

naturali sottoposte a leggi empiriche in generale, è la finalità della natura nellavarietà delle sue forme. In altri termini, la natura viene rappresentata, mediantequesto concetto, come se un intelletto contenesse il fondamento unitario dellamolteplicità delle sue leggi empiriche.

La finalità della natura è dunque un particolare concetto a priori, la cui origine 45

va cercata nel solo Giudizio riflettente.(Introd., ; trad. it. pp. --)

1–6. Per Kant, conoscere è giudicare, manella Critica della ragion pura il giudizio sin-tetico a priori svolge una funzione ancor piùoriginaria: esso infatti pone l’oggetto stesso,lo costituisce o, per seguire la terminologiadella terza Critica, lo determina. A tal fine il

particolare (il materiale fornito dall’intuizio-ne sensibile) viene sussunto sotto l’universa-le costituito dalle strutture dell’intelletto (lecategorie).

7–24. Nella Critica del Giudizio invece nonsi tratta di porre un oggetto per poterlo quin-

Kant, «Critica del Giudizio»

di conoscere, bensì di soffermarsi su di esso,ovvero di riflettere per valutare se, in quantogià datooggettodell’intelletto, si accorda coiprincìpi posti dalla ragione. Tale giudizio nonriguarda l’oggetto in quanto tale, ma la suarelazione con la ragione, col soggetto giudi-cante piuttosto che col principio del giudizio(determinante). In questo capoverso il prin-cipio del Giudizio è visto nella necessità del-l’applicazione: il giudizio determinante è in-fatti espressione di una legge universale cheriguarda una enorme molteplicità di accadi-menti e/o individui; ma è poi necessario ap-plicare questa legge agli accadimenti stessi,che non sono mai uguali e che si presentanosecondo modalità sempre differenti. L’appli-cazione non può essere affidata al caso o al-la scelta individuale e deve pertanto risiede-re in un principio a priori. Noi infatti dobbia-mo collegare, come dice il testo, le «moltepli-ci forme della natura» alle «modificazioni deiconcetti trascendentali universali della natu-ra» scegliendo di volta in volta quella versio-ne o «modificazione» del concetto universa-le che meglio si applica alla forma che ci stadavanti.

Il problema non è nuovo: l’Analitica deiconcetti era stato il primo tentativo di risol-verlo, ma Kant era rimasto insoddisfatto da-gli schemi; essi, in quanto forme a priori, nonsembravano essere sempre una mediazioneconveniente e facevano sorgere la difficoltàdel terzouomo. Il giudizio riflettente è la nuo-va soluzione: esso riafferma l’esigenza che leleggi a priori tengano conto, in forma aprio-ristica, degli oggetti o contenuti dell’espe-rienza. Mentre nella prima Critica le leggi era-no poste dall’intelletto in piena autonomia ein un secondo tempo si ricercava la modali-tà della loro applicazione, ora quest’ultima èdetta poggiare fin da principio su di un princi-pio a priori che la Critica del Giudizio si propo-ne di identificare. Come scrive Kant, «gli og-getti della conoscenza empirica sono ancoradeterminati, o, per quanto se ne può giudica-re a priori, determinabili in diversi modi; sic-ché nature specificamente diverse, a prescin-dere da ciò che hanno in comune in quantoappartenenti alla natura in generale, posso-no ancora essere cause in una infinità di mo-di diversi; ed ognuna di queste maniere (se-condo il concetto di causa in generale) deveavere la sua regola, che è una legge, e quindicomporta necessità, sebbene noi, per la na-

tura ed i limiti delle nostre facoltà conosciti-ve, non scorgiamo affatto tale necessità» (p.161). Le leggi applicative non sonoalternativeo «concorrenziali» rispetto a quelle dell’intel-letto, sono un elemento ulteriore; non pro-venendodall’intelletto, esse non sononeces-sarie nel senso delle leggi naturali e in quantonon esistono ex parte objecti, ma solo ex par-te subjecti, alla conoscenzapotrebbero appa-rire contingenti. Questo significa che il giu-dizio riflettente non è uno strumento o unparametro nuovo aggiunto al giudizio deter-minante, ma l’integrazione necessaria al giu-dizio determinante perché le forme a prioripossano essere applicate convenientementeai casi singolari che l’esperienza ci presenta.In altre parole, la Critica del Giudizio affronta ilmedesimo problema della Critica della ragionpura, ma da un punto di vista epistemologicopiuttosto chemetafisico, come invece l’altra.Più tardi, insoddisfatto anche di questa solu-zione, Kant tentò un’altra volta di risolvereil caso nell’ardua trattazione dell’Opus postu-mum, redatto a partire dagli ultimi anni delsecolo e lasciato quindi incompiuto.

25–34. L’elemento aggiuntivo non puòessere rinvenuto nell’esperienza, poiché è al-l’origine del suo sorgere; né può essere unalegge universale, poiché allora sarebbe unaforma del giudizio determinante e si ritor-nerebbe al problema di partenza. Esso è unprincipio a priori che tuttavia il Giudizio nonimpone alla natura che il soggetto conosce,ma al soggetto che conosce la natura. Taleprincipio prende spunto dal funzionamentodell’intelletto ed è in certo modo una ripro-posta dell’idea di mondo come sistema or-ganico della totalità delle realtà empiriche:noi dobbiamo procedere nella conoscenzacome se (la regola del «come se», che emer-ge alla r. 43, è qui il fondamentale principioregolatore) esistesse una globale unità del-la conoscenza tale da non riguardare soltan-to le leggi generali, ma anche quelle parti-colari. Quanto al contenuto, questo princi-pio, evidentemente un’idea regolativa, è l’i-dea di scopo: a noi conviene pensare che icorpi (i quali, dal punto di vista dell’intelletto,non seguono che le leggi naturali e si inqua-drano nel più rigoroso determinismo) sotto-stiano a un comportamento uniforme e ar-monico, obbediente a chiari fini, perché la ri-cerca delle leggi da parte dell’intelletto risul-ta più facile se condotta in base al principio

Kant, «Critica del Giudizio»

(regolativo) di un’intrinseca razionalità dellecose.

35–43.Questa finalità non è né pratica nétecnica: la prima non ha a che fare con og-getti naturali, ma solo con azioni; la secon-da riguarda oggetti sensibili, ma obbediscealle sole leggi dell’intelletto. Qui invece cer-chiamoun altro tipo di finalità, che esiste per-ché già testimoniata nella nostra esperienza:si dà infatti il caso che, nel conoscere, noiincontriamo degli oggetti la cui struttura oil cui comportamento sembrano spontanea-mente in linea con le nostre facoltà conosciti-ve e col nostrobisognodi ordine eorganicità,come formati da un intelletto del tutto analo-goal nostro.Questanonpuòessere realmen-te la costituzione della natura, che si compor-ta in base a un cieco determinismo ed è af-fatto indifferente ai nostri bisogni come al-le nostre caratteristiche: tale atteggiamentoteleologico le è attribuito dal soggetto (che

formula perciò giudizi riflettenti). Ciò è so-stenuto dallo stesso Kant: «Questo concet-to trascendentale di una finalità della natura,non è né un concetto della natura né un con-cetto della libertà, perché non attribuisce as-solutamente nulla all’oggetto (della natura),ma non fa che rappresentare l’unico modochenoi dobbiamoseguire nella riflessione su-gli oggetti della natura, affinché l’esperienzasi presenti come una totalità interconnessa»(p. 162). Vi sono casi in cui tale finalità appa-re chiara, altri in cui sembra assai difficilmen-te proponibile: è, come ha scritto Kant, so-lo contingente. Ma il fatto che interessi l’ap-plicazione delle leggi universali dell’intellet-to cimostra invece che dev’essere universalee aprioristica, sia pure secondo una modali-tà del tutto diversa rispetto a quella in cui di-ciamo universali e aprioristiche le leggi cono-scitive dell’intelletto e pratiche quelle dellaragione: una finalità pura.

L'analisi del bello e i caratteri specificidel giudizio estetico

I passi dedicati al bello che seguono sono tratti dall'Analitica del bello e chiarisco-no la specificità del giudizio di gusto; ancora una volta si rivela il taglio trascenden-tale dell'approccio kantiano, poiché l'indagine è fondata sull'individuazione dellaforma pura di tale giudizio, colto indipendentemente dai suoi contenuti specifici.Omettiamo per brevità la quarta definizione di bello, strettamente imparentatacon la seconda.

. Il Giudizio estetico

Per decidere se una cosa sia bella o meno, noi non poniamo, mediante l'intelletto,la rappresentazione in rapporto con l'oggetto, in vista della conoscenza; la rap-portiamo invece, tramite l'immaginazione (forse connessa con l'intelletto) al sog-getto e al suo sentimento di piacere e di dispiacere. Il giudizio di gusto non èpertanto un giudizio di conoscenza; non è quindi logico, ma estetico: intenden- 5

do con questo termine ciò il cui principio di determinazione non può essere chesoggettivo.

(§ ; trad. it. p. )

1–6. Il giudizio di gusto, come già è sta-to appurato dall’escursione delle caratteristi-chedel giudizio riflettente, nonè conoscenzané azione. Il suo carattere non è determinan-te benché esso derivi dall’esercizio delle fa-coltà conoscitive perché non produce cono-scenza, bensì applicazione all’oggetto di unafinalità (priva nondimeno di carattere prati-co). Il giudizio di gusto è dunque rifletten-

te nel senso che non esibisce una caratteri-stica dell’oggetto, ma una disposizione sog-gettiva ossia il sentimento del soggetto neisuoi confronti. Ciò non significa tuttavia chesia angustamente individuale: il cuore delladimostrazione (deduzione) kantiana si muo-ve su questo punto proprio nella direzionecontraria.

Kant, «Critica del Giudizio»

Kant e l’estetica del SettecentoPossiamo riconoscere tre tendenze fondamentali nell’estetica settecente-

sca, ma tutte accomunate dal tentativo di ricondurre i giudizi estetici ad altrifenomeni più noti: 1) il razionalismo di Baumgarten, che considera il gusto unaforma tutto sommato inferiore di conoscenza; infatti, in base alle sue premes-se leibniziane, il filosofo tende a riconoscere nella sensibilità semplicemente illivello oscuro del raziocinio, la forma più bassa della rappresentazione. In que-st’ottica il bello risulta essere un concetto della perfezione che si fonda su diuna caratteristica dell’oggetto, percepito come perfetto solo in modo confuso(in altre parole ciò che è bello per i sensi, se conosciuto adeguatamente, divie-ne il perfetto della ragione). 2) Il sensualismo di Burke, per cui i giudizi di gustoappartengono al sentimento, ma quest’ultimo non è visto come strettamenteindividuale poiché deriva da una comune dotazioni fisiologica; 3) l’empirismo(i cui principali esponenti sono Hume, Hutcheson e Home) che privilegia, indiametrale opposizione ai leibniziani, la sensibilità: le valutazioni estetiche de-rivano da abitudini e si fondano sulla soggettivissima impressione di piacere,cui si aggiunge secondo taluni (Gottsched e gli svizzeri quali Bodmer e Breitin-ger) l’intelletto, tanto che Hume, nel celebre scritto omonimo, aveva conclusoproprio la sostanziale inesistenza di una «regola del gusto».

Contro 1) Kant afferma l’autonomia del giudizio di gusto, forma originale dirapportarsi con l’oggetto, contro 2) e 3) ricorda il carattere universale del giudi-zio di gusto stesso. Gli antecedenti più significativi di Kant sono così da un latoMendelssohn, che riconosce una facoltà intermedia fra il conoscere e il deside-rare: l’approvare (cioè il riconoscere e il godere qualcosa che non ha niente ache vedere con gli intenti conoscitivi e pratici), e dall’altro lato Tetens, che nelgenerale operare umano individua, accanto alle rappresentazioni e alle azio-ni, i sentimenti: questi ultimi si riferiscono a oggetti come le rappresentazioni,ma come le azioni esprimono l’autonoma determinazione (o punto di vista) delsoggetto. In fondamentale aggiunta a quanto asserito da Mendelssohn e Te-tens, il Kant riconosce accanto all’autonomia del giudizio la possibilità di farneuna critica, ovvero individuarne un principio a priori che ne costituisca il fon-damento: egli riesce così a sfuggire anche in ambito estetico allo scetticismohumiano.

. Primo carattere del bello: il disinteresse

Si dà il nome di interesse alla soddisfazione che congiungiamo alla rappresenta-zione dell'esistenza d'un oggetto. Tale soddisfazione ha dunque sempre un rap-porto con la facoltà di desiderare, o in quanto suo principio di determinazione,o perché necessariamente connessa con tale principio. Ora, però, quando ci sichiede se una cosa è bella, non si vuole sapere se a noi od a chiunque altro im- 5

porti o possa importare qualcosa della esistenza della cosa; ma piuttosto, comenoi la giudichiamo da un punto di vista puramente contemplativo (per intuizio-ne o riflessione). […] È facile vedere che quello che importa, per poter dire chel'oggetto è bel lo, e per provare che ho gusto, non è il mio rapporto di dipendenzadall'esistenza dell'oggetto, ma ciò che in me ricavo da questa rappresentazione. 10

Chiunque deve riconoscere che un giudizio sul bello cui si mescoli il più piccolointeresse, è molto parziale, e non costituisce un giudizio di gusto puro. Per erigersi

Kant, «Critica del Giudizio»

a giudice in fatto di gusto non bisogna curarsi per nulla dell'esistenza della cosa,ma essere del tutto indifferenti a tale riguardo. […]

Piacevole è ciò che piace ai sensi nel la sensazione. […] Ogni soddi- 15

sfazione (si dice, o si pensa) è in sé sensazione (di piacere). …le impressioni deisensi che determinano l'inclinazione, i princìpi della ragione, che riguardano lavolontà, o le forme meramente riflesse dell'intuizione, che determinano il Giudi-zio, vengono ad identificarsi quanto all'effetto sul sentimento di piacere. Non sitratterebbe infatti d'altro che della gioia che si prova nel sentire il proprio stato; 20

e poiché ogni elaborazione delle nostre facoltà deve infine rivolgersi al pratico equi trovare unità come nel suo scopo, non si potrebbe attribuire loro altra stimadelle cose e del loro valore che non consista nel piacere ch'esse promettono. […]

Il colore verde dei prati è una sensazione oggett iva, in quanto percezio-ne d'un oggetto del senso; la gradevolezza invece è una sensazione soggettiva, 25

mediante la quale nessun oggetto è rappresentato: vale a dire, un sentimento,nel quale l'oggetto viene considerato come oggetto di soddisfazione (e non diconoscenza). […]

È buono ciò che, mediante la ragione, piace per il puro e semplice concetto.Parliamo di buono a qualcosa (utile), quando ci piace soltanto come mezzo; al- 30

tre cose le chiamiamo buone in sé, quando ci piacciono per se stesse. In entrambii casi è sempre implicito il concetto di fine, quindi il rapporto della ragione conuna volontà (almeno come possibilità), quindi la soddisfazione per l'es istenzadi un oggetto o di un'azione, vale a dire un qualche interesse.

Per trovar buono qualcosa, devo sempre sapere che specie di cosa l'oggetto 35

debba essere, cioè averne un concetto. Per trovarvi la bellezza, questo non mi èindispensabile. I fiori, i disegni liberi, quei tratti intrecciati a caso che vanno sottoil nome di fogliame, non significano nulla, non dipendono da concetti definiti,eppure piacciono. La soddisfazione che dà il bello deve dipendere dalla riflessionesopra un oggetto, la quale conduce ad un qualche concetto (senza determinarlo 40

precisamente), distinguendosi perciò dal piacevole, che riposa interamente sullasensazione. […]

Def inizione del bel lo desunta dal primo momentoIl gusto è la facoltà di giudicare d'un oggetto o d'una specie di rappresenta-

zione, mediante una soddisfazione od insoddisfazione scevra d'ogni interesse. 45

L'oggetto d'una tale soddisfazione si dice bello.(§§ e ; trad. it. pp. --, --)

1–4. La prima caratteristica del giudizio digustoè il disinteresse. Essodenuncia la corre-lazione fra l’esistenza dell’oggetto della rap-presentazione e il desiderio da parte del sog-getto che contempla. Per contro, il giudizio digusto non dev’essere inquinato da valutazio-ni che pertengono a sfere estranee al domi-nio del gusto stesso, come l’utile, l’edificanteo il piacevole.

4–13. Kant contesta una linea di pensieroche postulava il legame fra il piacere e il sod-disfacimento di un bisogno e, ulteriormen-te, fra il soddisfacimento stesso e l’esisten-za dell’oggetto che lo potrebbe effettuare.Io provo piacere quando, avendo voglia di un

gelato, lo gusto: ma ciò può aver luogo so-lo se riesco a trovare il gelato. Anche ambi-ti più elevati si espongono alla stessa logica:è il desiderio di un piacere fisico (magari piùraffinato, ma sempre di origine sensibile) chemi porta ad ascoltare un certo brano di musi-ca e il soddisfacimento si ha solo se e quandoriesco effettivamente ad ascoltarlo. La defini-zionekantiana ci dà immediatamente le coor-dinate del piacere interessato: esso è lega-to alla rappresentazione dell’esistenza di unoggetto e alla facoltà di desiderare che pro-duce un bisogno da quell’oggetto soddisfat-to: la conclusione di questo processo fa na-scere in noi il sentimento del piacere (o del

Kant, «Critica del Giudizio»

dispiacere).Al contrario, il piacere disinteressato è

l’unico a produrre autentici giudizi di gusto;dovunque io mescoli un interesse, il giudiziorisulterà in qualche modo inquinato o «so-spetto»; così se io dicessi che una tal tortaè la migliore perché a me piace pretendereidi assolutizzare una mia pura e semplice opi-nione; oppure apprezzerei il quadro che hoacquistato soprattutto perché ho realizzatocon esso un buon investimento. Il giudizio di-sinteressatomi porta per contro a riconosce-re che un quadro è costoso perché è un ca-polavoro, mentre non diventa un capolavo-ro per il solo fatto che il mercato ne ha alza-to la quotazione. Dobbiamo insomma esserein grado di apprezzare un’opera del tutto in-dipendentemente dall’esistenza dei suoi og-getti: così nessuno ritiene scadente I fratel-li Karamazov perché non sono mai esistiti néIvan né Alëša, né La battaglia di San Romanoper il fatto che nella realtà i cavalli non sonorossi o blu.

14–26. Gli oggetti del piacere interessatosono il piacevole e il buono (entrambi in uncontinuum in quanto rispettivamente livelloinferiore e superiore dell’interesse), l’ogget-to del piacere disinteressato è il bello. Il pia-cevole è l’oggetto del sentimento così comeappare nella sensazione e non in forma pu-ra: ciò significa che qui ha luogo una conta-minazione non corretta fra sensazione e sen-timento: quest’ultimo pretende di giudicare(in forma riflettente, s’intende), ma non indi-

pendentemente dalla sensazione, che invececonosce (inmodo sempre e solo determinan-te). Il carattere «impuro» del piacevole risie-de perciò nel fatto che nel giudizio del piace-vole non viene percepito solo il soggetto (ilsuo stato interno o sentimento), ma anchel’oggetto e il piacere non risulta disgiuntocome si converrebbe dalla conoscenza.

27–32. Il buono è ciò che suscita piacerein noi in base a quanto suggerisce la ragione,alla luce di un fine (cioè in quantoo è conside-rato un fine o è atto al raggiungimento di unfine). Qui il piacere non è puro perchémesco-lato alla volontà, cioè è inquinato non più dal-la conoscenza, bensì appunto dalla ragione.Anche in questo caso ha un ruolo l’esistenzadell’oggetto: il soggetto lo percepisce e nonsente invece solo se stesso, come dovrebbein un autentico giudizio di gusto. In fondo ilbuono è sulla stessa linea del piacevole, dalmomento che il piacere interessato è semprein rapporto col desiderio del soggetto e chenoi riteniamo buono ciò che soddisfa i nostridesideri.

32–43. Il bello piace invece non in quan-to sentito (dalla facoltà inferiore) né in quan-to voluto (dalla facoltà superiore), bensì inquanto contemplato; esso fornisce un piace-re immediato perché non ha importanza chela cosa esista o no, che sia percepita o voluta:solo in quest’ambito l’approvazione da partedel soggetto, che produce il sentimento delbello, è assolutamente libera.

. Secondo carattere del bello: l'universalità

…quando si è consapevoli del fatto che la soddisfazione che proviamo per qualco-sa è del tutto disinteressata, non possiamo fare a meno di ritenere che contenga unmotivo di soddisfazione per tutti. Infatti qui non ci si basa su qualche inclinazionedel soggetto (né su qualche altro interesse riflesso): chi giudica si sente comple-tamente l ibero nei confronti della soddisfazione con cui si volge all'oggetto, per 5

cui non riesce ad attribuire tale soddisfazione ad alcuna circostanza particolare,esclusiva del proprio oggetto, e deve quindi considerarla fondata su ciò che puòpresupporre in ogni altro: di conseguenza dovrà credere d'aver motivo di atten-dersi da ciascun altro una simile soddisfazione. Parlerà pertanto del bello, comese la bellezza fosse una proprietà dell'oggetto, ed il giudizio fosse logico (come se 10

cioè costituisse una conoscenza dell'oggetto mediante concetti di questo). Infatti,per quanto il giudizio sia soltanto estetico e non implichi che un rapporto dellarappresentazione dell'oggetto con il soggetto, è analogo al giudizio logico sottoquesto profilo, che se ne presuppone la validità per ognuno. Ma questa universa-lità non può scaturire neppure da concetti. Infatti dai concetti non si dà passaggio 15

Kant, «Critica del Giudizio»

al sentimento di piacere o di dispiacere …Ne consegue che al giudizio di gusto sideve annettere, con la consapevolezza del suo carattere disinteressato, una prete-sa di validità universale, senza che tale universalità poggi sull'oggetto; vale a dire,la pretesa ad una universalità soggettiva deve essere legata al giudizio di gusto.

Def inizione del bel lo desunta dal secondo momento 20

È bello ciò che piace universalmente senza concetto.(§§ e ; trad. it. pp. e )

1–14. La seconda caratteristica del giudi-zio di gusto è l’universalità. Il piacere esteti-co è universale e necessario (si impone cioèa tutti), ma non può richiamarsi a un concet-to dell’intelletto che lo fondi e dimostri. L’u-niversalità è in altre parole contingente, nelsenso che noi non siamo certi che tutti la ri-spettino in concreto, ma che possiamo soloesigerlo, senza certezze sul risultato di talenostra pretesa. Come meglio si vedrà nelladeduzione del giudizio di gusto, l’universali-tà è soggettiva, dal momento che si rifà alcomune sentimento dei soggetti giudicanti ein questi risiede: proprio per questo rimanesenza prova.

14–20. Il carattere aconcettuale del giu-dizio di gusto non esclude l’esistenza del pia-cere intellettuale che nasce dalla commisura-zione di un oggetto con ciò che esso dovreb-be essere, ovvero col suo concetto. Quando,ad esempio, io mi compiaccio nel vedere del-le figure geometriche ben definite o al con-

trario mi disturbo nel vederne di malamen-te disegnate, sto paragonando ciò che vedocon quello che dovrebbero essere autenti-che figure geometriche:ma così è ancora unavolta l’intelletto che giudica, l’obiettivo è inqualche modo conoscitivo e il giudizio deter-minante. Qui il piacere non è insomma acon-cettuale: dalla prima caratteristica del belloabbiamo visto che esso implica una finalitànon pratica e una conoscenza non teoretica;ora apprendiamo che esso determina una re-golarità non però fornita da una legge. Se vifosse concettualità, vi sarebbe anche dimo-strabilità: in tal caso tutti potrebbero impa-rare ad apprezzare le opere d’arte e sareb-be possibile spiegare perché una certa cosa èbella e un’altra no; ma noi sappiamo che l’ap-prezzamento nei confronti del bello è unafacoltà certo non immotivata, ma aconcet-tuale, per cui noi «sentiamo» la bellezza manon siamo in grado di giustificare tale nostrosentimento.

. Terzo carattere del bello: la finalità senza scopo

Ogni fine, se lo si considera come della soddisfazione, implica sempre un interessecome principio della determinazione del giudizio sull'oggetto del piacere stesso.Ne consegue che a fondamento del giudizio di gusto non può esservi nessunoscopo soggettivo. Ma tale giudizio non può neppure venire determinato dallarappresentazione di uno scopo oggettivo, cioè dalla possibilità dell'oggetto stesso 5

secondo princìpi di relazione ad un fine (non quindi da un concetto di bene); sitratta infatti di un giudizio estetico e non di conoscenza, non concernente quin-di alcun concetto della natura e della possibilità esterna o interna dell'oggettomediante questa o quella causa, ma soltanto il rapporto reciproco delle facoltàrappresentative, in quanto queste sono determinate da una rappresentazione. […] 10

Pertanto, la soddisfazione che noi, senza concetto, giudichiamo universalmen-te comunicabile, e quindi causa determinante del giudizio di gusto, non può con-sistere in altro che nella finalità soggettiva della rappresentazione di un oggetto,senza fini di sorta (né oggettivi né soggettivi), quindi nella semplice forma dellafinalità nella rappresentazione con la quale un oggetto ci viene dato, nella misura 15

in cui ne siamo coscienti. […]Non può esservi alcuna regola oggettiva di gusto, capace di determinare tra-

mite concetti che cosa sia il bello. Infatti, ogni giudizio che scaturisca da questa

Kant, «Critica del Giudizio»

fonte è estetico, trova cioè il proprio principio di determinazione nel sentimentodel soggetto e non nel concetto d'un oggetto. 20

Def inizione di bel lo desunta da questo terzo momentoLa bel lezza è la forma della f inal i tà d'un oggetto, in quanto viene percepita

in questo senza la rappresentazione d'uno scopo.(§§ e ; trad. it. pp. --, --, )

1–10. La terza caratteristica del giudiziodi gusto è la finalità, la quale tuttavia non siriferisce davvero a uno scopo che l’oggettodel gusto possederebbe, ma solo a una im-pressione che il soggetto percepisce senzapoterla indicare con precisione. Essa cioè ri-mane una finalità indeterminata, a differenzadi quella della ragione.

11–23. Kant distingue la finalità oggettivae quella soggettiva: la prima è la relazione diunoggetto col suofine, stabilitomediante unconcetto; si tratta della teleologia, dove il fi-ne per cui la cosa è posta in essere è la suastessa causa. La seconda consiste invece nel-l’accordo dell’oggetto con lo stato del sog-getto: qui non ha alcun rilievo il fondamen-to dell’oggetto, la sua «reale» destinazione,ma solo quanto appare come destinazione alsoggetto. Ad esempio, io posso compiacer-mi nel rilevare delle regolarità in un disegnoo in un paesaggio, ma mi fermo alla consta-tazione pura e semplice di dette regolaritàper trarne piacere, senza indagare come maiesse siano presenti; queste informazioni nonservirebbero in ogni caso ad accrescere ilmio

piacere.Nel bello io riscontro una regolarità che

mi fa pensare a un’organizzazione finalistica,ma so che essa non è presente nelle cose (al-trimenti sarebbe oggettiva, non soggettiva)e in ogni caso non posso individuarla in con-creto (essa rimane a livello puramente for-male). Il fine non è altro che la forma del fi-ne, presente solo nel soggetto; qui, in altreparole, non è richiesto l’accordo dell’ogget-to col suo concetto, bensì semplicemente ilsentimento dell’accordo dell’oggetto con lefacoltà conoscitive del soggetto. Il sentimen-to, benché possa dare origine a un piacere in-teressato (il piacevole, il buono e quello in-tellettuale), può anche acquisire una sua to-tale autonomia e generare il piacere esteti-co. Così in una naturamorta noi cogliamo l’e-quilibrio delle forme, la perfetta disposizio-ne degli elementi, ma ci rendiamo conto cheil pittore non aveva altro fine, nel collocarequel vaso o quel frutto proprio in quel luo-go, che creare un’immagine equilibrata e bendisposta.

. La rivoluzione copernicana estetica

Le righe che seguono provengono dalla Deduzione dei giudizi estetici puri, ilcapitolo che presenta la deduzione trascendentale dell'ambito del Giudizio. Purnotando la differente inclinazione soggettiva rispetto alla deduzione della primaCritica, riteniamo che giustamente si possa parlare di «rivoluzione copernicana»estetica in relazione alle teorie del bello da cui Kant prende le mosse.

Il giudizio di gusto si distingue da quello logico per il fatto che quest'ultimosussume, a differenza del primo, una rappresentazione sotto il concetto d'un og-getto, altrimenti il necessario consenso universale potrebbe venire imposto me-diante prove. Il primo giudizio rassomiglia tuttavia al secondo per il fatto di pre-tendere ad una universalità e necessità, non però secondo concetti dell'oggetto, e 5

quindi meramente soggettiva. […] dato che la libertà della immaginazione consi-ste appunto nello schematizzare senza concetto, il giudizio di gusto deve fondarsisulla mera sensazione del reciproco avvivarsi dell'immaginazione, nella sua l iber-tà, e dell'intelletto, nella sua legal i tà; quindi su un sentimento, che ci fa giudicarel'oggetto secondo la finalità della rappresentazione (mediante la quale ci vien da- 10

to un oggetto) a promuovere il libero gioco delle facoltà conoscitive; e il gusto,

Kant, «Critica del Giudizio»

quale Giudizio soggettivo, contiene un principio di sussunzione, non però di in-tuizioni sotto concetti, ma della facoltà dell'intuizione o della presentazione (cioèdell'immaginazione), sotto la facoltà dei concett i (l'intelletto), nella misura incui la prima, nella sua l ibertà, si accorda colla seconda, nella sua legal i tà. […] 15

Se non si tratta d'un semplice giudizio di sensazione, ma d'un giudizio forma-le di riflessione, che esige da ciascuno questa soddisfazione come necessaria, essodeve avere a fondamento un qualche principio a priori, in ogni caso puramentesoggettivo (uno oggettivo sarebbe impossibile in questa specie di giudizi), ma, an-che come tale, bisognoso di una deduzione che spieghi come un giudizio estetico 20

possa pretendere alla necessità. Su ciò si fonda il problema che ora ci occupa:come sono possibili i giudizi di gusto? […]

Se ammettiamo che in un puro giudizio di gusto la soddisfazione per l'oggettosia legata al mero giudizio della forma di questo, non si tratta d'altro che dellafinalità soggettiva di questa per il Giudizio, che noi sentiamo legata nel nostro 25

animo con la rappresentazione dell'oggetto. Ora, poiché il Giudizio, riguardoalle regole formali del giudicare, ed escludendo ogni materia (sensazione o con-cetto), non può riguardare se non le condizioni soggettive dell'uso del Giudizioin generale (che non si applica né ad un particolare modo di sentire né ad unparticolare concetto dell'intelletto); quell'elemento soggettivo, quindi, che si può 30

presupporre in ogni uomo (in quanto necessario alla possibilità della conoscenzain generale); si deve poter ammettere a priori la validità universale dell'accordodi una rappresentazione con queste condizioni del Giudizio. In altri termini: ci sipuò con ragione attendere da ognuno il piacere, cioè la finalità soggettiva dellarappresentazione in vista del rapporto tra le facoltà conoscitive, nel giudizio d'un 35

oggetto sensibile in generale.(§§ e ; trad. it. pp. --, )

1–5. Il punto di partenza di Kant è il rico-noscimento del fatto che il giudizio di gusto,nonché essere ateoretico, cioè impossibilita-to a dimostrare e imporre le proprie ragioniin forma discorsiva dimostrativa (proviamo aspiegare che la torta al cioccolato è buona aqualcuno a cui non piace!), è pure universa-le. Questo carattere non può tuttavia risiede-re nell’oggetto (o ancora una volta avremmoa che fare con un giudizio determinante) edunque si basa sulla funzione soggettiva delGiudizio. Quando io asserisco che «mi piace»La traviata, affermo la mia personale opinio-ne su una celebre opera lirica; ma se dico cheLa traviata «è bella», pretendo che tutti glialtri non dissentano da questo giudizio: co-me ciò può avvenire, su che cosa si fonda ladifferenza tra i miei due giudizi?

6–15. L’espressione «libero gioco» del-le facoltà conoscitive, ossia della sensibili-tà e dell’intelletto nei confronti dell’immagi-nazione, ci suggerisce che il giudizio di gu-sto, benché aconcettuale, non è per que-sto del tutto indipendente dall’intelletto,almeno come generale facoltà di operare

il giudizio (non invece come applicazionedi concetti determinati). Se la conoscenzaè costituita dall’accordo di immaginazione(che fornisce gli schemi) e intelletto (chefornisce il materiale ordinato spazio-tempo-categorialmente), il giudizio di gusto è co-stituito invece dal loro libero gioco: accor-do spontaneo e soggettivo, che non ha perregola l’effettivo comportamento o la strut-tura del reale, bensì la rispondenza con leaspettative soggettive. Io insomma ho a chefare con una realtà possibile (sottoposta allegenerali o, meglio, indeterminate norme del-l’intelletto), ma di ciò non mi interessa stabi-lire la struttura categoriale (ad esempio l’esi-stenza o l’inesistenza, concetti dovuti all’usopreciso di una categoria). Ha dunque luogoun «contemperamento della libertà dell’im-maginazione con la legalità dell’intelletto»(L. Pareyson, L’estetica di Kant, Mursia, Mila-no 1984², p. 85). Ciò significa che avviene inpositivo una determinazione e potenziamen-to reciproco, in senso negativo una vicende-vole limitazione. L’immaginazione, benché ri-manga libera nel gestirsi, non può stravolge-

Kant, «Critica del Giudizio»

re del tutto le norme intellettuali. Dal cantosuo l’intelletto continua a essere principio diordine, ma deve porsi al servizio dell’imma-ginazione (e non subordinarla, come avvieneinvece nel processo conoscitivo attraverso loschematismo trascendentale) perché anchel’immaginazione deve possedere una sua in-terna legalità (che non è quella naturale) pernon cadere nel puro e semplice caos.

16–22. Anche per i giudizi estetici è ne-cessario produrre una deduzione perché, se-condo le parole dello stesso Kant, «la pretesad’un giudizio estetico alla validità universaleper ogni soggetto, in quanto giudizio che de-ve basarsi su un qualche principio a priori, habisogno d’una deduzione (cioè d’una legitti-mazione della sua pretesa)» (p. 253). Infattiriconoscere la soggettività del giudizio di gu-sto non equivale ammetterne il carattere in-dividuale o arbitrario (soggettivo non signifi-ca mai individuale in Kant) e c’è allora la ne-cessità di spiegare come mai tale considera-zione risieda nel soggetto e aspiri pur tutta-via a un connotato universalistico.Questi giu-dizi non sono naturalmente sintetici a priori:benché inpossessodi unmomentoaprioristi-co, essi, in quanto vertono su un oggetto d’e-sperienza (un paesaggio naturale, un’operad’arte ecc.), risultano a posteriori.

23–35. La deduzione consiste per interoin questo non lungoparagrafo. Dalmomentoche l’accordo a proposito del gusto, che non

è logico o concettuale, non è costituito da ungiudizio sull’oggetto né può essere prodot-to dimostrativamente, non rimane che essosi fondi su una sorta di sentimento o sensocomune a cui noi tutti ci richiamiamo in que-sto tipo di giudizi: la deduzione si basa insom-ma sull’assunzione dell’universalità del giudi-zio di gusto. Precisa Kant che il consenso uni-versale soggettivo richiede solamente comecondizione: «1) che le condizioni soggettivedi questa facoltà […] sono le stesse in tut-ti gli uomini […]; 2) che il giudizio prenda inconsiderazione solo questo rapporto (quindila condizione formale del Giudizio» (p. 264).Le condizioni soggettive del Giudizio sono in-fatti le medesime in ogni uomo: questo si-gnifica che, se da un lato Kant respinge ogniimpostazione razionalistica dell’estetica, nonsegueneppureuna visionemeramente sensi-stica o empiristica. Per conseguenza, «de gu-stibus est disputandum», almeno nel sensoche le opinioni individuali devono sottostarealla generale regola del gusto: essa non si ri-volge a noi con la necessità impositiva delleleggi naturali (che non consentono violazio-ne), ma con la necessità iussitiva delle leggimorali (che possono essere violate): come ilsoggetto immorale ruba o uccide, così il sog-gettoprivodi «buongusto» non sarà in gradodi avere una sensibilità estetica nei confrontidel bello.

Il sublime

La trattazione dell'Analitica del sublime da un lato risulta innegabilmente con-dizionata da un tema tipico della sua epoca, dall'altro acquisisce un peso teoricorilevante. Nel corso dell'analisi infatti il filosofo si accorge che il giudizio esteticopuro è un caso troppo limitato e comincia ad accogliere, se non ad accettare espli-citamente, caratteri «interessati» nella valutazione del bello, quelli che rientranostrutturalmente nel sublime (che si apparenta perciò alla bellezza «aderente»).

. Il sublime e il bello

Il bello e il sublime concordano in questo, che entrambi piacciono per se stessi.Entrambi inoltre non presuppongono un giudizio dei sensi od un giudizio logicodeterminante, ma un giudizio riflettente…

Balzano però anche agli occhi considerevoli differenze. Il bello naturale ri-guarda la forma dell'oggetto, che è limitazione; il sublime al contrario si può 5

trovare anche in un oggetto informe, in quanto implichi o provochi la rappre-sentazione dell'i l l imitatezza, pensata tuttavia nella sua totalità; sicché pare

Kant, «Critica del Giudizio»

che il bello debba essere considerato la presentazione d'un concetto indetermi-nato dell'intelletto, il sublime d'un concetto indeterminato della ragione. Nelprimo caso quindi la soddisfazione è legata alla rappresentazione della quali- 10

tà, nel secondo a quella della quantità. Anche tra i due tipi di soddisfazionec'è molta differenza: mentre il bello implica direttamente un sentimento di in-tensificazione della vita, e si può perciò conciliare con le attrattive e con il giocodell'immaginazione, il sentimento del sublime invece è un piacere che scaturiscein modo indiretto, venendo prodotto dal senso d'un momentaneo impedimento 15

delle forze vitali, seguito da una tanto più forte effusione di queste; e perciò, inquanto emozione, non sembra essere qualcosa di giocoso, ma di serio, tra le oc-cupazioni dell'immaginazione. Quindi è anche inconciliabile con le attrattive; e,dato che l'animo non è solamente attratto dall'oggetto, ma alternativamente at-tratto e respinto, la soddisfazione del sublime non è tanto un piacere positivo, ma 20

merita piuttosto, accompagnata com'è da ammirazione o rispetto, d'essere dettapiacere negativo.

Ma la più importante ed intima differenza tra il sublime e bello è la seguente:se, com'è giusto prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto il subli-me degli oggetti naturali (quello dell'arte è limitato sempre dalla condizione che 25

s'accordi con la natura), la bellezza naturale (indipendente) comprende nella suaforma una finalità, per cui l'oggetto sembra come predisposto per il nostro Giu-dizio, ponendosi così come autonomo oggetto di soddisfazione; mentre ciò che,nella semplice apprensione e senza che ci mettiamo a ragionare, produce in noiil sentimento del sublime, può apparire, quanto alla forma, urtante per il nostro 30

Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà di presentazione e per così dire violentocontro l'immaginazione, ma proprio per questo sarà giudicato più sublime. […]

Ma in ciò che siamo soliti chiamare sublime c'è così poco di riducibile a prin-cìpi determinati ed a forme della natura ad essi adeguate, che questa anzi suscitapiù facilmente le idee del sublime quando in lei domina il caos, il disordine e la 35

devastazione più selvaggi, purché si manifestino grandezza e potenza. E da ciòvediamo che il concetto di sublime naturale è di gran lunga meno importante ericco di conseguenza di quello del bello naturale …

(§; trad. it. pp. --)

1–3.Almeno in prima istanza l’esperienzadel sublime si apparenta aquella del bello peril carattere disinteressato della contempla-zione. In secondo luogo sublime non si diràun oggetto, bensì un sentimento: anch’essoappartiene alla sfera della soggettività.

4–20. Ma rispetto al bello il sublime pre-senta, comeKant tiene amettere subito in lu-ce, anche fondamentali differenze: se il belloè un sentimento di tranquillità, di ordine, dieuritmia, il sublime è la rottura di questi equi-libri. Esso 1) può trovarsi anche in un oggettoinforme, laddove il bello risiedeva nella for-ma in quanto ordine e limitazione (rr. 4–7);2) esibisce un concetto della ragione, laddo-ve il bello si imparentava piuttosto con l’intel-letto (rr. 7–11); 3) fornisce un piacere indiret-to perché conseguente alla risoluzione di unconflitto, di unmomentodi tensione e invece

quello apportato dal bello si impone subito anoi (rr. 11–4); fornisce un piaceremisto, dettoqui «negativo», poiché procura una contem-plazione commossa se non addirittura agita-ta, laddove quello tipico del bello è semprepositivo e apporta tranquillità (rr. 17–21).

21–30. Continua l’elencazione delle diffe-renze iniziata immediatamente sopra: 5) ilsublime manca dell’esibizione della finalità eappare insensato e sconvolgente, mentre ilbello, comesappiamo, si connotaproprioperil possesso di una finalità senza scopo.

31–36. Benché sia lo stesso Kant a svalu-tare l’importanza del sublime, egli poi confe-risce a esso (e specialmente al sublimemate-matico) un assai ampio spazio in questa suaterza Critica: il perché di questa incongruen-za sarà chiarito fra breve, nella rivalutazionedella bellezza «aderente».

Kant, «Critica del Giudizio»

Il sublimeC’è una tradizione immensa alle spalle dell’uso kantiano del concetto di su-

blime: la prima occorrenza del problema in ambito filosofico si legge nel Fedrodi Platone (245a), dov’è riconosciuta un’esperienza artistica «ispirata» priva diregole razionali. La questione viene posta esplicitamente nel trattato Del subli-me, dovuto a un ignoto autore del I sec. d.C. un tempo identificato con DionisioLongino, in cui si riferisce di una polemica risalente al I sec. a.C. fra due scuole diretorica, quella asiana (che sosteneva per l’oratoria un tono elevato e retorico)e quella atticista (che prediligeva le tinte discrete). Il trattato poneva una chia-ra distinzione fra il bello, fondato sulla perfezione formale, e il sublime, dovutoinvece alla forza del sentimento e posto su di un piano per intero emozionale,sia ch.e faccia ricorso allo stile semplice sia che adotti quello ornato, poiché suoscopo è condurre «gli ascoltatori non alla persuasione, ma all’esaltazion»e» (§3). Il piano dell’opera è per intero retorico, anche se vi si affaccia la tesi secondocui in ultima analisi il sublime si trova nel contenuto piuttosto che nelle formedi esprressione.

L’opera venne riscoperta nel 1554, tradotta dapprima in francese daBoileaunel 1674equindi ripresadaAddinson sulle paginedello «Spectator» a cavallo frail 1711 e l’anno successivo: fu colpa omerito di Addinsonporre quella distinzionetra bello e sublime che, pur fondata su un macroscopico fraintendimento delsignificato originale dei concetti (il sublime riguardava, in Del sublime, la passio-nalità del contenuto e il carattere vigoroso e nobile dell’ispirazione), avrà unadiffusione e un ruolo di primaria importanza per tutto il secolo. Riprendendotale posizione sia Home sia Burke (quest’ultimo autore della celebre Ricerca fi-losofica sull’origine delle idee del sublime e del bello del 1759) oppongono con de-cisione il bello al sublime, considerando la genesi di quest’ultimo come dovutaallo spaventevole, all’orroroso: sublime è in altre parole ciò che fa paura.

La tesi conobbepoi un’ampiadiffusioneanche in Italia, nel pre-romanticismoche congiunge espressioni artistiche eterogenee che vanno dall’Ossian di Ce-sarotti alle rovine incise da Piranesi e quindi all’upupa e ai riferimenti sepolcralidi Foscolo, e in Germania a opera di Moses Mendelssohn. Il sublime richiamòl’attenzione di Kant, prima che nella terza Critica, nell’operetta Osservazioni sulsentimento del bello e del sublime, datata 1764. La novità introdotta dal filoso-fo è naturalmente la fondazione aprioristica del sublime stesso. La fortuna diquesto concetto non finisce qui: il Romanticismo intero ne dibatté, a comincia-re da Schiller che a esso dedicò due influenti saggi rispettivamente del 1793 edel 1801. Da Schelling e Hegel fino a Schopenhauer tutti i maggiori filosofi se neoccuparono, ma col declino dell’età romantica pure il sublime fu abbandonatoin quanto autonoma categoria estetica.

È solo in epoca assai recente che, dopo un lungo oblio, il sublime sembraaver nuovamente attirato l’attenzione da parte di alcuni artista e teorici, allaluce della considerazione che è ormai impossibile identificare l’arte col bello.

. Il sublime matematico

Diciamo sublime ciò che è assolutamente grande.Ma l'essere grande e l'essereuna grandezza son due concetti del tutto diversi (magnitudo e quantitas). Allostesso modo dire semplicemente (simpliciter) d'una cosa, che è grande, è deltutto diverso dall'affermare che è assolutamente grande (absolute, non com-

Kant, «Critica del Giudizio»

parative magnum). Nel secondo caso, si tratta d'una grandezza superiore ad 5

ogni confronto. […]Quando invece d'una cosa diciamo non solo che è grande, ma grande per

eccellenza, assolutamente, sotto ogni riguardo (al di là d'ogni paragone), vale adire sublime, si vede subito che non permettiamo di cercarne una misura adeguatafuori della cosa, ma solo nella cosa stessa. È una grandezza che ha uguale solo 10

in se stessa. Da ciò consegue che il sublime non si deve cercare nelle cose dellanatura, ma solo nelle nostre idee; il problema di quali idee si tratti, dev'esseretenuto in serbo per la deduzione. […]

Alle precedenti formule definitorie del sublime possiamo dunque aggiungereancora questo: sublime è ciò che, anche solo per i l fatto di poterlo 15

pensare, attesta una facoltà del l 'animo superiore ad ogni misura deisensi. […]

Come, dunque, il Giudizio estetico del bello rapporta il libero gioco dell'immaginazioneall'intel letto, per accordarlo con i concett i di questo in generale (senza deter-minare quali), così quella stessa facoltà, quando giudica una cosa come sublime, 20

riferisce l'immaginazione alla ragione, per porla in accordo soggettivamente conle idee di questa (senza precisare quali), per produrre cioè uno stato d'animo con-forme e compatibile con quello che indurrebbe l'influsso di certe idee (pratiche).[…]

Il sentimento della nostra inadeguatezza a portarci al livello di un'idea che 25

per noi è legge, è il r ispetto. Ora, l'idea della comprensione di ogni fenomenoche può esserci dato, nell'intuizione di un tutto, è un'idea che ci è imposta dauna legge della ragione che non riconosce altra misura definita, universalmentevalida ed immutabile, all'infuori dell'assoluta totalità. La nostra immaginazioned'altra parte, anche nel suo massimo sforzo di giungere alla comprensione d'un 30

oggetto dato in una totalità intuitiva presentando così l'idea della ragione), mo-stra i propri limiti e la propria insufficienza, ma anche al tempo stesso la propriadestinazione ad adeguarsi a quell'idea come legge. Il sentimento del sublime dellanatura è dunque sentimento di rispetto per la nostra propria destinazione, checon una specie di sostituzione (scambiando per rispetto rivolto all'oggetto quello 35

per l'idea d'umanità in noi), rivolgiamo ad un oggetto naturale, che ci rende percosì dire intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltàconoscitive sul massimo potere della sensibilità.

Il sentimento del sublime è dunque un sentimento di dispiacere suscitato, nellavalutazione estetica delle grandezze, dall'inadeguatezza tra l'immaginazione, e la 40

valutazione che ne dà la ragione; ed è nello stesso tempo anche un sentimentodi piacere suscitato dall'accordo proprio di questo giudizio sull'insufficienza delmassimo potere sensibile, con le idee della ragione, in quanto il tendere a questeè per noi una legge.

(§§ --; trad. it. pp. , --, --)

1–14. Il sublime matematico, secondo ladefinizione stessa di Kant, è l’immenso quan-to alla grandezza, ovvero l’infinito. Il sogget-to contemplante ne è colpito negativamentepoiché di fronte a tanto oggetto non può chepercepire il senso della sua impotenza a in-tenderlo. Ma proprio nel risolvimento di que-sta impressione negativa egli coglie la ragio-

ne come organo della comprensione (atta alpensiero) dell’infinito: il contrasto fra sensibi-lità e ragione è risolto a tutto vantaggio del-la seconda e si attiva così il meccanismo del-la sensazione di piacevolezza quale risultatodella cessazione dell’affanno.

15–39. Celebrare la ragione significa peròriconoscere il primato della pratica sulla teo-

Kant, «Critica del Giudizio»

resi: segno che il sentimento del sublime sifonda su quello morale, poiché il primo forni-sce una versione per così dire maggiormen-te concreta o icastica del secondo. Quel sen-so di rispetto, stima e quasi sacro timore chenoi portiamo alla ragione viene ora trasferi-to su un oggetto sensibile (una montagna,una cascata, il mare ecc.), in modo comun-que da non cancellare mai del tutto l’origina-rio significato morale della nostra esperien-za del sublime. Tale traduzione (o travesti-mento estetico) della ragione è resa neces-saria dalla incapacità della nostra immagina-

zione a intendere la totalità sconfinata (delmare come della ragione) che ci sta davanti.Il sublime èdunque simbolo del benemorale.

Meccanismo simile si riscontra nel subli-me dinamico, in cui il soggetto contemplan-te è colpito negativamente poiché di fronteall’oggetto spaventevole non può che per-cepire il senso della sua impotenza fisica asopportarlo: ma proprio nel risolvimento diquesta impressione negativa egli intende lasua umanità (razionalità) come strumentodel superamento dei limiti della naturalità.

. L'arte bella

Non ci appare di grande ricchezza la trattazione kantiana del bello artistico: seb-bene ciò non sia dovuto solo a ragioni di tipo biografico, il filosofo preferiva digran lunga il bello naturale («il cielo stellato sopra di me»). È noto inoltre che,nella sua Königsberg, non ebbe mai grandi occasioni per contemplare capolavoridelle arti figurative e rimase del tutto ignorante in fatto di musica, tanto che Baschin una celebre monografia gli rimproverò, con tono scandalizzato, di non saperechi fossero glorie nazionali quali Händel o Haydn; solo in fatto di letteratura pareche Kant avesse adeguate capacità critiche e rilevante gusto.

L'arte viene distinta dalla natura come il fare (facere) dall'agire od operare ingenerale (agere), ed il prodotto o risultato della prima si distingue da quello dellaseconda come l'opera (opus) dall'effetto (effectus). […]

L'arte bella è […] una specie di rappresentazione che ha il suo scopo in sestessa, e che, pur senza scopo, promuove la cultura delle facoltà dell'animo in 5

vista della comunicazione in società. […]Di fronte a un prodotto dell'arte bella bisogna esser consapevoli che si tratta di

arte e non di natura; ma la finalità contenuta nella sua forma deve apparire tantolibera da ogni costrizione di regole arbitrarie, come se si trattasse d'un sempliceprodotto della natura. 10

[…] La natura era bella, quando aveva l'apparenza d'arte; e l'arte può dirsibella solo quando, pur essendo consapevoli che si tratta di arte, ci appare comenatura. […]

La finalità nei prodotti dell'arte bella, per quanto intenzionale, non deve dun-que parere tale; cioè, deve apparire come natura, sebbene si sappia che è arte. 15

Ora, un prodotto dell'arte assume l'aspetto della natura, quando raggiunge tut-ta la precis ione nell'accordo con le regole che di esso fanno ciò che dev'essere,ma senza pignoleria, senza lasciar trasparire una forma di sapore accademico,cioè senza mostrare tracce che indichino come la regola fosse presente davantiagli occhi dell'artista, quasi a incatenare le forze del suo animo. 20

(§§ e ; trad. it. pp. , --)

1–3. Col termine «arti» Kant intende letecniche produttive in generale, distinte dal-la produzione che noi chiamiamo semplice-mente artistica e da lui invece definita «ar-

ti belle». Il risultato è del pari differente:nel primo caso il prodotto è dato dalle tec-nologie produttive e segue precise regole,nel secondo è un’opera d’arte composta con

Kant, «Critica del Giudizio»

libertà.4–10. L’opera d’arte è colta comebella se

è in possesso della forma della finalità, deli-beratamente attribuita dall’artista: è presen-te insomma un’analogia di costituzione fra ilbello naturale, che sembra possedere un fi-ne, e il bello artistico, a cui l’artista attribuisceun fine.

11–12. Per una singolare equivalenza traarte e natura, noi siamo portati talora a di-re ad esempio di un paesaggio naturale che«sembra un quadro» e di un quadro che«sembra vero». La natura sembra arte e l’artenatura; non dimentichiamo che se Kant asse-risce in unmemorabile chiasmo: «Una bellez-za naturale è una cosa bella: la bellezza arti-stica è una bella rappresentazione d’una co-sa» (p. 284), è perché ha sotto gli occhi un’ar-te (figurativa) realistica. L’affermazione se-condo cui l’arte «ha il suo scopo in se stessa»(rr. 4-5) significa che essa mostra l’esecuzio-ne di un piano preordinato, dove nulla è la-sciato al caso. Qual è il fine di questo piano?Semplicemente fare una bella opera d’arte.

13–19. La libertà e la spontaneità sono ri-conosciute anche nella natura, la quale pare

assumere esattamente le forme che il nostrosentimento si aspetta, pare volersi accordareintenzionalmente con la nostra attesa, comefa l’arte. Del tutto similmente l’arte bella de-ve avere l’apparenza non calcolata, sponta-nea della natura; la parte di tecnica comun-que necessaria per costruire l’opera d’artedev’essere dissimulata o subentrerebbe nelgiudicarla il concetto e si tratterebbe ancorauna volta solo di conoscenza e non di gusto.A complicare la questione vieneperò la consi-derazione che anche nell’artemeccanica nonmanca mai il fine (se costruisco un ombrel-lo, lo faccio innanzitutto perché mi ripari dal-la pioggia) e dunque non possiamo dire chela determinazione teleologica è lo specificodell’arte. La differenza sta nel fatto che il rag-giungimento della perfezione tecnica è fineultimo per la produzione meccanica, mentreè solo unmezzo per la produzione artistica, ilcui obiettivo è indurre un sentimento di pia-cere: costruire un palazzo tecnicamente per-fetto non equivale per ciò stesso a costruireun bel palazzo.

Bellezza aderenteIl rigoroso carattere del disinteresse viene da Kant sfumato con la distin-

zione, peraltro fondamentale, fra bellezza libera e bellezza aderente: mentrela prima è quella che in tutto e per tutto obbedisce alle regole del giudizio digusto— e in primo luogo al carattere disinteressato e alla finalità senza scopo—, la seconda mescola nel suo esercizio considerazioni concettuali. In questeovvero nel giudizio che implicano noi siamo condizionati dal fine dell’oggetto,per cui non ci piace una chiesa ornata inmodo lezioso o troviamo discutibile unritratto di un guerriero con fattezze dolci e femminee (gli esempi sono di Kant).Ma l’idea che ci guida è allora quella della perfezione dell’oggetto; essa non sipuò spiegare pienamente, ma solo intuire, perché, in caso contrario, non già dibellezza parleremmo, ma solo e subito di perfezione. La bellezza aderente sicoglie in forma generale, ma ogni volta incarnata nel particolare che la fa sor-gere in noi; nel valutarla facciamo ricorso sia al gusto che all’intelletto dandoluogo a un giudizio al contempo logico ed estetico, per cui un elemento cono-scitivo si insinua nella contemplazione del bello e ciò costituisce, se non unacontraddizione, almeno una difficoltà all’interno della teoria di Kant.

La via d’uscita indicata da alcuni interpreti sta nel rovesciare il cammino: lun-gi dal proporre un’aggiuntiva valutazione conoscitiva di oggetti estetici, Kantstarebbe qui descrivendo la possibilità di considerare esteticamente degli og-getti di conoscenza (e d’altro canto noi sappiamo che qualcosa di simile è ac-caduto già col sublime, in cui al sentimento estetico si sovrappone uno etico).

Kant, «Critica del Giudizio»

Insomma Kant riconosce la possibilità di trasportare nella sfera della valuta-zione estetica elementi originariamente pertinenti ad altri ambiti: il perfetto(proprio dell’intelletto) e il bene (appartenente alla moralità). Ciò significa nonche la contemplazione non sia più disinteressata, ma solo che essa si è datamateriale proveniente da altre facoltà. La necessità di assumere un materialeextraestetico si può giustificare per il fatto che limitare il campo della contem-plazione ai soli elementi genuinamente estetici appariva troppo angusto allostesso Kant, che però non seppe risolvere in modo del tutto soddisfacente ilcontrasto fra l’esigenza della purezza e del disinteresse da un lato e la volontàdi una completa trattazione dell’esperienza estetica dall’altro.

. Il genio

Teoria precorritrice del romanticismo quant'altra mai, quella del genio suggerisceun'estetica in cui questo soggetto, in cui l'immaginazione non è contemplazionema creazione, svolge un ruolo maggiormente rilevante della sua stessa opera. Conquesta teoria, Kant abbandona il taglio tradizionale dell'estetica, che finora si eraoccupata prevalentemente della fruizione dell'opera d'arte, per soffermarsi invecesulla sua produzione.

Il genio è il talento (dono naturale) che dà la regola all'arte. Poiché il talento,come facoltà produttiva innata dell'artista, appartiene esso stesso alla natura, cisi potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell'animo(ingenium), mediante la quale la natura dà la regola all'arte. […]

Ogni arte presuppone infatti delle regole, sui fondamenti delle quali infine 5

rappresentare come possibile un prodotto che si debba dire artistico. Il concet-to dell'arte bella però non permette di dedurre il giudizio sulla bellezza del suoprodotto da qualsivoglia regola che abbia a fondamento un concetto il qualedetermini come il prodotto sia possibile. L'arte bella non può escogitare da sésecondo quale regola debba realizzare i propri prodotti. Ora, poiché senza regole 10

antecedenti nessun prodotto può dirsi arte, bisogna che nel soggetto (mediantel'accordo delle sue facoltà) sia la natura a dare la regola all'arte; l'arte bella èpossibile soltanto come prodotto del genio.

Da ciò si vede: ) che il genio è il talento di produrre ciò di cui non si puòdare nessuna precisa regola, non abilità e attitudine a ciò che si può imparare dal- 15

le regole; di conseguenza, l'original i tà dev'essere la sua prima caratteristica; )potendovi anche essere assurdità originali, i prodotti del genio devono essere an-che modelli, cioè esemplari; quindi, senza essere essi stessi frutto di imitazione,devono servire a tal scopo per gli altri, cioè come misura o regola del giudizio. )Il genio stesso non sa descrivere o mostrare in modo scientifico come esso realizzi 20

i propri prodotti, ma dà la regola in quanto natura; per cui l'autore di un prodot-to di genio, non sa egli stesso come gli vengano in mente le idee per realizzarle,né è in suo potere trovarne a proprio piacere o secondo un piano, comunicandolead altri in precetti che li mettano in condizione di realizzare prodotti simili. […]) La natura non dà mediante il genio la regola alla scienza ma all'arte, ed anche 25

questo solo in quanto questa deve essere arte bella.(§; trad. it. pp. --)

Kant, «Critica del Giudizio»

1–12. L’immaginazione, seguendo la logi-ca del libero suo gioco con le facoltà intellet-tuali, può ricreare il materiale fornitole dal-la natura conferendole nuova forma e in ciòsta il divertimento che essa produce (Kant at-tribuisce all’immaginazione la facoltà di sva-garci in un passo a p. 287). Il genio possiedel’immaginazione non come semplice facoltàriproduttiva (come nel momento della frui-zione artistica), bensì creatrice. Egli produ-ce le idee estetiche, intuizioni che non pos-sono trovare espressione adeguata in alcunconcetto poiché dovute alla libera posizio-ne da parte dell’immaginazione. Il genio èdunque il «luogo» in cui può accadere in for-ma produttiva il libero gioco dell’immagina-zione e dell’intelletto. L’intuizione del genio,utilizzando liberamente il materiale intellet-

tuale, non risulta adeguata a nessun concet-to o sarebbe semplicemente conoscenza enon creazione artistica; questo ci segnala chel’intuizione artistica è più ampia dell’intellet-to, i cui limiti sono qui trascesi per avvicinar-si maggiormente all’infinità della ragione. Ecome la ragion pratica è libera nel suo legi-ferare, così è libero il genio nel suo creareimmagini; egli è in grado di mediare intellet-tualmente la ragione, ossia di esprimere intermini intellettuali le idee.

12–24. Le considerazioni kantiane, tantochiare da non richiedere spiegazioni, si di-staccano recisamente dalla concezione set-tecentesca che tendeva a equiparare intel-lettualisticamente scienza e arte e costitui-scono la summa dell’esaltazione romanticadell’inimitabilità e irripetibilità del genio.

Il giudizio teleologico

I brani che seguono sono tratti dalla sezione della terza Critica intitolata Criticadel giudizio teleologico. Si tratta quantitativamente della parte più breve e me-no importante, dato il ruolo marginale del giudizio teleologico rispetto a quelloestetico.

. Il finalismo come «bisogno» della nostra mente

Facendo riferimento ai princìpi trascendentali, si hanno buone ragione per am-mettere una finalità soggettiva della natura nelle sue leggi particolari, in vista dellasua intelligibilità da parte del Giudizio umano, e della possibilità di connettere leesperienze particolari in un unico sistema…

Ma che le cose della natura stiano tra di loro in rapporto di mezzo a fine, e che 5

la loro stessa possibilità si possa comprendere a sufficienza solo mediante tale tipodi causalità, l'idea generale di natura come insieme degli oggetti dei sensi, non cidà nessun motivo di pensarlo. […]

Si applica tuttavia con ragione il giudizio teleologico alla ricerca naturale, al-meno problematicamente; ma solo per sottoporla, seguendo l'analogia con la 10

causalità secondo fini, a princìpi di osservazione ed investigazione, senza preten-dere di poterla spiegare. Esso appartiene dunque al Giudizio riflettente, non aquello determinante. Il concetto di legami e di forme della natura secondo fini èperlomeno un principio in più per ricondurre a regole i fenomeni naturali, dovele leggi della causalità puramente meccanica non sono sufficienti. 15

…noi non possiamo neppure conoscere a sufficienza gli esseri organizzati e laloro possibilità interna secondo princìpi della natura semplicemente meccanici,tanto meno poi spiegarli; e questo è così certo che si può dire arditamente cheè assurdo per gli uomini anche solo concepire un tale disegno, o lo sperare cheun giorno possa sorgere un Newton capace di far comprendere, secondo leggi 20

naturali non ordinate da alcuna intenzione, anche solo la produzione di uno stelod'erba; bisogna invece assolutamente negare agli uomini questa comprensione.

Kant, «Critica del Giudizio»

(§§ e ; trad. it. pp. --, )

1–8. L’uomo è condotto a interpretare glieventi naturali in base all’idea di un fine, ov-vero come se le cose naturali perseguisseronel loro comportamento il raggiungimentodifini prestabiliti, intelligentemente posti. Giu-dicareuna cosa comeunfinenaturale a causadella sua forma interna, è tutt’altro che con-siderare l’esistenza di questa cosa come unoscopo della natura. In quel caso ci servirebbel’individuazione del fine reale, il che ci è im-possibile e, da’altro canto, già negato nellaCritica della ragion pura.

9–16. Kant si rende perfettamente contoche noi non siamo in grado di spiegare real-mente il comportamento naturale in base aquesto presupposto e che questo finalismovale solo «per il Giudizio umano» in quantoè un’idea regolativa: esso è tuttavia di gran-de utilità perché ci spinge a razionalizzaree organizzare in misura sempre più piena eperfetta il nostro intendimento della natura.

17–22. Questa è un’illusione umana: l’uo-mo non è realmente il fine del creato, ma sipensa come tale. Da un lato egli è un esse-re come tutti gli altri, sottoposto alle leggidella causalità meccanica: ma se si pensa co-me soggetto dotato di ragione e volontà, al-lora si ritiene svincolato (benché non possain realtà esserlo) dalla natura e dal suo deter-minismo. La natura viene allora subordinataalla felicità dell’uomo, o meglio diviene la di-mensione in cui egli può diventare felice conla sua azione morale; infatti «tutta la varietàdelle creature, per quanto sia grande l’artecon la quale sono organizzate, e vario il rap-porto finalistico che le lega l’una all’altra, an-zi lo stesso insieme di tali sistemi di creatu-re, cui noi poco correttamente attribuiamo ilnome di mondi, esisterebbero invano, se inessi non vi fossero uomini (esseri ragionevo-li in generale); cioè, che senza uomini l’interacreazione non sarebbe che un deserto inutilee senza scopo finale» (p. 411).

. La finalità della natura

Direi per ora: una cosa esiste come scopo del la natura, quando è la causaed ef fetto di se stessa (sebbene in due sensi diversi); qui v'è infatti una causalitàche non si può legare col semplice concetto di natura, senza attribuire a questauno scopo; causalità che si può pensare senza contraddizione, ma non concepire.[…] 5

In primo luogo, un albero ne produce un altro secondo una legge naturaleconosciuta. Ora, l'albero prodotto è della stessa specie; e così esso produce sestesso, secondo la specie, nella quale, volta a volta effetto e causa di se stesso, in-cessantemente prodotto da se stesso e sovente riproducendo se stesso, si conservacostantemente in quanto specie. 10

In secondo luogo, un albero si produce da sé anche in quanto individuo.Questo tipo di effetto noi ci limitiamo a chiamarlo crescita; ma questa crescita vaintesa in senso completamente diverso da ogni altro accrescimento secondo leggimeccaniche, e, sebbene sotto un altro nome, va considerata come equivalente diuna generazione. […] 15

Il nesso causale, in quanto è pensato semplicemente dall'intelletto, è un lega-me che dà luogo ad una serie (di cause e d'effetti) sempre in senso discendente;e le cose stesse che in quanto effetti ne presuppongono altre come cause, nonpossono a loro volta essere insieme cause di queste. Questo è il legame causaleche vien detto delle cause efficienti (nexus effectivus). Si può però anche pensare 20

ad un nesso causale secondo un concetto di ragione (dei fini), che, quando lo siconsideri come una serie, comporti una dipendenza tanto in senso discendentequanto in senso ascendente; in esso la cosa che da un lato è designata come uneffetto, risalendo merita il nome di causa di ciò di cui è effetto. […] È questo il

Kant, «Critica del Giudizio»

legame causale che viene detto delle cause finali (nexus finalis). Sarebbe forse più 25

opportuno chiamare il primo legame delle cause reali, il secondo di quelle idea-li, perché queste denominazioni fanno anche capire che non possono esservi chequeste due specie di causalità.

(§§ --; trad. it. pp. --)

1–4. La nostra tendenza ad attribuire finialla natura non è fantasiosa, derivando inve-ce da qualcosa che noi constatiamo nella na-tura stessa. Non che noi davvero si possa in-dividuare dei fini: l’attribuzione di questa re-gola di comportamento è un giudizio riflet-tente e non determinante. Infatti «v’è asso-luta differenza tra il dire che la produzionedi certe cose della natura, o anche di tutta lanatura, non è possibile se non mediante unacausa che si determina ad agire intenzional-mente, e il dire che, secondo la particolarenatura della mia facoltà conoscitiva, io nonposso giudicare della possibilità di quelle co-se e della loro produzione se non pensandouna causa che agisce intenzionalmente» (p.269), ma questa nostra tendenza ha un fon-damento plausibile. Kant identifica con pre-cisione dei casi naturali che, pur essendo nelloro comportamento meccanici, suscitano innoi l’idea che perseguano un qualche obietti-vo. Vi sono infatti dei fenomeni che sembra-no non poter essere spiegati se non in modofinalistico.

5–9.Gli esempi addotti sonoquegli esserinaturali chegenerano se stessi in quanto spe-cie o in quanto individui. L’albero genera altrialberi e così facendocontribuisce aperpetua-re la sua specie: esso è insieme causa ed ef-fetto di sé, poiché l’individuo origina, gene-rando altri individui, la specie e la specie, in

quanto insiemedegli individui chegià ci sono,è il principio dei nuovi che sorgeranno.

10–13. Ma ogni albero genera anche sestesso poiché è il principio di generazione, diconservazione e di crescita di sé in quanto loè per le sue parti (i vari rami ecc.). Esso risultadunque causa ed effetto di se stesso.

14–25. Kant può così distinguere una cau-salità meccanica da una teleologica: nella pri-ma l’ordine delle cause e degli effetti è irre-versibile e la causa precede necessariamentel’effetto; nella seconda invece la causa pre-cede l’effetto che genera come un fine chefa scattare i mezzi atti al proprio raggiungi-mento e dunque l’effetto da raggiungere è lacausa chemette in movimento l’oggetto. Ta-le comportamento ha luogo nell’organismo,«prodotto organizzato della natura […] incui tutto è reciprocamente mezzo ed insie-me fine» (p. 346). Questo significa in definiti-va che, nell’ambito della complessiva risolu-zione del problema applicativo delle forme apriori, il giudizio estetico fornisce la soluzio-ne generale— è infatti lo stesso Kant a dirci,a proposito della facoltà del giudizio esteti-co, che «essa sola contiene un principio sulquale il Giudizio fonda interamente a prio-ri la propria riflessione sulla natura» (p. 171)— e quello teleologico la specifica in relazio-ne a quel caso, particolare ma privilegiato,costituito dagli organismi.