italica belgradensia - studi in onore di ivan klajn (2010)

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UNIVERSITÀ DI BELGRADO FACOLTÀ DI FILOLOGIA ITALICA BELGRADENSIA NUMERO SPECIALE STUDI IN ONORE DI IVAN KLAJN BELGRADO 2010

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Page 1: Italica Belgradensia - Studi in Onore Di Ivan Klajn (2010)

UNIVERSITÀ DI BELGRADO FACOLTÀ DI FILOLOGIA

ITALICA BELGRADENSIA

NUMERO SPECIALE

STUDI IN ONORE DI IVAN KLAJN

BELGRADO 2010

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ITALICA BELGRADENSIA

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YU ISSN 0353-4766

UNIVERZITET U BEOGRADU FILOLOŠKI FAKULTET

KATEDRA ZA ITALIJANSKI JEZIK I KNJIŽEVNOST

ITALICA BELGRADENSIA

poseban broj

RADOVI U ČAST IVANA KLAJNA

priredio Saša Moderc

Beograd, 2010.

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YU ISSN 0354-4722

UNIVERSITÀ DI BELGRADO FACOLTÀ DI FILOLOGIA

DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA

ITALICA BELGRADENSIA

numero speciale

STUDI IN ONORE DI IVAN KLAJN

a cura di Saša Moderc

Belgrado, 2010

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Questo volume è stato pubblicato grazie al contributo dell’Ambasciata d’Italia a Belgrado e dell’Istituto Italiano di Cultura di Belgrado. Ovaj broj objavljen je zahvaljujući pomoći Ambasade Italije i Italijanskog centra za kulturu u Beogradu.

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PREMESSA In occasione del settantesimo compleanno dell’accademico Ivan Klajn, i

professori e gli studiosi della Facoltà di filologia dell’Università di Belgrado e di altre istituzioni accademiche, che avuto la fortuna di apprezzarlo come professore, collega, collaboratore e amico, hanno inteso celebrare l’avvenimento onorando la sua figura con questo numero di Italica Belgradensia. Il professor Klajn dal 1964 insegna lingua italiana, linguistica storica e romanza alla Facoltà di Filologia. Nella quarantennale attività di docenza, il professor Klajn ha costituito un riferimento sicuro per numerosissime generazioni di studenti e giovani ricercatori, ma anche per i cultori e gli operatori della lingua. Sempre chiaro e preciso nell’esposizione della materia linguistica e dei problemi d’italiano, non ha tralasciato di coltivare un particolare interesse per le tematiche concernenti la lingua madre, il serbo, non solo nel campo accademico ma anche nei testi divulgativi, su giornali e settimanali. Autore di oltre 120 titoli, tra libri, articoli, traduzioni, il professor Klajn sarà ricordato per la sua preziosissima attività lessicografica: infatti egli ci ha regalato il miglior dizionario bilingue italiano-serbo, aiutando in tale maniera generazioni di studenti ad avvicinarsi più intimamente all’italiano. Merita menzione anche il Vocabolario delle parole straniere, fondamentale strumento che permette ai lettori serbi di perfezionare la propria lingua e conoscere più a fondo i legami linguistici e culturali con gli altri popoli. In tale maniera e non solo – ricordiamo i suoi inestimabili contributi al difficile processo di standardizzazione della lingua serba – il professor Ivan Klajn è uno dei più meritevoli promotori della diffusione della lingua italiana in Serbia. Pertanto non stupisce il fatto che, in occasione della Giornata Nazionale di

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Cristoforo Colombo, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli abbia conferito l’Onorificenza dell'Ordine della Stella della Solidarietà Italiana.

Gli autori della presente miscellanea tuttavia lo ricordano come grande professore, a prima vista serio o addirittura austero, ma nello stesso tempo arguto e spiritoso. Ogni materia che insegnava – ed era impressione diffusa che le potesse insegnare tutte – era una fonte inesauribile di informazioni e particolari individuati solo da lui, che nessun altro suo collega sapeva rilevare con tanta sensibilità e poi tramandarli in maniera estremamente divertente e brillante: gli esempi con i quali egli illustrava la lingua italiana, dalle strutture ai modi di dire, saranno ricordati da numerose generazioni come veri e propri modelli di insegnamento linguistico. L’ampiezza degli interessi del professor Klajn ha spinto studiosi di svariate aree di linguistica e di letteratura ad aderire con entusiasmo all’iniziativa di pubblicazione del presente volume volendo, in questa maniera, esprimere la propria gratitudine al loro professore.

M. Samardžić – S. Moderc

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CURRICULUM VITAE ET STUDIORUM Il professor Ivan Klajn, nato il 31 gennaio 1937 a Belgrado, ha conseguito la laurea in lingua e letteratura italiana alla Facoltà di Filologia di Belgrado nel giugno del 1961. Dopo la laurea ha lavorato come giornalista e traduttore per il quotidiano Politika. Nel novembre del 1964 è stato nominato assistente presso il Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Filologia dopo aver discusso la tesi di Maghister intitolata Le parole di origine straniera nella lingua italiana del dopoguerra. Nel febbraio del 1970 ha discusso la tesi di dottorato intitolata Influssi inglesi nella lingua italiana. Nel 1984 è stato nominato professore ordinario. In due occasioni, dal 1995 al 1997 e dal 1999 al 2002, anno del pensionamento, è stato Direttore del Dipartimento di Italianistica. Nell’ottobre del 2000 è stato nominato membro corrispondente dell’Accademia Serba delle Scienze e delle Arti, divenendone membro ordinario nel 2003. Nella sua carriera presso la Facoltà di Filologia di Belgrado ha tenuto diversi corsi: morfologia e sintassi della lingua italiana contemporanea ed il linguaggio aulico della poesia italiana, corsi tenuti anche dopo il suo pensionamento, presso il Dipartimento di Italianistica; grammatica storica della lingua spagnola presso il Dipartimento di Ispanistica; linguistica applicata presso il Dipartimento di Linguistica generale; ed infine grammatica comparativa delle lingue romanze agli studi postlaurea. Ha lavorato come lettore di serbocroato all’Università di Firenze dal 1968 al 1970 e all’Università di Yale (New Haven, USA) nell’anno accademico 1983-1984. Nel 1974 ha iniziato a scrivere articoli per la sua rubrica dedicata alle curiosità della lingua, prima per il quotidiano Borba, in seguito per il settimanale Ilustrovana politika ed il quotidiano Politika, ed infine per il settimanale NIN, con il quale collabora tuttora. Molti di questi articoli sono stati successivamente raccolti nei libri Razgovori o jeziku (1978), Ispeci pa reci (1998), Stranputice smisla (2000) e Reči su oruđa (2004). Dal 1975 è uno dei redattori della rivista Italica Belgradensia, mentre dal 1980 è capo redattore della rivista Studije iz kontrastivne analize italijanskog i srpskohrvatskog jezika e dal 1997 della rivista Jezik danas della Matica srpska. Dal 1997, anno della sua fondazione, è membro del Consiglio per la standardizzazione della lingua serba. Nella sua lunga e brillante carriera ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti anche internazionali tra cui: due premi per il contributo allo sviluppo della cultura della lingua parlata da parte della Radiotelevisione di Belgrado: il primo nel 1977 per il libro Razgovori o jeziku e il secondo nel 1991 per il libro Jezički priručnik, scritto insieme con i colleghi Pavle Ivić, Mitar Pešikan e Branislav Brborić. Per il Dizionario italiano-serbo (Italijansko-srpski rečnik) ha ottenuto nel 1996 il premio della casa editrice Nolit di Belgrado e nel 1998 il premio del Ministero degli affari esteri italiano. Nel gennaio del 1997 il Ministero serbo della cultura gli ha assegnato il premio per il contributo apportato alla cultura della lingua serba, mentre nel 2003 ha avuto il premio per il contributo scientifico della Vukova zadužbina per il libro Tvorba reči u savremenom srpskom jeziku. Prvi deo: slaganje i prefiksacija. Infine il suo costante contributo alla conoscenza della lingua e della cultura italiana gli è valso, nel 2004, il conferimento

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Italica Belgradensia

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dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana da parte del Presidente della Repubblica d’Italia Carlo Azeglio Ciampi.

Bibliografia

1963

Italijanski konjunktiv i njegovo prevođenje na srpskohrvatski, «Živi jezici» (Beograd), 5, 1-4, pp. 1-10.

1964

Izgovor stranih reči u italijanskom, risultati di due inchieste svolte in Italia nel 1963, «Živi

jezici» (Beograd), 6, 1-4, pp. 29-38.

1965

Tullio De Mauro: Storia linguistica dell’Italia unita, «Živi jezici» (Beograd), 7, 3-4, pp. 95-98.

1966

Uslovi za asimilaciju stranih reči, «Anali Filološkog fakulteta» (Beograd), 6, pp. 433-443.

1967

I nessi consonantici nell’italiano, «Lingua nostra» (Firenze), 28, 3, pp. 74-81. Strana reč – šta je to?, «Zbornik za filologiju i lingvistiku» (Novi Sad), 10, pp. 7-24. Paolo Volponi, Svetska mašina, traduzione, Beograd, Prosveta.

1968

Prilog građi za bibliografiju Dantea u Srbiji, con Momčilo Savić, in Eros Sekvi (a cura di),

«Zbornik o Danteu: 1265-1965», Beograd, Prosveta, pp. 163-181.

1970

Nazivi mačke u evropskim jezicima: pokušaj uporedne sinhronijske studije, «Anali Filološkog fakulteta» (Beograd), 10, pp. 335-353.

Đuzepe Bofa, Ruska revolucija, traduzione, Beograd, Komunist.

1971

Uticaji engleskog jezika u italijanskom, Beograd, Beogradski univerzitet.

1972

Influssi inglesi nella lingua italiana, Firenze, Olschki.

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Bibliografia

9

La definizione della parola composta e i composti italiani, «Živi jezici» (Beograd), 14, 1-4, pp. 45-64.

Carducci e il linguaggio poetico tradizionale, «Linguistica» (Ljubljana), 12, pp. 107-123. T. B. Alisova: Современное итальянское языкознание, «Živi jezici» (Beograd), 14, 1-4, pp.

181-183. Benedetto da Mantova, Il Beneficio di Cristo, redazione del testo serbocroato di Ivan Klajn,

Firenze, Sansoni.

1974

Aldo Luppi: Dizionario tecnico-commerciale italiano-croato-serbo, «La Battana» (Fiume), 11, 32, pp. 150-151.

Intorno alla classificazione delle parole composte, «Živi jezici» (Beograd), 16, 1-4, pp.59-74. Su alcuni anglicismi nella recente terminologia linguistica, «Lingua nostra» (Firenze), 35, 3, pp.

86-87. Lučano Alberti, Muzika kroz vekove, traduzione; redazione e note sull’autore a cura di Predrag

Milošević, Beograd, Vuk Karadžić. Ernesto Grasi, Teorija o lepom u antici, traduzione; traduzione di testi illustrativi dal greco e

latino di Ljiljana Crepajac, Beograd, Srpska književna zadruga.

1975

Intorno alla definizione del pronome, «Linguistica» (Ljubljana), 15, pp. 79-91. O transkripciji stranih geografskih imena, «Globus» (Beograd), 7, pp. 177-189. Per una definizione del linguaggio aulico della poesia italiana, «Italica Belgradensia»

(Beograd), 1, pp. 87-118. Velike avanture i pet kontinenata, traduzione, con Jugana Stojanović, Beograd, Vuk Karadžić. Veliki mitovi i legende: Od pećine do oblakodera, traduzione, con Aleksandra Klajn, Beograd,

Vuk Karadžić.

1976

Konvencionalno i suštinsko u pravopisu, «Radovi Instituta za jezik i književnost» (Sarajevo), 3, pp. 59-73.

O zamenicama i pojmu zamenjivanja, «Anali Filološkog fakulteta» (Beograd), 12, pp. 547- 564. Sulle funzioni attuali del pronome ESSO, «Lingua nostra» (Firenze), 37, 1-2, pp. 26-32. Eros Sekvi, Mudre izreke, traduzione, Beograd, Nolit.

1977

Istorijska gramatika španskog jezika, Beograd, Naučna knjiga.

1978

Razgovori o jeziku, articoli pubblicati nel quotidiano «Borba» riveduti e aggiornati, Beograd,

Vuk Karadžić. Milica Grković: Rečnik ličnih imena kod Srba, «Južnoslovenski filolog» (Beograd), 34, pp. 227-

233. O prefiksoidima u srpskohrvatskom jeziku, «Naš jezik» (Beograd), 23, 5, pp. 187-198.

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Italica Belgradensia

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Pridevske zamenice ili pridevi?, «Južnoslovenski filolog» (Beograd), 34, pp. 17-33. Oracio Kosta, O jevrejskom teatru: umetnost pozorišta "Habima", traduzione, «Scena» (Novi

Sad), 14, 1, 1, pp. 100-105.

1979

Pascoli e la fine del linguaggio aulico, «Filološki pregled» (Beograd), 17, 1-4, pp. 43-64. Sull’uso del pronome riflessivo tonico in italiano, «Lingua nostra» (Firenze), 40, pp. 112-123. Transkripcija i adaptacija imena iz romanskih jezika: imena iz italijanskog, «Radovi Instituta za

jezik i književnost» (Sarajevo), 6, pp. 121-140. Transkripcija i adaptacija imena iz romanskih jezika: imena iz španskog, «Radovi Instituta za

jezik i književnost» (Sarajevo), 6, pp. 140-155. Transkripcija i adaptacija imena iz romanskih jezika: imena iz portugalskog, «Radovi Instituta

za jezik i književnost» (Sarajevo), 6, pp. 156-174.

1980

Jezik oko nas, Beograd, Nolit. Italijanski konjunktiv i njegovo prevođenje na srpskohrvatski, «Studije iz kontrastivne analize

italijanskog i srpskohrvatskog jezika» (Beograd), 1, pp. 83-101.

1981

Kako se kaže: rečnik jezičkih nedoumica, Beograd, BIGZ. Emidio De Felice: I cognomi italiani, «La Battana» (Fiume), 18, 60, pp. 99-101. Luis de Kamoens, Luzijadi, traduzione di Đorđe Šaula; redazione, prefazione e note a cura di

Ivan Klajn, Beograd, Srpska književna zadruga.

1982

Esempi di un metodo di analisi contrastiva del lessico, «Studije iz kontrastivne analize italijanskog i srpskohrvatskog jezika» (Beograd), 2, pp. 97-115.

1983

Emidio De Felice: I nomi degli italiani, «La Battana» (Fiume), 20, 67, pp. 119-121. Greko-latinizmi i pitanje terminoloških dubleta, «Kontrastivna jezička istraživanja» (Novi Sad),

pp. 107-110. Kontaktni i mešani jezici, «Književnost i jezik» (Beograd), 30, 4, pp. 241-249. Za priznavanje mogućnosti slobodnog izbora u pravopisnoj normi, «Aktuelna pitanja naše

jezičke kulture», Beograd, Prosvetni pregled, pp. 95-97.

1985

O funkciji i prirodi zamenica, Beograd, Institut za srpskohrvatski jezik. On Conceptual Neuter, «Zbornik Matice srpske za filologiju i lingvistiku» (Novi Sad), 27-28,

1984-1985, pp. 347-354.

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Bibliografia

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1986

O sintaktičkim osobinama pokaznih zamenica srednjeg roda, «Prilozi za književnost, jezik, istoriju i folklor» (Beograd), 51-52, 1-4, 1985-1986, pp. 63-71.

A. Cantarini: Lineamenti di fonologia slava, «Prilozi za književnost, jezik, istoriju i folklor» (Beograd), 51-52, 1-4, 1985-1986, pp. 221-222.

Analiza grešaka i greške analize, «Kontrastivna jezička istraživanja» (Novi Sad), pp. 107- 110. Dimostrativi, deissi e sostituzione, «Lingua nostra» (Firenze), 47, 4, pp. 116-121.

1987

Rečnik jezičkih nedoumica, seconda edizione riveduta e aggiornata, Beograd, Nolit. Jezici naroda i narodnosti Jugoslavije i jugoslovenska lingvistika u stranim enciklopedijama,

«Lingvistika i lingvističke aktivnosti u Jugoslaviji», Atti del convegno, 29-31 marzo 1985, Sarajevo, Akademija nauka i umjetnosti Bosne i Hercegovine, pp. 35-38.

Priručnici za srpskohrvatski na italijanskom jeziku od ujedinjenja Italije do prvog svetskog rata, «Anali Filološkog fakulteta» (Beograd), 18, pp. 143-168.

1988

Dejvid Kristal, Enciklopedijski rečnik moderne lingvistike, traduzione, con Boris Hlebec,

prefazione di Ranko Bugarski, Beograd, Nolit.

1989

Italijansko-srpskohrvatski rečnik, con Srđan Musić, Beograd, BIGZ. Il neutro in italiano e in serbocroato, «Jezici i kulture u doticajima» (Pula), pp. 315-320. Ranko Bugarski: Uvod u opštu lingvistiku, «Živi jezici» (Beograd), 31, 1-4, pp. 112-114. Funzioni dei pronomi personali in italiano, «Italica Belgradensia» (Beograd), 2, pp. 97-109. Alberto Moravija, Leto na Kapriju, traduzione; prefazione di Jugana Stojanović, Beograd,

Narodna knjiga.

1991

Jezički priručnik, con Pavle Ivić, Mitar Pešikan e Branislav Brborić, Beograd, Radio- televizija Beograd.

Italijanska zamenica "se" i pojam refleksivnosti, in Mirjana Drndarski (a cura di), «Uporedna istraživanja» (Beograd), 3, pp. 429-435.

Italijansko-srpskohrvatska leksikografija juče, danas i sutra, «Zadužbina» (Beograd), 13, p. 7. Osservazioni sul CI impersonale, «Lingua nostra» (Firenze), 72, 4, pp. 109-113. Pronomi, avverbi e preposizioni, «Linguistica» (Ljubljana), 31, 1, pp. 259-267. Frančeska Duranti, Kuća na Mesečevom jezeru, traduzione; prefazione di Mirka Zogović,

Beograd, Nolit.

1992

Italijansko-srpskohrvatski rečnik, seconda edizione, con Srđan Musić, Beograd, BIGZ. Rečnik jezičkih nedoumica, terza edizione riveduta e aggiornata, Beograd, Nolit. Rečnik novih reči, Novi Sad, Matica srpska.

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Italica Belgradensia

12

Đordano Bruno, Svećar, traduzione per il teatro "Atelje 212" di Belgrado, prima rappresentazione 4 luglio 1992.

1994

Pisci i pismenjaci, Novi Sad, Matica srpska. Stanje jezičke pravilnosti u našim sredstvima informisanja, «Zadužbina» (Beograd), 26, p. 5.

1995

Subordinate esplicite introdotte da preposizioni, «Italica Belgradensia» (Beograd), 4, pp. 33- 38.

1996

Italijansko-srpski rečnik, Beograd, Nolit. Srpski jezik na kraju veka1, Ivan Klajn et al., redazione di Milorad Radovanović, Beograd,

Institut za srpski jezik, SANU, Službeni glasnik. Vrste romanizama u savremenom srpskohrvatskom jeziku i putevi njihovog dolaska, «Zbornik

Matice srpske za filologiju i lingvistiku» (Novi Sad), 39, 2, pp. 45-64. Dva pravopisna problema u vezi sa stranim rečima: pisanje složenica i polusloženica;

nejednačenje po zvučnosti, in Judita Plankoš (a cura di), Atti del convegno «Strane reči i izrazi u srpskom jeziku, sa osvrtom na isti problem u jezicima nacionalnih manjina», 18-20 ottobre 1995, Subotica, Gradska biblioteka / Beograd, Institut za srpski jezik, SANU, pp. 121-127.

Pljosnate gliste u Mrtvom moru, «Danica: srpski narodni ilustrovani kalendar za 1997» (Beograd), pp. 320-325.

Štamparske greške kao leksička vežba u nastavi italijanskog jezika, «Glossa» (Beograd), 2, 2- 3, pp. 69-74.

Dejvid Kristal, Kembrička enciklopedija jezika2, a cura di Boris Hlebec, Ivan Klajn e Slavoljub Trudić, redazione di Ranko Bugarski, traduzione di Gordana Terić et al., Beograd, Nolit.

1997

Rečnik jezičkih nedoumica, quarta edizione riveduta e aggiornata, Beograd, Čigoja štampa.

1998

Ispeci pa reci, articoli già pubblicati in Razgovori o jeziku (1978), Jezik oko nas (1980) e Pisci i

pismenjaci (1994) e articoli pubblicati nel settimanale «NIN», Beograd, Centar za primenjenu lingvistiku / Novi Sad, Prometej.

Gramatički i leksikografski status glagolskih imenica od nesvršenih glagola, «Naučni sastanak slavista u Vukove dane: Vrste reči u srpskom jeziku» (Beograd), 27, 2, pp. 149-157.

O jednom mutnom vokalu, ili zašto „spajs gerls“ ne mogu biti „spajs grls“, «Jezik danas» (Novi Sad), 5, pp. 19-24.

1 Sottoprogetto «Savremene promene u srpskom jeziku» del progetto «Savremene promene u slovenskim jezicima (1945-1995)», ideato e sviluppato a partire dal 1992 dal prof. Stanislav Gajda dell’Istituto per la filologia polacca dell’Università di Opole, Polonia. 2 Traduzione e adattamento del glossario e dell’indice a cura di Ivan Klajn.

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Bibliografia

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O jednom „lahko“ napisanom udžbeniku, «Jezik danas» (Novi Sad), 7, pp. 17-19. O kriterijumima za semantičko normiranje reči, «Naš jezik» (Beograd), 32, 3-4, pp. 134-147. Dejvid Kristal, Enciklopedijski rečnik moderne lingvistike, seconda edizione aggiornata,

traduzione, con Boris Hlebec, Beograd, Nolit.

1999

Julijana Vučo: Leksika udžbenika stranog jezika, «Filološki pregled» (Beograd), 26, 1-2, pp. 283-285.

2000

Esercizi di lessicologia e fraseologia italiana, Beograd, Univerzitetska štampa. Lingvističke studije, Beograd, Partenon. Italijansko-srpski rečnik, seconda edizione riveduta e aggiornata, Beograd, Nolit. Rečnik jezičkih nedoumica, quinta edizione riveduta e aggiornata, prima edizione in cirillico,

Beograd, Srpska školska knjiga. Stranputice smisla, articoli pubblicati nel settimanale «NIN», Beograd, NIN. Upušteni jezik, questioni di cultura linguistica, «Zadužbina» (Beograd), 52, p. 4.

2001

Neologisms in present-day Serbian, «International Journal of the Sociology of Language:

Serbian Sociolinguistics» (Berlin / New York), 151, pp. 89-110. Taj neki naš običaj. O (ne)gramatičnim kombinacijama zamenica u novijem srpskom jeziku,

«Jezik danas» (Novi Sad), 14, pp. 17-20.

2002

Tvorba reči u savremenom srpskom jeziku. Prvi deo: slaganje i prefiksacija, Beograd, Zavod za udžbenike, Institut za srpski jezik, SANU / Novi Sad, Matica srpska.

Serijske odrednice i njihova obrada u jednojezičnom rečniku, «Deskriptivna leksikografija standardnog jezika i njene teorijske osnove», Novi Sad, Matica srpska / Beograd, Institut za srpski jezik, SANU, pp. 69-82.

2003

Tvorba reči u savremenom srpskom jeziku. Drugi deo: sufiksacija i konverzija, Beograd, Zavod

za udžbenike, Institut za srpski jezik, SANU / Novi Sad, Matica srpska. Italijansko-srpski rečnik, terza edizione riveduta e aggiornata, Beograd, Nolit. Rečnik jezičkih nedoumica, sesta edizione riveduta e aggiornata, Beograd, Srpska školska knjiga. Normativna lingvistika u Srbiji danas, Atti del convegno «Aktuelna pitanja jezika Bošnjaka,

Hrvata, Srba i Crnogoraca», 27-28 settembre 2002, Vienna, «Wiener Slawistischer Almanach», 57, pp. 123-134.

2004

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Italica Belgradensia

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Srpski jezički priručnik, con Pavle Ivić, Mitar Pešikan e Branislav Brborić, seconda edizione riveduta e aggiornata (di Jezički priručnik, Beograd, Radio-televizija Beograd, 1991), Beograd, Beogradska knjiga.

Rečnik jezičkih nedoumica, sesta edizione riveduta e aggiornata, Beograd, Srpska školska knjiga. Reči su oruđa, articoli pubblicati nel settimanale «NIN», Beograd, NIN. Sul trattamento lessicografico della particella NE, «Italica Belgradensia» (Beograd), 5-6, pp.

65-177.

2005

Gramatika srpskog jezika, Beograd, Zavod za udžbenike Zanimljiva imena, Beograd, Narodna knjiga – Alfa. Norma u jeziku i jezik bez norme, «Glas SANU», Odeljenje jezika i književnosti, 21, pp. 1-16. Tintin et les paronymes, «Tintinolectes Idioma» (Bruxelles), 17, pp. 119-124. Gramatika srpskog jezika za strance, Beograd, Zavod za udžbenike. Rečnik jezičkih nedoumica, prima edizione elettronica, Beograd, Koš & Co.

2006

Veliki rečnik stranih reči i izraza, con Milan Šipka, Novi Sad, Prometej. Gramatika srpskog jezika za strance, seconda edizione (in cirillico), Beograd, Zavod za

udžbenike. Srpski jezički priručnik, con Pavle Ivić, Mitar Pešikan e Branislav Brborić, terza edizione,

Beograd, Beogradska knjiga. Italijansko-srpski rečnik, quarta edizione, Beograd, Nolit.

2007

Veliki rečnik stranih reči i izraza, con Milan Šipka, seconda edizione aggiornata, Novi Sad,

Prometej. I filozofi su ludi. Antologija smešnih štamparskih grešaka, Beograd, Beogradska knjiga. Strani izrazi i izreke, con Milan Šipka, Novi Sad, Prometej. Srpski jezički priručnik, con Pavle Ivić, Mitar Pešikan e Branislav Brborić, quarta edizione,

Beograd, Beogradska knjiga. Ispeci pa reci, seconda edizione aggiornata, Prometej, Novi Sad. Grammatica della lingua serba, Zavod za udžbenike, Beograd. I derivati suffissali a base tronca in serbo, «Slavica et alia: per Anton Maria Raffo», Firenze, La

Giuntina, pp. 131-145.

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Massimo Fanfani (Università di Firenze)

SU UNA FORMULA DI SALUTO PAROLE CHIAVE: Formule di saluto nell'italiano d'oggi, Storia di ciao: un prestito interno diventato un internazionalismo Quando nel maggio 2001, grazie all’amichevole invito di Ivan Klajn, giunsi a Belgrado, fra le tante cose che scoprii con meraviglia nella splendida città austro-balcanica ancora segnata dai bombardamenti d’una guerra sconsiderata, nelle strade incantate sui due immobili fiumi ancora non solcati da navigli, con le belle e coraggiose persone fiere della loro ospitalità ma ancora malinconicamente enigmatiche a me straniero, ci fu anche quella di cogliere, nell’affascinante intercalare di una lingua sconosciuta, una familiare formula di saluto. Anche a Belgrado, come altrove nel mondo, la gente nell’incontrarsi o nel prender commiato si scambiava un “ciao”. Sembra, come mi si dice, che questo italianismo sia diventato piuttosto comune in Serbia, specie per la nuova generazione, soppiantando addirittura il tradizionale saluto slavo zdravo ‘salve’, sentito ormai come troppo arcaico forse proprio a causa dell’accattivante concorrenza della novità. Che è conosciuta e usata anche in Croazia, nonostante colà risulti prevalere il corrispondente saluto indigeno bok, da bog ‘Dio’ in frasi del tipo “Dio sia con te”1. È dunque più che opportuna la scelta di Klajn di accogliere ћао (ćао) ‘ciao’ nell’ottimo vocabolario di forestierismi che di recente ha dato alle stampe2. La circolazione della parola in serbo-croato, del resto, è ben comprensibile: anche se non si vuol ipotizzare una qualche remota e carsica influenza dal dialetto veneto o dall’italiano parlato nell’Istria e nelle città della costa dalmata3, ciao, specialmente dalla fine degli anni sessanta del Novecento, ha avuto la sorte di diventare – grazie ai viaggi dei giovani, alle canzoni, ai film, ai prodotti italiani – un internazionalismo di moda4, e adesso, in questo nostro rumoroso 1 Son debitore di queste informazioni agli amici belgradesi, e in particolare a Jelena Todorović, Mila

Samardžić, Nikola Popović. 2 IVAN KLAJN, MILAN ŠIPKA, Veliki rečnik stranih reči i izraza [Grande dizionario di termini e locuzioni

stranieri], Novi Sad, Prometej, 2006. 3 Va osservato tuttavia che la parola manca non solo, com’è ovvio, al Vocabolario dignanese-italiano di

GIOVANNI ANDREA DALLA ZONCA (1792-1857), a cura di M. Debeljuh (Trieste, Lint, 1978); ma anche al Vocabolario del dialetto veneto-dalmata di LUIGI MIOTTO (ivi, 1991²), che pure registra s’ciàvo nei due significati di ‘schiavo’ e ‘slavo, croato’.

4 Non solo all’estero (vedi n. 5), ma anche in Italia, la diffusione di ciao è una conseguenza dell’omologazione dovuta alla moderna cultura di massa: prima della seconda guerra mondiale il saluto, per quanto non sconosciuto altrove, era praticamente usato solo nei dialetti settentrionali e nelle varietà regionali padane (cfr. nn. 7, 73 e 74). La sua effettiva penetrazione nella lingua comune ha preso piede, come cercheremo di precisare, nel dopoguerra e in particolare fra gli anni cinquanta e i sessanta del Novecento, attraverso i potenti canali delle comunicazioni sociali: radio, televisione, cinema. Fra i tanti episodi, significativi anche per la risonanza internazionale che talora riuscirono a conferire alla parola, vanno annoverati anzitutto quelli costituiti dalle canzoni: Ciao, ti dirò (1957) di Giorgio Gaber e Luigi

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universo sempre più globalizzato e mischiato dai mezzi di comunicazione, lo si usa quasi dappertutto: al di là dell’Adriatico così come sul Baltico o a New York. Ricostruirne con precisione i transiti e gli approdi nelle diverse lingue sarebbe un’impresa complessa e forse, a questo punto, vana; un’impresa che comunque va ben al di là delle mie forze5.

Tenco; il celebre successo di Domenico Modugno Piove (1959), conosciuto popolarmente col titolo Ciao ciao bambina, che in quello stesso anno fu ripreso dal film omonimo di Sergio Grieco che utilizzava la melodia come leitmotiv (sarà poi canticchiata, in una scena toccante, anche dal protagonista del film di Ermanno Olmi, Il posto, 1961); o, per passare a un altro genere, il notissimo canto partigiano Bella ciao, elaborato tuttavia da una canzone di risaia degli anni cinquanta solo durante la prima stagione del centro-sinistra, alla metà degli anni sessanta, e divenuto da allora un’indelebile colonna sonora di partiti e movimenti della sinistra: ma cfr. STEFANO PIVATO (in collaborazione con Amoreno Martellini), Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005. Che negli anni sessanta la parola fosse un gradito ingrediente nei refrain delle canzoni italiane lo testimoniano i successi di motivi come Ciao ragazzi ciao (1964) di Adriano Celentano e Ciao amore ciao, presentato da Tenco nel 1967 al festival di Sanremo, dove la sua inspiegabile bocciatura fu fra le cause della tragica fine del cantautore. Nella lingua del cinema la parola compare più o meno nello stesso periodo, come risulta fin dai titoli: Ciao bellezza (1947), doppiaggio di The Powers Girl (1942) di Norman Z. McLeod (mi segnala Sergio Raffaelli che nei dialoghi del film, “Ciao, bellezza” è la battuta di commiato alla sposa di un soldato che parte per la guerra); Ciao amici (1948), doppiaggio di Great Guns (1941) di Montague Banks, con Stanlio e Ollio; Ciao, Pais! (1956) di Osvaldo Langini, sugli alpini valdostani reduci dal fronte greco-albanese; il già ricordato Ciao, ciao, bambina! (Piove) (1959); Ciao ciao Birdie (1963) musical di Geroge Sidney [titolo originale Bye bye Birdie]; Ciao Charlie (1964) musical di Vincente Minnelli [tit. orig. Goodby Charlie]; Ciao Pussycat (1965) di Clive Donner [tit. orig. What’s New, Pussycat?]; Ciao America (1968) di Brian De Palma [tit. orig. Greetings]; Ciao, Gulliver (1970) di Carlo Tuzii, Ciao maschio (1978) di Marco Ferreri, ecc. Contemporaneamente la parola fa la sua apparizione nei cartelloni teatrali: Ciao, nonno! (1951) di Guglielmo Giannini; Ciao fantasma (1954), rivista di G. Scarnicci e R. Tarabusi; Ciao, albero! (1955) di Aldo Nicolaj; Ciao, Rudy (1965), celebre commedia musicale, periodicamente riproposta, di Garinei, Giovannini e Luigi Magni. Invece, per quanto riguarda i nomi di prodotti commerciali, vedi più avanti alla n. 6.

5 Mi limito a osservare che l’attuale vasta diffusione di ciao, e soprattutto le sue ottime referenze come saluto “internazionale”, conferiscono al neologismo, nelle varie lingue, una coloritura e una distribuzione nei rapporti sociali un po’ diverse rispetto a quelle dei comparabili saluti locali (e, ovviamente, anche a quelle che possiede in italiano): di solito, al di là del suo carattere amichevole e confidenziale, tende a prevalere un tono di formula disinvolta e à la page. Fra i tanti che ne hanno studiato la fortuna fuori d’Italia, segnalo: NEVENA PISSINOVA, Alcuni italianismi del bulgaro contemporaneo, in “Studi linguistici italiani”, X, 1984, pp. 251-256, a pp. 253-254; HERMANN W. HALLER, Una lingua perduta e ritrovata. L’italiano degli italo-americani, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 108 (che ne segnala perfino degli impieghi formali); FULVIO MEGUSCHAR, Da “s’ciao vostro” a “tšauki-plauki”: l’avventura di una parola. Della fortuna di ciao in estone, in “Settentrione”, n. s., n. 15-16, 2003-2004, pp. 212-225. Casi a parte son quelli dello spagnolo del Sudamerica, dove chau è stato introdotto dagli emigrati italiani in Argentina (cfr. GIOVANNI MEO ZILIO - ETTORE ROSSI, El elemento italiano en el habla de Buenos Aires y Monteviedeo. I, Firenze, Valmartina, 1970, pp. 59-60; JOAN COROMINAS - JOSÉ A. PASCUAL, Diccionario crítico etimológico castellano e hispánico, Madrid, Gredos, 1980-1991), e del tedesco per il quale le vie di penetrazione sono state plurime. Un primo episodio di interferenza si ebbe nella lingua dei graduati austriaci al tempo delle loro ottocentesche campagne militari in Italia (cfr. PAUL HORN, Die deutsche Soldatensprache, Giessen, Ricker, 1899, p. 14; LEO SPITZER, Zur romanischen Syntax, in “Zeitschrift für romanische Philologie”, XXXVI, 1912, pp. 679-704, a p. 702n; MANLIO CORTELAZZO, Scambi linguistici italo-austriaci nel linguaggio militare, in “Mondo Ladino”, XXI, 1997, pp. 61-66, a p. 66n); ma con la Grande Guerra e la fine dell’Impero austro-ungarico il saluto uscì definitivamente da quella scena (cfr. PAUL KRETSCHMER, Wortgeographie der hochdeutschen Umgangssprache [1918], Gottinga, Vandenhoeck & Ruprecht, 1969², p. 78; KARL PRAUSE, Deutsche Grußformeln, Breslavia, Marcus, 1930, pp. 70-71), e perfino oggi l’Austria continua a mantenersene alla larga (cfr. JÜRGEN EICHHOFF, Wortatlas der deutschen

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Qui, più modestamente, vorrei soffermarmi non sui successi internazionali di tale formula di saluto, ma sulla sua storia italiana e, più che sulla fortuna, sulle resistenze che proprio da noi ha incontrato. Perché anche in italiano essa è un prestito o, se si vuole, una sorta di doppio prestito: un prestito “interno” abbastanza recente, dovuto a un’interferenza dei dialetti settentrionali sulla lingua comune; al quale si è sovrapposto negli ultimi anni l’eco rimbombante dalla ribalta forestiera, al punto da trasformare l’interiezione quasi in un “cavallo di ritorno”, semanticamente ancor più slavato e dunque disponibile per nuovi impieghi più disinvolti e alla moda6.

E come tutte le interferenze anche questa, che è modellata sul dialetto, ha dovuto attraversare una fase di assestamento all’interno della lingua, tanto che sulle prime vi si è propagginata a singhiozzo, impiegata con qualche timido riguardo o volutamente mantenuta ai margini. Perfino oggi, conclusasi da tempo tale fase di acclimatazione e nel pieno della voga che proviene anche dall’apprezzamento internazionale – come saluto paritario e informale ciao è ormai stabilmente adottato nell’italiano e frequentissimo in particolare nel linguaggio giovanile – sembra che sussistano ancora diverse sacche di resistenza, per quanto sempre più ristrette, specie fra i parlanti meno giovani e in zone del Centro-sud7. Mentre dove la diffusione è stata maggiore

Umgangssprache, Berna e Monaco, Francke, 1977, p. 33 e c. 48). Dallo stesso atlante di Eichhoff si scopre che un terreno di coltura ben più felice è stato quello elvetico: qui Tschau si conobbe attraverso gli operai ticinesi già al tempo della costruzione della ferrovia del Gottardo (1882), poi dai soldati rimpatriati dal Ticino dopo la prima guerra mondiale e dai lavoratori immigrati, orecchiando l’uso dei quali la parola venne reimpiegata anche come scherzoso gergalismo fra i ragazzi di scuola: “Tschau Polle” (dall’it. “ciao bella”): cfr. ANNA ZOLLINGER-ESCHER, Die Grußformeln der deutschen Schweiz, Friburgo in B., Wagner, 1925, p. 66; Schweizerisches Idiotikon, Frauenfeld, Huber, 1881 e ss., XIV [1987], 1681-2. L’italianismo si è poi radicato in diversi centri urbani della Germania, ma solo dagli anni cinquanta del Novecento (cfr. ALFRED HEBERTH, Neue Wörter. Neologismen in der deutschen Sprache seit 1945, Vienna, Verband der wissensch. Gesellschaften Österreichs, 1977; ROLAND A. WOLFF, Regionale varianten der Abschiedsgrüsse in der deutschen Umgangssprache, in “Zeitschrift für Dialektologie und Linguistik”, XLIV, 1977, pp. 83-84).

6 Accanto all’utilizzo della parola come puro e semplice richiamo pubblicitario (per prodotti, marchi commerciali, scritte di negozi, ecc.: dal ciclomotore della Piaggio fabbricato dalla metà degli anni sessanta, che ebbe un duraturo successo di vendite anche all’estero; alla parola-motto scelta nel 1990 per i campionati mondiali di calcio tenutisi in Italia; all’insegna dei punti-ristoro negli autogrill), in questi ultimi decenni si nota un suo massiccio sfruttamento, sull’onda del modulo titolistico cinematografico-teatrale (già di matrice angloamericana) visto alla n. 4, nella intitolazione di svariati tipi di spettacolo: dal varietà televisivo condotto da Paolo Bonolis su Canale 5 Ciao Darwin (1998), a Ciao Frankie [Sinatra] con Massimo Lopez (2006). Ulteriori prove della stravagante versatilità della parola possono esser rintracciate nella sua trasformazione in uno “pseudoprefissoide” di colore, per conferire un tono cordiale (e “italiano”) a nomi di agenzie e siti web d’informazione e turismo: Ciaoweb, CiaoItalia, CiaoCiaoItaly, CiaoMilano, CiaoUmbria, Ciaopet, ecc.; e infine nel suo impiego come sigla di diversi acrostici: CIAO è il “Centro Informazioni Accoglienza Orientamento” della Sapienza di Roma, il “Club Italiano Anestesisti e Ostetrici” con sede presso l’ospedale Fatebenefratelli, il “Centro Informatizzato di Accesso telematico all’Orientamento” della regione Friuli-Venezia Giulia, ecc.

7 Per le resistenze centro-meridionali si tenga conto che nei primi decenni del Novecento (secondo KARL JABERG - JAKOB JUD, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz [AIS], Zofingen, Ringier, 1928-1940, IV, c. 738 “buon giorno!”), il saluto ciao, s’ciao [sčao] e varianti era diffuso praticamente solo in Piemonte, Lombardia e Veneto (con isolati sconfinamenti o attestazioni paracadutate nelle provincie di Imperia, Piacenza, Sassari e Nuoro); e perfino GERHARD ROHLFS (Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Fonetica, trad. di Salvatore Persichino, Torino, Einaudi, 1966, p. 261n.) poteva parlarne ancora come di una “formula di saluto nell’Italia settentrionale”. Ma poi apparirà evidente che ciao “dalla culla lombardo-veneta (‘schiavo suo’) è sceso, nel giro di un cinquantennio, fino all’estremità della penisola” (M. CORTELAZZO, Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana. III.

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si manifestano già alcuni fenomeni di reazione a un certo incipiente sentimento di banalizzazione della parola, come la sua sostituzione con la variante gergale iao (vedi alla n. 41) o, più corposamente, con la reduplicazione e addirittura con la tripletta ciao-ciao-ciao!, che di recente (2007) ha preso campo in Lombardia.

Per capire meglio sia tali resistenze, sia la grande popolarità di ciao, occorre innanzitutto tener presenti i forti e decisivi fattori che giocano a suo favore. Da una parte l’oscurità che avvolge agli occhi dei più la sua provenienza e la sua semantica originaria, rendendolo perfetto come interiezione a differenza delle altre formule di saluto più trasparenti8. Dall’altra la sua brevità e “affabilità” fonica: non per nulla anche il vecchio modo di dire “fa servo”, per suggerire ai bambini di salutare con la mano, è diventato in tutta Italia “fa ciao”9. Affabilità che insieme alla freschezza della parola ha avuto buon gioco nel conferire al saluto, sentito come più neutro delle formule tradizionali proprio a causa del suo indistinto profilo semantico, quelle

Lineamenti di italiano popolare, Pisa, Pacini, 1986, p. 39). Non è facile quantificare lo “zoccolo duro” che si è opposto e continua a opporsi a ciao nell’Italia centro-meridionale, ma a prestarci attenzione è facile rendersi conto che alcuni parlanti ancora lo evitano sistematicamente, preferendo rispondere con un addio o un arrivederci anche quando sono apostrofati col nuovo saluto o comunque in modo confidenziale. Oltre alla testimonianza di Giovanni Nencioni (classe 1911, vedi n. 12), fra i casi che ho potuto osservare ricordo con precisione quello di Arrigo Castellani (1920-2004), che ha sempre coerentemente evitato di pronunciare la parola: persino dopo che mi ebbe proposto di “passare al tu” continuò a salutarmi con un addio, anche quando per caso mi fosse scappato di bocca un semplice ciao. Altri toscani mi hanno confermato di sentire ancora nel saluto un non so che d’estraneo. Diversa reazione quella dell’amica Cecilia Rodolico, figlia del botanico Giovanni Negri (Calcio, Bergamo, 1877 - Firenze, 1960), la quale sulle prime, quando siamo entrati in maggior confidenza e siamo passati dall’addio al ciao, ha voluto rispondermi con un ciau, reminiscenza riaffiorata forse dall’eco di usi lombardi e piemontesi vivi nella sua famiglia d’origine.

8 Com’è noto, le interiezioni, oltre a possedere un particolare statuto sintattico corrispondendo per la loro natura olofrastica a un intero atto linguistico, hanno anche una “scarsissima autonomia semantica” (G. NENCIONI, L’interiezione nel dialogo teatrale di Pirandello [1977], in ID., Tra grammatica e retorica. Da Dante a Pirandello, Torino, Einaudi, 1983, pp. 210-253, a p. 229; cfr. anche ISABELLA POGGI, Le interiezioni, Torino, Boringhieri, 1981); tuttavia le formule di saluto e di cortesia, come altri tipi di interiezioni “secondarie” (comandi, esortazioni, apprezzamenti, imprecazioni, ecc.), restano in certo modo collegate, se non altro metaforicamente (bacio le mani = ‘riverisco’), al loro significato proprio; con ciao si ha invece una formula semanticamente opaca, e dunque immediatamente predisposta a una vera e propria funzione interiettiva, adattabile in pieno ai più vari contesti.

9 Un tempo radicata anche in Toscana, l’espressione “far servo” (“modo d’insinuazione ai bimbi, perché salutino qualcuno. Locché essi fanno collo stendere il braccio, e agitarlo dall’alto in basso, colla manina allargata e supina”: GIACINTO CARENA, Vocabolario domestico, Torino, Fontana, 1846, p. 109; cfr. anche NICCOLÒ TOMMASEO - BERNARDO BELLINI, Dizionario della lingua italiana, Torino, Società l’Unione Tipografico-editrice, 1865-1879 [TB], alla voce servo; ecc.) ha continuato a circolare a lungo: nel 1945 viene aggiunta da Ulderico Rolandi al Vocabolario romanesco di FILIPPO CHIAPPINI (terza ed. a cura di Bruno Migliorini, Roma, Chiappini, 1967), e figura ancora nel 1959 nel Vocabolario di NICOLA ZINGARELLI (ottava ed., Bologna, Zanichelli). Il nuovo fraseologismo “far ciao” affiora nel dialetto milanese ed è registrato per la prima volta da GIUSEPPE BANFI (Vocabolario milanese-italiano, seconda ed. [non ho potuto controllare la prima del 1852], Milano, Ubicini, 1857): “Fa ciavo. Far servo: modo d’insinuazione ai bimbi, perché salutino qualcuno”; e poi da FRANCESCO ANGIOLINI (Vocabolario milanese-italiano, Torino, Paravia, 1897): “fa ciâo ciâo = far baciamano, far servo: salutare da lontano, spec. dei bambini”); infine si diffonde anche altrove: cfr. G. L. PATUZZI - G. e A. BOLOGNINI (Piccolo dizionario del dialetto moderno della città di Verona, Verona, Franchini, 1900): “Dir, Far ciao, Dire, Fare addio (dei bambini, quando aprono e chiudono i ditini della mano per salutare. Anche Dir, Far ciai”. Nell’italiano comune è diventato usuale nel secondo dopoguerra, nonostante cominci solo ora a trovar accoglienza nei lessici.

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connotazioni amichevoli e confidenziali che oggi lo caratterizzano: la semplicità del significante ha in qualche modo determinato il particolare e suadente colore della parola, un po’ com’era avvenuto nel dopoguerra per l’americanismo okay10. In italiano, infatti, ciò che ha spianato la strada al ciao e che ha potenziato la sua versatilità – oggi di fatto può esser speso in luogo di qualsiasi altra formula di saluto e quasi in ogni situazione che non sia strettamente formale – è proprio il suo significato sfuggente e il tono gradevole e sfumato: al confronto scompariscono anche le connotazioni familiari che un tempo avevano addio e, in certa misura, salve, formule che, di conseguenza, ora sono per lo più riservate a impieghi più circoscritti o sostenuti. Del resto, sotto il discreto incalzare di ciao, in posizione più defilata appare anche il pur sempre familiare arrivederci11.

Già vent’anni fa tali innovazioni nel sistema dei saluti erano state colte con grande acutezza da Giovanni Nencioni, in una bella pagina in cui aveva voluto descrivere la deriva che ormai lo separava dalla lingua della sua giovinezza: “Oggi è divenuto di uso sopraregionale il confidenziale ciao [...], formula non solo di congedo ma generalmente di saluto, come il colto e insieme confidenziale salve. Il rapporto più rispettoso e sostenuto dispone di arrivederci, arrivederla. L’antico addio è rimasto a esprimere un commiato sempre confidenziale, ma immalinconito da un affettuoso rammarico per il distacco da persona cara. È dunque una forma che i linguisti direbbero marcata, cioè di uso più limitato e più specifico. Ho tuttavia osservato che in caso di commiato di gruppo, precisamente di commiato gridato e insistito, la parola addio viene preferita come struttura foneticamente più adatta e perde ogni inflessione malinconica. Orbene: devo confessare che qui la mia diacronia mostra tutte le corde: non mi è mai venuto fatto di pronunciare la parola ciao e nel commiato confidenziale (e anche come formula generale di saluto) continuo ad usare addio, che essendo per me (eccetto qualche sporadico e ironico salve)

10 Anche l’origine della sigla o.k. è avvolta in una cortina fumogena di interpretazioni “aneddotiche” più o

meno probabili, che sono rialimentate di continuo da nuove ipotesi: cfr. B. MIGLIORINI, O. K. [1946], in ID., Profili di parole, Firenze, Le Monnier, 1968, pp. 143-146.

11 Questi elementi son ricondotti entro un plausibile quadro strutturale da MARIO ALINEI (Il sistema allocutivo dei saluti in italiano, inglese e olandese [1977], rist. in ID., Lingua e dialetti: struttura storia e geografia, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 23-36, a pp. 35-36): “Sentito ancora come dialettale negli anni ’30, non ancora registrato nei dizionari negli anni ’40, ciao è oggi il saluto nazionale per eccellenza […]. A questo successo hanno certo contribuito la sua brevità e la grazia leggermente esotica della sua forma fonologica, ma fondamentali sono stati i fattori strutturali. Prima della sua introduzione, infatti, il sistema italiano disponeva di due soli saluti “intimi” per il “commiato”: addio e arrivederci. Il primo è legato ad un distacco definitivo sempre meno probabile; il secondo contiene un augurio di rivedersi che tende a diventare superfluo nei luoghi di lavoro o di attività quotidiana […]. Ciao colma la lacuna che si determina nel sistema italiano a partire dalla formazione della società unitaria, per la popolazione che vive nelle grandi città: non esprime né il commiato definitivo né si lega a promesse. Ma non basta: se le caratteristiche del commiato si mutano coll’evolversi della società, ciò vale anche per l’incontro. Prima di ciao, il sistema italiano dispone di un solo saluto “intimo” per l’incontro: salve. Questo saluto è poco comune ed è “significativo” […]. Anche perché etimologicamente opaco, ciao si presta di più a diventare il saluto informale e automatico nell’incontro quotidiano”. E va aggiunto che, proprio per la sua duplice valenza come saluto d’incontro e di commiato, viene a ricoprire la funzione che un tempo aveva buongiorno, oggi ormai quasi del tutto fuori uso come commiato, sostituito dalla nuova formula buona giornata o, nel lasciarsi, dall’esclamazione augurale “una buona giornata!”: su quest’ultima novità cfr. TRISTANO BOLELLI, Parole in piazza, Milano, Longanesi, 1984, p. 198 (che la sente un meridionalismo); LORENZO RENZI, Le tendenze dell’italiano contemporaneo, in “Studi di lessicografia italiana”, XVII, 2000, pp. 279-319, a p. 311; e GIAN LUIGI BECCARIA, Per difesa e per amore. La lingua italiana oggi, Milano, Garzanti, 2006, p. 150 (i quali la riconducono a un’imitazione dell’augurio inglese have a nice day!); PIETRO JANNI, Buona giornata, buona serata, in “Lingua nostra”, LXVII, 2006, pp. 122-124 (che la spiega come frutto di un’evoluzione autonoma).

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unica, non è marcata, cioè non ha necessariamente una inflessione di rammarico. È questo uno dei tratti più arcaici del mio idioletto fiorentino, non più condiviso dai miei familiari”12.

*

Se, come si è detto, le origini dialettali e il valore etimologico prossimo e remoto di ciao restano comprensibilmente nel buio per quasi tutti coloro che oggi usano la parola, per i linguisti, al contrario, tutta la faccenda è sempre stata chiarissima. La provenienza dal veneziano “schiao (leggi s-ciao), ‘sincopato di Schiavo, Schiavo, Modo di salutare altrui con molta confidenza’ (1829, Boerio); corrispondente a forme come servo suo e simili”13, e le tappe della sua propagazione negli altri dialetti settentrionali e successivamente nella lingua, sono state del resto ben illustrate negli ultimi anni da un pregevole saggio di Manlio Cortelazzo14 e inquadrate in una appropriata e interessante cornice teorica da Mario Alinei, con ulteriori approfondimenti di Gabriella Giacomelli, Edward F. Tuttle, Glauco Sanga15; infine Minne-Gerben de Boer ha ridiscusso con nuova e ampia documentazione diversi punti dei precedenti contributi16. Questi studi, come peraltro quelli che erano stati dedicati all’etimologia e alla storia antica della parola schiavo, derivante dal greco skul£w ‘far prede di guerra’, o, come tradizionalmente si è sempre ritenuto, dal greco bizantino S klauhno…, S klabhno…, attestato nel VI secolo come denominazione per i popoli slavi, da cui il sostantivo skl£boj, in latino SCLAVUS, che dal secolo VIII acquisterà anche l’accezione di ‘servo’17, contengono già una tal quantità di dati e di

12 G. NENCIONI, Autodiacronia linguistica: un caso personale [1982], ora in ID., La lingua dei

“Malavoglia” e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli, Morano, 1988, pp. 99-132, a pp. 112-113; a proposito di quanto si sostiene su addio come “commiato di gruppo” (ma cfr. anche LUCA SERIANNI, con la collaborazione di Alberto Castelvecchi, Grammatica italiana, Torino, UTET, 1988, X.43), occorre rilevare che anche in quella funzione esso è stato ormai sostituito con ciao. Nencioni è tornato brevemente sull’argomento in una nota di Spigolature sulla sua rivista “La Crusca per voi”, n. 19, ottobre 1999, pp. 15-16, a p. 15: “Io saluto ancora con l’antico addio in luogo di arrivederci, non ho mai usato il ciao “schiavo” saluto un tempo deferente di origine veneziana e oggi diffusissimo saluto confidenziale”. Sulle differenze d’uso e di connotazione fra ciao e addio cfr. anche EMIDIO DE FELICE, Le parole d’oggi, Milano, Mondadori, 1984, pp. 23-24.

13 MANLIO CORTELAZZO - PAOLO ZOLLI, Dizionario etimologico della lingua italiana, Bologna, Zanichelli, vol. I, 1979; ma per le aggiunte al lemma, vedi anche la nuova edizione, a cura di Manlio e Michele A. Cortelazzo, ivi, 1999; il Boerio è ovviamente il Dizionario del dialetto veneziano di GIUSEPPE BOERIO, edito per cura di Daniele Manin, Venezia, Santini, 1829 (la voce è identica nella seconda edizione del 1856), che tuttavia pone a lemma schiao e non fa cenno di ciao. Analoghe indicazioni anche negli altri vocabolari recenti, fra i quali cfr. MANLIO CORTELAZZO - CARLA MARCATO, I dialetti italiani. Dizionario etimologico, Torino, UTET, 1998, s. v. s-ciao.

14 M. CORTELAZZO, “Ciao, imbranato”: due fortunati neologismi di provenienza dialettale, in “Italienischen Studien”, IV, 1981, pp. 117-126, in part. pp. 117-120 e 123.

15 M. ALINEI, Il problema della datazione in linguistica storica, in “Quaderni di semantica”, XII, 1991, pp. 5-51; l’articolo di Alinei (pp. 5-20) è seguito da una serie di commenti, in alcuni dei quali (G. GIACOMELLI, pp. 29-30; P. TAKAVČIĆ, p. 36; E. F. TUTTLE, pp. 42-44), come nella Replica di Alinei (pp. 47-51), si ritorna sulla questione di ciao; il contributo di G. SANGA, L’uovo e la gallina, l’imbuto e la clessidra… e ciao!, ivi, XIII, 1992, pp. 187-189, in part. a p. 189. Vedi inoltre, sempre di ALINEI, Il sistema allocutivo dei saluti in italiano, inglese e olandese cit.

16 M.-G. DE BOER, Riflessioni intorno a un saluto: la storia di “ciao”, in “Lingua e stile”, XXXIV, 1999, pp. 431-448.

17 Cfr. PAUL AEBISCHER, Les premiers pas du mot sclavus ‘esclave’, in “Archivum Romanicum”, XX, 1936, pp. 484-490; CHARLES VERLINDEN, L’origine de sclavus = esclave, in “Archivum Latinitatis Medii Aevi”, XVII, 1943, pp. 97-128; ID., L’esclavage dans l’Europe médiévale, Brugge, De Tempel, 1955; KARL-

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osservazioni che in sostanza rendono quasi inutile ritornare daccapo sull’argomento, se non per alcuni particolari e per la cronologia della fase a noi più vicina, quella che ha visto l’affioramento di ciao nell’italiano comune. A questo proposito i pareri divergono piuttosto nettamente: Cortelazzo, pur non fissando una data precisa, ne parla come di un fatto recente verificatosi nel corso del Novecento; Alinei, sulla base dei suoi ricordi e delle tracce nei vocabolari dell’uso, lo colloca nel secondo dopoguerra; per de Boer, invece, esso va anticipato, secondo le attestazioni letterarie disponibili, alla seconda metà dell’Ottocento.

Su questo punto specifico è ora forse possibile aggiungere qualche precisazione e nuove testimonianze, ma per poter valutare correttamente i nostri dati, occorre metter prima in chiaro alcuni criteri di fondo. Se, infatti, i dialettalismi, nel sistema lessicale, sono accomunabili agli altri forestierismi, per ciò che riguarda le modalità dei rispettivi processi d’interferenza, la loro condizione è abbastanza differente: le interferenze alloglotte, siano di adstrato o di superstrato, interessano lingue che hanno un qualche prestigio se non addirittura un ruolo preponderante e scaturiscono da un contatto “culturale”, di solito circoscrivibile a determinate epoche e a fatti o episodi precisi; i dialettalismi nascono invece da un capillare e intimo rapporto quotidiano con lingue subalterne, strutturalmente e lessicalmente affini alla lingua mutuante. Nella realtà italiana scambi reciproci fra un dialetto e l’altro, e fra questi e il toscano letterario o, dopo l’Unità, la lingua nazionale e le sue varietà, son sempre avvenuti, ora con più ora con meno intensità: la convergenza su una lingua egemonica è riuscita solo in parte a smorzare la vitale forza debordante delle parlate locali, tanto che l’ininterrotta osmosi fra dialetto e italiano è stata fino ad oggi assai produttiva, e a partita doppia, e non priva di andirivieni. Non va dimenticato, infatti, che i potenziali artefici di tali interferenze interne, anche quando l’abbrivio sia riconducibile a un singolo individuo, sono gruppi considerevolmente ampi di parlanti che hanno sempre avuto coscienza e una certa competenza, più o meno salda e attiva, del diverso sistema linguistico con cui interagivano. Così nell’accertamento di un dialettalismo occorre procedere con cautela, ricostruendo per quanto possibile il suo retroterra nel dialetto di provenienza, in modo da valutare

LUDWIG MÜLLER, Übertragener Gebrauch von Ethnika in der Romania, Meisenheim am Glan, Hain, 1973. A proposito dell’etimologia tradizionale, già ipotizzata nell’Ottocento, sono interessanti le considerazioni aggiunte da Tommaseo alla voce schiavo (aggettivo) del suo Dizionario (TB), che pur legate a un’epoca tramontata, ancora ci mostrano come l’accertamento della verità filologica non possa esser scisso da una lucida consapevolezza della viva e profonda moralità della storia linguistica: “Dicono che la razza tedesca, divorando la slava, e facendo provincie tedesche delle abitate da genti slave (come provano i nomi pr. di Strelitz e Teplitz) aggiungesse alla crudeltà dell’ingiustizia la crudeltà dell’oltraggio, facendo Slavo sinonimo di Prigione. Il Ferrari rammenta cotesta origine: E forti Slavorum gente. Simile equivoco fece parere i Serbi, popoli di quella che già chiamavasi Rascia, sinonimo di Servi: ma i Serbi posero il giogo turco prima de’ Greci. Altri deriva il nome da Slovo, Parola, onde Slava, Gloria; come Fama dal greco F»mh, e il senso di Rinomanza. Gli Slavi chiamano tuttavia Njemci i Tedeschi; contrapponendo sé, Uomini parlanti e ragionanti, a quegli altri Mutoli; Mutum et turpe pecus: provocazioni e vendette che i popoli debbono pagare poi caro. Ma nell’italiano la confusione tra Schiavo e Slavo avvenne per essere la Sl, e altri simili, suono non omogeneo all’indole della lingua” (del resto l’intero lemma, fra gli ultimi che il Dalmata poté dettare, lascia trasparire i sofferti e fieri sentimenti di nostalgia e di riscatto che il poeta nutriva per la sua terra: “Pensando a Schiavina [veste di panno grosso] è a credere che il nome seg. venisse dal farsi in Schiavonia panni ordinari, per il poco costo e per la durata. Adoprati anco altrove, o lavoratine di somiglianti. […] E così forse il nome dell’uva [schiava]; giacché pregiati i vini dalmatici, e, se sapessersi fare, in verità preziosi quanto son quelli di Spagna”). Da ultimo ha sollevato ragionevoli dubbi sulla vulgata etimologica, in parte viziata da pregiudizi nazionalistici, GEORG KORTH (Zur Etymologie des Wortes “Sclavus” (Sklave), in “Glotta”, XLVIII, 1970, pp. 145-153), proponendo la derivazione da un’ipotetica forma latina *scylavus, che più tardi avrebbe coinciso con sclavus, dando luogo a frantendimenti: va detto, tuttavia, che la plausibile ipotesi di Korth richiederebbe un accurato riesame dell’intero quadro delle prime attestazioni della parola.

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correttamente le singole testimonianze del suo iniziale abbarbicamento nella lingua o nell’italiano regionale. Difatti esse possono avere un valore assai disuguale l’una dall’altra, sia in relazione alla modalità o al contesto di quel particolare episodio d’interferenza dal dialetto, sia in relazione alle competenze e agli scopi di colui cui lo si deve18.

Con questi presupposti proviamo ora a esaminare più da vicino il nostro caso, già abbastanza complesso anche nella sua genesi dialettale, genesi che proprio perciò conviene richiamare a grandi linee. Se i continuatori del latino medievale SCLAVUS si sono subito conosciuti popolarmente nei diversi antichi volgari19, per capire come la semantica e l’uso del termine si siano potuti estendere fino a trasformarlo in una interiezione, occorre tuttavia seguirne le vicende nei registri più elevati della lingua. Qui infatti, e fin dall’inizio, schiavo, oltre che nei due significati fondamentali di ‘slavo’ e di ‘servo’, fu spesso usato in un’accezione metaforica derivante da tale suo secondo valore, in modo analogo a ciò che avveniva con i quasi sinonimi servo e servitore: “Vergine pulzella, Maria, […] che io sarei da oggi inanzi vostra schiava” (XIII sec., Anonimo senese); “servo e schiavo del peccato”, “Io Catarina, serva e schiava de’ servi di Gesù Cristo, scrivo a voi” (S. Caterina da Siena); “Che cosa è uomo. […] consumazione di vita, moto etterno, camminatore ischiavo della morte” (Motti e facezie del Piovano Arlotto); “Le stelle sono stiave | del senno” (Poliziano); “la bestia è schiava delle passioni” (Vico); “Schiavo son d’amore” (Carlo Gozzi)20.

Quando dalla seconda metà del Quattrocento, con l’instaurarsi nella vita di corte di nuove maniere deferenti e cerimoniose, si intensificò l’uso di titoli come Signore e Padrone e dell’allocuzione astratta Vostra Signoria (o Signoria Vostra, e simili), non riservati più come in passato solo a occasioni solenni o a personaggi potenti, ma estesi quasi a ogni quotidiano complimento e situazione di cortesia21, parallelamente si profilarono, in posizione antonimica, una serie di formule di rispetto del tipo vostro servo, con le due varianti, di tono leggermente più attenuato o più iperbolico, vostro servitore e vostro schiavo: “Dilïante ringrazia il paladino, | dicendo: – Schiavo etterno ti saròe” (Pulci, Morgante); “Piacciavi, generosa Erculea prole, | […] 18 Sulle questioni di metodo nello studio dei dialettalismi aveva richiamato l’attenzione TULLIO DE MAURO,

Storia linguistica dell’Italia unita [1963], Bari, Laterza, 1970, pp. 186-201; vedi anche P. ZOLLI, Il contributo dei dialetti all’italiano comune, in “Cultura e scuola”, XXI, n. 81, gennaio-marzo 1982, pp. 7-21, spec. pp. 7-9; ID., Le parole dialettali, Milano, Rizzoli, 1986, pp. 7-14; i criteri di classificazione e la tipologia delle fonti sono discussi in modo chiaro e approfondito da FRANCESCO AVOLIO, I dialettalismi dell’italiano, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, III. Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994, pp. 561-595.

19 Per le prime attestazioni della parola, vedi GIORGIO COLUSSI, GAVI. Glossario degli antichi volgari italiani, Helsinki, Helsinki University Press, 1983-2006 (oltre alla voce schiavo, cfr. anche servo). Colussi non solo retrodata e arricchisce significativamente la documentazione antica, ma indica alcuni esempi di Giordano da Pisa, di Francesco da Barberino e della parafrasi lombarda del Neminem laedi nisi a se ipsum di San Giovanni Grisostomo, dai quali risulterebbe che nei primi secoli schiavo era sostanzialmente sentito come sinonimo di servo.

20 Tranne il primo che è tratto dal GAVI, tutti gli esempi, come – salvo diversa indicazione – quelli che seguiranno, son ricavati dal Grande dizionario della lingua italiana [GDLI], diretto da SALVATORE BATTAGLIA e poi da GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, Torino, UTET, 1961-2004, e dalla LIZ. Letteratura italiana Zanichelli (su cd-rom), quarta edizione per Windows, a cura di Pasquale Stoppelli ed Eugenio Picchi, Bologna, Zanichelli, 2001: visti i miei scopi, affianco a ogni citazione solo il nome dell’autore, evitando di appesantire il testo con rimandi bibliografici facilmente desumibili da tali opere.

21 Oltre al lavoro di B. MIGLIORINI, Primordi del “lei” [1946], in ID., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, 1957, pp. 187-196, sull’origine di queste cerimonie affettate e delle ossequiose allocuzioni che le contornavano, solo in parte dovute a usanze straniere, vedi GIAN LUIGI BECCARIA, Spagnolo e spagnoli in Italia. Riflessi ispanici sulla lingua italiana del Cinque e del Seicento, Torino, Giappichelli, 1968, pp. 190-197.

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Ippolito, aggradir questo che vuole | e darvi sol può l’umil servo vostro” (Ariosto, Orlando furioso); “di’ con reverenzia, o bella o brutta: ‘Eccomivi servitrice’, ché, ciò dicendo, ti vendicherai con la modestia” (Aretino, Sei giornate).

Come si può capire, un simile frasario di formale soggezione ossequiosa ricorrerà di frequente nella chiusa delle lettere, tanto da irradiarsi in un ricco ventaglio di moduli e varianti: “raccomandandoli Leonardo Vincio svisceratissimo servitor suo, come mi appello e sempre voglio essere” (Leonardo); “Son ben servo di Vostra Excellenzia come ch’io mi sia, et a quella basando le mani, in bona grazia umilmente mi raccomando” (Castiglione); “El cardinale de’ Medici è schiavissimo di V. Ecc. e se li racomanda” (Giovio); “Restami solo il pregar Vostra Excellenzia ad tenermi in sua bona grazia, che veramente io gli son servitore di cuore e schiavo” (Tiziano); “pregate per me, vostro affezionatissimo servitore” (Tasso); ecc. Tuttavia già nel secolo XVII tali varianti tendono a convergere e a cristallizzarsi in cliché del tipo vostro devotissimo (umilissimo e simili) servitore: schiavo uscirà quasi del tutto dall’uso epistolare, servo vi comparirà sempre più di rado22.

Lo stesso frasario ricorrerà altresì, segno della sua ormai ampia diffusione nell’uso orale anche al di fuori dell’originario ambiente cortigiano, in testi nei quali si tende a imitare il parlato, in primis nei dialoghi delle commedie, e non solo come tipica parodia, talvolta marcatamente ironica, di un intercalare cerimonioso. Il termine schiavo, in particolare, vi figura per lo più all’interno di fraseologismi che voglion apparire pieni di riguardo: “Signor mio, perdono, e non penitenza, schiavo de la Signoria vostra” (Aretino, La Cortigiana); “esser schiavo, servo affezionato e sviscerato di queste donne” (Alessandro Piccolomini, L’amor costante); “me ha cavato il core e facto schiavo perpetuo de soa beltà” (La Veniexiana). Quando la parola è usata in funzione predicativa nel costrutto esser schiavo a qualcuno, ha invece un’accezione di generica riconoscenza, come volesse dire ‘obbligato’: “conosco che tu mi ami, e ti son schiavo in eterno”, “dite mal de le mogli, ché ognuno vi sarà schiavo” (Aretino, Il Marescalco); “oltra che ti fa la grazia, te ne resta schiavo” (Aretino, Dialogo); “io giuro d’esserti per sempre schiavo” (Grazzini, La pinzochera).

Quel che più ci interessa, tuttavia, è che fin d’ora questi due moduli, schiavo vostro e ti son schiavo, cominciano ad essere impiegati nelle commedie anche in modo assoluto come formule interiettive: “Vi son schiavo, maestro” (Aretino, Il Marescalco). E si dà almeno un caso dove, nell’espressione pronunciata prima di un congedo, addirittura in forma ellittica, già balena chiaro il valore di saluto: “IPOCRITO [in fine di scena] Tòrnati a casa […] | TOCCIO [il garzone, andandosene] Schiavo, alleluia” (Aretino, Lo Ipocrito).

La stessa funzione di saluto la stavano acquistando, del resto, anche i tipi quasi sinonimici vostro servitore (o più raramente servo) e ti son servitore (o servo) in analoghe situazioni comunicative, specie nell’accomiatarsi: “Servitor di vostra mercé; e bacio le mani di vostra signoria” (Doni, I marmi); “ROBERTO Bacio le mani della Signoria Vostra. | LIGDONIO [poeta napoletano] Ve songo servitore” (Piccolomini, L’amor costante); “Io ti son servitore: va’

22 Cfr. GDLI, alle voci schiavo, § 8 (dov’è riportato ancora un esempio settecentesco da una lettera al

Muratori); servitore, § 2; servo, § 1. All’inizio dell’Ottocento si assiste a un’ulteriore semplificazione di tale formulario: cfr. GIUSEPPE ANTONELLI, Tipologia linguistica del genere epistolare nel primo Ottocento, Roma, Ed. dell’Ateneo, 2003, pp. 59-62: fra i tanti tipi di formule di congedo ivi schedati figurano solo sei casi con servitore e due con servo. Il mutamento è ben descritto da N. TOMMASEO nel Nuovo dizionario de’ sinonimi [1832], Milano, Crespi, 1833, p. 82: “non è più dell’uso gentile quella frase abiettissima: suo umilissimo servo; ma le si preferisce servitore: e speriamo che i sociali complimenti andranno così mano mano nobiltandosi un poco, e gli uomini tutti avranno la modestia di stimarsi fratelli e, come tali solamente, rispettarsi e servirsi”. Dalla metà del secolo servo e servitore, a meno che non siano introdotti per scherzo o per affettazione, scompariranno del tutto dall’uso epistolare.

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con Dio” (Aretino, Il Marescalco). Anche in questo caso la formula vostro servitore (servo) può presentarsi ridotta ellitticamente ai semplici servitore o servo con lo stesso valore interiettivo: “FORA Cercava di voi. | ARMILEO Servidore” (Aretino, La Talanta); “ALESSANDRO […] Servitore, messer Ostilio. | OSTILIO Basciovi le mani. Chi siete?” (Castelletti, Stravaganze d’amore); e altri esempi non mancano nei due secoli successivi23.

Insomma già nel Cinquecento la parola schiavo, a stare alle testimonianze, offre un ricco e vario quadro d’impieghi nella lingua letteraria e nel parlato di persone più o meno colte, con accezioni abbastanza diverse: da quella minoritaria di ‘slavo’ (“il mar schiavo e il tosco”, Ariosto, Orlando furioso; “Chiozzotti et Schiavi, gens telis apta marinis”, Folengo, Baldus), a quelle di ‘servo’ e di ‘schiavo’, a quelle che emergevano dall’insieme delle formule d’ossequio, di gratitudine, di saluto in cui la parola spesso ricorreva. Tale polisemia (e polifunzionalità) era nitidamente percepibile e ben marcata dalla sintassi, dal contesto o dalla situazione comunicativa, al punto che talora ci si poteva permettere il lusso di far ridere giocando coi doppi sensi: “IULIUS [l’innamorato a se stesso] Iulio, sii felice, poi che una tal donna si degna di ricomandarse a te, che sei suo servitore e schiavo. | ORIA [la serva della donna] La Vostra Magnificenzia xè un zentilomo da ben, no schiavo!” (La Veniexiana); “Io amo una che, se ben la fortuna me la fa serva, la sua bellezza me le fa schiavo” (Della Porta, La fantesca).

Più che radunare ulteriori attestazioni di simili variegati usi metaforici e interiettivi, potentemente sospinti nel loro complesso dalla moda delle sussiegose maniere spagnolesche che stavano allora influenzando i costumi degli italiani, merita soffermarsi su una testimonianza diretta e piuttosto esplicita. Nel Galateo, dove appunto si tratta delle “cerimonie debite”, quelle che “non procedono dal nostro volere né dal nostro arbitrio liberamente, ma ci sono imposte dalla legge, cioè dall’usanza comune”, e del fatto che i termini di riverenza e di sottomissione che allora eran diventati abituali non devono esser presi alla lettera, dato che “hanno perduto il loro vigore e guasta, come il ferro, la tempera loro per lo continuo adoperarli che noi facciamo”, si aggiungevano queste acute e interessanti raccomandazioni:

bisogna che noi raccogliamo diligentemente gli atti e le parole con le quali l’uso e il costume moderno suole ricevere e salutare e nominare nella terra ove noi dimoriamo ciascuna maniera d’uomini, e quelle in comunicando con le persone osserviamo. […] E, quantunque il basciare per segno di riverenza si convenga direttamente solo alle reliquie de’ santi corpi e delle altre cose sacre, nondimeno, se la tua contrada arà in uso di dire nelle dipartenze: – Signore, io vi bascio la mano –; o: – Io sono vostro servidore –; o ancora: – Vostro schiavo in catena –, non dèi esser tu più schifo degli altri, anzi, e partendo e scrivendo, dèi e salutare e accomiatare non come la ragione ma come l’usanza vuole che tu facci, e non come si voleva o si doveva fare ma come si fa: e non dire: – E di che è egli signore? […] E queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti […] hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell’acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini, sicché non si deono abbominare, come alcuni rustici e zotichi fanno24.

23 Oltre a quelli che sono rintracciabili attraverso le nostre fonti lessicografiche (GDLI e LIZ), segnalo i

seguenti: “LEPIDO Per ora non m’occorre altro che segretezza. […] | FLAVIO Tanto farò, con la diligenza che mi conviene. Servitore” (1618, FLAMINIO SCALA, Il finto marito, in Commedie dei comici dell’arte, a cura di Laura Falavolti, Torino, UTET, 1982, p. 248); “VIRGINIO […] Intanto vado, per non mi poter più trattenere. Servitor suo. | CAPITANO A Dio, signor Virginio” (1633, PIER MARIA CECCHINI, L’amico tradito, ivi, p. 715); “BERENICE […] Signor Cleante a rivederla (parte). | CLEANTE Servo umilissimo. Amico vi riverisco. | FLAMINIO Servidor vostro”, “PASQUINA Oh buono. Vi riverisco di nuovo (parte). | SENNUCCIO Servitor, madame” (1730, JACOPO ANGELO NELLI, La serva padrona, da Il teatro italiano IV. La commedia del Settecento, a cura di Roberta Turchi, I, Torino, Einaudi, 1987, pp. 142, 156).

24 G. DELLA CASA, Galateo, cap. XVI, in Opere di B. Castiglione G. Della Casa B. Cellini, a cura di Carlo Cordié, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, pp. 394-400, cit. da pp. 395-396. La particolare formula di

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Della Casa coglie bene la natura di tali nuove locuzioni nelle quali ciò che vale, ben al di là del significato dei singoli termini, è solo il loro senso complessivo come modi interiettivi e d’ossequio. In particolare anche l’espressione vostro schiavo in catena non voleva affatto indicare una reale condizione fisica o morale di schiavitù, ma era ormai diventata solo una formula fissa di riguardo e di congedo, da usarsi nello scriver lettere e nel parlare, almeno se si intendeva stare al passo con le buone maniere della società contemporanea e non passare per degli “zotichi” maleducati.

Le attestazioni cinquecentesche della nostra formula di saluto ricavabili da documenti lessicografici, specie quelle che la presentano nella forma ellittica di schiavo, non sono poi molte, ma quasi certamente essa doveva essersi ben diffusa e stabilizzata, come testimonia Tommaso Garzoni: “hoggidì non s’usa altro, che dire: ‘Bascio la mano di vostra mercé, Servitore, e schiavo perpetuo di quella’, con mill’altre cerimoniose parole che i cortigiani massimamente introduttori d’ogni adulatione hanno trovato ai tempi nostri. Et se ben molte cerimonie de’ moderni erano anco presso gli antichi in uso, […] nondimeno ve n’hanno aggionte tante i moderni, che oggidì gli huomini non paiono huomini, ma Dei dal ciel discesi, essendo ita tanto innanzi la licenza delle reverenze, et de’ saluti, che fino ai ciavattini e caligari si senton nominar col nome di signori, et quattro bezzi in borsa son sufficienti a farti dar dell’illustre se ben non sei illustre in altro, che in ignoranza, et gofferia”25.

Nel secolo successivo è curioso intercettare un impiego interiettivo di schiavo in un bizzarro ditirambo in lingua ionadattica declamato addirittura al cospetto degli accademici della Crusca da un futuro arciconsolo: “Addio Monoemugi, | Schiavo Monomotapa mio cortese; | S’io vo a Stocolmo, c’ho dire al Marchese?”, che lo riproporrà anche in un altro suo scherzo poetico: “Schiavo, signor Panciatichi”26. La formula di saluto, piena o ellittica che fosse, resterà sempre alla ribalta nella lingua della commedia fino a Goldoni, e anche dopo27; mentre appare declinante in altri tipi di testi, nei quali viene acquistando, più chiaramente durante il secolo XVIII, una sfumatura enfatica, o satirica, o spregiativamente popolaresca28.

riverente soggezione, vostro schiavo in catena, citata dal Della Casa, doveva esser abbastanza corrente nel Cinquecento: compare nel Dialogo dell’Aretino e nelle Novelle del Bandello (cfr. LIZ).

25 T. GARZONI, La piazza universale di tutte le professioni del mondo [1589], a cura di Giovanni Battista Bronzini, Firenze, Olschki, 1996, I, p. 93.

26 LORENZO PANCIATICHI, Scritti vari, raccolti da Cesare Guasti, Firenze, Le Monnier, 1856, pp. 82 e 136: le due occorrenze erano state schedate da Pietro Fanfani nel TB, alla voce schiavo e † stiavo, § 4: “Schiavo, detto per Complimento di saluto”. Il primo esempio, tratto dal Ditirambo d’uno che per febbre deliri, recitato durante lo “stravizzo” del 14 settembre 1659, si riferisce a una situazione di commiato; il secondo a un casuale incontro.

27 I numerosi esempi goldoniani sono stati analizzati da M.-G. DE BOER, Riflessioni intorno a un saluto cit., pp. 433-437. La formula sembra comunque esser stata piuttosto comune sulle scene veneziane: “CALAF […] Amico, a rivederci. Ci rivedremo in miglior punto. Addio. | BARACH Signore, vi son schiavo. | BRIGHELLA Allon, allon, finimo le cerimonie” (CARLO GOZZI, Turandot); “BRIGHELLA […] Patroni riveriti (entra). | TARTAGLIA Schiavo, signor capitano” (ID., Il mostro turchino); “VELFEN [incontrando l’interlocutore] Servitore umilissimo. | NAIMANN Schiavo” (1796, CAMILLO FEDERICI, I pregiudizi dei paesi piccoli, da Il teatro italiano IV. La commedia del Settecento cit., vol. II, Torino, Einaudi 1988, p. 66).

28Vedi, attraverso la LIZ, l’uso caricaturale che ne fa Baretti nella chiusa di alcuni dei suoi “discorsi” nella Frusta letteraria (“Don Luciano [Firenzuola da Comacchio], vi sono schiavo”). O quelli che figurano nell’attacco di uno scherzoso sonetto (“Ti sono schiavo, ti son servitore | Cecco, che se’ ’l mio bene solo solo. | Deh lascial ir quel ragazzo d’Amore | ch’egli è una forca, ch’egli è un mariuolo”), e nella chiusa di un altro componimento (“e sono stiavo di Vossignoria”) delle pariniane Poesie di Ripano Eupilino. O, infine, quello di Pietro Verri citato alla nota seguente.

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A poco a poco, infatti, salutare con schiavo perde quel tratto di distinta maniera cortigiana che aveva nel Rinascimento e appare come un’abitudine sorpassata, lontana dalla nuova sensibilità sociale e dal clima egualitario e filantropico che si diffonde col riformismo illuminista: magari ancora tollerabile fra il popolo, ma poco dignitosa per uomini moderni, spregiudicatamente liberi e cosmopoliti. Alessandro Verri, ad esempio, subito dopo la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca, prosegue nel “Caffè” con una “rinunzia” alle Riverenze, facendosi beffe delle troppo cerimoniose e formalistiche consuetudini sociali, fra le quali pone, non a caso, anche il nostro saluto:

Dite ai vostri scrittori del Caffè ch’io sto per pubblicare un’opera molto instruttiva, che avrà

per titolo Trattato matematico-logico-politico sulle riverenze. […] Le prime riverenze […] sono elleno accompagnate da un sorriso o da uno schiavo, se son rare, e da un buon giorno, amico, se son comuni. […] Aggiungerò poscia la esatta calcolazione di quelle riverenze le quali si fanno più dilicatamente, accostando bel bello l’estremità delle dita della mano destra al labro con un insensibile curvamento, indi scostandola adagio adagio con uno schiavo per lo più nasale e con un vezzoso increspamento di pelle da mandarino chinese che sorride. […] Finalmente farò vedere quanto siano incomodi i saluti di taluni che inchinandosi profondamente vi afferrano come una tenaglia a tutta forza la mano e replicatamente tutto il braccio vanno scuotendo; quindi in segno d’estrema benevolenza digrignano per fine i denti, quasi per tener raccolto il fiato, e terminano sciogliendo uno schiavo, sprigionando un addio, lasciandovi un carissimo, uno stimabilissimo di tutto cuore, con un tuono falsetto penetrante che consola29.

Così nel grande sommovimento della vita sociale e dei rapporti fra gli individui che

attraverserà quel secolo e che giungerà alla sua acme nel periodo rivoluzionario, quando, fra altre cose ben più rilevanti, l’intero galateo verrà radicalmente rinnovato, le vecchie cerimoniose maniere di saluto saranno le prime a subire un tracollo, e anzi ad esser esplicitamente interdette, come si apprende fin dalle battute iniziali della commedia Il matrimonio democratico, ossia il flagello de’ feudatari di Simeone Antonio Sografi, rappresentata a Venezia nel 1797, “I° della libertà italiana”:

CITTADINO (sempre con vivacità e brio) Tonino, buon giorno; ti saluto, Tonino. TONINO (s’alza) Lustrissimo, ghe son servitor. CITTADINO Lascia andar l’Illustrissimo, Tonino. Non è più il tempo degli Illustrissimi: è la stagione degli uomini oscuri30.

E come spiegherà in modo ancor più chiaro, sempre in quell’anno memorabile, il giacobino Girolamo Bocalosi, nell’opera Dell’educazione democratica da darsi al popolo italiano (Milano,

29 A.[ALESSANDRO VERRI], [Le riverenze], nel “Caffè”, t. I, fogli VI-VII; cit. da “Il Caffè”. 1764-1766, a cura

di Gianni Francioni e Sergio Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 1998², pp. 73-78: i brani da pp. 73, 74, 75, 77. Sulla medesima rivista Pietro Verri, fingendosi analfabeta, concluderà l’articolo non firmato Un ignorante agli scrittori del Caffè, con l’aborrito saluto: “noi non crediamo d’aver bisogno dei letterati e potiamo far loro de’ brutti scherzi. Fate giudizio. Schiavo, scrittori del Caffè” (t. I, foglio XXXI; ivi, p. 354).

30 Il Teatro Patriottico, a cura di Cesare De Michelis, Padova, Marsilio, 1966, p. 61; anche altrove, nella stessa commedia, si sostiene la necessità di una “democratizzazione” linguistica, come ad esempio a proposito delle affettate formule di cortesia usuali nelle sovrascritte delle lettere: “Io sono il cittadino Costanti; ma questa lettera non viene a me. Osservi: “All’Illustrissimo”, io non ho fatto mai nulla di glorioso; “Signore”, sono stato sempre un pover uomo; “Padrone”, non ho mai avuto un servitore; “Colendissimo”, non sono mai stato corteggiato, perché ho avuto sempre una lingua che ha dato a tutti il suo; ond’ella vede evidentemente che questa lettera non viene a me” (ivi, p. 65).

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Pogliani [1797]), dove si descrivono le “maniere sociali del repubblicano” e si fissano le formule di saluto appropriate ai tempi nuovi – salute, viva la libertà, a rivederci liberi –, formule da proferire senza inchini e con reciproca civile schiettezza:

Il falso cittadino fa l’opposto. Vuol cedere il luogo all’altro o lo vuole; fa inchini, si cava il cappello, e dice: “Come sta lei?… Ho piacere della sua salute… Posso ubbidirla?… Mi comandi… Schiavo suo…” e tiene sempre il cappello nella sinistra e la destra distesa, curvando la spina del dorso e mandando la testa avanti e indietro, seguitando a dire: “Bramo l’onore de’ suoi comandi”, con cento altri errori grammaticali e cerimonie e mimiche servili, né cessa mai di pronunziare gli adiettivi: umilissimo servo, obbligatissimo, reverentissimo, mille grazie e simili espressioni schiave. S’avverta che con tutte queste parole inciviche non dice mai l’aristocratico la verità; ed è perciò due cose a un tempo: vile, cioè, e bugiardo31.

Tuttavia la sorte di schiavo era allora assai più compromessa di quella delle analoghe

“espressioni schiave”, e non solo come formula di saluto. La parola, infatti, se all’origine non si discostava molto dalla semantica di servo, con l’estendersi in epoca moderna della deplorevole e indegna piaga della schiavitù e dell’eco che essa aveva avuto nel dibattito illuminista sui diritti naturali dell’uomo, venne assumendo poco a poco una connotazione fortemente svalutativa che la staccò in modo netto dal suo quasi sinonimo, come non molto tempo dopo certificherà Tommaseo nel Dizionario del sinonimi (1838): “Il servo è avvilito; lo schiavo è bruto. C’è delle servitù di convenienza o pattuite; la schiavitù, sempre illegittima, turpe, forzata”32. La connotazione negativa finì per riverberarsi anche sui precedenti usi metaforici della parola, che ora, fra Sette e Ottocento, sembrano farsi più radi; in particolare ne soffoca definitivamente gli impieghi come formula epistolare e di saluto. Adesso, se si parlerà di schiavo e di schiavitù (o schiavitudine) – l’astratto viene creato non a caso solo nel secolo XVII – lo si farà per indicare una condizione infelice e avvilente da cui occorre affrancarsi. E prendono corpo nuovi sintagmi, come popolo schiavo (Vico, A. Verri, Alfieri), gente schiava (Berchet), ridurre schiavo (o in schiavitù) (Goldoni, Alfieri, Casti), abolizione della schiavitù (“Il Conciliatore”), che ci fanno intuire le idee che son confluite dietro alla parola e la nuova strada che essa ha ormai imboccato. Verrà proprio da questa “crisi” semantica, riscontrabile nell’uso politico-letterario, la spinta che, nel dialetto cittadino delle classi medio-alte come meglio vedremo, favorirà la metamorfosi di schiavo in ciao, motivata dalla necessità di cambiare i connotati al significante, mantenendo così in circolazione un’espressione di saluto largamente accettata, ma nello stesso tempo sviando o rendendo difficile ogni eventuale residuo riconoscimento di un significato ormai troppo imbarazzante.

*

Finora abbiamo passato in rassegna solo esempi letterari: la formula nasce verosimilmente in ambienti cortigiani come espressione d’ossequio, si diffonde in vari strati della società rinascimentale anche in forma ellittica e con la funzione di semplice saluto; e poi è possibile seguirne la parabola discendente, fino alla sua uscita di scena, ancora attraverso esempi scritti e testimonianze di persone colte. Ma già da alcuni di quegli esempi si intuisce che riverire o salutare qualcuno con schiavo vostro non doveva esser rimasta a lungo un’esclusiva delle classi più elevate: le battute dei personaggi della commedia ci dicono che l’usanza era stata largamente 31 Cit. da Giacobini italiani, vol. II, a cura di Delio Cantimori e Renzo De Felice, Bari, Laterza, 1964, p.

179. Sulla mutata sensibilità nei riguardi della cerimonia dei saluti, vedi anche il relativo capitolo del Nuovo Galateo di MELCHIORRE GIOJA (Milano, Pirrotta, 1801).

32 N. TOMMASEO, Nuovo dizionario dei sinonimi, Firenze, Vieusseux, 1838, p. 903.

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accolta anche in ambito popolare, e non solo per scherno. Anzi, mentre si nota che fra i letterati la formula perde terreno e nel corso del Settecento acquista una sfumatura sempre più negativa, si ha l’impressione, dai pochi elementi di cui purtroppo si può disporre, che nell’uso più basso essa abbia mantenuto a lungo il suo originario tono di riguardo.

Diffusione al di fuori della primitiva cerchia cortigiana e uso popolare vuol dire anche interferenza calata nel dialetto: difatti l’italianismo colto, sia come formula d’ossequio che come semplice saluto, penetra a macchia d’olio nelle parlate di vaste aree della penisola, nonostante tale processo non sia facile da precisare nei suoi contorni e nelle sue modalità. Quel poco che si ricava dalla scarna documentazione ci fa intravedere una realtà variegata, nella quale, per ciò che riguarda il lato formale, talora prevalgono tendenze assimilatrici fino a far coincidere il significante dell’interferenza con la forma localmente corrispondente a schiavo ‘servo’, quasi si trattasse di un “prestito camuffato”; più spesso però si inclina a mantenere la forma non adattata, o ad adattarla solo in parte, così da distinguere la novità dalla voce che con altra funzione era già presente nel dialetto.

Tale penetrazione non interessa solo i dialetti settentrionali, ma è un fatto tendenzialmente panitaliano. Risulta ormai ben indagato il caso di Goldoni, che nelle commedie in dialetto e in lingua ricorre largamente a schiavo e schiao per quasi tutti i ruoli e tutte le situazioni: come saluto d’incontro e di commiato; come esclamazione conclusiva col senso di ‘basta’: “Quatro risi, un per de piatti, e schiavo”; come parola usata ora in modo isolato, ora all’interno delle solite espressioni d’ossequio33. Ma oltre a Venezia, dove l’interiezione compare anche nelle commedie di Carlo Gozzi, si va dalla Lombardia di Carlo Maria Maggi e Carlo Porta, alla Roma di Gioacchino Belli, alla Napoli di Gian Battista Basile e Pietro Trinchera34. Fino alla Sicilia, dove saranno proprio i due vocabolari settecenteschi del dialetto i primi a conferirle dignità lessicografica: “Scavu schiavo mancipium, captivus, servus […] Scavu patruni, o Vi sugnu scavu, maniera di salutare. V. Patrùni”, si legge nel De Bono (e si ripete nel Pasqualino); e

33 Vedi qui sopra la nota 25 e cfr. GIANFRANCO FOLENA, Vocabolario del veneziano di Carlo Goldoni,

Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1993, s. v. schiavo/schiao. 34 L’esempio di C. M. MAGGI (Il teatro milanese, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1964, p. 244)

segnalato da TUTTLE, in M. ALINEI, Il problema della datazione cit., p. 42, si riferisce a una formula di sottoscrizione epistolare: “Vost umelissem s’ciævv”. Più interessante l’uso che ne farà Porta, sul quale aveva già richiamato l’attenzione SPITZER (Zur romanischen Syntax cit., p. 702n): si tratta di una dozzina di occorrenze, nella maggior parte delle quali s’ciavo ha valore di esclamazione conclusiva, corrispondente a ‘basta’: “S’ciavo, pascienza per i pover mort!” (C. PORTA, Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1975, p. 182, v. 417); ma non mancano casi in cui si presenta con la sua piena funzione di saluto: “Si l’è vera, la me cura | sul repian quand vegni a cà, | e di voeult anch la procura | de tegnimm lì a cicciarà. || Ma l’è inutel, già, stoo su | che i vesin tel poden dì. | S’ciavo… allegher, tutt al pù | la saludi e tendi a mi” (ivi, p. 16, vv. 45-52). Anche nei sonetti del Belli la voce compare tre volte, impiegata sia come saluto (“Mo vve so’ schiavo, ve caccio er cappello”, son. 738, v. 3), che in funzione conclusiva (“Dunque, schiavo: se pijjno, e bbon giorno”, son. 1215, v. 11). Per Napoli, oltre alla formula d’ossequio che figura ne Lo cunto de li cunti di Gian Battista Basile (“Lo segnore Cagliuso, schiavo de Vostra Autezza […] ve manna sto pesce”), l’interiezione si affaccia ripetutamente ne La moneca fauza (1726) di Pietro Trinchera, la cui dedica si chiude già con uno “Schiavo tuio”: “MASILLO […] Te so’ schiavo, provvidete pe sto vierno. | PERNA Vattenne tradetore!”, “DESPERATO Lo zuco d’uva me sazia cchiù de lo pane. | LOLLO Fanne chello che buoie. Covèrnate. | DESPERATO Te so’ schiavo. Obrecato” “DESPERATO Si’ Perna, trasitevenne, ca mo vene la moneca. | PERNA Schiava, mo fancella na bona manteiata. | DESPERATO È piso mio. Schiavo vostro” (esempi tratti da Il teatro italiano. IV. La commedia del Settecento cit., vol. I, risp. pp. 325, 355, 357). Ulteriori spogli di testi dialettali potrebbero facilmente allargare questo magro campionario.

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alla voce patrùni: “[…] Scavu me patruni, maniera di salutare, presa dagli antichi Romani. Schiavo padron mio, salve mi domine”35.

Il radicamento di schiavo con valore interiettivo nelle parlate locali, soprattutto in quelle del Nord, fu inoltre un fenomeno tutt’altro che superficiale, come si può dedurre non solo dai lessici dialettali piemontesi, lombardi, emiliani e veneti, ma anche da un’autorevole testimonianza degli anni settanta dell’Ottocento, quella di Tommaseo che nel suo dizionario registra un uso còlto evidentemente sulle labbra dei tanti settentrionali, per lo più piemontesi, che fra il 1865 e il 1870 popolarono Firenze capitale: “Vi sono schiavo, forma che non era toscana; ma adesso lo schiavo, in forma di saluto, sentesi da taluni anche qui. Tristo augurio di rifacimento”36. I vocabolari ottocenteschi, tuttavia, ci mostrano che anche nei dialetti la situazione si era fatta problematica: da una parte, in modo forse parallelo a ciò che avveniva nella lingua, l’italianismo schiavo stava retrocedendo come saluto anche nella conversazione popolare, o era relegato a usi e registri particolari, magari con una connotazione di maggior formalità; dall’altra si affacciava alla ribalta il nuovo e più “democraticamente” neutro ciao, qua soppiantando la vecchia formula, là affiancandola o costringendola a differenziarsi37.

Non volendo abusare della pazienza di chi legge, invece di mettermi qui a dipanare questa arruffatissima matassa dialettale, mi soffermerò solo sull’origine di ciao, ovvero sul processo della sua derivazione da schiavo. Se la motivazione del fenomeno dipende, come s’è visto, dal reale scadimento semantico di quest’ultima parola e dall’ostracismo ideologico verso una formula di saluto a torto ritenuta servile, sul piano strettamente storico e formale si tratterebbe, secondo la vulgata, di una trasformazione avvenuta a Venezia donde si sarebbe poi diffusa38. Diversi sono gli argomenti che sono stati addotti a sostegno di questa ipotesi: la densità

35 MICHELE DE BONO, Dizionario siciliano italiano latino, Palermo, Gramignani, 1754; cfr. anche MICHELE

PASQUALINO, Vocabolario siciliano, Palermo, Dalla Reale Stamperia, 1786, alle voci scavu e patruni. 36 TB, voce schiavo e † stiavo, § V, che continua con un’osservazione relativa all’uso della parola come

formula conclusiva: “Men male quando, per una specie d’ironia, esclamasi e qui e altrove: E schiavo, intendendo E vo’ che finisca così. – Per non contendere, gli do quel ch’egli pretende: e schiavo. Come dire: La mia servitù comincia e finisce lì”. È curioso notare che nello stesso lemma, schedato da altri poco più su al § 4, faceva bella mostra proprio un vecchio esempio toscano di schiavo nel senso di ‘addio’ (vedi n. 26).

37 Si veda a questo proposito l’esplicita testimonianza di ANGELO PERI (Vocabolario cremonese italiano, Cremona, Feraboli, 1847), che pure registra ciào come saluto, ricavabile dal doppio lemma s’ciào: “Mi ricordo di aver udito nella mia prima età taluno salutando dire s’ciào suo, cioè schiavo suo, in vece del Servo suo che usasi attualmente”; “Usasi anche adesso questa parola [s’ciao] per dire Son contento, Facciamola finita […]”.

38 Mentre gli studi e i vocabolari più recenti propendono tutti per la derivazione veneziana (cfr., sopra, n. 13), in passato non erano mancate ipotesi diverse o più dubitative: il Vocabolario dell’Accademia d’Italia (1941) parla chiaramente di derivazione lombarda (cfr. n. 73); ANGELICO PRATI, che già in un saggio del 1936 aveva insinuato un’incertezza sull’origine (vedi n. 74), resta oscillante nel Vocabolario etimologico italiano (Milano, Garzanti, 1951): “È un saluto che dal Veneto o da Milano è penetrato sino a Roma, dove non è rado (1925)” (ma cfr. ID., Etimologie venete, a cura di G. Folena, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale, 1968: “Dal venez. s’ciao!”); invece CARLO BATTISTI - GIOVANNI ALESSIO, Dizionario etimologico italiano (Firenze, Barbèra, 1950-1957) sembrano escludere la matrice veneta: “lomb. ciao, piem. cia(v)u […] da anteriore sc’ia(v)o ‘schiavo’”; OTTAVIO LURATI, Dialetto e italiano regionale nella Svizzera italiana (Lugano, Banca Solari & Blum, 1976, p. 68) indica per il Ticino il tramite milanese; infine P. ZOLLI (Le parole dialettali [1986] cit., p. 74) sostiene che la provenienza veneta: “lascia adito a qualche dubbio […]. La formula di saluto ciao si è diffusa in italiano solo nel Novecento, ma era conosciuta fin dall’inizio del secolo precedente in tutta l’Italia del Nord […]. L’origine veneta (o addirittura veneziana) sarebbe accertabile col fatto che solo nel Veneto era già in uso nel Settecento, e come saluto reverenziale (“schiavo”, cioè “servo suo”)”.

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semantica della parola nel veneziano, documentata a sufficienza già dai numerosi esempi di Goldoni; la natura dei fenomeni fonetici intervenuti: caduta della v intervocalica e mantenimento della vocale finale, distacco dell’iniziale s- reinterpretata come fosse un prefisso; le testimonianze dirette, come quella di Jacopo Pirona che nel Vocabolario friulano (1871) scrive: “Sçhào = Servitor vostro: Maniera servile di saluto tolta dai Veneti; se fosse indigena friulana, si direbbe: Sclâv o Fàmul”39.

Ora nessuna di queste ragioni, a ben guardare, è davvero decisiva per attribuire a ciao una paternità veneziana. Il Pirona, ad esempio, non parla di ciao ma di sçhào (pronunciato [sčào], come il veneziano schiao o s’ciao), risalito nel friulano in compagnia di molti altri venetismi. La “densità semantica”, ovvero la presenza in una lingua di più significati per una data parola che poi viene mutuata altrove in una sola delle sue accezioni, la si può ritrovare pressappoco uguale anche fuori dei dominî della Serenissima40. Se infine si passa alla fonetica, la reinterpretazione della consonante iniziale come un elemento prefissoidale sopprimibile poteva esser avvenuta non solo nel veneziano o nel pavano, ma anche in altri dialetti, dove non mancano serie di coppie, alle quali anche s-ciao ~ ciao si sarebbe potuto accodare, in cui il prefisso s- di valore intensivo o espressivo può andare o venire senza incider troppo sulla semantica41. Più serio è l’argomento

39 J. PIRONA, Vocabolario friulano, pubbl. per cura di Giulio Andrea Pirona, Venezia, Antonelli, 1871. Su

l’uno o l’altro di tali argomenti si son soffermati i diversi studiosi che si sono occupati di ciao; ma vedi specialmente gli interventi di GIACOMELLI e TUTTLE, in M. ALINEI, Il problema della datazione cit., pp. 29-30 e 42-44.

40 Il concetto di “densità semantica” è stato proposto nel 1965 da Alinei come criterio per individuare l’area di radicamento di una parola e la sua provenienza come prestito interlinguistico o interdialettale: “un grado maggiore di DS [densità semantica] in una certa area può servire a indicare che la parola è “indigena” o quantomeno che in quell’area la parola è più profondamente radicata che altrove” (cfr. M. ALINEI, Il concetto di “densità semantica” in geografia linguistica [1967] e La “densità semantica” di alcune parole romanze connesse con la “ruota” [1974], in ID., Lingua e dialetti: struttura, storia e geografia cit., pp. 257-267, 269-289, a p. 269). Si tratta di un concetto speculare a quello ben noto della “restrizione del significato” proprio della teoria del prestito linguistico: “Una parola straniera […] non viene adottata nel suo complesso, come se fosse presa dalle pagine di un vocabolario, ma unicamente in quanto portatrice di un preciso significato “tecnico”; le altre accezioni rimangono sconosciute nella lingua ricevente sebbene alcune di esse possano essere importate in un secondo tempo” (I. KLAJN, Influssi inglesi nella lingua italiana, Firenze, Olschki, 1972, p. 104). Nel nostro caso, tuttavia, più che di “densità semantica”, parlerei semmai di densità di frequenza del termine schiavo, nelle sue varie accezioni, a Venezia e all’interno del teatro goldoniano (vedi sopra nn. 27 e 33): i fondamentali valori semantici di tali occorrenze corrispondono, come si è visto, a quelli già presenti nel toscano e, al di là della scarna documentazione, in diversi altri dialetti (cfr. n. 34).

41 L’argomento è stato messo a fuoco da TUTTLE (in M. ALINEI, Il problema della datazione cit., p. 43: “the vaguely pejorative, prefixoidal s- is more an optional, detachable increment in the Veneto than elsewhere [...]; thus a reduced variant cia(v)o for s’cia(v)o seems more explicable here than elsewhere”), forte delle sue accurate e persuasive indagini sul prefisso s- del pavano (E. F. TUTTLE, “Snaturalitè” e la s- iniziale pavana: qualche considerazione storica e stilistica, in “Studi mediolatini e volgari”, XXVIII, 1981, pp. 103-118). Ma il prefisso s- con semplice valore rafforzativo (invece che negativo o privativo), se anticamente è stata una particolarità innanzitutto veneta e poi settentrionale, pur in proporzioni diverse, era e divenne sempre più vitale in epoca moderna anche in toscano, dove fra l’altro serve a dar vita a doppioni più espressivi o ad aggiungere minime sfumature di significato e particolarità d’uso (baciucchiare ~ sbaciucchiare, battere ~ sbattere, cancellare ~ scancellare, chiarire ~ schiarire, corbellare ~ scorbellare, fendere ~ sfendere, frego ~ sfrego, ghiribizzo ~ sghiribizzo, graffio ~ sgraffio, moccolare ~ smoccolare, pettegolare ~ spettegolare, ecc.: cfr. GIACOMO DEVOTO, Il prefisso s in italiano [1939], in ID., Scritti minori. III, Firenze, Le Monnier, 1972, pp. 30-35); analogamente a quanto succede negli altri dialetti: per il milanese (dal vocabolario del Cherubini) vedi le coppie bacioccà ~ sbacioccà ‘tentennare’, bagascià ~ sbagascià ‘sbevazzare’, banfà ~ sbanfà ‘ansare’, barloggià ~ sbarloggià

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della vocale finale: infatti da SCLAVUS solo nel Veneto si ha sča(v)o, mentre negli altri dialetti settentrionali ci saremmo dovuti aspettare forme apocopate del tipo sčav, come in realtà avviene. Ma a questo proposito non va dimenticato che nel nostro caso specifico non ci troviamo di fronte a una parola dialettale di tradizione “popolare”, ma a un prestito moderno dall’italiano delle persone più distinte, un prestito che veicolando una funzione nuova, aveva buone ragioni per differenziarsi nella forma dalla corrispondente vecchia voce locale. Così, pressoché in tutti i dialetti settentrionali, la parola ha subìto solo un adattamento parziale al sistema fonetico locale: in particolare ha mantenuto sempre, o quasi sempre, quel tratto che meglio la qualificava come italianismo: la vocale finale. Gli esempi son abbastanza chiari; e chiari i lessici dialettali, che di norma registrano la voce locale apocopata per il sostantivo o l’aggettivo col valore di ‘servo’ e, come lemma a parte, l’interiezione “finita”42.

Contro la paternità veneta di ciao militano inoltre evidenti dati storici e alcuni elementi di fatto: nella prima metà dell’Ottocento Venezia è una città in declino, priva ormai di quell’attrattiva che di solito caratterizza un centro capace di irradiare mode e novità linguistiche. Perfino sul piano cronistorico più minuto delle attestazioni e della loro datazione, non si può tacere che mentre sono numerosi, come vedremo più avanti, gli scriventi lombardi che usano ciao, la sua comparsa nel veneziano è piuttosto tarda: anche se si potrebbe supporre che la parola fosse già presente nell’uso orale, sta di fatto che manca alle due edizioni del dizionario del

‘occhiare’, batt ~ sbatt, bauscént ~ sbauscént ‘bavoso’, bigiador ~ sbiggiador ‘chi fa forca’, bolgirà ~ sbolgirà ‘danneggiare’, fadigà ~ sfadigà, frantòja ~ sfrantòja ‘gramola’, fratàzz ~ sfratàzz ‘spianatoia’, frìs ~ sfrìs ‘frego’, gattonà ~ sgattonà ‘svicolare’, gavascià ~ sgavascià ‘gavazzare’, lòzza ~ slòzza ‘pattume’, lùscia ~ slùscia ‘acquazzone’, ecc. Va inoltre osservato che la questione non è circoscritta solo alla formale cancellazione dello pseudoprefisso, che in fondo sarebbe potuta avvenire in un dialetto qualsiasi, ma coinvolge anche altri aspetti che portano a restringere il cerchio: nel veneziano sča(v)o significava sia ‘servo’ che ‘addio’; in milanese e in piemontese (vedi n. 42) eran presenti due forme distinte, sča(v)o ‘addio’ e sčav ‘servo’: la reinterpretazione del saluto come fosse un derivato col prefisso s- è più facile che sia avvenuta dove le due parole erano formalmente distinte, cosicché la riduzione dell’una poteva avvenire indipendentemente dalle sorti dell’altra. E dove l’esito della riduzione sča(v)o > ča(v)o non andava a collidere con parole preesistenti: in diverse varietà rustiche del Veneto era in uso la voce ča(v)o < lat. CLAVEM ‘chiave’ (G. A. DALLA ZONCA, Vocabolario dignanese cit.: ciàvo; VITTORE RICCI, Vocabolario trentino-italiano, Trento, Zippel, 1904: ciào; ecc.), voce alla quale in Piemonte e in Lombardia corrispondeva invece la forma čav. Per pura curiosità segnalo che la tendenza alla deformazione grafico-fonetica o all’accorciamento, che è propria di molte interiezioni, ha recentemente interessato ancora una volta la nostra parola: nel gergo giovanile, infatti, ciao è stato amputato graficamente della prima lettera (forse in conseguenza di una pronuncia affettata o meridionale della parola, tendente a far riemergere la i come semiconsonante) ed è diventato iao, dando luogo tuttavia una sequenza fonica poco comune (cfr. LORENZO COVERI, ’Iao paninaro, in “Italiano e oltre”, 1988, 3, pp. 107-111; GIANFRANCO LOTTI, Le parole della gente. Dizionario dell’italiano gergale, Milano, Mondadori, 1992): comunque sembra trattarsi solo di una moda e probabilmente passeggera.

42 A parte il friulano sclâv ‘schiavo’ testimoniato dal Pirona (cfr. n. 39), in Piemonte e in Lombardia si ha s’ciav ‘schiavo’, accanto a s’cia(v)o e cià(v)o ‘addio’ (e a ciàv ‘chiave’ di diversa origine): cfr. VITTORIO DI SANT’ALBINO, Grande dizionario piemontese-italiano, Torino, Società l’Unione Tipografico-editrice, 1859; FRANCESCO CHERUBINI, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Dall’Imp. Regia Stamperia, 1839-1843. La situazione piemontese era già stata tratteggiata abbastanza bene da ATTILIO LEVI (Le palatali piemontesi, Torino, Bocca, 1918, p. 16): “Come a Milano e Parma, [in Piemonte sċav] esiste pure nella doppia forma di sċavu e ċavu, che, dato il permanere dell’uscita vocalica, è toscanesimo o ligurismo, ed ha diverso valore: sċavu preceduto da e s’adopera quale formula conclusiva del discorso famigliare […]; ċavu (var. ċau) è il saluto dell’intimità, ed ha perduto l’s iniziale probabilmente perché i parlanti vi sentirono il pref. s (<ex), mentre l’ha consevato sċavu, perché s’usa in frase fatta, in cui è protetto dall’ e precedente”.

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Boerio (1829, 1856) e sarà registrata solo nel 1890, nelle Giunte di Alessandro Pericle Ninni43. Infine va osservato che il Veneto sembra costituire, per ciò che riguarda il sistema delle nostre formule di saluto, un’area generalmente conservativa: già dai dati dell’AIS (IV, c. 738), gli unici punti del Settentrione in cui, al posto di ciao, risulta ancora vitale la forma sčao ‘buon giorno!’, si trovano nelle provincie di Venezia (385, Cavarzere), Treviso (364, Tarzo) e Trento (341, Tiarno di Sotto); e tale vitalità di sčao unita a una sorta di refrattarietà nei confronti di ciao in certe zone del Veneto è confermata anche dai lessici dialettali44.

A questo punto, a stare agli elementi che finora conosciamo, l’ipotesi più probabile è che l’innovativo ciao si sia propagato dalla Milano della Repubblica Cisalpina e del Regno napoleonico, prima nei territori di cui era la capitale e successivamente in Piemonte e in Veneto.

Per Milano, infatti, possiamo documentare, quasi tappa dopo tappa, tutta la fase evolutiva della parola. Sia sul piano più generale del mutamento delle idee e dei costumi: dallo schiavo come maniera di salutare su cui ironizza Alessandro Verri, alla sua estromissione, a favore di una più democratica franchezza, raccomandata da Bocalosi. Sia su quello formale dell’evoluzione fonetica: dal popolare e tradizionale s’ciavo che compare ripetutamente nelle poesie dialettali di Porta come saluto e come esclamazione conclusiva, all’emergere del nuovo significante nell’uso familiare – anche italiano – di persone distinte come risulta nel 1829 dalle lettere di Tommaso Grossi e poi di altri, alla assai precoce registrazione lessicografica, prima di ciavo (1814), poi di ciao (1839) nel Vocabolario milanese-italiano del Cherubini45. 43 A. P. NINNI, Giunte e correzioni al Dizionario del dialetto veneziano [del Boerio], serie III, Venezia,

Tipografia Longhi e Montanari, 1890: “ciao – Saluto che è una sincope della antica parola schiavo. Goldoni usò ‘Schiao’”.

44 Mentre è comprensibile che nei vocabolari veneti di fine Ottocento si continui a registrare il saluto s’ciao e ancora s’ignori ciao (cfr., ad esempio, GIULIO NAZARI, Dizionario veneziano-italiano, Belluno, Tissi, 1871 [“scciao, ti saluto, buon giorno”]; ID., Dizionario bellunese-italiano, Oderzo, Bianchi, 1884; LUIGI PAJELLO, Dizionario vicentino-italiano, Vicenza, Brunello e Pastorio, 1896), stupisce l’assenza della nuova forma in opere più recenti (cfr. GIUSEPPE PICCIO, Dizionario veneziano-italiano, Venezia, Libr. Emiliana Editrice, 1928²; B. MIGLIORINI - G. B. PELLEGRINI, Dizionario del feltrino rustico, Padova, Liviana, 1971; GIOVANNI TOMASI, Dizionario del dialetto di Revine, Belluno, Ist. di ricerche sociali e culturali, 1983; ecc.): evidentemente la parola, magari conosciuta nell’italiano regionale, ha avuto difficoltà a penetrare nei dialetti locali, dov’era ben saldo sčao (e in certe varietà era presente anche l’omofono čao ‘chiave’: cfr. n. 41). In alcune delle parlate venete in cui è stato accolto, il neologismo ha assunto una sfumatura di particolare distinzione, come non di rado capita con i prestiti che vengon da fuori: “L’uso di ciao! per “addio!”, cioè con persona di confidenza, deve essere recente. Le persone vecchie e attempate, e tra i giovani chi parla più schietto, lo usano nel primo significato [‘la riverisco’], cioè con persone di riguardo” (1960, A. PRATI, Dizionario valsuganotto, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale; ma già in ID., I Valsuganotti, Torino, Chiantore, 1923, p. 162); “s-ciào e ciào […] sempre a persone che si tratti col tu; solo i vecchi di montagna anche a persone di riguardo: ciào, siór Chéchi” (1955, EMILIO ZANETTE, Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, Vittorio Veneto, De Bastiani, 1980²); “È voce importata da Trento o direttamente da Padova ad opera di studenti trentini. - Certi contadini salutano con ciao! anche le persone di riguardo. E, a rigore, hanno ragione, poiché ciao vuol dire schiavo e corrisponde al saluto servo suo!” (1964, ENRICO QUARESIMA, Vocabolario anaunico e solandro, Venezia-Roma, Istituto per la collaborazione culturale). A conferma della nostra ipotesi, va osservato che le zone che hanno subito accolto ciao sono state quelle più esposte a influenze occidentali: cfr. G. L. PATUZZI - G. e A. BOLOGNINI, Piccolo dizionario del dialetto moderno della città di Verona cit., 1900 [“lasciandosi, o incontrandosi senza fermarsi. Quando ci si ferma si dice meglio: Buongiorno, Buonasera”]; V. RICCI, Vocabolario trentino-italiano cit. 1904; PIO MAZZUCCHI, Dizionario polesano-italiano, Rovigo, Tip. Sociale Ed., 1907.

45 F. CHERUBINI, Vocabolario milanese-italiano, Milano, Dalla Stamperia Reale, 1814: “ciavo Addio. Salve. Dio ti salvi. Fatti con Dio. Ben possa stare. Ben stia il tale. Buon dì. Buon giorno. Buona sera. Ti saluto. Tu sia il ben venuto. La voce Ciavo pare corrotta da Schiavo; noi difatto diciamo anche Ciavo suo; cioè

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Ci sono, infine, le testimonianze dirette di forestieri, curiosamente colpiti dal nuovo saluto che colgono dalla viva voce degli abitanti della città lombarda. Nel 1818 una lettera del cortonese Francesco Benedetti ce ne mostra un incipiente uso confidenziale: “Qua ricevo gentilezze da ogni parte, e una signora particolarmente mostra, contro ogni mio merito, della propensione per me. Ella mi conduce in diverse conversazioni, al teatro della Scala, di cui non ho visto la cosa più magnifica, al corso […]. Questi buoni Milanesi cominciano a dirmi: Ciau Benedettin”46. Un’analoga segnalazione che, confermando la circolazione della parola fra le signore più raffinate, offre ragguagli sulla pronuncia e la sua connotazione, ci proviene dall’irlandese lady Sidney Morgan che viaggiò in Italia nel 1819-1820: “Ciavo (pronunced ‘Tchouw’, with the v vocalized or almost sunk) is the most familiar and condescending salutation of the Milanese”47. Più difficili da delineare, invece, le tappe dell’irraggiamento di ciao fuori da Milano. Se ci si affida ai lessici dialettali, che per ora sono quasi l’unica fonte che abbiamo, si può intanto stendere una provvisoria mappa cronotopica come la seguente:

1817, Brescia – ciao, prima registrazione lessicografica della parola in questa forma [nel 1839 essa comparirà anche nel Cherubini: vedi n. 45], ma solo come rimando alla voce s-ciao, dove si legge: “[…] La nostra voce s-ciao è corrotta da schiavo, quindi si dice schiavo suo, servitor suo” (Giovan-Battista Melchiori, Vocabolario bresciano-italiano, Brescia, Franzoni).

1827, Parma – “ciàvo, o sciàvo. Addio, Salve, Ti saluto, Buon dì, Buona sera” (Ilario Peschieri, Dizionario parmigiano-italiano, Parma, Blanchon, vol. I).

1830, Torino – “ciavo, addio […]; ciavo suo, schiavo suo, servitor suo” (Michele Ponza, Vocabolario piemontese-italiano, Torino, Stamperia Reale).

1840, Faenza – “ciàvo, schiavo. Modo di salutare con molta confidenza […]” (Antonio Morri, Vocabolario romagnolo-italiano, Faenza, Conti all’Apollo).

schiavo suo, servitor suo”. Solo nel 1839, nel primo tomo della nuova edizione 1839-1856 del suo vocabolario, Cherubini registrerà per la prima volta la forma ridotta ciào, con rimando a ciàvo; e integrerà questa voce con la seguente aggiunta: “Ciavo obligato. V. Obligato. | Ciavo suo o Ciavo signori. Vi son servitore […] e vale È fritta, non ne facciam nulla, e simili. Senza nanch dì Ciavo can. V. in Càn”; nel tomo IV (1843), alla voce s’ciàvo ‘addio’ si rimanda ancora a ciàvo e si aggiungono le espressioni conclusive e s’ciavo, e s’ciavo sciori, e s’ciavo suo, e s’ciavo suria. Per gli esempi popolari del Porta, vedi n. 34; per quelli epistolari del Grossi, n. 50.

46 Il tragediografo cortonese Francesco Benedetti era a Milano per visitare Trivulzio e Monti; l’esempio, che costituisce la prima attestazione non lessicografica della parola, è tratto da una lettera del 12 luglio 1818 agli amici Rossi e Zucchini, che è riportata da SILVIO MARIONI, Francesco Benedetti (1785-1821), Arezzo, Sinatti, 1897, p. 214; cfr. anche Epistolario di Vincenzo Monti, raccolto e annotato da Alfonso Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1928-1931, V. (1818-1823), pp. 82-83.

47 SIDNEY MORGAN, Italy (Londra, H. Colburn and Co., 1821, p. 97), cit. da GABRIELLA CARTAGO, Ricordi d’italiano. Osservazioni intorno alla lingua e italianismi nelle relazioni di viaggio degli inglesi in Italia, Bassano del Grappa, Ghedina & Tassotti, 1990, pp. 82 e 123. Non ho potuto controllare il testo inglese, ma la traduzione francese (L’Italie par Lady MORGAN, Parigi, Dufart, 1821, I, pp. 210-211): un “cordial ciavo” viene riferito come un saluto che ci si scambierebbe fra signore nei palchi della Scala; alla parola in corsivo è fatta seguire una nota a piè di pagina, dove se ne illustra la pronuncia (invece del tchouw dell’originale, nel testo francese si corregge in tchaou, che conferma la pronuncia udita dal Benedetti: cfr. n. 46), e se ne riporta per intero il relativo lemma, accompagnato da traduzione, del Vocabolario milanese del Cherubini (1814). Va osservato che questo è l’unico punto della sua suggestiva e nitida descrizione dell’Italia, in cui la Morgan parla del saluto, nonostante avesse viaggiato in gran parte della penisola e avesse soggiornato anche a Venezia.

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1847, Cremona – “ciào. È saluto confidenziale fra amici, comeché sia una corruzione da schiavo […]” (Angelo Peri, Vocabolario cremonese italiano cit.).

1855, Piacenza – ciàô, con rimando a “s’ciàô. Addio, A Dio, Salve” (Lorenzo Foresti, Vocabolario piacentino-italiano, seconda ed., Piacenza, Solari).

1856, Como – “ciàvo, Addio, Schiavo, Salute. È modo di salutare” (Pietro Monti, Saggio di vocabolario della Gallia Cisalpina e celtico e Appendice al Vocabolario dei dialetti della città e diocesi di Como, Milano, Soc. tip. de’ Classici Italiani).

1859, Torino – “ciao o s’ciao. Maniera di salutare incontrandosi o licenziandosi, equivalente a ti sono schiavo […]”; “ciavo suo. Maniera di saluto. V. ciao e anche alegher” (Vittorio di Sant’Albino, Grande dizionario piemontese-italiano cit.); tuttavia nel parlato piemontese, secondo una testimonianza di Massimo D’Azeglio, doveva esser già in uso da qualche decennio la forma ciau48.

1873, Bergamo – “ciao, sčiao. Schiavo, Addio, Ti saluto. Modo di salutare altrui con molta confidenza […]” (Antonio Tiraboschi, Vocabolario dei dialetti bergamaschi, II ed., Bergamo, Bolis).

1879, Pavia – “ciao – Questa voce non ha una corrispondente in italiano. Significa saluto sia quando si separa da alcuno a cui si parli in seconda persona, sia quando si incontra. Nel primo caso equivale ad addio. Nel secondo significa caro” (Carlo Gambini, Vocabolario pavese-italiano, Milano, Agnelli).

1889, Ferrara – “ciào – Abbreviazione di schiavo – modo di salutare confidenziale - Addio” (Luigi Ferri, Vocabolario ferrarese-italiano, Ferrara, Tip. Sociale).

Comunque siano andate le cose nella realtà, è indubbio che la circolazione dialettale di

ciao prese le mosse da Milano e in pochi decenni si estese alla Lombardia e interessò il Piemonte e le altre province del Nord; tuttavia per più di un secolo non sembra esser riuscita a trovare un largo e capillare sbocco nelle parlate alla destra del Po, nonostante qualche episodio che, comparando le risultanze lessicografiche indicate qui sopra (Parma, Faenza, Piacenza) con i silenzi dell’AIS (cfr. la n. 7), è da ritenersi limitato al dialetto di alcuni dei centri sulla via Emilia più sensibili alle novità. E sarà forse proprio per tale suo tenace arroccamento iniziale sul terreno e sull’ambiente sociale d’origine, che il settentrionalismo ciao faticherà a farsi strada nella lingua della nuova Italia.

*

Se a questo punto, chiusa la pagina dialettale, prendiamo in considerazione le tante testimonianze dell’aggallare di ciao nella lingua comune, è necessario procedere a una loro preliminare valutazione per esser sicuri di aver fra le mani prove incontrovertibili. Un primo criterio di scelta comporta di tener conto dell’origine della persona alla quale è attribuito l’esempio e di individuarne le motivazioni. Difatti scrittori o scriventi in italiano che provengano da una regione settentrionale possono ricorrere alla novità in modo quasi inconsapevole, come a un saluto ormai abituale nella loro varietà di lingua; ma possono altresì impiegarla deliberatamente per fini espressivi, come un dialettalismo “riflesso” o un elemento locale di tono più intimo e familiare. In entrambi i casi si tratta di episodi quasi sempre significativi, ma che

48 Cfr. M. D’AZEGLIO, I miei ricordi [av. 1866], a cura di Massimo Legnani, Milano, Feltrinelli, 1963, p.

214: “CONTESSA Cerea mamina! General!… Abate!… Ciau Edouard!”; si tratta di una battuta di una conversazione, riprodotta in piemontese per mantenere il couleur locale, “d’una casa della vecchia nostra nobiltà, nel 1820” (p. 209); questa la traduzione in italiano inserita nella prima edizione dei Ricordi (Firenze, Barbèra, 1867): “Buon giorno, mamma! Generale! Abate!… Buon giorno Edoardo!”.

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non sono molto rilevanti, almeno fin quando il termine continua ad avere circolazione limitata, per documentarne un reale e profondo attecchimento nell’uso comune.

Così vanno giudicati gli esempi tratti da Demetrio Pianelli (1890) di Emilio De Marchi e da Piccolo mondo antico (1895) di Antonio Fogazzaro, interessanti tuttavia perché sono fra le prime occorrenze dell’interiezione in opere letterarie di un certo successo49. Un’analoga scarsa rilevanza possiedono le attestazioni in altri autori nati in Alta Italia, ovvero, per lasciare la lingua letteraria, il “Ciao!” che nel 1896 campeggia come testata di un giornale locale umoristico-culturale di La Spezia (che nel 1907 si chiamerà “Il Ciao”). O, per passare a un genere che rivela con una certa immediatezza l’uso informale, l’impiego della parola come confidenziale formula conclusiva nella corrispondenza di settentrionali: ricordo, fra i tanti casi, le due lettere del 1829 e del 1830 di Tommaso Grossi a Luigi Rossari50, quella del Re Vittorio Emanuele a Massimo D’Azeglio del 185151; quelle dei lombardi Giuseppe Mussi (dal 1870), Andrea Ghinosi (dal 1875), Achille Bizzoni (dal 1876), Felice Cameroni (dal 1888) a Cavallotti52; quelle del piemontese Luigi Roux (dal 1891) a Giolitti53; quella del bresciano Francesco Bonatelli (del 1893) al nipote54. Si tratta di episodi che rientrano nella forte tendenza ad aprirsi al lessico locale che caratterizza l’italiano specialmente nei primi decenni dopo l’Unità, anche se lo slancio che ebbero allora parlanti e scriventi verso i propri dialettalismi il più delle volte non riuscì a farli immediatamente travalicare i confini locali o le varietà regionali: le strade che essi percorsero per giungere al traguardo della lingua comune furono spesso più tortuose e accidentate di quanto oggi possa sembrare osservando la situazione dall’attuale punto d’arrivo55. Ma la conferma più chiara che la parola, pur emergendo nell’italiano di scriventi del Nord, restava ancora circoscritta alla sua originaria area dialettale, ce la danno proprio i centro-

49 Gli esempi sono segnalati da L. SERIANNI, Grammatica italiana cit., X, 43. Altre occorrenze fogazzariane,

anche da Malombra (1881), sono reperibili attraverso la LIZ, ma il dialettalismo vi rappresenta sempre un tratto di color locale.

50 Il saluto o, meglio, la formula conclusiva “e ciao” compare nella chiusa di due missive da Treviglio all’amico Rossari (vedi T. GROSSI, Carteggio 1816-1853, a cura di Aurelio Sargenti, Milano, Centro nazionale di studi manzoniani-Insubria University Press, 2005, vol. I, p. 413 [“I saluti alle gentilissime nominate, al Piero, ed a Zani, e ciao”: 17 maggio 1829], e 442 [“Salutami i tuoi di casa e ciao”: 23 maggio 1830]); ma il dialettalismo non ritorna nelle altre lettere del carteggio, come del resto non sembra esser stato accolto nell’uso epistolare dalla cerchia portiana, almeno da quanto risulta da Le lettere di Carlo Porta e degli amici della Cameretta, a cura di D. Isella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1989².

51 Segnalata da M. CORTELAZZO, Quando un Re scriveva: “ciao!”, in ID., Memoria di parole. Dialetto tra vita e letteratura, Ravenna, Longo, 1982, p. 53.

52 Cfr. nel volume L’Italia radicale. Carteggi di Felice Cavallotti: 1867-1898, a cura di Liliana Dalle Nogare e Stefano Merli, Milano, Feltrinelli, 1959, risp. pp. 260, 262, 264, ecc.; 160, 161; 41, 42, 43, ecc.; 93, 94. Da parte sua, il letterato e radicale milanese inizierà a usare ciao come formula epistolare di congedo dal 1872: vedi FELICE CAVALLOTTI, Lettere 1860-1898, introduzione e cura di Cristina Vernizzi, ivi, 1979, pp. 99 (lettera a Achille Bizzoni, 1872), 107 (ad Antonio Oliva, 1873), 111 (a Paride Suzzara-Verdi, 1873), 117 e 119 (a Giosuè Carducci, 1875 e 1876), 119 (a Emilio Praga, 1875), 125 (a Luigi Fontana 1876), 130 (a Ferdinando Martini, 1877), 143 (a Jacopo Comin, 1879), ecc.

53 GIOVANNI GIOLITTI, Quarant’anni di politica italiana. I. L’Italia di fine secolo. 1885-1900, a cura di Piero D’Agiolini, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 23, 29, 33, ecc.

54 Lettere a Bernardino Varisco (1867-1931), a cura di Massimo Ferrari, Firenze, La Nuova Italia, 1982, p. 68: nelle restanti lettere del carteggio compaiono altre formule di congedo. (Un ciao in calce a una lettera si poteva leggere anche nel romanzo di A. FOGAZZARO, Piccolo mondo antico [1895], Milano, Mondadori, 1986, p. 93).

55 Cfr. B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 722-728, dove, analizzando i dialettalismi postunitari, a p. 726 è ricordato anche il nostro ciao; T. DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia unita cit., pp. 186 e sgg.

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meridionali che, durante tutto questo periodo d’incubazione, quando se la ritrovano davanti la collegano costantemente ai dialetti o all’ambiente settentrionale, o comunque la trattano come una voce che non rientra nel loro orizzonte. Alfredo Panzini, ad esempio, la ricondurrà espressamente al veneziano nel riportare le parole del protagonista di una sua novella: “‘Va là, mato, anca tì!’ concludeva [...] facendosi ‘ciao’ nel suo inestinguibile dialetto veneto”56. Del resto lo stesso autore, che pur registra ciao nel Dizionario moderno fin dal 1905, nonostante i ritocchi nelle edizioni successive non avrebbe mai modificato – né sarà modificato dai curatori dell’edizione postuma del 1942 – l’assunto di una sua circolazione parziale: “è voce dell’Alta Italia (piemontese cerèa) e pur nota e usata anche in altre regioni”57.

In altri casi la “regionalità” dell’interiezione non è evidenziata in modo esplicito e oggi risulta ormai impercettibile, anche se ai lettori contemporanei probabilmente doveva esser chiara. Penso agli esempi di Verga (che dal 1872 al 1893 era vissuto a Milano): uno, già segnalato da Marcello Durante, tratto dal romazo Eros (Milano, 1875) in cui, descrivendo un veglione fiorentino, si fa proferire a una donna mascherata, “nella lingua officiale per palcoscenico della Scala”, l’informale saluto lombardo58; l’altro, su cui si sofferma de Boer, che compare in un racconto del 1885 d’ambiente e con protagonisti milanesi: “Addio! Ciao! Buona fortuna”59. Più scoperta è la frase che Collodi, in un suo pezzo umoristico, mette in bocca a un capocomico al fine di caratterizzarlo (come settentrionale o come conoscitore delle piazze del Nord) e insieme di farsi beffe della sua prosopopea (“Mi fanno ridere questi buffoni di giornalisti [...]! Almeno sapessero scrivere! Conoscessero almeno l’ortografia!”): “Ciao, veccio mio! Come stai? Ho da farti un monte di saluti: a Milano, a Torino, a Genova, tutti mi hanno domandato di te”60.

Così per avere un esempio letterario in cui il dialettalismo non sia accolto solo per il suo colore settentrionale, bisogna arrivare a Pirandello che impiega il saluto già nel suo primo romanzo, L’esclusa, pubblicato nel 1901 a puntate nella “Tribuna” e nel 1908 in volume. Qui, tuttavia, la frase “Ciao, cardellino! Ciao, violetto mammolo!”, nonostante nella finzione del romanzo sia scambiata fra due “professoricchi” siciliani in una scuola di Palermo, è assai probabile che rispecchiasse piuttosto un uso di ciao vivo nell’ambiente giornalistico e letterario romano in cui si moveva in quegli anni l’autore: l’elemento settentrionale vi era ben rappresentato, come del resto era assai consistente fra i funzionari, gli impiegati, i militari della

56 A. PANZINI, Piccole storie del mondo grande [1901], in ID., Romanzi d’ambo i sessi, Milano, Mondadori,

1941, p. 207. Forse merita ricordare che l’autore, nato a Senigallia (Ancona) nel 1863, aveva studiato a Bologna e poi aveva insegnato a lungo a Milano.

57 A. PANZINI, Dizionario moderno, Milano, Hoepli, 1905; la voce continua così: “Pare corrotta da schiavo. Ciavo suo = servitor suo, ciavo obbligato (Cherubini, voc. milanese). Ciao è anche voce usata in Lombardia come esclamazione di chi si rassegna a cosa fatta e che pur dispiaccia”. Già nella seconda edizione (ivi, 1908), si aggiungono alcune precisazioni: “a Genova sciao”, “Ciao! (o schiavo!) […] Vale anche come, basta! Prendi cinque lire e ciao! Il cerèa, piemontese, che vi corrisponde nel senso, sarebbe secondo alcuni derivato da una corruzione di signoria”.

58 Cfr. G. VERGA, Tutti i romanzi, a cura di Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1983, II, p. 318: “– Ciao! | Alberto le fissò addosso un lungo sguardo che valeva per lo meno quanto il ciao. | La mascherina era vestita da paggio […]. | – Sai che sei un bel biondino gli disse nella lingua officiale per palcoscenico della Scala”; cfr. M. DURANTE, Dal latino all’italiano moderno, Bologna, Zanichelli, 1981, p. 246. (Da notare, in questo come nell’esempio seguente, che la parola è “marcata” anche dal corsivo).

59 G. VERGA, Novelle, a cura di Gino Tellini, Roma, Salerno, 1980, II, p. 151; cfr. M.-G. DE BOER, Riflessioni intorno a un saluto cit., p. 443.

60 CARLO COLLODI, Opere, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, 1995, p. 254 [Occhi e nasi, 1881, 1884³].

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capitale61. Forse più significativo, seppur isolato, il caso di Aldo Palazzeschi, un autore toscano incline nella sua prosa a un lessico colloquiale modernizzante, ricco di neologismi e di elementi popolari e regionali, che inserisce ciao come saluto sia introduttivo che di commiato nel suo rivoluzionario “romanzo futurista” del 1911, ma ve lo lascia a mo’ di hapax, dato che non risulta averlo reimpiegato in opere successive62.

Accanto agli esempi letterari, per tentare una valutazione dell’effettiva circolazione della parola, è forse necessario ritornare agli epistolari che in genere documentano una lingua più vicina alla spontaneità dell’uso colloquiale, considerando questa volta non i settentrionali ma, com’è ovvio, gli scriventi centromeridionali. Anche qui, tuttavia, fino verso la metà del Novecento si stenta molto a reperire casi davvero decisivi. Ad esempio, nella lettera di Carducci a Vito Siciliani del 1884 segnalata da Cortelazzo, il tono complessivamente scherzoso del testo, il fatto che la lettera sia inviata a Venezia, possono spiegare il ciao, che del resto non si ritrova in altre lettere carducciane63. Così l’uso isolato che nel 1896 ne fa il politico salernitano Emilio Giampietro in una missiva amichevole a Cavallotti, è forse dovuto a una sorta di adeguamento all’idioletto dell’interlocutore64. Un caso più interessante è rappresentato dal pugliese Gaetano Salvemini che nei suoi carteggi giovanili, anche con corrispondenti non settentrionali, ricorre talvolta allo spiccio e amichevole saluto: probabilmente si tratta di una voce orecchiata a Firenze, negli anni della sua formazione presso l’Istituto di Studi Superiori, dall’amico trentino Cesare Battisti e magari circolante nella componente studentesca d’origine settentrionale65. Così per 61 L. PIRANDELLO, L’Esclusa. Testo definitivo seguito dalla prima redazione (1901), a cura di Giancarlo

Mazzacurati, Torino, Einaudi, 1995, p. 138; nella versione pubblicata nel 1901 sul giornale la frase sonava: “- Ciao, Musco [scambio scherzoso del nome dell’interlocutore, Nusco, con quello del celebre attore], Io me la filo” (ivi, p. 323). Che l’interiezione rientrasse in qualche modo nella competenza pirandelliana (influenzata dall’uso del saluto fra certa borghesia delle regioni del Nord trapiantatasi a Roma), lo dimostrano anche le altre sue quattro occorrenze che si rinvengono, attraverso la LIZ, in opere pubblicate fra il 1911 e il 1928.

62 A. PALAZZESCHI, Il codice di Perelà. Romanzo futurista, Milano, Edizioni futuriste di “Poesia”, 1911, pp. 41 (“[…] e allora, ciao, egregio amico”), 118 (“– Ciao amico. | – Vi saluto”): in entrambi i casi la parola compare in contesti dove si riproducono i surreali e manierati colloqui di strani personaggi con il protagonista. Del resto non pare che ciao affiori spesso nemmeno nelle pagine di altri scrittori toscani del Novecento: trovo fra i miei appunti che in un suo libro di guerra del 1943 CURZIO MALAPARTE (Il Volga nasce in Europa e altri scritti di guerra, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1965, pp. 362, 379) riporta un “Ciao, pais!”, ma come un gergalismo di alpini piemontesi; solo nel dopoguerra ricorrerà in un Pratolini ormai “romanizzato”: cfr. VASCO PRATOLINI, Romanzi, a cura di Francesco Paolo Memmo, Milano, Mondadori, I, 1993, pp. 1053, 1183 [Un eroe del nostro tempo, 1949], 1261 [Le ragazze di Sanfrediano, 1949]; II, 1995, pp. 587 e 600 [Lo scialo, 1960; ma già anticipato nel frammento del 1954, La carriera di Ninì, a cura di Marino Biondi, Roma, Ed. Riuniti, 1997, pp. 92 e 101]; ID., La costanza della ragione, ivi, 1963, pp. 26, 31, 62, 94; mentre ancor più parco ne risulta l’uso epistolare col fiorentino Parronchi: cfr. ID., Lettere a Sandro, a cura di Alessandro Parronchi, Firenze, Polistampa, 1992, pp. 133 [1946], 135, 156, 197, 201, ecc. Più in generale, sulle resistenze dei toscani, vedi la n. 7.

63 Cfr. CORTELAZZO, “Ciao, imbranato” cit., p. 118 e GIOSUÈ CARDUCCI, Lettere, XIV.1882-1884, Bologna, Zanichelli, 1952, p. 264.

64 Cfr. L’Italia radicale cit., p. 214: va ricordato che Giampietro fu il braccio destro e il portavoce di Cavallotti.

65 Cfr. G. SALVEMINI, Carteggi. I (1895-1911), a cura di Elvira Gencarelli, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 35 (nel 1896 all’amica Ernestina Bittanti di Brescia, moglie del trentino Cesare Battisti); 68 e 394 (all’amico fiorentino Carlo Placci nel 1897 e 1908); 82, 89, 92, 97, 101, 112, 124, 127 (ad Arcangelo Ghislieri dal 1899); 205, 260, 290 (a Giuseppe Kirner dal 1902); 338 (a Erminio Juvalta nel 1906); 382 (al siciliano Giovanni Gentile nel 1908). Nel volume anche un esempio del 1907 dovuto al marchigiano Ugo Guido Mondolfo (p. 353). Che ciao fosse usuale per l’irredentista Battisti ce lo conferma, almeno fino ai primi anni del Novecento – quando sembra venir sostituito da altre formule di saluto – il suo Epistolario, a cura

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assistere all’inizio di un uso epistolare di ciao abbastanza stabile e largo bisognerà attendere ancora qualche decennio: fra i non molti casi anteriori alla metà del secolo che mi son capitati sott’occhio, ricordo quello della famiglia Rosselli, dove solo Carlo lo adotterà saltuariamente come formula di commiato nelle lettere alla madre, ma a partire dal 192366; o quello della corrispondenza fra il cesenate Marino Moretti e il ligure Mario Novaro, dei quali solo il primo comincerà a usarlo dal 194067. Tuttavia, più che rincorrere singoli esempi, anche stavolta, se si vuol individuare il momento in cui il settentrionalismo diviene davvero popolare nel resto d’Italia – e comincia a rimbalzare anche fuori: nel 1916 tchaû ricorre in alcuni versi di Apollinaire; un ciaou vien pronunciato in Farewell to Arms (1929) di Hemingway –, occorre rifarsi a un evento storico, la Grande Guerra, che dette agli Italiani d’ogni condizione e di tutte le regioni la prima vera occasione per condividere, nelle medesime trincee, vita e parole; e proprio in quelle zone della nazione in cui ciao (o s’ciao) era vivo sulla bocca della gente. È da questo decisivo momento che esso comincia a poco a poco ad esser adottato in strati sempre più larghi della popolazione, diffondendosi al di fuori della sua area originaria e rendendo più fitte le sue occorrenze: non è un caso che lo ritroviamo sia nelle lettere di soldati semianalfabeti, che nei libri su quella guerra tremenda, come Rubè (1921), il discusso romanzo di Giuseppe Antonio Borgese, dalle cui pagine son tratti gli esempi letterari che ne aprono il lemma nel Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia68.

A questo punto, invece di discendere i tanti rivoli della tracimazione di ciao, accennerò a due aspetti collaterali, ma non privi d’interesse. Il primo può addirittura valere come una sorta di “controprova” della sua avvenuta italianizzazione: la progressiva espansione sociale e geografica del saluto e la sua tendenza a generalizzarsi in un uso indiscriminato e panitaliano, ha comportato, infatti, un appannamento delle connotazioni familiari e dei riferimenti che esso aveva nei dialetti originari, dov’era ancorato a un mondo particolare e a rapporti umani profondamente vissuti. Adesso che ciao diventa il saluto di tutti, coloro che lo sentivano come una voce intimamente legata alla propria cerchia o alla propria regione, è comprensibile che siano indotti a preservarne in qualche modo il carattere o a riappropriarsene, magari rituffandolo

di Renato Monteleone e Paolo Alatri, Firenze, La Nuova Italia, 1966, pp. 26, 139 (all’amico toscano Assunto Mori, dal 1894); 38, 44, 57, 58, 59, 63, 111, 155, 190, 227, 228 (a E. Bittanti, dal 1896). Due sole occorrenze, invece, in Salvemini e i Battisti [Ernestina per lo più]. Carteggi 1894-1957, a cura di Vincenzo Calò, Trento, Temi, 1987, pp. 24 (Salvemini a Ernesta nel 1896), 37 (Ernesta nel 1903).

66 Epistolario familiare. CARLO, NELLO ROSSELLI E LA MADRE (1914-1937), a cura di Zeffiro Ciuffoletti, Milano, SugarCo, 1979, pp. 177, 211, 214, 243, ecc.

67 Cfr. M. MORETTI - M. NOVARO, Carteggio 1907-1943, a cura di Claudio Toscani, Milano, Istituto di propaganda libraria, 1981, pp. 124, 129, 133, 144, ecc.

68 Nel GDLI i due passi di Rubè servono a documentare, dopo la definizione dal Dizionario moderno panziniano, sia l’accezione di ‘saluto’ (per la quale seguono esempi del secondo dopoguerra da opere di Corrado Alvaro, Cesare Pavese e Italo Calvino), che la locuzione conclusiva e ciao ‘basta’. Riguardo alle lettere di soldati, mi limito a segnalare alcune occorrenze fuori dell’area lombardo-piemontese, tratte da L. SPITZER, Lettere di prigionieri di guerra italiani. 1915-1918, tr. di Renato Solmi, Torino, Boringhieri, 1976, pp. 60 (lettera indirizzata a Sestri Ponente), 117 (a Jesi), 191 (da Trieste), 241 (a Piazzola sul Brenta). Diversi studiosi hanno messo in evidenza il ruolo della Grande Guerra nella costituzione dell’italiano contemporaneo, ma qui voglio ricordare le fini notazioni di PIERO JAHIER in Con me e con gli alpini (1919): “Commovente sentire gli agordini sforzarsi al piemontese, e i segusini taroccar veneto per ricambio di affetto militare. […] Brava Italia che si lega per sempre nel sacrificio. […] Io che vorrei sapere tutti i dialetti d’Italia, anziché il dialetto toscano dei letterati. | Ogni dialetto rappresenta una terra e un sangue che deve trovar luogo così nella patria come nella lingua italiana. […] Unità della lingua vuol dir questa contribuzione” (in Opere di Piero Jahier/3, Firenze, Vallecchi, 1967, pp. 159-160).

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gelosamente nel dialetto. Sta qui, forse, la ragione che spinge alcuni più sensibili scrittori settentrionali a recuperare l’anima del saluto attraverso la sua pronuncia dialettale: Cesare Pavese, ad esempio, sceglie la forma locale ciau, sentita come più autentica, nella corrispondenza con gli amici piemontesi a partire dal 1928; e poi nel 1932 la colloca addirittura nel titolo di una delle sue prime prove letterarie, Ciau Masino69. La variante piemontese servirà a rievocare fatti e ambienti del passato anche nel romanzo di Mario Soldati, Le due città (1964), come ha mostrato de Boer70. Allo stesso modo si possono spiegare certe tendenze riscontrabili all’interno di questo o quel dialetto, volte a mantenere impieghi particolari o comunque a differenziare l’uso locale di ciao da quello generale71.

Il secondo aspetto riguarda l’atteggiamento degli “esperti”, che di fronte all’evidente sfondamento di ciao verificatosi dopo la Grande Guerra, cominciano a osservare più da vicino la novità, seguendone l’incerto e discontinuo procedere all’interno della lingua comune, per il vero non sempre in modo distaccato: da una parte si continua a raccomandare ai dialettofoni di evitare l’interiezione e di sostituirla con addio o salve72, dall’altra essa stenta a lungo a trovare accoglienza nei vocabolari dell’italiano, anche in quelli di più larghe vedute. A parte il già ricordato Dizionario moderno di Panzini, e il Vocabolario nomenclatore di Premoli (1909-1912) che ne riprende la definizione nel riportare il dialettalismo alla voce saluto, la prima effettiva inclusione nella lessicografia dell’italiano avviene nel 1939, col dizionario di Fernando Palazzi (“voce di saluto, addio; sembra che derivi da schiavo”), mentre l’Enciclopedia italiana (1936) e il Vocabolario dell’Accademia d’Italia (1941), pur indicando una diffusione ancora parziale, in certo modo ne daranno la sanzione ufficiale73. Tali autorevoli registrazioni probabilmente non

69 Vedi C. PAVESE, Lettere 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Torino, Einaudi, 1966, pp. 111, 248 (a

Tullio Pinelli); 132 (a Leone Ginzburg); 272, 279 (a Libero Novara); 345 (a Mario Sturani); 377, 390, 393, 395, 398, 400, 408, 423, 427 (alla sorella Maria); va notato che dal 1939 lo scrittore passerà alla forma ciao: pp. 543 (a T. Pinelli); 638, 640 (a Fernanda Pivano, 1942), 641, 645, 647, 655, 660 (a Mario Alicata), 650, 651,652, 657 (a Carlo Muscetta), ecc. L’inedito del 1932 Ciau Masino fu pubblicato nel 1968 nell’edizione delle Opere complete di PAVESE (Torino, Einaudi): si tratta di un lavoro linguisticamente complesso, in cui si intrecciano dialetto di Torino e delle Langhe, lingua comune e italiano regionale, espressioni gergali e frasi in inglese: cfr. GAETANO BERRUTO, “La langa” di Cesare Pavese: una lettura sociolinguistica, in “Lingua nostra”, XXXVII, 1976, pp. 96-106.

70 Cfr. M.-G. DE BOER, Riflessioni intorno a un saluto cit., p. 441. Per un analogo recupero, non letterario, della forma dialettale, vedi la n. 7.

71 Talora ci si serve di ciao solo o prevalentemente come saluto, magari di riguardo; mentre per la formula conclusiva o l’uso come esclamazione concessiva esprimente rassegnazione, più legata ad espressioni fraseologiche locali, si preferisce mantenere la vecchia forma s’ciavo: cfr., ad esempio, la recente accurata trattazione nel Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana, fasc. 65. cèsta-ciapa, Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2005, pp. 189-190.

72 Se i vocabolari dialettali ottocenteschi erano comprensibilmente ricchi di sostituti “toscani”, è interessante che ancora nel 1925 ciao venga accompagnato dalla raccomandazione: “in italiano, di solito, ‘addio’”, nel manualetto scolastico “dal dialetto alla lingua” di B. MIGLIORINI, Veneziano, Torino-Firenze, Paravia-Bemporad, 1925, I, p. 10n.

73 R[AFFAELE] C[ORSO], Saluto, in Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, XXX, 1936, pp. 569-570, a p. 570: “Caratteristici il “coscienza binidica” siciliano e il “ciao” (propriamente s-ciao cioè schiavo, s’intende: suo) d’origine veneta, ma diffuso in tutta Italia settentrionale e ora anche in parte della centrale”; Reale Accademia d’Italia, Vocabolario della lingua italiana, vol. I. A-C, Milano, Società anonima per la pubblicazione del Vocabolario, 1941: “Ciao, inter. Formula di saluto, comune nell’Italia settentrionale, sia nell’incontrarsi che nel lasciarsi; addio”; seguono due esempi della Deledda (dove si tratta probabilmente un sardismo di derivazione piemontese: cfr. le attestazioni sarde dell’AIS segnalate alla n. 7) e di Barzini; la voce si chiude con la seguente indicazione etimologica: “Lombardo ciao, da anteriore sciao, schiavo”.

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furono casuali: alla metà degli anni trenta la parola, per qualche ragione che ci sfugge, deve aver goduto di un suo momento di notorietà e di un conseguente “sdoganamento” ufficioso, abbastanza straordinario in quella temperie storica caratterizzata da una forte dialettofobia e da una politica linguistica così sciovinista da proibire perfino l’uso del lei ritenendolo, erroneamente, un lascito vergognoso della dominazione spagnola: anche ciao era un dialettalismo e per di più aveva alle spalle una vicenda analoga a quella del lei. Ma forse di tale circostanza allora non si fu consapevoli, anche se Angelico Prati aveva tratteggiato in modo convincente la storia della parola74, che nel 1938 sarà divulgata alla radio con una istruttiva e piacevole nota di Francesco A. Ugolini per il ciclo di trasmissioni dell’EIAR “La lingua d’Italia”:

Due radioascoltatori, di Milano l’uno, di Genova l’altro, ci chiedono quale sia l’etimologia e

quale il vero significato della voce confidenziale di saluto ciao, che non trovano registrata nei vocabolari. | La storia di ciao è così interessante che merita davvero di essere brevemente ritracciata. Ciao, una volta adoperato esclusivamente nell’Alta Italia, ma che ora si ode di frequente come formula amichevole di saluto anche sulle labbra toscane o romane, è un minuscolo contributo dei dialetti settentrionali, più particolarmente di uno di essi, del veneto, alla lingua parlata. In una così breve e fuggevole paroletta chi riconoscerebbe a prima vista l’italiano schiavo? Eppure, proprio di schiavo si tratta, e di schiavo travestito alla veneta. Sclavus nel latino medievale significò dapprima semplicemente Slavo; poi, soprattutto per il fatto che nell’alto Medio Evo dei gruppi di Slavi furono ridotti in Germania allo stato di servi, sclavus assunse il valore generico di servo, di schiavo. Nel Settecento, a Venezia, schiavo, dialettalmente s’ciào, era divenuto formula di riverenza e di omaggio. Il cavaliere si profferiva servitore alla dama; con un “Vi son schiavo” si accomiatava il signore dai suoi amici, “S’ciào, niora” dice Pantaleone de’ Bisognosi in una commedia goldoniana, inchinandosi a Bettina, la giovane moglie di suo figlio; e Bettina risponde, nell’atto della riverenza: “Patron, sior missier. La lassa che glie basa la man”. Da Venezia s’ciào guadagna rapidamente la Lombardia, l’Emilia, il Piemonte e si spinge sino a Nizza, dove tuttora è vivo. Durante il cammino, per adattarsi ad ogni labbro e rendersi di più facile pronuncia, si semplifica, perdendo qualche cosa dell’asperità del gruppo consonantico iniziale e da s’ciào diviene il più scorrevole ciao; si generalizza nell’uso, e col tempo, perdutosi il valore etimologico originario nella coscienza dei parlanti, lo adottano anche le signore e diviene da formula cerimoniosa il saluto dell’intimità. Vicenda singolare di una parola! Il giovanotto e la signorina del nostro Novecento, che dicono buongiorno e arrivederci ai loro amici con lo sbrigativo e confidenziale ciao, sospettano di adoperare la medesima parola di ossequio, incipriata di grazia settecentesca, che il cavaliere veneziano, due secoli fa, rivolgeva alle dame e alle brigate signorili fra un inchino e l’altro, all’entrar nei salotti e sul punto di partirsene?75.

Nonostante tali insperate e convergenti aperture d’epoca fascista, l’avanzata della parola

procedette ancora per un po’ a piccoli passi, sia nei vocabolari, che nell’uso generale. Il suo

74 A. PRATI, Nomi e soprannomi di genti indicanti qualità e mestieri, in “Archivum Romanicum”, XX,

1936, pp. 201-256, a pp. 240-242, dove si descrivono i riflessi deonomastici di slavo (schiavo): “ciao, saluto di confidenza, di rado di riguardo, diffusosi dal Vèneto, a quanto pare, e arrivato a Milano (ciao), a Torino (ciau), a Gènova (ciau: Frisoni), a Nizza (ciau), a Parma (ciavo, s’ciavo), e persino usato un po’ a Roma”. Nella stessa annata della rivista diretta da Giulio Bertoni sarebbe apparso anche il lavoro di Paul Aebischer sulle prime attestazioni di sclavus: vedi n. 17.

75 La lingua d’Italia. Risposte date a quesiti sottoposti dai radioascoltatori. Quinta puntata, nel “Radiocorriere”, XVI, 7-23 luglio 1938, p. 5. Anche se non firmate, le risposte ai radioascoltatori eran dovute a Giulio Bertoni e al suo scolaro Francesco A. Ugolini (su questa notevole iniziativa radiofonica, vedi SERGIO RAFFAELLI, La norma linguistica alla radio nel periodo fascista, nel vol. Gli italiani trasmessi. La radio, Firenze, Accademia della Crusca, 1997, pp. 31-67, in part. pp. 47-51): nel nostro caso deve essersi trattato di quest’ultimo, perché la nota radiofonica fu riprodotta in F. A. UGOLINI, Grammatica italiana. Con esercizi ad uso della Scuola Media, Milano, Garzanti, 1941, pp. 278-279.

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definitivo dilagare si ebbe solo negli anni del boom economico e del consumismo, quando fu rilanciata dai mezzi di comunicazione di massa in contesti di carattere eminentemente popolare, ottenendovi subito quel successo che sta alla base del suo attuale sfruttamento interno, come della sua fortunata avventura internazionale.

Le interessanti osservazioni dei diversi studiosi che via via sono stati chiamati in causa, ci hanno fatto comprendere che anche una normalissima voce d’uso quotidiano, com’è ciao, ha un retroterra complesso e un’anima nient’affatto banale. Anzi, da quel che s’è visto, si tratta di una voce meno esile di quel che appare, perché, pur avendo traversato più volte i confini fra lingua e dialetto, fra nobili cerimonie e parodie popolari, fra vecchie abitudini e nuove mode, non ha mai smarrito il senso vero del suo cammino, mantenendolo tenacemente intrecciato alla vita e ai costumi degli italiani. Un cammino lento e poco vistoso, che tuttavia negli ultimi due secoli ha dovuto superare tre snodi storici cruciali che hanno coinciso, come non poteva non essere, con profondi mutamenti dell’intera società: l’invasione francese con le sue speranze e le sue delusioni, le trincee della prima guerra mondiale, la rivoluzione consumistica del secondo dopoguerra. Ma è stato proprio grazie a questi momenti di “crisi” se la nostra formula di saluto è riuscita a rompere il suo guscio, ad aprirsi un varco verso la lingua di tutti, a farsi una tempra per imporsi anche fuori.

A questo punto, malgrado la mia troppo lunga e noiosa chiacchierata non abbia aggiunto quasi nulla al segreto fascino di una parola così piccola e giovane, così semplice e agevole, mi sia concesso di ringraziare il caro Maestro a cui tutti – e particolarmente noi italiani – dobbiamo davvero molto e di salutare con il più sentito e cordiale dei “ћао” l’amico che qui festeggiamo.

Masimo Fanfani

O JEDNOM NAČINU POZDRAVLJANJA

(rezime)

Reč ćao je najpoznatija italijanska reč, prisutna je kao pozajmljenica u mnogim jezicima, ali ne sme se zaboraviti da je ćao relativo nova leksička pojava u italijanskom jeziku. Do pre pola veka uobičajeni načini pozdravljanja bili su buongiorno ili salve pri susretu, addio ili arrivederci na rastanku. Jednostavniji i intimniji oblik ciao bio je raširen samo u severnoitalijanskim krajevima, a počeo se širiti na ostatak Italije pedesetih godina XX veka putem pesama, televizije, filmova. Reč ćao potiče od učtivog pozdrav schiavo vostro (saraceno, schiavo) koji je bio u upotrebi već u XVI veku među uglednom gospodom i u zaključnom delu pisama. Širenjem egalitarstičkih ideologija u XVIII veku, ovaj način pozdravljanja počeo je da se povlači; jakobinci su ga, staviše, i zabranili. Opstao je samo u dijalektima, gde je pretrpeo fonetske promene i od schiavo redukovao se u ciao, čime je reč postala etimološki netransparentna i pogodna za širu upotrebu. Manje je poznato da ova formalna inovacija nije nastala u Veneciji već u Milanu, gotovo izvesno u vreme Napoleona. Kerubinijev Rečnik milanskog govora beleži ciavo (1814.), dok oblik ciao se javlja 1817. godine u Melkjorijevom rečniku brešanskog jezika. Toskanac Benedetti izveštava, 1818. godine, kako je u Milanu čuo da se kaže ciau, dok Tomazo Grosi koristi reč ciao u jednom pismu.

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Anton Maria RAFFO (Firenze)

LESINA

Oдкле дојдох на свит и по њем путују Од седамдесет лит далеч се не чују… Петар Хекторовић Così medesimamente anco io ho voluto innanzi che questo mio sonetto venga alle mani d’altrui, … però la priego che lo voglia leggere per amor mio, e farmi consapevole del suo sincero parere, e così di core molto mi raccomando. Di Lesina, alli IX di febraro del LXI. Alli servigi di V.S. Vincenzo Vanetti Anno ab intemeratę virginis partu MDLXVI die XV mensis junii. Phari in Civitate Veteri in platea communis. Ibi= que sp. d. Petrus Hectoreus, …pręsentavit hoc testamentum... Pietro Hettoreo Et voglio, ordino et dechiaro, che tutti li miei beni stabili così esistenti sulla isola di Liesena come sulla isola di Lissa, siano perpetuamente… Id.* *

La questione del toponimo Lèsina (nome italiano della bella isola e del suo odierno

capoluogo) è annosa: più volte, da tempo, affrontata ma, così a me pare, senza esiti risolutivi. Neppure questa mia nota ha tale pretesa: le sottostanti considerazioni sono intese soltanto a impostare in maniera più nitida il piccolo problema.

* Le quattro citazioni d’epigrafe da Stari Pisci Hrvatski, knj. XXXIX, Djela Petra Hektorovića, priredio J.

Vončina, JAZU, Zagreb 1986, pp. 41, 136, 140. I tre corsivi sono miei (AMR).

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Incominciamo col nome croato (anch’esso coincidente per l’isola e il capoluogo, com’è quasi norma per tutte le isole adriatiche): Hvar. E’ concorde l’opinione che l’etimo sia greco, e cito, per tutti, lo Skok: “Najstarije vijesti o podrijetlu staroga stanovništva ovoga otoka zabilježio je geograf Strabon. On veli, da su se ovamo naselili kolonisti s egejskoga otoka Parosa. (…) Osnutak kolonije stavlja se u zadnju četvrt 4. vijeka prije naše ere.”1 Era frequente che le colonie greche prendessero il nome della stessa madre patria: e allora la denominazione croata derivata direttamente dalla greca dovrebbe essere Par. Ma Strabone dice dell’altro, come lo stesso Skok riferisce: "On izrijekom veli, da se naš otok zvao najprije Paros, a poslije Pharos. (…) Zašto se Paros promijenio u Pharos, o tome nam Strabon nije dao na žalost nikakva obavještenja. Tome se možemo samo domišljati. Vrlo je vjerojatno, da je ova izmjena nastala pod utjecajem drugoga sličnog mediteranskog imena otoka, koje je možda egipatskog podrijetla. Blizu Aleksandrije nalazi se naime mali otočić Pharos, koji je postao glasovit zbog svjetionika na njemu.”2 Era, come si sa, una delle sette meraviglie del mondo antico, e il nome si trasmise a consimili torri luminose in altre parti del Mediterraneo (nonché a un quartiere di Costantinopoli, il Fanàr), col tempo divenendo in diverse lingue la parola comune designante appunto tale torre. Scrive ancora lo Skok che altre isole mediterranee, sulle quali sorgeva un faro, ripresero quel nome: complice, nel caso della nostra, la stretta somiglianza tra Paros e Pharos. Poi, “na ovom imenu izvedoše Rimljani samo tu izmjenu, što mu dadoše svršetak –ia, koji karakterizira nazive teritorija (otoka i t. d.). Iz rimskog naziva Pharia napraviše dalmatinski Romani pravilno u svome izgovoru Fara.”3 Gli slavi, a loro volta, avevano problemi con la effe, che rendevano con hv o p (ancora il sopra citato Hektorović: “…Zna l’ pilozopiju / Taj vitez od koga toke hvale diju?” Ribanje…, vv. 475-6). Donde, del tutto regolarmente, Hvar. Sussiste, però, un punto malcerto: non risulta che sull’isola ci sia mai stato un faro di dimensioni ragguardevoli o di una certa importanza (se non quei piccoli fari che trovi all’imboccatura di ogni porticciolo o mandracchio); e a giustificare l’antico passaggio da Paros a Pharos rimane soltanto la somiglianza, certo assai stretta, tra i due nomi. Per il nome italiano Lèsina (un tempo anche Liesina, o Liesena), anche questo riferito sia all’isola sia al capoluogo, la prima attestazione risale al 1099-1100, quando il doge Vitale Michiel, di ritorno dalla Terra Santa, approda all’isola (nelle sue relazioni si hanno le forme Liesena o Liesna4). Per questa denominazione tre, ch’io sappia, sono le proposte etimologiche, che qui elenco e sommariamente discuto.

Lesina boscosa: i veneziani, sbarcando la prima volta (la prima?) avrebbero sentito dagli isolani slavi il termine lijesno, con riferimento all’abbondanza di boschi dell’isola stessa (ipotesi avanzata già nell’Ottocento dallo Jireček, poi da altri ripresa; da noi la ripropose Bruno Guyon in un suo articolo negli “Annali del R. Istituto Orientale di Napoli”, giugno 1933). La forma neutra del termine udito si spiegherebbe per la concordanza con ostrvo, mentre la forma veneziana in –a sarebbe motivata dalla femminilità delle isole già in latino e poi in italiano. Obiezioni formali: il passaggio dal neutro al femminile presuppone una certa competenza linguistica, difficilmente ipotizzabile per le ciurme veneziane dell’undicesimo secolo; la sibilante sorda della forma slava difficilmente si risolve in una sonora veneziana; la parlata croata dell’isola è ed era ciacavo-icava: difficilmente quegli isolani avrebbero detto altrimenti che un *lisno. Altre obiezioni: non risulta che Lesina sia, tra le maggiori isole dalmate, la più boscosa: col suo 48% di copertura boschiva resta, per esempio, ben indietro al 56,3% di Curzola (dati dell’Enciclopedia Italiana,

1 Petar Skok, Slavenstvo i romanstvo na jadranskim otocima. Toponomastička ispitivanja, dva sveska,

Zagreb 1950, I, p. 181. 2 Ibidem. 3 Ivi, p. 182. 4 Ivi, p. 183.

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degli anni trenta del Novecento: non si ha motivo di ritenere che dieci secoli fa le proporzioni dovessero essere diverse). Più dirimente: per nessun’altra isola dell’Adriatico orientale si ha una denominazione italiana derivata dalla forma slava; semmai, si constata non di rado l’inverso, oppure le denominazioni sono affatto indipendenti l’una dall’altra (com’è il caso di Veglia: cr. Krk < lat. Curictum/Curicta; it. Veglia < basso greco Βέκλα). Più in generale, non sembra che nei secoli i veneziani abbiano linguisticamente assimilato gran che (a parte sporadici “stravizi”) dai possessi “de là da mar”, mentre tanto cospicuo è stato il processo, appunto, inverso.

Lesina come l’arnese dei calzolai: la forma oblunga, stretta e arcuata dell’isola potrebbe, certo, suggerire una siffatta descrittiva denominazione. Questo spunto è più volte affiorato, non foss’altro che come ipotesi di successiva interpretazione: “Današnji talijanski naziv Lesina pokazuje zamjenu dvoglasa ie sa e. Ovo se može protumačiti utjecajem talijanske opće riječi lesina, što znači ‘šilo’, jer je geografska konfiguracija ovoga otoka na karti zaista nalik na šilo.”5 E addirittura qualcuno rafforza l’ipotesi adducendo il nome di quella punta Sillo (cr. Rt Šilo) della costa nord-orientale di Veglia. Obietto che, in questo caso, la lingua di terra è di dimensione alquanto ridotta, talché la sua conformazione allungata e sottile poteva essere rilevata anche anticamente (non credo peraltro sia da escludere che da un toponimo romanzo sia derivata la forma croata, successivamente interpretabile). In generale, mi pare che ben difficilmente la denominazione di un’isola di maggiori dimensioni possa venire dalla sua configurazione: a parte il caso, molto banale, di Isola Lunga/Dugi Otok, non ne conosco altri in tutto il Mediterraneo. Né molto qui varrebbe fare l’esempio della Trinacria (la Sicilia), nome dagli antichi rimodellato sull’omerica Θρινακίη, che altra isola designava: i greci (che erano geometri, geografi e navigatori) conoscevano benissimo la triangolarità della Sicilia, per averla infinite volte circumnavigata, esplorata, colonizzata.

Come è noto, il toponimo in questione si ritrova anche in Puglia: si chiama Lesina un’ampia, allungata laguna lungo la costa settentrionale del Gargano, e lo stesso nome ha il maggior centro abitato nei pressi. E’ben antico il tentativo di spiegare l’omonimia con una congettura che qui illustro valendomi di due citazioni da vetusti repertori: “I. LESINA, lago nella provincia di Lucera… II. Città nella provincia di Lucera, ed in diocesi di Benevento, alle falde del monte Gargano. … Questa piccola città, secondo Ferdinando Ughellio, si vuole essere stata edificata da alcuni pescatori della Dalmazia.”6, e così anche l’erudito bibliotecario borbonico Lorenzo Giustiniani: “LESINA, o Lesena, città in provincia di Capitanata, in diocesi di Benevento. . . Quelli che si avvisano avere avuto il suo incominciamento da taluni pescatori venuti dall’isola di Lesina di Schiavonia, non saranno da condannarsi...”7 L’antica congettura, radicata ancorché priva di qualunque probante suffragio, si tramanda fino ai dì nostri, giacché affatto recentemente così scrive, occupandosi della stessa area pugliese, uno stimato studioso di archeologia: “Tracce di villaggi preistorici . . . attesterebbero un’apprezzabile frequentazione di tutta l’area . . . da parte dei Neolitici provenienti con molta probabilità dall’opposta sponda 5 Ibidem. E’ semmai da osservare, a proposito del vocalismo nella prima sillaba tonica, che potrebbe essere

andata proprio al contrario, che cioè i veneziani trovassero un antico toponimo Lèsina, ma lo pronunciassero e scrivessero Lièsina. Cfr. il DEI di Battisti-Alessio (voll. 5, Barbera, Firenze 1975, s.v. “lesina”): “XIII sec.; ferro appuntito da calzolaio… Nel veneto lièsina, …, it.merid., pis. e lucch. lèsina ...”

6 Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli, composto dall’abate D. Francesco Sacco, dedicato alla Maestà di Maria Carolina d’Austria, Regina delle Sicilie ec. ec., tomo II, presso Vincenzo Flauto, in Napoli MDCCXCVI, p. 145. Il cistercense Ferdinando Ughelli (1595-1670) fu autore, com’è noto, di una monumentale Italia sacra (nove tomi in folio pubblicati a Roma tra il 1642 e il 1648), compendio storico di tutte le diocesi d’Italia: ivi tuttavia non ho trovato notizie di croati a Lesina di Puglia.

7 Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli di Lorenzo Giustiniani. . ., tomo V, Napoli 1802, p. 257.

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adriatica. In questo primitivo nucleo sarebbe poi sorto, verso il V-VI secolo, un vero e proprio centro ad opera di pescatori dalmati (forse provenienti dall’Isola di Lesina-Hvar, ove esiste tra l’altro un centro che ha lo stesso nome di quello dell’isola e di quello del nostro centro pugliese, abitato anche quest’ultimo a partire dal Neolitico).”8 Dove l’ipotesi della migrazione dall’altra sponda, retrocessa in un contesto cronologico così remoto, ingigantisce il suo carattere di mito, indimostrabile e pertanto inattaccabile. Analogo, per fare un solo esempio, a quello per cui ancor oggi i resiani (gli abitanti di una vallata del Friuli, a nord di Udine, dove si parla un dialetto sloveno) si ritengono russi: la leggenda pare derivi dal fatto che gli ufficiali di Suvorov, quando nel 1799 per la Val di Resia transitò l’armata russa che scendeva in Italia, ebbero a dichiarare il loro compiaciuto stupore costatando la somiglianza tra la parlata locale e il russo. Nel nostro caso il nocciolo del mitologema dev’essere ancora più semplice: già in epoca antica (almeno già al tempo dell’Ughelli) colpiva l’identità onomastica tra il centro garganico e l’isola dalmata, mentre tutti sapevano dei reiterati arrivi dall’altra sponda di slavi e albanesi che fuggivano dall’invasione ottomana. Altrettanto recentemente, la stessa antica ipotesi induce compilatori non tanto accorti a proporre ancor più smaccati garbugli: “Il toponimo è stato spiegato in vario modo: da un prelatino (mediterraneo) * les- ‘baratro’ (Alessio 1942, 180), da un germanico alisna ‘lima’ (da cfr. con l’idronimo toscano Lima), da voci slave come lesi, lesina, ‘boscoso’ (riferimenti bibliografici in Olivieri cit.). Quest’ultima ipotesi è anche quella di Rohlfs 1972, 350 (in particolare da un lêsbna, aggettivo femminile di lesb ‘bosco’) che collega questo toponimo al nome dell’Isola di Lesina nell’Adriatico, ed è fondata sulla presenza di antiche immigrazioni serbocroate nella zona del Gargano”.9

Più cauto era stato un precedente studioso di toponomastica pugliese, il Colella, che in una nota alla voce “Lesina” di un suo dovizioso repertorio scriveva: “Non credo che per l’etimo di Lesina ci sia bisogno di ricorrere all’ipotesi della colonia venuta dall’omonima isola dell’Adriatico. Inclinerei piuttosto a credere che si tratti di un vocabolo di origine bizantina, Lêsina da Alêsina o Alisina, in cui è facile riconoscere una formazione parallela a quella del nome dell’isola. La base sarebbe quindi il greco hals ‘il mare’, da cui si sarebbe avuto una forma alìsinos ‘marino’ – dunque: ‘luogo presso il mare’ o ‘presso un lago’, come nel caso nostro.”10 Più che per questa proposta etimologica (la terza, delle tre che dicevo all’inizio), che è peraltro avanzata piuttosto per la località pugliese, e sulla quale non saprei pronunciarmi (solo semmai obiettando che non risulta documentata nella grecità una formazione aggettivale di quel tipo), il Colella ha il merito di risolutamente sostenere la “nessuna attendibilità di quanto circa le origini di Lesina si è congetturato dal P. Ranzano dei Predicatori, dall’Ughelli e da altri che seguirono il Ranzano, esser nata cioè questa città dai pescatori dell’isola dallo stesso nome in Dalmazia. A parte che nulla, assolutamente nulla, in Lesina e nei Lesinesi si trova che possa giovare a

8 Nicola Lidio Savino, Lesina. Contributi per una indagine preistorica. . .(Il comprensorio lagunare.

Archeologia – Gargano), Agorà, Foggia 1991, p. 60. 9 Così alla voce “Lèsina (Fg)”, firmata da Carla Marcato per il Dizionario di toponomastica. Storia e

significato dei nomi geografici italiani, autori dell’opera: G. Gasca Queirazza, C. Marcato, G.B. Pellegrini, G. Petracco Sicardi, A. Rossebastiano, UTET, Torino 1990, p. 351. Al pasticcio ha pesantemente contribuito l’imperizia dei tipografi, i quali, avendo trovato (così si può presumere) nell’originale una ĭ (ovvero ь ), nonché una ъ , le han ridotte (senza che sulle bozze l’autrice intervenisse) a rispettivamente i e b. A parte la trascuratezza editoriale, è pressoché superfluo ricordare che alla fine dell’undicesimo secolo le jer in posizione debole si erano da tempo dileguate (ma qui l’incompetenza sarà da addebitare più a monte dei tipografi).

10 Giovanni Colella, Toponomastica pugliese dalle origini alla fine del Medio Evo, R. Deputazione di Storia Patria per le Puglie. Documenti e monografie, vol. XXIII, n.s., Vecchi e C. Editori, Trani 1941, p. 367.

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suffragare questa presunta derivazione; a parte che uno studio, sia pure il più superficiale, degli elementi del dialetto lesinese, mentre convince della comunità dell’origine anche linguistica che i Lesinesi hanno coi popoli circonvicini del Gargano, esclude qualsiasi affinità col ceppo idiomatico che qui, per intenderci, chiamerò illirico – sta, dico, il fatto che il nome di Lesina, dato dai Veneziani all’isola ch’essi assoggettarono nel secolo X, comincia ad essere adoperato molto più tardi. Fino al secolo XIII quella conservò la denominazione latina di Faria (Pharia), dal greco Pharos, voce corrotta nell’illirico Hvar o Far, quale suona tuttora nel croato-sloveno.”11

Spero d’esser stato abbastanza convincente nell’argomentare la scarsa attendibilità delle ipotesi etimologiche di Lesina boscosa e di Lesina a forma di lesina, nonché l’infondatezza della leggenda di una Lesina pugliese così nomata per un’immigrazione di pescatori dalmati. Resta, però, questa duplicità toponomastica: la quale, se non spiegabile in termini di interdipendenza nella storia, potrebbe, anzi non può non essere interpretata, o quanto meno collocata in un ambito di preistoria, intendo: preistoria linguistica. Petar Skok, nel lavoro già sopra citato, liquidava sbrigativamente le ipotesi “non slave” per l’etimologia del toponimo in questione: “Nekoji talijanski historici, kao Praga, tvrde doduše, da Lesina nije slavenska riječ, nego čak predindoevropska. Ovo je tumačenje samovoljno, . . . jer najstarije potvrde za taj naziv potječu iz čistoga slavenskog doba.”12 Effettivamente Giuseppe Praga, nella voce “Lesina” da lui redatta per l’Enciclopedia Italiana (vol. XX del 1933, p. 959), affermava, pur senza alcun supporto, che la denominazione sarebbe “antichissima e di radice preromana”. D’altra parte, se e’ vero che la fine del secolo undecimo può essere già considerata, per quell’area di Dalmazia, “čisto slavensko doba”, si deve pur ammettere che – per l’elementare principio del “quaesivi sed non inveni” - la mancanza di attestazioni precedenti non può escludere una più remota antichità del toponimo. Il Praga, che non era linguista, ma storico e patriota dalmata, solo a tentoni propendeva per quell’origine antichissima del toponimo. Io, qui, ritengo a mia volta soltanto di poter evidenziare che l’esistenza dello stesso toponimo sulle due sponde, priva di una spiegazione storica, costituisce un problema che non pertiene allo storico, al filologo romanzo, allo slavista, ma è da rimettere allo studioso del sostrato linguistico, non solo preslavo, ma anche preromanzo, dell’area adriatica.

Anton Marija Rafo

HVAR

(Rezime)

Pitanje o poreklu toponima Lesina kojim se u italijanskom jeziku označavaju otok Hvar i njegov najveći grad bilo je u više navrata predmet istraživanja, ali do konačnog odgovora nije se došlo. Skok smatra da je hrvatski naziv Hvar grčkog porekla i da potiče od naziva Paros/Pharos, koji je zabeležen na više mesta u Sredozemnom moru. U rimsko doba naziv ostrva glasio je Pharia, a Sloveni su početni glas f izgovarali hv ili p, što je dalo pravilan ishod Hvar. Italijanski naziv Lesina zabeležen je 1099-1100. godine; postoje tri moguća objašnjenja: da naziv potiče od lijesno, 11 Ibidem. 12 P. Skok, Slavenstvo…, cit., p. 183.

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“šumovit”, što se čini malo verovatnim jer takav ishod podrazumeva specifične jezičke kompetencije koje nisu mogli imati ni otočani ni vencijanski moreplovci. Malo je verovatno i da je naziv Lesina zapravo italijanska reč za šilo, upotrebljena da bi se naglasio izduženi oblik otoka (mada primeri sličnog postupanja postoje: Dugi Otok /Isola Lunga, ili Trinacria, jedan od naziva za Siciliju). Uzima se u obzir i pretpostavka da je toponim Lesina vizantijskog porekla – od Alêsina ili Alisina. Autor prima s dužnom rezervom sve tri pretpostavke o poreklu toponima Lesina, ali ne isključuje ni mogućnost

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Gordana TERIĆ (Università di Belgrado)

RELAZIONI DEITTICHE E ANAFORICHE DEI DIMOSTRATIVI ITALIANI E SERBI

Parole chiave: dimostrativi, deissi, anafora/catafora, antecedente/postcedente, referenza,

sostituzione, trasformazione

I dimostrativi, nel senso che a questo termine da Lyons1, che usa il termine indexicals alludendo alla loro funzione indicativa, designano un referente rispetto allo spazio e al tempo della situazione comunicativa. Le forme dimostrative questo e quello2, come parole deittiche 3, si riferiscono allo spazio e al tempo, reale o figurato, dei partecipanti del discorso nell’ambito di un atto comunicativo. Gli aggettivi e i pronomi dimostrativi sono unità deittiche, come anche i pronomi personali, avverbi di tipo oggi, domani, subito, qua, là, se fanno parte di un contesto deittico in cui il parlante produce il suo enunciato, e in cui il referente si identifica solo nel rapporto tra gli interlocutori. La deissi significa, dunque, collocare un oggetto nel suo spazio referenziale, e i valori deittici offrono delle informazioni che portano all’identificazione del referente o dei referenti. Nell’esempio che segue questi referenti sono le parole libro e tavolo:

Prendi quel libro e mettilo su questo tavolo. – Uzmi onu (ili tu) knjigu i stavi je na ovaj sto. Il libro è lontano nel senso spaziale rispetto al luogo in cui si trova il parlante (quello = la lontananza spaziale), mentre il tavolo è vicino rispetto allo stesso punto di riferimento (questo = la prossimità spaziale). La stessa frase senza dimostrativi:

Prendi il libro e mettilo sul tavolo. – Uzmi knjigu i stavi je na sto.,

non ci dà nessuna informazione di carattere deittico. Questo, col valore deittico, indica, persona o cosa vicina, nello spazio e nel tempo, a chi parla, cioè al centro deittico: deissi spaziale:

Questo è Marco. – Ovo je Marko. Prendi questo libro. – Uzmi ovu knjigu.

1 Cfr.: John Lyons, Introduction to Theoretical Linguistics, Cambridge 1968, p. 275. 2 Ci occuperemo di questi due dimostrativi fondamentali, e lasceremo da parte in questa sede gli altri

dimostrativi, come ciò; costui, costei, costoro; colui, colei, coloro. 3 Laura Vanelli e Lorenzo Renzi (Renzi 1991: p. 261) definiscono la deissi come: “Per ‘deissi’ si intende

dunque quel fenomeno linguistico per cui determinate espressioni richiedono, per essere interpretate, la conoscenza di particolari coordinate contestuali che sono l’identità dei partecipanti all’atto comunicativo e la loro collocazione spazio-temporale”.

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Relazioni deittiche e anaforiche dei dimostrativi italiani e serbi

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Non uscire con questo freddo. - Ne izlazi po ovoj hladnoći. - E ora da quest'altra parte. – A sada, s ove druge strane.

deissi temporale:

In questo momento non ho voglia di telefonargli. Verrò una di queste sere. – Doći ću jedne od ovih večeri. Ritornerò quest'estate. – Vratiću se ovoga leta.

Quello, invece, indica persona o cosa lontana, nello spazio e nel tempo, sia da chi parla sia da chi ascolta o a cui ci si rivolge: deissi spaziale:

- Quella è sua madre. – Ono je njegova majka. - Vorrei quel vestito. (spesso, indicando col gesto). - Želeo bih ono odelo.

deissi temporale:

Quella fu una meravigliosa estate. - To je leto bilo divno. Quel luogo che visitammo è molto bello. - To mesto koje smo posetili vrlo je lepo.

Quello include anche la referenza a ciò di cui si è già trattato o che è comunque noto a chi ascolta:

- È proprio noiosa con quella sua presunzione. - Baš je dosadna s tom svojom uobraženošću.

- Non dimenticherò mai quella notte. – Tu noć nikad neću zaboraviti. Questo e quello fanno spesso una coppia correlativa:

Mi ordina sempre: - Fa’ questo, fa’ quello. - Često mi naređuje: - Uradi ovo, uradi ono.

L’individuazione del referente richiede o la conoscenza della situazione extralinguistica (la deissi spazio-temporale), e allora parliamo della referenza esoforica, oppure l’individuazione può essere raggiunta mediante il rinvio al contesto linguistico o testuale, quando parliamo della referenza endoforica (l’anafora e la catafora). Come abbiamo visto dagli esempi, i dimostrativi si possono usare insieme ad un sostantivo come aggettivi pronominali, o come forme dimostrative pronominali4. Quando il dimostrativo viene usato in forma pronominale, è indispensabile che il nome omesso venga recuperato, e ciò avviene a. anaforicamente, o b. cataforicamente:

a. Nella stanza dove stavi prima faceva freddo, e in questa invece fa caldo. U sobi u kojoj si bio ranije bilo je hladno, a u ovoj je, međutim, toplo.

b.Giunse, in quella, dall’ altra stanza, la voce dell'infermo. (Luigi Pirandello, Il dovere del medico);

4 Accanto a questo e quello, nell’italiano antico si adoperavano anche le forme esclusivamente pronominali

questi e quegli, per lo più in posizione di soggetto, che si possono trovare ancora nella lingua scritta.

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Gordana Terić

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U toj, iz druge sobe, začu se glas bolesnika. Le distinzioni di prossimità si trovano nelle forme lessicali e grammaticali dei sistemi pronominali di molte lingue5. A un sistema ternario del serbo (e del croato): ovaj / taj / onaj, dove taj indica persona, cosa o concetto vicini o relativi all’interlocutore, o al destinatario dell’enunciato, corrisponde una opposizione binaria di vicinanza / lontananza del parlante dell’italiano: questo / quello. L’italiano comune oggi ha praticamente un sistema binario di dimostrativi, mentre il toscano ha conservato un sistema ternario: questo, codesto (o cotesto) e quello. La forma codesto veniva usata anche nell’italiano letterario, ed è presente ancora oggi nel linguaggio amministrativo e burocratico in veste, però, del pronome possessivo:

Dammi codesto libro. / Dammi quel libro. – Daj mi tu knjigu. - Stupido! Vattene via, levati dai piedi codesto seccatore. (L. Pirandello, Il fu Mattia

Pascal). – Budalo jedna! Odlazi i oslobodi se tog gnjavatora! Ringrazio codesto ufficio. – Zahvaljujem se vašoj službi.

Come pronome il dimostrativo dà il dovuto rilievo in una presentazione:

Questo è mio padre. – Ovo je moj otac., ma si può anche omettere:

È mio padre., mentre in serbo è obbligatorio l’uso delle forme neutre introduttive ovo / to / ono:

Quella è la via. – To je / ono je put. Fu una sera di domenica, al ritorno di una lunga passeggiata. (L. Pirandello, Il lume

dell'altra casa) Bilo je to jedne nedelje uveče, na povratku s duge šetnje. Gli alberi, a dir vero, erano soltanto tre ed erano degli eucaliptus, i più sbilenchi figli di

Madre Natura. (GiuseppeTomasi di Lampedusa, Il Gattopardo); Istini za volju, bila su to samo tri drveta i to eukaliptusi, najiskrivljeniji sinovi Majke

prirode. (traduzione di Vjera Bakotić Mijušković); -È un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare

l’altr’ieri. (Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis) - Ovo je Lorenzov prijatelj, odgovori joj Teresa, onaj kojemu je tata bio prekjučer u

pohode. (traduzione di Jerka Belan); Onaj ko bi držao poslužavnik (a to je bila najčešće moja majka) morao je da oseti pod

jagodicama tri-četiri poluloptasta ispupčenja, slična slovima azbuke za slepe. (Danilo Kiš, Bašta, pepeo);

5 Nel suo contributo sui dimostrativi Xaverio Ballester (2006:13) afferma: ”Costituisce un fatto

notevolissimo che tutte le lingue conosciute dispongano di dimostrativi e che, fino dove sappiamo, esse ne abbiano sempre disposto [...] Una circostanza, questa, che si può dire specialmente significativa, giacché in principio niente obbliga le lingue a possedere questa categoria; in teoria, i dimostrativi potrebbero essere facilmente sostituiti da perifrasi del tipo: [che è] vicino / lontano da me / te / della casa ecc.”

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Relazioni deittiche e anaforiche dei dimostrativi italiani e serbi

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Chi reggeva il vassoio (ed era perlopiù mia madre) doveva sentire sotto i polpastrelli dei pollici almeno tre o quattro rilievi emisferici, simili alle lettere dell’alfabeto per i ciechi. (traduzione di L. Costantini);

To je bio početak jedne more koja me je mučila tokom celog mog detinjstva. (ib.); Fu l’inizio di un incubo che mi tormentò per tutta l’infanzia. Nisam mogao da zamislim kako će to jednog dana da umre moja ruka, kako će da

umru moje oči. (ib.); Non riuscivo a immaginare come sarebbe morta un giorno la mia mano, come

sarebbero morti i miei occhi. (ib.)

In italiano, come anche in serbo, non c'è la tendenza al rafforzamento del dimostrativo (cfr. lat. ecce ille, franc. celui-ci) perché non c'è ancora il logoramento semantico dei dimostrativi. I dimostrativi possono essere rinforzati da particelle avverbiali deittiche, sia come pronomi che come aggettivi: questo qui, qua; quello lì, là: questo libro qui (ova knjiga ovde), quella sedia là (ona stolica tamo), quella casa là sopra (ona kuća tamo gore):

Questo qui è un nostro caro parente. - Ovaj ovde je naš rođak. Prendo quella là. – Uzeću onu tamo., Vedi quel lago laggiù? – Vidiš li ono jezero dole?

Usati in congiunzione con gli avverbi, i deittici diventano, come si è visto dagli esempi, una specie di unità identificative. In alcuni casi, specialmente quando questi nessi vengono usati col significato spregiativo indicando la relazione negativa del centro deittico rispetto al referente, non c’è equivalenza tra l’italiano e il serbo:

Guarda quest’uomo qui. – Pogledaj ovoga. Non volglio parlare con quella gente lì. – Ne želim da razgovaram sa tim ljudima. Quello lì è un cretino. – Onaj je obična budala.

I dimostrativi questo e quello sul piano sintagmatico possono essere maggiormente determinati dagli aggettivi pronominali dimostrativi stesso e medesimo:

Queste stesse cose potrebbero accadere a chiunque. - Ovo isto moglo bi se svakome

dogoditi. In quel medesimo istante / in quel momento stesso ho capito tutto - Upravo u tom

trenutku sve sam shvatio. La neutralizzazione della funzione deittica la troviamo nel processo di sostituzione, quando il dimostrativo funge da sostituto del referente, permettendo soprattutto di evitare la ripetizione dello stesso lessema:

la matita nera e quella rossa – crna i crvena olovka; Dei due vestiti quello grigio è più elegante. - Od ova dva odela, sivo je elegantnije. Quello rispose. (invece di: Marco rispose.) - Onaj odgovori. I dimostrativi individuano un referente nelle due dimensioni, quelle dello spazio e del

tempo. - Demonstrativi ukazuju na referenta u dve dimenzije: prostornoj i vremenskoj.

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Gordana Terić

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Dopo un'enumerazione, la ripresa anaforica della persona o cosa appena nominata si ottiene aggiungendo al pronome dimostrativo questo l'aggettivo ultimo (quest' ultimo, quest' ultima = 'l'ultimo nominato'):

C'erano Marco, Mario e Gianni, quest' ultimo con la moglie. –Tu su bili Marko, Mario i Đani, ovaj poslednji sa ženom.

Quando questo e quello sostituiscono nomi che sono già indicati nel discorso, questo si riferisce al nome indicato per ultimo, e quello al nome indicato per primo:

Maria e Anna sono sorelle, ma quella è bruna e questa è bionda. – Marija i Ana su sestre, samo je jedna crnokosa, a druga plava.

Nella lingua serba lo stesso meccanismo di sostituzione non è sempre possibile, e il lessema deve essere ripetuto:

Per tutti quelli che mi conoscevano, io mi ero tolto – bene o male – il pensiero più fastidioso e più affliggente che si possa avere, vivendo: quello della morte. (Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

Moji poznanici su smatrali da sam se ja – kako-tako – rešio najdosadnije i najtužnije misli koja opseda živa čoveka: misli o smrti. - *one o smrti. (traduzione di Jugana Stojanović)

Il dimostrativo non può essere usato in serbo con il complemento di specificazione possessiva:

Si sa che certe specie di pazzia sono contagiose. Quella del Paleari, per quanto in prima mi ribellassi, alla fine mi s’attaccò. (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

Poznato je da su neke vrste ludila zarazne. Palearijevo ludilo (* ono Palearijevo), protiv kojeg sam se u početku bunio, najzad je i mene uhvatilo. (traduzione di J.

Stojanović). Un lavoro difficile e spesso mal retribuito, quello dei medici. - Lekarski posao je težak i

često loše plaćen. Najzad mi je postalo jasno da se prisustvo moje svesti i prisustvo anđela sna uzajamno

isključuju, ali sam još dugo i posle toga igrao tu zamornu i opasnu igru. (Danilo Kiš, Bašta, pepeo);

Finalmente compresi che la presenza della mia coscienza e quella dell'angelo del sonno si escludevano a vicenda, ma continuai ancora a lungo a giocare questo gioco spossante e pericoloso. traduzione di L. Costantini).

Nel linguaggio scritto, specialmente quello giornalistico, si assiste spesso all'uso ridondante dei dimostrativi:

Una circostanza, questa, che si può dire specialmente significativa. - To je okolnost za koju se može reći da je posebno značajna.

È stata una cerimonia solenne quella che si è svolta ieri sera nel duomo di Milano. (Serianni 1996: p. 280) - Svečana je bila služba koja je sinoć održana u u Milanskoj katedrali.

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Relazioni deittiche e anaforiche dei dimostrativi italiani e serbi

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Mi trovavo ora coi libri d' Anselmo Palerai tra le mani, e questi libri m'insegnavano che i morti, quelli veri, si trovavano nella mia identica condizione.... (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

U rukama sam sada imao knjige Anselma Palearija i te knjige su me učile da se mrtvi, oni pravi, nalaze u istom položaju kao i ja... (traduzione di J. Stojanović);

e anche alle amplificazioni del tipo:

C'è tanto di quel lavoro (da fare) – C'è tanto lavoro (da fare). - Toliko se tog posla nakupilo.

Dormiva un sonno di quelli che si dormono solo in aprile. – Spavao je snom kakvi se snivaju samo u aprilu.

Il dimostrativo ha anche funzione di mettere in evidenza il referente, assumendo spesso il valore esclamativo:

Bel modo di ragionar, questo! - Pametan zaključak! Era una di quelle paure! – Kakav je to strah bio! Che intelligente, questa Rita. - Kako je pametna ta Rita! Quella cretina, si comporta sempre male! – Ta glupača se uvek loše ponaša!

Nell’atto comunicativo parlato l’emittente si trova in contatto diretto con il destinatario. Le forme deittiche si trovano anche nella lingua scritta nel discorso diretto o nelle opere epistolari:

“Questo naso sta bene a me e me lo piglio!” (L Pirandello, Il fu Mattia Pascal); “Ovaj nos meni bolje pristaje, sad ću mu ga uzeti!” - Pur que’ due fasci vi fanno camminare a disagio; lasciatene portare uno anche a

me. - I fasci tanto non mi darebbero noia se me li potessi reggere sulla spalla con tutte

due le braccia; ma questi due pani m’intrigano. (Ugo Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis);

- Ta vam dva naramka smetaju u hodu, dajte da vam ja ponesem jedan. - Ne bi mi smetala drva kad bih ih mogla podržavati na ramenu s obje ruke, no

smetaju mi ova dva hljeba. (traduzione di J. Belan); “Gospodo”, rekao je, “u čast ovog poslednjeg letnjeg voza, ove spasonosne

higijene, i u slavu tradicije našeg grada, Crveni će voz danas, na svom poslednjem sezonskom putovanju, prevesti sve putnike... sve putnike...” (D. Kiš, Bašta pepeo);

“Signori”, disse “in onore di quest’ultima corsa estiva, di questa igiene salutare, e a gloria delle tradizioni della nostra città, il Treno Rosso oggi, in questo suo ultimo viaggio della stagione, porterà tutti i passeggeri... tutti i passeggeri...”.

(traduzione di L. Costantini); A monsignor Boccamazza, munificentissimo donatore, in perenne attestato di

gratitudine i concittadini questa lapide posero. (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

Monsinjoru Bokamaci, veoma izdašnom darodavcu, u znak zahvalnosti ovu spomen-ploču postaviše njegovi sugrađani. (traduzione di J. Stojanović)

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Gordana Terić

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Questo scomunicato paese m’addormenta l’anima, noiata della vita.... (U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis);

Ovo mi prokleto mjesto uspavljuje dušu, umornu od života... (traduzione di J. Belan);

Questa università (come saranno, pur troppo, tutte le università della terra!). è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici fra loro... (ib.); Na ovom su sveučilištu (a takva su, sva je prilika, uopće sveučilišta na svijetu) profesori u većini oholi i neprijateljski raspoloženi među sobom... (ib.).

In questi testi i referenti sono intesi come includenti il luogo in cui si trova il parlante o l’interlocutore, mentre nei brani che seguono la deissi indica ciò che è ormai lontano dall’io narrante:

Ah s'io non mi sentissi oramai spento quel foco celeste che nel tempo della fresca mia gioventù spargeva raggi su tutte le cose che mi stavano intorno, mentre oggi vo brancolando in una vota oscurità! (ib.)

Ah, da se već nije ugasio onaj božanski plamen što je u drago doba moje rane mladosti rasipao zrake na sve što me okruživalo, dok danas teturam u potpunom mraku!

.... ripassano ad uno ad uno dinanzi a me tutti que' giorni che furono i più affannosi e i più cari della mia vita. (ib.)

... oživljuju pred mojim očima jedan po jedan svi oni dani koji bijahu najmučniji i najljepši u mom životu.

Oltre alla funzione deittica, i dimostrativi, come abbiamo ribadito, hanno anche la funzione anaforica quando rinviano a qualcuno o a qualcosa di cui si è parlato precedentemente, indicando l’antecedente, o più raramente, per anticipare la persona, la cosa o il concetto di cui si parlerà in seguito, indicando il postcedente. L'anafora è un procedimento che si trova tra la sintassi e la semantica. Un sostantivo è indispensabile per compiere l'atto di referenza e questo termine referenziale precede il dimostrativo (nell'uso anaforico), e non si può trovare nella stessa frase semplice in cui è situato il dimostrativo. In italiano le forme dimostrative conservano i tratti vicino/lontano anche in funzione anaforica, mentre in serbo, come vedremo, ciò non accade sempre, e quindi i dimostrativi spesso non coincidono, specialmente nel caso del discorso indiretto nel testo narrativo. Mentre nel discorso diretto abbiamo il hic et nunc dell'emittente e dell'interlocutore, un periodo di tempo più o meno lungo passa tra la produzione del testo e la sua ricezione da parte del lettore. Nel discorso indiretto testuale il dimostrativo indica persona, cosa o concetto di cui si è trattato poco prima o di cui si tratterà poco dopo, o persona o cosa nominata precedentemente e nota a chi ascolta o legge, ma può anche designare un astratto rapporto di vicinanza e lontananza che si crea nell’interazione tra il narratore e il lettore. Dalla realtà del parlante passiamo ora alla realtà del narratore che esprime un discorso rivissuto, nella forma del discorso indiretto e anche, nella narrativa moderna, del discorso indiretto libero. Prendiamo le frasi iniziali di due racconti pirandelliani, dove il referente camera viene introdotto per la prima volta. L’italiano può usare sia questo che quello per introdurre il referente, per poi passare obbligatoriamente a quello. Invece, in serbo l’indice referenziale, in ambedue i casi, è la forma taj:

Si dà pur luce ogni mattino a questa camera, quando una delle tre sorelle a turno viene a ripulirla.... (L. Pirandello, La camera in attesa);

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Relazioni deittiche e anaforiche dei dimostrativi italiani e serbi

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Svijetlo ipak prodire u tu sobu svakog jutra, kad jedna od triju sestara izmjenično dolazi da je uredi.... (traduzione di Dubravko Dujšin);

Fu una sera di domenica, al ritorno da una lunga passeggiata. Tullio Buti aveva preso in affitto quella camera da circa due mesi. (L. Pirandello, Il lume dell’altra casa).

Bilo je to jedne nedelje uveče, po povratku s duge šetnje. Tulio Buti je iznajmio tu sobu još pre neka dva meseca.

Difatti, quella sera, non è stata cambiata l'acqua della boccetta... (L. Pirandello, La camera in attesa);

I zaista, te večeri nisu promijenili vodu u boci... (traduzione di D. Dujšin); All’interno delle vetture, chiuse appunto per quel sole e quel polverone, la temperatura

aveva certamente raggiunto i cinquanta gradi. Quegli alberi assetati che si sbracciavano sul cielo sbiancato annunziavano parecchie cose... (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo);

Unutar kočija, zatvorenih upravo zbog tog sunca i te prašine, temperatura je svakako dostigla i svih pedeset stepeni. To žedno drveće koje je širilo ruke ka bledom nebu najavljivalo je :... (traduzione di V. Bakotić Mijušković).

Quando il narratore, specialmente quando coincide con l'io-narrante, ha un rapporto emotivo di vicinanza con il referente o c'è comunque l'inclusione del narratore, il dimostrativo usato in italiano è questo, mentre in serbo la forma è sempre taj, ed è un errore usare il dimostrativo ovaj:

Questa sua delicata perplessità, questo riserbo onesto m’impedirono intanto di trovarmi subito a tu per tu con me stesso.... (L.Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

*Ova njena fina neodlučnost, *ova čestita uzdržanost, sprečavale su me da se suočim sa samim sobom.... (traduzione di J. Stojanović) - Ta njena fina neodlučnost, ta čestita uzdržanost sprečavale su me da se suočim sa samim sobom...;

Ti su prstenčići, boje prljavštine ispod nokata, nastali od kafenog taloga, ribljeg zejtina, meda i šerbeta... (D. Kiš, Bašta, pepeo);

Questi minuscoli anelli, del colore della sporcizia che si forma sotto le unghie, erano i resti di fondi di caffè, di olio di fegato di merluzzo, di miele e di sciroppo. (traduzione di L. Costantini);

Nošeni inercijom dana i navike, mi smo nastavili da posećujemo zamak tokom celog tog leta. (ib.);

Spinti dall'inerzia delle giornate e dall'abitudine, continuammo a far visita al castello per tutta quell' estate.;

Začuđen i prestravljen, shvatih tada da sam ja jedan dečak po imenu Andreas Sam, koga majka od milja zove Andi, da sam ja jedini sa tim imenom, sa tim nosom, sa tim ukusom meda i ribljeg zejtina u ustima...(ib.);

Meravigliato e sbigottito, capii allora che io ero un ragazzo di nome Andreas Sam, che la madre chiamava affettuosamente Andi, che ero il solo con quel nome, con quel naso, con quel gusto di miele e di olio di fegato di merluzzo in bocca... .

Sul piano sintagmatico, nella struttura dimostrativo + aggettivo qualificativo va usato l'aspetto determinato dell' aggettivo serbo:

Quanto mi sta d’intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. (U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis)

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Sve što me okružuje budu u mom srcu slatki san mog djetinjstva. (traduzione di J. Belan)

Precipitoso Già mi sarei fra gl’inimici ferri Scagliato io da gran tempo; avrei già tronca Così la vita orribile ch’io vivo. (V. Alfieri, Saul, II,1) Odavno bih se bio među dušmanske mačeve bacio strelovito, pa prekinuo tako užasni ovaj život koji živim.

Come abbiamo visto, mentre nel discorso diretto il dimostrativo è deittico, e la sua funzione dipende solo dalla presenza del referente, nel discorso indiretto il ruolo del dimostrativo dipende anche dall’atteggiamento del narratore ed è altresì condizionato dal status lessicale del referente testuale6. La deissi testuale del discorso indiretto non è quella della deissi spazio-temporale del discorso diretto. Quando quello indica il rapporto deittico di lontananza spaziale o temporale, in serbo si usa il dimostrativo onaj:

Spirava in quelle stanze, da tutti i mobili d’antica foggia, dalle tende scolorite, quel

tanfo speciale delle cose antiche, quasi il respiro di un’un altro tempo... (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

U tim prostorijama, sa starinskim nameštajem i izbledelim zavesama, širio se onaj osobiti vonj stareži, koji je u stvari bio miris jednog drugog doba... (traduzione di J. Stojanović);

E il calendario? Quello lí, presso la finestra, è già il secondo. L'altro, dell'anno scorso, s'è sentito strappare a uno a uno tutti i giorni dei dodici mesi, uno ogni mattina... (L. Pirandello, La camera in attesa);

A kalendar? Onaj pokraj prozora već je drugi. Onaj od prošle godine osjetio je kako su mu istrgnuli jedan po jedan sve dane svih dvanaest mjeseci, svakog jutra jedan... (traduzione di D. Dujšin);

... e stette lì, dietro ai vetri, come un mendico, ad assaporare con infinita angoscia quell'intimità dolce e cara, quel conforto familiare, di cui gli altri godevano, di cui anch'egli, bambino, in qualche rara sera di calma aveva goduto, quando la mama... la mamma sua... come quella.... (L. Pirandello, Il lume dell’altra casa);

... te je stajao tu iza stakala kao prosjak, da se sladi u beskonačnoj tjeskobi onom slatkom i dragom prisnošću, onom domaćom udobnošću, koju drugi uživaju, koju je i

6 Di queste difficoltà nella scelta del dimostrativo parla anche Lyons: ‘This’ and ‘that’, in English, may be

used deictically to refer not only to objects and persons in the situation and to linguistic entities of various kind in the text and co-text, but also to refer to events that have already taken place or are going to take place in the future. The conditions that govern the selection of ‘this’ and ‘that’ with reference to the events immediately preceding and immediately following the utterance in which ‘this’ and ‘that’ occur, are quite complex. They include a number of subjective factors (such as the speaker’s dissociation of himslef from the event he is referring to), which are intuitively relatable to the deictic notion of proximity/non-proximity, but are difficult to specify precisely.” - J. Lyons, Semantics II, op.cit., p. 668.

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on kao dijete uživao neke rijetke tihe večeri, kad je mamica... njegova mamica... poput one... (traduzione di Tin Ujević).

Le traduzioni italo-serbe dimostrano la tesi di Diessel (1999b:155) che il dimostrativo può trasformarsi in altre parti del discorso. Diessel nomina seguenti classi di parole come potenziali sostituti dei dimostrativi: avverbi temporali, articoli definiti, articoli indefiniti, complementatori, connettivi proposizionali, coordinanti, copule verbali, determinativi adnominali, determinativi pronominali, espletivi, marche di casi, marche di classi nominali, marche di focus, marche di genere, marche di numero, marche di confine (boundary markers), di proposizioni relative postnominali, possessivi, preverbi direzionali, pronomi di III persona e relativi. Come dice Ballester (2006:23), “Il dimostrativo è un autentico coltello svizzero della lingua”. Noi abbiamo individuato seguenti trasformazioni dei dimostrativi italiani e serbi: 1. dimostrativo serbo → articolo determinativo / indeterminativo italiano Nella prosa del discorso indiretto molto spesso il dimostrativo, in posizione anaforica, assume il ruolo dell’articolo determinativo. La grammatica strutturale e generativa considera gli aggettivi dimostrativi come determinanti della stessa natura dell’articolo, con esso commutabile. In tutte le lingue con l'articolo, l'articolo deriva dalle forme dimostrative, attraverso una fase in cui esiste una specie di articoloïde. Questa tendenza delle lingue senza articolo a usare il dimostrativo come una specie di sostituto o di articoloïde è presente anche in serbo e in croato, il che si vedrà in seguito in alcune traduzioni italiane. Nell'origine dell'articolo, non bisogna dimenticare, il punto di partenza è sempre un dimostrativo:

Io non l’ ho amata; ma fosse compassione o riconoscenza per avere ella scelto me solo consolatore del suo stato.... davvero ch’io avrei fatta volentieri compagna di tuta la mia vita. (U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis);

Nisam je ljubio; no bilo to iz samilosti što je baš mene izabrala za svoga tješitelja u onom teškom stanju... doista bih je rado bio uzeo za saputnicu sveg svog života. (traduzione di J. Belan);

Io compiango lo sciagurato che può destarsi muto, freddo e guardare tanti benefici senza sentirsi gli occhi bagnati dalle lagrime della riconoscenza. (ib.);

Sažaljevam onog nesretnika koji se budi nijem i hladan i može gledati tolike blagodati a da mu se oči ne ovlaže suzama zahvalnicama.

Due giorni dopo, il codardo scansò le vie dell’onore, ch’ io gli aveva esibite.... (ib.); Dva dana nakon toga onaj se podlac ugnuo s puta časti koji sam mu predložio. Il trotto sui percorsi piani si era brevemente alternato alle lunghe lente arrancate delle

salite, al passo prudente delle discese... (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo); Kas kojim su prelažene ravnice ubrzo je smenjivao dug, i težak korak ka uzbrdicama,

potom onaj oprezni, na nizbrdici... (traduzione di V. Bakotić Mijušković); Tullio Buti andava per via sempre solo, senza neanche i due compagni dei solitari più

schivi: il sigaro e il bastone. (L. Pirandello, Il lume dell’altra casa); Tullio Buti išao je ulicom uvijek sam, te ga nisu pratila ni ona dva pratioca najgorih

samotara, koji najviše izbegavaju društvo: cigara i štap. (traduzione di T. Ujević)

I dimostrativi condividono con l’articolo determinativo la stessa caratteristica di informare il destinatario del messaggio che il referente è noto e individuabile, e perciò in alcuni casi queste due categorie sono intercambiabili. Nella maggioranza dei casi, però, non è così, perché i dimostrativi forniscono anche le informazioni riguardanti il rapporto tra il referente e il centro

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deittico rispetto allo spazio e al tempo. L’uso molto diffuso di taj in serbo come indice referenziale mostra che questo dimostrativo va perdendo le sue proprietà dimostrative per assumere le caratteristiche dell’articolo determinativo, in quanto il dimostrativo taj non localizza il referente all’interno di uno spazio o dentro una dimensione temporale, bensì lo rende definito:

U kasna letnja jutra majka je ulazila bešumno u sobu, noseći poslužavnik. Taj je poslužavnik već počeo da gubi tanku niklovanu glazuru kojom je nekad bio prevučen. (D. Kiš, Bašta pepeo);

D'estate, a mattina avanzata, mia madre entrava in camera senza far rumore, con il vassoio in mano. Il vassoio stava ormai perdendo il suo sottile rivestimento di nichel. (traduzione di L. Costantini );

Između tih golemih arkada pružali su se svodovi obrasli lišćem kao bršljanom. Čitava ta arhitektura stajala je u dane ravnodnevice, ili u obične dane bez vetra, nepokretna i stabilna u svojim smelim konstrukcijama... (ib.)

Tra le enormi arcate si aprivano volte sulle quali il fogliame si stendeva come edera. Nei giorni di equinozio, o nelle normali giornate senza vento, tutta questa architettura appariva salda e immobile nelle sue audaci costruzioni...

... jedan je od brojeva postao u jednom trenutku broj godina, a time su i svi ostali brojevi zadobili to isto značenje (ib.)

... uno dei numeri divenne all'improvviso un numero di anni, e di conseguenza, anche tutti gli altri numeri acquistarono lo stesso significato.

Qualche volta in serbo c’è il dimostrativo che corrisponde all’articolo zero in italiano:

Te su teglice i čaše bile samo uzorci, specimeni onih novih zemalja pri kojima bi ujutru pristao ludi šlep naših dana. (ib.);

Vasetti e bicchieri non erano altro che i campioni delle nuove terre alle quali approdava al mattino la folle chiatta delle nostre giornate.

o all'articolo indefinito:

Jer kakav je to vek, dvesta godina, za majku dečaka koji je rešio da se izmigolji smrti,

ne kao gušter, nego kao čovek koji ima, koji će imati, siguran plan (u kome nema slučajnosti i improvizacije): taj će plan biti smišljan i domišljan tokom jednog ljudskog života. (ib.);

Perché che cos'erano duecento anni per la madre di un ragazzo che ha deciso di eludere la morte non come una lucertola, ma come un uomo che ha, che avrà un piano sicuro in cui nulla è lasciato al caso o all'improvvisazione: un piano da concepire e mettere a punto nel corso di un'intera vita umana.

Eduard Sam, jer to nije niko drugi nego on, tajanstveni Otac, pojavljuje se u toj kafani iznenadno te mutne jesenje večeri 1930. godine... (ib.);

Eduard Sam, perché è di lui che si tratta, il Padre misterioso, compare in questo caffè all’improvviso, una cupa sera dell’autunno 1930... .

2. dimostrativo → connettivo Un dimostrativo può trovarsi in relazione anaforica con una frase che è l’antecedente del dimostrativo. In tal caso, nelle frasi complesse, il dimostrativo funge da connettivo:

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Gli disse che era pigro. Questa osservazione lo colpì. - Reče mu da je lenj. Ta opaska ga je pogodila. Io intanto sono abbandonnata da tutti! E a questa parola, le lagrime le piovevano dagli

occhi. (U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis); Mene su svi napustili! Na te riječi obliju je suze. (traduzione di J. Belan); ... io credo che il destino abbia scritto negli eterni libri: L’uomo sarà infelice. Né oso

appellarmi di questa sentenza, perché non saprei forse a che tribunale... (ib.); ... vjerujem da je Usud zapisao u knjigama vjekovečnim: Čovjek će biti nesretan. Ne

usuđujem se žaliti protiv te izreke, jer možda i ne znam kome sudu da se obratim... Nije da je moja ljubav prema majci bila oslabila; to nikako. (D. Kiš, Bašta, pepeo); Non che il mio amore per mia madre fosse diminuito, questo no. (traduzione di

L.Costantini).

La frase può anche seguire il dimostrativo, e in tal caso diventa il postcedente:

Senti questa: Giovanni si sposa. Čuj ovo: Đovani se ženi.

3. dimostrativo → sostantivo I dimostrativi si possono trasformare in unità lessicali diventando sostantivi. Nella forma femminile si sottintende cosa, specialmente in formule esclamative del tipo:

Questa proprio non ci voleva. – Ovo nam zaista nije bilo potrebno. Questa me la pagherai! - Ovo ćeš mi skupo platiti! Questa non la passi liscia. – Ovo ti nece proći. Questa poi non me l’aspettavo. – Ovo zaista nisam očekivao. / Ovome se nisam

nadao. Questa è veramente bella. - To je zaista lepo (sjajno). Questa poi... - Što je mnogo, mnogo je. Questa è nuova. – (si sottintende 'storia', 'cosa') – To još nisam čuo. Questa gliela faccio pagare – ('cattiva azione') – Ovo će mi platiti. Ci mancherebbe anche questa! ('sventura ') - Samo bi nam to falilo! Ne fa di quelle – (‘sciocchezze’) – Taj pravi svakojaka čuda. Questo dell’acquasantiera m’indusse a pensare che, fin da ragazzo, io non avevo

più atteso a pratiche religiose... (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal); (Taj) slučaj s kropionicom naveo me je na razmišljanje kako još od dečačkog doba nisam obavljao verske dužnosti... .

Il dimostrativo quello si può lessicalizzare in sostantivi ‘uomo', 'donna': quello con gli occhiali, quella del diadema – onaj s naočarima, ona s dijademom. Il sostantivo italiano 'persona' può essere tradotto con il dimostrativo serbo:

Tutti erano bianchi di polvere, fin sulle ciglia, le labbra o le code; nuvolette biancastre si alzavano alle persone, che, giunte alla tappa, si spolveravano l’un l’altra. (G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo);

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Svi su bili beli od prašine sve do trepavica, usana ili repova; beličasti oblačići dizali su se oko onih koji su se, stigavši do odmorišta, međusobno čistili od prašine. (traduzione di V. Bakotić Mijušković);

3. dimostrativo → aggettivo I dimostrativi possono assumere il significato di alcuni aggettivi: a. ‘simile’, ‘di tale genere’ – ‘takav’ / ‘ovakav’ / ‘onakav’:

Se le umane frenesie che col nome di scienze e di dottrine si sono iscritte e stampate in

tutti i secoli, e da tutte le genti, si riducessero a un migliaio di volumi al più, e’ mi pare che la presunzione de’ mortali non avrebbe da lagnarsi – e via sempre con queste dissertazioni. (U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis);

Kad bi se ljudske ludosti, koje su pod imenom nauke i doktrine napisane i objavljene u svih naroda, u svim vjekovima, svele na najviše tisuću svezaka, čini mi sa da ljudska umišljenost ne bi imala za čim da žali – no pustimo sad ovakva mudrovanja. (traduzione di J. Belan);

“Ti sei davvero fatta codesta corsa per così poco!” (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal); “I ti si ovoliko jurio zbog takve budalaštine!” (traduzione di J. Stojanović); Osetivši moju zbunjenost, ona prošaputa, i ne pogledavši me: “Ti ga nisi poznavao”, i

činilo se da je i sama bila začuđena činjenicom što je ta nenadna smrt osujetila jedno poznanstvo puno obećanja. (D. Kiš, Bašta, pepeo);

Avvertendo la mia agitazione, sussurrò, senza guardarmi: ”Tu non lo conoscevi”, e parve lei stessa meravigliata e toccata dal fatto che tale morte inattesa avesse reso impossibile un incontro pieno di promesse. (traduzione di L.Costantini);

Tim verovanjem, tom iluzijom o svojoj svemoći, uspeo sam da se smirim... (ib.) Con tale fede, con tale illusione della mia onnipotenza, riuscii a tranquillizzarmi.... Non voglio più sentire di queste storie. - Neću više da čujem takve priče.

b. ‘lo stesso’ – ‘isti’:

È sempre quello. – Uvek je isti. Non è più quella di una volta. – Nije više ono što je bila (ona stara).

c. ‘pericoloso’, ‘scaltro’:

Buono quello!- Baš je opasan / lukav! 4. dimostrativo → pronome personale Il dimostrativo può fungere da sostituto del pronome personale:

È quello / quella che cercavo. = È lui / lei che cercavo. On je taj / ona je ta koga sam / koju sam tražio. = Njega / nju sam tražio. Malagna, entrato da tanto tempo nella convinzione che non ne aveva avuti dalla prima

moglie solo per la sterilità di questa, non concepiva ora neppur lontanamente il sospetto che potesse dipender da lui. (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

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Malanja je živeo u ubeđenju da s prvom ženom nije imao dece samo zato što je ona bila jalovica, pa sad nije mogao ni pomisliti da to i od njega može zavisiti. (traduzione di J. Stojanović)

- Oh sa, signorina, - diss’io a questa una sera, - che quasi ho deciso di seguire il suo consiglio? (ib.)

- Znate, gospođice, rekao sam joj jedne večeri – gotovo sam se rešio da poslušam vaš savet!

Il valore deittico esclamativo si ottiene mediante l’avverbio deittico ecco, unito ai pronomi personali atoni in posizione enclitica:

O! mi vado strofinando le mani per lavare la macchia del suo sangue - le fiuto come se fumassero di delitto. Frattanto eccole immacolate, e in tempo di togliermi in un tratto dal pericolo un giorno di più... (U. Foscolo, Le ultime lettere di Jacopo Ortis);

Oh, trljam ruke da zbrišem mrlju njegove krvi – vonjam ih kao da odišu zločinom. Međutim, one su neosknavljene, i još sposobne da me na vrijeme u jedan mah oslobode pogibelji da živim jedan dan više... (traduzione di J. Belan).

5. dimostrativo → pronome possessivo: Il dimostrativo italiano sostituisce l’aggettivo possessivo con le parti del corpo, ma anche con altri lessemi:

L’ho visto con questi occhi. - Svojim sam očima to video. L’ho sentito con queste orecchie. – Svojim sam ušima to čuo. Con queste braccia, da solo, mi sono creato una posizione. - Sa svojih deset prstiju,

sasvim sam, stekao sam položaj u društvu. Pur troppo! tu cominci a gustare i primi sorsi dell’amaro calice della vita, ed io con

questi occhi ti vedrò infelice, né potrò sollevarti se non piangendo!... ( U. Foscolo. Le ultime lettere di Jacopo Ortis);

Na žalost, ti već počinješ srkati prve gutljaje gorčine iz kaleža života: ja ću te ovim svojim očima gledati nesretnu i moći ću te tješiti samo svojim plačem! (traduzione di J. Belan);

Buona notte, Lorenzo. Serbati questa lettera: quando Odoardo porterà seco la felicità, ed io non vedrò più Teresa, né più scherzerà su queste ginocchia la sua ingenua sorellina, in que’ giorni di noia ne’ quali ci è caro perfino il dolore, rileggeremo queste memorie... (ib.);

Laku noć, Lorenzo. Sačuvaj ovo pismo. Kao Odoardo odvede sa sobom sreću, i ja više neću vidjeti Teresu, a njena se nevina sestrica neće više igrati na mojim koljenima, u tim ćemo dosadnim danima, kad nam čak i sama bol bude mila, ponovo čitati ove uspomene... (traduzione di J. Belan).

Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa... (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

Tim svojim očicama Pincone je primećivao mnogo štošta u našoj kući... (traduzione di J. Stojanović);

Se non fosse per quest’occhio di lui di quell’imbecille, no saresti poi, alla fin fine, tanto brutto, nella stranezza un po’ spavalda della tua figura. (ib.);

Da ti nije tog njegovog oka, oka one budale, ne bi ni bio baš toliko ružan i pored tog čudnog i pomalo nadmenog lika.

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Ona je to izgovorila svesna efekta koji će te reči izazvati u meni... (D. Kiš, Bašta, pepeo);

Dicendo questo, era certa dell'effetto che le sue parole avrebbero prodotto su di me. (traduzione di L. Costantini);

Notavo che Adriana stessa, la quale non mi rivolgeva mai alcuna domanda men che discreta, stava pure tutta orecchi ad ascoltare ciò che rispondevo a quelle della Caporale.... (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

Primećivao sam da je i sama Adrijana, koja mi nikad nije uputila nijedno privatno pitanje, ipak dobro načulila uši kako joj ne bi izmakli moji odgovori gospođici Kaporale. (traduzione di J. Stojanović);

Quel suo fare arrogante mi dava ai nervi. – Nervirala me je njegova grubost.

6. dimostrativo → pronome relativo in funzione appositiva Nella lingua serba il pronome relativo italiano in funzione appositiva può diventare il dimostrativo con la successiva trasformazione della frase relativa in una frase coordinata:

La povera Oliva non rispondeva, non sapeva che dire; veniva spesso a casa nostra per sfogarsi con mia madre, che la confortava con buone parole a sperare ancora, poiché infine era giovane, tanto giovane... (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal);

Jadna Oliva mu na to ništa nije odgovarala – nije znala šta da mu kaže. Često je dolazila kod nas i tužila se majci, a ova ju je blago hrabrila da ne gubi nade, jer još je mlada, tako mlada... (traduzione di J.Stojanović)

All’ufficio, non scambiava mai una parola con nessuno dei colleghi, i quali, tra gufo e orso, non avevano ancora stabilito quale dei due appellativi gli quadrasse di più. (L. Pirandello, Il lume dell’altra casa);

U uredu nije nikad izmjenjivao ni riječi ni s kojim od svojih drugova; a ovi još nisu uspjeli odrediti, koji mu od ova dva nadimka bolje pristaje: sova ili medvjed. (traduzione di T.Ujević)

7. dimostrativo → avvverbio Il dimostrativo può avere anche funzione d’avverbio:

Ma il totale rivolgimento della loro fortuna... venne principalmente da una cagione

diversa dalle predette: e fu questa. Era tra quelle larve... una chiamata nelle costoro lingue Sapienza....( Giacomo Leopardi, Operette morali);

Ali potpuni preobrat njihove sreće.... došao je poglavito zbog drugačijeg razloga, no što su oni ranije spomenuti. Evo tog razloga: Među sjenama bila je jedna koju su oni na svojim jezicima nazivali Mudrošću... (prevod. I. Adum);

Smatrali smo samo, jednostavno, i tu se potpuno slažem s mojom majkom, da jedan napušten zamak, koji nudi lepotu svojih ruina radoznalom oku, možemo smatrati delom svog sopstvenog bogatstva... (D. Kiš, Bašta, pepeo);

Pensavamo soltanto, e in questo ero perfettamente d'accordo con mia madre, che un castello abbandonato, che offre la bellezza delle sue rovine all'occhio curioso, potevamo considerarlo parte della nostra ricchezza... (traduzione di L. Costantini);

“Ti sei davvero fatta codesta corsa per così poco!” (L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal); “I ti si ovoliko jurio zbog takve budalaštine!” (traduzione di J. Stojanović).

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Il rapporto epidittico, che esplica funzione deittica, anaforica e sostitutiva, è un fenomeno molto complesso e ancora non ben approfondito nelle ricerche linguistiche, sia dal punto di vista teorico sia da quello grammaticale7, anche se negli studi più recenti la referenza viene vista non solo sotto il profilo semantico, ma viene incluso anche l'aspetto pragmatico del problema8. Tuttavia, questo non basta, perché il contesto referenziale va ampliato ai testi scritti e alla testualità narrativa, dove spesso i rapporti tra il parlante e i partecipanti del discorso, e tra il narratore, o l’io narrante, e il lettore, presentano importanti problemi per il linguista, ma anche per il traduttore. Nella nostra analisi abbiamo cercato di mettere in luce l’area semantica e i risvolti pragmalinguistici dei dimostrativi questo e quello, confrontandoli con le corrispettive forme dimostrative serbe ovaj, taj, e onaj, in una varietà di discorsi con diversi contesti referenziali. Riferimenti bibliografici: X. BALLESTER, In Pricipio Era il Dimostrativo, in: “Quaderni di Semantica”. Studi in onore di

Mario Alinei, XXVII,1-2/2006, pp. 13-30; J. BRUNET, Grammaire critique de l’italien, 4 (Le démonstratif, les numéraux, les indéfinis),

Parigi, Université di Paris VIII, Vincennes, 1981; H. DIESSEL, The Morfosyntax of Demonstratives in Synchrony and Diachrony, in: “Linguistic

Typology”, 3, 1999, pp. 1-49; H. DIESSEL, Demonstratives. Form, Function and Grammaticalization, Amsterdam /

Philadelphia, 1999; K. S. DONNELLAN, Speaker’s Reference, Descriptions and Anaphora, in: Contemporary

Perspectives in the Philosophy of Language, Minneapolis, 1979, pp. 28-44; F. GIUSTI FICI, Relazioni anaforiche tra lingue con e senza articolo, in: Mondo slavo e cultura

italiana, Roma, 1983, pp. 153-161; I. KLAJN, Dimostrativi, deissi e sostituzione, “Lingua Nostra”, XLVII, 4 – dicembre 1986, pp.

116-121; I. KLAJN, Intorno alla definizione del pronome, “Linguistica”, XV, 1975, pp. 79-91; I. KLAJN, O funkciji i prirodi zamenica, Beograd, 1985; I. KLAJN, O zamenicama i pojmu zamenjivanja, “Anali Filološkog fakulteta”, 12, 1977, pp. 547-

63; S. KRIPKE, Speaker’s Reference and Semantic Reference, in: Contemporary Perspectives in the

Philosophy of Language, Minneapolis, 1979, pp. 6-27; J. LYONS, Semantics, 1-2, Cambridge, 1977; L. RENZI ( a cura di), Grande grammatica di consultazione, vol. I-III, Bologna, 1991; L. SERIANNI (con la collaborazione di A. CASTELVECCHI), Grammatica italiana. Italiano

comune e lingua letteraria, Torino, 1996.

7 Si veda a proposito: Ivan Klajn, Dimostrativi, deissi e sostituzione, op. cit., che dice a pagina 117: “Più o

meno in tutte le grammatiche, la descrizione dei pronomi si limita alla sola morfologia, mentre del funzionamento di queste parole, del loro significato e dell’uso nel contesto non si dice quasi nulla”.

8 L'approccio più completo al problema lo troviamo nella Grande grammatica di consultazione, a cura di L. Renzi, op. cit.

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Gordana Terić

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Gordana Terić

DEIKTIČKI I ANAFORIČKI ODNOSI IZMEĐU ITALIJANSKIH I SPRSKIH POKAZNIH ZAMENICA

(R e z i m e)

Italijanske pokazne zamenice questo i quello i njihovi ekvivalenti u srpskom i hrvatskom, ovaj, taj i onaj, kada u direktnom govoru ukazuju na prostornu i vremensku deiksu, pokazuju, kao što se može videti iz odgovarajućih primera, prilični stepen podudarnosti. Jedini problem predstavlja kako tripartitni odnos srpskohrvatskih demonstrativa uklopiti u svedeni dvočlani odnos nastao u savremenom italijanskom povlačenjem demonstrativa codesto i prenošenjem njegovog semantičkog identiteta na oblike questo i quello. Poređenje tekstualne deikse indirektnog govora u narativnom tekstu i narativnom monologu svedoči o velikim razlikama u ova dva pronominalna sistema. Dok italijanski zadržava odnos blizine i daljine i u anaforičkoj funkciji, u srpskom i hrvatskom posebnu ulogu dobija demonstrativ taj, kojem pripovedač daje različite funkcije, a mnoge od njih su, kao što se moglo videti iz italijanskog prevoda Kišove proze, čisto determinativne i nedeiktičke, te čine od ove pokazne zamenice neku vrstu artikuloida. To deiktičko osiromašenje demonstrativa taj najbolje se vidi u prevodima na italijanski jezik, gde ovaj oblik često dobija vrednost određenog, a nešto reše neodređenog ili nultog člana. U ovom kontrastivnom prilogu nastojali smo da ukažemo i na to da demonstrativi potencijalno mogu postati i druge vrste reči, i da, kroz odgovarajuće primere iz oba jezika, otkrijemo mogućnosti njihove transformacije u imenice, prideve, lične, prisvojne i odnosne zamenice, konektore i priloge, pored, naravno, već pomenutih transformacija koje se tiču određenog i neodređenog člana.

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Željko ĐURIĆ (Università di Belgrado)

GABRIELE D’ANNUNZIO E LA SUA “ODE ALLA NAZIONE SERBA”.

ELEMENTI PER UNA NUOVA LETTURA Parole chiave: Gabriele D’Annunzio, Ode alla nazione serba. Nel prezioso testo sulla dannunziana Ode alla nazione serba scritto dal professor Mate Zorić1 sono stati citati alcuni dati di grandissima importanza che testimoniano della prima ricezione dell’ode di Gabriele D’Annunzio. Si descrive, per esempio, l’episodio commovente di un gruppo di Serbi che in quanto soldati austroungarici vennero imprigionati in Italia (a Gavi, in Liguria) e che lessero la poesia dannunziana sulla Serbia subito dopo la sua pubblicazione nel “Corriere della sera”, verso la fine del novembre del 1915. Il testo dell’ode destò subito in loro sentimenti patriottici, la tradussero in serbo in versi decasillabi, tipici della poesia popolare serba, e scrissero in seguito una lettera allo stesso D’Annunzio chiedendogli di aiutare un loro trasferimento nell’esercito serbo2. Un’altra reazione, di carattere ufficiale, venne dalla parte del governo serbo. Siccome Gabriele D’Annunzio aveva regalato il manoscritto dell’ode e alcuni esemplari stampati al re Pietro I, quegli, tramite il ministro Ristić che si trovava a Roma, mandò una risposta fatta di parole scelte e piene di gratitudine (“Al fulgido vate consolatore, grazie vivissime ...”)3. Possiamo ben immaginare che il gesto dannunziano per il re e per il governo serbo avesse avuto il significato di un forte appoggio alla Serbia, che si trovava in un momento difficilissimo della prima guerra mondiale; possiamo, ancor più facilmente, immaginare che ai soldati imprigionati di origine serba fosse balzato il cuore in gola dalla felicità, quando nel testo del famoso poeta videro gli eroi della propria nazione, i nomi dei loro fiumi, dei loro monti e dei luoghi a loro cari. Questi due episodi significativi, insieme al fatto che il rinomato poeta serbo, Milutin Bojić aveva tradotto in serbo l’ode dannunziana quasi subito dopo la sua pubblicazione, nell’atmosfera drammatica della prima guerra mondiale, hanno avuto un ruolo decisivo nella ricezione esclusivamente positiva del testo dannunziano nella cultura e nella letteratura serba. A noi però sembra che quella ode, glorificata come un segno di indubbio sostegno alla Serbia nella guerra, offra gli elementi per una diversa lettura che porterà alla luce, crediamo, alcuni suoi aspetti problematici. Gli interpretatori, in sede letteraria, di quel componimento, sia serbi che italiani, sono stati attratti, logicamente, dall’abbondante presenza di materiale letterario appartenente alla

1 Mate Zorić, Danuncijeva “Ode alla nazione serba” i njezini prevodioci, Glas SANU, II, 1980, 81-154. 2 Idem, 106. 3 Idem, 107.

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poesia popolare e alla storia serba che Gabriele D’Annunzio aveva a disposizione in alcune opere di Niccolò Tommaseo, prima di tutto nella famosa antologia di poesia popolare (Canti popolari corsi, toscani, illirici, greci) e nella prefazione, in quella ai “canti illirici”. Nell’Ode alla nazione serba, Gabriele D’Annunzio, come molte volte prima, volle impressionare i lettori con la sua arte poetica basata su una curata e dettagliata preparazione del materiale linguistico, immaginativo e retorico. In quella operazione Niccolò Tommaseo, o più precisamente, la sua Antologia e il suo Dizionario della lingua italiana gli furono di grande aiuto. Il materiale preparato in quel modo fu in seguito organizzato e strutturato secondo gli intenti poetici dell’autore: scrivere un “forte” componimento poetico di carattere politico-militare che si sarebbe accordato bene con quell’atmosfera di guerra il cui creatore più importante, o uno dei più importanti, fu proprio Gabriele D’Annunzio. Il meccanismo implacabile della sua “poetica strumentale” adeguò poi, neutralizzò, trasformò e deformò il materiale accumulato nella maniera che corrispondeva alle intenzioni del poeta.

Ai prigionieri di Gavi bastava vedere e leggere i nomi dei loro eroi e dei loro villaggi in patria; bastava questo per accendere in loro la fiamma patriottica. Per il re e per gli uomini politici serbi dell’epoca, i versi dannunziani avevano un suono piacevole, grave e importante allo stesso tempo (di un grande poeta, “fulgido Vate consolatore”). Se D’Annunzio è stato un grande poeta è stato anche un grande manipolatore letterario, quando aveva bisogno di esserlo; molto di più il secondo, purtroppo, quando si è trattato dell’Ode alla nazione serba. Quella forte letterarietà dell’espressione di D’Annunzio che a quel poeta italiano è stata molte volte di grande peso e che egli non sempre riusciva a controllare bene, quella letterarietà nell’Ode alla nazione serba ha uno dei suoi esiti più “duri”. Dimostreremo, su alcuni esempi tratti dalla nostra ode, proprio quelle caratteristiche del discorso poetico dannunziano. Cominceremo dal personaggio di Miloš Vojnović del famoso canto popolare Ženidba Dušanova (Nozze dello zar Dušan): si tratta di un eroe dotato di grande coraggio da una parte e di grande umiltà e modestia dall’altra; guidato da uno squisito senso di tatticità e intenzionato ad aiutare suo zio (lo zar Dušan, appunto), e per rendersi irriconoscibile, egli aveva indossato un soprabito bulgaro e un berretto di pelliccia diventando così, anche nel testo serbo, “crni Bugarin” (il Bulgaro nero), che da D’Annunzio viene poi trasformato in un famigerato rappresentante della Bulgaria e della sua politica antiserba nella prima guerra mondiale. D’Annunzio prende da Tommaseo la figura del “Bulgaro nero” (dove chi legge la Ženidba Dušanova sa fin dall’inizio che si tratta di Miloš Vojnović travestito da Bulgaro), non però dal testo principale ma da una variante “più forte” che Tommaseo riporta nei commenti:

Vè p........... di Bulgaro nero Ch’oggi dietro ci tenne Per il tozzo e ’l bicchier di vino E per un lacchezzo di carne vermiglia!4

Nella nona strofa dell’Ode, dunque, sulle tracce di Tommaseo D’Annunzio introduce quella figura dandole subito un connotato politico negativo:

“Ve’ porco di Bulgaro nero che tutt’oggi dietro ci tenne pel tozzo e ’l bicchiere di vino e per un lacchezzo d’agnello!”

4 Niccolò Tommaseo Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci, Tasso, Venezia 1841-1842, 175.

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Gabriele D’Annunzio e la sua “Ode alla nazione serba”

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Non per tozzo il Bulgaro nero e né per gocciol di vino e né per minuzzo di carne, ma per tutto prendere alfine, per tutto a te togliere alfine, la terra il nome il soffio il bianco degli occhi lo stampo dell’uomo, per questo il Bulgaro nero dietro ti venne, alle spalle ti dà, alle reni t’agghiada.5

E più tardi ancora:

Da Scoplia il Bulgaro nero al piano di Cossovo sfanga fiutando l’ontosa vittoria.6

In questo modo il personaggio di un coraggioso ed onesto eroe serbo è servito per far

sprigionare nel componimento dannunziano un’ondata di odio nei confronti di altri popoli; ai Bulgari D’Annunzio aggiunge i Romeni (“o Rumio dagli occhi di druda”) i Greci (“vil Grecastro inlurchito”) e gli Austriaci e i Tedeschi (“i Lurchi”, come li chiama il poeta nella sua ode)7.

Si potrebbe dire che gli odii in tempo di guerra sono una cosa normale, comprensibile; ma a D’Annunzio non basta l’odio “comune” verso il nemico. Nella strofa undicesima il poeta descrive i cadaveri ammassati di soldati austroungarici e bulgari che galleggiano per il Danubio (“Sotto Orsova, dove il mal fiume/ s’insacca, ora Bulgari e Lurchi/ si giungono, stercora e fecce”) E l’esercito serbo che fece l’eccidio D’Annunzio “onora” di una boutade boriosa e maligna: “O razza di Kralievic Marko,/ l’usura tu fai con la strage!”8.

Questi versi, insieme a quelli che precedentemente abbiamo citato, sono parole, nell’Ode alla nazione serba, pronunciate dalla Vila. Il suo monologo parte dalla metà della sesta strofa e finisce nella quattordicesima. Verso la fine del monologo, nella quattordicesima strofa appunto, D’Annunzio fa pronunciare alla Vila un singolare inno all’odio, ornato di fregi retorici; come soggetto di quell’odio vediamo il popolo serbo:

Tieni duro, Serbo! .............. Se pane non hai, odio mangia; se vino non hai, odio bevi; se odio sol hai, vai sicuro.9

Così la Vila; e nella strofa che segue il poeta aggiunge:

O Serbia, fai cuore! T’è l’odio osso del dosso, armamento t’è l’odio e t’è vittuaglia.10

5 Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria II, Mondadori, Milano 1968, Asterope, 1035. 6 Idem, 1040. 7 Idem, 1045. 8 Idem, 1037. 9 Idem, 1040.

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Né cibo, né acqua, né armi, nulla occorre, solo l’odio; e non è tutto, perché il poeta dice ancora:

Non erbe coglie nel monte la Vila, non radiche pesta, per le piaghe a te medicare. Non a ferita combatti, a morte sì, per l’altare combatti e pel focolare.11

Non è dunque importante sopravvivere, le ferite non vanno curate (e nella poesia popolare serba le Vile erano appunto quelle che curavano le ferite), c’è solo il combattimento e la morte. È significativo il commento che di questi versi fa il curatore dell’Ode alla nazione serba; dice che sono stati presi da Tommaseo e cita i seguenti versi: “A lui venne la candida Vila/ Coglie erbe pel monte la Vila/ Per medicare a lui le ferite”12. Il curatore non commenta il fatto che D’Annunzio a quei versi ha dato un segno negativo: “Non erbe coglie nel monte/ la Vila....”.

In questi due esempi, ma ce ne sono altri ancora, diventa palese una caratteristica essenziale della poetica dannunziana: la mancanza di rispetto della simbolicità di base e della costanza di significato degli elementi con i quali costruisce la propria poesia:

Nell’encomio lirico delle Laudi tutti quei dati compaiono svuotati d’un loro proprio valore... Nasce da qui nei loro confronti un’illimitata libertà di sfruttamento e di manipolazione che il poeta ha verificato senza risparmio.13 E si sa, dall’altra parte, e anche Tommaseo lo sapeva bene, che invece il mondo poetico

della poesia popolare è un fenomeno altamente compatto in cui i nomi di eroi e di esseri, la loro indole e gli avvenimenti in cui partecipano, rispecchiano un sistema di valori piuttosto rigido e comunque molto preciso, tipico di una particolare collettività e di un periodo storico preciso. Ora, introdurre i singoli elementi di quel fenomeno compatto dentro una macchina poetica eminentemente “strumentale”, come è stata descritta nel caso di D’Annunzio, porta ad una inevitabile distruzione e corruzione del fenomeno ed anche dei suoi elementi.

L’istigazione ad un odio così smisurato, quasi assoluto, fa parte dell’atmosfera generale

di violenza che domina tutta l’Ode dannunziana: Le scene più feroci di massacri e di sangue dilagano nel suo testo. Ciò va collegato senz’altro con il momento storico della comparsa del testo, ovvero con il vortice della prima guerra mondiale, in cui la Serbia si trovava già da tempo e l’Italia vi era appena entrata. Ma c’è un’altra cosa: le scene di violenza nell’Ode alla nazione serba superano di gran lunga le tipiche scene di violenza in guerra; D’Annunzio vi insiste al punto che si apre, a nostro avviso, la possibilità di definire una sua particolare “filosofia della violenza” che il poeta aveva sviluppato dalle sue stesse convinzioni ideologiche ed estetiche. Siamo del parere, in altre parole, che quanto abbiamo affermato finora vada collegato direttamente con il mito dannunziano del superuomo: un concetto elitistico della vita e del mondo 10 Idem, 1041. 11 Idem, 1040. 12 G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria II, Mondadori, Milano 1995, 1344. 13 Angelo Jacomuzzi, Una poetica strumentale: Gabriele D’Annunzio, Einaudi, Torino 1974, 52-53.

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Gabriele D’Annunzio e la sua “Ode alla nazione serba”

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in cui gli eletti dominano implacabilmente e senza limiti. La dominazione e la supremazia non sono però uno spontaneo dono divino, pur contenendo un certo carattere di fatalità, ma comportano la violenza, pensata e praticata, nella forma di una costante tensione fra potenti e deboli, vincitori e vinti, fra sacrifici e riscatti. Gabriele D’Annunzio quasi quasi non avrebbe avuto nemmeno bisogno di leggere Nietzsche per costruire il suo mito, tanto la letteratura romantica, postromantica o quella del decadentismo a cui apparteneva lo stesso D’Annunzio era colma di sacrifici e riscatti, di dominazioni e oppressioni, di vittorie e sconfitte che si sono accordate bene con il profilo psicologico e intellettuale del poeta. Così in alcuni dei suoi romanzi, per esempio, che maggiormente si collegano a questo mito (Fuoco, Le vergini delle rocce), i protagonisti realizzano la propria dominazione superomistica grazie anche ai sacrifici della vita, non della propria, s’intende, ma di quella degli altri (delle figure femminili, in particolare). Alla vigilia della prima guerra mondiale quell’atteggiamento superomistico dannunziano si è amalgamato con altri suoi atteggiamenti mitizzanti: il mito del superuomo si è trasformato così in un agglomerato ideologico-sentimentale-politico fatto di un militarismo esaltante, di nazionalismo, nonché di un mito razzista della dominazione latina.

L’immagine efficace del ruolo e dell’importanza che ha il concetto della violenza nel mito dannunziano del superuomo la troviamo nel primo libro delle Laudi, che con il titolo di Maia apparve all’inizio del XX secolo. Leggiamo in esso un segmento, che ci interessa particolarmente, segnato dal titolo Il canto amebeo della guerra. In quel canto “alternato”, che originariamente, nella poesia greca antica serviva per trattare temi pastorali, e che Gabriele D’Annunzio utilizza per parlare di guerra e di violenza, si alternano due voci: la voce del vincitore e la voce dei vinti; e non si parla di una guerra concreta ma insieme di tutte le guerre celebri della storia antica:

E dai campi delle battaglie terribili, da Mantinea da Platea da Cheronea da Potidea da Leuctra, da tutti i campi sacri alle grandi stragi di genti, sorse per entro quell’aere melodioso un clamore discorde: il lagno dei vinti, lo scherno dei vincitori, il canto amebeo della guerra.14

L’intonazione principale in cui viene sviluppato il canto amebeo della guerra è quella

che domina in tutto il libro di Maia: l’attesa e l’annuncio esaltante della nuova forza del superuomo: “Ebri di antiche bellezze/ e di nuove, .../ ardentemente protesi/ verso primavere ed estati/ future, avidi di dominio/ e di gloria”. Di fronte alle scene di guerra e di violenza il poeta prende una posizione superiore, guarda, cioè dall’alto, “dalle soglie del venerabile Olimpo”15, sia nel senso materiale che in quello spirituale. Qualcosa di simile vedremo poi anche nell’Ode alla nazione serba.

14 G. D’Annunzio, Maia, edizione critica a cura di Crstina Montagnini, Il Vittoriale degli Italiani, 2006.

271. 15 Ibidem.

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Quello che maggiormente ci interessa nel canto amebeo, dove la Guerra è conseguenza dell’Ineluttabilità e della Fatalità, ma è un elemento della ricchezza della Vita (“O Vita, o Vita/ dono terribile di dio”16), sono alcune scene di violenza di guerra che possiamo collegare con scene analoghe dell’Ode alla nazione serba.

I vinti, nel canto amebeo, si lamentano verso gli dei, rassegnati già del loro destino di vittime; ci limitiamo qui a elencare, senza analizzarle, le forme principali di violenza. Prima la morte per schiacciamento, con la terrificante terminologia “agricola”, o “vinicola” e più precisamente:

Ah per questo nascemmo, per esser calpesti, premuti come il grano sotto la mola come nel frantoio l’oliva come l’uva nel tino, per esser pan d’ossa trite olio di midolle, vin rosso di vene al banchetto feroce!17

Mentre nell’Ode alla nazione serba leggiamo:

Pigliarono Luciza, ed anche Sclevene pigliarono, e l’una e l’altra colmarono di mosto, di lugubre mosto, due tina. Iplana riempiron di vegli senz’occhi, di femmine senza mammelle, di monchi fanciulli.18

Ecco un esempio dello strappamento della lingua, nel Canto amebeo della guerra:

............. Le lingue loquaci vi strapperemo noi dalle fauci per darle in pasto alle cagne e alle scrofe.19

E nell’Ode alla nazione serba:

.................... e l’altare lor tavola fu sanguinente: strapparono al prete la lingua con sopravi ostia vivente.20

16 Idem, 278. 17 Idem, 274. 18 G. D’Annunzio, Versi d’amore ...II, Ode alla nazione serba, 1036. 19 G. D’Annunzio, Maia, 275. 20 G. D’Annunzio, Ode alla nazione serba, 1036.

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Gabriele D’Annunzio e la sua “Ode alla nazione serba”

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Un esempio poi dell’infrazione delle ossa e della trafittura del corpo, nel Canto amebeo della guerra:

e della frombola il cappio per forarvi il cuore tremante, per fendervi il cranio curvato, per frangervi ambo i ginocchi.21

E nell’ Ode alla nazione serba:

gli han franto i piedi e i ginocchi a colpi di calcio, trafitto con la baionetta il costato.22

Alla fine, lo stupro delle donne, l’uccisione dei bambini, la violenza col fuoco; nel Canto amebeo della guerra:

Le vostre vergini molli le soffocheremo nel nostro amplesso robusto. Sul marmo dei ginecei violati sbatteremo i pargoli vostri come cuccioli. Il grembo delle madri noi scruteremo col fuoco, e non rimarranno germi nelle piaghe fumanti.23

Mentre nell’Ode alla nazione serba:

per le tue donne calcate dallo stupro contro la sponda, pei pargoli tuoi palleggiati e scagliati come da fionda per chi teda fu, per chi arso fu la fiaccola furibonda.24

Nel Canto amebeo della guerra Gabriele D’Annunzio mantiene la stessa distanza verso i vincitori e verso i vinti. Non si potrebbe dire la stessa cosa anche per l’Ode alla nazione serba: i belligeranti, l’Austria e la Serbia, non vengono trattati ugualmente; una certa inclinazione,

21 G. D’Annunzio, Maia, 273. 22 G. D’Annunzio, ode alla nazione serba, 102. 23 G. D’Annunzio, Maia, 277; a proposito di questa scena di sadismo sessuale, vedere la Godoleva, dall’

Intermezzo di rime, Versi d’amore e di gloria I, Mondadori, Milano 1982, 249: “Prese una rossa face (urlava, folle/ di paura, la donna su ’l terreno/ ignuda) e di suo pugno, in vista pieno / d’atroce gioia, arse la carne molle....spandeasi il lezzo de la piaga enorme.....parve sotto il ventre/ convulso un antro fumigante e informe“.

24 G. D’Annunzio, Ode alla nazione serba, 1039.

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problematica a nostro avviso, come cercheremo di dimostrare, è presente, è visibile nel componimento dannunziano.

Il Canto amebeo della guerra è organizzato secondo una struttura triangolare o piramidale che sia: in cima, al di sopra di tutto c’è il poeta e sotto di lui, nel tumulto della vita, ci sono i Vincitori e i Vinti che fanno la guerra collegati fra di loro dalla violenza, praticata dai primi, sopportata dai secondi. Una struttura simile contraddistingue anche l’Ode alla nazione serba: anche qui in cima c’è il poeta al di sopra delle parti belligeranti, il poeta come superuomo, come fattore decisivo, come rappresentante comunque della Nazione che avrà la vittoria finale. Riguardo a ciò Gabriele D’Annunzio è esplicito e senza mezzi termini afferma che la vittoria finale sarà italiana, anzi, sarà italiana e cattolica:

odi: la Vittoria è latina, ed ella è promessa al domani. È una pura vergine bianca (non è la tua Vila a lei pari) - (corsivo Ž. Đ.) più lieve della tua Vila selvaggia ......25 Sarà coi Latini domani la grande lor vergine bianca.26

Oppure, le stesse parole in un altro brano dell’Ode, in cui deforma i versi del famoso canto popolare serbo Uroš i Mrnjavčevići, presi sempre da Tommaseo, che parlano dell’attribuzione del trono vacante serbo:

Ti chiaman da Cossovo al piano che tu dica a chi sia l’impero. Un grida: “Al latino è l’impero. per forza a lui viene l’impero Roma a lui commise l’impero”.27

Nella strofa finale della dannunziana Ode alla nazione serba non ci sono più né gli

Austriaci né i Serbi, ci sono soltanto il poeta e l’Italia che decidono le sorti finali della vicenda: Popolo d’Italia, sii come la forza dell’aquila regia che batte con l’ala, col rostro dilania, ghermisce con l’ugna. E v’è uno Iddio: l’Iddio nostro.28

25 Idem, 1044. 26 Idem, 1045. 27 Idem, 1044; leggiamo nel commento all’ Ode alla nazione serba::”Se Marco designò Uroscio, ora

D’Annunzio corregge il responso e assegna a Roma la successione dell’impero.” (Versi…II, 1995 , 1345). 28 Idem, 1047.

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Gabriele D’Annunzio e la sua “Ode alla nazione serba”

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Questi sono alcuni dei punti chiave, degli atteggiamenti che andrebbero presi in considerazione quando si legge e si interpreta l’Ode alla nazione serba di Gabriele D’Annunzio.

Nel momento quando D’Annunzio scrive la sua Ode, nel novembre del 1915, l’esercito serbo, dopo due gloriose vittorie sugli Austriaci, nelle battaglie di Cer e di Kolubara, è costretto al tragico e doloroso ritiro verso l’Albania. L’Italia entra in guerra nel maggio del 1915 aprendo il fronte nordorientale contro gli Austriaci. Questa realtà storica viene da D’Annunzio opacizzata nel componimento, si vede poco. Il tono dominante è prevalentemente definito come un’invocazione alla Serbia di resistere (“Sì gente di Marco, fa cuore!”, “Tieni duro, Serbo!”) e di destarsi (“E grida la candida Vila ... grida e chiama”, “la Vila così stride e chiama a battaglia”). Il maggior numero dei nomi di eroi e di personaggi storici serbi D’Annunzio li menziona proprio in quel monologo-invocazione pronunciato dalla Vila; e l’atmosfera creata ivi è dominata dall’impressione di una strana sonnolenza di un torpore di quegli eroi serbi; si rivolge alla Serbia, a Karagiorgio e ai suoi uomini in una lunga serie di espressioni interrogative in cui li invoca facendone appello. Il tono interrogativo nel corso della strofa si trasforma nell’incertezza, se esistono davvero? se hanno sentito? se verrano?

O Serbia di Marco, dove son dunque i tuoi pennati busdovani? Non t’ode alcuno?29 grida e chiama in Topola Giorgio che ristà poggiato all’aratro. Or dove sei, Petrovic Giorgio? Qual fumido vino ti tiene? Qual t’occupa sogno? Non m’odi? Dove sei buoi bifolco? Dove sono i tuoi voivodi? Dov’è il voivoda Miloscio? Giacopo e il calogero Luca? ............................................ ............................... A Simposio seggono ? Ucciso hanno il giovenco e trinciano e cantano lodi? Beono alla gloria di Cristo che li aiuti? beono ion giro?30

Ci sono altri inviti a Karagiorgio:

Su, Giorgio di Pietro, bovaro di Topola, su guardiano di porci, riscuotiti e chiama! ............................................ Su, su, porcaro di Dio!31

29 Idem, 1029. 30 Idem, 1032. 31 Idem, 1034.

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Sono però tutti senza risposta, l’incertezza e l’attesa rimangono a dominare, sospesi, l’atmosfera della nostra Ode. È, dall’altra parte, troppo diretto il tentativo dannunziano di far risorgere alla vita gli eroi nominati, di evocare la loro fisicità, il loro essere in carne e ossa. Tutto in questo componimento si svolge nel segno di una carnalità ossessiva rappresentata attraverso le immagini di violenza e di sangue; non c’è spazio per i significati simbolici, tanto meno per la forza ispiratrice di quei personaggi della storia serba; D’Annunzio continuamente allude alla loro reincarnazione materiale e fisica e ciò nei lettori provoca una sensazione bizzarra, di imbarazzo e di sgomento.

...............Ecco, ringhia il grande pezzato cavallo di Marco, e si sveglia, l’eroe squassando i capelli suoi neri. Re Stefano vien di Prisrenda; sorge dalla Mariza cupa Vucassino; s’alzano a stormo da Cossovo i nove sparvieri.32

Particolarmente significativo in questo senso è il caso del famoso aiduco, Veljko Petrović, che inaspettatamente ha occupato in D’Annunzio una posizione centrale tra gli eroi della storia serba (una posizione storicamente non fondata); lo menziona il poeta a più riprese insistendo come abbiamo detto sopra, proprio sull’aspetto materiale della sua morte, sulla carnalità. Lo vediamo prima occupare tutta la quarta strofa:

Sì gente di Marco, fa cuore! Fa cuore di ferro, fa cuore d’acciaro alla sorte! Spezzata in due tu sei; sei tagliata pel mezzo, partita in due tronchi cruenti, come l’aiuduco Velico su la torre percossa. Di lui ti sovviene? Rotto fu pel mezzo del ventre, e cadde. Il grande torace dall’anguinaia diviso cadde, palpitò nella pozza fumante. Giacquero in terra, si votarono.33 E nel fragore della gorga grido si ruppe: “Tieni duro!” Fiele dal fesso fegato grondò. “Tieni duro,

32 Idem, 1031. 33 Ecco un’immagine del componimento Mani (Poema paradisiaco): “l’atroce donna da le mani mozze./ E

innanzi a lei rosseggiano due pozze/ di sangue, e le mani entro ancora vive/ sonvi, nepure d’una stilla sozze“; Versi...I, 661.

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Gabriele D’Annunzio e la sua “Ode alla nazione serba”

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Serbo!” Dalle viscere calde tal rugghio scoppiò: “Tieni duro!”34 (corsivo Ž. Đ.)

Questa immagine bizzarra del guerriero tagliato in due orizzontalmente D’Annunzio con tutta probabilità l’aveva presa da se stesso; la troviamo infatti nel libro di Maia:

Immagini del delitto mostruosi intravidi, torcimenti d’angosce inumane ma senza gridi, anime come sacchi flosce, altre come logori letti di puttane marce di lue, altre come piaghe orrende, fatte informi e nane dal gran taglio diritto, simili al combattente ch’ebbe le due cosce recise fino all’anguinaia e tuttavia rimane mezz’ uomo sul suo tronco e cerca con le dita ancor vive tra il rosso flutto la radice di virilità ricacciata in fondo al ventre, là dov’era prima ch’egli escisse compiuto maschio dalla matrice.35 (corsivo Ž. Đ.)

Abbiamo visto finora che alcuni eroi serbi non rispondono ai ripetuti inviti della Vila (come Karagiorgio e i suoi voivodi), che altri vengono svegliati (Marko Kraljević) e altri ancora da morti diventano vivi (Vukašin e i nove figli di Jug Bogdan). Quando si tratta di Veljko Petrović egli viene incollato, “rappiccato”, da Gabriele D’Annunzio con il congiungimento delle parti tagliate dopo di che diventa vivo:

..........Velico, or ecco all’anguinaia il torace rappicca come prima era, e dentrovi il fegato ardente.36

O qualche verso più avanti:

Tieni duro Serbo! Odi il rugghio di Velico che si rappicca e possa rifà. Tieni duro!37

34 G. D’Annunzio, Versi…II, 1968, 1030. 35 G. D’Annunzio, Maia, 281-282. 36 G. D’Annunzio, Versi ...II, 1968, 1034. 37 Idem, 1040.

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Željko Đurić

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L’aiduco Veljko è protagonista anche di un altra strofa dell’Ode alla nazione serba:

della diciassettesima in cui a Veljko viene conferita dal poeta una morbida e cannibalesca missione di carneficina: doveva tagliare a pezzettini l’imperatore austroungarico, come fanno i macellai, e poi condirlo con delle spezie orientali. Gli mette nelle mani anche l’attrezzo per poter farlo: “con la squarcina del riso”38, dice D’Annunzio, dunque apparentemente una lama “simbolica” non vera; ma la descrizione del massacro è convincente a tal punto che la potenziale simbolicità39 scompare man mano con il realizzarsi dell’immagine. Con queste parole il poeta si rivolge a Veljko:

Tastalo con le tue dure mani, questo sacco di dolo e di adipe, o Velico, questo sacco di lardo e di fardo. ...................................... tu tagliami questo codardo con la squarcina del riso, tagliuzzalo come lombata, condiscilo poi con zibetto, con cinnamo e con spicanardo.40

Concludendo, si potrebbe dire: un’immagine punto bella di Gabriele D’Annunzio che nel caso dell’Ode alla nazione serba ha fatto una manipolazione grossolana e facile dei simboli storici e culturali di un popolo, immergendoli, in maniera superficiale e irresponsabile, nel proprio ormai logoro inventario decadentista, il tutto allo scopo di propaganda politica e di promozione personale. La sensazione della propria onnipotenza verbale e poetica che D’Annunzio aveva e che spesse volte è stata fatale per il valore estetico delle sue opere, lo ha portato, nel caso dell’Ode, nelle acque di un singolare kitsch letterario.

38 Nel Dizionario Tommaseo-Bellini: “Squarcina“ – “una sorta d’arme atta a squarciare, come sono la

storta, la scimitarra“. 39 Il riso dell’aiduco Veljko come segno di resistenza ed eroismo D’Annunzio lo menziona anche in alcuni

altri versi dell’Ode. 40 G. D’Annunzio, Versi....II, 1968, 1043.

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Julijana VUČO (Università di Belgrado)

STUDIARE IN UNA LINGUA STRANIERA1 Parole chiave: politica linguistica, pianificazione linguistica, educazione bilingue, insegnamento

bilingue, sezione bilingue italo-serba

Nel mondo non esiste quasi paese dove si parli solo una lingua. I due terzi dell’intera popolazione terrestre sono bilingui, di conseguenza, l’uso di due o più lingue nell’ambiente familiare, di lavoro o nel processo educativo, come pure negli altri aspetti di comunicazione, sono spesso la regola e non un’eccezione.

Le linee guida attuali di politica e di pianificazione linguistica si basano sui concetti di bilinguismo o di plurilinguismo, principi base dell’unità e dell’uguaglianza nell’ambito delle comunità di diverse dimensioni.

Momento fondamentale della vita linguistica di una comunità è la scuola, ossia il luogo istituzionale in cui si trasmette il sapere codificato di una certa società in modo di preparare i cittadini consapevoli e pronti ad affrontare richieste sempre più complesse, e a un tempo portatori dei valori e del progetto di società che sono stati inculcati loro (Dell’Acquila, Iannàccaro, 2004: 118).

L’educazione bilingue è il termine che si riferisce all’educazione che usa nel processo di insegnamento di due lingue. Freddi (1983) distingue i concetti di educazione bilingue e insegnamento bilingue, facendo differenza tra gli aspetti tecnici del problema e quelli formativi che confermano la scelta di due o più lingue nel curriculo2.

Questo tipo di educazione e di insegnamento si può incontrare su tutti i continenti: Africa (Ghana, Kenya, Nigeria, Sudafrica, Tanzania); Asia (Brunei, Cina, India, Indonesia, Giappone, Malesia, Singapore); Europa (Belgio, Danimarca, Finlandia, Croazia, Germania, Ungheria, Norvegia, Slovacchia, Slovenia, Serbia, Spagna, Svezia, Gran Bretagna); Medio Oriente (Libano); America del Nord (Canada, Giamaica, Messico, USA) America del Sud (Paraguay, Perù); Regione del Pacifico (Australia, Nuova Zelanda, Pacifico del Sud), ecc. In tutti i paesi elencati l’insegnamento viene impartito in base ai vari e diversi programmi che si riferiscono all’insegnamento di lingue maggioritarie, minoritarie, internazionali, straniere o

1 Il presente contributo è realizzato nell’ambito del progetto “La lingua serba e le dinamiche sociali”(Srpski

jezik i društvena kretanja), 148024D, finanziato dal Ministero per la scienza e per la tutela dell’ambiente della Repubblica di Serbia.

2 Nel nostro contributo, riferendoci all’uso di una lingua straniera, LS, per insegnamento di materie non linguistiche con le finalità educative, accettiamo la dicotomia di Freddi: per l’educazione bilingue intendiamo il contesto e le gli scopi formativi del processo, e per l’insegnamento bilingue gli aspetti tecnici dell’applicazione in sede scolastica.

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Julijana Vučo

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indigene, includendoci anche le lingue rivitalizzate, che hanno per scopo l’educazione di minoranze nazionali, popolazioni immigranti, lingue dominanti o gruppi indigeni.

L’insegnamento bilingue può essere indirizzato a diversi gruppi di studenti che acquisiscono le loro conoscenze in base alle diverse modalità e in diverse condizioni, usando le loro abilità in due o più lingue. L’insegnamento bilingue può applicarsi al processo educativo degli studenti che già conoscono le due lingue del processo educativo, ma anche a quelli che sono principianti. L’insegnamento bilingue può riferirsi all’acquisizione di una lingua straniera, LS, o seconda, L2, ma anche al mantenimento della lingua materna, L1.

Lotherington (2004:707) elenca le finalità dell’educazione bilingue: arricchimento dell’educazione dei parlanti di una lingua maggioritaria (L2 = lingua minoritaria), mantenimento del livello di educazione per parlanti bilingui (L2 = lingua minoritaria), educazione compensativa per parlanti di lingua minoritaria nel contesto maggioritario (L2 = lingua maggioritaria), forma transitiva, educazione transizionale per parlanti di lingua minoritaria nel contesto maggioritario (L2 = lingua maggioritaria), ravvivamento dell’educazione in lingua in via di estinzione (lingue in pericolo) (L2 = lingua minoritaria in via di estinzione).

Pregi dell’educazione bilingue Gli apprendenti che partecipano ai programmi educativi bilingui che includono la loro

L1 in modo funzionale, dimostrano maggiori capacità di analisi di elementi linguistici sia in L1 che in L2. Accentuando la L1 quale specifico sistema linguistico tra molti, gli apprendenti, più facilmente degli altri, sviluppano la loro capacità metalinguistica precoce. Comparati con altri gruppi di controllo sviluppano la maggiore sensibilità per le loro capacità espressive linguistiche. Gli stessi risultati si verificano presso gli apprendenti di ogni L2, anche quando l’insegnamento della L2 viene impartito al livello solo facoltativo (Swain e Lapkin, 1982), (Swain e Carol, 1987).

In base alle stesse ricerche, gli apprendenti che seguono i programmi bilingui, se comparati con i loro coetanei dei gruppi di controllo, dimostrano il significativo miglioramento della conoscenza della L2; possiedono una maggiore sensibilità per bisogni comunicativi dei loro interlocutori, imparano con facilità altre lingue straniere, dimostrano maggiore capacità di uso linguistico ai fini sociali.

Modelli di educazione bilingue Studiare una materia scolastica in una lingua diversa dalla materna (in lingua seconda o

L2) è un’attività complessa cognitivamente e linguisticamente. Lo sforzo di sistematizzare ed elaborare le nuove nozioni e informazioni si sovrappone a quello di comprendere, elaborare, acquisire e riutilizzare le strutture grammaticali, lessicali e testuali dell'italiano. Occorre poi sviluppare la capacità di padroneggiare più registri e varietà, almeno nella ricezione, se non nella produzione della lingua: da una lingua colloquiale richiesta nell'interazione tra compagni e compagne, ad esempio in un lavoro di gruppo, a quella più formale dell'insegnante, fino a quella altamente formale dei manuali e delle prove d'esame; dalla lingua dell'uso quotidiano alle lingue specialistiche delle materie; dalla lingua parlata delle attività in classe alla lingua scritta dei materiali di studio e dei manuali. Sono varie e numerose, infine, le azioni che gli studenti svolgono, linguisticamente, mentre studiano: ascoltare la spiegazione dell'insegnante, prendere appunti, leggere un manuale, interagire oralmente in un dialogo durante la lezione, oppure in un'interrogazione, parafrasare un testo, riassumere e molte altre ancora.

Negli anni della sua applicazione si sono sviluppati diversi tipi di educazione e di insegnamento bilingue in base alle caratteristiche di varia natura e dei livelli di bi-plurilinguismo (bilanciato, sbilanciato, coordinato, composito) e della natura dell’educazione bilingue (sommersione, immersione, immersione parziale, segregazione ecc.). Ne esistono varie tipologie,

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con più di 90 modelli. Si definiscono in base al rapporto tra l’individuo, gruppo, ambiente, lingua, famiglia, organizzazione curricolare, stato e la sua legislazione del settore.

Baker (2001) divide curricoli di educazione bilingue in forti e in deboli. Le finalità dei programmi forti sono il bilinguismo additivo e alfabetismo i in tutte e due le lingue. I programmi deboli non hanno come scopo educativo il bilinguismo additivo.

Baker ritiene che vengono indicati come forti i programmi che utilizzano come lingua veicolare due o più lingue. Eccone alcuni possibili modelli.

L’insegnamento integrato bilingue (Content-based Bilingual Learning) sottolinea la dimensione bilingue del programma. Lo scopo primario è l’educazione in due lingue con l’uso veicolare di due lingue. Il modello è basato sulla competenza comunicativa che favorisce l’uso linguistico socialmente adatto e utile, ovvero le conoscenze come usare effettivamente una lingua, e non le conoscenze sulla lingua. Questi programmi utilizzano la L2 meno del 50 per cento.

I programmi nei quali più del 50 per cento dell’insegnamento viene trasmesso in L2 vengono nominati programmi di completa Immersione Bilingue. (Bilingual Immersion). L’immersione bilingue è il termine in uso dagli anni sessanta a questa parte, è una delle forme più note di educazione bilingue, certamente quella più studiata e la più descritta. Swan & Johnson (1997:6-8). Le caratteristiche più importanti del programma di immersione sono: l’utilizzo del L2 quale mezzo di insegnamento, il curricolo parallelo in L2 e in L1, l’appoggio pubblico per la L1, il bilinguismo additivo3 in qualità di finalità del programma, l’esposizione alla L2 è limitata generalmente alla situazione della classe, gli studenti entrano nel programma con livelli simili di conoscenza limitata di L2, insegnanti bilingui, la cultura della classe fa parte della cultura della comunità locale L1.

Swan & Johnson (1997:8-11) ritengono che le ulteriori finalità dei programmi di immersione sono: livello educativo dell’introduzione dell’immersione, divulgazione dell’immersione linguistica, rapporto tra L1 e L2 nei differenti livelli del programma, continuità del programma nell’ambito del sistema scolastico, appoggio agli studenti, fonti, doveri, tendenze alla cultura L2, status L2, valutazione della prosperità del programma. Il rapporto tra la L1 e la L2 nei programmi bilingui di immersione è diverso, ma, la maggioranza dei programmi sono di immersione totale, introducendo immediatamente 100 per cento di insegnamento in L2 in un determinato arco di tempo, inserendo dopo gradualmente anche la L1. Bisogna distinguere anche la forma di immersione parziale che prevede il minimo del 50 per cento di insegnamento linguistico in ambedue le lingue.

L’Immersione bidirezionale (Two-way Immersion) tende a integrare la lingua minoritaria con quella maggioritaria nell’ambiente bilingue, offrendo i contenuti di ambedue culture in ambo le lingue. Questo modello di immersione viene raccomandato soprattutto nelle comunità bilingui, ma non in quelle plurilingui.

3 Il bilinguismo additivo ha effetti positivi linguistici ed altri, es. La diminuzione dell’etnocentrismo,

l’aumento di tolleranza linguistica, l’accelerazione dello sviluppo delle potenzialità metalinguistiche ‘ analisi linguistica, come pure delle potenzialità generali cognitive, immaginazione, intelligenza. È il bilinguismo che offre potenzialità di sviluppo sociale e porta elementi positivi complementari per lo sviluppo del bambino. Il bilinguismo sottrattivo invece è quel bilinguismo che non offre risorse aggiunte. Lo provocano cosiddetti “sink or swim” (Lotherington, 2004:711) approcci all’insegnamento linguistico ed all’alfabetizzazione, dove gli studenti vengono inseriti nell’educazione bilingue tramite l’immersione, senza seri appoggi in L1, con minimo appoggio pedagogico per l’acquisizione linguistica. Le due lingue sono in concorrenza e non complementari in quanto la L1 non costituisce nessun elemento di valorizzazione aggiuntiva o di prestigio nel contesto culturale.

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I programmi di mantenimento (Maintenance education) vengono applicati con intenzione di offrire agli studenti di lingua minoritaria l’opportunità di mantenere l’alfabetizzazione in lingua minoritaria. Il modello funziona nelle definite, ma non nelle eterogenee popolazioni scolastiche, visto che il supporto educativo per la L2 di quelli programmi è molto limitata. Fishman (1991:113) ritiene che il mantenimento linguistico non sia possibile senza la trasmissione integrativa, trasferimento di lingua materna da una generazione all’altra, e che il mantenimento sia prevalentemente il processo che si forma dopo la trasmissione.

Anche i programmi deboli di educazione bilingue hanno come scopo il raggiungimento del bilinguismo, ma la loro applicazione può anche avere degli effetti negativi. Questi programmi possono provocare la sommersione linguistica, se il programma non porta al bilinguismo additivo, ma è di carattere sottrattivo, non rispettando in modo bilanciato le due lingue partecipanti al processo educativo. In tali programmi il sostegno in L1 è molto limitato. Il processo educativo si svolge in L2 che di solito ha lo status alto nella società. Si tratta di solito di una lingua maggioritaria, o di lingua di comunicazione di ampio raggio che non si usa al livello di tutta la comunità.

Per l’Educazione transizionale (Transitional education) il bilinguismo è il periodo di passaggio, concorde con le finalità di natura politica della completa assimilazione. L’educazione di questo tipo tende a dare l’alfabetizzazione di base in lingua minoritaria L1, contemporaneamente con l’introduzione alla maggioritaria L2. Agli studenti è dato il periodo limitato di adattamento durante il quale devono acquisire il livello soglia L2. Dopodiché l’educazione continua in L1.

I programmi Oggetto Lingua (Language object) privilegiano l’insegnamento formale della lingua. La L2 viene usato come lingua veicolare per l’insegnamento di contenuti. Baker (2001:200) ritiene che con tali programmi, in uso nei Paesi Scandinavi, i risultati sono estremamente positivi, visto che il fattore motivazionale per lo studio della lingua è la coscienza sulla prosperità economica della società4.

L’educazione e l’insegnamento bilingue e la didattica delle microlingue (ML)

Nell’educazione bilingue, applicando le nuove strategie di insegnamento CLIL, la lingua e i contenuti non linguistici vengono integrati e insegnati insieme. È l’approccio che si differenzia dall’insegnamento di una microlingua per diversi aspetti. Brinton (1993: 3 - 4) sottolinea i fattori che accomunano e dividono nettamente i programmi di educazione bilingue dall’insegnamento di microlingue.

Le similitudini si esprimono nella presa in considerazione dei bisogni dello studente, nell’uso dei contesti naturali, nell’offerta della lingua attraverso attività, materiali, fonti e ambienti autentici. 4 Citiamo altri noti modelli di insegnamento bilingue: Language Medium Teaching accentua l’importanza

della lingua veicolare. Content Based (second-foreign) language instruction sottolinea la priorità della parte linguistica del programma, la promozione di competenza linguistica con l’uso della lingua nell’insegnamento degli altri contenuti.. (Foreign) Language-enhanced/enriched content instruction, al contrario, ritiene che sia prioritaria la parte non linguistica del programma, rispettando però il valore dell’insegnamento della lingua. Teaching content trough a foreign language sottolinea soprattutto l’importanza dei contenuti di natura non linguistica, non abbandonando neanche la parte linguistica. Mainstream bilingual education si riferisce alle forme dell’educazione bilingue che vengono applicate nelle scuole „comuni“, e non soltanto in quelle particolari. Plurilingual education è il termine che tende a spiegare le situazioni in cui in alcune scuole più di due lingue vengono utilizzate in qualità di lingua veicolare.. CLIL (Content and Language Integrated Learning) è il programma di insegnamento integrato e simultaneo di contenuti linguistici e non linguistici, uno tramite e con l’altro. L’insegnante usa una serie di procedimenti metodologici e didattici come per esempio le strategie della comprensione funzionale.

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Le differenze sono nella diversità del pubblico, dei settori di interesse, della motivazione degli studenti.

Cercando di sottolineare le differenze tra questi due approcci, Coonan (2000, 113) ne individua due: l’orientamento sulla disciplina - il veicolo è la LS, e l’orientamento sulla lingua - il veicolo è il contenuto.

DIDATTICA DELLE MICROLINGUE INSEGNAMENTO BILINGUE E DIDATTICA

DELLE MICRILINGUE Il pubblico è essenzialmente adulto: la didattica delle ML esige di un approccio andragogico

Il pubblico è costituito essenzialmente da studenti in età scolare e in periodo di sviluppo: l’approccio è principalmente pedagogico

L’insegnamento delle ML è riferito a settori specifici scientifici, professionali tecnici.

L’insegnamento bilingue è collegato ai bisogni delle istituzioni scolastiche e alle aree disciplinari che costituiscono i curricoli scolastici

Lo studente di una ML ha una motivazione strumentale immediata, in quanto le conoscenze apprese possono essere fin da subiti riutilizzate nel suo ambito professionale.

Lo studente che affronta un programma bilingue non ha necessariamente una motivazione immediata e strumentale, in quanto non sempre è in grado di proiettarsi nel futuro per vedere i vantaggi dello studio.

Lo studente della microlingua è più motivato, perché la lingua appresa può essere immediatamente sfruttata nella professione (Coonan, 2000:112)

Lo studente della lingua seconda è più motivato all’aspetto globale, culturale, educativo, non focalizzato sull’applica-zione immediata, ma sull’acquisizione della nuova cultura.

L’obiettivo principale è la competenza microlinguistica.

Gli obiettivi primari riguardano l’acquisizione dei contenuti disciplinari.

Lo studente di ML è competente nel settore di studio o professionale al quale la ML attiene: va quindi sviluppata una didattica collaborativa.

Lo studente che studia in una lingua seconda ha bisogno di imparare sia la lingua che i contenuti disciplinari, necessitando di una didattica supportiva e integrativa.

L’insegnante di una ML è un esperto di lingua, mentre non è tenuto a conoscere la disciplina o l’ambito professionale al quale la ML si riferisce.

L’insegnante di scuola con una classe plurilingue di norma è un esperto disciplinare, non necessariamente con una preparazione specifica sulle caratteristiche della lingua che veicola la materia che insegna.

Tabella n. 1. Differenze tra la didattica di microlingue e insegnamento bilingue (adattato da Luise, 2006:156)

Nuove tendenze del concetto di educazione bilingue. Nel corso degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, ai livelli nazionali in Europa, si

dedica molta attenzione alle possibilità formative dell’educazione bilingue comprese quale curriculum unificato in due lingue veicolari, di cui una dovrebbe essere la lingua materna.

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Le maggiori ragioni per un tale sviluppo stanno nella ricerca delle soluzioni per la tutela delle lingue minoritarie autoctone, in pericolo di estinzione in via naturale, con lo scopo di trovare nuove modalità di ampliamento delle diversità linguistiche nell’ambiente scolastico e migliorare la qualità del loro insegnamento.

Pubblicando il Libro bianco (1996) Teaching and Learning: Towards the Learning Society, La Commissione Europea ha centrato sulla necessità di far progredire la qualità dell’insegnamento di lingue straniere. Una delle proposte del documento comprende anche la possibilità di inserire nelle scuole secondarie l’insegnamento di alcune materie in lingua straniera. Le tendenze che in Europa si riferiscono alla politica dell’insegnamento di lingue straniere sono presentate nell’altro documento europeo Quadro comune europeo di riferimento per le lingue: apprendimento insegnamento valutazione (2002) del Consiglio d’Europa, contenendo anche la proposta sui possibili scenari di curricolo presentati nel 1998 al Consiglio d’Europa.

Un nuovo stimolo all’educazione bilingue è stata la firma degli Accordi di Maastriht, p. 126, con il quale i confini d’Europa rimangono aperti, con le conseguenti migrazioni e la mobilità di persone e di affari tra i rispettivi paesi.

L’educazione bilingue e l’insegnamento bilingue in Europa I programmi di educazione bilingue sono numerosi in tutto il mondo. Vengono

sviluppati, come spiegato precedentemente, in base a vari modelli, come particolari progetti di intere nazioni, istituzioni statali e programmi al livello locale. I modelli dell’educazione bilingue in Europa del Nord variano dalle scuole tradizionali bilingui fino alle nuove esperienze dei nuovi modelli, CLIL incluso. In Europa, l’insegnamento bilingue viene applicato prevalentemente con intenzione di attivare l’attenzione per le lingue minoritarie, es. Gallese in Galles, svedese e sami in Finlandia, finlandese e estone e sami in Svezia. Nei Paesi Scandinavi esiste l’interesse grande per la lingua inglese e per le nuove soluzioni per insegnamento. La Svezia e la Finlandia primeggiano nel loro ruolo innovativo in questo settore. In Finlandia l’insegnamento in lingue straniere è stato introdotto nel 1989, e dal 1991 per l’introduzione dell’insegnamento bilingue non ne è necessario il permesso delle autorità. L’insegnamento bilingue in Svezia dura da più di un secolo, su richiesta dei genitori, insegnanti e studenti stessi. Sono in uso due modelli: il modello dell’inserimento graduato della lingua veicolare partendo da una materia fino all’immersione completa, e il modello dell’immersione completa.

Nell’Europa centrale sono radicati tradizionali modelli di classiche scuole bilingui, classi bilingui e classi europee. Oltre nelle metropoli delle città europee tale tipo di insegnamento si trova prima di tutto nelle regioni di confine. Dalla fine degli anni novanta si auspica questo tipo di insegnamento e ne si registra il continuo progresso5.

In Francia si sviluppano quattro modelli di insegnamento bilingue. Classi bilingui, dagli anni settanta del secolo scorso, oltre al numero più elevato di ore di lingua straniera, in lingua straniera si studiano materie artistiche e educazione fisica. Classi internazionali, fondate nelle grandi metropoli e nelle zone limitrofe, con il minimo di 25% di studenti di nazionalità non francese, con ore supplementari di lingua straniera ed ore di geografia e storia in lingua straniera. Certificato comune, iniziato negli anni ottanta, prevede l’insegnamento bilingue di tedesco e francese in base al programma in vigore in due paesi. L’insegnamento viene impartito seguendo il programma francese, mentre i programmi di geografia e storia sono stati elaborati con le 5 Per informazioni complete sulle attività relative all’educazione ed insegnamento delle lingue in Europa

consultare: http://www.coe.int/t/dg4/linguistic/default_en.asp,

http://ec.europa.eu/education/policies/lang/languages_en.html

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autorità competenti tedesche. Classi europee, fondate nel 1991, con lo scopo di sviluppare la competenza linguistica degli studenti e migliorare le conoscenze culturali. La lingua straniera viene insegnata due anni prima dell’inizio dell’insegnamento delle materie non linguistiche.

Nell’Europa del Sud la maggior parte delle innovazioni si riferisce ai nuovi modelli che vengono applicati in Italia e in Spagna, per salvaguardare le lingue minoritarie o autoctone.

In Italia vigono due modelli: da una parte ci sono programmi bilingui per la salvaguardia delle lingue autoctone minoritarie francese in Valle d’Aosta e tedesco nel Alto Adige, come pure dello sloveno nel Friuli, e dall’altra programmi di educazione bilingue per miglioramento dell’insegnamento di lingue straniere ed inserimento del curriculo europeo.

Insegnamento bilingue in Serbia L’Insegnamento bilingue in Serbia viene impartito in francese e in italiano, dall’anno scolastico 2004/2005. Dopo lunghi preparativi e lavoro concordato dei Ministeri per la pubblica Istruzione e degli Affari Esteri dei Tre paesi, Francia, Italia e Serbia.

Il progetto si esegue a due livelli: nella scuola elementare e nel liceo, nella scuola secondaria.

In due sezioni della scuola elementare “Vladislav Ribnikar”, dalla settima elementare, l’insegnamento di chimica e matematica viene effettuato in lingua francese.

Nella scuola superiore, nel Terzo liceo di Belgrado, l’insegnamento si effettua in francese e in italiano. Le materie che vengono insegnate in italiano cambiano secondo le necessitò curricolari, ma anche concorde alle disponibilità del quadro insegnante capace di insegnare in italiano: storia, geografia, chimica, latino, storia dell’arte, biologia, filosofia, sociologia. Inoltre, il curriculum prevede 5 ore di lingua italiana.

Per accedere alle classi bilingui gli studenti interessati devono superare l’esame di ammissione di lingua francese/italiana, in base dal Regolamento del Ministero per la Pubblica Istruzione della Serbia. L’esame viene redatto con la particolare cura, secondo le esigenze dell’insegnamento bilingue, in un primo momento dedicando più attenzione alle abilità ricettive, ma valutando anche le abilità produttive e interattive.

Il modello dell’insegnamento in uso in Serbia è da ritenersi un CLIL rielaborato e applicato alla realtà serba. A differenza del modello, dove l’insegnante della materia, non è in obbligo di conoscere la lingua straniera, per poter insegnare nella classe bilingue, l’insegnante deve possedere la laurea universitaria in materia, e conoscenze linguistiche del livello minimo di B2 del QCE.

Il quadro insegnante, per il momento, rappresenta il problema più sensibile del progetto. Perciò si investe molto nella specializzazione linguistica degli insegnanti della scuola che hanno aderito al programma, organizzando soggiorni in Italia nelle scuole specializzate e attirando con inviti pubblici gli insegnanti che potrebbero aderire al progetto.

E’ in corso la specializzazione degli insegnanti della scuola, con il contributo delle rispettive Autorità italiane e francesi, borse di studio, aiuti finanziari, partecipazione del corpo insegnante inviato della Francia/Italia o del Liceo francese Belgrado, o dei colleghi dell’Università di Belgrado, in possesso delle lingue richieste. Tutti gli insegnanti inseriti nel progetto di specializzazione linguistica dovrebbero entrare in classe tra il 2006/07 e il 2008/09.

Conclusioni L’insegnamento bilingue porta grandi novità e numerosi pregi nei sistemi scolastici che lo

applicano. Oltre alle nuove strategie e nuovo spirito dell’insegnamento modulare, lavoro di gruppo, metodi moderni dove viene applicato insegnamento attivo secondo bisogni specifici degli studenti, l’insegnamento bilingue offre vari elementi positivi agli studenti, agli insegnanti, alla scuola ed alla società.

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L’instaurazione delle sezioni bilingui in Serbia, rispecchia gli attuali principi europei di politica linguistica sul bi-plurilinguismo, conforme anche alle tendenze attuali nella teoria dell’insegnamento linguistico, avendo come risultato numerosi ed indiscutibili pregi: l’ampliamento delle competenze linguistiche dell’apprendente in lingua straniera, sviluppo della creatività e della sensibilizzazione per la comunicazione, maggiori capacità di analisi e della soluzione dei problemi; ampliamento di altre competenze in lingua straniera veicolare e in lingua materna; sviluppo della personalità dell’allievo focalizzata al maggiore rispetto della propria persona, alla flessibilità ed adattabilità, alla sicurezza nelle interazioni sociali, sviluppo delle capacità di instaurare contatti reciproci, più solidi legami con le realtà parziali e globali europee e con ambienti culturali diversi dal proprio; creazione dell’esperienza di “due mondi linguistici” (Baker, 2000); facilitazioni negli scambi delle informazioni nel senso più lato possibile, dalla famiglia, dalla comunità, dall’impiego fino ai contatti internazionali nel contesto europeo e mondiale; incrocio dei sistemi educativi dei paesi partecipanti, trasferimento dei saperi accademici, spirito delle comune collaborazione su tutti i livelli delle attività umane; educazione dell’aperto e tollerante cittadino europeo bisognoso dell’armonia sociale.

Il progetto innovativo dell’insegnamento bilingue porta a tutti i paesi che si adoperano ad inserirlo nei loro sistemi di educazione l’indiscutibile progresso e beneficio.

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Studiare in una lingua straniera

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Julijana Vučo

UČITI NA STRANOM JEZIKU

(R e z i m e) Savremene tendencije u jezičkoj politici i jezičkom planiranju u Evropi zasnovane su na pojmovima bilingvizma i plurilingvizma, osnovnih načela jednakosti i jedinstva u društvima sazdanim od različitih etničkih elemenata. U radu se sagledavaju novi teorijski pravci i praktične realizacije bilingvalne nastave i oblici bilingvalnih aktivnosti u svetu. Predstavlja se i pionirski program uvođenja nastave na italijanskom jeziku, pored srpskog, u jednom odeljenju u Srbiji.

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Slobodan STEVIĆ (Università di Belgrado)

ALCUNI ELEMENTI DEL DISCORSO QUOTIDIANO Parole chiave: conversazione, sezione d’apertura/chiusura, ripetizione, segnali discorsivi,

riempitivi, co-operazione

L’analisi conversazionale ci introduce nei meccanismi principali della nostra espressione linguistica orale. Il nostro comportamento linguistico in questo ambito viene studiato convogliando innanzi tutto la nostra attenzione sulla struttura interattiva di tale espressione. Noi, infatti, – parlando – influiamo gli uni sugli altri, per il tramite della lingua, grazie alle nostre azioni [linguistiche]. Il sistema di alternanza del turno oppure l’avvicendamento dei turni è il meccanismo principale che controlla questo interscambio linguistico. Le unità fondamentali di questa branca scientifica sono l’enunciato e il turno. Con l’enunciato svolgiamo azioni specifiche: il saluto, la domanda, il commento; è l’unità fondamentale per la formazione del turno, che consiste in uno o più enunciati. Definiamo, invece, turno come unità che segue le ’’parole“ di un parlatore precedente e insieme precede il turno successivo di un secondo o di un altro parlante a seguire. La sequenza è almeno una struttura bipartita; è caratterizzata dall’azione di risposta dell’interlocutore. Si chiamano coppie adiacenti le sequenze strettamente legate, come domanda – risposta, saluto – saluto. Il ’’feed-back“ o retroazione si collega strettamente, innanzi tutto, con questo tipo di sequenza. E proprio questo è il tipo la cui presenza predomina all’inizio e alla fine della conversazione.

La conversazione informale ordinaria ha una sua struttura chiara: in particolare ne è stata studiata la sezione d’apertura/chiusura. L’interazione degli interlocutori continua poi a svilupparsi mediante gli argomenti della conversazione, che possono essere più di uno. Nell’interscambio la ripetizione svolge un ruolo centrale; è estremamente diffusa e la possiamo considerare caratteristica dell’oralità. Allo stesso modo è rilevante il posto che nella conversazione occupano i segnali discorsivi. Ne ricorderemo alcuni di uso frequente: sai, ecco, praticamente, cioè, beh, insomma, voglio dire, eh, niente, esatto. Essi sono tanto frequenti e manifesti che possiamo dire che ’’costellano il discorso quotidiano“1 Come la ripetizione, sono anch’essi polivalenti, vale a dire hanno più funzioni; vengono definiti anche riempitivi o pause

1 v. Bazzanella (1994: 146). Noi ci basiamo soprattutto su questo autore, utilizzando , in particolare, anche

un suo studio - Bazzanella (1999). Fra gli autori italiani che analizzano la nostra lingua quotidiana distinguiamo anche Marcarino (1997). Vengono qui citati anche Galatolo e Palotti (a c. di) (1999). Per quanto poi riguarda il procedimento della ripetizione, innanzi tutto ci richiamano a Tannen (1984, 1989). La letteratura anglosassone fondamentale che si occupa di tale questione è assai sviluppata e ben conosciuta nella prassi. Qui distinguiamo soltanto Levinson (1984), che ci propone un approccio esaustivo all’analisi della conversazione.

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Alcuni elementi del discorso quotidiano 87

piene. Anche la mitigazione e il rafforzamento si distinguono in modo significativo nel parlato colloquiale.

E, infine, una volta che tutti questi elementi della conversazione si siano reciprocamente combinati, il nostro discorso quotidiano, nel migliore dei casi, diventa ’’dance“ of syncronized rhytmic ensemble.2

All’inizio del nostro primo dialogo registriamo innanzi tutto come si realizza il segmento dell’apertura:3

A: pronto? B: ah Patrizia A: ciao bella B: ciao

In questo caso lo scambio linguistico è ineccepibile, vale a dire in assoluto accordo con le nostre aspettative. Innanzi tutto rileviamo che il chiamante (B) riconosce la voce del chiamato, che parla per primo; il riconoscimento è reciproco. In questa sezione le coppie adiacenti sono necessarie.

Subito dopo notiamo l’enunciato t’avrei chiamato anch’io. Qui potrebbe essere in una pura funzione fatica. Solitamente la conversazione continua toccando una delle nostre consuete attività quotidiane:

A: in questo momento m’hai trovato un po’_ [RIDE] son tornata dalla spesa meno male con Mattia guarda nel momento in cui scopri che i figli sono una risorsa B: perché ti portano i pesi mh A: sì infatti B: invece a me me li fanno portare [RIDE]

L’argomento i figli sono una risorsa viene qui accolto dall’interlocutore; così fin dall’inizio vediamo che gli interlocutori sono in completa sintonia reciproca. Dopo un episodio così breve segue uno scambio, che è proprio di ogni sezione d’apertura:

A: senti prima di tutto come stai? B: io non c’è male_ A: mh B: mh sono un po’ affaticata e scocciata non ce la faccio più fra poco lascio tutto CIDI_ eh scuola_ la scuola no perché mi

piace eh? A: sono allo stesso livello anch’io guarda ahah non apriamo questo

tasto La conversazione si sviluppa fin dall’inizio senza disturbi; infatti gli interlocutori mostrano una completa sintonia reciproca. Innanzi tutto, la domanda convenzionale e la relativa risposta (’’come stai – non c’è male“) si manifestano col sostegno appropriato della coppia adiacente. Inoltre notiamo ’’le particelle“ senti, mh, eh?, ahah; nel terzo e quarto turno, l’accordo (cioè la 2 Maynard (1989: 222) 3 Esempi – FB05 e FB13 presi dal LIP (V. De Mauro et al.)(1993). Procedure di trascrizione: < ? > ,

indov<ina>: parole inintelligibili; pause: #, la tenuta vocalica, il trattino: ciao_.

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ripetizione) si esprime anche con il segnale discorsivo ’’mh“. Viene definito anche pausa piena, ovvero il riempitivo. Attira la nostra attenzione anche la mitigazione ’’un po’ affaticata“ , che pure è seguita immediatamente da un certo rafforzamento – non ce la faccio più. L’interlocutore, tuttavia, cerca di impedire l’ulteriore scambio di questo tipo, con l’enunciato non apriamo questo tasto. (B) è d’accordo anche in questo, così che questo segmento si conclude con il suo contributo ’’sì ma perché ci disperdiamo troppo secondo me“.

Il motivo della chiamata, solitamente, si espone soltanto dopo il rituale scambio iniziale; qui è l’enunciato ’’com’è andata la conferenza stampa“. In esso, però, notiamo innanzi tutto i segnali discorsivi, che anche qui adempiono alla loro funzione principale – richiamare l’attenzione dell’interlocutore:

B: senti Patrizia dimmi una cosa come è andata la conferenza stampa?

Di solito con questo enunciato, ovvero in questo turno ci ripetiamo; questa ripetizione viene definita auto-ripetizione:

A: allora la conferenza stampa che ti volevo dire la conferenza stampa noi naturalmente abbiamo indetto una conferenza stampa il giorno in cui c’era lo sciopero della stampa [ ]

Tuttavia nella risposta scopriamo che l’enunciato dell’inizio della conversazione –

t’avrei chiamato anch’io – non è, in realtà, una delle semplici forme di cortesia, ma mostra, invece, un interesse reale del parlante:

A: in circolazione allora_ era uno dei motivi per cui ti volevo chiamare Il segnale discorsivo ’’allora“ (nei due casi appena citati) si colloca nella sua posizione

iniziale come in quella mediana. Evidentemente il parlante non si attiene alla regola scolastica ’’Non iniziare un discorso con un dunque o un allora“. L’enunciato precedente viene continuato comunicando all’interlocutore un’informazione molto precisa:

A: [ ] che abbiamo fissato per il martedì dodici alle diciassette all’aula magna di palazzo Fenzi_

Questo è un esempio di enunciato completo, chiaro e assolutamente informativo. Ha una forma sintetica, completa e nucleare. Ma, evidentemente, l’interlocutore non è in grado di conservare subito tutto nella memoria: per questo la ripetizione, in questo caso, è giustificata e necessaria. Così identifichiamo, prima di tutto, la correzione – anche questo procedimento consueto nel nostro interscambio:4

B: aspetta martedì dodici ore A: diciassette B: diciassette aula magna A: di palazzo Finzi

4 V. Schegloff, Jefferson i Sacks (1977).

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Alcuni elementi del discorso quotidiano 89

Uno scambio linguistico come questo si distingue come assai caratteristico della nostra

colloquialità quotidiana. Infatti la nostra attenzione vi appare più o meno dispersa; e proprio quando abbiamo un estremo bisogno di attenzione e concentrazione dovendo definire i termini di un incontro. Proprio per questo gli interlocutori, anche in questo caso, precisano e definiscono una certa informazione. E la ripetizione, come proprietà linguistica accentuata la rileviamo anche nella continuazione del nostro scambio.

A: ahah ma comunque <???> un altro momento B: no comunque è questa la A: insomma l’iniziativa che segue al documento è questa

Questo tipo di ripetizione – con cui si ripete un elemento dell’enunciato dell’interlocutore – viene definita etero-ripetizione. Al dato che la ripetizione nel nostro parlato sia onnipresente tanto da permearlo in modo significativo, fa riferimento anche il seguente segmento della nostra conversazione:

A: ah va bene allora questo d’accordo B: questo martedì dodici La ripetizione l’abbiamo evidenziata prima di tutto nelle parole di uno degli

interlocutori. Quando, invece, caratterizza due o più interlocutori, anch’essa è una specie di tessuto connettivo. Innanzi tutto contribuisce alla connessione del dialogo. Si manifesta sia nella ripetizione di forme identiche, sia nell’uso delle loro variazioni. E al principio della co-operazione ci può ricondurre anche una piccola mossa, appena percettibile dell’interlocutore, il quale, in questo caso, accoglie, anzi, un elemento ’’corretto“ del suo enunciato:

A: [ ] questo sciopero era indirizzato contro di me [ ] B: sì però non era diretto contro di te A: e be’ io vorrei sapè contro chi era diretto allora

Nell’analisi della conversazione vengono esaminate in modo particolarmente dettagliato

sia la sezione dell’apertura sia quella della chiusura della conversazione. Le conversazioni telefoniche si sono qui mostrate come particolarmente indicate perché mettono in chiara evidenza anche l’inizio dell’interazione, che è assai difficile registrare negli incontri faccia a faccia. La sezione di chiusura, comunemente presuppone l’accordo su un incontro futuro. Si può trattare di un appuntamento molto preciso, ma anche dell’adeguato desiderio che esso avvenga. (Ci vediamo è in questo caso la formula consueta.) Nel nostro esempio si tratta della definizione concreta di un incontro, evidenziato fin dall’inizio della conversazione. Tale modalità di accordo fornisce anche il motivo per l’invito, cioè il ’’topic“ principale. In questa sezione notiamo anche un’accentuata ripetizione, che è in funzione di una informazione esatta e precisa:

B: venerdì otto festa della donna pomeriggio ore diciassette A: ore diciassette B: ore diciassette A: da me_ B: da te

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Un esempio di auto- come di etero-ripetizione lo cogliamo anche nel segmento seguente:

A: poi B: eh invece poi ci vediamo martedì dodici sempre per il documento a palazzo Fenzi A: sì B: e poi ci vediamo il venerdì A: il venerdì su quindici B: sì A: se poi il venerdì diciassette c’abbiamo dieci minuti per parlare

venerdì otto c’abbiamo dieci minuti per parlare di Scandicci_

Così la conversazione si avvicina alla sua conclusione. Anche qui prima di tutto richiamiamo l’attenzione sui riempitivi, che precedono la consueta forma rituale:

B: e niente allora salutami tutta la famiglia.

L’interscambio, finalmente, si avvicina alla fine, dove si sottolinea l’importanza dell’appuntamento concordato:

A: mh hm B: e va be’ A: allora siamo d’accordo così eh se non ci si sente più ci si vede

venerdì pomeriggio alle cinque

Il riempitivo ovvero il segnale discorsivo ci mostra in questo passo che il colloquio si sta esaurendo. Subito dopo (dopo un’ulteriore conferma del futuro appuntamento), esso si conclude con lo scambio di chiusura, vale a dire con lo scambio dei saluti. Notiamo come qui si distinguano esempi palesi di coppie adiacenti in tutto complete (a)-(b):

(a) B: va bene d’accordo (b) A: va bene (a) B: un bacione (b) A: anche a te (a) B: ciao ciao (b) A: ciao bella (a) B: ciao (b) A: ciao ciao

Gli interlocutori, evidentemente, svolgono accuratamente anche questa sezione della conversazione. Infatti la concludono con le loro esemplari coppie adiacenti. Questo è, dunque, un esempio manifesto di una ’’perfetta“ sezione canonica di chiusura. Gli interlocutori completano e terminano con cura tutti i loro enunciati. E questo è uno dei modi strutturalmente eminenti di mostrare come i partecipanti all’interazione agiscano all’insegna della collaborazione e della sintonia reciproca.

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La pianificazione verbale è la caratteristica fondamentale di tutta la nostra

comunicazione linguistica. Così il parlante, nel caso seguente, mostra in più modi il proprio impaccio nel processo di concettualizzazione: si interrompe, tiene sospesa la voce, ricorre ai riempitivi, e si serve del segnale discorsivo: B: [ ] quelli mi hanno preso per controllora_ e e quindi mi abb<assano> cioè una_ mi vogliono dimostrare la mia inutilità oppure_ il mio insomma che loro_ farebbero volentieri a meno Rilevando la propria decisione, il parlante è un po’ incerto nel suo enunciato; notiamo come qui il segnale discorsivo cioè sia usato nella sua funzione fondamentale: quella di segnale di riformulazione.

Il parlante, inoltre, la sua espressione la rafforza (’’io a questi gli devo dire“) in modo

appropriato; come, del resto, ne rileviamo anche l’inclinazione a ’’mitigare“ alcuni dati: A: sì_ ma capito Patrizia il problema è questo io a questi gli devo dire delle cose che non vanno bene Qui abbiamo sicuramente un procedimento di intensificazione. Questo è lo stesso meccanismo che, fra l’altro, adottiamo anche nel conflitto verbale; e una delle sue forme specifiche è indubbiamente il ’’pettegolezzo“:5

A: per esempio che loro non sanno distinguere tra eh [RIDE] scusami obiettivi metodi e strumenti è una cosa un po’ antipatica andare a dire questo agli insegnanti Il nostro parlante è evidentemente incline all’eufemismo, come notiamo dalla sua mitigazione dell’espressione linguistica, cioè nell’enunciato è una cosa un po’ antipatica. D’altra parte, lo stesso parlante, più avanti, preferisce una parola molto più ’’precisa“:

A: e loro fanno delle pasticciate delle porcate tremende_ ecco allora

Anche nello scambio che fa seguito rileviamo la struttura corretta di una tipica conversazione telefonica. Naturalmente, le differenze non mancano; la prima va colta nel fatto che la sezione di apertura si allontana fino a un certo punto dallo scambio indisturbato dei turni esemplari. La ragione di questo, però, è innanzi tutto di natura tecnica, cioè di ’’disturbi sulla linea’’. In questo caso il parlante ricorre alla ripetizione perché qui è necessaria:

A: pronto? pronto? pronto? pronto? Che è_? che cazzo è successo? sì è che no su aspetta un attimo scusa [ ] asp<etta> fermo lì ah fermo ci sei’?

5 V. Grimshaw (ed.)(1990)

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All’enunciato ti sento lontanissimo fa seguito anche il suo rafforzamento: ma mi sembra proprio tu c’abbia il telefono ai piedi. Finalmente la ricezione del messaggio:

A: ah ecco va bene adesso comunque ci si capisce

L’enunciato comincia con i soliti segnali (ah, ecco, va bene) con cui qui si fa notare che è stato rimosso l’ostacolo alla comunicazione. Rileviamo in particolare il segnale discorsivo ’’ecco“: lo usiamo per iniziare il proprio turno, e anche per cederlo; a metà dell’enunciato esso indica, prima di tutto, una certa indecisione. Ecco ci serve inoltre anche per sottolineare un determinato item linguistico o l’intero enunciato.

I partecipanti all’interazione di questo scambio concordano un loro incontro subito dopo la

sezione di apertura. Nella conservazione precedente (in questa sezione) abbiamo evidenziato un enunciato assolutamente preciso e completo. Qui, invece, come vediamo, non è così; inoltre notiamo che uno degli interlocutori si ricollega col suo enunciato direttamente all’enunciato dell’altro, includendolo nel proprio. Allo stesso modo richiamiamo l’attenzione sull’uso dei riempitivi:

B: a che ora A: non si sa B: perché? A: perché bisogna vedere_ com’è il tempo lì eh comunque cioè io tenderò per venir via il prima possibile

Per un verso lo scambio linguistico è qui estremamente lapidario; per l’altro, notiamo che l’enunciato si allarga in punti in cui ci sembra eccessivo. L’ informazione che riceve l’interlocutore, anche nel caso che segue, è in un certo senso indeterminata:

B: a che ora? A: fai conto_ verso le cinque quattro e mezza cinque spero anche

prima

Mediante la ripetizione si compiono più funzioni. Ad esempio può segnalare la sorpresa o può servire a richiedere una spiegazione. Nell’esempio che segue notiamo una ripetizione particolarmente accentuata:

A: ahah infatti [RIDONO] eh quindi_ B: e be’ allora io la torta non la

faccio A: sì falla falla B: eh? A: falla falla B: ma io non la faccio A: falla B: pure? A: sì B: e perché [RIDONO] B: non la faccio A: sì falla

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Uno dei mezzi nonverbali (in questo caso è il riso) ci aiuta a stabilire la natura di questo

tipo di ripetizione. In determinate circostanze abbiamo certamente presente anche il fatto che gli interlocutori sono giovani. Pertanto potremmo definire uno scambio di questo tipo come semplice ’’gioco di parole“ o come un intervallo sui generis.

Specie nella lingua dei giovani il verbo fare è particolarmente frequente. Si collega, infatti, con il presente storico, che nel parlato – e specie nella narrazione orale – è di uso alquanto frequente:

B: gli telefona XYZ e gli fa_ ahah stasera vedi che si fa così Veronica fa ah non ci sono io sono con vado con quegli altri eh lì a teatro e gli fa XYZ quindi non ci sei? no ciao e riattacca

In questo enunciato innanzi tutto rileviamo il discorso indiretto; la trasmissione avviene, certamente, in modo più o meno approssimativo. Il partecipante all’interazione qui, verosimilmente, cerca di mostrare l’indecisione del parlante le cui parole cita. Opposta a questo suo enunciato si pone come estremamente sintetica la forma che segue – ’’quindi non ci sei? no ciao e riattacca“.

Nel turno seguente prima di tutto cogliamo l’auto-correzione; segue il demarcativo

(così’, seguito da una pausa). Con esso, infatti, il discorso si organizza – in questo caso separando o concludendo il primo segmento, quello introduttivo, della narrazione. L’enunciato successivo (compreso in questo turno piuttosto lungo) rimane incompiuto. Invece, quanto è poi più che evidente è soprattutto la manifesta ripetizione:

A: ganza # ieri sera mi ritelefona dopo prima di andare cosi’ # mi ha chiesto se mi poteva portare una cassetta gli registravo una cosa che_ # e gli e gli faccio va be’ comunque dopo quando uscite di li’ vi vi si viene a prendere siamo andati dopo siamo andati al cinema no? eh # e fa_ eh va bene ci ci ci si vede dopo allora si va bene si arriva lì escono ahah li ab<biamo> abbiamo aspettati un’ ora escono eh e arriva_ si arriva lì si saluta così <?> e XYZ [ ] Nella nostra produzione linguistica noi, in gran parte, ricorriamo all’automaticità: è infatti cognitivamente meno ’’costoso“ riutilizzare un elemento già prodotto (da se stesso o dal proprio interlocutore), che non elaborarne un altro (Bazzanella 1999: 211). Questo enunciato di notevole lunghezza continua a mostrare, cioè conferma i caratteri fondamentali della narrazione del parlante:6 [ ] # ha detto no non gli andava di venire andava di venire andava a letto la XYZ_ eh gli fo ah va bene così dice sì cioè scambio tre parole e mezzo dice vuoi che ti si porti a casa? no no vo con XYZ insomma e va via ganzo # va bo’ io sono rimasto

6 Potremmo consideralo anche come un tipo di narrazione, ma non anche come racconto. Esso, infatti,

nell’analisi del discorso ha alcune sue proprietà necessarie e caratteristiche.

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un po’ così poi prat<icamente> praticamente si è aspettato un’ora poi si <?> nulla # boh? Inoltre qui rileviamo l’uso di ’’insomma“, e di ’’praticamente“ – il segnale discorsivo che si definisce come ’’segnale di incertezza“. Nello scambio linguistico quotidiano, questi suoi due elementi sono per lo più in funzione di riempitivi. L’interiezione ’’boh“, invece, esprime incertezza, noncuranza, incredulità, disprezzo.7 E questo segnale discorsivo lo troviamo anche altrove:

A: non lo so ma mi boh? B: boh sì infatti è una caz<zata>

I nostri parlanti, naturalmente, inseriscono a piene mani nel loro enunciato espressioni del

repertorio linguistico ’’informale“, come è il caso anche nell’enunciato non che me ne freghi particolarmente. E qui (nella sezione di apertura della conversazione) abbiamo già notato un certo rafforzamento – che cazzo è successo. Al procedimento dell’intensificazione appartiene anche la ’’mitigazione“, che qui viene compiuta con l’aiuto del diminutivo:

A: ci sta un po’ di_ B: sì? di incazzaturina ieri con la XYZ B: ah non l’ho vista A: ci ha trattato abbastanza di merda

Così – invece che, ad esempio, con l’espressione trattare dall’alto in basso – il parlante in questo caso si serve di un suo ’’sinonimo“.

Notiamo la ripetizione anche nello scambio successivo; questo ne è, anche qui, completamente permeato. Allo stesso modo notiamo come gli interlocutori anche in questa occasione si accordino, mostrando un atteggiamento similare:

A: sì infatti bellino il film B: sì? anch’io ho visto un film A: sì hai visto Le Età Di Lulù te? B: cacata disumana A: sì infatti me l’avevano detto che era una stronzata notevole

Bazzanella annota che ’’niente che viene molto usato dai giovani come semplice riempitivo [

] segnala incertezza o difficoltà di formulazione“ (1994: 152). Col tramite di niente – al posto di ’’allora“ oppure ’’insomma“, ovvero anche insieme con essi – tuttavia, noi possiamo cominciare un enunciato ma anche concluderlo. É quanto ci mostrano anche i seguenti enunciati (proprio alla fine della sezione di chiusura), che pullulano di riempitivi. Mettiamo in rilievo anche ’’comunque“, con cui, altrimenti, si annuncia una digressione. Questa, però, non è la sua unica funzione. Qui anche questo segnale discorsivo viene usato come riempitivo:

A: boh sarà_ va’ a saperlo eh cioè non non che me ne freghi

7 Così la definisce lo Zingarelli.

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particolarmente niente comunque (a) B: ahah va be’ (b) A: va buono # ci si vede oggi pomeriggio allora bon ciao

Subito dopo fa seguito la sezione di chiusura, che – in questo caso – è molto stringata. Qui

anche i parlanti si richiamano ad un incontro vicino, concordato. Pertanto anche lo scambio conclusivo – la coppia adiacente (a)-(b) – viene compiuto con la massima economicità. Mentre in altri casi una conclusione di questo tipo (quasi improvvisa) sarebbe inadeguata, anzi, scortese, qui, invece, è del tutto appropriata. La sezione di apertura/chiusura nel primo dei due nostri dialoghi vengono eseguite secondo tutti i principi e le regole che caratterizzano una interazione corretta, completa, in tutto e per tutto esemplare. Nella seconda conversazione, però, queste due sezioni sono ridotte alla loro forma essenziale, cioè al formulario minimo. Esse, pertanto, si distinguono notevolmente dallo scambio dialogico del tutto compiuto ed ’’esplicito“. L’argomento principale del dialogo, in entrambi i casi, è la definizione di un incontro. Nel primo esempio si esegue con un ’’uso“ delle parole più che sufficiente, tanto che si determina con assoluta precisione; mentre nel secondo caso si arriva a un incontro futuro un po’ indefinito.

La ripetizione, nel primo esempio, si rileva uno strumento appropriato, efficace di scambio. Così per suo mezzo una informazione importante si conferma completamente ed in modo chiaro. Questo è solo un uso (nei nostri esempi rilevante) della ripetizione; essa, inoltre, può compiere più funzioni. Anche con i segnali discorsivi si adempiono diverse funzioni. Come riempitivi, li troviamo in entrambi i modelli di conversazione. La seconda, però, ne è tutta permeata, e questo vale anche per la ripetizione. La sua caratteristica principale è un’espressione linguistica trascurata, incurante; in questo consiste la differenza fondamentale che esiste fra le due interazioni. Il discorso indiretto è uno strumento ineludibile nel nostro parlato comune; particolarmente efficace nella narrazione, come quella che constatiamo soltanto nella seconda conversazione. Nel nostro discorso quotidiano è di particolare importanza anche il procedimento dell’intensificazione, vale a dire del rafforzamento o della mitigazione della forza di conversazione dell’espressione linguistica. Questa è una procedura che certamente rileviamo in entrambi i nostri due casi. In questo uso reale della lingua gli interlocutori si sintonizzano e si accordano in modo appropriato. I dialoghi si svolgono e si sviluppano quasi completamente senza ’’intoppi“ (del resto consueti). Nella nostra analisi pragmatica dell’uso linguistico notiamo come i partecipanti all’interazione si attengano in tutto al principio della co-operazione; e questa è la regola principale, di ordine superiore, di tutta la nostra comunicazione. Riferimenti bibliografici Bazzanella, C. (1994). Le facce del parlare. Un approccio pragmatico all’italiano parlato. La

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Slobodan Stević 96

Grimshaw, A.D. (ed.)(1990). Conflict Talk. Cambridge University Press, Cambridge. Levinson, S.C. (1983). Pragmatics. Cambridge University Press, Cambridge. Marcarino, A. (1997). Etnometodologia e analisi della conversazione. QuattroVenti, Urbino. Maynard, S.K. (1989). Japanese conversation: self-contextualization through structure and

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discourse. Cambridge University Press, Cambridge.

Slobodan Stević

NEKI ELEMENTI SVAKODNEVNOG JEZIKA

(R e z i m e)

Razgovorni jezik ispitujemo uz pomoć oruđa analize diskursa odnosno konverzacije. U jezičkoj upotrebi ispoljavaju se svojevrsna verbalna akcija i struktura. Mi se ovde pre svega dotičemo repeticije i diskursnih signala („partikule“, discourse markers). Naš korpus obuhvata dva razgovora telefonom; u njima takođe skrećemo pažnju na izvođenje odseka otvaranja i zatvaranja jezičke razmene.

Uporedivši dva primera, zapažamo kako su ovi odseci (u prvoj konverzaciji) izvedeni po svim pravilima kakva nam nalažu jedan uredan, razrađen postupak. Drugi se razgovor od prvoga razlikuje i po tome što su dva odseka ucelovljena na sasvim lakonski način; tu isto tako uočavamo znatnu upotrebu ispunjivača, koji su u prethodnom slučaju svedeni na najmanju moguću meru. Obeležje koje je dvema interakcijama zajedničko jeste poštovanje načela saradnje (co-operative principle). Sagovornici, naime, pokazuju kako opšte na sasvim primeren način – uzajamno usklađujući svoje doprinose razgovoru.

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Mila SAMARDŽIĆ (Università di Belgrado)

FUNZIONE SEGMENTATRICE DEL PUNTO FERMO NELLA NUOVA PROSA GIORNALISTICA

PAROLE CHIAVE: punteggiatura, punto, testo, prosa giornalistica, funzione segmentatrice

Nella sua Grammatica italiana, Luca Serianni (1989:I.204) distingue le seguenti

funzioni della punteggiatura: - funzione segmentatrice (quella principale) - funzione emotivo-intonativa - funzione di commento (metalinguistica) - funzione sintattica (di dare indicazioni sulla struttura frasale e sulle connessioni tra le

frasi sulla base della regolarità sintattiche.). L’uso della punteggiatura ingloba fenomeni come la subordinazione e la coordinazione,

i rapporti strutturali fra enunciati che appartengono a piani enunciativi diversi, ma anche travalica la sintassi e manifesta relazioni di carattere testuale.

Più la scrittura è formale, più vincolanti sono le convenzioni. È importante difatti tenere conto di tipi e generi testuali e diversi modi di scrivere, in base al variare della situazione comunicativa all’interno dello stesso genere (destinatari, rapporti e legami personali fra chi comunica, occasioni, argomenti ecc). Così la redazione dei testi scientifici o quelli legislativi richiede una certa uniformità dell’applicazione della punteggiatura fondata su criteri logico-semantici relativi a strutture frasali normalizzate, qualunque sia il loro grado di complessità, omologhe a un’organizzazione concettuale chiara e coerente, anche se di architettura complicata. La regolarità delle strutture richiede che anche la punteggiatura risponda a criteri rigorosi in accordo con l’esigenza di segnalare gli snodi del ragionamento e quindi le divisioni e le relazioni sia tra i membri delle frasi sia tra le frasi che compongono complessi più ampi e articolati. L’uniformità severa dell’interpungere corrisponde al rigore necessario all’organizzazione concettuale. Francesco Sabatini ha affermato che le leggi fondamentali appartengono al “tipo di testo” che pone i vincoli più stretti all’interpretazione, tanto da apparire prossimo al sistema virtuale della lingua in quanto tende ad essere il più possibile esplicito, oggettivo, estraneo alla ricerca di effetti speciali. D’altra parte, esistono i cosiddetti testi non convenzionali quando l’originalità con le sue soluzioni innovative può infrangere ed è questo che si tiene presente quando si prendono in esame gli impieghi delle unità interpuntive. Sono prodotti letterari o quelli che vorrebbero essere tali nelle intenzioni degli autori, oppure gli scritti informali (lettere familiari, messaggi, appunti, annotazioni di carattere personale, ecc). Gli eventuali giudizi sul grado di accettabilità dei modi di interpungere sono sempre relativi alle svariate situazioni di

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Mila Samardžić 98

discorso. In molti casi sarebbe interessante occuparsi delle leggi compositive interne al testo, leggi che sono intrinseche al “progetto testuale”, e agiscono a ogni livello.

Nella tipologia interpuntoria marcata rientra l’uso insistito del punto fermo in determinate funzioni. La frequenza del punto a separare non solo frasi indipendenti, ma anche coordinate, subordinate, sintagmi, rappresenta un procedimento molto esteso nella scrittura giornalistica. Sempre di più si tende a sostituire il punto fermo ad altri segni, come la virgola, il putno e virgola, i due punti. Con questo uso si ottiene un’efficacia polemica che sarebbe mancata se fosse stato usato un altro segno d’interpunzione.

Nell’architettura testuale il punto si presenta come elemento che separa e che al tempo spesso connette (quando, interrompendo una sequenza, segna una pausa significativa). Si tratta del cosiddetto valore “testuale” del punto il quale, come altre entità linguistiche dalla stessa funzione (per esempio, vari connettivi e segnali discorsivi), implica legami semantici o pragmatici con qualcosa che non è stato espresso manifestamente ma si può inferire da quanto è stato o sarà detto. La portata del punto oltrepassa l’ambito delle relazioni sintattiche perché investe la sfera dei legami (relativi al senso e al valore informativo, al mantenimento della continuità tematica, alla focalizzazione ecc.) che assicurano il sussistere del “testo” come unità coerente.

Il punto che frammenta le frasi scindendone i legami interni ha certamente una portata testuale. Proviamo a esaminare un effetto della triturazione sintattica:

1) Poi, si mise a parlare. Tranquillo. 2) Poi, si mise a parlare tranquillo. 1) La Chiesa, in Italia, non è più equidistante. Per diverse ragioni. (Diamanti, Repubblica

2006) 2) La Chiesa, in Italia, non è più equidistante per diverse ragioni. 1) E, in questo percorso, affianca la Destra. Per diffidenza verso la Sinistra. (Diamanti,

Repubblica 2006) 2) E, in questo percorso, affianca la Destra per diffidenza verso la Sinistra. 1) Così, oggi, la Sinistra al governo deve misurarsi con una "Chiesa d´opposizione".

Posizionata a destra. (Diamanti, Repubblica 2006) 2) Così, oggi, la Sinistra al governo deve misurarsi con una "Chiesa d´opposizione"

posizionata a destra. 1) Comunque. Non era questo che volevo dire. (Baricco, I barbari) 2) Comunque, non era questo che volevo dire.

In (1) con il punto che precede l’aggettivo o un altro elemento della frase e lo isola si

crea un enunciato olofrastico e si istituisce nell’intera sequenza una doppia focalizzazione. Dei due fuochi (a) comunque, b) non era questo; a) si mise a parlare, b) tranquillo; a) non è più equidistante, b) per diverse ragioni; a) affianca la Destra, b) per diffidenza verso la Sinistra; a) una "Chiesa d´opposizione", b) posizionata a destra) il più marcato è il secondo, per effetto dell’isolamento e del lavoro inferenziale a cui questo invita il lettore (e tutti gli diedero retta; al centro della sua attenzione si sono imposti i temi dell’etica...; alla quale non è servito aver eluso le questioni dell’etica pubblica...; nell’Italia Repubblicana, non si era mai visto...). Si tratta di un lavoro, per sua natura, testualmente coesivo e retoricamente connotato. Nella riscrittura di (2) che regolarizza la struttura frasale e dimezza la focalizzazione si reduce anche la carica emotiva. Nell’ultimo esempio, al contrario, il primo elemento che precede il punto è più marcato essendo anche questo confinato dal punto.

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Funzione segmentatrice del punto fermo Nella nuova prosa giornalistica 99

Spinta all’eccesso, la frantumazione sintattica obbliga il lettore a un continuo e difficile lavoro di ristrutturazione delle frasi spezzettate (la nozione di “ristrutturazione enunciativa” è stata proposta da Ferrari 1995). L’uso di molti punti fermi mantiene sempre alta la tensione del discorso. Il punto fermo lo vivacizza, soprattutto negli esordi, cattura l’attenzione del lettore. L’invadenza del punto manifesta il modo di mettere “in valore ogni singola informazione”, facendo “della maggior parte dei fatti, proprietà e entità evocati l’oggetto di un singolo assunto” (Ferrari 1995:372).

Se atomistica e insistita fino all’eccesso, la segmentazione si risolve in una decostruzione delle frasi. Il troppo mettere a fuoco finisce per annullare l’effetto dell’evidenza; il procedere a singhiozzo ha il risultato di ostacolare la lettura e talvolta perfino di oscurare il senso degli enunciati. Francesco Sabatini ha analizzato una serie di articoli (a firma prestigiosa) per mostrare come lo smembramento delle frasi e la giustapposizione delle unità separate da punto fermo mascheri i rapporti di subordinazione intra- e interfrasali. Una punteggiatura meno ardita faciliterebbe il riconoscimento dei legami logico-sintattici tra i membri del discorso e renderebbe più agevole la comprensione dell’insieme. Esempi di Sabatini confermano l’ipotesi di Ferrari (1997-1998: 54-55): il “valore intrinseco” del punto “consiste nel richiedere di totalizzare i risultati dell’operazione interpretativa eseguita sino a quel momento”. Il punto frantuma gli enunciati riducendoli in frammenti troppo minuti e costringe chi legge a “concludere e ricominciare il conto interpretativo dopo ogni minima informazione”. Ferrari (2004: 111) mostra che quando il punto è collocato “all’interno di un’unità sintattico-simanticamente coesa, (...) crea un confine di Unità Comunicativa che non è direttamente proiettato dal contenuto semantico del testo. Tramite il punto, si produce così una tensione tra sintassi e testualità che attiva a sua volta particolari effetti di senso, non rinvenibili quando il punto conferma una frattura testuale già imposta dalla sintassi”.

L’uso specifico del punto può arrivare anche ai fenomeni profondi di realizzazione testuale. Alcuni esempi di prosa giornalistica contemporanea dimostrano che certe attuazioni testuali sono diverse dalla “normale” tipologia (manualistica, leggi ecc.). Si tratta in primo luogo di articoli di fondo, “un genere che richiede una notevole agilità e impressività, da conseguire attraverso quella implicitezza ed elasticità che mi sono sembrati i tratti fondanti di un discorso che si svolge in un contesto di immediata conoscenza e attualità di temi trattati, un discorso che vuol essere quasi un dialogo col lettore della pagine quotidiana” (Sabatini 2004:62). Per la loro analisi abbiamo scelto alcuni autori considerati prime penne del giornalismo italiano contemporaneo (Bernardo Valli, Eugenio Scalfari, Ilvo Diamanti, Ezio Mauro) nonché gli scrittori che scrivono commenti per la stampa (Umberto Eco, Alessandro Baricco). I loro articoli in alcuni casi diventano anche una sfida linguistica per i lettori e Sabatini, riferendosi al famoso esempio della prosa spezzettata di Ilvo Diamanti (Sabatini 2004:62-63), conclude che: “... dobbiamo pensare che il suo modo di comunicare con il pubblico attraverso la sua personalissima scrittura nasca da un’intenzione precisa... Forse l’intenzione è quella di segnalare anche con questa prosa sminuzzata quanto sia frantumato e frastagliato il panorama dei fatti e delle idee (quasi esclusivamente quelli della politica italiana) che egli descrive, dove ogni dato sembra controverso, dove tutto è incompiuto e parziale”. L’eccessiva frammentazione sintattica la quale, oltre una finalità di chiarezza, risponde anche a una spinta impressiva e l’uso marcato e connotativo della punteggiatura sono alla base di una scrittura mirante a colpire:

Gli italiani. Abituati a vederlo rinascere dalle sue ceneri. All'improvviso. Con

uno scatto. Ri-materializzarsi, insieme al partito-che-non-c'è (senza di lui...). Per cui, il miracolo è rinviato. Prodi, come un passista, continua a pedalare. Senza scatti. Mentre il Grande Inseguitore, dopo l'inseguimento degli ulti mesi, arranca. Un po' sfiatato. Naturalmente, queste raffigurazioni mitiche infastidiscono un po'. La competizione

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elettorale come il Tour. Coppi e Bartali. Pantani e Ullrich. Oppure Lemond. Come Prodi e Berlusconi. Berlusconi e Prodi. Figurarsi... (Ilvo Diamanti, Repubblica 2006)

Questo esempio estremo si può collocare sulla fondamentale linea evolutiva della prosa

italiana moderna fra narrativa, saggistica e scrittura giornalistica. Ai segni d’interpunzione nella recente narrativa italiana spesso è affidato il compito di

frantumare le tradizionali strutture complesse in frasi di estrema paratassi, ma come si vedrà solo al livello grafico. Praticamente, la punteggiatura serve a enfatizzare i fenomeni prosodici. Descrivendo questo tipo di architettura testuale, Sabatini 2004 ha applicato la formula “ipotassi paratattizzata” giustificata compiendo ritrascrizioni di alcuni brani in cui la punteggiatura viene semplicemente “normalizzata”.

Insieme alla testualità, la sintassi del periodo con le sue varie implicazioni, in particolare l’uso della punteggiatura, rappresenta l’aspetto più evoluto della scrittura giornalistica. La monoproposizionalità è uno dei fenomeni più presenti in tutti i tipi di articoli. Oltre all’ovvio influsso del parlato e all’esigenza di chiarezza e precisione, è presente anche un fatto espressivo attuato dalla tendenza alla spezzatura dei periodi con il punto che in molti casi porta a dare ai due segmenti un senso in parte diverso, con effetti di focalizzazione dell’informazione e di valorizzazione dei contenuti informativi. Nel periodare monoproposizionale Ilaria Bonomi (2005:144) distingue i seguenti tipi fondamentali:

a) successione di frasi semplici complete separate dal punto fermo b) coordinate separate dal punto fermo c) subordinate separate con il punto fermo dalla propria reggente d) spezzoni di frase, sintagmi singoli o singole parole tra due punti fermi. Il tipo a) può presentarsi all’interno di pezzi dalla scrittura periodale più varia, in

alternanza con periodi paratattici e ipotattici oppure in articoli costruiti per immagini, flash, in un martellante susseguirsi di singole frasi semplici:

Questo è un articolo che non dovrei scrivere. Lo so. Me lo dico da me. E lo

scrivo. Dunque. (Baricco, Repubblica 2006) Arrivano i primi italiani dell'operazione "Mietitura". Sono in sei, tutti ufficiali di

collegamento della Brigata Sassari. Sbarcano a Petrovec da due grossi C130, pieni zeppi di ogni sorta di materiali alle due del pomeriggio. Hanno l'ordine di parlare di tutto meno che della missione. (Repubblica 2001)

Venti morti. Altre venti vite buttate via per sempre. Nove di parte macedone e undici di parte albanese. Dei feriti ormai si sta perdendo il conto. Si combatte a nord, a ovest, non lontano da Skopje, a colpi di imboscate, agguati e trappole. Gronda sangue la cronaca di questa giornata di straordinario odio interetnico. Alle otto del mattino nove soldati macedoni finiscono spappolati da mine anticarro nel nord. Nel pomeriggio undici Uck cadono sotto le pallottole delle forze speciali in un dissennato assalto a una stazione di polizia nell'ovest del paese. Totale: venti vittime. Il giorno prima erano state diciotto. E il giorno prima ancora una quindicina. E domani? (Repubblica 2001)

Gronda sangue la cronaca di questa giornata di straordinario odio interetnico. Alle otto del mattino nove soldati macedoni finiscono spappolati da mine anticarro nel nord. Nel pomeriggio undici Uck cadono sotto le pallottole delle forze speciali in un dissennato assalto a una stazione di polizia nell'ovest del paese. Totale: venti vittime. Il giorno prima erano state diciotto. E il giorno prima ancora una quindicina. E domani? (Repubblica 2002)

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Funzione segmentatrice del punto fermo Nella nuova prosa giornalistica 101

Il tipo b) rappresentano frasi inizianti con le congiunzioni coordinative E, MA, O ecc.

che acquistano il valore di congiunzioni testuali. L’implicazione testuale è più evidente quando si ha cambio di soggetto della coordinata rispetto alla principale:

Potrei dire che non me ne frega niente. Ma non è vero. (Baricco, Repubblica

2006) La Tv li mostrerà poco più tardi suscitando un'ondata di orrore. Ma non è finita.

(Repubblica 2002) La congiunzione MA in funzione testuale può avere valore limitativo o avversativo,

con chiare funzioni di coesione e raccordo tra segmenti dell’articolo: Giusto, allora, riformare la scuola, la professione degli insegnanti. Ma

"insieme" a loro. (Diamanti, Repubblica 2006) La bistrattata polizia di Skopje, riuscì a impedirlo. Ma il rischio rimane.

(Repubblica 2002) Di lui si potrebbe dire che è stato il più grande critico letterario della storia

della critica letteraria. Ma sarebbe riduttivo. (Baricco, Repubblica 2006) In questa funzione si trova molto più spesso all’inizio di capoverso rispetto a E e, come

nell’esempio che segue, può essere focalizzato da un altro elemento:

Credo che il mio amico Daniel sarebbe d'accordo nel lamentare che anni fa si sia criticata (o proibita) la messa in scena del 'Mercante di Venezia' di Shakespeare perché certamente ispirata a un antisemitismo comune all'epoca (e prima ancora, da Chaucer in avanti), ma che ci mostra in Shylock un caso umano e patetico. Ma ecco a cosa ci troviamo di fronte: alla paura di parlare. (Eco, Espresso)

Oltre che coordinare due predicati verbali, il segmento periodale introdotto dalla

congiunzione dopo il punto fermo, aggiunge una porzione di testo. Può avere una funzione informativa forte, all’inizio di capoverso o talvolta anche in unione con altro connettivo.

Due operazioni militari temerarie e tecnicamente perfette. E non è che l'inizio. (Repubblica 2002)

Non credo che i figli nati o comunque esistenti all'interno d'una convivenza debbano suscitare affetti e diritti minori dei figli nati all'interno d'una famiglia. E perciò pur non essendo cristiano ma apprezzando, rispettando e ammirando il messaggio evangelico, resto stupefatto e dolorosamente colpito... (Scalfari, Repubblica 2006)

Naturalmente si sofferma sui momenti di gloria. E allora si imbatte, con legittima nostalgia, nelle facce dei ministri europei che venivano a ossequiarlo e a proporgli armi, navi e aerei utili alle sue guerre e alle sue repressioni sanguinose. (Valli, Repubblica 2006)

In realtà, terra per coltivare chardonnay, cabernet sauvignon o merlot ce n'è a bizzeffe e in molte regioni del globo. E allora cosa li fermava? (Baricco, Repubblica 2006)

In altri casi si tratta di un collegamento più limitatamente interproposizionale, spesso

con l’evidente finalità di spezzare un periodo sentito come troppo lungo.

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Mila Samardžić 102

Ecco perché sarà difficile dimenticare. E impossibile, se quell'accordo si dimostrerà soltanto un pezzo di carta. (Repubblica 2002)

Le uniche parti del loro corpo che erano state risparmiate dall'esplosione. E le mani erano legate ancora con il filo di ferro. (Repubblica 2002)

Una perdita di anima. E dunque un accenno di barbarie. (Baricco, Repubblica 2006)

Comunica una società che si è "liberata" dal bisogno. E ha scoperto il "gusto" di vivere. (Diamanti, Repubblica 2006)

La congiunzione E presenta anche un valore tipico del parlato ad apertura di una battuta

di dialogo fungendo da segnale discorsivo a segnando il collegamento con la battuta precedente.

Dice così: "Che distanza abissale dalla stucchevole e ammiccante epica automobilistica dell'ultimo Baricco!". E voilà. Con tanto di punto esclamativo. (Baricco, Repubblica 2006)

No, non possiamo escluderlo. E allora! Come esclama Gerry Scotti... (Scalfari, Espresso 2005)

Similmente si comportano le congiunzioni disgiuntive O e OPPURE:

Da ciò la decisione di tornare a recitare nel teatrino parrocchiale italiano. Per disperazione. O meglio: per battere la disperazione della sua compagnia, ormai allo sbando. (Diamanti, Repubblica 2006)

Viaggio d'avventura tra genti ignote che non conoscono né i remi né il sale. Oppure viaggio dentro se stessi, più lungo e spesso più periglioso di quello tra le onde tempestose del mare. (Scalfari, Espresso 2006)

Il tipo c) delle subordinate separate con il punto fermo dalla propria reggente è

sicuramente il più frequente nella prosa giornalistica contemporanea. Può essere rappresentato dalle relative, introdotte sia dal più frequente pronome invariabile CHE, sia dalle forme composte con QUALE e CUI o da COSA CHE, IL CHE:

Ed apriti cielo se chiedi qual è l' altra civiltà, cosa c' è di civile in una civiltà che

non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell' Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell' Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. (Corriere della Sera 2006)

Un evento di successo. Che consacra "l'era dell'uomo che mangia". (Diamanti, Repubblica 2006)

Una pace fragilissima è la risposta. Che buona parte della stampa macedone ha accolto con grande scetticismo... (Repubblica 2002)

Da Dnevnik, il quotidiano più diffuso di Macedonia, moderatamente nazionalista, e dal Congresso mondiale macedone, decisamente più oltranzista. I quali si sono però limitati a mettere a disposizione soltanto pullman e panini. (Repubblica 2002)

Nel momento dell’amministrazione congiunta della vittoria, America e Urss preparavano il terreno della futura sfida. Nella quale un altro fattore era destinato a giocare una parte simbolica rilevante. (Sofri, Repubblica 2004)

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Funzione segmentatrice del punto fermo Nella nuova prosa giornalistica 103

In parte, questi orientamenti riflettono il declino della partecipazione politica tradizionale, che si svolgeva in sedi organizzate, formali, lontane dall'esistenza e dall'esperienza degli individui. Sul cui solco si sono affermati modelli di impegno e di partecipazione "personale", che coinvolgono la vita quotidiana. (Diamanti, Repubblica 2006)

Ri-materializzarsi, insieme al partito-che-non-c'è (senza di lui...). Per cui, il miracolo è rinviato. (Diamanti, Repubblica 2006)

Così, da dicembre in poi, la Casa delle Libertà è scomparsa nelle nebbie. Da cui è emerso solo Lui. (Diamanti, Repubblica 2006)

Fermo restando che almeno un terzo degli arsenali dei ribelli dovranno essere consegnati da subito. Cosa che l'Uck non sembra avere alcuna intenzione di fare, quantomeno non prima che sia concessa l'amnistia a tutti i combattenti che non si siano macchiati di crimini di guerra. (Repubblica 2002)

Dobbiamo sottolineare che sia questo che il fenomeno precedente (la congiunzione E

come mezzo di collegamento fra i periodi) risalgono alla prima prosa italiana e sono frequentemente riscontrabili nel Decameron. Anzi, i pronomi relativi sono strumenti di coesione di particolare rilevanza non solo per l’alta frequenza ma anche per altri aspetti della tecnica compositiva dell’opera. Si trovano nella struttura di due periodi posti in successione, ma non necessariamente contigui. Nel secondo periodo, il nesso relativo si riferisce a un antecedente situato in quello precedente ed è privo del proseguimento a destra. Il punto d’attacco può trovarsi nelle immediate vicinanze del pronome relativo (a) o può essere lontanissimo, diviso da una serie di proposizioni (b):

(a) […] nella egregia città di Fiorenza […] pervenne LA MORTIFERA

PESTILENZA: LA QUALE […] verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. (Decameron I Introduzione)

(b) […] né ancora dar materia agl'invidiosi, presti a mordere ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l'onestà delle VALOROSE DONNE con isconci parlari. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per nomi alle qualità di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la prima, e quella che di più età era, Pampinea chiameremo e al seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l'ultima Elissa non senza cagion nomeremo. LE QUALI […] quasi in cerchio a seder postesi […] cominciarono a ragionare. (Decameron I Introduzione)

Oltre alle relative, appaiono più spesso separate dalla principale altri tipi di proposizioni

subordinate: Consecutive:

Sicché, quando la scienza osa superare i paletti che la Chiesa le pone, allora anch'essa finisce nel campo dei miscredenti con tutti coloro che osano utilizzare il libero arbitrio senza rispettare la fonte divina che gliel'ha concesso. (Scalfari, Espresso 2006)

Ha conosciuto la fame e, comunque, ha praticato la sobrietà come virtù necessaria. Fino a cinquant'anni fa. Tanto che le generazioni più anziane, ma anche la mia (sono cinquantenne), ne serbano memoria. (Diamanti, Repubblica 2006)

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Insomma, nessuno avrebbe barato. Tanto che Alex Dick, portavoce della Brigata multinazionale definisce questo inizio di missione «un grande successo». (Repubblica 2002)

Causali:

La grande armada si mosse infine in direzione del Kuwait per fermarsi alle porte di Bagdad. E la Fallaci si precipitò in prima linea. Dove però non c'era la guerra. Perché quella del Golfo fu soprattutto, per gli americani e i loro alleati, un'operazione logistica. (Valli, Repubblica 2006)

Il cibo come spettacolo e comunicazione. Visto che una persona su due afferma di aver seguito programmi televisivi dedicati alla cucina o al vino. (Diamanti, Repubblica 2006)

Temporali:

L'ha scritto Berlusconi, d'altronde, questo copione. Quando è sceso in campo, nel 1994. (Diamanti, Repubblica 2006)

Le trattorie, i ristoranti, i bar: hanno fornito spunto perfino a reality show. I cuochi e i gourmet. Tutti "chez Vespa". A discutere con politici, attori e intellettuali di politica, spettacolo e cultura. Mentre i politici, gli attori e gli intellettuali discutono, con competenza, di ristoranti e di vini. (Diamanti, Repubblica 2006)

Concessive:

Era un'altra persona. Anche se con la stessa voglia: stupire. (Valli, Repubblica 2006)

Finali:

Un giornalista prigioniero, al fronte, dov'è andato semplicemente perché così vogliono le leggi del suo mestiere: vedere, capire, decifrare e raccontare. Perché l'opinione pubblica possa conoscere e sapere, e dunque perché ognuno di noi possa prendere parte davvero alla vicenda pubblica, esercitando il suo diritto - dovere di cittadino informato, a partire da quel dato fondamentale di una democrazia che è la conoscenza dei fenomeni, l'intelligenza degli avvenimenti. (Repubblica 2007)

Comparative:

Quelli che non rispondono ai sondaggi, e non vanno a votare dal 2001. Come fece Bush, nel novembre 2004, utilizzando il richiamo all'insicurezza. (Diamanti, Repubblica 2006)

Ma si continuerà sparare e quei villaggi continueranno a essere pressoché irraggiungibili. Come lo sono oggi. (Repubblica 2002)

Condizionali:

Non è escluso che lo sbarco avvenga già domani. A patto però che il Consiglio dell'Alleanza atlantica abbia dato il via libera e la commissione Esteri del Senato l'ok. (Repubblica 2002)

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Funzione segmentatrice del punto fermo Nella nuova prosa giornalistica 105

Le subordinate possono avere anche la forma implicita:

Quella sì, chi ce l'ha vera e pura, non cederà al dubbio, respingerà le tentazioni del maligno e porterà in salvo la sua sofferta ma non scalfibile verità. Senza dover patteggiare con la ragione, poiché in quel caso uscirebbe perdente, a meno di non costruire una ragione ancella della fede. (Scalfari, Espresso 2006)

Per questo, Berlusconi ha inseguito, costretto Prodi al confronto. Per batterlo e umiliarlo. Dimostrando a tutti che lui è l'unico, il solo vincente. (Diamanti, Repubblica 2006)

Più tardi Georgievski smentirà dicendosi pronto afirmare. Dopo però aver dato ordine a decine di mezzi corazzati, elicotteri, aerei Sukoi25, unità speciali della polizia e corpi d'élite dell'esercito di affluire nella regione di Tetovo. (Repubblica 2002)

Le mine, soprattutto, la zona ne è letteralmente infestata, e quelle che lui definisce «le voci fuori dal coro», gli irriducibili di una parte e dell'altra che purtroppo ci sono e continuano a farsi sentire. Senza contare che la Macedonia, come tutti i Balcani del resto, è un immenso arsenale. (Repubblica 2002)

Il tipo d) è l’esempio estremo del periodare spezzato che consiste in segmenti

brevissimi, sintagmi o anche singole parole.

Da ciò il problema, per il PD. Sospeso tra Federazione e Partito Nuovo. Come una nave. Che, per alcuni, serve ai partiti, in caso di emergenza e di soccorso. Per altri, invece, deve affrontare il mare aperto. Da sola. Il Partito Democratico. A mezza strada. Perché indietro non si può tornare, ma è difficile anche continuare la rotta. Una rotta. Per cui rischia. Di arenarsi. (Diamanti, Repubblica 2006)

Strano destino quello dei ponti sui fiumi delle città balcaniche. Costruiti per unire finiscono per dividere. Bosniaci da croati, albanesi da serbi, macedoni da albanesi. Mostar, Mitrovica, Skopje. (Repubblica 2002)

Niente interviste, niente visite guidate ai loro accampamenti, niente nomi. Solo anonime email e fax ai giornali spediti da chissà dove. Da Pristina probabilmente, dalla stessa Skopje, non è escluso. (Repubblica 2002)

Ed è un nemico che a colpo d' occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all' occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente-inserito-nel-nostro-sistema-sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l' automobile. Con la famiglia. (Corriere della Sera 2007)

L’impiego di frasi nominali, cioè senza verbo in funzione di predicato, è gradito al

linguaggio giornalistico ed è tipico in particolare dei titoli, ma trova spesso impiego anche all’interno degli articoli, particolarmente negli esordi con lo scopo di attirare l’attenzione del lettore. Frasi nominali con larga presenza di modi impliciti (participi, gerundi) favoriscono la sinteticità espressiva.1 Nell’ambito dello stile nominale vanno ricordate anche le

1 L’impiego di frasi nominali (senza verbo in funzione di predicato) è accettato nel linguaggio giornalistico

a partire dall’inizio del Novecento, per le sue caratteristiche di brevità, incisività, pregnanza semantico-informativa. Tipica in particolare dei titoli, la frase nominale trova spesso impiego anche negli articoli, di preferenza in apertura, per dare un immediato e incisivo avvio dell’argomento, o in apertura di capoverso, ma spesso anche in chiusura del pezzo, come conclusione riassuntiva o esplicativa. Può essere costruita in diversi modi, ma sempre senza verbo in funzione di predicato: può essere formata da elementi nominali soltanto, da elementi nominali e verbali (non in funzione di predicato).

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Mila Samardžić 106

nominalizzazioni, cioè la preferenza per sostantivi astratti in luogo di frasi verbali (Dardano 1994:401-404).

Oltre alla segmentazione sintattica, però non dobbiamo dimenticare un’altra tipologia diversificata del periodare basato sulla complessità periodale. Fino a poco tempo fa, il periodare articolato ha caratterizzato i brani di carattere argomentativo rispetto a quelli puramente informativi. Tuttavia, la sintassi dei giornali di oggi è variegata e spesso si avvale in larga misura dei diversi procedimenti sia di nominalizzazione e di periodi più brevi (ma anche densi, specie di elementi nominali e forme verbali implicite che danno un’impressione di concentrazione, di serratezza) sia di lunghe e complesse strutture proprie della tradizione letteraria. E in certi casi, a breve distanza, abbiamo tutti gli esempi del periodare giornalistico:

Non solo i professori universitari, a loro volta al centro di una forte pressione

riformatrice, che ne ha aumentato i carichi di lavoro, la flessibilità (e, per i più giovani, la precarietà). Senza peraltro dotarli di risorse coerenti con le nuove funzioni richieste. Ma anche i professori delle scuole medie e superiori. E soprattutto i maestri. Le maestre. Gli insegnanti di scuola elementare. Che hanno affrontato, negli ultimi vent'anni, cambiamenti profondi dell'organizzazione didattica, sollecitati anche da ragioni di necessità demografiche. Il calo della popolazione scolastica, infatti, ha indotto ad allargare il numero dei maestri per classe e a operare in team. Con esiti contrastanti, ma spesso innovativi e interessanti. E apprezzati. Come dimostra questa indagine. Al punto che gli italiani attribuiscono ai maestri e alle maestre un prestigio sociale pari agli imprenditori o ai liberi professionisti. (Diamanti, Repubblica 20)

Riferimenti bibliografici AA.VV. (2003). Elementi di linguistica italiana. Roma: Carocci. Bonomi, Ilaria (2005). La lingua italiana e i mass media. Roma: Carocci. Dardano, Maurizio (1994). Profilo dell’italiano contemporaneo. In: Storia della lingua italiana,

voll. II, a cura di Luca Serianni e Pietro Trifone, Torino: Einaudi, pp. 343-430. Ferrari, Angela (1995). Connessioni. Uno studio integrato della subordinazione avverbiale.

Genève: Slatkine. Ferrari, Angela (1997-98). Quando il punto spezza la sintassi. In: “Nuova Secondaria”, 15, 1, pp.

47-56. Ferrari, Angela (2003). Le ragioni del testo. Aspetti morfosintattici e interpuntivi dell’italiano

contemporaneo. Firenze: Accademia della Crusca. Ferrari, Angela (2004). Le funzioni della virgola. Sintassi e intonazione al vaglio della testualità.

In: Generi, architetture e forme testuali (Paolo D’Achille, ed.), Firenze: Franco Cesati, 107-127.

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(Paolo D’Achille, ed.). Firenze: Cesati, 61-71. Serianii, Luca (2003). Italiani scritti. Bologna: Il Mulino. Serianni, L. (con la collaborazione di A. Castelvecchi) (1988) Grammatica italiana. Italiano comune

e la lingua letteraria. Torino: Utet. Serianni, Luca (2006). Prima lezione di grammatica. Roma-Bari: Laterza.

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Funzione segmentatrice del punto fermo Nella nuova prosa giornalistica 107

Mila Samardžić

SEGMENTACIONA FUNKCIJA TAČKE U SAVREMENOJ ITALIJANSKOJ ŠTAMPI

(R e z i m e)

U arhitekturi teksta tačka predstavlja element koji istovremeno spaja i razdvaja. Reč je o takozvanoj tekstualnoj vrednosti tačke koja podrazumeva semantičke ili pragmatičke veze s nečim što nije eksplicitno iskazano već se može zaključiti iz onog što jeste ili će biti izrečeno. Domet tačke prevazilazi granice sintaktičkih odnosa budući da utiče na veze koje obezbeđuju postojanje teksta kao koherentne jedinice. Neki primeri iz savremene novinske proze pokazuju da izvesne tekstualne realizacije odudaraju od „normalne“ tipologije, posebo u vidu prekomernog sintaktičkog rasparčavanja. Ova pojava prisustna je prvenstveno u uvodnicima koji, prema tvrdnjama nekih čuvenih italijanskih lingvista, predstavljaju najkompleksniju tekstualnu formu u savremenom italijanskom jeziku.

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Mirjana DRNDARSKI (Belgrado)

I VIAGGI DI ALBERTO FORTIS: LA MISSIONE ECONOMICA E POLITICA

Parole chiave: Alberto Fortis, missione economica, missione politica, Dalmazia

La principale caratteristica dell’Illuminismo europeo e quello italiano è rappresentata dall’incessante volontà di prendere in esame la realtà concreta attenendosi scrupolosamente ai dettami scientifici e mirando alle scoperte innovative che ricoprono tutto lo scibile del vivere umano. In altre parole, questo è il periodo in cui vengono ideati e messi in pratica gli approcci diversificati alla realtà concreta per arrivare, in un secondo tempo, alla formulazione delle sintesi generali riguardanti l’esperienza scientifica ed artistica. Di conseguenza, l’analisi illuministica che prende in esame le questioni storiche inevitabilmente sfocia nel discorso sulla storia di cultura, la quale, a sua volta, tende a ricoprire tutto il campo di ricerca che comprende la vita del popolo, gli usi, i costumi e la produzione letteraria popolare. D’altra parte, il concetto della cultura stessa viene strettamente legato all’ambiente geografico, ovvero all’ambiente naturale in cui si svolge la vita dell’uomo. In questo periodo (più precisamente, nella seconda metà del Settecento), inoltre, anche il libro di viaggi assume il carattere di uno studio impostato su basi scientifiche: ideato come un lavoro interdisciplinare, la descrizione di viaggio tende ad offrire al lettore un resoconto dettagliato e esauriente su una località e sui suoi abitanti. Così nasce un libro che si presenta come un palinsesto di descrizioni geografiche della natura, di descrizioni etnografiche dei costumi e della vita del popolo e di informazioni sulla storia e sulla letteratura locale. I libri di viaggi di quest’epoca denotano altresì una forte inclinazione economico-politica sottostante, che va di pari passo con le più alte convinzioni e preoccupazioni di quei tempi, quali l’incessante progresso sociale ed economico. A giudicare dall’approccio specifico e stratificato, dal desiderio di descrivere la realtà concreta, complessa e variegata, il libro di viaggi del letterato e naturalista veneziano Alberto Fortis rappresenta un tipico prodotto della letteratura del periodo dell’Illuminismo. Si tratta del Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero del 1771, e soprattutto dell’ormai famoso Viaggio in Dalmazia, pubblicato nel 1774. Da attento osservatore, A. Fortis è riuscito a rappresentare la vita in Dalmazia in tutta la sua varietà, fondendo in un insieme organico le informazioni concrete sulla natura, sulla società e sulla storia della regione. In tal senso, i suoi scritti offrono una sintesi esemplare in cui si intrecciano e sorreggono a vicenda la storia, l’economia, le scienze naturali, l’etnografia e, infine, la letteratura. Assecondando le sue vere inclinazioni, Fortis naturalista descrive le particolarità del terreno geografico, le ricchezze naturali, tra i quali anche i giacimenti minerari, la flora e la fauna e le località con i resti dei fossili. Offre un rapporto particolareggiato sui modi di produzione, sulle colture agrarie più presenti, sull’allevamento e addirittura quali sono e come vengono utilizzate le risorse naturali dalla popolazione locale. Contemporaneamente, riveste di importanza

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I viaggi di Alberto Fortis: la missione economica e politica

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primaria la storia della Dalmazia e i monumenti archeologici, ma anche la vita del popolazione, i suoi usi, le credenze e i pregiudizi. Per la nostra analisi diventa però importante la sua testimonianza esposta nel capitolo intitolato De Costumi de’ Morlacchi nel complesso del lungo Viaggio in Dalmazia. La critica odierna riconosce a Fortis il merito di essere stato il primo a pubblicare e quindi il primo a presentare al mondo nel proprio libro la famosa ballata Hasanaginica1. Le ragioni che hanno spinto Fortis a intraprendere questi viaggi e a pubblicare le proprie conclusioni maturate grazie al contatto diretto con le realtà visitate, sono state di duplice natura. Innanzitutto, la spinta e l’intento principale sono stati di carattere economico e politico, anche se il successo e la popolarità del libro ha determinato la componente letteraria e culturale in base alla quale l’opera solitamente viene inserita nella corrente preromantica letteraria, meritevole di aver invogliato le menti europee ad occuparsi sempre di più della poesia popolare. In virtù del loro carattere parzialmente folcloristico, soprattutto del capitolo De Costumi de’ Morlacchi, le opere di Fortis sono state lette anche nei decenni successivi (il che vale soprattutto per il Viaggio in Dalmazia), in Europa più che in Italia, nell’epoca in cui l’Illuminismo era già da tempo tramontato. Comunque, allorché si parli dell’interesse di Fortis per le regioni soprannominate e delle ragioni che stanno alla radice dei suoi innumerevoli viaggi, non va dimenticato il fatto che la Dalmazia in quel periodo faceva parte integrante della Repubblica di Venezia la quale, curandosi dei propri interessi, voleva incrementare la produttività della provincia. In effetti, la provincia veneta era del tutto arretrata e versava in uno stato di povertà preoccupante della quale i libri di Fortis offrono una testimonianza realistica e vivace. Anche se gli studi dedicati alla questione sottolineano che le descrizioni e le immagini offerte dall’autore si rivelano spesso il frutto di letture dei testi impregnati di idee roussoiane, lo sguardo di Fortis puntato sul mondo primitivo e sulla vita piena di stenti risulta un po’ più complesso. E’ vero che si possono individuare facilmente i toni roussoiani in alcune descrizioni della mentalità della popolazione, per esempio nella descrizione dell’ospitalità morlacca, quando Fortis ci racconta come è stato accolto in casa di Vojvoda Prvan a Kokorić: “Non è possibile cred’io, d’essere insensibili a questi tratti di semplice Ospitalità rusticana”2. Sempre con gli stessi intenti, altrove sottolinea che “il Morlacco nato ospitale, e generoso apre la sua povera capanna al forastiere: si dà tutto il moto per ben servirlo, non richiedendo mai, e spesso ricusando ostinatamente qualunque ricognizione”3. Le osservazioni di carattere etnografico non costituivano, comunque, l’obiettivo principale di Fortis, sebbene le descrizioni pervenuteci rappresentino un contributo importante nel tentativo di ricostruire la vera vita in Dalmazia nella seconda metà del Settecento. La Repubblica di Venezia, più che altro, si muoveva in direzione di una eventuale e fattibile modernizzazione della provincia arretrata alleviando, almeno in parte, la povertà desolante che dominava ogni aspetto della vita umana. Risultava necessario mettere in pratica una diversa organizzazione della produzione, puntando soprattutto sull’agricoltura, mentre la preparazione e la pianificazione di un’operazione così complessa richiedevano uno studio attento e i dati veri, accuratamente raccolti, sulla concreta situazione economica. Quindi, v’era bisogno di sapere

1 E’ vasta la bibliografia sull’argomento. Tra gli altri cfr. M. Murko, Domovina Asanaginice (La patria

dell’Asanaginica), “Život”, 1974, n. 5, pp. 590-606; H. Krnjević, Usmene balade Bosne i Hercegovine (Le ballate della tradizione orale della Bosnia ed Erzegovina), Sarajevo, 1973, pp. 271-313; Научни састанак слависта у Вукове дане, n. 4, 1, Belgrado; Hasanaginica 1774-1974, a cura di A. Isaković, Sarajevo, 1975.

2 Viaggio in Dalmazia dell’ abate Alberto Fortis, in Venezia, presso Alvise Milocco, all’Apoline, 1774, vol. II, p. 79.

3 Viaggio, I, p. 55.

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dove e cosa veniva prodotto attualmente, su che cosa si basava l’alimentazione e l’abbigliamento, quali erano gli insediamenti e le case, come era organizzata la famiglia. Tutte le altre osservazioni che Fortis diligentemente annota sono per lo più l’espressione delle sue inclinazioni personali, formatesi sui postulati illuministici dell’approccio scientifico al mondo e all’uomo. Guidato, almeno dichiaratamente, dall’idea del “bene comune” e del progresso economico, i quali il pensiero italiano e veneziano dell’epoca mettevano in primo piano, Fortis ha deciso di compiere numerosi viaggi in Dalmazia per raccogliere proprio i dati necessari e fondamentali per il tentativo di modernizzare questo mondo arcaico di produzione4. I dati raccolti dovevano indicare quali erano le ricchezze sulle quali bisognava puntare e individuare le potenziali risorse economiche della provincia, la cui arretratezza veniva ad aggiungersi alla crisi economica in cui gravava tutto lo Stato. A più riprese e senza mezzi termini Fortis espone i problemi cruciali, quali ad esempio la situazione tragica in cui versava l’agricoltura, segnata dall’abbandono quasi totale dei terreni coltivabili, e propone le soluzioni concrete: “Fra Spaletro e ’l fiume Hyader alle radici del monte Marian stendesi una bella ed amena campagna, che à poco fondo di terreno, ed è quindi soggetta all’aridità, quantunque sembri che non dovess’essere malagevole cosa l’irrigarla, distraendo l’acque del fiume vicino in luogo opportuno”5. In alcune descrizioni della povertà che imperversa, l’autore non riesce a sottrarsi all’urgente bisogno di esprimere i giudizi sulla società presa in esame6, denunciando in modo quasi veemente l’ignoranza, i pregiudizi di vario tipo, la barbarie, l’indole inerte, e perfino la cupidigia e l’avarizia della popolazione7. Però, tutti i giudizi espressi in tono apparentemente polemico svolgono una funzione ben precisa e servono, in ultima analisi, a creare le basi per un futuro miglioramento economico della Dalmazia e della Serenissima; ciò viene confermato dallo stesso autore: “Abbenché io conosca abbastanza la poca forza d’un libro, e la grandissima delle prevenzioni, e delle circostanze, vi confesserò, che provo nel mio segreto una sorte di compiacenza nel pensare, ch’è fra i possibili, che il mio viaggio arrechi qualche benefizio alla Nazione Dalmatina, se non adesso immediatamente, almeno coll’andare degli anni”8. Così il Viaggio in Dalmazia risulta un testo intessuto di consigli pratici concernenti le tematiche più diverse e disparate. Anche se non viene considerato un grande ammiratore della poesia popolare, Fortis nei suoi libri di viaggi lascia comunque le notizie importanti sui canti morlacchi, soprattutto quando si riferisce alla recita delle poesie popolari; leggendo le sue descrizioni, veniamo a sapere che si trattava di una particolare e intensa performance orale, durante la quale tra il cantore e il pubblico circostante si istaurava un particolare tipo di comunicazione e di compartecipazione all’improvvisazione orale messa in atto. Grazie a questi resoconti dettagliati e alle trascrizioni della poesia morlacca orale, Fortis si è meritatamente guadagnato, senza dubbio, un posto di privilegio (soprattutto grazie al testo di Hasanaginica) nel novero di autori che hanno avuto il ruolo determinante nella diffusione della poesia popolare in Europa. Nello stesso tempo, i brani dedicati all’argomento nell’insieme del libro di Fortis costituiscono quel filone culturologico-etnografico (ovvero preromantico) presente in tutta la sua opera. A questo punto sorge spontanea

4 Cfr. Ž. Muljačić, Zaboravljena obljetnica Fortisova boravka na našoj obali, “Mogućnosti”, Split, 1971, n.

2, pp. 231-236. 5 Oppure: “Appiè della montagna di Crisiza giace la bella Valle di Dizmo, che à buoni pascoli, e non

infecondo terreno, e gira quasi dieci miglia all’intorno, tutta circondata di monti. Ella non è coltivata, come potrebbe esserlo, perché i Morlacchi sono assai lontani dall’intendere la buon Agricoltura, ed anche la mediocre.” Viaggio, II, p. 42, pp. 49-50.

6 Viaggio, II, p. 5. 7 Viaggio, I, p. 53, p. 160, pp. 161-2; II, p. 114. 8 Viaggio, I, pp. 131-2.

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la domanda: perché Fortis, che non era un ammiratore strenuo della poesia popolare, decide di dare tanto spazio nelle proprie opere proprio a questa produzione letteraria popolare? La risposta alla domanda, nello stesso tempo, scopre anche la seconda delle due ragioni che stanno all’origine dei viaggi di Fortis. L’interesse che l’autore ha mostrato per gli usi, per i costumi popolari e per la produzione artistica popolare, e che riveste parzialmente la sua opera di carattere folcloristico, rappresenta un’espressione più che logica del clima culturale preromantico in Italia e in Europa. Come noto, in questo periodo, tra l’altro, i primi studiosi si mettono a trascrivere e a studiare da vicino la poesia popolare, producendo e pubblicando le prime raccolte di tale produzione. In Italia, per il ruolo svolto nella diffusione di spirito preromantico e per l’attenzione rivolta alla poesia popolare intesa come manifestazione dello spirito e della storia nazionale da una parte, e, dall’altra, del mondo “primitivo” e non corrotto, occupa il posto di primaria importanza la traduzione di Cesarotti dell’Ossian, apparsa nel 1763. Lo stesso Melchiorre Cesarotti, frequentatore del salotto della madre di Fortis, Francesca Capodilista, donna intelligente ed educata, ha segnato, in maniera significante, il nostro autore indicandogli la via degli studi di poesia e di letteratura popolare9. Però è d’obbligo dire che il propagarsi del clima preromantico in Italia si è avuto in primo luogo grazie ai mecenati inglesi o scozzesi. Già nel corso del Settecento in Europa vengono progressivamente delineati i due presupposti sui quali, secondo gli studiosi, dovrebbe basarsi qualsiasi opera letteraria, i presupposti che saranno definiti nel modo esplicito entro i sistemi massimi teorici più tardi, nell’epoca del Romanticismo – si tratta del carattere educativo e nazionale della produzione letteraria. Tutto quello che va sotto il nome di letteratura, dalla poesia al dramma e al romanzo storico, deve perseguire, come fine ultimo e con una forma adeguata, l’immediatezza della comprensione e la facile ricezione da parte del popolo, per poter guidare lo stesso popolo verso la giusta via e educarlo politicamente, socialmente, eticamente e esteticamente. Il tentativo di imprimere il carattere educativo alla letteratura si risolve inevitabilmente nella propensione verso le note popolari e populistiche di opere letterarie così prodotte, ovvero si risolve nel tentativo di allargare con ogni mezzo disponibile la fetta del pubblico in grado di leggere, soprattutto tra i ceti medi. I mezzi letterari più idonei a raggiungere gli obiettivi prefissati vengono individuati nel contenuto legato al momento storico attuale e nella struttura semplice. In virtù del carattere nazionale della letteratura, che diventa uno dei tratti principali della produzione, come abbiamo visto, si assiste al vero e proprio effluvio di opere di stampo politico e patriottico, mentre la prassi delle indagini svolte nel campo folcloristico e le attività di pubblicazione delle opere di origine popolare vengono strettamente connesse con dichiarati intenti politici. Nella seconda metà del Settecento, le ricerche sul folclore sono condizionate sia dal momento attuale storico che quello politico, mentre i modi e i contenuti della produzione letteraria ed artistica in generale vengono altrettanto determinati da queste esigenze specifiche. Si tratta dell’epoca in cui si dà l’avvio alle lotte per l’identità nazionale e statale di tanti popoli d’Europa. Contemporaneamente al processo di formazione delle nazioni nel senso politico, si creano i presupposti di una letteratura alla quale viene assegnato il ruolo importante nella educazione e nel radicamento dello spirito nazionale nelle menti del popolo. L’operazione messa in moto riabbraccia anche la poesia popolare, alla quale spetta il compito principale, ovvero il rafforzamento di spirito nazionale di una determinata popolazione. In tal senso, i letterati non disdegnano minimamente l’idea di comporre i falsi, ovvero di produrre delle opere folkloriche 9 Cfr. E. Sequi, Alberto Fortis – književnik i prirodnjak (Alberto Fortis – letterato e scienziato), Научни

састанак слависта у Вукове дане, n. 4, 1, p. 10; G. Pizzamiglio, Introduzione a A. Fortis, Viaggio in Dalmazia, a cura di E. Viani, Venezia, Marsilio Editori, 1987, p. XXV.

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che vengono presentate come autentiche (le fiabe dei fratelli Grimm, Kalevala), che invece rappresentano il risultato finale di vari processi di correzioni del materiale raccolto sul terreno con gli intenti ben precisi e con il desiderio di creare i testi letterari destinati a diventare le testimonianze dei valori e della grandezza della tradizione spirituale nazionale. L’insistere sulla propria tradizione folklorica e la creazione o la falsificazione consapevole del materiale folklorico, costituisce il segno evidente che un ambiente percepisce se stesso come inferiore nel senso culturale, spirituale e letterario. Grazie al folclore nazionale, non necessariamente sempre autentico, tali ambienti tentano di risvegliarsi e di rinascere nel senso storico e, di conseguenza, anche politico. Si riportano alla luce le opere che fanno parte della tradizione orale e che offrono le testimonianze sul passato nazionale. Con gli stessi obiettivi si pubblicano le opere d’autore in prosa o in versi che prendono a modello la produzione orale raggiungendo così facilmente il largo pubblico di lettori10. Quindi, le note mistificazioni folkloristiche del Romanticismo, oppure le mistificazioni parziali, nel senso che sono il risultato di cospicui interventi redazionali (il caso dei fratelli Grimm), si sono poste come fine ultimo di delineare e di riscattare la propria tradizione epica, con l’intento di educare il popolo nello spirito nazionale. Il primo e il più noto precedente della mistificazione letteraria si è avuto nel Settecento in Gran Bretagna, più precisamente in Scozia. Si tratta di Macpherson e dei suoi Fragments of Ancient Poetry collected in the Highlands of Scotland and translated from the Gaelic or Erse Language, più noti sotto il titolo Ossian e pubblicati in versione integrale nel 1760. Questa doveva essere una raccolta di poesia epico-lirica antica raccolta nelle montagne scozzesi (Highlands), tradotta e attribuita al bardo celtico Ossian. L’autore di questo falso letterario, il poeta scozzese James Macpherson, si era prefissato di creare un epopea nazionale che avrebbe, nello stesso tempo, offerto una possibilità di riscatto ai montanari scozzesi fino a quel momento dimenticati e disprezzati. Subito dopo la pubblicazione sono nate le polemiche vivaci intorno all’autenticità della raccolta e delle poesie che essa comprendeva, e, possiamo dirlo, a ragione. Ma, ci basti in questa occasione aver soltanto accennato al problema, visto che risulta molto più significativo il fatto che a prescindere dalla polemica la raccolta diventa importante perché porta alla ribalta una nuova concezione estetica e culturale di una certa letteratura. Quindi, la raccolta non è importante soltanto in quanto raccolta di poesie popolari, ma per le varie modalità di ricezione che ha provocato, contribuendo con la propria poesia nuova e diversa al processo di formazione di un nuovo gusto letterario in Europa. Grazie all’Ossian, la letteratura europea comincia a confrontarsi con il concetto del poeta nazionale, del bardo nazionale, del cantore dell’epopea nazionale, dai connotati che agli occhi dei poeti preromantici e romantici possedeva anche Omero. L’Ossian è importante anche perché ha risvegliato nei poeti europei l’interesse per la poesia popolare e per la tradizione nazionale, l’interesse che si trasforma e concretizza nel filone letterario solitamente chiamato preromantico. Anche Herder ha speso qualche parola sulla raccolta: secondo lui, l’Ossian rappresenta il tipico esempio della “voce del popolo”, l’esempio di poesia vera e popolare, ovvero “naturale”. Nel 1763 a Pisa è stata pubblicata la traduzione della raccolta, ad opera di Melchiorre Cesarotti. Con questa traduzione Cesarotti si profila come importante mediatore culturale: la sua traduzione dell’Ossian ha inferto un colpo definitivo alla letteratura neoclassica e accademica, e la mitologia nuova, barbara e medievale dell’Ossian ha offerto il repertorio inesauribile di nuovi temi11.

10 В. A. Dundes, Nationalistic Inferiority Complexes and the Fabrication of Ossian, the Kinder.und

Hausmärchen, the Kalevala, and Paul Bunyan, “Journal of Folklore Research”, vol. 22, n. 1, April 1985, 5-18.

11 Cfr. W. Binni, Preromanticismo italiano, “M. Cesarotti e la mediazione dell’Ossian“, Napoli, 1959, pp. 161-219.

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Il ruolo svolto dalla raccolta Ossian e il destino del testo e della sua traduzione potranno esserci d’aiuto allorché si voglia illustrare l’importanza dei mecenati scozzesi nella diffusione, come già detto, del clima preromantico in Italia. Che l’opera di Fortis sia collegata alla raccolta delle poesie antiche celtiche, ovvero scozzesi “popolari”, dimostra chiaramente il fatto che lo stesso personaggio, il famoso mecenate scozzese, John Stuart, Earl of Bute, l’ex primo ministro del governo britannico, l’amico e il protettore di Macpherson e grande sostenitore dell’idea ossianica, ha dato il contributo per la pubblicazione della traduzione di Cesarotti e del viaggio in Dalmazia e di altri scritti di Fortis. Del sostegno offerto a Cesarotti parla lo stesso Fortis nel capitolo De Costumi de’ Morlacchi, del secondo Viaggio in Dalmazia, dedicato al Stuart: “Io ò messo in Italiano parecchi Canti Eroici de’ Morlacchi, uno de’ quali, che mi sembra nel tempo medesimo ben condotto, e interessante, unirò a questa mia lunga diceria. Non pretenderei di farne confronto colle Poesie del celebre Bardo Scozzese, cui la nobiltà dell’animo Vostro donò all’Italia in più completa forma, facendone ripubblicare la versione del Ch. Abate CESAROTTI: ma mi lusingo, che la finezza del Vostro gusto vi ritroverà un’altra spezie di merito, ricordante la semplicità de’ tempi Omerici, e relativo ai costumi della Nazione”12. Oltre a John Stuart, che ha finanziato in parte i viaggi di Fortis, dobbiamo nominare anche gli altri suoi amici che lo hanno incoraggiato a intraprendere i viaggi, o che sono stati in sua compagnia durante gli stessi: John Symonds, storico e professore dell’Università di Cambridge; suo cugino, lord Harvey, vescovo di chiesa anglicana di Lonfonderry; John Strange, archeologo dilettante e geologo, ambasciatore di Gran Bretagna a Venezia; Domenico Cirillo, professore di botanica all’Università di Napoli. Le osservazioni di carattere folkloristico, soprattutto sulla tradizione letteraria locale, inclusa la poesia popolare, Fortis introduce di regola in quei paragrafi in cui si rivolge direttamente ai suoi amici britannici. La traduzione di Cesarotti doveva contribuire alla diffusione dell’Ossian in Italia e in Europa, mentre i viaggi di Fortis in Dalmazia avevano come l’obiettivo la dimostrazione che la vita e i costumi dei celti antichi e i morlacchi in Dalmazia erano assai vicini. Nelle descrizioni della vita morlacca e della loro poesia orale, i confronti tra i due mondi sono assai frequenti. Nel Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero (1771), più precisamente nella lettera dedicatoria a John Symonds, dopo due pagine di descrizioni dei pregiudizi, l’autore si sofferma anche sulle poesie popolari. Non tralascia di sottolineare le modalità del loro canto e la secolare sopravvivenza della tradizione orale, soprattutto tra la popolazione dei villaggi, tracciando un parallelo con il canto dei bardi scozzesi: “... dopo che è trovato che nello stesso modo si perpetuano molti curiosi e interessanti pezzi di Poesia Nazionale all’ uso de’ vostri Celti Scozzesi fra’ contadini spezialmente”13. Oppure, quando presenta la Hasanaginica, dice che la poesia “è nello stesso tempo ben composta e interessante”: anche se non la si può mettere insieme con le poesie “del famoso bardo scozzese”, possiede qualcosa che assomiglia “alla semplicità dei tempi omerici, e si riferisce agli usi di questo popolo”. L’attenzione che Fortis rivolge alla produzione letteraria del popolo dalmata poggia su almeno due punti significativi. Da una parte, il suo approccio potrebbe essere definito etnografico, dove la nota folkloristica contribuiva all’impostazione interdisciplinare e complessa dell’impianto generale dei viaggi, secondo il dettato della poetica illuministica di allora. D’altra parte, la poesia popolare si è rivelata il mezzo utile per illustrare e documentare alcune osservazioni non solo sulla vita e sui costumi del popolo, ma anche sull’organizzazione della società. Questo aspetto gli è stato d’aiuto nel compimento della missione politica ed economica al servizio della Repubblica di Venezia. Ma, vi è stata un’altra missione, di carattere nazional-politico, conferita e portata a termine da Fortis. Riguardava un altro paese, riguardava i suoi 12 Viaggio, I, p. 89. 13 Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero. in Venezia, presso Gaspare Storti, 1771, p. 161.

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Mirjana Drndarski

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amici britannici. Le indicazioni precise offrono i ricorrenti riferimenti alla poesia celtica, ovvero scozzese popolare (cioè ossianica). Secondo il nostro autore, vi si trovano particolari quasi identici nelle modalità della recita orale (i cantori morlacchi sono simili ai bardi scozzesi), nella tradizione plurisecolare determinata dalla trasmissione orale (“nello stesso modo continuano a vivere molti brani meravigliosi ed interessanti della poesia popolare come presso i vostri Celti scozzesi”), nell’ambiente sociale in cui nasce questa poesia (“soprattutto tra i contadini”). Grazie a questi riferimenti e paralleli, siamo in grado di scoprire le vere convinzioni di Fortis secondo il quale la poesia popolare orale sopravvive durante i secoli; così il nostro autore si rivela indirettamente sostenitore della tesi dell’originalità della poesia scozzese popolare. Lui stesso ha avuto il modo di documentare e di descrivere minuziosamente la recita e il modo in cui questa poesia viveva nel mondo dei morlacchi montanari. Quindi, in un ambiente così simile al contesto tradizionale dei monti scozzesi, il processo della nascita e della conservazione della poesia orale dalle qualità etiche ed estetiche indubbie aveva il suo testimone d’eccellenza, lo stesso Fortis, che offriva un ulteriore argomento a sostegno dell’autenticità dell’opera di Macpherson. Se la testimonianza documentata di Fortis viene presa come veritiera, essa a sua volta immediatamente diventa la prova miliare dell’autenticità della raccolta di Ossian. L’autentica poesia popolare offre il contributo importante al riscatto culturale di un popolo, in questo caso scozzese, e diventa testimone privilegiato della sua identità nazionale, intesa come punto di partenza nel processo di realizzazione dei futuri fini politici. Grazie ad un’impostazione del genere, Fortis è riuscito ad inserire la poesia popolare morlacca e scozzese nello stesso contesto culturale, storico e sociale. E’ vero che la bellezza e il valore letterario delle poesie morlacche non sono all’altezza di quelle scozzesi, ma esse lo stesso costituiscono un’espressione particolare “dei tempi omerici e della loro semplicità” ed altrettanto fedelmente riproducono i costumi nazionali. Secondo le idee di Herder, il quale ha offerto la base teorica della concezione preromantica sulla poesia popolare, questa poesia rappresenta l’ideale incontro tra l’universale e l’individuale: come l’espressione di spirito universale, essa appartiene a tutta l’umanità, ma nello stesso tempo costituisce l’opera che appartiene ai determinati popoli con le caratteristiche nazionali particolari. In tal senso, la poesia popolare morlacca e scozzese sarebbero soltanto due individuali, diverse realizzazioni di un unico spirito universale. Dello stesso avviso era anche Cesarotti: tutto quello che vi è di simile tra i costumi illirici e celtici si riflette nella poesia consimile creata dai loro bardi, perché le poesie dei popoli sono parte dell’eredità della stessa famiglia. Queste considerazioni non intaccano minimamente l’importanza che i libri di viaggi di Fortis hanno avuto per lo studio del nostro folclore. Non si tratta soltanto della prima trascrizione della Hasanaginica con la quale la nostra poesia si è imposta al pubblico europeo, argomento affrontato in numerosissimi studi. Si tratta soprattutto di preziosissime testimonianze in forma di descrizioni vivaci, riguardanti la recita e il modo di cantare la poesia orale e il modo in cui questa poesia continuava a vivere e sopravvivere grazie alla trasmissione orale. Inoltre, Fortis ha indicato quali sono i temi più ricorrenti e gli eroi tipici di questa poesia. Infine, bisogna ribadire che le sue osservazioni sulla poesia popolare morlacca si basano su tutti gli elementi del pensiero preromantico, quali sono la verosimiglianza psicologica nella poesia popolare, definita da Fortis come “cognizione dell’uomo, del carattere della nazione”, e il verosimile storico, ovvero “esattissima verità Storica”. Il verosimile storico gli è sembrato più importante e perciò ha tentato di documentare la verità storica della poesia di Kačić Canto di Milos Cobilich e di Vuco Brancovich (prendendola per una poesia popolare autentica, l’ha tradotta e pubblicata nel Saggio d’osservazioni sopra l’isola di Cherso ed Osero), cercando di confrontare il contenuto della poesia con un testo storico, la descrizione della battaglia di Kosovo di Crijević. Svolgendo questo tipo di analisi, Fortis ha anticipato le categorie estetiche che si sarebbero affermate pienamente appena nella critica letteraria del pieno Romanticismo.

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I viaggi di Alberto Fortis: la missione economica e politica

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Mirjana Drndarski

PUTOVANJA ALBERTA FORTISA – EKONOMSKA I POLITIČKA MISIJA

(R e z i m e)

Fortisova putovanja po Dalmaciji bila su pre svega politički motivisana. S jedne strane njegov zadatak je bio da na terenu ispita kako da se ekonomski unapredi Dalmacija, tada krajnje zaostala venecijanska pokrajna. Postoji, međutim,i politički aspekt ovih putopisa, na šta ukazuje činjenica da su Fortisova putovanja finansirale poznate škotske mecene. Ovo je bilo vreme kada su narodi pod stranom kulturnom dominacijom težili da rehabilituju sopstvenu epsku tradiciju, pa samim tim i sopstveni kulturni, odnosno politički identitet. Među njima su bili i Škotlanđani, a delo koje je trebalo da posluži njihovom cilju bio je Makfersonov Osijan, zbirka navodnih škotskih narodnih pesama. Godine 1763. pojavio se italijanski prevod Osijana iz pera Melkjora Čezarotija. I ovaj prevod i Fortisova putovanja finansirao je erl od Bjuta, zaštitnik Makfersona i zagovornik osijanske ideje. Čezarotijev prevod trebalo je da doprinese popularizaciji Osijana u Italiji i Evropi, dok su Fortisovi putopisi, u kojima je on opisao nastajanje i trajanje usmene poezije u ambijentu sličnom onome koji je postojao u škotskim brdima, trebalo da dokažu autentično ,,narodni” karakter Osijanovih pesama.

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Saša MODERC (Università di Belgrado)

OSSERVAZIONI SUL VALORE TEMPORALE DEL CONGIUNTIVO TRAPASSATO

PAROLE CHIAVE: congiuntivo trapassato, grammatica, valore temporale

Nelle grammatiche della lingua italiana l’uso del congiuntivo trapassato viene illustrato mediante lo schema della concordanza dei tempi e delle regole che determinano l’uso del modo congiuntivo. In questo contesto, l’uso del congiuntivo trapassato risulta vincolato da due condizioni: una di ordine sintattico (la proposizione reggente deve richiedere il congiuntivo nella subordinata) e una di ordine logico/temporale (l’azione della subordinata deve essere antecedente all’azione della reggente; quest’ultima va espressa con uno dei tempi del passato). Queste due condizioni trovano una illustrazione canonica in esempi come il seguente:

Pensavo che avesse studiato

Invece l’esempio: Pensavo che studiasse

esprime la contemporaneità reale (“pensavo che in quel momento stesse sui libri”) o ideale (“pensavo che fosse studente”) della reggente e della subordinata. In questo schema non si inquadrano due casi:

1. l’uso del congiuntivo trapassato (e del congiuntivo imperfetto) dopo una reggente con il verbo al presente (“Penso che l'avesse morsa”, “Penso che anche lui stesse male […]”; gli esempi sono tratti dal sito internet http://freeweb.supereva.com/bigolinside). Si tratta di un uso non rilevante ai fini di questa comunicazione, dato che in questi casi il valore temporale del congiuntivo trapassato (esprimente antecedenza della subordinata rispetto alla reggente) e del congiuntivo imperfetto (esprimente contemporaneità della subordinata con la reggente) risulta conforme e parallelo con le regole dell’uso dell’imperfetto indicativo (e, conseguentemente, del trapassato prossimo). Invece viene modificata e ampliata la regola grammaticale che nel caso dell’imperfetto o del trapassato congiuntivo nella subordinata vuole che nella reggente siano presenti tempi passati;

2. casi di proposizioni modali introdotte da come se o da quasi. In queste proposizioni, che per noi sono le più interessanti, è possibile notare la presenza non infrequente del congiuntivo trapassato anche in subordinate che, a un’analisi semantica e pragmatica più attenta, risultano contemporanee con la rispettiva reggente o, perlomeno, sono prive di una effettiva e marcata antecedenza temporale implicita nel congiuntivo trapassato. In questi casi il congiuntivo trapassato sembra svolgere un ruolo di alternativa del più canonico – in questo caso – congiuntivo imperfetto.

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Osservazioni sul valore temporale del congiuntivo trapassato 117

Per quale motivo un simile uso del congiuntivo trapassato risulta interessante e necessita

un’analisi linguistica più accurata? Lo spunto per queste riflessioni ci è stato dato dall’analisi della traduzione in italiano di una raccolta di racconti di Ivo Andrić1; l’analisi è stata svolta sul materiale linguistico inserito nella tesi di master in cui l’autore di questo contributo si prefiggeva lo scopo di indagare i rapporti aspettuali (e, in parte, azionali) tra le forme verbali serbe e le equivalenti forme verbali italiane nelle relative traduzioni2. Gli esempi di uso del congiuntivo trapassato che in sede di analisi contrastiva avevano attirato la nostra attenzione sono i seguenti:

[1] Teško se diše, zagušljivo je kao da nad glavom, u mraku, imaPRESENTE gvozdeni svod. (Andrić, p. 185)

Pop Vujadin respirava a stento, si sentiva soffocare, come se sulla testa, nell'oscurità, ci fosse stata una volta di ferro. (I tempi di Anika, p. 49)

[2] Tako satima pritište dlanom to mesto i gleda vatru i lončiće u furuni, kao neke oči3 [...]. (Andrić, p. 192)

Se ne stava così per ore ed ore, a comprimersi col palmo della mano quel posto ed a guardare il fuoco ed i pentolini che si trovavano sulla stufa, quasi fossero stati occhi [...]. (I tempi di Anika, p. 58)

[3] Mihailo je proveo nekoliko teških dana boreći se sa sopstvenim mislima kao sa senkama4 i priviđenjima. (Andrić, p. 202)

Mihailo trascorse alcune giornate difficili, lottando contro i propri pensieri, quasi fossero stati ombre e fantasmi. (I tempi di Anika, p. 71)

Nelle frasi in lingua serba si nota un rapporto di evidente contemporaneità (nel presente

per i primi due esempi, nel passato per il terzo) tra la reggente e la subordinata, mentre nella versione italiana il traduttore rende la subordinata con il congiuntivo trapassato, assegnando alla subordinata un chiaro valore di anteriorità temporale rispetto alla reggente e provocando un’alterazione dei rapporti temporali presenti nell’originale. Infatti, il serbo, non avendo né un sistema di concordanza dei tempi né il modo congiuntivo, esprime la contemporaneità nel passato mediante il presente e l’antecedenza rispetto alla reggente con il perfetto, come risulta dai seguenti schemi grammaticali:

Mislio sam da uči presente Pensavo che studiasse Mislio sam da je učio perfetto Pensavo che avesse studiato

tabella 1

1 Ivo Andrić, I tempi di Anika e altri racconti, Bompiani, Milano 1966; traduzione di Bruno Meriggi. 2 Saša Moderc, Prevođenje srpskih prošlih vremena na italijanski. Magistarski rad, Filološki fakultet,

Beograd 1996 (La traduzione dei tempi passati serbi in italiano. Tesi di master, Facoltà di Filologia, Belgrado 1996).

3 La proposizione è ellittica ed è ricostruibile nella seguente maniera: kao da suPRESENTE neke oči […] (“come se fossero occhi”).

4 La struttura nominale kao sa senkama (“come con ombre”) è parafrasabile con kao da suPRESENTE senke […] (“come se fossero ombre”).

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Saša Moderc 118

Questo schema propone, comunque, un’interpretazione parziale e ridotta del valore semantico della subordinata, dal momento che ambedue gli esempi citati sopra possono avere delle interpretazioni più ampie rispetto a quelle presenti nella tabella 1:

Mislio sam da uči presente

imperfetto

Pensavo che (in quel momento) stesse studiando (lo studiare è un’azione coincidente con il momento dell’enunciazione).

Pensavo che fosse dedito allo studio (lo studiare è inteso, qui, in senso abituale, costante, ed è localizzato nel passato).

Mislio sam da je učio perfetto

imperfettivo

Pensavo che avesse studiato (lo studiare è antecedente alla reggente ed è un processo che si presume concluso).

Pensavo che studiasse (lo studiare è contemporaneo alla reggente: quest’uso è di registro più colloquiale rispetto agli altri esempi).

Pensavo che avesse studiato (che fosse stato dedito allo studio in un periodo della sua vita: processo presumibilmente non concluso).

tabella 2 Nell’insegnamento delle lingue straniere caratterizzate dalla concordanza dei tempi motivi didattici di natura pragmatica consigliano ai discenti serbofoni di assumere la tabella 1 come modello linguistico canonico. Si tratta di una scelta ovviamente restrittiva, quantunque necessaria per una agevole acquisizione iniziale delle strutture temporali di base della lingua straniera e per evitare errori nel transfer dal serbo all’italiano. Nel caso opposto del transfer dall’italiano al serbocroato, l’osservazione dello schema della tabella 1 è ancora utile in quanto consente di riconoscere e fissare i valori di contemporaneità e di antecedenza del, rispettivamente, congiuntivo imperfetto e del congiuntivo trapassato italiani. Ora, da quanto esposto, nei tre esempi di Andrić citati sopra ci si dovrebbe aspettare l’uso del congiuntivo imperfetto, secondo le regole della concordanza dei tempi e della contemporaneità degli eventi, e non dei congiuntivi trapassati presenti nella traduzione italiana. A questo uso del congiuntivo trapassato potremmo assegnare, in via preliminare, il nome di “congiuntivo trapassato di contemporaneità”. Il fenomeno notato nel testo della traduzione in italiano ci ha indotti a verificare l’eventuale presenza di simili congiuntivi trapassati anche in testi italiani originali e non di letteratura tradotta e a cercare conferme originali nella lingua italiana. Senza dover ricorrere a ricerche laboriose e in maniera relativamente agevole siamo riusciti a reperire su Internet i seguenti esempi (nella ricerca5 ci si è limitati ai soli verbi essere e avere, considerata la loro alta frequenza):

[4] Quando le chiesi sotto ipnosi di andare oltre agli avvenimenti realmente accaduti nella sua vita [...], mi spiegò di sentirsi cullare come se fosse stata all'interno di un grembo. [www.elisir.biz/vite %20passate.htm]

5 Con il motore di ricerca di www.yahoo.it abbiamo cercato le stringhe “come se fosse stata” e “come se

avesse avuto” e abbiamo selezionato gli esempi in cui siamo stati in grado di riconoscere il congiuntivo trapassato “di contemporaneità”. Le suddette stringhe sono state scelte per via della relativamente alta frequenza della terza persona singolare.

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[5] Egli la guardò a lungo con uno sguardo inquisitore come se fosse stata la prima volta che la vedesse ed ella comprese la serietà di quell'occhiata; [...] Italo Svevo, Senilità (testo in formato digitale disponibile su Internet) [6] Vedevo la lama tagliare la patata come se fosse stata burro, scorrendo in modo fluido e senza intoppi. [www.divinocibo.it/category/generale/] [7] Mentre camminava, visto che non c'era nessuno, si mise a parlarle come se fosse stata una persona. [www.lucedistrega.net/documenti/leggende.htm] [8] Ma è stato ancora più bello vederla saltare di gioia, come se fosse stata una bambina alla prima medaglia, quando ha capito di aver vinto l'oro. [http://www.sportline.it]

[9] L’effetto che ebbe sullo Shìilan ribelle fu clamoroso; si girò verso di lui come se avesse avuto le antenne, e naturalmente lo scorse. [http://www.digimonitalia.it]

[10] La toccava con dolcezza, come se avesse avuto nelle mani un oggetto prezioso, di rara bellezza e di salvifica materialità. [http://www.forumgiovani.org] [11] Ma per lui… sembrava non essere un problema, come se avesse avuto la capacita di fendere la nebbia con un solo, attento sguardo dei suoi occhi neri, acuti e profondi. [http://www.damaverde.net]

[12] La giovane [...] stava ravviando le sue eleganti vesticciuole di modistina, ma con tanto calore e con tanta sollecitudine come se avesse avuto l’argento vivo addosso. [http://www.classicitaliani.it]

Quali potrebbero essere le spiegazioni dell’uso di questo “congiuntivo trapassato di

contemporaneità”, non precisamente identificato nelle grammatiche della lingua italiana a noi note e nelle definizioni di questo tempo verbale? Come mai risulta accettabile, in questi contesti, il valore aspettuale perfettivo (trattandosi di una forma composta) di questo trapassato congiuntivo per indicare processi stativi dal punto di vista azionale? Proponiamo di cercare la risposta seguendo tre piste, convinti che tutte possano concorrere all’inquadramento linguistico di questo uso: a) l’influsso dell’analogia nei processi linguistici, b) la stilistica e c) la semantica dell’azione verbale.

I processi analogici, come è noto, costituiscono un fattore di primo piano nella genesi di fenomeni linguistici. Nel nostro caso, una parte degli esempi di “trapassato congiuntivo di contemporaneità” citati proviene infatti da corpora linguistici scritti ad hoc o comunque non passati al vaglio di una revisione stilistica dettagliata. Ci riferiamo agli esempi tratti dalla cronaca sportiva e dall’universo della produzione (pseudo)letteraria che prolifica su numerosi siti Internet aperti ad aspiranti scrittori o scrittori non ancora affermatisi. In base alla provenienza e alla genesi di questi esempi si può avanzare l’ipotesi che in essi il congiuntivo trapassato possa essere il prodotto dell’imitazione di strutture sintattiche preesistenti, fermamente consolidate nella lingua letteraria italiana. Qui figura sovente il congiuntivo trapassato, come nel caso del periodo ipotetico della irrealtà (“se fossi andato...”) o della realtà/possibilità/irrealtà nel discorso indiretto (“disse che se avesse avuto tempo sarebbe venuto”, esempio ambiguo e aperto a tre diverse interpretazioni temporali), oppure di proposizioni temporali, sempre nel discorso indiretto, introdotte dalla congiunzione finché (“l'avrebbe cercata finché non l'avesse trovata”) o, ancora,

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Saša Moderc 120

dalla stessa proposizione modale introdotta da come se ma avente un chiaro riferimento a eventi passati (“mi guardava come se non avesse capito le mie parole”).

Naturalmente, l'ipotesi dell’assunzione meccanica di schemi linguistici può offrire una spiegazione forse plausibile per testi privi di limatura stilistica, non redatti e non ricondotti ai canoni della sintassi italiana; resta, tuttavia, il problema dei testi appartenenti a scrittori affermati, nel caso dei quali di certo non si può parlare di scarsa conoscenza della lingua italiana (cfr. l’esempio [5], di Italo Svevo).

Per queste ragioni, quanto esposto qui sopra può venire inquadrato in un orizzonte più ampio, quello della stilistica della lingua italiana e, più precisamente, agli strumenti di cui questa lingua dispone per marcare il maggiore o minore rilievo psicologico o emotivo di un evento a livello morfologico e sintattico (strumenti assenti nel serbo). Infatti, questo uso del trapassato congiuntivo non sembra finalizzato a potenziare l’improbabile (vista la semantica degli enunciati e la struttura degli eventi) antecedenza temporale della subordinata introdotta da come se. È nostra opinione che con questa scelta linguistica si voglia operare una differenziazione tra primo piano e secondo piano narrativo; in questa ottica appare lecito sostenere che anche il trapassato congiuntivo possa assumere il ruolo di strumento con il quale l’autore effettua il processo di distanziamento emotivo e psicologico dall’oggetto della narrazione. Questa interpretazione si può certamente applicare agli esempi citati sopra, ma dovrebbe avere una conferma di più ampio respiro, reperibile nell’analisi del contesto da cui sono tratti gli esempi citati. In tale maniera si potrebbero trovare altri elementi linguistici comprovanti l’intenzione dell’autore di distaccarsi dall’oggetto della narrazione (tra questi elementi, per esempio, l’uso del passato remoto e di elementi deittici indicanti lontananza e distanziamento rispetto al parlante). In altre parole: negli esempi citati l’uso del congiuntivo imperfetto, sintatticamente e semanticamente “regolare”, al posto del congiuntivo trapassato, cancellerebbe l’effetto di distanza emotiva e psicologica che si vuole imprimere al testo e contribuirebbe viceversa a instaurare un rapporto di prossimità e coinvolgimento con quanto esposto, rapporto che negli esempi citati, stando alla scelta degli autori (sempreché di scelta cosciente si tratti – Svevo escluso), risulterebbe indesiderato. La codificazione degli eventi citati mediante il trapassato prossimo del congiuntivo produce un allontanamento psicologico ed emotivo dall’evento e la sua conseguente collocazione nella sfera del meno rilevante, del secondo piano (background). Generalmente, la distinzione tra primo e secondo piano, tra informazioni aventi maggiore risalto e informazioni con assegnata minore importanza nell’economia del testo stenta a trovare un adeguato spazio nelle grammatiche italiane, dove tradizionalmente si vuole spiegare l’uso dei tempi verbali appoggiandosi esclusivamente sul valore temporale delle forme verbali, tralasciando questi usi riscontrabili sia nella lingua letteraria che nel parlato6.

Negli esempi in questione interpretiamo l’uso del congiuntivo trapassato come una manifestazione del processo di distanziamento operato dal narratore nei confronti dell’oggetto dell’esposizione. Dalla prospettiva di chi ha come lingua materna la lingua serba si tratta di una operazione non trasparente in quanto il serbo, che nell’uso corrente tende a limitare i tempi del passato a uno soltanto7, non è in grado di esprimere con forme del sistema verbale le due distinte prospettive stilistiche (partecipazione psicologica : distanziamento psicologico), che l’italiano

6 Cfr. Moderc, Saša, Relativna vremena u italijanskom jeziku. Doktorska disertacija, Filološki fakultet,

Beograd 2002 7 Pur avendone altri a disposizione: l’aoristo ha valori modali e stilistici particolari; può riferirsi anche al

presente compiuto (“Ode!” = “È andato via” [in questo momento]); l'imperfetto oggi è residuo solo in poche forme verbali (tra queste il verbo biti, “essere”); l’uso del piucchepperfetto in ambedue le sue varianti è di gran lunga meno frequente rispetto al trapassato prossimo italiano.

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invece è in grado di strutturare manipolando i diversi tempi verbali del passato. Una delle difficoltà stilistiche e uno dei maggiori problemi contrastivi nel transfer dal serbo all’italiano risiede appunto nella necessità di ricostruire, nella versione italiana, elementi linguistici che nel serbo, di cui i serbofoni non sono linguisticamente consci e che non sono presenti o, se lo sono, hanno un risalto e un impatto stilistico diverso rispetto agli strumenti dell’italiano.

Per quanto riguarda la categoria dell’azione verbale, negli esempi citati sono presenti esclusivamente verbi durativi non telici (stativi), il che probabilmente facilita (come già rilevato sopra) la possibilità di usare il congiuntivo trapassato trascurando la dimensione temporale dell’enunciato e, più precisamente la pefettività/imperfettività dell’evento. Infatti, le forme verbali stative, esprimenti stati e non processi aventi una propria dinamica e sviluppo, mostrano una maggiore indipendenza da interpretazioni cronologiche e si prestano meno ad essere considerate come forme temporalmente antecedenti al verbo della reggente. Visto il criterio di ricerca adottato (v. nota 5), per il momento non abbiamo reperito esempi con verbi telici; ciò è probabilmente dovuto al fatto che il valore aspettuale perfettivo insito nel congiuntivo trapassato indurrebbe a interpretare in chiave quasi esclusivamente temporale e perfettiva eventuali esempi contententi questa forma verbale. Quindi, in questa sede non possiamo trarre conclusioni documentate per quanto riguarda il comportamento dei verbi telici in contesti simili; questi ultimi, esprimendo processi che indicano cambiamenti di stato, se coniugati al trapassato congiuntivo, dovrebbero essere maggiormente soggetti a un’interpretazione strettamente temporale, di antecedenza rispetto alla proposizione principale.

Alla fine di queste brevi considerazioni su questo uso del trapassato congiuntivo dei verbi stativi possiamo concludere che tale scelta rientra in primo luogo nella stilistica della lingua italiana e sostanzialmente non rappresenta un tratto sintattico o stilistico di rilievo per la corretta presentazione e acquisizione dell’uso dei tempi italiani. Per questo motivo probabilmente siffatto uso non trova spazio nelle grammatiche della lingua italiana. Tuttavia, riteniamo che sia importante presentare questa peculiarità del congiuntivo trapassato al fine di delineare un profilo più dettagliato dell’uso dei tempi verbali italiani e del loro valore semantico, nonché la loro specifica dimensione psicologica ed emotiva, elementi che solitamente non vengono presi in considerazione nella didattica dell’italiano, ma che, tecnicamente, hanno un’importanza fondamentale per la comprensione del sistema verbale italiano e stilisticamente senz’altro meritano una trattazione più dettagliata, almeno a livelli avanzati dello studio dell’italiano, specialmente tenendo conto di una lingua come il serbo, che non possiede strumenti linguistici idonei ad esprimere la posizione e l’atteggiamento del narratore. Bibliografia Bertinetto, Pier Marco, Tempo, aspetto e azione nel verbo italiano. Il sistema dell'indicativo.

Studi di grammatica italiana pubblicati dall'Accademia della Crusca, Firenze 1986 Dardano, Maurizio–Trifone, Pietro, La nuova grammatica della lingua italiana, Zanichelli,

Bologna 1997 Moderc, Saša, Gramatika italijanskog jezika, II edizione, Luna crescens, Beograd 2006. Moderc, Saša, Prevođenje srpskih prošlih vremena na italijanski. Magistarski rad, Filološki

fakultet, Beograd 1996 Moderc, Saša, Relativna vremena u italijanskom jeziku. Doktorska disertacija, Filološki fakultet,

Beograd 2002 Renzi, Lorenzo-Salvi, Giampaolo, Grande grammatica italiana di consultazione. Il Mulino,

Bologna 1991

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Saša Moderc 122

Samardžić, Mila, Od rečenice do teksta. Uvod u sintaksu italijanske složene rečenice. Univerzitet Crne Gore, Filozofski fakultet, Podgorica 2006.

Serianni, Luca (con la collaborazione di Alberto Castelvecchi), Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria. UTET-Libreria, Torino 1989

Terić, Gordana, Sintaksa italijanskog jezika, Filološki fakultet, Beograd 2005. Moretti, G.B.-Orvieto, G.R, Grammatica italiana. Il verbo 1. I modi finiti. Editrice Benucci

Perugia, 1979

Saša Moderc

O TEMPORALNOJ VREDNOSTI ITALIJANSKOG KONJUNKTIVA PLUSKVAMPERFEKTA

(R e z i m e)

U prevodima srpskih književnih dela na italijanski, ali i u primerima preuzetim direktno iz italijanskog jezika primećeno je da se pretprošlo vreme konjunktiva koristi i za radnje/situacije koje su istovremene s radnjama iskazanim u upravnim rečenicama, te bi u tim slučajevima trebalo upotrebiti imperfekat konjunktiva. U ovom istraživanju usredsredili smo pažnju na stativne glagole i iznosimo tumačenje da je ova upotreba pretprošlog vremena konjunktiva uslovljena ili nekritičkim preuzimanjem jezičkih obrazaca u kojima ovo glagolsko vreme treba da se koristi ili, u slučaju pažljivo sročenih književnih tekstova, reč je o postupku autorovog distanciranja u odnosu na izloženu radnju. Srpski jezik ne poseduje instrumente za iskazivanje ovakvog pripovedačevog stava.

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Milana PILETIĆ (Belgrado)

UNA VITA PER IL SUO VERSO Parole chiave: poesia, traduzione, rima, ritmo.

Carl Gustav Jung, uno dei nostri grandi saggi maestri, ha annotato nel prologo per la sua autobiografia che in essa il lettore troverà pochi fatti esteriori, perché le sole esperienze della sua vita che gli sembrano degne di essere riferite sono quelle interiori. Penso che qui – e non solo qui – gli si avvicini il nostro poeta, con il quale mi incontro con gioia, altresì non solo “da fuori”, ma anche dentro il suo viaggio infinito. Generosamente mi ha portato con sé, e spero che molti di voi s'incammineranno con lui, riconoscendo i propri sentieri in quei paesaggi sognati e svariati.

A prima vista, potrebbe sembrare che essi non sono poi tanto sconfinati: prima di tutto – anzi, prima di tutti; come in ogni vera poesia, qui non c'è la natura morta, al massimo c'è “la natura fredda”, e le presenze durano, sia pure come “gli assenti” – troviamo il mare, il mare nello spazio e nel tempo, principalmente calabrese, ma anche quello greco, e del Nord. Percepiamo e sentiamo, per esempio, com'era profonda l'intuizione avvenuta nell'infanzia del poeta, quando sulla spiaggia di Reggio di Calabria si erano riflesse le case di Messina, dall'altra parte dello Stretto, oppure come dall'antichità, per noi contemporanei, sono emersi dei bronzei guerrieri di Riace. Poi, la donna, alla quale si va incontro da lontano, seguendo le sue impronte, mandando i disperati messaggi intermittenti coi fari facendone il telegrafo, tastando impacciati il telefonino. Oppure, avvicinandosi a lei come se fosse a portata di mano, viene toccata ma non trattenuta, è libera di sfuggire, e noi ci facciamo largo anche attraverso quello spazio vuoto, sapendo esattamente quanta ressa c'è dentro, mentre Calabrò dice a lei e a noi e a sé “la penuria di te mi affolla l'anima”.

Eppure, chiunque s'inoltri, presto capisce che la fine non esiste, i limiti non ci sono, perché i versi sono portati da un autentico potere d'archetipi, e ogni stretto e ogni nebbia si estende non solo per il lungo e per il largo, ma anche sopra le nuvole aggrondate e precipizi. Andremo allora in giro per la Calabria, ci inebrieranno Alicudi, Gambarie, Pentimele, getteremo uno sgardo nei vecchi pozzi e ci abbandoneremo al “colpo di luna”, di corsa saliremo i monti; nuoteremo sott'acqua in apnea o dividendo l'ossigeno con un fratello d'immersione, a bracciate e navigando raggiungeremo il famoso arcipelago di isole vulcaniche, e più in là, dove ci porti ricordando il vento, nostos di Mikonos, su su fino alla grigia linea d'Ostenda. Arcilussurgiu spalancherà gli occhi, saremo iniziati attraverso il rito antico, ma anche per via di recentissimi termini scientifici, matematici, genetici ecc.; in una fresca mattina romana arriveranno "…a stormo sui Ciao / le donne di servizio sgargassanti", e possiamo trovarci pure in un ospedale, dopo l'operazione, dalla propria pelle contemplando una malata “da sola, ma non sola”, perché è “una di noi” ed è lei che “...il sole...festeggia”, “il vento...corteggia”, e “fuori volteggiano ariosi i carrelli”, e “...con l'ali bendate / la sofferenza ci volteggia intorno”. Alla fine comunque ci rimangono “anime vaganti di gabbiani”, da un'altra poesia.

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Milana Piletić 124

Eccole, dunque, cose immani e cose minute, pesanti e leggere, siano come siano, ovunque conduca la strada, in qualsiasi modo vengano le onde alla spiaggia – e poi se ne vanno. Non bisogna restare per sempre “sulla battigia”, dimenandosi pateticamente, facendo finta di nuotare. È importante pigliare il largo.

È così che ho cercato di seguire Corrado Calabrò interpretando i suoi versi, per lo più endecasillabi particolarmente flessuosi, capaci di comprimersi quanto di allungarsi; ci ho trovate anche delle rime, non molte, e le assonanze, più frequenti, e spero di averle conservate: proprio essendo rare danno un'accento speciale. Però, non è la metrica esterna quella che detta la legge: tutto procede per il ritmo interno delle poesie e dei poemi. Moltissimi sarebbero gli esempi, ne sfiorerò solo uno: il titolo. L'originale dice Una vita per il suo verso. Se qui non si fosse per un istante raggrumato il flusso poetico di Calabrò, tanto per indicarci il suo viaggio a spirale, ciò significherebbe una vita che si svolge a modo suo, con il proprio senso, nella propria direzione. Ma precisamente per il valore di quel segnale che ci introduce in tutto un mondo poetico, e per la detta legge interna, quella vita vissuta impavidamente anche da me ottiene la sua libertà e diventa “jedan život po sopstvenom stihu” (che segue le misure della sua poesia, il suo verso poetico). Mi pare che tutto quello che viene dopo nelle poesie raccolte giustifica questa scelta. È avvenuto pure un bel miracolo ritmico, di quelli che si ottengono raramente: il titolo serbo coincide non solo per il numero delle sillabe, ma anche per la cesura dopo la quarta di esse (cioè a guisa del nostro tradizionale decasillabo, quasi volendo gentilmente esprimerci la vicinanza nella quale lo spazio e il tempo diventano relativi). Come se scaturisse dalla fonte meravigliosa del “Filo di Arianna” del Calabrò: “Solo una volta t'è dato filarlo: / e quando un giorno ne verrai a capo / lì troverai che il filo è terminato”.

Milana Piletić

“Corrado Calabrò è nato nel 1935 a Reggio Calabria, sulla riva del mare. È poeta profondamente mediterraneo, ma molto amato anche nei paesi del nord e dell’est d’Europa. Ha pubblicato diciotto libri di poesie per le edizioni di Guanda, Scheiwiller, Franco Maria Ricci, Mondadori, Newton Compton, con traduzioni in tredici lingue. Un’ampia raccolta delle sue liriche è uscita nel 1992 nelle edizioni Mondadori col titolo Rosso d’Alicudi (tre edizioni). Dieci anni dopo, ancora Mondadori ha pubblicato una vasta raccolta dell’ultraquarantennale produzione poetica di Calabrò, in un Oscar dal titolo Una vita per il suo verso (due edizioni). Straordinario il successo delle sue Poesie d’amore, edite da Newton & Compton nel 2004.

Delle poesie di Calabrò sono stati fatti vari compact disks (l’ultimo è edito da Crocetti), con le voci di alcuni dei più apprezzati interpreti: Achille Millo, Riccardo Cucciolla, Walter Maestosi, Alberto Rossatti, Daniela Barra. Calabrò è anche autore di un romanzo, Ricorda di dimenticarla (Newton & Compton, 1999), finalista al premio Strega. Per la sua opera letteraria l’Università Mechnikov di Odessa, nel 1997, e l’Università Vest Din di Timişoara, nel 2000, gli hanno conferito la laurea honoris causa.” 1

LO STESSO RISCHIO

Razionalmente, certo, il mare è un rischio;

ЈЕДНАКИ РИЗИК

Кад се промисли, дабоме, море је ризик;

1 Dante Maffia, la nota introduttiva dell'ANTOLOGIA DELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO,

l'edizione bilingue della casa editrice belgradese Paideia, 2007, con le traduzioni a fronte di Milana Piletić. Le poesie di Calabrò qui scelte sono citate dalla raccolta: Corrado Calabrò, Una vita per il suo verso, poesie 1960-2002, Mondadori, Milano 2002, tradotta da Milana Piletić (Korado Kalabro, Jedan život po sopstvenom stihu, Plato, Beograd 2003).

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Una vita per il suo verso 125

ma io non l’ho mai sentito come tale.

Il mare va preso come viene così, con la sua stessa inconcludenza : portando verso il petto, a ogni bracciata, un’onda lieve che non si trattiene. Non c’è altro senso nel tendere al largo, dove l’acqua è mielata dal tramonto, se non di tenere la cadenza fino a quando stramazzano le braccia e spegnere nel mare il desiderio di raggiungere a nuoto la soglia che segna il limitare a un nuovo giorno.

Se allora ci si gira sopra il dorso, come pescispada dissanguati, agli occhi gonfi d’acqua e indeboliti spalanca il cielo la sua occhiaia vuota: ma il corpo sta sospeso in un’amaca che lo sorregge come si è riamati nell’età antecedente la ragione. Passata quell’età, l’amore è un rischio, infido quanto più ne ragioniamo. Al mare si va incontro come viene, in un’illimitata inconcludenza, sentendosi lambire a ogni bracciata da una carezza che non si trattiene.

E’ una scommessa tutta da giocare fino alla sua estrema inconseguenza. La cosa più penosa è far le mosse sulla battigia, invece di nuotare.

али ја га никад нисам тако доживео.

Море ваља примити какво буде, без икаквог циља, јер је и оно такво: на груди привити, са сваким завеслајем руке, један лаки талас који не опстаје.

Нема другог смисла да се пучини стреми, тамо где је вода медна од заласка, осим да се темпо одржава све дотле док не онемоћају руке и док сред мора не згасне жеља да се доплива до оног прага одакле нови дан закорачи.

Ако се онда преврнемо на леђа, као сабљарке кад искрваре, за очи троме и подбуле од воде разјапиће небо свој празни подочњак: али тело лебди у висећој мрежи подупире га она ко узвраћена љубав из неког доба од разума старијега. Кад то доба прође, љубав је ризик, што више мислимо, све је невернија.

Мору се хрли у сусрет каквом буде, без икаквог постављеног циља, док нас овлаш, са сваким завеслајем руке дотиче милошта која не опстаје.

Опклада је пала и ваља играти до њене крајње неследствености. Ништа тегобније од батргања по мокром жалу, уместо да се плива.

ENTRA NEGLI OCCHI SENZA FARMI MALE

Solo lunghi rossori solo lunghi rossori permangono del falò spudorato del tramonto.

Da Lipari fino ad Alicudi piano piano si fredda il mare ch’è un immenso bacile d’olio grigio.

Dirimpetto all’ingresso del porto,

УЂИ У ОЧИ А ДА МЕ НЕ ОЗЛЕДИШ

Тек дуга црвенила тек дуга црвенила заостану за бестидним кресом заласка сунца. Од острва Липари до острва Аликуди полагано се хлади то море које је голема здела сивог уља. Ту прекопута улаза у луку,

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proprio all’orlo della banchina, s’erge la facciata di vetro dell’hotel Naxos. Le navi che imboccano la rada entrano nella sua vetrata azzurra.

Lunghi rossori strïano la guance del cielo, imbasettate di bambagia; là in fondo, vicino a Filicudi, una rosa di brace si sfalda. Forse sei altrove o forse sei qui accanto. Bevono gli occhi il silenzio che scende nello spento braciere del giorno. Come una pagnotta di cenere galleggia sulla destra Panarea.

Soffice come cenere è la sera. Scompare sullo sfondo Filicudi; ma l’orizzonte resta tondeggiante per la distesa liquida che ingloba.

Secca gli occhi l’assenza d’amore Come la pelle la mancanza d’acqua. Entra - se puoi - nell’anima, entra nei miei occhi senza farmi male così come, all’ingresso del porto, le navi s’introducono incorporee nell’azzurra vetrata del Naxos.

Appena oltrepassata Filicudi s’erge nel mare una stele votiva dall’acqua blu cobalto che sprofonda. Lì una linea invisibile segna l’incurvarsi del mare verso il nulla. Tiepida è la carezza dell’acqua Che ci voltola nella battigia; e soffice come borotalco è ai corpi nudi la sabbia di pomice. E’ buio, ma presto sorgerà la luna e la spiaggia sarà d’un bianco latte. Oh, sì, adesso, adesso mi sei accanto! Riaccende ancora il tuo corpo riverso l’ansito soffocato sulla nuca.

No, non dirò ch’è amore se non vuoi. Entra negli occhi senza farmi male

баш тамо где се завршава насип, уздиже се стаклена фасада хотела „Наксос“. Бродови кад уплове у пристаниште улазе у његова плава окна. Дуга црвенила браздају образе неба, на њима памучни зулуфи; тамо у даљини, где је Филикуди,

круни се једна ружа жежена. Можда си другде, а можда си ту близу. Испијају очи тишину што слази у мангал дана што се угасио. Попут земичке неке пепељаве са десне стране плута Панареа. Мекано попут пепела је вече. У позадини чили Филикуди; али се не губи облина обзорја у течном пространству које обухвата. Суше се очи јер љубави нема као кад кожи недостаје вода. Уђи – ако узмогнеш – у душу, уђи у моје очи а да ме не озледиш исто као што се, ушавши у луку, увлаче бродови бестелесни усред плавих окана „Наксоса“. Одмах када се оплови Филикуди издиже се из мора заветни стећак из јасноплаве утонуле воде. Тамо показује невидљива црта како се повија море у нигдину. Благом милоштом угреја нас вода премеће нас докле стижу вали; и мекан као да је од талка за нага тела песак је од пловућца. Помрчина је, али ускоро ће месец и биће жало бело као млеко. О, да, сада си, сада си поред мене! Док лежи наузнак, још твоје тело пали дахтање које на потиљку згасне. Не, да је љубав не кажем ако нећеш. Уђи у очи а да ме не озледиш

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fammi specchiare-una volta!- la tua anima fammi varcare la linea sfuggente tra il bisogno di credere e l’amore.

No, non dirò ch'è amore se non vuoi. L'amore, d'altra parte, è come l'anima: nessuno, credi a me, nessuno mai l'ha visto. Solo chi l'ha bevuto racconta

- come una storia di pesca fatata – d'una vela scorrente sull'acqua, gravida del pallore della luna, che una sera si trova riflessa nella vetrata che l'aspetta in sorte.

Andiamo pure al largo, se ti pare; ma troveremo l’acqua un po’ più fredda. No,non ti chiedo a cosa andiamo incontro: fammi entrare negli occhi, con la luna !

E non dirò ch’è amore se non vuoi; no, non dirò ch’è amore se hai paura.

пусти душу да се – једном! – у мени огледа пусти ме да пређем црту што измиче од потребе за уздањем до љубави. Не, да је љубав не кажем ако нећеш. Љубав је, уосталом, као и душа: нико, веруј ти мени, нико је никад не виде. Само ко је испије, тај прича

- као чудесну риболовачку причу – о једрилици што клизи по води, бременитој од бледога месеца, и једне вечери пронађе свој одраз у окну што чека да јој падне у део.

Пођимо и на пучину, ако хоћеш; али тамо је хладнија за нас вода. Не, не питам те на шта ћемо наићи: пусти ме у очи, заједно с месецом!

А да је љубав, не кажем ако нећеш; не, да је љубав не кажем ако те је страх.

IL FILO DI ARIANNA Aspetta ancora un poco, facci caso: l'attesa sa filare un lungo filo. È segnato in un codice il tuo giro, è stampato in un filo da filare. No, non lo trovo già sgomitolato: lo devi estrarre, come fanno i ragni, dalle tue stesse ghiandole e filarlo attraverso la testa: starci appeso con tutto il corpo, come un impiccato. Fila ogni giorno e non guardare in basso: questo filo s'allunga col tuo peso e in nessun caso lo puoi riannodare. Lo so che all'altro estremo lei t'attende, ma ancora un poco lasciala aspettare. Non dimenarti e non dare strattoni; più si conficca e più fa male, l'amo. Secerni solo il filo che ti occorre

АРИЈАДНИНА НИТ Попричекај још мало, обрати пажњу: уме чекање дугу нит да испреде. Забележен је у неком законику твој круг, утиснут у нит која ваља да се опреде. Не, нећеш да је затекнеш већ одмотану: излучити је мораш, као што паук чини, из властитих жлезда, онда је испрести кроз своју главу: буди окачен за њу читавим телом, као обешен човек. Преди сваког дана и не гледај доле: од твоје тежине нит бива све дужа а да је настављаш никако нећеш моћи. Знам да на другом крају она на тебе чека, али пусти је да те ишчекује још мало. Немој да се бацакаш, ни да се трзаш; што је дубље, више боли, та удица. Извлачи нит само колико ти треба

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per non restare indietro alla corrente ma, quando t'è contraria, dalle spago. Fila il tuo tempo come cresce il grano apri grandi occhi liquidi nel mare: c'è una ninfa elusiva in ogni anfratto, gravi i pesci le vanno a visitare. Pigliala larga, come fece Ulisse; anche per lui Penelope filava. Fila ogni nave, sola, la sua rotta e dietro si richiude la sua traccia. Districati dal filo ch'è già scorso, resta attaccato al bandolo coi denti; non puoi smarrirti in questo labirinto fino a che hai dentro filo da filare. Fila ogni giorno, ma un poco più piano, torci bene le fibre ad una ad una; s'intreccia e scambia in esse il tuo passaggio su un ciglio dove manca spesso il piede, è in esse ch'è racchiuso il tuo messaggio. Nella cordata non c'è un capofila, non tende un cieco ad un cieco la mano: dall'essere al capire è un lungo giro, c'è ancora un filo che ti può guidare. Solo una volta t'è dato filarlo: e quando un giorno ne verrai a capo lì troverai che il filo è terminato.

да не заостанеш далеко од струје сем кад је она неповољна, тад олабави. Преди своје време као што расте жито отвори бистре крупне очи у мору: по једна плаха нимфа у свакој живи шпиљи, достојанствено им у походе иду рибе. Издалека приђи, попут Одисеја; и за њега нит је ткала Пенелопа. Преде сваки брод, сам себи, своју руту а његова бразда затвара се за њим. Искобељај се из нити што већ мину, не пуштај, чврсто зубима њен крај држи; у том лавиринту нећеш да забасаш докле год имаш у себи нит за пређу. Преди сваког дана, али лакше мало, добро упреди влакна једно по једно; с њима се преплиће и смењује твој ход по рубу где често омакне се нога, у њима је твоја порука садржана. Кад исто уже везује, нема вође, не пружа слепац другоме слепцу руку: од бити до разумети дугачак пут је, још има нити која може да те води. Само једном да је предeш ти се дало: и кад једног дана труд приведеш крају схватићеш да је и нити понесталo.

Милана Пилетић

ЈЕДАН ЖИВОТ ПО СОПСТВЕНОМ СТИХУ

(Р е з и м е)

Текст о сабраним стиховима (1960-2002) Корада Калаброа бави се анализом препева наслова збирке (Una vita per il suo verso – Један живот по сопственом стиху); поступак је илустрован трима Калаброовим песмама, с напоредним преводом Милане Пилетић.

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Dušica TODOROVIĆ LACAVA (Università di Belgrado)

SUL FIORE E SULL’AMORE

(una lettera al professor Klajn) Parole chiave: canone, insegnamento, poesia, avanguardia, tradizione.

Caro professor Klajn,

Tempo fa Lei ha scritto una lettera indirizzata al professor Đurić e a me. Nella lettera

prende in esame una parte della nostra antologia di testi Segnalibro, discutendo il criterio con cui è stata fatta la scelta di alcune poesie. La sua lettera è scritta in modo argomentato e appassionato. Non aggressivo, anche se decisamente polemico. Amichevole, anche se leggermente irritato. Scrivendola, Lei ha fatto qualcosa di straordinario. Innanzitutto, ha letto una cosa che hanno fatto i suoi colleghi. Quando ha trovato da ridire, si è rivolto agli autori stessi, addirittura con una bella lettera. La ringrazio per questo. La lettera ha rivelato un suo lato che potevo intuire, ma non conoscevo abbastanza – Lei è un lettore di poesie attento e appassionato, ma soprattutto un insegnante interessato ai contenuti e agli scopi dell’insegnamento. La ringrazio anche per questo.

Devo ammettere che per una serie di motivi inserirei volentieri questa sua bella lettera fra i testi della nostra antologia Segnalibro, magari sotto il titolo Letteratura: Istruzioni per l’uso, come un esempio di lettura di poesie, ma anche un esemplare modello di comunicazione umana, quindi anche letteraria. Mi permetta di provare a risponderle in questa occasione, ma anche di prendere la Sua lettera come uno spunto per accennare ad alcuni testi, presi appunto dal Segnalibro, che espongono delle idee che credo anche lei condivida, o che sono sorprendentemente simili alle Sue, anche se veicolate dalle esperienze diverse dalle Sue, nei tempi diversi dai Suoi e quindi inevitabilmente messe in atto in modo diverso. Le scrivo, in breve, anche per farle capire che non la pensiamo poi in maniera tanto diversa, anche se usiamo tattiche diverse, approcci diversi all’insegnamento, come probabilmente anche alla lettura delle poesie. Ci tengo a precisare che quando dico noi, mi riferisco anche al professor Đurić.

Sostanzialmente, esprimendo i suoi dubbi che riguardano la nostra scelta di alcune poesie invece delle altre, Lei mette in discussione il canone letterario, già, d’altronde, messo in discussione proprio durante la seconda parte del Novecento, da parte della poesia sperimentale e di neoavanguardia, che lei, mi pare di capire, non ama. In questa maniera viene fuori anche la questione del gusto letterario. I contenuti della lettera rivelano appunto i suoi gusti letterari, giustamente, molto personali. Scrivendo, Lei mette Carducci in una luce bellissima, anche Pascoli e Gozzano, che personalmente ama, ma propone altre poesie di Saba, Pascoli, Gozzano, al posto di quelle che si possono leggere sul Segnalibro, scelte magari con intenti più didattici, oppure più conformi alla sensibilità odierna, favorendo in tal modo, secondo Lei, i tecnicismi e l’artificio a scapito della articolazione poetica dei sentimenti. Se ho fatto una buona lettura della Sua lettera, mi pare di capire che l’essenza della sua motivazione di comunicarci le sue

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impressioni sia stata quella di voler promuovere “la ragion dei sentimenti”, invece dei tecnicismi e delle ardite sperimentazioni promosse dalla poesia d’avanguardia.

A questo punto, io le rispondo per le rime! Anzi, ripropongo una rima in particolare, e alcuni versi di uno dei suoi autori preferiti, e scommetto che anche lei li ami:

Amai trite parole che non uno osava. M'incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo.

Trovo questi versi bellissimi, e profondamente novecenteschi, malgrado le apparenze. Ecco, credo che sicuramente bisogna provare a farle e a leggerle, soprattutto forse a farle leggere, le poesie con la rima fiore - amore. Per poter proporre le poesie che suggerisce Lei, chiamiamole appunto poesie fiore-amore, quelle più direttamente intente alla descrizione degli stati d’animo, all’espressione dei moti d’animo, esse, però, vanno in qualche modo liberate di un alone di inautenticità che di solito comporta l’espressione dei sentimenti oggigiorno. Sarebbe bello organizzare magari le letture-performance, una specie di “terapia di gruppo”, che forse potrebbe risultare liberatoria per le nostre inibizioni o diffidenze nei confronti dei sentimenti, il nostro fondamentale analfabetismo in tale materia. Si potrebbe iniziare magari servendoci della proposta di Caproni:

Freschi come i bicchieri furono i suoi pensieri. Per lei torni in onore la rima in cuore e amore.

In ogni caso sarà inevitabile occuparsi delle condizioni della poesia, del sentimento e della

rima in modo ossessivamente autoreferenziale, oppure cercare di girarsi intorno, in maniera altrettanto ossessiva, e compulsiva, e là fuori incontrare - tanti tecnicismi, appunto. Non credo comunque che Elio Pagliarani usando i tecnicismi nella sua poesia Ragazza Carla non riesca a colpire l’immaginazione e la sensibilità dei lettori. Colpisce in modo meno immediato, ma forse più incisivo - partendo dall’anestesia totale del nostro stare al mondo, riesce a spremere sentimento per quella ragazza Carla, a farci provare la desolazione per lei, per una ragazza resa automa che non riesce più a provare nemmeno la disperazione. Per esaminare gli stati di coscienza, ma anche i vuoti sentimentali caratteristici della nostra cultura, già così presenti in Gozzano, ma così evidenti e preoccupanti in Ragazza Carla, forse bisogna ostinarsi a scrivere e a leggere proprio queste poesie “poco simpatiche”, dato che quelle piene di sentimento articolato le sentiamo sempre più spesso un po’ manipolatrici, diffidenti come siamo, manipolati come siamo abituati a sentirci? Per noi, esse sono un po’ come frasi fatte, atte a ottenere qualcosa, nella nostra logica sempre attenta alle questioni di mercato, così lontana dal piacere disinteressato della bellezza. Per continuare a leggere e a sentire le poesie sul fiore e amore bisognerebbe dunque accettare di non vergognarsi di sentirsi sdolcinati e passati di moda – anzi, forse addirittura vergognarsi soltanto quando non sentiamo nient’altro tranne riso, disagio e odor di imbroglio leggendo questo tipo di poesie? Non saprei. Appunto per questo, non credendo in una risposta unica, noi insistiamo sul dialogo e sulla molteplicità delle voci nella nostra antologia, lasciando un’ eventuale articolazione della risposta più partigiana per altre occasioni, in altri luoghi, più appropriati.

Mi permetta a questo punto di accennare brevemente all’idea che ha fatto nascere Segnalibro – nella prima parte c’e’ appunto la Lettura del canone, che lei giustamente si sente di

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ridiscutere, insieme alla tanta poesia novecentesca, anche se partendo dai presupposti diversi. Nella seconda parte ci sono le Letture sparse, pensate a colpire di più la sensibilità del lettore moderno, dello studente di oggi. Nella terza parte ci sono dei testi, nella maggior parte polemici, se non addirittura trasgressivi, che hanno l’ambizione di promuovere la discussione in classe, magari idealmente proprio il tipo di discussione che lei ha iniziato con professor Đurić e con me.

Il guaio è che la poesia, caro professore, come lei sa, oggi è emarginata, semplicemente non va di moda. C’è, però un tipo di poesia che va di moda ancora oggi, forse più che mai, ed è quella cantata da migliaia di persone ai concerti di vari cantautori1. D’altra parte, una volta Fiorello ha avuto un discreto successo con la canzone fatta dalla poesia del suo amato Carducci, ma non credo abbia servito all’alfabetizzazione poetica e sentimentale del grande pubblico. Anzi, non credo che abbia servito ad altro che ad aiutare a far imparare a memoria una poesia magari richiesta dal programma scolastico italiano. Il che apre un’altra questione importante, quella dell’insegnamento di letteratura. La nostra cultura, la nostra sensibilità sono sature al punto tale di rimanere spesso anestetizzate di fronte al dolore altrui come d’altronde anche alla gioia propria. E i sistemi scolastici sono in genere poco propensi a sentire le ragioni profonde del fiore e dell’amore, occupandosi di più degli effetti immediati della rima; quelli inautentici, ripetitivi, appunto.

In ogni caso, già ai tempi dell’Opera aperta Umberto Eco aveva spiegato questi fenomeni che ancor oggi possiamo in buona parte riconoscere, e che riguardano il problema di incomunicabilità fra il nostro mondo, le emozioni e le coscienze, diciamo così, passando per la musica:

Dunque il mondo non è affatto come vorrebbe riprodurlo il sistema di linguaggio che giustamente l'artista di “avanguardia” rifiuta, ma si trova proprio scisso e dislogato, privato delle coordinate di un tempo, esattamente come privato delle coordinate canoniche è il sistema di linguaggio che l'artista adotta. In questo senso l'artista che protesta sulle forme ha compiuto una duplice operazione: ha rifiutato un sistema di forme, e tuttavia non lo ha annullato nel suo rifiuto, ma ha agito al di dentro di esso (ne ha seguito alcune tendenze alla disgregazione che già si andavano profilando come inevitabili), e quindi per sottrarsi a questo sistema e modificarlo ha tuttavia accettato di alienarsi parzialmente in esso, di accettarne le tendenze interne; d'altro canto, adottando una nuova grammatica fatta non tanto di moduli d'ordine quanto di un progetto permanente di disordine, ha accettato proprio il mondo in cui vive nei termini di crisi in cui esso si trova. Quindi di nuovo egli si è compromesso, col mondo in cui vive, parlando un linguaggio che egli artista crede di avere inventato ma che invece gli è suggerito dalla situazione in cui si trova; e tuttavia questa era la sola scelta che gli rimaneva, poiché una delle tendenze negative della situazione in cui si trova è proprio quella di ignorare che la crisi esiste e tentare continuamente di ridefinirla secondo quei moduli d'ordine dalla consunzione dei quali la crisi è nata. Se l'artista cercasse di dominare il disordine della situazione presente rifacendosi ai moduli compromessi con la situazione entrata in crisi, in tal caso egli sarebbe veramente un mistificatore. Infatti, nel momento stesso in cui parlasse della situazione presente, darebbe a credere che al di fuori di questa esiste una situazione ideale, dalla quale egli può giudicare la situazione reale; e convaliderebbe la fiducia in un mondo dell'ordine espresso da un linguaggio ordinato. Così paradossalmente, mentre si crede che l'avanguardia artistica non abbia un rapporto con la

1 Come nota anche professor Lorenzo Renzi nel suo libro Come leggere la poesia (Il Mulino, 1997).

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comunità degli altri uomini tra i quali vive, e si ritiene che l'arte tradizionale lo conservi, in realtà accade il contrario: arroccata al limite estremo della comunicabilità, per quel tanto che è autentica, l'avanguardia artistica è l'unica a intrattenere un rapporto di significazione col mondo in cui vive.2

Le suggerisco inoltre di leggere, sempre nel Segnalibro, il brano intitolato Il rapporto con la

luna, che credo troverà estremamente interessante perché al problema di fiore e amore accosta i suggerimenti sulla nostra luna sbiadita, innominabile ormai, per via di troppo sfruttamento dei malintenzionati nell’ambito della poesia come nell’ambito dell’insegnamento della poesia, per dirla con Calvino. Lì è stata riportata la lettera di Anna Maria Ortese a Italo Calvino3. Riporto qui una parte della risposta di Calvino:

Cara Anna Maria Ortese, guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra

una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo il mio equilibrio e la mia pace interiore. Non le pare di "strumentalizzarlo" malamente, questo cielo?4

(…) Quel che m'interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e

degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d'un rapporto tra noi e l'universo extraumano. La luna, fin dall'antichità, ha significato per gli uomini questo desiderio, e la devozione lunare dei poeti così si spiega. Ma la luna dei poeti ha qualcosa a che vedere con le immagini lattiginose e bucherellate che i razzi trasmettono? Forse non ancora; ma il fatto che siamo obbligati a ripensare la luna in un modo nuovo ci porterà a ripensare in un modo nuovo tante cose.5

2Eco, Umberto, Opera aperta, Bompiani, Milano, 1967; Riportato secondo la nuova edizione del Segnalibro

(Plato, Beograd, 2007, pp.316-321). 3 “Corriere della Sera”, 24 dicembre 1967, col titolo “Occhi al cielo”. Nella rubrica Filo diretto (consistente

in scambi di lettere tra scrittori), Anna Maria Ortese scriveva a me e io le rispondevo. Riporto i passi principali della lettera della Ortese: “Caro Calvino, non c'è volta che sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non provi tristezza e fastidio, e nella tristezza c'è del timore, nel fastidio dell'irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché…Anch'io, come altri esseri umani, sono spesso portata a considerare l'immensità dello spazio che si apre al di là di qualsiasi orizzonte, e a chiedermi cos'è veramente, cosa manifesta, da dove ebbe inizio e se mai avrà fine. Osservazioni, timori, incertezze del genere hanno accompagnato la mia vita, e devo riconoscere che per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi a un interiore equilibrio.“[...] Ora, questo spazio, non importa da chi, forse da tutti i paesi progrediti, è sottratto al desiderio di riposo, di ordine, di beltà, allo straziante desiderio di riposo di gente che mi somiglia. Diventerà fra breve, probabilmente, uno spazio edilizio.O nuovo territorio di caccia, di meccanico progresso, di corsa alla supremazia, al terrore. Non posso farci nulla, naturalmente, ma questa nuova avanzata della libertà di alcuni, non mi piace.È un lusso pagato da moltitudini che vedono diminuire ogni giorno di più il proprio passo, la propria autonomia, la stessa intelligenza, il respiro, la speranza”.

4 …Io non voglio però esortarla all'entusiasmo per le magnifiche sorti cosmonautiche dell'umanità: me ne guardo bene. Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d'una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli.

5 Gli exploits spaziali sono diretti da persone a cui certo questo aspetto non importa, ma esse sono obbligate

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(…) Chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un'immagine

convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana d'ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare...6

Lei, caro professore, fa intuire inoltre la sua insofferenza nei confronti degli atteggiamenti

pomposamente accademici messi in atto nell’interpretazione di testi letterari, accomunando i “professoroni” al professor Đurić e a me; e qui purtroppo posso soltanto capire che lei non abbia colto lo spirito del Segnalibro. Non facendo la distinzione fra noi e loro, caro professor Klajn, lei ha semplicemente commesso un errore, e mi propongo di farle vedere quanto si è sbagliato – ancora una volta con l’aiuto del Segnalibro, appunto. Non mi rimane quindi che difendere la nostra scelta servendoci dei testi che abbiamo proposto nella terza parte del Segnalibro, che sono praticamente gli strumenti per discutere le nostre scelte nella prima e nella seconda parte dell’antologia. Dunque, nell’ Istruzione per leggere, per esempio, Edoardo Sanguineti, poeta e teorico, spiega anche il filo rosso che abbiamo in qualche modo seguito anche noi nell’antologia (legga pure rima fiore-amore invece della parola canzone, nel testo di Sanguineti)7 e non credo che i “professoroni” che lei menziona come nostri “complici” lo farebbero:

Anche dal punto di vista dei contenuti, delle idee, benché la canzone abbia avuto un

a valersi del lavoro di altre persone che invece s'interessano allo spazio e alla luna perché davvero vogliono sapere qualcosa di più sullo spazio e sulla luna. Questo qualcosa che l'uomo acquista riguarda non solo le conoscenze specializzate degli scienziati ma anche il posto che queste cose hanno nell'immaginazione e nel linguaggio di tutti: e qui entriamo nei territori che la letteratura esplora e coltiva.

6 Da Una pietra sopra, Mondadori, Milano, 1995(Segnalibro, op.cit, pp. 338-340). 7 Lo stesso vale anche per il testo di Eco (di cui abbiamo già riportato un brano): “Ora, rifiutando con un

sistema musicale un sistema di rapporti umani, cosa rifiuta e cosa fonda? Il sistema musicale che rifiuta è apparentemente comunicativo, ma di fatto è esaurito: produce clichés, stimola modelli di reazione standardizzati. A un certo giro melodico non può più corrispondere una reazione emotiva fresca e meravigliata, perché quel tipo di comunicazione musicale non stupisce più nessuno: si sapeva già tutto quel che sarebbe accaduto. Vediamo cosa avviene all'ultimo confine attuale della tonalità, la canzonetta alla San Remo: il ritmo non ci riserva sorprese, è il terzinato ormai consueto; quando il verso termina con “cuore” non ci riserverà più sorpresa il sapere che la gioia di questo cuore toccato dall'amore si convertirà in dolore (è una situazione tragica, ma non scuote più nessuno, è risaputa, canonica, rientra nell'ordine delle cose, a tal punto che non si pone neppure più attenzione al vero significato della frase: sapere che il cuore toccato dall'amore precipita nel dolore è un tipo di comunicazione che oggi ci riconferma la persuasione di vivere nel migliore dei mondi possibili), dal canto proprio melodia ed armonia, percorrendo i binari sicuri della grammatica tonale, non provocheranno in noi alcuno shock. Ora questo universo di rapporti umani che l'universo tonale ribadisce, questo universo ordinato e tranquillo che ci eravamo abituati a considerare è ancora quello in cui viviamo? No, quello in cui viviamo è il successore di questo, ed è un universo in crisi. È in crisi perché all'ordine delle parole non corrisponde più un ordine delle cose (le parole si articolano ancora secondo l'ordine tradizionale mentre la scienza ci incita a vedere le cose disposte secondo altri ordini oppure addirittura disordine e discontinuità); è in crisi perché la definizione dei sentimenti quale si è sclerotizzata in espressioni stereotipe e nelle sue formulazioni etiche non corrisponde alla loro realtà effettiva; perché il linguaggio riproduce una struttura dei fenomeni che non è più quella con cui i fenomeni si presentano nelle descrizioni operative che ne diamo; perché le regole di convivenza sociale si reggono su moduli d'ordine che non riproducono affatto lo squilibrio effettivo di questi rapporti”(op. cit).

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pubblico larghissimo, in sostanza è sempre rimasta prigioniera di atteggiamenti, per così dire, piccolo-borghesi. Molta della protesta orientata in quel senso è rimasta imparagonabile alla rottura espressiva proposta da tanta musica anglosassone, dai Rolling Stones ai Sex Pistols, per esempio, in cui radicalismo e anarchismo hanno raggiunto una violenza che da noi è rimasta praticamente sconosciuta o veramente episodica ed eccezionale. Il limite della canzone italiana è davvero anche un limite ideologico e di classe. Tentare l'esperimento del rap significava per me uscire davvero da questi confini, passare davvero ad altro: fare un lavoro, con un musicista, in una direzione che non rimanesse poi nemmeno prigioniera della forma del rap, ma la utilizzasse come una sorta di riferimento fondamentale, nell'organizzazione della struttura di un'esperienza spettacolare, senza rinunciare a nessuno degli elementi che oggi, sia la parola, sia il suono possono proporre.

Io tendo sempre più ad insistere sul momento anarchico come momento di pulsione della grande arte critica del Novecento. Se questo momento ha trovato incarnazione, non è stato tanto nella forma della canzone “all'italiana”, quanto piuttosto nelle esperienze di certo rock violento e oggi, semmai, del rap e di altre espressioni di questo genere.8

Premettendo che la lettura è un atto anarchico, e tale deve rimanere nell’ambito privato, nella solitudine della stanza com’è giusto che sia, adesso ci muoviamo verso la parte sociale della letteratura, e ancor di più della lettura, di tipo universitario. A che cosa serve insegnare la letteratura all’università, lei si è già chiesto, se ricorda, in occasione della discussione della mia tesi sulla destrutturazione dell’istituzione letteraria operata dalla poesia visiva? Ecco, ponendomi anch’io varie volte negli anni questa domanda, credo di poter proporre una mia risposta – per condividere le esperienze di lettura privata, di emozioni suscitate, che poi stanno anche alla base dei valori che costruiamo insieme; per poter dialogare su queste emozioni e questi valori, articolando così le sensazioni intime, esprimendoli e comunicandoli agli altri, al gruppo, alla comunità. Di conseguenza, serve per costruire le piccole comunità universitarie, piccoli nuclei di sapere e sentire condiviso, nella speranza che continueranno a lievitare, a costruire, a leggere e a dialogare come hanno imparato a farlo durante gli anni universitari.9

Sono inoltre convinta che Lei, professore, sia molto più anarchico di quanto crede, perché sono certa che questa sua lettera, fondamentalmente non rivolta a noi ma ai professoroni, con la sua autentica arrabbiatura, sia l’unica vera reazione all’inautenticità, alla manipolazione operata dai “professoroni” come lei li chiama, all’oppressione che vorrebbe un canone unico e indiscutibile, quasi che la letteratura fosse un trionfo dell’arroganza. Voglio chiudere questa piccola rassegna assetata di dubbi, di dialogo, di spunti, con un meraviglioso passo di Dario Fo sulla letteratura, ma anche sui sentimenti e il modo di provarli e condividerli. Mi pare che proprio questo Nobel abbia trovato una delle strade possibili, personalissima come lo è il suo gusto, e proprio per questo autentica:

Ecco, noi raccontavamo queste farse criminali ai ragazzi, agli studenti e loro ridevano come dei matti: dicevano di me e di Franca: ”Ma come sono simpatici, si inventano delle storie incredibili”; non avevano assolutamente, neanche per l'anticamera

8 Il testo di questo intervento è il risultato di una conversazione con Edoardo Sanguineti, rielaborata insieme

a lui. L'occasione di parlare di un esperimento di rap poetico si è trasformata in un discorso ampio ed organico sulle relazioni tra la letteratura e la musica, nella tradizione, nel nostro secolo e nelle loro potenzialità future.(preso da Segnalibro, op. cit, pp. 355-359).

9 Kenet Gergen i Meri Gergen (2006) Socijalna konstrukcija – ulazak u dijalog, Beograd: Zepter Book World; Burbules, N.C. (1993) Dialogue in Teaching, New York: Teacher’s College Press.

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del cervello, l'idea che quello che raccontavamo fosse vero. Allora sempre di più siamo convinti, come incitava Savinio, un grande poeta italiano: “raccontate, uomini, la vostra storia”. Il nostro dovere di intellettuali, di gente che monta in cattedra o sul palcoscenico, che parla soprattutto con i giovani è quello non soltanto di insegnare come si muovono le braccia, come si respira per recitare, come si usa lo stomaco, la voce, il falsetto, il contraccampo. Non basta insegnare uno stile: bisogna informarli di quello che succede intorno. Loro devono raccontare la loro storia. Un teatro, una letteratura, una espressione d'arte che non parli del proprio tempo è inesistente.

Io sono andato ultimamente a un grande congresso con tantissima gente e cercavo di spiegare a loro e soprattutto ai giovani un processo che si è svolto in Italia, un processo che si è sviluppato in sette processi; alla fine di questi processi, tre politici di sinistra sono stati condannati a 21 anni di carcere, accusati di aver trucidato un commissario di polizia. Io ho studiato le carte del processo come avevo fatto con “Morte accidentale di un anarchico”. Ebbene, raccontavo i fatti di questo processo assurdo, addirittura farsesco nel modo in cui è stato condotto, e a un certo punto ho capito che parlavo nel vuoto perché la gente non era al corrente degli antefatti, non conosceva cosa era successo cinque anni prima, dieci anni prima: le violenze, il terrorismo, niente sapeva, non sapeva delle stragi di stato avvenute in Italia, né dei treni che sono saltati in aria, né delle bombe nelle piazze, né dei processi che sono stati portati avanti come farse. Il guaio terribile è che per raccontare la storia di oggi devo cominciare a raccontare la storia da trent'anni fa a venire avanti, non mi basta raccontare di adesso; e state attenti, questo succede dappertutto, in tutta l'Europa. Io ho provato in Spagna ed era lo stesso discorso, ho provato in Francia, ho provato in Germania, devo ancora provare qui da voi in Svezia, ma verrò a provare.10

Lei ha scritto di voler discutere con noi, sulle nostre scelte e sulla poesia. Non lo

abbiamo mai fatto, chissà perché. Forse è il caso di riavviare il dialogo, magari simbolicamente proprio con questo mio piccolo saggio. Dipenderà certamente anche dalla sua disponibilità di farlo oggi. La ringrazio comunque per la sua suprema prova di apertura, umiltà e umanità, doti che già sapevo indispensabili per uno studioso della sua portata. Grazie per aver offerto un modello di comunicazione straordinario, se si pensa che ormai siamo troppo abituati alla comunicazione come una dichiarazione di guerra, o peggio, un bombardamento senza preavviso; oppure - sanzioni mai dichiarate, mai spiegate, sempre e comunque ingiuste. Lei ha rotto un sottovuoto di solitudine che spesso avvolge il nostro mondo accademico, stranamente, forse soprattutto riguardo alle questioni fondamentali sulle quali basiamo le nostre esistenze di insegnanti. In parole povere, caro professore, Lei ha comunicato in modo diretto, più profondo e autentico rispetto alle solite chiacchiere da salotto, e ha colpito nel segno. Con profonda stima e altrettanto affetto,

Dušica P.S. Forse mi chiederà perché non ho voluto parlare direttamente delle poesie che lei avrebbe voluto leggere nell’antologia, e ho preferito invece portare questo discorso in acque più profonde, toccando altre poesie e altri argomenti. L’ho fatto perché ho colto nella sua lettera i temi su cui volevo trattenermi, come ho appena fatto, ma anche perché non volevo aggiungere niente alle sue

10 Segnalibro, op.cit, pp. 305-310.

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Dušica Todorović La Cava 136

interpretazioni delle sue poesie preferite – bellissime tutt’e due, sia le poesie che le letture. Le aggiungerò però, con il suo permesso, ai materiali delle mie lezioni di letteratura.

Dušica Todorović Lacava

O CVETU I O LJUBAVI

(R e z i m e)

Naša namera bila je da otvorimo diskusiju o pitanju kriterijuma za izbor tekstova u nastavi književnosti polazeći od izbora tekstova za antologiju Segnalibro. Polazeći od ideja socijalnog konstruktivizma u tekstu se nadovezujemo na dijalošku metodiku u nastavi književnosti i predlažemo princip otvorenog izbora koji je podložan preispitivanju, diskusiji i integraciji, u zavisnosti od ličnih afiniteta učesnika u činu čitanja.

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Persida LAZAREVIĆ DI GIACOMO (Università di Pescara)

A PROPOSITO DEGLI SLAVI MERIDIONALI: HEINRICH STIEGLITZ E PACIFICO VALUSSI

Parole chiave: Slavi meridionali, Risorgimento, Heinrich Stieglitz, Pacifico Valussi, “circolo culturale triestino”.

Nello studio intitolato Iz nemačko-jugoslovenskih književnih veza: Hajnrih Štiglic (1801-1849)1, Olga Elermajer-Životić ha trattato ampiamente, tra i vari argomenti, anche il rapporto culturale e letterario tra lo scrittore tedesco Heinrich Stieglitz e il letterato italiano Niccolò Tommaseo. Tommaseo e Stieglitz si conobbero durante il viaggio con la nave a vapore da Zara verso Sebenico probabilmente il 27 o il 28 settembre del 1839. In quell’occasione Stieglitz alloggiò alcuni giorni da Tommaseo a Sebenico, anche se non è escluso che gli abbia fatto visita almeno un'altra volta ancora. L’autrice rileva che “Štiglicov susret sa N. Tomazeom [je] bio [...] najznačajniji u nizu poznanstava u Dalmaciji”2, e che il rapporto dello scrittore tedesco nei confronti di Tommaseo fosse altalenante3; tuttavia, nonostante i disaccordi, l’amicizia tra i due durò fino alla morte di Stieglitz avvenuta nel 18494, e cioè: “Dok ga je do završetka knjige o Istri i Dalmaciji krajem avgusta 1844. godine održavalo zajedničko interesovanje za kulturni preporod južnoslovenskih naroda, ono se za vreme revolucije 1848. godine pretvorilo u saradnju i zajedničku borbu za oslobođenje Venecije od Austrije.”5 Stieglitz si dedicò tanto alla causa della liberazione italiana dall’Austria quanto all’unione della Germania: “Ideal mu je bila ravnopravna kulturno-politička saradnja između ujedinjenih evropskih naroda, među kojima su idealne uslove za ostvarenje takve saradnje, po njemu, imali pre svih Nemci i Italijani.”6 Una simile evoluzione dei rapporti e dei ruoli, che va dall’interesse per i popoli slavi meridionali fino alla partecipazione alla rivoluzione del 1848 a Venezia, si può riscontrare anche nei vari aspetti dei rapporti di amicizia e conoscenza tra Heinrich Stieglitz e Pacifico Valussi, amico anch’egli di Niccolò Tommaseo e uno dei membri del cosiddetto ‘circolo culturale

1 Beograd, SANU, Posebna izdanja knj. DCVIII, Odeljenje jezika i književnosti, knj. 44, 1991. 2 Ibid., p. 117. 3 Ibid., p. 120. Cfr.: Ibid., p. 121: “Štiglicov izrazito negativan odnos prema Tomazeu književniku, iznet u

drugom delu portreta i prouzrokovan Tomazeovim omalovažavajućim sudovima o Geteu i Šileru, izazvao je krizu u njihovom odnosu posle pojave Štiglicove knjige.” Sull’amicizia tra Tommaseo e Stieglitz cfr.: R. Ciampini, Vita di Niccolò Tommaseo, Firenze, Sansoni, 1945, pp. 321-327. Cfr. inoltre: E. Broll, Niccolò Tommaseo e Enrico Stieglitz, “La Porta Orientale”, a. XXVII, 1957, nn. 9-10, p. 357.

4 O. Elermajer-Životić, Iz nemačko-jugoslovenskih književnih veza: Hajnrih Štiglic (1801-1809), op. cit., p. 126.

5 Ibid., p. 126. L’autrice si riferisce all’opera di Stieglitz, Istrien und Dalmatien. Briefe und Erinnerungen, Stuttgart und Tübingen, J. G. Cottasche Buchhandlung, 1845.

6 O. Elermajer-Životić, Iz nemačko-jugoslovenskih književnih veza: Hajnrih Štiglic (1801-1809), op. cit., p. 56.

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triestino’. Pacifico Valussi7 lavorava, all’epoca, come giornalista a Trieste e, insieme a una stretta cerchia di amici e collaboratori italiani - quali Francesco Dall’Ongaro8, Antonio Gazzoletti9, Caterina Percoto10, Federico Seismit Doda11 - e di collaboratori slavi – quali Orsatto Pozza (Medo Pucić), Ivan August Kaznačić ed altri ancora - dirigeva la rivista italiana “La Favilla”12 che si occupava, tra le altre cose, anche di questioni legate agli slavi meridionali. Questo gruppo di operatori culturali era sollecitato dall’attività politica e culturale di Giuseppe Mazzini e di Niccolò Tommaseo, e a loro Tommaseo dava un sostegno che non si limitava soltanto alla rivista summenzionata, ma contemplava soprattutto la divulgazione, tra il pubblico italiano, del tesoro culturale degli slavi meridionali e degli slavi in generale. Valussi e Dall’Ongaro pubblicano allora articoli da tutta l’Europa poiché, come ritiene Valussi, la letteratura europea è collegata come in una repubblica federale, e il compito di ogni letteratura consiste nell’essere in armonia con le letterature straniere13. I redattori della rivista, Dall’Ongaro e Valussi, poi, spiegano perché danno tanta rilevanza agli slavi quanto alla loro cultura:

Ci chiedono alcuni perché così spesso si occupi la Favilla, giornale italiano, del popolo e delle cose illiriche. Questa domanda suppone un rimprovero, al quale non vorremmo

7 Pacifico Valussi (Talmassons, 1813–Udine, 1893), giornalista e scrittore friulano. Era direttore di alcuni

giornali a Trieste (“La Favilla”, “l’Osservatore Triestino”), a Venezia (“Fatti e Parole”, “Il Precursore”, “La Fratellanza de’ Popoli”), a Milano (“La Perseveranza”) e a Udine (“Il Friuli”, “l’Annotatore Friulano”, “La Giunta domenicale al Friuli”). Partecipò attivamente al Risorgimento e alla creazione dell’Italia a fianco dei noti rivoluzionari italiani (Lorenzo Valerio) e stranieri (Eugen Kvaternik). Fortemente legato dall’amicizia e dalla parentela con Francesco Dall’Ongaro (sposò la sorella di Dall’Ongaro, Teresa), Valussi fu uno dei suoi - e di Tommaseo - più cari amici, per il quale Tommaseo disse che era “Uno de’ giovani a’ quali l’affetto si leva più puro in luce d’ingegno […].” (N. Tommaseo, Intorno a cose dalmatiche e triestine, Trieste, I. Papsch, 1847, p. 142). Oltre ai numerosi articoli, Valussi è autore delle seguenti opere: Scritti vari, Udine Tip. Trombetti-Murero, 1852; Del rinnovamento economico dell’Istria, Fiume/Trieste, Libreria Schubart, 1857; Trieste e l’Istria e le loro ragioni nella Quistione Italiana, Milano, Libreria Brigola, 1861; Napoleone III, Torino, Unione Tip. Edit, 1861; Caratteri della civiltà novella in Italia, Udine, edit. P. Gambierasi, 1868. Su Valussi v.: L. Fracassetti, Pacifico Valussi saggio biografico critico, Udine, G. B. Doretti, 1894; F. Fattorello, Pacifico Valussi, Udine, Editrice R. Scuola Complementare e Secondaria d’Avviamento al Lavoro, 1931; R. Tirelli, Pacifico Valussi. Primo giornalista friulano 1813-1893, Tricesimo (UD), Roberto Vattori Editore, s.a.

8 Francesco Dall’Ongaro (1808-1873), poeta e patriota. Partecipò alla rivoluzione del 1848 a Venezia, fu in seguito il braccio destro di Garibaldi e deputato nell’Assemblea Costituente di Roma. Dall’Ongaro è autore di alcune opere con tematica slava - I Dalmati (1847), Yella ou la fiancée du Monténégro. Nouvelle (1858), La resurrezione di Marco Cralievic (1863), Marko Cralievich. Trilogia (1866) - oltre a numerosi articoli sulla tradizione orale slavomedirionale.

9 Antonio Gazzoletti (1813-1866), poeta e avvocato, originario di Trento, trascorse la maggior parte della sua vita a Trieste. È l’autore di una famosa poesia patriottica Qual’è la patria dell’Italiano? Scrisse le seguenti opere: Memorie e fantasie (1842), Poesie (1846), La grotta d’Adelberga, canti tre (1853).

10 Caterina Percoto (1812-1887), scrittrice. Nelle sue opere la Percoto descrive la gente e gli avvenimenti della sua regione. È famosa la sua raccolta di Racconti (1858), ed anche le Novelle scelte (1880), nonché il racconto ispirato alla tradizione slavomeridionale, La resurrezione di Marco Craglievich.

11 Federico Seismit-Doda (1825-1893), dalmata, nato a Ragusa, patriota italiano e più volte ministro delle finanze nel governo italiano, partì nell’autunno del 1846 per la Dalmazia insieme all’attrice Adelia Arrivabene. Alla vista della sua patria, visibilmente commosso, compose l’Inno alla Dalmazia. V.: L. G. Sanzin, Federico Seismit-Doda nel Risorgimento, Rocca San Casciano, Cappelli, 1950, p. 9; R. Barbiera, Vite ardenti nel Teatro, Milano, Fratelli Treves Editori, 1931, pp. 257-258.

12 B. Stulli, Tršćanska »Favilla« i Južni Slaveni, Anali Jadranskog instituta JAZU, I, Zagreb, 1956, pp. 7-82.

13 P. Valussi, Gallofagi e Gallomani, “La Favilla”, 1843, a. VIII, n. 19, pp. 304-308.

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A proposito degli Slavi meridionali: Heinrich Stieglitz e Pacifico Valussi

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essere assoggettati senza addurre un perché. Ci doleva che in mezzo a tanto movimento, a tanto ardore che mostrano tutte le nazioni d’Europa per ciò che concerne la storia e la letteratura slava, non ancora alcun giornale italiano n’avesse preso una qualche parte.14

E alla mancanza di studi sulla cultura slava potrebbe sopperire proprio la “Favilla” perché

oltre che geograficamente e storicamente vicina alle popolazioni illiriche, è “La Favilla” quella che “[…] edita in una città mista, circondata da popoli d’origine slava, posta sul confine dell’Italia e della Germania, doveva mostrare una fisionomia dove le tre nazioni in certa misura si distinguessero.”15 In seguito Valussi, che a Trieste e a Venezia dirigeva anche altre riviste in cui continuava a pubblicare articoli con temi slavi, si giustificava con i lettori, in un’altra occasione, per il suo grande interesse per il mondo slavo: “Domando scusa ai lettori, se così di frequente torno sull’importante quistione della Slavia meridionale: m’è d’uopo occuparmene appunto perché altri nol fa.”16

A contatto con questo gruppo di letterati vicini ai popoli slavi e a quelli germanici, c’era anche Heinrich Stieglitz stesso, le cui traduzioni venivano più volte pubblicate nella summenzionata rivista triestina17. Dagli scritti di Valussi, e dalle sue lettere indirizzate a Tommaseo, ricaviamo maggiori dettagli sulla collaborazione e i contatti culturali tra Stieglitz, Tommaseo e i sopra citati letterati e collaboratori culturali così come sul ruolo da loro svolto nella conoscenza della storia culturale degli slavi meridionali. Poiché Tommaseo, “Ogniquavolta gliene capitò l’occasione, proclamò e scrisse che gli Italiani dovevano stringere «corrispondenza di notizie e di affetti» con quella parte della Germania «a cui giova amare l’Italia», e con i popoli slavi, sempre più insofferenti del giogo metternichiano.”18

Il 12 febbraio del 1842 Tommaseo pubblicò la sua prima lettera aperta a Heinrich Stieglitz19, nella quale, già in apertura, scrive al letterato tedesco quanto segue:

Noi che tra questi ponti e questi palazzi ricchi di memorie possenti e men caduche di loro, conduciamo la vita, abbiamo sì rari colloquii, come se l’Adriatico ci tenesse separati. E verrà tempo che il rammentare la conoscenza stretta con voi sul vapore lungo le coste dalmatiche, e la cordiale ospitalità nella casa di quel dottore Solitro che ai medici de’ piccoli paesi offre esempio di nobile perseveranza nell’amor degli studi, e la gita alle ruine di Salona in una giornata piovigginante dell’ultimo autunno, a me desterà pentimento del non avere qui più sovente approfittato della conversazione vostra. Perché nel comunicare che fanno insieme uomini di differenti patrie e abitudini e opinioni, ma pure congiunti da qualche comune sentimento, l’educazione dell’anima si compisce, e la

14 Dei canti popolari illirici, “La Favilla”, 15/12/1843, a. VIII, n. XXIII, p. 368. 15 Ibid, p. 369. 16 P. Valussi, Una voce dalla Slavia, “Il Precursore”, 18/03/1849. 17 Oltre alla direzione della rivista “La Favilla”, è del tutto possibile che uno dei luoghi di confluenza della

vita culturale a Trieste fosse anche la libreria dello stampatore e libraio Favarger (il quale nel 1845 possedeva il libro di Stieglitz Ueber die literarische Bildung der Jugend) attraverso il quale Stieglitz sbrigava i suoi affari letterari; Favarger, inoltre, difondeva anche i libri di Vuk Stefanović Karadžić. V.: O. Elermajer-Životić, Iz nemačko-jugoslovenskih književnih veza: Hajnrih Štiglic (1801-1849), op. cit., p. 298.

18 J. Pirjevec, Niccolò Tommaseo tra Italia e Slavia, Venezia, Marsilio Editori, 1977, p. 109. 19 Ad Enrico Stieglitz, “La Favilla”, 12/02/1842; ristampa in Studi critici, Venezia, parte seconda, Giorgio

A. Andruzzi, 1853, pp. 321-329, poi in Dizionario Estetico, Milano, Per Giuseppe Reina, 1858, pp. 374-376; e postumo, in Scritti editi e inediti sulla Dalmazia e sui popoli slavi, a cura di R. Ciampini, Firenze, Sansoni, 1943, pp. 114-120. Sulla lettera di Tommaseo scrisse anche Kukuljević-Sakcinski in “Danica ilirska”, a. IX, 17/06/1843, n. 24.

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diversità discordante si muta in armonica varietà. E veramente al modo come voi Annoverese sentite l’Italia, io v’affermo più italiano che italiani di molti. Dell’affetto che avete posto alla povera mia Dalmazia, fa fede già quel volume che intorno al Montenero stampaste nella vostra lingua, la quale è a me dispiacere continuo l’ignorare. E spero che della rimanente provincia non sarà taciuto da voi, e additatine i beni con lode parca, i mali con abbondante pietà. –

Tommaseo, poi, nel ripercorrere la storia delle conoscenze dei letterati occidentali con i

popoli slavi meridionali, e soprattutto con la Dalmazia, e nel citare Alberto Fortis, Charles Nodier e Ami Boué, con questa lettera indirizzata a Stieglitz, apre in realtà la via alla rivista triestina “La Favilla” affinché si occupasse di cose slave20. Si rivolge, in chiusura, direttamente a Stieglitz:

A voi che que’ luoghi amate, la mia chiacchierata non sarà, spero, discara. I Tedeschi, meglio forse ch’altra nazione qualsiasi, sanno le altre nazioni intendere, e senza servile imitazione onorare: appunto come la lingua loro può (mi dicono) di tutte ricevere impronta, e non perdere il suo proprio rilievo. Ritornato alla vostra Germania, non dimenticate, prego, Venezia, né la Dalmazia, né il vostro T.21

Tuttavia, prima del soggiorno nella città lagunare, Stieglitz soggiornò a Trieste, e lì ebbe

occasione di conoscere anche Valussi, probabilmente grazie a Tommaseo. È il primo periodo, triestino, della conoscenza tra i due intellettuali. Successivamente nelle sue memorie Valussi ricorderà così il suo rapporto con Stieglitz:

Lo Stieglitz era un poeta tedesco, che da alcuni anni viveva in Italia. Lo avevo conosciuto e praticato a Trieste. Si narrava di lui, ed il Gazzoletti lo ripetè in alcuni suoi versi, che coi suoi slanci di poesia aveva innamorato la sua Carolina, che intese di sposare l’uomo, ma più forse il poeta, che cominciava a camminare sulle vie della celebrità. Che cosa avvenisse non so; ma il fatto è, che, forse per non trovare in sé tutto quello che aveva sperato, improvvisamente diè nel matto, o piuttosto in un certo stupore, come se patisse un assopimento del cervello. I medici dissero alla Carolina, che forse avrebbe potuto riaversi con una grande scossa morale, e la donna innamorata, per dargliela questa scossa, si uccise.22

Evidentemente Valussi conosceva bene Stieglitz, e a favore di questa ipotesi va anche il

seguente evento:

Lo Stieglitz guarì; ma udite cosa toccò a me. Con lui stavo una sera a Trieste di notte sul Molo, pigliando un po’ d’aria fresca; quando quest’uomo, così quieto per solito, mi prese

20 J. Pirjevec, Niccolò Tommaseo tra Italia e Slavia, op. cit., p. 68. 21 Tommaseo scrisse anche un’altra lettera pubblica a Stieglitz, il 9 dicembre 1848, A un Tedesco – N. Tommaseo, Raccolta decreti e scritture, vol. V, pp. 271-273, parzialmente anche in Venezia negli anni 1848 e 1849, Firenze, F. Le Monnier, 1950, p. 227. 22 P. Valussi, Dalla memoria d’un vecchio giornalista dell’epoca del Risorgimento italiano, Udine, Tip. A.

Pellegrini, 1967, p. 111. Cfr.: G. Caprin, Tempi andati. Pagine della vita triestina (1830-1848), Trieste, Stab. Artistico Tipografico G. Caprin, 1891, pp. 99-100.

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improvvisamente per il collo dicendomi: E se io matto vi prendessi per il collo e vi gettassi in mare! - Io procurerei di gettare in mare voi stesso – dissi io, sorpreso da quella carezza inaspettata, e cercai di ricondurlo a poco a poco quietamente verso l’abitato.23

È possibile quindi dedurre che Tommaseo, Stieglitz e Valussi spesso, se non forse anche

regolarmente, si frequentavano e scambiavano le loro opinioni. Così, per esempio, due giorni prima della lettera di Tommaseo indirizzata a Stieglitz, Valussi scriveva a Tommaseo: “Ancora non ho potuto vedere l’opera dello Stieglitz: quando l’avrò vedrò.”24 Valussi qui probabilmente si riferisce al libro di Stieglitz, Ein Besuch auf Montenegro pubblicato nel 184125. Subito dopo, cioè dopo quella prima lettera aperta di Tommaseo allo scrittore tedesco, Valussi si fa sentire: “Ho letto il libro dello Stieglitz”26, promettendo in quell’occasione che avrebbe sicuramente scritto qualcosa sull’autore e sull’opera in questione.

In merito alla prima lettera di Tommaseo, in quel periodo al Dalmata si rivolse da Trieste anche Francesco Dall’Ongaro, amico e cognato di Valussi, nonché suo collaboratore nella direzione della rivista “La Favilla”: “La vostra lettera allo Stieglitz piacque ai Dalmati di qui, e fu letta con avidità. Spero non sarà l’ultima cosa che regalerete alla povera Favilla, la quale non frutta molto quest’anno, ma acquisterà decoro.”27

Nel maggio dello stesso anno Valussi informava Tommaseo circa gli articoli che sarebbero dovuti essere pubblicati nella “Favilla”, specie quelli che si riferiscono agli Studj sugli Slavi dei due ragusei, Medo Pucić e Ivan August Kaznačić, perché proprio da quel 1842 la rivista triestina in questione cominciò ad occuparsi sistematicamente delle questioni degli slavi meridionali28. In quell’occasione Valussi scriveva: “Pel prossimo numero della Favilla tradurrò un brano del libro dello Stieglitz e ci saranno anche due Studj sugli Slavi di due giovani Dalmati […].”29 Qui Valussi, il quale supponiamo non abbia tradotto i testi da solo, ma si avvaleva, molto probabilmente, dell’aiuto del suo collaboratore Giacomo Chiudina (Jakov Ćudina)30, si riferisce senza dubbio al frammento che in seguito fu pubblicato nella “Favilla” con il titolo Scontro fra le truppe austriache ed i Montenegrini nel 183831 e che costituisce, in realtà, la traduzione delle pagine 13-25 di un passo del libro di Stieglitz Ein Besuch auf Montenegro. Valussi non deve essere stato contento di questo frammento quando in quei giorni scriveva a Tommaseo di “[…] quei versi e due articoletti sugli Slavi che trovansi nella Favilla uscita oggi. Ivi è anche una

23 P. Valussi, Dalla memoria d’un vecchio giornalista dell’epoca del Risorgimento Italiano, op. cit., p. 111. 24 BNCF, Tomm. 142, 5 (n. 17) del 10/02/1842. 25 Ein Besuch auf Montenegro von Heinrich Stieglitz (Reisen und Länder – beschreibungen der älteren und

neuesten Zeit, eine Sammlung der interessantesten Werke über Länder – und Staaten-Kunde, Geographie und Statistik. Hrsg. v. Dr. Eduard Widenmann und Dr. Hermann Hauff. 21. Lieferung.) Stuttgart und Tübingen (J.G. Cotta’sche Buchhandlung), 1841.

26 BNCF, Tomm. 142, 5 (n. 19) del 24/02/1842. 27 A. De Gubernatis, F. Dall’Ongaro e il suo epistolario scelto, Firenze, Tipografia Editrice

dell’Associazione, 1875, p. 126. 28 B. Stulli, Tršćanska »Favilla« i Južni Slaveni, op. cit., pp. 35-42. 29 BNCF, Tomm., 142, 5, n. 20, del 05/05/1842. 30 Giacomo Chiudina (1825-1900), insegnante di lingua “illirica” alla Scuola Nautica a Trieste. In quanto

cultore dalmata della tradizione popolare, ha tradotto il metro della poesia popolare serbo-croata con metri tradizionali italiani (come Niccolò Giaxich, Ferdinando Pellegrini, Giuseppe Ferrari Cupilli e altri): Canti del popolo slavo. Tradotti in versi italiani con illustrazioni sulla letteratura e sui costumi slavi, Firenze, coi tipi di M. Cellini, 1878.

31 “La Favilla”, 1842, a. VII, n. 8, pp. 125-135.

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traduzione frettolosa al solito dallo Stieglitz. Non è delle sue migliori.”32 E Stieglitz deve aver richiesto una copia di quel numero della rivista visto che Dall’Ongaro rispose così: “Venne un amico dello Stieglitz a domandare per esso una copia della Favilla dove è detto di lui […].”33

Un altro momento saliente della conoscenza di Valussi con Stieglitz riguarda il tempo

passato a Venezia durante il rivoluzionario 1848. Quell’anno Valussi lascia Trieste e la redazione del giornale “l’Osservatore Triestino” e parte, su invito di Tommaseo, per Venezia a dirigere la “Gazzetta Ufficiale”34. Allo stesso tempo, con un gruppo di collaboratori, comincia a pubblicare anche un’altra rivista, “Fatti e Parole”. Valussi ricorda così quei tempi:

A Venezia, quand’io lavoravo ad ora tarda nel mio ufficio nel Palazzo del Governo dalla parte della Laguna, veniva spesso a trovarmi, ed a godere il profumo dei fiori che saliva dal sottoposto giardino, e la vista incantevole dei monumenti che stavano di fronte, quando dietro ad essi spuntava la luna e gettava degli sprazzi di luce sull’onda guizzante, sopra la quale sovente passavano delle barche, da cui uscivano i canti popolari inventati nell’occasione. Egli stava lì sovente estatico per un paio d’ore come un innamorato. Sovente lo trovavo nel passeggio in Piazzetta.35

In quel periodo Valussi cominciò a dirigere da solo anche un’altra rivista, “Il Precursore” che

insieme a “Fatti e Parole” divulgava le idee della lotta patriottica degli italiani. Jože Pirjevec ritiene che, per quanto Valussi conoscesse bene il mondo slavo, il contributo ad una migliore conoscenza dei popoli slavi meridionali gli fu dato in realtà proprio dalla conoscenza degli stranieri che all’epoca soggiornavano a Venezia, e soprattutto dalla conoscenza di un poeta tedesco, cioè di

[…] Enrico Stieglitz, e di un letterato sloveno, Vincenzo Klun. Ambedue familiari del Manin e del Tommaseo, essi si muovevano nella cerchia di quei patrioti veneziani, che strenuamente lottavano per la conservazione della repubblica. […] Per la loro familiarità col mondo germanico e slavo, essi contribuirono indubbiamente a rendere i giornali del Valussi così aperti ai problemi europei.36

E per la verità, similmente a Tommaseo, di questo periodo è anche un’altra lettera aperta, piuttosto lunga, ma questa volta da parte di Pacifico Valussi indirizzata allo scrittore tedesco, ovvero Ad Enrico Stieglitz. Lettera di Pacifico Vlaussi37, la quale si apre così:

Voi lo diceste, o caro Stieglitz: la politica non ha cuore; ed io aggiungo, ch’essa è ingiusta e cieca. Gli uomini di cuore, che aveano veduto aprirsi questo memorabile anno 1848 al

32 BNCF, Tomm. 142, 6-7bis, [s.d.]. 33 A. De Gubernatis, F. Dall’Ongaro e il suo epistolario scelto, op. cit., p. 127, lettera del 07/07/1842. 34 P. Valussi, Dalla memoria d’un vecchio giornalista dell’epoca del Risorgimento italiano, op. cit., pp. 85-

86. 35 Ibid, pp. 111-112. 36 G. Pierazzi, Studi sui rapporti italo-jugoslavi (1848-49), “Archivio storico italiano”, Dispensa II, 1972, a.

CXXX, 474, p. 221. 37 “Il Precursore”, 26/11/1848, n. 4. Cfr.: G. Pierazzi, Vincenc Ferreri Klun in beneška revolucija 1848-

1849, “Zgodovinski časopis”, a. XXVI, 1972, p. 83: “Insieme al poeta romantico tedesco Heinrich Stieglitz egli [Klun] fu corrispondente da Venezia della autorevole »Allgemeine Zeitung«.”

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roseo sorriso dell’aurora di quella libertà e civile società de’ Popoli, che in loro mente vagheggiavano l’intera vita, assistono scorati allo spirare dell’anno medesimo, ai funerali delle concette speranze, a cui la politica fa da becchino.38

Valussi continua poi nello stesso tono:

Voi, buon tedesco, che amate la vostra Nazione, vi gloriate di quanto ella operò di grande, vi dolete degli errori suoi, avete fatto il debito vostro quando, da Roma, dove assisteste ai principii del rinascimento della vita pubblica in Italia, ne faceste parte alla Germania (I) augurando da quei principii un bell’avvenire, a cui avrebbero del pari partecipato Italiani e Tedeschi. Il debito vostro faceste, quando vi frammetteste fra la Germania e l’Italia (2) consigliero di pace, persuadendo alla Nazione tedesca di assorbire in sé quanto l’austria le porgeva di assimilabile, lasciando che l’Italia compiesse cogli elementi suoi proprii la sua formazione, a cui quella potenza, avversa del pari alle libertà delle due Nazioni, era finora precipuo ostacolo.

Il seguente passo mostra le concezioni di Valussi sulla formazione della Slavia meridionale: Valussi all’epoca era convinto che agli italiani sicuramente sarebbe stato utile aiutare la formazione della Jugoslavia, e che gli slavi meridionali avrebbero fatto molto bene ad unirsi e a resistere in quel modo alle tendenze panslaviste russe. Valussi, allo stesso modo di Tommaseo, non guardava con simpatia il panslavismo che veniva dalla parte russa39:

Questa voce di pace, che veniva dall’Adria, non tempestosa, ma quieta, non la si volle intendere. Che importa? Voi faceste il debito vostro e vi debbono esser grati del pari i buoni Tedeschi e gl’Italiani. Invece di costituire questi e quelli un’alleanza d’interessi fra i Popoli dell’Europa centrale da opporsi alle mire invaditrici delle potenze vicine, noi gli vediamo ostinarsi nell’oppressione l’uno dell’altro, e nelle loro interne divisioni, mentre la Francia repubblicana e la Russia asiatica minacciano ai confini. Dalle rupi del Montenegro, ove vedevate battere l’ala sinistra il mostruoso fantasma del panslavismo, voi gridaste alla Germania vostra: Caveant consules… […] La voce della stampa tedesca tenne per molti anni desta la Germania; se non chè questa, stanca forse dal lungo vegliare, s’addormentò appunto allora che il pericolo, di lontano che era si fece più prossimo. Poiché il Parlamento tedesco non fu né abbastanza giusto, né abbastanza saggio da imporre a Vienna di riconoscere la Nazione italiana, esso dovette subire l’umiliazione di dolersi invano, che i Croati di Jellacich ed i Boemi di Windischgrätz vi andassero ad abbattere i tre colori germanici, ed a combattere, nei liberi Tedeschi, i nemici degli Slavi. Anche il Parlamento di Francoforte ebbe il suo: troppo tardi, quando decretò la separazione dell’Austria tedesca, dalla non tedesca. Se la Germania e l’Italia, costituite entrambi in Nazioni entro a’ loro naturali confini, non ajutano d’accordo la formazione d’una Slavia meridionale, la separazione dell’Austria avverrà tutta a profitto della Russia.40

38 “Il Precursore”, 26/11/1848, n. 4. 39 J. Pirjevec, Niccolò Tommaseo tra Italia e Slavia, op. cit., p. 90: “Il Tommaseo aveva aderito all’idea del

pericolo russo fin dal ’28, ma la sua avversione, col volger degli anni, andò trasformandosi in vera fobia, […]. Al suo ritorno in Dalmazia, non gli fu difficile, pertanto, credere alle affermazioni ungheresi, che le prime vittime, ma vittime in parte consenzienti del colosso russo, sarebbero stati gli Slavi meridionali.”

40 “Il Precursore”, 26/11/1848, n. 4. V.: S. Obad, Sukob talijanskih i austrijskih interesa na Jadranu u Revoluciji 1848/49. godine, “Pomorski zbornik”, knj. 6, 1968, pp. 531-538.

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Rammenta in quell’occasione Valussi la lotta rivoluzionaria dei suoi concittadini nell’Italia

settentrionale. Si ricorda quanto erano importanti le organizzazioni e i movimenti segreti, probabilmente tenendo in mente “il moto slavo” di cui ha parlato il suo amico Francesco Dall’Ongaro41:

L’unica vita della Nazione italiana, prima ch’essa cominciasse la sua lotta mortale, era nelle segrete cospirazioni, e nella lenta opera educatrice di alcuni pochi, i quali trovando chiuso all’operare il presente, miravano ad un rimoto avvenire. Noi non ci conoscevamo nemmeno: cosicchè gran parte delle nostre discordie proviene dal non aver mai gli spiriti potuto comunicare francamente, in guisa da formare una pubblica opinione. Noi siamo tutti d’accordo quando si tratti dell’affetto che portiamo all’Italia nostra; il cuore dei buoni insomma è uno. Ma discordiamo sovente allorchè se n’appella all’intelletto, perché nel muto lavoro delle menti durante tanti anni di silenzio potè avvenire, che molti chiamassero d’uno stesso nome cose diverse, e viceversa.42

Valussi continua poi sul moto rivoluzionario che aveva interessato tutta l’Europa nel 1848, e

sulla soldatesca degli slavi meridionali, specie degli slavi della Krajina, che combattevano dalla parte degli austriaci e contro gli italiani:

Or bene, per quanto inetti siensi mostrati all’azione i liberali della vecchia scuola, nessuno immagini che quella del 1848 sia una convulsione d’una generazione che si spegne. Questa volta è il moto d’un Popolo: ed i giorni dei Popoli sono anni nella vita d’un uomo. La società italiana s’è scossa fino nel profondo. Troppo si sperò, troppo si temette di perdere le antiche speranze, troppo si soffrì, troppo sangue si sparse, troppi errori si commisero, troppe famiglie piangono le sostanze ed i figli perduti, troppo passato e troppo avvenire di noi tutti è compreso nel presente d’adesso, perché le cose possano ricomporsi nello stato di prima. Noi intendiamo la religiosa ammirazione che voi serbate al vostro poeta guerriero, a Giusto Körner, che nel 1813 precedeva cantando le schiere tedesche che marciavano alla cacciata dello straniero. La nostra lotta nazionale del 1848 conta già a quest’ora molte vittime degne di far corona a Giusto Körner. I rozzi Confinarii della Croazia, che il governo tedesco meno incivilito mandava a devastare le italiche contrade, nido d’antichissima civiltà, avean contro di sé l’intelligenza, l’animosa gioventù delle nostre scuole, con alla testa professori e poeti, i quali, se non seppero sempre vincere, seppero spesso morire. Io non vi potrei numerare di quanti generosi spiriti, di quanti splendidi intelletti il ferro del soldato tedesco orbò l’infelice Italia, combattente per la giustizia, per la civiltà e per l’esistenza sua. Ora non è per noi il tempo di scrivere la storia: ma che fra quelli vi fossero distinti poeti ve lo dice Alessandro Poerio caduta a Mestre; che vi avessero scienziati non comuni ve lo dice Leopoldo Pilla perito a Curtatone; che vi si contassero giovani artisti ve lo dice Antonio Dall’Ongaro morto a Palma. Ora i politici senza cuore e senza mente sorpasseranno indifferenti sopra tanti sacrifizii consumati dall’Italia; ma non disprezzeranno la nostra Nazione gli spiriti nobili,

41 A. De Gubernatis, F. Dall’Ongaro e il suo epistolario scelto, op. cit., p. 182-183, la lettera di Tommaseo

a Dall’Ongaro: “[…] scrivevo che con gli Slavi, gente semplice ma tanto più difficile a essere intesa a chi non è semplice, quel suo fare, dico del M. [Mazzini] non piglierebbe bene; e che con loro non si cospira; […]. Additavo insieme le vie d’intendersi, senza cospirare, con gli Slavi di razze diverse, meglio disposti. Ma voi sapete ch’egli non ascolta se non la sua propria voce.”

42 “Il Precursore”, 26/11/1848, n. 4.

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come il vostro, quando sapranno di qual sangue noi cimentiamo la nostra libertà. Voi potete dire alla Germania qual è buona parte della gioventù che combatte, soffre e muore su questo baluardo della nostra indipendenza. Io che non corro dietro alla gente e che me ne vivo co’ miei giornali, pur m’imbattei spesso in giovani, che sotto la giubba dal soldato nascondono un cuore grande, ed una mente assai più educata e fornita di cognizioni, che non i mille che batterano nelle declamazioni de’ giornali e nelle avvocatesche ricalate degli oziosi nostri Parlamenti. Credono essi i superbi stranieri che questa gioventù sia accorsa alla guerra come ad una festa da teatro, terminata la quale non si tratti che di deporre le false armi? No: lo sappia segnatamente la vostra Germania, che vive nell’illusione di poter conservare i suoi domini al di qua dell’Isonzo. Noi abbiamo giurato tutti morte ai Tedeschi, finchè si ostinano nell’iniquità di voler mantenere in ischiavitù il nostro paese.

Il successivo frammento, però, conferma il fatto che Valussi e Stieglitz passavano

spesso insieme il tempo a Venezia (e a Trieste):

Nei momenti in cui noi incontrandoci nella Piazzetta ammiriamo assieme le splendide notti veneziane, alla cui bellezza operarono l’arte e la natura congiunte, ed in amichevoli colloquii dimentichiamo gli odii nazionali, voi, cui darei volontieri l’appellativo di Biedermann, scherzate sovente sul nome mio di Pacifico, che trovate consono all’indole di chi lo porta. E tale lo trovo io pure: e, sia pregio o difetto, mi confesso l’uomo il più alieno dalla guerra, ed abborrente, per natura, da ogni violenza. Pure io vi dico, che questo Pacifico, alla metà della sua vita, è tanto persuaso di non poter portare più oltre il carico delle speranze, dei timori, dei desiderii, dei pensieri per l’Italia sopportati fin qui, che, n’andasse con esso non la propria esistenza, ma quella della diletta del cuor suo, dello sperato frutto delle sue viscere, de’ fratelli, delle suore amate, della buona vecchierella che ancor gli rimane come angelo custode del focolare paterno, di tutti i cari suoi, lo getterebbe in quell’abisso, che deve colmarsi tuttavia per salvare la Patria. Il vostro Pacifico, quando si trattasse dell’antica donna de’ suoi pensieri potrebbe divenire fino sanguinario! Or bene: quello ch’io vi dico di me, posso dirvelo di quanti pensano e sentono in Italia; i quali potranno commettere sì molti errori, ma non tali che profittino mai certo ai politici tedeschi.

Valussi poi invita di nuovo Stieglitz alla lotta comune dei tedeschi e degli italiani:

Voi, che non siete politico, e che quindi conoscete come gl’interessi dei due Popoli non sarebbero contrarii, non vi stancate dal manifestare ai connazionali vostri queste disposizioni degli spiriti italiani. Né vi dico, che lo facciate a nome nostro: poiché presentemente anch’io non posso a meno di partecipare a quella nobile fierezza della Nazione, che non si piegherebbe mai a parole, le quali potessero lasciar supporre, che si volesse invocare la compassione del nemico vincitore.

Infine Valussi conclude la sua lettera con le seguenti parole:

Dopo ciò, o caro Stieglitz, non crediate ch’io serbi rancore ad un Tedesco, che non sia del numero dei politici senza cuore. Anzi io ho colto il momento di dirvi queste cose, mentre do tradotti ai lettori del Precusore un dramma d’uno de’ vostri buoni poeti, d’un uomo che amava Venezia e l’Italia come voi le amate. Il dramma di Augusto Platen, intitolato la Lega di […], è scritto in bello stile; ma io lo tradussi alla buona, coi modi dimessi del

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giornalista, per il soggetto, che ricorda un’epoca storica di Venezia, la quale ha molta analogia colla presente. Dopo quell’epoca, Venezia, prima di morire, per l’infame mercato che ne fece a Campoformio Napoleone con Francesco d’austria, ebbe tanta forza da rompere la potenza turchesca nelle gloriose sue lotte di Cipro, Candia e Morea, e da slavare così l’Europa ingrata. Ora io ho la semplicità di credere, che quei meriti antichi pesino ancora sulla bilancia della Provvienza, fino a farla traboccare dal nostro lato, se noi ci aggiungiamo ogni giorno qualcosa.

Il 23 agosto, prima della caduta di Venezia, Stieglitz morì di colera. Valussi ricorda così il loro ultimo incontro:

L’ultima volta che lo incontrai in Venezia, quando credevo di essere tra i banditi, ci baciammo. - Chi sa, dissi io, se ci vedremo più? - Oh! ci vedremo sì! egli replicò. Poche ore dopo, ricevendo gli ultimi saluti del Tommaseo, questi mi disse: - Avete saputo del povero Stieglitz? - Che cosa, risposi io, è forse malato? - È morto dal cholera.43

Anche più tardi Valussi avrebbe ricordato: “Te non vidi più, o povero Stieglitz, che sopravivendo forse avresti narrato a’ tuoi Tedeschi come ce l’avevamo passata durante l’assedio di Venezia.“44

Persida Lazarević Di Đakomo

O JUŽNIM SLOVENIMA: HAJNRIH ŠTIGLIC I PAČIFIKO VALUSI

(R e z i m e) U radu se obrađuje odnos između nemačkog književnika Hajnriha Štiglica i italijanskog novinara i publiciste Pačifika Valusija, a koji su bili povezani zajedničkim interesom prema južnim Slovenima. Obojica su pripadali tzv. 'Tršćanskom kulturnom krugu' koji je pratio ideje Macinija i Tomazea u pristupu kulturi južnoslovenskih naroda.

43 P. Valussi, Dalla memoria d’un vecchio giornalista dell’epoca del Risorgimento italiano, op. cit., p. 112: 44 Ibid., p. 111.

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Predrag BOJANIĆ (Università di Belgrado)

LA SERBIA E L’ITALIA SUL KRFSKI ZABAVNIK Parole chiave: poesia epica serba, pensiero mazziniano e questione degli slavi del sud, aspirazioni nazionali slave e italiane

Le migrazioni del popolo e della letteratura si sono svolte in un modo naturale attraverso la storia moderna dei serbi. A cavallo tra il XVII e il XVIII secolo Sent Andreja e Corfù durante la Prima guerra mondiale hanno dato rifugio a un popolo. Non c’erano solo scrittori a seguire le schiere tormentate di guerrieri, descrivendo le loro sofferenze. Durante la Prima Guerra Mondiale, pittori, fotografi ed altre persone misero il proprio talento al servizio della difesa della nazione. Ognuno di loro ha strappato dalle mani dell’oblio un pezzettino della nostra sanguinosa storia, ha regalato un barlume di speranza allo spirito scoraggiato dei serbi. A Corfù venne fondata la rivista “Zabavnik”, appendice del giornale “Srpske novine”, mensile pubblicato dal 2 aprile 1917 al 15 ottobre 1918. Ma una prima prova di pubblicazione, invece, c’era stata già all’inizio del 1917. Tra i suoi direttori vanno ricordati Slavoljub Panić e Dimitrije Stevanović: E’ però Branko Lazarević ad esser ritenuto il suo direttore reale. Alla rivista collaboravano molti grandi autori serbi quali Dučić, Dis, Rastko Petrović, Todor Manojlović, Dragoljub Filipović, Svetislav Stefanović, Aleksandar Ilić, Vinaver, ma anche scrittori croati come Tin Ujević, Vladimir Čerina, Josip Siba-Miličić, Josip Kosor. Lo “Zabavnik” ha presto assunto una forma precisa: dopo un testo introduttivo dedicato all’attualità, seguiva la poesia, e quindi i vasti elaborati pubblicati a puntate, un’analisi della situazione politica, la critica letteraria, la bibliografia dei libri serbi o dei libri sulla Serbia pubblicati all’estero e, infine, i necrologi. Venivano pubblicate anche le traduzioni degli autori stranieri, si parlava delle mostre di quadri e di moltri altri avvenimenti, cosicché la rivista assunse una dimensione piuttosto esaustiva e completa. Lo “Zabavnik” è interessante senz’altro anche perché radunò intorno a sé, i poeti che dopo la Prima guerra mondiale avrebbero formato il movimento di poesia moderna. Molti di loro pubblicarono per la prima volta proprio su quella rivista i loro versi imbevuti di uno spirito nuovo. Benché quello fosse solamente l’inizio di un orientamento che solo nel dopoguerra si sarebbe mostrato nel suo pieno splendore, e il contesto storico non favoriva una nuova concezione della poesia, le tracce di quei primi tentativi di uscire dal pathos romantico, di cui abbondava la nostra letteratura, per ragioni comprensibili, si possono seguire già nelle pagine dello “Zabavnik”. In queste pagine troviamo altresì quello che sarebbe stato il tema di questo piccolo “collage”. Gli echi degli scontri delle due culture, purtroppo ancora attuali, gli scambi di sguardi sospettosi o di strette di mano fraterne. Se li ascoltiamo attentamente, rimaniamo sorpresi di come il cuore degli italiani talvolta batteva forte dinanzi alle disgrazie dei fratelli sloveni. Se guardiamo con attenzione, riconosceremo i modelli italiani in tante opere della nostra arte medievale. Esaminando gli antichi legami contribuiamo al rinnovamento dello spirito dal quale nascono i nuovi legami. Milivoj Nenin, redattore della prima edizione fototipica del “Krfski Zabavnik”, sottolinea il ruolo di Todor Manojlović. Poeta, traduttore, critico leterario, d’arte e

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Predrag Bojanić 148

drammaturgo, è stato uno dei collaboratori più attivi. A noi interessa in modo particolare il suo contributo alla scoperta e all’interpretazione dei legami tra la Serbia e l’Italia. Il soggiorno italiano, durato tra il 1911 e il 1916, è stato particolarmente significativo per la sua carriera letteraria. Arrivato a Firenze per approfondire gli studi sull’arte rinascimentale, Manojlović ha scoperto la poesia futurista che avrebbe inciso in maniera evidente nella sua poesia modernista.

LA SERBIA EPICA, dalla penna di Antonio Borgese

Il “Krfski Zabavnik”, appendice speciale del giornale “Srpske novine”, contiene Epska Srbija, un breve studio su uno dei più distinti personaggi culturali dell’Italia di allora - di Antonio Borgese, scrittore, giornalista e critico letterario. E’ solo uno degli studi raccolti nel volume La guerra delle idee (Rat ideja), che nel loro insieme rappresentano il tentativo di riconoscere lo scontro delle idee e delle religioni sullo sfondo della Prima guerra mondiale. Come professore di letteratura tedesca e ottimo conoscitore dell’animo e della mentalità dei tedeschi, della situazione politica, culturale e sociale della Germania di quel periodo, Borgese in questo studio accenna al destino e alle sofferenze del popolo serbo, dimenticato, che si era trovato ad affrontare la forza d’urto di quello che lui definiva il “sistema di guerra più forte”. Il fato e il patimento serbo, lui, invece, li interpreta attraverso la lente della letteratura popolare, attraverso il “pianto” delle antiche poesie epiche, e ricorda ai connazionali il ruolo dei poeti italiani, per esempio di Fortis e di Tommaseo, e il loro ruolo di divulgatori della poesia popolare slavo-meridionale presso i circoli culturali italiani.

Dal corpus del poema serbo, Borgese dedica una particolare attenzione ai Cicli del Kosovo e di Marko Kraljević, per poi sottolineare una vicinanza tematica con l’Iliade e l’Odissea, poemi più famosi della cultura classica. Il tragico poema di guerra, in cui tutto si intreccia e conduce alla battaglia fatale nella Piana dei Merli, dove il potente stato medievale serbo crolla per mano dell’impetuosa armata turca, di gran lunga più forte, si contrappone al ciclo di Marko, nel quale l’opposizione del popolo battuto continua a vivere attraverso l’energia individuale del coraggioso e solitario eroe senza patria. Borgese lo descrive come un personaggio “talvolta furbo e timido, talvolta gentile e crudele, talvolta tenero e atroce, un po’ Ulisse, un po’ Ercole, un po’ assassino, un po’ Don Chishot”. Mette in rilievo anche le differenze tra il senso poetico e l’architettura artistica dei due Cicli: mentre il primo è severo e sacro, fondato sul destino tragico di un popolo, l’altro è un’epopea vasta e meravigliosa sulla lotta di un individuo, molto spesso arricchita con elementi grotteschi. Borgese rifiuta il luogo comune secondo il quale i serbi sarebbero un popolo che canta la propria sconfitta, a differenza di molti altri popoli che glorificano le proprie vittorie, e ricorda che tutti i poemi popolari sono tragici, mentre sono i poeti che cantano il successo e offrono una visione glorificante e ottimistica della vita, ad allontanarsi dalla poesia, cedendo alla retorica. Tuttavia, non nega il pessimismo che spira in questo poema, perché questo elemento, secondo il suo pensiero, è comune a ogni grande complesso poetico.

La vita e la morte. Tutto è destinato alla rovina, e la fine è un attimo in cui si compie la vita di ognuno. Non c’è posto per l’ideologia, non c’è quel trasporto per la gloria della nazione, né lo scontro delle due fedi. Borgese scopre nella tradizione orale il carattere tragico dell’esistenza e lo paragona ad un albero che cresce non ostacolato per decenni e resiste alle varie sollecitazioni, ma un giorno cade abbattuto da un fulmine fortissimo. Nessun tipo di giustizia crudele, nessuna vendetta o ristabilimento dell’equilibrio perduto attirano, secondo lui, l’attenzione del poeta serbo. Tanti secoli dopo, i serbi hanno corso di nuovo il rischio di essere eliminati. I tedeschi, gli austriaci e i bulgari si trovarono di fronte un avversario la cui forza stava nel carattere indomito che animava la loro lotta contro il nemico invasore, in nome del diritto di

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esistere. Un avversario che non era vinto neanche una volta soggiogato, ebbro di melodie di malinconiche guzle, mentre intanto si teneva pronto in vista della liberazione.

Alla fine di questo breve studio, Borgese cita i versi con i quali Marko, già invecchiato, si congeda da questo mondo e i versi nei quali la fata si rivolge a Marko dicendogli che la sua fine non sarebbe arrivata sul campo di battaglia ma secondo la decisione di Dio. La morte naturale, nella sua grandezza sarcastica, segna la fine di tutte le passioni di questa vita e toglie il senso alle lotte di questo mondo. Con questa “specie di nichilismo paziente e ragionevole, che è, prima di tutto, slavo, cristiano e umano”, i serbi accettano il loro destino. Gli stessi tedeschi, forti della loro presunta superiorità, cambiarono opinione dopo aver incontrato un avversario degno di essere rispettato.

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Influssi italiani sull’architettura e la pittura medievale serba

Un fenomeno di resistenza alle dominanti culture straniere e alle regole artistiche appariva in varie epoche e in varie società. Per gli intenditori esso è tanto più intrigante quanto più è realizzabile, nonostante le scarse possibilità di successo. Quando una società relativamente piccola e giovane, nel senso organizzativo, senza una solida tradizione artistica, si mette coraggiosamente a cercare la propria strada e, in più, si mette sfacciatamente al lavoro con uno zelo sfrenato, il risultato dev’essere un’eredità spirituale significativa, davanti alla quale i posteri saranno fieri. Quando la strada verso la propria identità spirituale viene sbarrata dalle fatali occasioni storiche, dalla necessità di lottare per l’indipendenza politica e per salvare l’autonomia nazionale, rimane un rimpianto dinanzi all’impossibilità di rispondere alla domanda: in quale direzione uno sviluppo non ostacolato avrebbe portato quella società. Anche se non ha risposto a questa domanda, ispirato dalla gratitudine nei confronti di Gabriel Millet, storico d’arte, che in “La Serbie Glorieuse”, un numero speciale della famosa rivista francese “L’art et les artistes”, aveva pubblicato uno studio significativo sullo sviluppo storico della nostra architettura e della nostra pittura, Todor Manojlović invita a una gita proporzionalmente breve per visitare le vie di questo sviluppo, fino all’abisso, che esiste da secoli, dai cui cigli, se ne abbiamo voglia, anche noi possiamo abbandonarci alle chimere della gloria non raggiunta.

Manojlović distingue lo stile medievale dell’architettura come una deviazione dai modelli bizantini chiaramente definita, in consenso con pensiero del collega francese. Esso nasce in terra serba dal tentativo ad essere autentici, dalla creatività che gioca con le severe forme bizantine trasformandole secondo il gusto e il sentimento nazionale. Solamente la nostra più antica, Kuršumlijska crkva, dalla forma quadrata semplice e classico-orientale con la cupola grande sopra un esagono, corrisponde al severo modello bizantino tipico di Costantinopoli. Già nell’ambito dell’architettura della Studenička crkva si nota, addirittura a svantaggio della semplicità tettonica dell’insieme, la tendenza alla leggerezza e alla variazione, la tendenza alla concezione autonoma, alla lotta contro i rigidi canoni bizantini. Negli ornamenti dei portali, opera di Simeon Dubrovčanin, Manojlović riconosce il gusto italiano, simile a quello presente negli elementi applicati alla chiesa di Sant’Andrea di Barletta, in Puglia, e la facciata porta ancora il segno del virtuosismo degli artigiani toscani. Quanto alla Nagoriča, il piano centrale bizantino - la croce greca o il quadrato greco - è stato sostituito con lunga base della basilica latina, e con l’uso di uno o di quattro piccole cupole, che si alzano dai tamburi alti, nell’ambito della giovane architettura serba è nato un altro tipo della chiesa, di importanza uguale a quella della chiesa bizantina, la cui perfezione sarebbe stata raggiunta in Visoki Dečani. L’architettura serba fiorisce di nuovo ai tempi di Milutin, quando l’assimilazione e il rifiuto, la ricerca febbrile di stili nuovi portava alla negazione dello stile precedente. Dopo Gradac, costruito in stile gotico,

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e Banjska, dove si vedono già menzionati ornamenti pugliesi, “il sogno fulgido dell’Oriente” che ancora una volta si incarna in ristrutturazione solenne dello stile bizantino di Gračanica, le cui cupole graziose puntano verso il cielo annuvolato del Kosovo. Lo sviluppo vertiginoso dell’architettura medievale serba, il cambio dei fronti e delle mete, come dice Manojlović, portano alla creazione di un ideale artistico che in tutto è diverso da quello straniero. Un influsso ancora più significativo dello spirito e del gusto italiano si trova in Visoki Dečani, basilica tutta latina caratterizzata dalle proporzioni ideali e dalla semplicità classica ed elegante, che ricorda senz’altro la chiesa di San Zeno a Verona. La sintesi della forma orientale e dello spirito settentrionale è presente anche nelle fondazioni dei Hrebeljanović, la cui eleganza leggera e merlettata contrasta con lo stile bizantino solenne e rigido. Manojlović ritiene che l’architettura serba di quei tempi non si basasse su un eclettismo puro, ma che usando gli elementi delle due tradizioni, dei due gusti diversi in molti elementi, fosse arrivata a una cosa nuova e specifica.

E’ ancora più ovvio influsso italiano nell’antica pittura serba. La spiritualità e l’astrattezza, la rigidità e la freddezza della pittura bizantina, la sua raffinatezza aristocratica e la sua disciplina rigida, tutto quello era lontano dal gusto del giovane popolo serbo, il cui spirito fiorito, invece dell’armonia, delle idee di stile e del profondo senso artistico dell’insieme, ha cercato il realismo della rappresentazione, la verosimiglianza dei dettagli, i momenti morali e sentimentali. Pochi quadri tipicamente bizantini sono stati creati in quel periodo, e i più belli sono ritratti di Milutin e Simonida, “Giudizio Finale”, e gli altri affreschi di Gračanica, “Deisis” del monastero di Naum, le icone e le tele di Hilandar, ecc. Già nelle icone di Studenica si sente un nuovo spirito italiano: quasi un’individuazione del ritratto, il realismo della rappresentazione, la ricchezza della figura, del movimento e dell’ornamento. Succede una cosa simile anche negli affreschi di Gračanica, di Nagoriča e di Ravanica. Manojlović sottolinea la cordialità del gesto che caratterizza il gruppo di Gioacchino e Anna in Sretenje Roditelja Bogorodicinih pred zlatnim dverima, le composizioni chiare, la bellezza e la pienezza di forma di alcune figure negli affreschi di Nagoriča, che ricordano tanto Giotto, Lorenzetti e gli altri maestri italiani, mentre Ulazak Hristov u Jerusalim, affresco di Gračanica, può essere confrontato con le opere del primo rinascimento italiano. Lo sviluppo veloce della nostra pittura antica si è tristemente interrotto nel Quattrocento con la rovina dello stato. Le imitazioni sterili, per esempio l’affresco Svadba u Kani del monastero Kalinić, non hanno potuto raggiungere la grandezza artistica e le bellezza delle opere dei maestri antichi, e lo spirito frustato non era in grado di far nascere una cosa nuova.

Manojlović alla fine accenna al ruolo dell’Italia nello sviluppo della nostra arte. Lì non c’è niente di mistico. Davanti allo “scettro autonomo” di Bisanzio, davanti alla sua arte, il cui valore intrinseco uguagliava quello dell’arte italiana, avendo però una gloria e un’autorità più forti, l’inquieto spirito serbo ha sentito un bisogno istintivo di dare resistenza, di non permettere di essere assimilato in un progetto panbizantino. Il fatto che la vicinanza geografica, i legami politici, religiosi e culturali ci hanno spinto nel grembo del potente vicino orientale, e che noi ci fossimo tuttavia volti al Nord, dice Manojlović, è per lo più la prova della salute profonda del nostro istinto ereditato dagli antenati, perché, spiega lui, i creatori dell’arte italiana in un momento concreto di storia, alla fine del Duecento, si trovavano davanti allo stesso compito dei nostri artisti. L’influsso culturale e spirituale di Bisanzio invadeva tutti i Balcani, la maggior parte dell’Italia, il Sud della Francia fino ai Pirinei, le province del Danubio e del Reno, il Sudovest della Russia con Kiev, l’Asia Minore, l’Armenia e l’Egitto. Dalla rivolta contro quell’influsso, dalla rivolta contro catene d’oro, che forse più vincolavano la nostra anima che l’anima degli italiani, ne nasceva l’arte italiana. E i suoi ideali e valori erano vicini ai nostri: naturalezza, licenza del pensiero e delle passioni, una bellezza vistosa e sensibile, pienezza della vita reale. L’emancipazione dell’arte serba probabilmente non si sarebbe compiuta se non fosse stato per l’influsso italiano. E, inoltre, non sarebbe potuta avvenire neanche la formazione di un profilo esclusivamente serbo da quel composito italo-serbo, visto che alla giovane arte serba

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occorreva più tempo per costituirsi, per raggiungere la piena maturità e per trovare la propria strada, indipendente dall’influsso altrui. Si è rovinata, ha condiviso il destino della madre, “è spirata con quel riflesso rosa dorato del giovane Rinascimento italiano che dava grazioso splendore al suo viso durante la sua breve vita”.

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LETTERE SLAVE di Mazzini

Giuseppe Mazzini fu pensatore politico, letterato nonché il più rilevante rappresentante spirituale dell’aspirazione del popolo italiano alla liberazione e all’unificazione. In vista della realizzazione del programma nazionale si adoperò affinché le linee guida acquisissero contorni sempre meno sfumati, in direzione di una chiara visione della futura realtà italiana, ma non dimenticò i popoli europei che condividevano il medesimo destino e raccoglievano le forze per la lotta decisiva per poter affermare i loro diritti storici. C’erano innanzitutto gli slavi, per i quali il pensiero mazziniano era fonte d’ispirazione in quel processo di incubazione che avrebbe portato alla realizzazione del sogno dell’unità politica dei popoli jugoslavi. La scelta dell’opera epistolare Lettere slave1, scritte nel 1857 su invito dell’editoriale del giornale Italia del Popolo, testimonia fortemente la sofferente attesa dei popoli d’ Europa, ridotti in schiavitù alla fine del XIX secolo, in cui cercavano tutti il coraggio per passare all’azione. Mazzini ci ricorda l’insurrezione impetuosa che esplose nel 1848, anno rivoluzionario per tutta l’Europa, fermata dall’abilità politica degli Austriaci ma anche dagli errori e dalle indecisioni dei ribelli. Ma il vecchio assetto europeo è smosso per sempre, e i movimenti nazionali acquattati si preparano a buttar giù le fondamenta intaccate del carcere. Le medesime scintille favillavano nel cuore e nella coscienza del popolo italiano che, riteneva Mazzini, avrebbe dovuto cercare i futuri alleati nei paesi slavi sorti dalle rovine dell’impero iniquo.

Per corroborare il corso inevitabile delle cose, l’autore delle Lettere fa affiorare la storia slava e la sua ispirazione naturale a unire tribù sparse in quattro gruppi. Non tralascia di incitare i suoi connazionali allo studio di quelle aspirazioni, personificate negli studi storici di Šafařík, Lelewel, Palacký e di altri, nei sistemi filosofici dei filosofi polacchi Cieszkowski e Królikowski, nella poesia di Puškin, Mickiewicz, Krasiński, Zaleski, Milutinović, o nella lotta piena di generosità dei montenegrini, dei serbi e di altri popoli che marciano verso la liberazione dal giogo turco. E le parole dei canti popolari, che per secoli riecheggiavano nella coscienza e corroboravano le speranze di questi popoli, incise nella memoria collettiva, sono espressione dello spirito forte che si oppongono a qualsiasi tipo di tirannia. A differenza di Borgese, Mazzini ci scopre il dispetto prometeico. Di fronte alla fermezza dell’oppresso non si ritirerà solo la tirannia dell’uomo, ma anche la tirannia della natura. E ne trova la conferma nel detto: “da Dio infuori nessuno potrebbe curvare il nostro libero spirito; e chi sa se Dio stesso non si ritrarrebbe stanco, da siffatta impresa?”.

Parlando della loro potenza e diffusione geografica, l’autore si riferisce alla Mappa generale dei paesi slavi del 1814. di Šafařík, divisa per lingue, dialetti e confini politici. La maggioranza slava viene padroneggiata dalla minoranza secondo il vecchio principio divide ut imperes, però l’avversione al padrone forestiero cominciò a superare la disunione e la diffidenza tra coloro che per secoli condividevano i medesimi ideali di libertà. Contro il dominio turco e austriaco in Europa si uniscono slavi, italiani e greci, e parallelamente all’inizio stesso dell’insurrezione generale italiana, preconizzato da Mazzini, va avviata anche la questione orientale. Napoleone fu il primo a comprendere l’importanza della questione slava trascurata da

1 Ibid., pp. 121-126.

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tanto tempo. Nella titubanza e nelle frequenti rese dei soldati di origine slava lui riconobbe il germe di una futura insurrezione contro il nemico “comune”, per cui ordinò che si facesse uno schema con i dati statistici relativi ai popoli slavi. Parecchi pensatori politici poi cercarono di rappresentare la nascita dei movimenti nazionali entro i limiti legali e locali, come fece per esempio il conte Leo di Thun, che trattò la questione ceca indipendentemente dalle aspirazioni degli altri gruppi slavi della Monarchia. Mazzini poi parla dei centri intorno ai quali in futuro si sarebbero concentrati i popoli slavi, uniti allo scopo comune di abbattere il regime tiranno austriaco. Osservava con diffidenza il centro russo e accusò la Russia che cercasse di realizzare l’ideale assurdo di uno stato panslavo al cui vertice si sarebbe trovato il loro zar. Ai polacchi, ai quali rimproverava “l’inerzia peccaminosa” durante gli eventi del 1848, assegnò il ruolo guida nell’incitamento all’azione degli slavi del Nord, mentre gli slavi del Sud e dell’Ovest si sarebbero dovuti concentrare intorno alla Croazia (o Illiria) e alla Cechia (o Boemia).

L’autore commenta che la storia ricorda un’Illiria greca e romana, una francese nell’epoca più recente, e poi una austriaca. La futura Grande Illiria o Stato Illirico-Serbo avrebbe compreso la Croazia, la Furlania, la Serbia, il Montenegro, la Dalmazia, la Bosnia e la Bulgaria. Ciò che collega questi stati sono la lingua, le tradizioni e le leggende. Il grado più alto di organizzazione di una comunità slava in questo territorio è evidenziato nel XIV secolo con la formazione dell’Impero Serbo, crollato dopo la battaglia del Kosovo. Per lungo tempo poi solo nella Repubblica di Ragusa si sviluppò una vita politica, culturale e artistica indipendente. E mentre l’unità letteraria era minacciata dall’esistenza delle diverse ortografie e diffidenza locale, e circoli dotti nutrivano una certa dose di disprezzo verso l’eredità comune, culturale e storica, la poesia popolare, che cantavano i poveri cantastorie accompagnati dal suono della guzla, diffondeva spontaneamente i ricordi del celebre passato. Mazzini si rende conto della necessità che questa poesia venga raccolta e tradotta nella lingua dei suoi connazionali.

La nuova epoca agitò gli spiriti degli oppressi e fece nascere individui avveduti che riconobbero la necessità di articolare l’agitazione nazionale attraverso l’azione puramente letteraria nel momento sfavorevole per agire apertamente. L’opera di Ljudevit Gaj, creatore dell’illirismo, è immensamente importante per il raggiungimento dell’unità tra i croati. Uomo cauto e contenuto in tutto quello che faceva, Ljudevit avviò prima le Hrvatske novine, che più tardi furono divise in un giornale puramente politico Ilirske narodne novine, e in un giornale letterario Danica ilirska. Usando vari dialetti degli slavi del Sud si impegnò a creare una nuova lingua letteraria in base a un alfabeto e un’ortografia nuovi. Fondò il Naučno društvo (Società scientifica) e in accordo con il conte Janko Drašković fondò la Matica ilirska. Mazzini non prende in considerazione l’ulteriore comportamento vigliacco di Gaj e lo paragona al suo connazionale, repubblicano Guerazzi, la cui falsità politica non poteva oscurare l’importanza e l’influsso che compì la sua opera. L’importanza dell’opera di Gaj sta nella diffusione degli ideali comuni e del pensiero popolare tra gli slavi del Sud, sia tra quelli governati dal regime austriaco che tra i popoli che pagavano ancora un tributo al conquistatore turco. E la forza di questi ideali la si sarebbe potuta riconoscere se fosse stata tradotta la poesia dei poeti ragusei dei secoli XVI e XVII, o le poesie dei suonatori di guzle serbi e montenegrini, perché essa è carica di toni di melanconia e speranza, di emozioni e ricordi dolorosi, e malgrado non ci sia quella bellezza sfarzosa ed è trascurata la sua forma, essa è imbevuta dello spirito di azione e rappresenta “l’espressione della lotta penosa di un popolo”.

In seguito l’autore parla della collaborazione sempre più stretta tra i Cechi e gli slavi del Sud, nonché della maturazione della consapevolezza degli slavi del Sud della necessità di costituirsi secondo le loro aspirazioni naturali, della consapevolezza che qualche anno prima, nell’insurrezione degli italiani nel 1848, non riconobbe il risveglio di una nazione e l’invito agli oppressi di seguire il suo esempio. Esistono diverse incomprensioni tra questi popoli: divisioni religiose, diffidenza tra serbi e bulgari, dove le differenze sociali sono meno visibili, diffidenza

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verso l’aristocrazia croata, una posizione politica della Serbia e del Montenegro di gran lunga più favorevole rispetto a quella in cui si trovano le regioni governate dall’Austria, e, infine, diverse interpretazioni delle radici comuni e l’opposizione dei serbi all’idea che tutti gli slavi del Sud si uniscano in una comunità che porti il nome Illiria. Mazzini però credeva che il progresso intellettuale, le relazioni sempre più forti e il desiderio di ottenere la libertà col tempo avrebbero conciliato le differenze, e che l’Italia, col suo esempio, se si fosse mossa alla rivolta, e se avesse invitato anche altri popoli oppressi alla lotta per la libertà e una pace giusta, avrebbe potuto avere un ruolo decisivo. Lui invita il Partito Nazionale Italiano ad assumersi il peso di questa responsabilità, a non acconsentire ad alcun commercio vergognoso a scapito del popolo proprio o di altri popoli imprigionati, ed a dichiarare a tutti che l’Italia si sarebbe sollevata in nome di un principio ben chiaro, fianco a fianco con tutti i popoli oppressi, che chiedevano lo stesso diritto a diventare nazione. La visione di Mazzini sulla futura costituzione d’Europa, osservata da questa distanza, testimonia la lungimiranza del grande pensatore italiano del XIX secolo. Lo spirito di solidarietà e fratellanza, che diffondeva con tutta la sua opera, sicuramente non ci può lasciare indifferenti. *

Tommaseo, il poeta dimenticato Nel testo intitolato Il poeta dimenticato2 Vladimir Čerina offre una descrizione interessante della figura di Niccolò Tommaseo, che grazie alla sua origine e alla sua vita ha meritato un posto speciale nella nostra e nella letteratura italiana, ma anche nella vita pubblica. Con grande affetto verso la nostra poesia popolare e pieno di entusiasmo per i suoi valori etici e toni patriottici, si mise alla traduzione dei versi, raccolti da Vuk Karadžić, in lingua italiana – Canti illirici, 1841 – avvicinando al pubblico italiano lo spirito del popolo che in quei tempi aveva le stesse aspirazioni e condivideva gli stessi ideali di libertà. Con la stessa passione lottò per questi ideali insieme ai congiurati italiani e partecipò intensamente nel dolore del popolo da cui traeva le origini. Il suo impegno politico in quei tempi turbolenti lo portò in carcere e poi in esilio, ma l’affetto e l’ardore che nutriva verso di noi non si spegneva mai. Anche nei momenti più difficili Tommaseo riuscì a mantenere la corrispondenza con Dositej Obradović, Ivan Kukuljević Sakcinski e altri, mostrando un forte interesse per la situazione e i problemi presenti dalle nostre parti. Dall’altra parte, quello che Čerina cerca di rivelarci è un Tommaseo meno conosciuto, che appartiene a chiunque abbia la sensibilità per il mondo intimo delle sue riflessioni. Si tratta di un uomo stanco che parla alla gente sola delle cose sole, ed è questa la figura di Tommaseo che Čerina rivela sulle pagine antologiche delle opere Pensieri morali, Scritti di estetica e di critica, ma anche nelle Scintille, opera pubblicata anche in serbocroato. Non c’è un sistema filosofico circoscritto, bensì, come dice Čerina, l’autore di questo saggio, “esiste una varietà di accenti, vibrazioni di una profonda intuizione personale, varietà spezzata in frammenti, in sentenze, massime, assiomi, paradossi”. Anche la luce, il motivo onnipresente, in rapporto strettissimo con tutte le verità e tutte le bellezze da cui l’uomo è circondato. Čerina sembra criticare questo entusiasmo, pensando che il miglior modo per conoscere pienamente le cose del mondo sia il sano scetticismo mentale, mentre l’assoluta fiducia nella gente è altrettanto pericolosa quanto la sfiducia e la misantropia. Tuttavia, riconosce in tutto lo spirito sognatore della generazione che con il suo agire, pieno di idealizzazione umana della vita e di esaltazione dei valori etici, apriva la

2 Ibid, pp. 262-264.

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strada verso l’unità, lo spirito della generazione cui, oltre a Tommaseo, appartenevano anche Mazzini, Monti, Gioberti.

Neanche tutto il dolore e tutta la sofferenza riuscirono a ottenebrare completamente quella fede nell’uomo quasi religiosa di Tommaseo. E nonostante tutto quello che gli era successo, ebbe la forza di capire e perdonare il male, lasciandosi andare anche oltre. In lui si intrecciano gioia e malinconia, dolore e felicità, però questi sentimenti offrono un certo senso solamente uniti: “Senza acqua la terra non riesce a vivere; così neanche l’anima riesce a vivere senza lacrime”3. È assai più rigido quando parla di estetica. La natura esuberante e la passione ardente, come una vera e propria esaltazione religiosa, non si spegnevano mai, per cui anche il concetto di bello e di bellezza esisteva per lui solamente nelle opere ispirate alla fede. Anche in questo era severo e implacabile, mentre la sua mente critica era offuscata dall’imperativo di fede nella bellezza del mondo, della santità dell’amore e del matrimonio. La musica con la sua forma e armonia non rappresentavano per Tommaseo un itinerario sufficientemente sublime per raggiungere l’infinito, mentre alla poesia di Leopardi negava la dignità di poesia geniale, bella o sublime. Siccome, però, era un uomo di fortissima passione, pieno di rispetto verso la sofferenza umana, riuscì nonostante il suo dispetto a scoprire quello che era oppresso dal dolore e dalla sofferenza. Così in alcune parole magiche era capace di rappresentare lo stato d’animo di uno scrittore oppure lo spirito di un’epoca artistica. Nella morte, come la maggior parte degli scrittori tragici, trovava l’ispirazione e la maggiore promessa della vita. Più che sapeva, lui intuiva, era guidato dalla ispirazione più di quanto riusciva a costruire un sistema filosofico basato sui concetti scientifici, anche se dei suoi pensieri ne avrebbero indubbiamente accettati molti i grandi pensatori quali Pascal, Nietzsche, o Tolstoy. In conclusione, Čerina dice che solo un tempo muto può penetrare nel senso più profondo dei grandi pensieri, quali erano quelli di Tommaseo, nati nel dolore e resi acuti e sottili con il tempo. Non dobbiamo dimenticarlo, e non solo perché provenisse dalle nostre parti, ma anche perché era simile a noi con il suo temperamento, perché riusciva a capire la nostra onestà e il dolore, essendo allo stesso tempo, per il suo meraviglioso intuito, l’uomo di tutti gli uomini.

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La questione dell’Adriatico

Della questione dell’unificazione degli slavi del Sud e del futuro destino politico dell’Adriatico si occupa anche Aleksandar Bogdanović nel suo articolo “Naučni pregled”. Il marcio assetto della vecchia Europa fu scosso dal giovane e debole stato serbo, il quale, dopo l’ottenimento dell’indipendenza dalla dominazione turca, davanti al giudizio della storia, richiese anche la soluzione di un altro anacronismo – le pretese austroungariche, le quali ostacolavano il percorso del progresso e della realizzazione delle aspirazioni naturali dei popoli schiavizzati. Bogdanović parla con esaltazione dell’idea dell’unificazione dei serbi, croati e sloveni, dell’unificazione di “un’unica tribù”, che non conosce più ostacoli. Sebbene da ogni parte giungano avvertimenti scettici che dicono che tale stato non è realizzabile, numerosi avvenimenti tra cui l’annessione della Bosnia e Erzegovina, la Crisi di Scutari, l’azione diplomatica durante le guerre balcaniche e alla fine la stessa dichiarazione di guerra alla Serbia nel 1914, parlano a favore del fatto che la stessa Monarchia asburgica era da tempo consapevole dell’esistenza di tale pericolo. D’altronde, le manifestazioni popolari, le risoluzioni, gli attentati ai funzionari austroungarici e l’aperta ribellione della popolazione slava dimostrarono che era maturata la

3 Čerina riporta questa affermazione citando diversi passi dei Pensieri morali.

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consapevolezza della necessità che il sogno dell’indipendenza e unificazione finalmente si avverasse.

Non c’è alcun dubbio che tra serbi, croati e sloveni ci siano differenze politiche, culturali e sociali di vario genere, tuttavia, ritiene Bogdanović, tali differenze possono essere solo il pegno della nascita di una nuova, più perfetta identità jugoslava. In un’evoluzione del genere ognuno lascerà il segno delle proprie esperienze e patrimoni storici. Dunque, non si parla di differenze inconciliabili o di divergenze auspicate da certi gruppi politici e questo fatto è stato ben capito e trattato da Maranelli e Salvemini nel libro “La questione dell’Adriatico”. In Europa esistono due correnti che temono la dissoluzione della Monarchia austroungarica. Una ritiene che la Monarchia sia un fattore di equilibrio nell’Europa centrale, mentre l’altra, con molti meno scrupoli, si oppone apertamente alla creazione di una Grande Serbia, ossia della Jugoslavia. Ne fa parte, purtroppo, anche una parte dell’opinione pubblica italiana - gli ambienti clericalsciovinisti, i quali rivendicano i diritti storici sulla Dalmazia e tentano di contestarne, con argomenti falsi, la fisionomia etnica. E’ ben chiaro, e lo constatano anche gli autori del libro “La questione dell’Adriatico”, che la Dalmazia è un’area geografica a stragrande maggioranza slava e che tali aspirazioni sono poco fondate. La Dalmazia non farebbe progressi e non diventerebbe che una zona colonizzata depressa, in quanto anche il suo entroterra è abitato dalla stessa popolazione slava, ed una dominazione sicura in Dalmazia sarebbe impossibile senza potentissime forze armate e supporti di tipo tecnico. Se ne rende conto anche il maresciallo Radetsky quando, con il memorandum del 1856, richiede l’occupazione della Bosnia e Erzegovina. Anche se l’Italia occupando la Dalmazia realizzasse la propria dominazione su tutto l’Adriatico, sarebbe una vittoria di Pirro in quanto sopra quella regione ci rimarrà per sempre un’ombra di possibili conflitti, mentre l’influenza culturale italiana troverebbe le porte chiuse da parte degli slavi del Sud. L’altra soluzione, più logica e più giusta, sarebbe quella di dare alle popolazioni slave i diritti più ampi per così soddisfare gli interessi nazionali di entrambe le parti. La demilitarizzazione dell’Adriatico e la creazione di un clima di reciproca fiducia porterebbero ai popoli vicini un tranquillo sviluppo economico, culturale e politico, e questi, ritiene Bogdanović, sono i principi circa i quali in grande misura si accordano anche Maranelli e Salvemini, e benché non si attengano rigorosamente a tali principi, e si servano di dati che non corrispondono pienamente alla realtà dei fatti, la loro opera rappresenta un passo in avanti nel miglioramento dei rapporti tra i popoli in questione.

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Il mendicante di anime

Sulla personalità contraddittoria di Giovanni Papini esistono opinioni altrettanto contraddittorie. Gli uni lo contestavano in quanto incoerente e fariseo, gli altri in lui riconoscevano un grande erudito e lo amavano anche quando non condividevano le stesse idee e gli stessi principi morali. Papini agitava gli spiriti con il suo temperamento straordinario e stupiva per la passione con cui amava o disprezzava. Nel periodo acerbo della sua formazione letteraria era nichilista, un uomo che dichiarò morta la filosofia, disprezzava valori cristiani e accusava Dio di tutti i mali del mondo. Più tardi visse la conversione spirituale e si pentì amaramente delle opere in cui chiedeva alla gente di rinunciare alla religione. Verso la metà degli anni trenta del secolo scorso aderì al movimento fascista e contribuì a firmare le leggi razziali.

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Krfski Zabavnik ci presenta una breve novella Prosjak duša4 (Il mendicante di anime) tratta da una raccolta di genere letterario molto interessante Il tragico quotidiano del 1905. Di fronte al lettore si trova uno scrittore non affermato che vive in condizioni difficili e cerca di trovare il modo di farsi pagare per una delle sue storie. Nell’attesa lunga e stancante che gli si svegli la fantasia e che la prima idea venutagli in mente si converta nella storia, si ricorda di un proverbio che dice che un uomo comune, se sapesse raccontare la propria vita, scriverebbe uno dei romanzi più grandi mai scritti. Entusiasmato dall’idea, parte in cerca dell’uomo comune, a cui non chiederà nient’altro che la storia della sua vita. Strada facendo passa accanto ai visi di giovani sognatori e lussuriosi esperti finché non incontra, tra le strade già deserte, l’uomo ideale, un uomo del tutto comune. Però, di fronte alla vita dell’uomo del tutto comune, monotona, ordinata, vuota, prevedibile e misurata fino all’ultimo dettaglio, il nostro protagonista avverte un terrore indescrivibile. Si tratta probabilmente dello stesso terrore e disprezzo con cui Papini faceva i conti con la filosofia, con la fede mansueta degli uomini in Dio, oppure si tratta del terrore e del disprezzo verso il mondo che assomiglia a un macchinario, il cui funzionamento è possibile solo qualora ogni sua parte sia a suo posto e esegua sempre lo stesso ruolo. La coscienza della propria incoerenza, inettitudine. La coscienza della realtà in cui qualsiasi distacco dalla mediocrità viene sempre accolta con incomprensione, stupore. Forse fu proprio quella coscienza che portò Papini alla conversione e conciliazione con l’inevitabile necessità di conformarsi alla realtà, dal cui fatto derivarono successivamente tanti grossi errori. Si tratta senz’altro di una novella interessante e di una forma letteraria che ci porta indietro all’opera di questo scrittore straordinario.

Unità bibliografiche relative agli studi di italianistica:

1. Italiji. Đakomo Leopardi; preveo Miloš P. Stefanović – Krfski Zabavnik, Banjaluka, 2005; pp. 191-192.

2. Firence. Todor Manojlović. Krfski Zabavnik, Banjaluka 2005, pp. 191-192. 3. Conte L. De Voinovitch; La Dalmatie, l’ Italie et l’ unite Yougaslave (1797-1917). Une

contribution à la future paix européenne. Geneve – Bâle – Lyon – Georg & Com. Libraires – Editeurs, pp. 110-380.

4. Gaetano Salvemini, Delenda Austria. Traduit de l’italien. Editions Rossard, Paris 1918, pp. 5-50.

5. I marinai italiani per l’esercito Serbo. Anconio Quattrini 6. Edito a cura dell’Ufficio Speciale del Ministero della Marinara, Roma 1918. Tipografia Cooperativa Sociale, Via de’ Barbieri 6, pp. 4-12.

6. R. Garrucci – Storia dell’arte cristiana, Prato 1881. 7. Venturi A. Storia dell’arte italiana, pp. 346-359. 8. E. Berlaux – L’art dans l’Italie meridionale. Paris, 1904. Planche XXXIV e p. 775. 9. U. Vram: Crani della Carniola. Atti della Società Romana di antropologia. Vol. IX.

Fasc. 1, 2. p. 151-160, Roma 1903.

4 Krfski Zabavnik, Milivoje Nenin; Banjaluka, Besjeda, 2005; pp. 317-318.

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La Serbia e l’Italia sul Krfski Zabavnik

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Predrag Bojanić

SRBIJA I ITALIJA U „KRFSKOM ZABAVNIKU“

(R e z i m e) Na proučavanju kulturnih i istorijskih veza različitih naroda temelji se svaka ozbiljna komparativna studija. Mnogi srpski intelektualci okupljeni na Krfu posle prelaska Albanije osetili su da je vreme kratkotrajnog predaha tokom ratnih zbivanja i prilika da se krene u novo traganje za nacionalnim identitetom, da se iznova zaviri u temelje srpskog društva i da se u stoletnim naslagama prepoznaju pečati drugih kultura. Na tom tragu “Zabavnik”, dodatak listu “Srpske novine” koje su u tom periodu izlazile na Krfu, predstavlja napor da se s jedne strane naglasi samosvojnost, s druge, opet, jasna pripadnost evropskom kulturnom prostoru. Ovaj kratki prikaz ima za cilj da italijanistima pruži jasniju sliku o tome kako su ondašnji srpski intelektualci, u odgovarajućem kontekstu, doživljavali uzajamne veze srpskog i italijanskog društva. Članci objavljeni “Zabavniku” tretiraju raznovrsne teme: italijanske uticaje u srednjovekovnoj srpskoj arhitekturi, tumačenje srpske epske poezije kroz prizmu aktuelnog istorijskog konteksta, razmatranje južnoslovenskog pitanja i sličnosti u nacionalnim stremljenjima dva susedna naroda, itd.

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Danijela MAKSIMOVIĆ (Belgrado)

MIODRAG T. RISTIĆ SCRITTORE E TRADUTTORE Parole chiave: Miodrag T. Ristić; articoli, saggi, traduzioni; letteratura italiana; situazione culturale, storica, sociale e politica dell’Italia; rapporti con l’Italia

Lo scrittore serbo Miodrag T. Ristić merita senza dubbio uno studio più approfondito. Come si vedrà nel testo che segue, questo autore ha scritto su molti argomenti italiani, ma non solo - ha tradotto tanti libri dall’italiano al serbo e, come si vedrà alla fine, anche un articolo dal serbo all’italiano, il che conferma le sue capacità di traduttore.

Le sue traduzioni, che hanno segnato il Novecento, si usano anche oggi, dopo cento anni e più, visto che nel corso dei tempi venivano modernizzate e adeguate al lettore contemporaneo.

Come scrittore ha dimostrato di essere uno studioso molto serio e dedicato al proprio lavoro. Dai suoi saggi e dai suoi articoli si può imparare tanto sulla storia e sulla società italiana, mentre dalle prefazioni dei libri tradotti si traggono pensieri sulla cultura e sulla letteratura d’Italia.

I suoi dati biografici completi per adesso non si trovano registrati. Fortunatamente, Milan M. Živanović, autore della prefazione del libro Garibaldinci na Drini 1876, scritto da Giuseppe Barbanti-Brodano e tradotto da Miodrag T. Ristić, ha scritto qualche frase1 sul traduttore in base alle quali veniamo a sapere che Miodrag T. Ristić è stato professore e direttore del ginnasio (1876, Čačak - 1947, Belgrado); all’inizio del Novecento con i suoi amici e i suoi compagni, cioè Jovan Skerlić, Pavle Popović e gli altri, si iscrive alla “Srpska književna zadruga” e ne rimane membro attivo durante tutta la sua vita; collabora alla “Srpska književna zadruga” come traduttore e la “SKZ” pubblica nella sua traduzione: Holandska di Edmondo de Amicis (1904, XIII, 92), Kraj mrtvaca, novella di Gabriele D’Annunzio (1908, Zabavnik 7 Pripovetke III) e Nova Italija di Pietro Orsi con la prefazione dello stesso Miodrag T. Ristić (1909, XVIII, 125-126). Si tratta delle seguenti opere: Olanda di Edmondo de Amicis, un reportage di viaggio dedicato ai Paesi Bassi; La veglia funebre di Gabriele D’Annunzio, novella che fa parte delle Novelle di Pescara; L’Italia moderna, libro storico di Pietro Orsi.

Anche se non disponiamo di una biografia esauriente di Miodrag T. Ristić, il suo lavoro e i suoi studi sono sempre interessanti, visto che riguardano tanti ambiti della civiltà italiana: letteratura, cultura, politica, ecc.

Per accennare alla sua attività di scrittore e di traduttore, riportiamo una lista dei suoi libri, che si possono trovare nelle seguenti biblioteche: Narodna biblioteka Srbije, Belgrado; Univerzitetska biblioteka “Svetozar Marković”, Belgrado; Biblioteka Matice srpske, Novi Sad.

I libri e i saggi dei quali è autore Miodrag T. Ristić sono:

1 Barbanti-Brodano, Giuseppe, Garibaldinci na Drini 1876, Srpska književna zadruga,

Beograd, 1958, p. 22. Titolo originale: Volontario nella guerra serbo-turca, Società Editrice delle “Pagine sparse”, Bologna 1877

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Miodrag T. Ristić scrittore e traduttore 159

1. Italianski nacionalizam, “Delo”, Niš 1915 (Il nazionalismo italiano) 2. Italianski nacionalizam I, Geca Kon, Beograd 1936 3. Jedna volja: članci o Italiji, Beograd 1936 (Una volontà: gli articoli sull’Italia)

Italianski nacionalizam è un saggio nato da una relazione, il cui contenuto sarà spiegato

nella sezione sugli articoli di Miodrag T. Ristić scritti per la rivista “Delo”. Quello che bisognerebbe sottolineare è che la seconda edizione del saggio, uscita in volume a sé stante, mentre la prima edizione era in forma di articolo pubblicato sulla rivista “Delo”, è caratterizzata da un ampliamento del tema riportato nella prefazione e da alcune correzioni e aggiunte segnate sempre nella prefazione.

Jedna volja: članci o Italiji è una raccolta di una serie di articoli sulla situazione politica, sociale e storica dell’Italia. Gli articoli erano apparsi precedentemente in vari periodi sulle riviste e sui giornali serbi. In questo senso, la raccolta risparmia la fatica a chi vorrebbe leggerli, perché l’interessato non dovrebbe cercare tutte le riviste e tutti i giornali su cui erano apparsi gli articoli, ma potrebbe semplicemente prendere il libro Jedna volja: članci o Italiji. Di seguito, riportiamo i titoli degli articoli raccolti, con la data e il nome della rivista o del giornale dove erano stati pubblicati precedentemente:

1. Macini, “Delo” del 14 febbraio 1904 (Mazzini) 2. Jedan Englez i jedan Srbin o Italianima, “Delo”, marzo 1913 (Il pensiero di un inglese e

di un serbo sugli italiani) 3. Današnji položaj Italije, “Politica” del 15 febbraio 1915 (La posizione odierna

dell’Italia) 4. Šta sam video u Italiji, “Politika” del 6 e del 17 settembre 1922 e del 10 e dell’11 ottobre

1922 (Quello che ho visto in Italia) 5. Ukrštenih mačeva, “Politika” del 31 ottobre 1922 (Con le spade incrociate) 6. Jedna primedba, “Politica” del 6 febbraio 1922 (Un’obiezione) 7. Ostavka g. Farinačija, “Vreme” del 13 aprile 1926 (Le dimissioni del signor Farinacci) 8. Italija i Jugoslavija, “Vreme” del 18 marzo 1927 (L’Italia e la Jugoslavia) 9. Italianska stvarnost, “Vreme” del 27 marzo 1927 (La realtà italiana)

10. Početak Suda rada u Italiji, “Trgovinski glasnik” del 14 luglio 1927 (L’apertura del Tribunale del lavoro in Italia)

11. Socialna politika Italije, “Glasnik Lekarske Komore”, marzo 1929 (La politica sociale dell’Italia)

12. Rešenje Rimskog pitanja, “Vreme” del 15 e del 16 febbraio 1929 (La coclusione della Questione romana)

13. Vitorio Emanuele III, “Politica” del 19 agosto 1935 (Vittorio Emanuele III) 14. Patti chiari, amicizia lunga, Belgrado del 17 marzo 1935 15. Italija i Musolini, Roma, aprile 1936 (L’Italia e Mussolini)

Gli articoli Macini e Jedan Englez i jedan Srbin o Italianima sono riassunti nel testo

insieme agli altri articoli della rivista “Delo”, dove l’articolo Jedan Englez i jedan Srbin o Italianima è intitolato R. Bagot: Gl’italiani d’oggi (Bari, Latezza, 1912). Quanto agli articoli Patti chiari, amicizia lunga e Italija i Musolini, intitolato anche Današnja Italija prema g. Musoliniju (L’Italia d’oggi nei confronti di Mussolini), non sono apparsi sui giornali, ma per la prima volta vengono pubblicati probabilmente nella raccolta Jedna volja: članci o Italiji. Per questo, vi sono segnati solamente la data e il luogo della stesura.

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Danijela Maksimović 160

I libri tradotti da Miodrag T. Ristia sono:

1. De Amicis, Edmondo, Holandska, Srpska književna zadruga, Beograd 1904 (Olanda) 2. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Geca Kon, Beograd 1907 (Il Principe) 3. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Sveslovenska knjižara M. J. Stefanović i drug, Beograd

1931 4. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Rad, Beograd 1964 5. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Rad, Beograd 1982 6. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Dereta, Beograd 2002 7. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Srđan Javorina i drugi - Ušće, Beograd 2004 8. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Dereta, Beograd 2005 9. Machiavelli, Niccolò, Vladalac, Srđan Javorina i drugi - Ušće, Beograd 2006

10. Orsi, Pietro, Nova Italija, Srpska književna zadruga, Beograd 1909 (L’Italia moderna) 11. Prezzolini, Giuseppe, Kaporeto, Pavlović i Komp., Beograd 1921 (Caporetto) 12. Pirandello, Luigi, Pokojni Matija Paskal, Edicija A. D., Beograd 1940 (Il fu Mattia

Pascal) 13. Barbanti-Brodano, Giuseppe, Garibaldinci na Drini 1876, Srpska književna zadruga,

1958 (Volontario nella guerra serbo-turca) 14. Del Vecchio, Giorgio, Pravo, pravda i država, Geca Kon, Beograd 1940 (Diritto,

giustizia e stato - Studi di Filosofia del diritto) 15. Del Vecchio, Giorgio, Pravo, pravda i država, Plato, Beograd 1998 16. Del Vecchio, Giorgio, Pravo, pravda i država, Pravni fakultet Univerziteta, Centar za

publikacije, Beograd 1999 Come si vede nell’elenco dei libri tradotti, alcuni di essi hanno avuto più edizioni. Lo stesso Miodrag. T. Ristić cercava di migliorare le proprie traduzioni, come si può

vedere sfogliando le edizioni del Vladalac (Il Principe di Niccolò Machiavelli). Per esempio, per la prima edizione, quella del 1907, Miodrag T. Ristić aveva scritto la prefazione che praticamente rappresentava un piccolo saggio in difesa di Niccolò Machiavelli, perché, secondo Miodrag T. Ristić, era molto aperto e sincero a proporre le proprie idee politiche, che erano antipatiche, ma che lui riteneva portatrici di verità. Nella stessa prefazione ci sono i dati sulle tre traduzioni precedenti del trattato Il Principe.

La prefazione del 1907 viene inserita pure nell’edizione del 1931, probabilmente per accennare al lato positivo del pensiero machiavelliano, ed e’ completata da un epilogo dove Miodrag T. Ristić mette in rilievo la capacità analitica, il coraggio e l’intellettualità del pensiero politico di Niccolò Machiavelli. Il traduttore finisce l’epilogo dicendo che aveva cercato di presentare una traduzione migliore della prima, visto che in quella c’erano sia dei refusi che degli sbagli nella traduzione, per esempio nella traduzione della forma arcaica del futuro del verbo essere.

Le edizioni dal 1964 in poi sono adeguate al lettore d’oggi, grazie al professor Momčilo D. Savić che ha redatto l’edizione del 1964 introducendo la lingua e la sintassi moderna senza cambiare il senso delle traduzioni di Miodrag T. Ristić.

L’altro libro che vanta più edizioni è Pravo, pravda i država di Giorgio Del Vecchio. Come si può già concludere, ogni traduzione di Miodrag T. Ristić è una specie di capolavoro. Non sono traduzioni crude, ma sono seguite dai saggi su un certo autore e su un certo tema. Così il libro Diritto, giustizia e stato - Studi di Filosofia del diritto non è stato semplicemente tradotto - la prefazione, scritta dal professor Đorđe Tasić, tratta il tema dell’idealismo di Giorgio Del Vecchio rappresentato come difensore del principio della dignità dell’uomo e come difensore

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dell’internazionalismo, mentre il professor Dragan M. Mitrović nell’epilogo parla della vita, delle opere e delle attività di lavoro di Giorgio Del Vecchio.

Ovviamente, i libri da tradurre erano stati scelti con molta attenzione seguendo il principio di utilità - basta dire che Giorgio Del Vecchio nel suddetto libro scrive, fra l’altro, sulle conseguenze della guerra, specialmente quelle positive, per farci ricordare subito di Niccolò Machiavelli - allora è chiaro che Miodrag T. Ristić ci ha lasciato le traduzioni che sono una specie di documenti storici. Non bisogna dubitare neanche della loro qualità. Se il traduttore non si sentiva in grado di scrivere una prefazione, la affidava a quelli che conoscevano il lavoro dell’autore, come in questo caso - Đorđe Tasić, professore e preside della Facoltà di Giurisprudenza di Belgrado, era amico di Giorgio Del Vecchio e conosceva bene la sua ideologia.

Per confermare il filo storico che caratterizza le traduzioni, possiamo dare un accenno al tema dell’Italia moderna di Pietro Orsi - sono trattati gli ultimi 150 anni fino ai tempi di Vittorio Emanuele III. Precisamente, il libro finisce con l’analisi della situazione dell’anno 1901 e con la presentazione dell’arte e della letteratura a partire da Giuseppe Parini in poi.

Oltre a queste traduzioni, Miodrag T. Ristić ci ha lasciato le traduzioni e i saggi anche sulla rivista “Delo” che è uscita a Belgrado dal 1894 fino al 1915, con una pausa dal 1900 al 1902. Nei settantaquattro volumi, che si possono trovare tutti presso la “Narodna biblioteka Srbije”, la rivista tratta temi di scienza, di letteratura e di società di tutta l’Europa. Miodrag T. Ristić ci ha collaborato dal 1904 fino al 1915. Qui presentiamo il riassunto dei suoi articoli, o meglio saggi, che anche oggi possono essere molto utili per gli italianisti.

Macini, “Delo”, Belgrado 1904, volume 30, pp. 217-230 (Mazzini)

Questo saggio tratta la vita e l’ideologia di uno dei più grandi ideali del popolo italiano -

di Giuseppe Mazzini, presentato come un grande personaggio che per tutta la vita ha combattuto per la repubblica. Miodrag T. Ristić lo descrive come una persona soprattutto modesta, mite e idealmente onesta. Poi passa alle sue gesta e alle sue rivolte. Scrive delle origini, della famiglia, dell’istruzione, dell’educazione e delle idee di Mazzini, e anche dei carbonari e della Giovine Italia. Dopo averlo descritto come un grande repubblicano, cioè capo dei repubblicani, mette in rilievo il suo grande amore per gli slavi. Il saggio finisce con l’accenno alle capacità letterarie di Mazzini romantico che esprimeva l’entusiasmo poetico che era tipico anche dei suoi ideali politici.

Lettere di Giosuè Carducci, 1853-1906 (Zanichelli, Bologna 1911), “Delo”, Belgrado

1913, volume 66, pp. 143-149 Leggendo queste pagine abbiamo l’opportunità di vedere quale era il ruolo delle lettere

di Carducci nel definire il suo carattere - lui si mostrava come una persona adirata, piena d’ira e d’odio, però rimane il dubbio se lo fosse davvero. Le lettere nascondono dentro di sé anche i suoi dilemmi, ma non solo - ci si trovano gli appunti che fanno parte dei suoi studi letterari e i pensieri sugli altri scrittori. Rappresentano pure un ritratto della sua vita e della sua posizione ideologica e politica, molto interessante. Alla fine, Miodrag T. Ristić difende l’idea di pubblicazione delle lettere (che una volta uscite erano chiamate “i cenci”), perché tutto quello che c’è in esse provoca le simpatie verso il loro autore.

Kritični period italianske spoljne politike, “Delo”, Belgrado 1913, volume 66, pp. 220-

241 (Il periodo critico della politica estera dell’Italia)

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Si tratta della traduzione del capitolo V della “Storia di dieci anni (1899-1909)” di Arturo Labriola. Il capitolo descrive la politica estera dei Savoia nei confronti della Francia e dell’Austria, i tempi della Triplice alleanza, la situazione dopo di essa e un futuro incerto dopo l’evitata guerra contro l’Austria.

R. Bagot: Gl’italiani d’oggi (Bari, Lateza (sic), 1912), “Delo”, Belgrado 1913, volume 66,

pp. 467-472 La recensione ci rappresenta un libro di R. Bagot che studia l’economia e la società

dell’Italia dopo il Risorgimento, però non si tratta di quel paese degli anni ottanta che era unito politicamente - si tratta di una nuova Italia, unita economicamente e socialmente, che fa progresso. Naturalmente, sono presenti pure le difficoltà di un paese che deve andare avanti. Miodrag T. Ristić fa accenno ai lati positivi e negativi del libro spiegando la sua nascita e dà la propria spiegazione del progresso italiano e del pensiero di Francesco Nitti.

Virginio Gayda: La crisi di un Impero. Pagine sull’Austria contemporanea (Torino,

Fratelli Bocca, 1913; st. 446, L 5), “Delo”, Belgrado 1913, volume 68, pp. 240-246

Si tratta della recensione del libro di Gayda che vivendo a Vienna come corrispondente

del “Mattino” e della “Stampa” ha avuto l’opportunità di raccogliere il materiale per un’analisi statistica della crisi dell’Austria. Il libro non è sintetico, però l’autore vanta un’oggettività invidiabile. La recensione è seguita da alcuni passi del libro spiegati da Miodrag T. Ristić.

Italianski nacionalizam, “Delo”, Belgrado 1915, volume 72, pp. 241-248; volume 73, pp.

22-29, 59-73 (Il nazionalismo italiano) La relazione del 1914, fatta a Belgrado da Miodrag T. Ristić sul nazionalismo italiano, è

riportata su queste pagine. Si parte dalla Carboneria e dal suo programma di politica estera e nazionale, poi si passa alla Giovine Italia e all’Irredentismo per arrivare al Nazionalismo. L’autore parla di storia, organizzazione, programma, politica, pensiero e ideologia di questo movimento. Espone i suoi problemi principali provocati dalle idee diverse dei suoi personaggi principali che erano fautori della democrazia, e, dall’altra parte, dell’antidemocrazia. Si spiega perché il Nazionalismo era contro il pacifismo e perché glorificava la guerra. Si parla dello statuto, dei giornali del Nazionalismo e della sua idea d’imperialismo, della Triplice alleanza e dei rapporti problematici tra gli italiani e gli slavi. La relazione finisce con una rassegna dei successi del Nazionalismo sia in Italia che nell’ambito della politica estera.

Miodrag T. Ristić era uno studioso stimato anche durante la vita - ne troviamo la conferma nella pagina 159 del volume 66 del “Delo” dov’è lodata la sua traduzione dal serbo all’italiano dell’articolo di Jovan Cvijić sulla guerra balcanica e sulla Serbia - (Dott. Jovan Zvijić, La guerra balcanica e la Serbia, Roma 1912). L’articolo era stato pubblicato prima in inglese sulla rivista “Review of Reviews”. Con questa traduzione Miodrag T. Ristić ha avvicinato gli italiani alla situazione economica e nazionale dei Balcani, il che era significativo, visto che i rapporti economici tra l’Italia e la Serbia diventavano sempre più stretti.

Il discorso sul lavoro di Miodrag T. Ristić non si esaurisce sicuramente con la nostra rassegna delle sue pubblicazioni, dato che ogni suo saggio e articolo e ogni traduzione che ci ha lasciato potrebbe essere un grande contributo agli studi di storia, di cultura e di letteratura d’Italia.

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Danijela Maksimović

MIODRAG T. RISTIĆ PISAC I PREVODILAC

(R e z i m e)

Verovatno je nedostatak biografskih podataka o Miodragu T. Ristiću uticao na to da se i njegovo delo nepravedno zanemari, ali budnom oku profesora Željka Đurića, na čiju sugestiju smo i pristupili kratkom istraživanju čije rezultate ovde iznosimo, nije promaklo stvaralaštvo ovog izuzetno plodnog pisca i prevodioca. S obzirom da je Ristić do sada bio neizučavan, ako nam nije promakla neka studija o njemu, izneli smo bibliografski prikaz njegovog rada uz kratku napomenu o njegovim prevodima i sadržaju njegovih članaka i eseja bez zalaženja u detaljne analize s ciljem da čitaocima u kratkim crtama predstavimo delo pomenutog autora. Sledeći konstantnost u radu, doprineo je boljem upoznavanju ne samo s italijanskom književnošću (kojoj se posvećivao s velikom ljubavlju birajući pažljivo dela za prevođenje i strpljivo doterujući svoje prevode), nego i s kulturnim, društvenim, istorijskim i političkim prilikama u Italiji. S druge strane, poklanjao je pažnju odnosima između Jugoslavije i Italije, a prevodom na italijanski Cvijićevog članka koji govori o ratovima na Balkanu i o Srbiji dao je doprinos i u približavanju naših istorijskih prilika italijanskoj čitalačkoj publici. Kao što smo već naznačili, pregled Ristićevog stvaralaštva se nudi kao bibliografski vodič za sve one kojima bi njegovo delo moglo biti od velike koristi ne samo u radu, nego i u sticanju i proširivanju opšte kulture, tim pre što se njegove knjige, članci i eseji nalaze u katalozima Narodne biblioteke Srbije i Univerzitetske biblioteke „Svetozar Marković” u Beogradu i Biblioteke Matice srpske u Novom Sadu, te su stoga i lako dostupni. Podrazumeva se da je bibliografija o kojoj je reč ujedno i materijal koji smo mi koristili prilikom sastavljanja ovog članka o Miodragu T. Ristiću.

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INDICE CURRICULUM VITAE ET STUDIORUM – BIBLIOGRAFIA...................................................7 Massimo Fanfani SU UNA FORMULA DI SALUTO................................................... ...........................................15 Anton Maria Raffo LESINA................................................... ................................................... ..................................42 Gordana Terić RELAZIONI DEITTICHE E ANAFORICHE DEI DIMOSTRATIVI ITALIANI E SERBI................................................... .............................48 Željko Đurić GABRIELE D’ANNUNZIO E LA SUA “ODE ALLA NAZIONE SERBA“ .............................65 Julijana Vučo STUDIARE IN ITALIANO................................................... .......................................................77 Slobodan Stević ALCUNI ELEMENTI DEL DISCORSO QUOTIDIANO............................................................86 Mila Samardžić FUNZIONE SEGMENTATRICE DEL PUNTO FERMO NELLA NUOVA PROSA GIORNALISTICA................................................... .........................97 Mirjana Drndarski I VIAGGI DI ALBERTO FORTIS........................................ .....................................................108 Saša Moderc OSSERVAZIONI SUL VALORE TEMPORALE DEL CONGIUNTIVO TRAPASSATO......116 Milana Piletić UNA VITA PER IL SUO VERSO................................................... ...........................................123 Dušica Todorović Lacava SUL FIORE E SULL’AMORE.................................................. .................................................129 Persida Lazarević Di Giacomo A PROPOSITO DEGLI SLAVI MERIDIONALI: HEINRICH STIEGLITZ E PACIFICO VALUSSI.....................................................................137 Predrag Bojanić LA SERBIA E L’ITALIA SUL “KRFSKI ZABAVNIK“ ..........................................................147 Danijela Maksimović MIODRAG T. RISTIĆ SCRITTORE E TRADUTTORE...........................................................158

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SADRŽAJ CURRICULUM VITAE ET STUDIORUM – BIBLIOGRAFIJA..................................................7 Masimo Fanfani O JEDNOM NAČINU POZDRAVLJANJA.................................................................................15 Anton Maria Raffo HVAR.............................................................................................................................................42 Gordana Terić DEIKTIČKI I ANAFORIČKI ODNOSI IZMEĐU ITALIJANSKIH I SPRSKIH POKAZNIH ZAMENICA..........................................................................................48 Željko Đurić GABRIJELE D’ANUNCIO I NJEGOVA „ODA SRPSKOM NARODU“..................................65 Julijana Vučo UČITI NA STRANOM JEZIKU...................................................................................................77 Slobodan Stević NEKI ELEMENTI SVAKODNEVNOG JEZIKA........................................................................86 Mila Samardžić SEGMENTACIONA FUNKCIJA TAČKE U SAVREMENOJ ITALIJANSKOJ ŠTAMPI........97 Mirjana Drndarski PUTOVANJA ALBERTA FORTISA – EKONOMSKA I POLITIČKA MISIJA.....................108 Saša Moderc O TEMPORALNOJ VREDNOSTI ITALIJANSKOG KONJUNKTIVA PLUSKVAMPERFEKTA............................................................................................................116 Milana Piletić JEDAN ŽIVOT PO SOPSTVENOM STIHU..........................................................................................................................................123 Dušica Todorović Lakava O CVETU I O LJUBAVI.............................................................................................................129 Persida Lazarević Di Đakomo O JUŽNIM SLOVENIMA: HAJNRIH ŠTIGLIC I PAČIFIKO VALUSI..................................137 Predrag Bojanić SRBIJA I ITALIJA U „KRFSKOM ZABAVNIKU“ .................................................................147 Danijela Maksimović MIODRAG T. RISTIĆ PISAC I PREVODILAC........................................................................158

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ITALICA BELGRADENSIA numero speciale

Izdavač UNIVERZITET U BEOGRADU

FILOLOŠKI FAKULTET KATEDRA ZA ITALIJANSKI JEZIK I KNJIŽEVNOST

Priprema i štampa ČIGOJA ŠTAMPA

Tiraž 300

Beograd, 2010.

CIP – Каталогизација у публикацији Народна библиотека Србије, Београд

811.131.1 ITALICA Belgradensia / odgovorni Urednik Nikša Stipčević. – 1975, br. 1- .- Beograd : Univerzitet u Beogradu Filološki fakultet, 1975- (Beograd : Čigoja). – 24 cm Tekst na italijanskom i srpskom jeziku. - Nije izlazio od 1976. do 1988. godine. ISSN 0353-4766 = Italica Belgradensia COBISS.SR.-ID 165600130