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1 INDICE Introduzione Parte prima ANALISI CRITICA DELLA NOZIONE DI SINDROME CULTURALMENTE DETERMINATA Capitolo primo: Origine e definizione del concetto di culture-bound syndrome Capitolo secondo: Esclusionismo versus inclusionismo: decostruzione del concetto di culture-bound syndrome Capitolo terzo: Nuove prospettive: le CBS occidentali Parte seconda IL KORO COME ESEMPIO DI UNA DIBATTUTA SINDROME CULTURALMENTE DETERMINATA Capitolo quarto: Definizione ed epidemiologia del Koro Capitolo quinto: Il Koro, una culture-bound syndrome o un sintomo universale? Una questione irrisolta Capitolo sesto: Conclusioni critiche Bibliografia

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INDICE

Introduzione Parte prima

ANALISI CRITICA DELLA NOZIONE DI SINDROME CULTURALMENTE DETERMINATA Capitolo primo: Origine e definizione del concetto di culture-bound syndrome

Capitolo secondo: Esclusionismo versus inclusionismo: decostruzione del concetto di culture-bound syndrome

Capitolo terzo: Nuove prospettive: le CBS occidentali

Parte seconda

IL KORO COME ESEMPIO DI UNA DIBATTUTA SINDROME CULTURALMENTE DETERMINATA

Capitolo quarto: Definizione ed epidemiologia del Koro Capitolo quinto: Il Koro, una culture-bound syndrome o un sintomo universale? Una questione irrisolta Capitolo sesto: Conclusioni critiche Bibliografia

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INTRODUZIONE

La nozione di sindrome culturalmente determinata o culture-bound syndrome (CBS), com’è più nota in ambito internazionale, è dibattuta e fonte di notevoli controversie. Quest’espressione è divenuta indicativa di una serie di presunti disturbi mentali (amok, latha, koro, windingo, susto, ecc.), che si manifestano generalmente al di fuori dell’Occidente. Il concetto di CBS essendo indicativo di comportamenti “anomali”, “disturbati” che si palesano in culture esotiche, si pone a limite tra le competenze etno-antropologiche e quelle psichiatriche. L’incontro tra queste due discipline, però, non ha rappresentato un esempio di facile alleanza, sono state forti, infatti, le riserve e critiche sollevate dagli antropologi nei confronti delle pretese etnocentriche della psichiatria (Beneduce 1997). L’accusa sovente rivolta a questa disciplina, è stata quella di servirsi della nozione di CBS, per operare un’eccessiva semplificazione di una serie di fenomeni proteiformi, e poterli, quindi, spiegare attraverso gli strumenti della nosografia occidentali. Un simile processo rivela l’imposizione di categorie mediche, da parte della psichiatria dominante, ad una serie di manifestazioni complesse che richiederebbero, invece, un’attenta analisi contestuale per coglierne il reale significato (Devereux 1978; Karp 1985). Il dibattito1 che vede come protagoniste le CBS, è incentrato sulla definizione della loro natura; alla prospettiva che le considera come prodotti culturali unici, determinati da uno specifico contesto sociale, infatti, si contrappone quella che le definisce come forme locali di un processo morboso universale. In questo lavoro si cercherà di definire criticamente le linee guida di questo dibattito, dopo, però, aver prima tracciato un sintetico quadro dell’evoluzione storica della nozione di culture-bound syndrome. Si partirà, dunque, dalle origini di questo concetto, per giungere ad introdurre l’idea di una sua possibile decostruzione. Si metterà in discussione, inoltre, l’assunto secondo cui la definizione di CBS è esclusivamente connotativa di disturbi esotici che si

1 Nel 1983 è stato organizzato un simposio agli incontri dell’International Congress

of Anthropological and Ethnological Sciences, a Vancouver, per discutere la questione delle culture-bound syndromes. Le dissertazioni presentate, più tardi pubblicate in un numero speciale della rivista Social Science and Medicine (Vol. 21, 2, 1985), riflettevano una profonda divergenza di opinioni circa il valore e l’applicabilità del concetto di CBS (cfr. Hahn 1985; Jilek – Jilek-Aall 1985 ; Karp 1985; Kenny 1985; Low 1985; Prince 1985; )

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manifestano in culture “altre”, riportando degli esempi di sindromi culturalmente determinate occidentali. Nella seconda parte, invece, si proporrà l’analisi di una tipica culture-bound syndrome: il koro. Dopo un iniziale tentativo di definire e delineare le caratteristiche epidemiologiche di questo complesso disturbo, ci si addentrerà nell’indagine dei vari modelli di definizione e classificazione che sono stati proposti nel corso del tempo, per evidenziare uno stato di profonda confusione e contrapposizione. Il caso del koro sarà indicato come esemplificativo di una situazione fondamentalmente analoga per tutte le CBS, ovvero per una serie di fenomeni che si rivelano ostili ad un’acritica categorizzazione attraverso gli strumenti della nosografia occidentale, ma che richiedono, piuttosto, una profonda analisi del contesto e delle influenze sociali e culturali che le determinano, un’interpretazione che cerchi di considerarle come un «fatto sociale totale» (Mauss 1965). In questo lavoro, dunque, ci si pone criticamente nei confronti di un approccio dominante che cerca di ridurre le sindromi culturalmente determinate ad un generico insieme di segni e sintomi che rivela poco e crea molta confusione. Si ritiene indispensabile, invece, una prospettiva più ampia che inquadri questi complessi fenomeni nella loro totalità, all’interno della loro vasta e specifica rete di significati. CAPITOLO PRIMO

ORIGINE E DEFINIZIONE DEL CONCETTO DI

CULTURE-BOUND SYNDROME

Il termine culture-bound syndrome, potrebbe essere tradotto con sindrome culturalmente caratterizzata, o determinata2. Esso sta ad indicare una serie eterogenea di disturbi comportamentali, cosiddette sindromi, diffuse generalmente in ambienti non occidentali. Come notano Prince & Tcheng-Laroche (1987: 3-4), la nozione secondo cui dei disturbi psichiatrici possano essere ristretti ad una singola cultura, o un gruppo di culture, non è nuova. Già nel diciottesimo secolo, George Cheyene (1733) pubblicò The English Malady, in cui raccolse una seri di disturbi nervosi che, egli sosteneva fossero molto più diffusi in Inghilterra che altrove. Cheyene ricondusse ciò a locali fattori alimentari e climatici, nonché a determinate caratteristiche culturali che, egli riteneva fossero tipicamente inglesi.

Prima ancora, nel 1688, un giovane medico, Johannes Hofer, descrisse accuratamente, nel suo Dissertatio medico, lo Heimwheh un disturbo mortale,

2 Inglese e Peccarisi ritengono più appropriato il termine «sindrome culturalmente ordinata» (1997)

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che per la sua endemica diffusione tra le truppe mercenari elvetiche che combattevano in Europa, era considerato una malattia tipicamente svizzera (Ernst 1949 cit. in Frigessi Castelnuovo – Risso 1982). Con il termine Heim, ci fanno notare Frigessi Castelnuovo e Risso, in tedesco si indica il focolare domestico, un luogo popolato da persone amate, dove ci si sente protetti, un luogo al quale ritornare, spazio-tempo al quale si appartiene, storia vissuta di cui si è partecipi pienamente. Con l’espressione Heimwheh, invece, si intende letteralmente il dolore della casa, della terra natale, il timore di non ritornarci più, una sorta di profondissima nostalgia. Molti giovani militari elvetici, dunque, lontani dalla loro patria, cadevano in uno stato di assoluta apatia, disinteresse per tutto e tutti, chiusura in sé stessi, sonno irrequieto o insonnia, senso di ottusità, insensibilità per la fame e la sete, tristezza continua, costante pensiero rivolto unicamente alla patria; a tali fenomeni si aggiungeva molto spesso febbre costante o intermittente, delirio, progressivo indebolimento fino al sopraggiungere della morte. Uno dei principali fattori scatenanti nell’insorgenza di questo male, fu ravvisato in un canto, la cosiddetta Kuhe-Reihenche che i pastori elvetici erano soliti cantare e suonare coi loro corni nei pascoli alpini; quando, infatti, le nuove reclute provenienti dalla Svizzera intonavano insieme ai soldati più anziani questo canto, evocando con veemenza il pensiero del paese natale, molti cadevano in uno stato febbrile e comparivano i sintomi dello Heimweh. Per questo motivo gli ufficiali, con un’ordinanza che comminava a severissime pene, proibirono il canto e il suono di questa melodia. Nonostante la sua pericolosità, lo Heimweh era guaribile se la nostalgia di casa veniva soddisfatta, inguaribile, mortale o, comunque, molto pericoloso se le circostanze lo impedivano. Unico rimedio realmente efficace era, dunque, predisporre il rientro in patria dei soggetti ammalati. Numerose esperienze, infatti, dimostravano che tutti i soldati svizzeri colpiti da questo male, già durante il viaggio di ritorno, o appena giunti a casa, guarivano. Dopo la descrizione offerta da Hofer, molti altri medici si interessarono allo studio dello Heimweh, avanzando disparate ipotesi eziologiche e presidi terapeutici. Nonostante abbia trovato la sua massima diffusione nel periodo romantico, fa notare Frigessi Castelnuovo, il termine Heimweh era già noto e utilizzato da almeno più di un secolo prima della dissertazione di Hofer (1688). Molto più rilevanti per il discorso che si intende condurre, sono, nel tardo diciannovesimo secolo, le descrizioni di W. Gilmor Ellis e di Blonk riguardanti dei disturbi, ignoti in Europa, che essi riscontrarono essere relativamente diffusi tra i Malesi. Tali disturbi erano, i ben noti oggi, amok (Ellis1893), latah (Ellis 1897) e koro (Blonk 1895). È importante sottolineare, però, che c’è una sostanziale differenza tra i resoconti medici di Cheyene o di Hofer, e quelli di Ellis e Blonk. Mentre nel primo caso, infatti, il soggetto osservante è l’oggetto osservato condividevano la stessa realtà sociale, ed un medesimo retroterra culturale; nel secondo caso, invece, la prospettiva è completamente diversa, si tratta, infatti, di studiosi europei alle prese con un’analisi transculturale di disturbi, o meglio di manifestazioni, che si palesano in un contesto culturale completamente diverso dal loro. L’antropologia c’insegna che spesso l’osservazione e la descrizione di altri, geograficamente distanti o

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culturalmente diversi, è stata offuscata da un vizio etnocentrico, che ha indotto a considerare l’altrui diversità, spesso con accezione negativa, come assoluta e non, come sarebbe corretto, in termini relativi: si è “Altro”, infatti, solo rispetto a chi guarda. Ogni cultura si basa su di un proprio sistema di valori, di miti, di credenze, una cosmologia che le appartiene intimamente. La cieca fiducia nell’universalità della propria prospettiva, però, ha, non di rado, condotto a commettere l’errore d’interpretare e spiegare usi e costumi di altri popoli riconducendoli ai propri sistemi di significato, travisandone completamente il senso. È sulla base di tali considerazione che vanno inquadrati i resoconti medici di Ellis, di Blonk e di tutti i medici e psichiatri che dopo di loro si sono addentrati nelle descrizioni e interpretazioni di presunte patologie esotiche.

Nel tentativo di tracciare un quadro sintetico del concetto di CBS, un valido contributo è offerto da un articolo della Ciminelli (1997), nel quale è proposta una ricostruzione storica di tale concetto. La Ciminelli riconduce l’origine delle culture-bound syndroms, a quelle folk-illness i cui nomi indigeni erano noti in Europa sin dalla fine dell’Ottocento, grazie ai resoconti di viaggiatori, funzionari coloniali e psichiatri. Ella, inoltre, vede nelle formulazioni di Emil Kraepelin (1856-1926), fondatore della moderna nosografia psichiatrica, delle premesse fondamentali per la nascita della nozione di CBS. Kraepelin si pone l’obbiettivo di estendere la comparazione tra malattie psichiche, non più solo tra gruppi differenti per età, sesso, occupazione, all’interno di una stessa nazione, ma anche tra gruppi di differenti razze. La finalità principale dell’estensione del confronto alle altre razze, è quella di chiarire l’eziologia di tali malattie. Kraepelin, inoltre, argomenta che, i disordini mentali, al pari di costumi, religione, azioni politiche e sviluppo storico, esprimono il carattere e l’individualità di una nazione. Egli nel 1904, in seguito ad una ricerca svolta a Giava nell’ospedale Buitenzorg, affermava, in un suo articolo, che le malattie mentali giavanesi sono praticamente coincidenti con quelle rilevabili in qualsiasi ospedale psichiatrico europeo. Minimizzando le differenze, Kraepelin negava pertanto l’esistenza di malattie mentali nuove e sconosciute tra la popolazione indigena, e attribuiva la causa dei tratti inusuali, dei casi clinici trovati a Giava, al «background razziale del paziente» (Kraepelin 1904 [74] : 111). Il suo scritto assumerà grazie all’autorità crescente della sua figura scientifica, una considerevole importanza, anche perché, in un certo senso, si erge a difesa delle ragioni e dei risultati della clinica occidentale. Le nozioni scientifiche da lui diffuse si sono imposto, in ambito psichiatrico, fino ai nostri giorni; è in questo stesso articolo che il celebre psichiatra tedesco introduce il termine di «Psichiatria Comparata». Interessante, soprattutto per l’influenza esercita fino ad oggi, è l’opposizione che Kraepelin traccia tra elementi patogenici (intesi come cause necessarie e sufficienti all’identificazione di un’entità nosologica) e fattori patoplastici (associati alle variazioni individuali), nella definizione eziologica del disagio psichico. Tale opposizione, infatti, si è riprodotta in campo transculturale fino ai nostri giorni, attribuendo all’elemento culturale una ruolo patoplastico rispetto alla biologia, alla quale viene assegnata un essenziale influenza patogenica nella determinazione sintomatologica dei

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disturbi mentali (Kleinman 1987a). La Cimminelli, in seguito ad un’analisi delle formulazioni kraepeliniane, sostiene che se si sostituisce «al termine ‘razziale’ il termine ‘culturale’» (1997: 91), le affermazioni di Kraepelin risultano coerenti con quelle della psichiatria transculturale di oltre mezzo secolo successive. Inoltre, continua affermando che:

Il tentativo di “comprendere ” i disturbi psichici di popolazioni diverse nel quadro nosologico della psichiatria prosegue infatti di pari passo con le varie modalità di concettualizzazione dell’ alterità via via sviluppate dalla civiltà occidentale. Al concetto di alterità biologica subentrerà il concetto di alterità culturale e le “sindromi esotiche” diverranno le culture-bound syndromes: l’introduzione del concetto di psichiatria comparata , […] , non implicherà immediatamente la revisione del paradigma classificazionista (ibidem).

Il legame tra paradigma classificazionista – inteso come il modello di cui la clinica occidentale si serve per classificare i disturbi mentali – e CBS, a cui accenna la Ciminelli, introduce l’idea della fallacia di tale concetto, ovvero del suo essere uno strumento per collocare in una precisa categoria dei “disordini” che si rivelano, altrimenti, refrattari ad ogni classificazione scientifica. Prima della Ciminelli, un altro autore italiano, Italo Signorini (1988), in un articolo in cui si proponeva di indagare «lo spavento quale referente eziologico di uno stato di malattia riconosciuto a un paziente» (25), aveva già, criticamente, sottolineato l’ambiguità e le contraddizioni della nozione di culture-bound syndrome. L’apostrofare come culturalmente caratterizzate una serie di cosiddette sindromi, non implica un’analisi del contesto in cui tali manifestazioni si palesano e assumono significato, ma piuttosto consente una facile generalizzazione. Il concetto di CBS, inoltre, ha una valenza discriminatoria in quanto distingue e svaluta, i disturbi esotici rispetto a quelli occidentali, i quali sono implicitamente considerati culture-free. Tali limiti ed altri ancora sono stati evidenziati con forza da diversi studiosi (Cassidy 1982; Ritenbaugh 1982; Karp 1985; Signorini 1988; Ciminelli 1997; Inglese – Peccarisi 1997), e ciò ha condotto ad un processo di decostruzione del concetto di culture-bound syndrome. Questo processo sarà successivamente analizzato (v. infra p. 49), per ora è più opportuno continuare il percorso storico delle CBS. Un contributo originale allo studio di disturbi esotici fu offerto da Georges Devereux . Egli, in un suo saggio del 1956 (ripubblicato in Devereux, 1978), distinse quattro tipi di categorie etnopsichiatriche di disturbi della personalità: 1) Disturbi tipici, che si riconvertono al tipo di struttura sociale. 2) Disturbi etnici, che si riconnettono al modello culturale proprio del gruppo. 3) Disturbi sacri, del tipo sciamanico. 4) Disturbi idiosincratici. Non mi addentrerò in un ulteriore approfondimento di tutte queste categorie, perché potrebbe essere fuorviante per il discorso che intendo condurre. Di

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diretto interesse, però, sono quei disordini che Devereux indica come disturbi etnici, è in questa categoria, infatti, che egli include una serie di affezioni (amok, latha, koro, windingo, etc.), che in seguito diverranno più note come culture-bound sindromes. Devereux sostiene che lo studio approfondito di un solo caso di disturbo etnico può essere più rivelatore di uno studio comparativo, e quindi superficiale, – sottolinea prontamente – di tutti i disturbi di questo tipo. L’autore asserisce che c’è una profonda similarità tra la gran varietà di disturbi etnici, che non riconduce però né ad un analogo quadro sintomatologico, né tanto meno ad un comune fattore organico o biologico. L’idea della somiglianza tra i vari disturbi etnici, viene ricondotta da Devereux, infatti, al medesimo meccanismo con cui l’influenza culturale agisce su tali manifestazioni. Nella maggioranza dei casi, egli sostiene, il gruppo ha teorie esplicite riguardo alla natura e alle cause di questi disturbi, ed idee precise sui loro sintomi, sulla loro evoluzione e sulla loro prognosi. Devereux, asserisce che nel caso dei disturbi etnici è la cultura a fornire un modello di comportamento a coloro i quali, per una qualsiasi ragione, soffrono di dissesti psichici. In situazioni di elevato stress la cultura, quindi, fornisce essa stessa all’individuo indicazioni sulle modalità di comportamento da adottare, modalità che Devereux indica come «modelli di cattiva condotta». Lo studioso francese, afferma che «ogni società comporta non soltanto aspetti funzionali, mediante i quali essa afferma e mantiene la propria integrità, ma anche un certo numero di credenze, dogmi e tendenze che contraddicono, negano e scalzano non soltanto le operazioni essenziali del gruppo, ma talora persino la sua esistenza stessa» (1978: 48). Talvolta, continua l’autore, particolarmente nelle situazioni di stress frequenti, è la cultura stessa a fornire direttive esplicite per il cattivo uso di materiali culturali. Nel caso dei disturbi etnici, è come se la cultura di appartenenza dei soggetti li esortasse a non ammalarsi, ma se ciò avviene gli fornisce un modello di comportamento da adottare. «Ogni società a idee ben ferme su come si comportano i pazzi» (51). Nei soggetti affetti da disturbi etnici, secondo la prospettiva tracciata de Devereux, quindi, la personalità non sarebbe disorganizzata al punto tale da spingerli a una rivolta totale contro l’insieme delle norme sociali. Per cui questi disordini sono indicati come dei « modelli di cattiva condotta» socialmente strutturati, in cui si verifica l’assunzione di «valori sociali antisociali, che permettono all’individuo di essere antisociale in una maniera socialmente approvata» (49). La cultura, dunque, mette a disposizioni di individui sottoposti a forti tensioni una serie di difese sotto forma di sintomi prestrutturati. La principale conseguenza di questa strutturazione culturale dei disturbi etnici, è quella di rendere il comportamento del malato prevedibile, inoltre, i sintomi culturalmente costruiti, possono essere visti come dei segnali attraverso i quali l’individuo disturbato informa la società circa la sua forma di devianza (malattia mentale) e allo stesso tempo si differenzia da altre forme di devianza (criminalità per esempio). In ogni disturbo etnico, precisa in fine Devereux, «la struttura del comportamento dell’individuo anormale è non solo conforme a quanto la società si aspetta, […], ma è anche spesso del tutto opposta alle nostre idee culturali circa la maniera in cui si comporta il pazzo» (54).

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Le formulazioni di Devereux, però, sono state a lungo inevase, si è preferito privilegiare l’aspetto sintomatologico, o lo studio della modalità con cui classificare questi disturbi esotici attraverso gli strumenti della nosografia psichiatrica tradizionale. Piuttosto che intraprendere una prospettiva interpretativa, per cogliere il significato culturale che i disturbi mentali assumono in contesti non occidentali, ha prevalso, sospinta dalla deprecabile convinzione della sua universalità, la volontà di esportare il pensiero biomedico dominante, imponendo così alle sindromi esotiche le categorie psichiatriche occidentali. L’espressione culture-bound syndrome fu coniata nel 1962 da Paw Meng Yap, uno psichiatra cinese che lavorava ad Hong-Kong. Yap, nel 1951, pubblicò «“Mental Diseases Peculiar to Certain Cultures”», nel 1962 etichettò questi disturbi come «“atypical culture-bound psychogenic psychoses”», e in seguito, nel 1967, come «“culture-bound reactive syndromes”» o semplicemente «“culture-bound syndromes”» (Prince & Tcheng Laroche 1987: 4). Altri autori hanno usato etichette alternate quali «exotic, unclassifiable, culture-reactive or culture-related specific psychiatric syndromes» (ibidem), ma l’espressione culture-bound syndrome è quella che si è più saldamente consolidata. L’introduzione del concetto di cultura, da parte di Yap, non darà vita ad un nuovo approccio metodologico, né supererà il paradigma classificazionista. Le formulazioni di Yap mostrano notevoli somiglianze con quelle di Kraepelin, permane l’attribuzione alla natura, ovvero alla biologia, della funzione di determinante universale. Lo psichiatra cinese sostituisce, quindi, il concetto di razza con quello di cultura, ma alla cultura attribuisce il ruolo di plasmare un sostrato naturale comune. Come nota la Ciminelli, «la cultura viene inserita nel paradigma esplicativo della psichiatria alla stregua di una qualsiasi delle variabili […] sino ad allora considerate: non vengono cioè recepite le indicazioni epistemologiche che il concetto di cultura in nuce contiene anche in relazione alla costruzione dei dati psichiatrici» (Ciminelli 1997: 95). Le medesime sindromi esotiche saranno ora etichettate come culture-bound syndromes, conservando però, come loro fondamentale tratto distintivo, quello dell’alterità o esoticità. Le variazioni apportate da Yap furono quindi più formali che sostanziali, tuttavia, esse esercitarono un’influenza sulla psichiatria comparata, termine introdotto da Kraepelin (1904, cit. in Ciminelli 1997: 88), che da quel momento in poi si definirà trans- o cross-culturale. Yap tentò ripetutamente di integrare le culture-bound syndromes tra le categorie del DSM (Diagnostic and Statistical Manual) pubblicato dall’American Psychiatric Association, tali tentativi però non andarono a buon fine. Il primo di essi fu tentato nel 1951 quando, lo psichiatra cinese, cercò di inserire alcune CBS nel DSM come esempi di «hysterical neuroses» (Marsella 1982/84: 370). Successivamente, come già si è detto, nel 1962 Yap utilizzò l’espressione «atypical culture-bound psychogenic psychoses», sostituita poi, nel 1967, con «culture-bound reactive syndrome» (Yap 1974: 84, cit. in Ciminelli1997: 93). La Ciminelli individua, inoltre, l’ultimo tentativo proposto da Yap di classificare le culture-bound syndromes, nella sua opera postuma «Comparative Psichiatry» (1974), in cui viene proposta la categoria nosografica delle «acute psychogenic reactions», come inclusiva

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delle CBS (ibidem). Nonostamte i limiti dell’approccio di Yap, è da riconoscere a questo pioniere della psichiatri transculturale, il merito di aver molto contribuito ad attrarre l’attenzione sulla questione di come il disturbo mentale si palesa in contesti non occidentali. É ad egli, inoltre, che viene riconosciuta la paternità del termine culture-bound syndrome, che se pure non ha svolto un ruolo rivoluzionario rispetto ai precedenti modi di concettualizzare le malattie mentali esotiche, poiché all’influenza determinante della cultura non è stato dato il dovuto peso, esso ha senza dubbio partecipato alla presa di coscienza del fatto che oltre agli elementi biologici, genetici, organici anche la cultura svolge un ruolo importante nell’insorgenza e nel decorso della malattia. Gli infruttuosi tentativi esperiti da Yap, di inserire le CBS all’interno degli strumenti della nosografia psichiatrica occidentale, furono ripresi, in tempi più recenti (1985), da Charls C. Hughes, il quale si impegnò nel trovare il modo in cui le culture-bound syndromes potessero essere integrate con le categorie per i disordini mentali, della terza edizione del Diagnostic and Statistical Manual (DSM-III; APA 1980). Hughes propose tale contributo nella sua introduzione al volume The Culture-Bound Syndromes: Folk Illnesses of Psychiatric and Anthropological Interest (Ronald C. Simons and Charles C. Hughes, eds.; Reidel, 1985), egli era motivato in questo suo progetto dalla convinzione dell’utilità cross-culturale del DSM-III. Ronald C. Simons sostiene che l’approccio di Hughes, non solo riveli la forza e i limiti del DSM-III, ma illumini anche sui problemi teoretici inerenti ad ogni tentativo di conciliare sistemi classificatori altamente disparati (1988: 525). Hughes pone l’accento sul fatto che le culture-bound syndromes abbiano uno status anomalo, all’interno della psichiatria occidentale, e ciò rappresenta per lui un’opportunità e una sfida per focalizzare l’attenzione sull’adeguatezza del DSM-III. Hughes sostiene che le CBS potrebbero svolgere il loro ruolo più significativo, offrendo al DSM-III una sfida per superare il campanilismo culturale. In fine, egli mette in discussione lo stesso termine culture-bound, il quale, come egli stesso afferma, sfortunatamente sembra aver assunto una vita propria, e invece di essere un utile costrutto che faciliti l’analisi di eventi empirici, è diventato un inibitore di tale analisi. Michal G. Kenny offre una prospettiva critica del lavoro di Hughes (1988: 513-524). Egli in relazione alle considerazioni di Hughes, circa lo status delle CBS, si chiede se e con che cosa, sia possibile rimpiazzarle, ma soprattutto se le categorie del DSM-III siano realmente migliori. Kenny, infatti, mette in dubbio l’universalità del DSM, in quanto concepito come strumento di fruizione esclusivamente nel contesto statunitense. Egli, inoltre, osserva che il DSM presenta problemi di applicabilità perfino in tale contesto, è evidente, quindi, la difficoltà e l’impossibilità di utilizzarlo al di fuori di esso, e soprattutto per le ambigue condizioni che caratterizzano le culture-bound syndromes. Essendo quindi, sia il DSM che le CBS, categorie oscure e tendenziose, Kenny si dichiara piuttosto scettico circa la possibilità di conciliarle. Nel lavoro di Hughes è avanzata la proposta di classificare le CBS all’interno del DSM-III come: «Atipical Dissociative Disorders» o in alcuni casi come «Residual Type» dei disturbi schizofrenici (Simons – Hughes 1985: 113), «Atypical Somatoform

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Disorders» o «Panic Disorders» o «Disorders Not Elsewher Classified» (193), «Isoleted Explosive Disorders» o «Brief Reactive Psychoses» o «Factitious Disorders with Psychological Symptoms» (264). Hughes afferma che la maggior virtù del DSM-III è che, concentrandosi sulle manifestazioni comportamentali del disturbo, esso tenta di evitare le sovrasemplificazioni che potrebbero sorgere da qualche modo di classificare più ontologico. Egli inoltre sostiene che, gli indicatori sociali del DSM-III (Axis IV e V) sono altamente pertinenti con la classificazione delle culture-bound syndromes, per cui, attraverso il loro uso, sarebbe possibile ottenere una miglior conoscenza e descrizione della situazione dell’ammalato. Il lavoro di Hughes, però, solleva numerose perplessità, e lo stesso autore, come dice la Ciminelli (1997), nutre dei dubbi al riguardo. Diversi autori (Beiser 1987; Good 1996; Kleinman 1987b; Kapur 1987; Lewis-Fernandez 1996; Lock 1987), si sono posti criticamente nei confronti dell’utilizzo del DSM. Essi hanno contestato l’eccessivo schematismo e riduzionismo di questo strumento, nonché l’etnocentrica tendenza occidentale a definire e classificare stati morbosi, o presunti tali, riscontrabili in culture altre, attraverso le sue categorie diagnostiche. Margaret Lock (1987) in riferimento al DSM-III, sottolinea che i sintomi considerati separatamente dall’individuo nella sua totalità e ridotti a statistiche, diventano essenzialmente insignificanti. A livello di un insieme di sintomi o di sindromi, continua l’autrice, il problema diventa ancora più complesso. La Lock sostiene, che non si può presupporre, per esempio, che la depressione, i disturbi d’ansia, o la sintomatologia da menopausa, siano entità universali, né che concetti, apparentemente, semanticamente equivalenti siano interpretati, perfino da professionisti biomedici, nello stesso modo. Fare esclusivo riferimento a segni o sintomi manifestamente tangibili e rilevabili è, sentenzia l’autrice, in se stesso un approccio culturalmente costruito. La diagnosi, inoltre, ella afferma, è un processo sociale, una costruzione frutto dell’interazione tra paziente e psichiatra. È quindi evidente, sostiene l’autrice, che i segni e i sintomi in medicina non possono essere considerati come entità statiche e soggette a comode tipologie. La Lock asserisce con forza che riducendo le sindromi culturalmente determinate alle categorie diagnostiche, professionalmente costruite, del DSM-III, si otterrà come conseguenza una insignificante astrazione. Arthur Kleinman (1987b), in accordo con le formulazioni della Lock, fa notare che «noi viviamo in un mediato, fenomenologico, mondo umano in cui la percezione così come l’azione, l’interpretazione così come l’esperienza sono il frutto di una dinamica dialettica tra costrizioni biofisiche e costruzioni culturali (ma anche personali). Il risultato è un mondo simbolico in cui la struttura sociale si estende entro l’interiorità del corpo-mente della persona e i processi fisiologici risuonano sistematicamente con le relazioni» (Kleinman 1987b: 29). Kleinman, criticamente sottolinea che la psichiatria, inesorabilmente, cerca di ridurre tutto il “rilevante” della realtà umana, a una sintetica lista di stati morbosi mutuamente esclusivi. Essa è avversa ad accettare ambiguità, incertezza, indeterminazione; riduce la complessità dell’esperienza individuale, alle generalizzazioni di un ridotto numero di classi psicologiche o fisiologiche. Essa trasforma problemi sociali in disturbi medici. L’autore continua ancora nella sua aspra critica,

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affermando che inoltre la psichiatria divide la mente dal corpo, le facoltà cognitive da quelle emotive, la teoria dalla descrizione in accordo con l’etnopsicologia dominante nella tradizione occidentale3. Seri problemi, sostiene Kleinman, insorgono quando i criteri diagnostici occidentali sono applicati a pazienti non occidentali. Il DSM-III, asserisce lo studioso americano, è un sistema simbolo che condensa significati profondi e orientamenti di valore della società americana, della psichiatria americana e della politica della American Psychiatric Association. Kleinman ritiene inaccettabile che in società non occidentali, dove risiede più dell’80% della popolazione mondiale, le principali categorie di malattie devono essere relegate ai disturbi affettivi atipici, a disturbi da ansia atipici e a molte altre categorie “atipiche”. La sola cosa “atipica”, fa notare sarcasticamente l’autore, è considerare le popolazioni nord americane ed europee come modello attraverso cui determinare delle tipologie cliniche, in un mondo in cui esse sono solo una distinta minorità (sebbene la più potente). L’autore insiste nel sottolineare che «certi sintomi in società non occidentali non possono essere direttamente tradotti lessicalmente nei principali linguaggi euro-americani. Essi devono essere compresi nei termini della loro più ampia metaforica rete di significati. […] I sintomi sono idiomi di sofferenza. I clinici traducono questi idiomi di dolore in segni di malattia; il lavoro del clinico, dunque, è completamente semiotico. L’interpretazione si verifica nel definitivo atto di riduzione attraverso cui l’esperienza personale e culturale unica della sofferenza è trasformata in un tipo di malattia o in un “caso”» (idem 51). Kleinman conclude, ponendo l’accento sull’errore nel tradurre agevolmente centinaia di idiomi di disagio culturalmente specifici, in segni e sintomi “oggettivi” da ricondurre ad una patologia nota in occidente. La questione del rapporto tra sistemi di classificazione e disturbi culturalmente determinati, conduce l’autore ad un’aspra e inevitabile critica del DSM-III. Good (1996) e Lewis-Fernandez (1996), focalizzano la loro attenzione sull’ultima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: DSM-IV4. Byron Good, pur riconoscendo la maggiore importanza data all’influenza degli elementi culturali, nella determinazione dei disturbi mentali, in quest’ultima revisione del DSM,

3 Ancora una volta, con fare polemico, Kleinman afferma la sua decisa idea relativista. Non a caso si serve del termine «etnopsicologia»; egli, infatti, attraverso l’utilizzo del prefisso “etno” intende sottolineare che la “psicologia” occidentale, intesa come il modo umano di pensare e di agire, non ha una valenza universale – come spesso implicitamente si cerca di affermare – ma è piuttosto un costrutto locale, solo una delle tante etnopsicologie, seppure quella dominante, che si possono rilevare nelle diverse società umane. 4 Le CBS, nonostante i propositi, non troveranno posto neanche all’interno degli assi diagnostici di quest’ultima revisione del DSM. Tuttavia – probabilmente a scopo riparatore – in questa edizione è stato inserito un glossario all’interno del quale sono contenuti i nomi di 25 culture-bound syndromes accompagnate da una breve descrizione.

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rispetto alle edizioni precedenti, comunque si pone polemicamente nei confronti di questo strumento diagnostico. Ci sono generiche difficoltà, argomenta l’antropologo americano, nel tentativo di costituire un manuale diagnostico che rifletta fedelmente la diversità di una società multiculturale. Particolari influenze culturali sono inevitabili: non può esistere una prospettiva completamente libera dai condizionamenti culturali, attraverso cui definire la malattia mentale. Inoltre, sostiene Good, ogni sforzo per spiegare i disturbi psichiatrici come unici di particolari culture, spesso si fonda su stereotipi, e accresce le possibilità di stigmatizzazioni. L’autore contesta la netta distinzione tra malattie psichiche, considerate come entità biologiche universali, e le forme di esperienza, e le interpretazioni culturali di quelle esperienze, che riguardano singoli individui o gruppi sociali. Egli contesta l’egemonia di particolari forme di scienza, il fallimento nel combinare l’impegno nell’accrescere la conoscenza della neurobiologia delle malattie mentali, con un uguale impegno nel riconoscere e comprendere l’origine sociale delle psicopatologie, e nello sviluppare effettivi interventi sociali. In fine Good contesta le, troppo comode, pretese di universalità della psichiatria occidentale, ovvero, l’idea secondo cui ciò che si osserva e si rileva in riferimento alla classe medio alta della popolazione europea ed americana, sia generalizzabile a tutta l’umanità. A pagare le spese di tutto ciò sono sempre i più poveri, quelli che vivono a margini della nostra società, gli immigrati, i soggetti appartenenti a minoranze sociali. Sovente il disagio di questi individui è frainteso, male interpretato ed essi sono confinati in squallidi reparti psichiatrici, medicalizzati come malati di mente e trattati con neuorolettici e antidepressivi. Gli individui più poveri e disagiati sono dunque vittime di uno sterile processo di imposizione di etichette patologiche, la loro sofferenza è destinata ad essere incompresa da chi si ostina in un atteggiamento che diagnostica e cura prima ancora di osservare e capire. Good, ritiene indispensabile un serio impegno per fronteggiare i meccanismi di potere, che sono causa della marginalizzazione di molte persone e gruppi nella nostra società. Ritornando alle proposte di classificazione delle CBS, un contributo più originale rispetto a quello di Hughes, risulta essere l’approccio di Simons, anch’esso pubblicato all’interno del volume The Culture-Bound Syndromes (1985) di cui Hughes e Simons sono i curatori. Simons aspira ad un modello multidisciplinare, all’interno del quale fattori biologici, psicologici, sociali e culturali possano essere considerati insieme, e tenta di sviluppare uno schema tassonomico che possa apportare chiarezza all’interno della confusa situazione che caratterizza le culture-bound syndromes. Kenny (1988) definisce tale approccio etologico, poiché Simons, come un etologo, fa particolare attenzione alla situazione in cui il disturbo si manifesta, accuratamente seleziona le somiglianze e le differenze tra gli elementi comportamentali, e indaga per spiegare quegli elementi che sembrano trascendere i limiti culturali. Egli sostiene, afferma ancora Kenny, che nel caso delle culture-bound syndromes le somiglianze spesso saranno biologiche e le differenze culturali. Per cui il pensiero di Simons, come opportunamente fa notare Kenny, è che sebbene i significati culturalmente assegnati di date afflizioni possono cambiare, il processo soggiacente resta lo stesso. Egli inoltre afferma che, se un dato elemento

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comportamentale appare in diverse culture, questa è una prova provvisoria dell’esistenza di un fattore comune, non spiegabile dalla cultura. Simons propone un sistema per classificare le culture-bound syndromes all’interno di taxa. Hufford (1988) spiega che il termine taxon è stato preso a prestito da Simons dalla biologia, e sta ad indicare un raggruppamento basato sulla somiglianza, degli elementi raggruppati, senza specificare il livello di astrazione di tale somiglianza. Adattare tale sistema per le CBS, consentirebbe di superare le difficoltà e le ambiguità che sorgono, invece, con l’utilizzo di termini locali. I taxa, all’interno dei quali Simons raggruppa le tradizionali culture-bound syndromes, sono inseriti in vaste categorie in base all’ordine decrescente di un supposto coinvolgimento biologico. Schematicamente possiamo sintetizzare il modello di Simons riducendolo a tre categorie principali. La prima delle quali ( I ), quella con il più alto grado di ipotizzabile coinvolgimento biologico, contiene taxa per i quali è sostenibile la presenza di un fattore neurofisiologico strutturante; la seconda ( II ), quella con un leggermente inferiore coinvolgimento, contiene taxa in cui il fattore neurofisiologico strutturante, è solo presumibile; la terza ( III ), quella con un oscuro coinvolgimento biologico, contiene culture-bound syndromes per le quali non è ipotizzabile un fattore neurofisiologico strutturante, e che quindi, probabilmente, non dovrebbero più essere considerate tali. Nel designare i rispettivi taxa, come si è già detto, Simons abbandona le etichette esotiche in favore di una terminologia riflessiva delle somiglianze cross-culturali, per cui le tradizionali CBS saranno classificate nel modo seguente: Ia: The Startle Matching Taxon – latah etc. Ib: The Sleep Paralysis Taxon – old hag etc. IIa: The Genital Retraction Taxon – koro etc. IIb: The Sudden Mass Assault Taxon – amok etc. IIc: The Running Taxon – pibloktoq etc. IIIa: The Fright Illness Taxon – susto etc. IIIb: The Cannibal Compulsion Taxon – windingo ( esclusivamente). Il lavoro di Simons si rifà ad un modello multifattoriale e multicausale, nella spiegazione delle CBS, cioè , un modello in cui i fattori ambientali, culturali, psicologici e biologici sono inclusi come elementi interattivi e determinanti nell’esperienza e nel comportamento umano. Tuttavia però, come nota la Ciminelli (1997), permangono forti similitudini tra l’approccio di Simons e quello di Kraepelin, di quasi un secolo precedente. Sostiene infatti Ciminelli, che nonostante si assista «ad una graduale attenuazione e restrizione del campo di causalità alla natura: certo più sofisticato rispetto al concetto pseudoscientifico di razza, i taxa mediante i quali Simons ordina le CBS rispondono tuttavia, […], alla medesima ricerca di universali biologici, pur se non più intesi come determinanti esclusivi.» (1997: 100). Potremmo dire quindi, parafrasando Clifford Geertz (1984), che anche per Simons, nell’affrontare le culture-bound syndromes, la biologia resta la torta, e la cultura viene ridotta alla glassa, per cui le somiglianze

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sono considerate essenziali, e le differenze superficiali. Come si è visto, nel corso del tempo, le culture-bound syndomes sono state oggetto di trasformazioni terminologiche e concettuali, nonché di disparati tentativi di ordinamento tassonomico. Alla base di tali tentativi però, è possibile rintracciare una medesima motivazione, cioè quella di trovare un comune denominatore, un fattore naturale universale, che consentisse di categorizzare un fenomeno che appare, invece, piuttosto refrattario ad ogni tentativo di classificazione scientifica. Col tempo, dunque, alle sindromi esotiche viene attribuita una valenza culturale, trasformandole nelle culture-bound syndromes, le quali sono sottoposte a, più o meno riusciti, tentativi di collocazione all’interno degli strumenti della nosografia occidentale. Si fanno strada poi, approcci con velleità interdisciplinari, che si adoperano nel fornire ipotesi multicausali nella spiegazione delle CBS. Nonostante le evoluzioni e le modifiche, permane, comunque, una bramosa necessità di fondo, quella cioè di ricondurre le culture-bound syndromes ad un fattore biologico comune e sovradeterminante, che consenta di semplificare un fenomeno, altrimenti, troppo eterogeneo e multiforme.

CAPITOLO SECONDO

ESCLUSIONISMO VERSUS INCLUSIONISMO:

DECOSTRUZIONE DEL CONCETTO DI

CULTURE-BOUND SYNDROME

L’antropologo Robert Hahn, indicò tre differenti prospettive circa le culture-bound syndromes; una, egli sostiene, potrebbe essere indicata come «‘Exclusionist’», le altre due come «‘Inclusionist’» (1985: 166). Hahn distingue le due posizioni inclusioniste, per la diversa modalità con cui i fattori ‘natura’ e ‘cultura’ sono considerati. Egli, infatti, indica una posizione come «‘Nature-Culture Continuum’», e l’altra come «‘Nature-Culture Egalitarian’» (ibidem). La prospettiva esclusionista, circa le CBS, è suggerita, afferma Hahn, dalla stessa frase culture-bound syndrome, essa, infatti, implicitamente presuppone che alcune condizioni siano culturalmente determinate, e altre no. Pertanto, le condizioni che non sarebbero culturalmente determinate, potrebbero essere considerate «culture-free» (ibidem), e quindi, probabilmente, determinate da fattori biologici e fisiologici universali. Secondo l’ottica esclusionista se un fenomeno è indicato come culture-bound, è esclusa la possibilità che esso possa essere altrimenti determinato, e viceversa. Si crea, quindi, una netta divisione tra condizioni che sono chiaramente culturalmente determinate, cioè il cui fattore causale fondamentale risulta essere la cultura, e quelle che sono, invece, chiaramente universali, ovvero, il cui fattore causale fondamentale risulta essere naturale, biologico, invariante cioè in ogni luogo e situazione. La contrapposizione tra fenomeni culture-bound/culture-free si rifletterebbe, secondo Hahn, anche a livello di una divisione disciplinare, secondo cui, le

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culture-bound syndromes sarebbero oggetto di indagine da parte di psicologi ed antropologi, mentre, l’altro tipo di condizioni, sarebbe oggetto di esame da parte della medicina e psichiatria. Hahn osserva che la prospettiva esclusionista si rifà, nella spiegazione di un presunto disturbo mentale, alla contrapposizione tra «‘disease’», che associa il disturbo a invarianti patologiche universali, e «‘illness’», che lo associa, invece, con le particolarità culturali (Kleinman et al. 1978 , cit. in Hahn 1985: 167)5. La posizione esclusionista, a mio avviso, pecca di una profonda presunzione etnocentrica. Essa, infatti, si basa sull’idea secondo cui è possibile distinguere disordini mentali culturalmente determinati (culture-bound), da quelli invece liberi da simili condizionamenti (culture-free). Tale assunzione, però, cade in una sorta di discriminazione, che consiste nel considerare le patologie occidentali, determinate da fattori biologici universali, mentre, relega i condizionamenti culturali, esclusivamente alle culture “altre”. Una simile visione, «equivale a sostenere che gli occidentali si ammalano per cause profonde e razionali (eziologie biologiche) mentre gli “altri” si ammalerebbero per cause superficiali e irrazionali (superstizioni e “credenze”)» (Inglese & Peccarisi 1997: 17). Tale superficialità epistemologica fu evidenziata già da Kleinman nel 1977, il quale indicò come «category fallacy» l’errore da parte della psichiatria occidentale nel considerare le categorie, utilizzate per classificare i disturbi psichiatrici, come entità nosografiche universali, prive cioè di condizionamenti culturali (Kleinman 1977: 4). L’influenza dell’elemento culturale quindi, sarebbe relegato a contesti non occidentali. In Occidente, invece, la ricerca eziopatogenetica dei disturbi mentali, imbrigliata da un’ansiosa volontà di trovare fattori causali organici o fisiologici, tenderebbe a marginalizzare, o addirittura escludere, l’elemento culturale. Una simile prospettiva trascura la nozione fondamentale, su cui insistono gli antropologi, che il ruolo della cultura non può essere minimizzato, in quanto essa è alla base, come fa notare Kleinman (1977), del modo in cui la malattia viene da noi concepita. Il sintomo non può essere ridotto esclusivamente ad un presunto fattore organico biologicamente innato ma, piuttosto – ritengo – che sia molto più fecondo focalizzare l’attenzione anche sul modo in cui in ciascuna situazione, occidentale o non, un disturbo sia socialmente costruito. A tale proposito condivido a pieno l’idea espressa da Inglese & Peccarisi (1997), secondo cui la cultura ordina le malattie e i relativi meccanismi di trattamento e terapia. Un 5 Robert Hahn, qui fa riferimento a due concetti che hanno uno specifico significato nell’ambito dell’antropologia medica. La ricerca terminologica di questa disciplina, infatti, ha elaborato un estensione dei termini disease, illness e sickness che nella lingua inglese rappresentano tre diversi modi per esprimere il concetto di malattia. In antropologia medica, dunque, con disease, si intende l’alterazione organica riconosciuta dai paradigmi scientifici della biomedicina; illnes, invece, sta ad indicare l’esperienza individuale dell’essere malato, ovvero, la percezione personale di uno squilibrio nel proprio stato di benessere (Eisenberg 1977); con il termine sickness si intende, infine, ogni modalità di categorizzazione sociale della malattia, e delle strategie di prevenzione e cura della stessa (Young 1982).

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determinato disturbo, e i modi in cui esso è affrontato e risolto, in un dato contesto culturale, sono il frutto di una condivisione di significati da parte dell’intera comunità. Un’affezione può essere intesa come una rappresentazione, che varia a seconda dell’ambiente, i cui attori sociali sono: da una parte coloro che manifestano il sintomo disturbante, e dall’altra quelli che si fanno carico di risolverlo, nonché l’intera comunità che è partecipe del processo di definizione dell’evento morboso. Come dicono Inglese & Peccarisi:

[…] le culture selezionano e prescrivono modi altamente specifici di ammalarsi. Tale concezione statuisce che il fenomeno morboso si innesta organicamente nel processo costitutivo e costruttivo dell’identità etnica e culturale di una collettività. Le fenomenologie morbose esibite sono pertanto altrettante partiture attraverso cui viene conseguentemente rappresentata l’identità profonda che l’individuo assume nel corso dei processi di affiliazione e di addestramento sociale e culturale. La cultura, cioè, prescrive (ordina) modalità specifiche di malattia rispetto alle quali conosce e offre modalità altrettanto selettive di terapia e trasformazione. La natura del malato viene pertanto sempre inquadrata e risolta all’interno dei saperi generali elaborati dalle diverse culture (1997: 18). In virtù di tali considerazioni, appare estremamente limitativo considerare i fattori culturali, quali ostacoli lungo il percorso che dovrebbe condurre a individuare elementi biologici universali nell’eziologia di disturbi occidentali, o confinarli ad un ruolo causale, esclusivamente nell’insorgenza di disordini diffusi in contesti non occidentali. Risulta poi, a mio avviso, ingenuo il tentativo di comprendere e risolvere, quelle che sono state etichettate come “sindromi culturali”, con gli strumenti teorici e pratici propri della clinica occidentale. Tutto ciò mi appare improbabile, poiché penso che sia possibile affermare, adattando al campo della medicina un’espressione che Geertz (1988)6 applica all’arte, che la malattia e l’attrezzatura per afferrarla si fabbricano nella stessa bottega. I sistemi diagnostici e terapeutici sono radicati in una data cultura; essi sono intimamente connessi con il sistema di valori, la storia, l’organizzazione sociale, le tradizioni mitologiche e religiose di ciascuna cultura. Inoltre, anche i concetti di salute e malattia non hanno un significato universalmente condiviso ma, piuttosto, essi variano secondo le diverse latitudini e longitudini. Diagnosticare, trascurando o minimizzando il retroterra cultura dei pazienti, può condurre a grossolani errori, quali etichettare come patologici fenomeni che sono, invece, considerati del tutto normali nelle culture in cui si manifestano. La psichiatria occidentale, nelle sue espressioni peggiori, offuscata da un delirio di onnipotenza, rigetta e nega i successi di pratiche cliniche adottate da culture non occidentali. Riconoscere l’efficacia terapeutica di rimedi tradizionali, appartenenti a culture diverse dalla propria, probabilmente minerebbe le ambizioni egemoniche, e la cieca convinzione dell’infallibilità e universale validità del proprio metodo clinico, che buona parte di medici e psichiatri strenuamente difende. Ogni comunità

6 L’affermazione di Clifford Geertz è la seguente: «L’arte e l’attrezzatura per afferrarla si fabbricano nella stessa bottega » (1988: 150)

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umana, come ci fanno notare Inglese & Peccarisi (1997), assegna un proprio valore e statuto alla persona, al corpo, alle emozioni. Ogni cultura possiede, inoltre, una concezione ben determinata circa l’anatomia, la fisiologia, la patologia, che è indispensabile conoscere affinché qualsiasi trattamento terapeutico possa rivelarsi realmente efficace. Ritornando alle prospettive individuate da Hahn (1985) circa le culture-bound syndromes, come si è detto, oltre a quella esclusionista, egli ne descrive altre due che definisce inclusioniste. La prima, di tali posizioni, è indicata come nature-culture continuum, mentre, la seconda, che Hahn spiega essere una versione specifica della prima, come nature-culture egalitarian. Le due prospettive inclusioniste differiscono, dunque, per le modalità con cui il peso dei fattori naturali e culturali è considerato determinante nelle CBS. La posizione nature-culture continuum, sostiene che tutti gli eventi umani, inclusi quelli supposti culture-bound, hanno aspetti culturali, naturali, cognitivi e psicodinamici, sebbene alcuni eventi sono più profondamente costituiti da uno di questi aspetti che da altri. Pertanto, diversamente da quello che sostengono gli esclusionisti, nessuna condizione è esclusivamente culture-bound o culture-free, ma alcune potrebbero essere ampiamente culturalmente caratterizzate, altre principalmente determinate da fattori fisiologici universali. Per cui, secondo tale prospettiva, gli elementi ereditari, biologici, psicologici e culturali hanno un peso maggiore o minore in differenti condizioni. Un difficile problema, potrebbe sorgere dalla possibilità di quantificare le proporzioni in cui i differenti fattori, contribuiscono nel determinare date condizioni. La posizione nature-culture continuum, dunque, colloca i fenomeni patologici lungo uno continuo, alle cui estremità si trovano da una parte fattori biologici, fisiologici, dall’altra fattori psicologici, culturali. Tale approccio, quindi, spiegherebbe l’influenza dei fattori naturali e culturali nella determinazione di un fenomeno morboso, in termini di grado. Ovvero, affezioni quali il morbillo, per esempio, potrebbero occupare il limite naturale, fisiologico di tale spettro, mentre, le culture-bound syndromes l’altro. Non è chiaro però che tipo di condizioni potrebbero cadere tra i due estremi, probabilmente, ipotizza Hahn, disturbi quali la depressione e l’alcolismo. Hahn, vede nelle formulazioni di Yap (1969) una adesione alla variante continuum della posizione inclusionista. Yap, infatti, asserisce che le culture-bound syndromes si adattano all’interno di una nosologia psichiatrica universale, e assumono forme insolite a causa di distintive condizioni culturali locali. Benché, egli facesse una chiara distinzione tra condizioni organiche e funzionali, riconosceva effetti biologici, oltre a quelli culturali, in entrambe. Anche l’approccio di Simons (1985), e in genere degli psichiatri inclini ad un modello multifattoriale, è riconducibile alla posizione nature-culture continuum. Simons, infatti, afferma: Comunque, Io credo che in almeno alcune delle sindromi gli effetti di fattori psicologici, sociali, e culturali sono mescolati con gli effetti dei fattori biologici in modi intricati […]. E’ possibile, e Io credo in alcuni casi necessario, considerare fattori in molte discipline simultaneamente (1985: 3, cit in Hahn 1985: 168, trad. mia).

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Appare evidente da questa citazione, la volontà di superare la netta contrapposizione disciplinare che era stata proposta dalla posizione esclusionista. Simons, infatti, anela ad un approccio interdisciplinare, che si adoperi nel fornire una spiegazione multicausale delle culture-bound syndromes, in altre parole, un paradigma che riconosca la presenza di concause nella determinazione di tali condizioni. Nonostante tutto però, come già si è detto (v. infra p. 34), se si analizzano più accuratamente sia le formulazioni di Yap sia quelle di Simons, si evince che esse conservano l’antinomia patogenico/patoplastico. Infatti, il legame intercorrente tra biologia e cultura, è spiegato in modo tale da assegnare alla prima il potere causativo (patogenico), e alla seconda quella di dare una forma espressiva apparente (patoplastico). Permane dunque l’idea di una sorta di subordinazione degli elementi culturali rispetto a quelli naturali per cui, nei termini di tali concettualizzazioni, il biologico si contrappone al culturale come: il contenuto alla forma, l’universale al particolare. La seconda versione della prospettiva inclusionista, individuata da Hahn, consiste nell’attribuire un valore causativo uguale, sia agli elementi naturali, sia a quelli culturali. Tale posizione, che è appunto indicata come nature-culture egalitarion, si pone, spiega Hahn, a metà strada lungo il continuum tra natura e cultura. Essa, asserisce che tutte le condizioni umane sono ugualmente naturali, culturali, sociali, cognitive, psicologiche, psicodinamiche etc. Tale posizione risulterebbe essere, per tanto, secondo Hahn, una versione specifica della modalità nature-culture continuum. Essa, propone l’idea secondo cui la cultura, la biologia, e cosi via, sono ugualmente rilevanti nella comprensione e spiegazione di tutti i fenomeni umani. Una simile prospettiva prende, dunque, le distanze dalle distinzioni operate dalla corrente esclusionista, e pone invece sullo stesso piano, per esempio, disturbi quali il morbillo, la depressione e le culture-bound syndromes. La modalità egalitarion della posizione inclusionista sostiene, quindi, che tutte le sindromi sono ugualmente culture-bound pertanto, tale concetto risulta essere inutile e superfluo. Naturalmente, se la nozione di culture-bound syndrome è intesa come onnicomprensiva di qualsiasi disturbo, partendo dal presupposto secondo cui la determinante culturale sarebbe presente in ogni manifestazione di un sistema culturale, viene minata la coerenza logica della categoria CBS. Tale categoria, infatti, è stata costruita per etichettare quelle ‘sindromi esotiche’ che non avrebbero trovato, altrimenti, nessuna collocazione nei paradigmi della nosografia occidentale. Includendo, invece, nel concetto di CBS qualsiasi sindrome, rilevabile in qualsiasi contesto culturale, si paleserebbe la possibilità di abbandonare una simile nozione, in quanto, fallace e di dubbia utilità. Dato che l’espressione culture-bound syndromes, è stata coniata per indicare le qualità idiosincratiche di sindromi ‘altre’, cioè tipiche di collettività umane delimitate, se esso è inteso come indicativo di qualsiasi morbosità, è chiaro che si sfalda la sua valenza semantica, ed è messa in discussine la ragion d’essere di tale categoria. La posizione nature-culture egalitarian, è illustrata dal lavoro di Lehrman (1970, cit. in Hahn 1985: 168), uno psicofisiologo che, pur non facendo riferimento a nessuna patologia in particolare, insiste nell’affermare che ogni comportamento è al 100% determinato dall’influenza della biologia, e al 100% determinato

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dall’influenza della storia esperienziale. Più interessanti, per inquadrare l’approccio egalitario alle CBS, risultano essere i lavori di Cassidy (1982) e Ritenbaugh (1982). Le due autrici americane, hanno riformulato il concetto di culture-bound syndrome in un articolo, rispettivamente, sulla P.E.M. (protein-energy malnutrition) e sull’obesità. Cassidy e Ritenbaugh partono dal presupposto secondo cui tutte le società si preoccupano delle malattie e, tutte, sviluppano significati per spiegarle e trattarle, e per preservare lo stato di salute. Questi modelli esplicativi sono, secondo le due studiose americane, espressivi dei valori fondamentali di ciascuna società; è pertanto discutibile limitare le culture-bound syndromes all’esotico. Le due autrici nei due differenti articoli, pubblicati sullo stesso numero della rivista «Culture, Medicine and Psychiatry» (6, 1982), forniscono una ridefinizione del concetto di CBS che si dispiega in quattro punti fondamentali. Esse scrivono:

Una culture-bound syndrome è una costellazione di sintomi che è stata categorizzata come una disfunzione o malattia. Essa è caratterizzata da uno o più dei seguenti punti: (1) Non può essere compresa al di fuori del suo specifico contesto culturale o subculturale. (2) L’eziologia sintetizza e simbolizza i significati profondi e le norme comportamentali di quella cultura. (3) La diagnosi si basa su di una tecnologia oltre che su di un’ideologia culturalmente specifiche. (4) Il successo nel trattamento è ottenuto solo dai membri di quella cultura (Cassidy 1982: 326 e Ritenbaugh 1982: 351, trad. mia).

Attraverso la ridefinizione del concetto di culture-bound syndrome, Cassidy e Ritenbaugh vogliono dimostrare che il condizionamento culturale è comune, ed è insito nelle categorie biomediche occidentali come in quelle non occidentali. Le argomentazioni delle due autrici conducono a quello che potrebbe essere indicato come un processo di decostruzione logica della categoria CBS (Karp 1985; Hahn 1985; Hufford 1988; Ciminelli 1997). I concetti di folk illness prima, e quello di culture-bound syndrome poi, infatti, sono stati costruiti per classificare una serie di disturbi, principalmente mentali, refrattari all’essere inseriti nelle griglie della nosografia psichiatrica occidentale. Tali concetti, dunque, avevano la finalità di essere indicativi di ‘particolari’ disordini riscontrabili in culture altre. Allargando, invece, come fanno Cassidy e Ritenbaugh, la categoria CBS, intendendola come un contenitore entro cui poter includere qualsiasi tipo di disturbo, riscontrabile in qualsiasi contesto, si minano le fondamenta su cui tale costruzione logica si basa e se ne provoca un’esplosione. Le due autrici, infatti, sostengono che la designazione di una malattia si basa su di un processo di astrazione della realtà esperienziale, attraverso l’utilizzo di modelli esplicativi che non sono universali, ma idiosincratici di ciascuna cultura; pertanto qualsiasi determinata entità morbosa risulta essere culture-bound. L’idea secondo cui anche in Occidente l’attribuzione causale è culturalmente determinata, è stata ampiamente misconosciuta a causa della tendenza, tra gli scienziati biomedici, a trattare la scienza come culturalmente libera (culture-free), e universalmente comprensibile ed esportabile. Un simile atteggiamento, come sottolinea criticamente la Ciminelli (1997), può essere riscontrato sia in Hahn (1985) che in Prince (1987), i quali

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manifestano una sorta di rifiuto nell’accettare le conclusioni di Cassidy e Ritenbaugh, ed abbandonare il concetto di CBS. Robert Hahn, infatti, dopo aver presentato l’approccio egalitarion alle culture-bound syndrome, e riconosciuto che esso sfalda tale concetto, ne prende le distanze. Lo psichiatra Raymond Prince, invece, addirittura fornisce una nuova definizione di culture-bound syndrome, per evitare che se ne depauperi la valenza semantica fino a provocare la scomparsa di tale concetto. Prince, infatti, afferma di opporsi all’idea secondo cui qualsiasi disturbo sia culture-bound, e come reazione a questa «deriva verso l’insensatezza» (1987: 3), cui le formulazioni di Cassidy e Ritenbaugh sembrano condurre, propone una definizione di CBS intesa come una costellazione di segni e sintomi, esclusa la nozione di causa, che è ristretta ad un limitato numero di culture principalmente per ragioni legate ad alcune delle loro caratteristiche psicosociali. Egli, inoltre, spiega che intende escludere dalla sua definizione i riferimenti eziologici e i nomi indigeni dei vari disturbi, perché estremamente forvianti e mutevoli, mentre l’insieme di segni e sintomi sarebbe costante nel tempo e verificabile da qualsiasi ricercatore. Dalle affermazioni di Prince si palesa un intento reazionario, che riafferma la vecchia idea di CBS come indicativa di disturbi esotici, e cerca di offuscare la rivoluzione concettuale apportata invece da Cassidy e Ritenbaugh. Il fatto che, fanno notare queste due autrici americane, la biomedicina non includa, o marginalizzi, la cultura nel suo modello esplicativo di base, porta a non individuare culture-bound syndrome all’interno delle culture occidentali e del sistema biomedico; conduce, inoltre, alla ridefinizione di sindromi di altre culture nei termini biomedici, cosi che importanti elementi culturali saranno trascurati nel processo di diagnosi e terapia. Cassidy e Ritenbaugh, inoltre, insistono sulla necessità da parte dei terapeuti, per ottenere un intervento di successo, di riconoscere e accettare che essi e i pazienti potrebbero far riferimento a modelli esplicativi, culturalmente determinati, completamente differenti. Se ciò si verifica non si instaura un processo comunicativo, e il terapeuta e il paziente saranno destinati a non intendersi, e la terapia, inevitabilmente, a fallire. L’errore nel quale non si deve cercare di incappare è quello di ricondurre le manifestazioni morbose del paziente al proprio modello esplicativo, poiché ciò, con molta probabilità, determinerà nel paziente l’impressione di non essere ascoltato e compreso, e lo spingerà a rigettare la spiegazione causale e il trattamento che gli viene offerto. Il grado di incomprensione, tra terapeuta e paziente, sarà tanto maggiore quanto più alto sarà il grado di divergenza tra i rispettivi modelli, e quest’incomprensione, che non è rara nella pratica biomedica occidentale, diviene particolarmente evidente quando la biomedicina è esportata. Ogni terapeuta, ci dicono dunque le due autrici, dovrebbe imparare a sintetizzare e integrare i diversi modelli, senza rigettare ne dare per scontato quelli del paziente. Particolarmente interessante, in questa prospettiva, è anche un articolo di Ivan Karp (1985), il quale pur non facendo alcun riferimento esplicito ai lavori di Cassidy e Ritenbaugh, presenta forti analogie concettuali con queste due autrici. Karp partendo dal presupposto, espresso da Devereux (1956), secondo cui il limite tra normale e anormale negli studi cross-culturali è estremamente difficile

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da tracciare, sferra un’accesa critica al concetto di culture-bound syndrome. Egli rivendica la valenza comunicativa di quelle cosidette sindromi, insistendo nell’affermare che esse sono veicoli per la comunicazione, sono atti sociali, mezzi attraverso cui si ridefinisce il proprio rapporto con la società. La connessione tra CBS e disturbo mentale, dice Karp, è spesso discutibile. Infatti, sotto questa etichetta, sono collocati una varia collezione di comportamenti che formano una categoria solo per le difficoltà di interpretazione che pongono ad osservatori esterni, e non perché abbiano in comune reali fattori di similarità. I comportamenti, asserisce ancora l’autore, che vengono indicati come culture-bound syndrome, sono spesso strumenti attraverso cui si esprime una problematica relazione tra il sé e la società. Una caratteristica, infatti, di tali comportamenti, è che essi drammatizzano aspetti concreti e non verbali della relazione tra il sé la società e l’altro. Alcune CBS, sostiene Karp, potrebbero essere esaminate come rituali e drammatiche forme che cercano di raggiungere i loro scopi attraverso la trasformazione del comune, l’ordinario, in straordinario. L’autore poi rivolge la sua critica al modello tassonomico, che tenderebbe, a suo avviso, a degenerare verso un modo di fare simile al «collezionare farfalle in base alle loro somiglianze superficiali» (223). Questo è infatti, sostiene Karp, ciò che si è verificato con la categoria culture-bound syndrome, poiché essa è il prodotto di un’acritica applicazione di nozioni basate su criteri medico-psichiatrici occidentali ad altre società. Karp, asserisce che il concetto di CBS nasconde molto più di quello che sembra rivelare, poiché esso combina molte forme disparate sotto un’unica etichetta. L’autore ritiene che alcune culture-bound syndromes costituiscono sottoclassi di una più ampie categoria, che potrebbe essere indicata come agire sociale. Il significato di un’azione sociale, continua ancora Karp, non è trasparente, e potrebbe probabilmente risiedere nella relazione tra ciò che è stato fatto e il contesto in cui ciò è avvenuto, tra testo e contesto. Le azioni non possono essere comprese indipendentemente dall’ambiente in cui esse si manifestano. Gli osservatori che, ammonisce l’autore, considereranno superficialmente le sfumature culturali, falliranno nella comprensione del metamessaggio che l’azione esprime. Spesso il senso di un’azione non risiede nel suo contenuto, ma nel modo in cui tale contenuto è rappresentato. Karp si chiede, retoricamente, perché i significati profondi sono così spesso oscuri agli osservatori, e poi, immediatamente dopo, afferma che la risposta è da ricercare nell’imposizione di categorie etnocentriche e nell’insensibilità verso le sfumature culturali. La difficoltà dell’interpretazione nasce, dunque, secondo l’autore, perché le culture-bound syndromes sono spesso articolate in un idioma culturale, una cosmologia – intesa come un sistema di analogie attraverso cui l’esperienza è interpretata – differente dalla nostra. Per cui, suggerisce Karp, si dovrebbero esaminare i locali sistemi di significato che sono prodotti e riprodotti nelle azioni pratiche dei membri di ciascuna società. A livello di strategie personali e sociali, nell’ottica espressa da Karp, le CBS rappresenterebbero, per i membri di ciascuna comunità, dei mezzi per ridefinire se stessi, mezzi che assumono la loro forma dalle cosmologie delle società in cui emergono. Se ci si limita, fa notare ancora l’autore, ad etichettare le culture-bound syndromes semplicemente come disturbi mentali, esse ci

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appariranno solo come comportamenti anomali bizzarri o, talvolta, addirittura ironici, ma continuerà a restare oscura la profondità e la drammaticità dei significati che dietro tali manifestazioni si celano. Le argomentazioni di Ivan Karp, nonché la posizione nature-culture egalitarian in generale, che trova nelle formulazioni di Cassidy e Ritenbaugh la sua forma più organica e originale, gettano luce su problematiche d’ingente attualità. Il mondo è sempre più immerso in un processo di globalizzazione, i saperi tecnico-scientifici devono, pertanto, confrontarsi sempre più spesso con il diverso, l’eterogeneo, il dissimile. La cultura occidentale non può fronteggiare una simile situazione arroccandosi difensivamente all’interno delle proprie conoscenze in un atteggiamento solipsistico. Diviene invece sempre più indispensabile trarre dal contatto con le altre culture, la possibilità di superare i limiti ed espandere i confini della conoscenza scientifica. È auspicabile, dunque, nel momento attuale più che mai, come ancora una volta direbbe Geertz (1988), che prenda concretamente forma la consapevolezza che «la nostra è una voce tra le altre» (299) e che «non siamo circondati né da marziani né, [soprattutto], da riproduzioni di noi stessi riuscite meno bene» (22).

CAPITOLO TERZO

NUOVE PROSPETTIVE: LE CBS OCCIDENTALI

L’articolo dell’americana Cheryl Ritenbaugh (1982), introduce un’interessante riflessione sulla questione delle culture-bound syndromes. Ella, infatti, criticamente nota come, sia le folk illness sia le CBS, che considera come sinonimi per indicare un medesimo fenomeno, siano state ampiamente individuate in contesti non occidentali, ma, stranamente, assenti in Occidente. L’autrice attribuisce la causa di ciò ad un’etnocentrica tendenza da parte dei ricercatori occidentali, i quali nell’impossibilità di comprendere disturbi di altre culture, riconducendoli al modello biomedico, li avrebbero etichettati come culture-bound syndromes; mentre, tutti i disturbi occidentali sarebbero stati spiegati attraverso il suddetto modello. La Ritenbaugh, parte dal presupposto secondo cui tutte le culture, organizzano le loro informazioni circa la biologia umana, all’interno di categorie di malattie. La biomedicina, nelle società occidentali, sarebbe il sistema predominante entro cui vengono organizzate queste informazioni. Il privilegiare l’aspetto biologico, suggerisce l’autrice, avrebbe oscurato, in Occidente, l’importanza della componente culturale nelle definizioni biomediche di malattia. Ella sostiene che l’errore compiuto dagli studiosi occidentali, è dovuto a una fusione concettuale tra dati biologici, ritenuti dall’autrice misurabili su ogni organismo, e categorie biomediche, considerate invece culturalmente specifiche. La biomedicina, afferma Ritenbaugh, è una particolare struttura concettuale per interpretare dati biologici: essa è culturalmente costruita. Secondo l’autrice, dunque, i dati biologici descrivono solo un continuum biologico, mentre le malattie sono categorie discrete sovrimposte al continuum biologico. Per chiarire questo concetto, la studiosa

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americana, propone di esaminare la categoria biomedica “anemia”. C’è una considerevole normale variazione tra gli individui e tra le popolazioni, spiega la Ritenbaugh, della quantità di emoglobina nel sangue. Per esempio, le persone che praticano attività faticose, o che vivono ad alte altitudini, tendono ad avere più alti livelli di emoglobina, degli individui che praticano attività sedentarie e vivono a livello del mare. Nelle persone con livelli di emoglobina estremamente bassi, generalmente sono compromesse funzioni biologiche in rapporto alla popolazione media. In biomedicina, gli individui con livelli di emoglobina considerati troppo bassi, sono indicati come affetti da anemia, una malattia. La definizione di malattia è basata sulla misura dell’emoglobina nel sangue; valori al disotto di 10g/100ml, un valore arbitrariamente scelto, come fa notare la Ritenbaugh, indicano anemia. L’autrice sostiene, dunque, che i dati biologici (livelli di emoglobina nel sangue) sono misurazioni che possono essere fatte per ogni individuo in ogni cultura; ma la transizione dal registrare i dati, al classificare gli individui come anemici, nasce dalla costruzione biomedica del concetto di anemia. Effettuando, dunque, analisi cross-culturali basate, per esempio, sulla percentuale di popolazione anemica, ammonisce la Ritenbaugh, si impone una categoria culturale occidentale ai dati biologici, limitando rigidamente le potenzialità analitiche e le intuizioni che potrebbero essere ottenute. Un interessante esempio di questo tipo di errore interpretativo, solo recentemente riconosciuto, è la scoperta di evidenti differenze biologiche nei livelli normali di emoglobina tra i Neri Americani e gli Anglosassoni (Garn et al. 1975). In passato venivano rilevati tassi estremamente alti di “anemia” tra i Neri. Molti articoli furono scritti nel tentativo di spiegare quest’alta frequenza di “malattia” come dovuta a specifici fattori alimentari, quali una dieta carente di ferro. In seguito Stanley Gern, un antropologo medico, insieme ai suoi collaboratori misero in evidenza che i livelli di emoglobina erano più bassi per i Neri rispetto ai Bianchi tra tutte le popolazioni studiate, perfino tra gli atleti ben nutriti. Altre misure delle riserve di ferro che furono effettuate (Garn et al. 1981), dimostrarono che un normale (sano, non patologico) valore dell’emoglobina nel sangue per i Neri era circa 1g/100 ml inferiore rispetto a Bianchi. Grazie a questo studio, dunque, molti casi di anemia tra i Neri scomparvero. I dati biologici (livelli di emoglobina), come fa notare la Ritenbaugh, non cambiarono, ciò che cambiò fu il modo in cui essi venivano interpretati all’interno della biomedicina. Pertanto, in relazione a quanto detto, l’autrice ritiene non solo possibile, ma indispensabile per evitare simili errori, concettualmente separare i dati biologici dalle categorie biomediche. L’articolo della Ritenbaugh, poi, procede in un’analisi del fenomeno dell’obesità nella società statunitense. L’autrice, rifacendosi alla definizione di culture-bound syndrome proposta da lei e da Cassidy (v. infra p. 48-49), asserisce che l’obesità può essere tranquillamente considerata una CBS occidentale. Essa, infatti, rifletterebbe precisamente le quattro condizioni indicate, dalle due autrici americane, come fondamentali nella definizione di una culture-bound syndrome. L’obesità, dunque, è rapportata, nell’articolo in esame, ai quattro punti principali che contraddistinguono, nella concezione di Cassidy e Ritenbaugh, qualsiasi CBS.

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1) Una culture-bound syndrome non può essere compresa al di fuori del suo specifico contesto culturale o sub-culturale: una moderata obesità, infatti, sostiene l’autrice, è tuttora considerata un segno di bellezza e di buona salute in molte società, ed era considerata in questi termini anche negli U.S.A. fino a questo secolo. Attualmente, invece, da molti anni, lo stesso grado di obesità è considerato, da molti professionisti nella cura della salute, come uno dei più diffusi problemi negli Stati Uniti. Essa, infatti, è stata descritta come un’epidemia che affligge metà della popolazione adulta (Lasagna 1980).

2) L’eziologia di una culture-bound syndrome sintetizza e simbolizza i significati profondi e le norme comportamentali di quella particolare cultura: l’eziologia dell’obesità, fa notare la Ritenbaugh, è descritta in biomedicina come una sproporzione tra la quantità di energia ingerita e la quantità di energia consumata. Più semplicemente, essa è il risultato di una sovralimentazione e/o di un ridotto esercizio. Secondo l’autrice, questi sarebbero i termini biomedici per indicare ì fallimenti morali della golosità e pigrizia. Nella società americana, ella spiega, il controllo individuale e la paura del non controllo hanno una notevole importanza, l’obesità sarebbe la prova evidente del non controllo. 3)La diagnosi si basa su di una tecnologia oltre che su di un’ideologia culturalmente specifiche: la diagnosi di obesità si basa sull’idea che l’essere grassi è poco salutare; essa inoltre necessita di un accordo su specifici criteri e strumenti diagnostici. Se il criterio, fa notare la Ritenbaugh, è una valutazione visiva di sé nudo davanti a uno specchio, risultano essere indispensabili lo specchio e la volontà di guardarsi ed esaminarsi. Gli standars che stabiliscono le “giuste” relazioni tra altezza e peso, si basano su taciti accordi convenzionali stabiliti all’interno di una società. Inoltre, alla percezione del proprio peso si perviene mediante gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione. 4) Il successo nel trattamento è ottenuto solo dai membri di quella cultura: un trattamento di successo dell’obesità, infatti, ci dice l’autrice, come è percepito all’interno della cultura americana, necessita di una serie di comportamenti non immediatamente comprensibili da osservatori esterni. Un breve periodo di perdita di peso, è da molti considerato il frutto di un trattamento di successo; il peso rapidamente riacquistato è visto, però, come un evento separato. Perdere peso senza aver preordinato lo sforzo per raggiungere quello scopo non è considerato come un trattamento, benché il risultato finale è lo stesso. Inoltre, continua la studiosa americana, il mettersi a dieta trasmette un preciso messaggio, indipendentemente dal fatto che si perda o no peso, esso indica agli altri membri della sua società che, il soggetto obeso, ha assunto il ruolo di malato e accetta gli standards sociali, anche se il suo corpo sembrerebbe indicare diversamente. La Ritenbaugh, fornisce poi una breve prospettiva storica circa i diversi modi in cui l’essere grasso è stato considerato nel corso del tempo, fino a giungere all'attuale interpretazione dell'obesità, nel contesto statunitense, come patologica. Ella parte nella sua analisi, dall’esame di alcuni dei primi esempi d’arte, risalenti a circa 20000/25000 anni fa, in cui sono raffigurate donne estremamente grasse. La precisione dei dettagli anatomici del corpo, in queste

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raffigurazioni, conduce l’autrice a supporre che esse erano eseguite servendosi di persone reali come modelle, o che, sicuramente, quel prototipo di corpo femminile era molto diffuso, e quindi ben noto, nella società del tempo. Molto più tardi, l’arte e la letteratura greca antica esaltavano come attributo positivo l’essere grasso. Già nel Medio Evo, però, l’estrema grassezza cadde in discredito, e la golosità divenne un peccato veniale. Riflessi di questo ascetismo religioso continuano ad essere forti ancora oggi nella cultura occidentale. Sin dall’età classica, matura un’associazione tra l’estrema grassezza e la scarsa salute. La relazione tra l’eccessiva grassezza e un deficitario stato di salute, che era stato sostenuto per centinaia di anni, conduce le compagnie di assicurazioni statunitensi, agli inizi del nostro secolo, a stabilire dei tassi assicurativi più alti per le persone particolarmente grasse. Per rendere ciò più sistematico, la Society of Actuaries promulgò delle tabelle che stabilivano il rapporto ideale tra peso e altezza, in modo che le penalità potevano essere opportunamente applicate. Analizzando le successive revisioni che sono state introdotte nel corso degli anni, fa notare l’autrice, si nota una regolare riduzione del peso ideale stabilito per le donne, e una riduzione, sia pur meno regolare, per gli uomini. La Ritenbaugh, dunque, suggerisce di cercare le cause della diffusione epidemica dell’obesità, principalmente nella progressiva riduzione degli standards ideali di peso/altezza. Paradossalmente, in contrasto al declini del peso ideale, diversi dati (Lew – Garfinkel 1979; Keys 1980; Larssons 1981) sostengono l’idea secondo cui l’essere più pesanti è più salutare, o almeno non meno sano. Sostiene l’autrice americana, che l’obesità ha assunto notevole importanza nelle ricerche e nei trattamenti medici poiché essa è strettamente legata a profondi valori sociali occidentali; e che il cambiamento in senso discendente degli standards di peso, non basato su dati biologoci, sarebbe la prova del lavoro delle forze culturali. Per cui ci sarebbe un intima connessione tra le trasformazioni dei valori culturali e i mutamenti negli standards biomedici, piuttosto che tra questi ultimi e una reale base scientifica. La Ritenbaugh asserisce, che attualmente il mito della magrezza si associa con quello della giovinezza, della bellezza e della ricchezza. Sono, infatti, i soggetti più giovani quelli che più si avvicinano al peso ideale, inoltre, la facoltà di accedere a dispendiosi prodotti alimentari, che abbiano il massimo potere nutritivo in una minima quantità di calorie, nonché la possibilità di sottoporsi a trattamenti dimagranti, sempre più costosi, sono sinonimi di un elevato status economico. Giovinezza, bellezza e ricchezza sono sicuramente tra le caratteristiche più ambite e ricercate nella società occidentale, l’obesità, invece, rappresenta la negazione di tutti e tre questi valori, appare evidente quindi la sua indesiderabilità. L’analisi condotta dalla Ritenbaugh, si pone la finalità di dimostrare come, la nozione di peso ideale non si basa su dati biologici, ma piuttosto è una costruzione sociale, che varia, dunque, con il variare del suo contesto storico e culturale. Tuttora, la concezione negativa dell’obesità, non è universale ma si espande geograficamente insieme all’esportazione della cultura e della biomedicina occidentale. L’obesità, dunque, e la sua epidemica diffusione, ci dice l’autrice, nasce dall’imposizione di una categoria biomedica a dati arbitrariamente stabiliti. Il pregio principale dell’articolo della Ritenbaugh, io penso, sta nella volontà di dimostrare che la

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nozione di culture-bound syndrome non ha come suo carattere fondamentale quello dell’esoticità, ovvero, le CBS non sono fenomeni che si manifestano esclusivamente in culture altre, ma possono trovare cittadinanza anche nella società occidentale. L’obesità sarebbe, nella prospettiva tracciata dall’autrice, assolutamente, un esempio di culture-bound syndrome occidentale. Il merito principale di questo lavoro della Ritenbugh, che va indiscutibilmente riconosciuto, sta nell’aver aperto una nuova prospettiva, quella cioè di considerare anche alcuni dei disturbi occidentali, come culture-bound syndromes. Un cospicuo numeri di articoli (Prince 1985; Swartz 1985; Littlewood – Lipsedge 1987; DiNicola 1990; Banks 1992; Lee 1996 etc.) si interrogano circa la natura culture-bound di un altro disturbo molto diffuso in Occidente: l’anoressia nervosa. Tale affezione, nonostante apparentemente sembri diametralmente opposta all’obesità, in realtà condivide con questa un sostrato comune. La fobia di ingrassare, infatti, che è un aspetto fondamentale della definizione nosologica occidentale dell’anoressia nervosa (DSM-IV), è profondamente dipendente da quello standard di peso ideale, auto ed etero indotto, culturalmente costruito, che conduce all’etichettamento dell’obesità, in Occidente, quale patologia di portata epidemica. Il rifiuto di nutrirsi da parte degli anoressici, dunque, potrebbe essere letto come una risposta, spropositata, alla paura di non conformarsi ad un modello fisico che la società occidentale esalta, l’auto-affamamento, quindi, quale reazione estrema per assicurarsi il consenso sociale. Sia Swartz (1985) sia Lee (1996), per motivare l’idea secondo cui l’anoressia nervosa può essere intesa come una culture-bound syndrome, conducono un processo molto simile a quello svolto da Ritenbaugh (1982) per l’obesità. Essi, dunque, dimostrano l’assonanza dell’anoressia con i criteri indicati da Cassidy/Ritenbaugh per la definizione di una CBS. Le osservazioni epidemiologiche che inducono a sostenere l’ipotesi di un condizionamento socioculturale nell’insorgenza di tale sindrome, possono essere così schematicamente sintetizzate: differenza cross-culturale, con una netta prevalenza nei contesti più sviluppati e industrializzati; tasso di incidenza ineguale tra i due sessi, con una predominanza nelle donne; differente distribuzione in funzione della professione, con più alto rischio in caso di lavoro in cui le persone devono vendere la propria immagine e le proprie prestazioni fisiche; differente distribuzione fra le diverse classi sociali, con una predominanza in quelle più alte (DiNicola 1990). I sostenitori della natura culture-bound dell’anoressia occidentale, dunque, indicano tra i fattori scatenanti di tale sindrome, l’importanza attribuita ai valori estetici, all’elogio della magrezza come modello di bellezza, che è connesso con l’esaltazione dell’autocontrollo, dell’assertività, della competitività, del successo sociale ed economico. La pressione alla magrezza, esercitata soprattutto attraverso i mass media, creerebbe una profonda insoddisfazione per il proprio corpo, da cui deriverebbero poi comportamenti ed atteggiamenti alimentari disturbati. Secondo quest’impostazione, gli ideali estetici si porrebbero come veri e propri agenti causali nell’insorgenza di una serie di comportamenti disturbati: inedia, continuo ricorso a diete, vomito autoindotto, massiccio uso di lassativi, esercizio fisico estremo, tutti sintomi connotativi dell’anoressia nervosa. I dati sulla

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disparità di incidenza di tale sindrome nei due sessi, conduce, inoltre, ad un’analisi sul ruolo e sullo status della donna in Occidente. Viene sottolineata la difficoltà dello sviluppo dell’identità di genere femminile, in un contesto che propone come unico modello valido di essere umano, quello maschile, esaltandone le caratteristiche di autonomia, d’indipendenza, di autocontrollo e di assertività, mentre svaluta quelle femminili più tendenti all’attenzione agli aspetti psicologici, al coinvolgimento emotivo ed all’impegno verso gli altri. Oggi, inoltre, il ruolo della donna vive una situazione di bilico fra tradizione e modernità, il che richiede un difficile processo di ridefinizione. Alcuni autori (Katzman – Lee 1997; Catina – Käkele 1994) vedono in questi elementi fattori di rischio per l’insorgenza dell’anoressia, inoltre, si servono di essi per spiegarne il diverso tasso di incidenza tra i due sessi (predominanza nelle donne). Altro elemento culturale addotto nella spiegazione eziologica dell’anoressia, è l’educazione religiosa. Un valido contributo, a tale proposito, è offerto da Banks (1992). Quest’autrice americana, infatti, inscrive l’auto-affamamento all’interno del discorso religioso (cristiano), ovvero, vede l’anoressia come una ricerca mistica, una volontà ascetica. Banks, dunque, lega le manifestazioni anoressiche agli ideali cristiani del rifiuto del cibo e della purezza sessuale7. Il digiuno rappresenterebbe, quindi, per gli anoressici, un tentativo di raggiungere quegli ideali normativi riguardo al controllo del corpo, forniti dalla loro tradizione religiosa8. Di particolare interesse è anche l’articolo di Lee (1996), il quale ribadisce la natura culture-bound dell’anoressia. Secondo questo autore, la fobia di ingrassare incarna ed estremizza i valori estetici e morali dell’Occidente; l’essere magro in tale contesto è diventato il simbolo non solo della bellezza, ma anche della giovinezza, dell’efficienza, dell’autocontrollo e del benessere. L’autore propone di considerare l’anoressia nervosa come un complesso meccanismo di controbilanciamento all’effetto della pressione esercitata sugli individui, in particolare le donne, affinché si adeguino ad un immaginario corporeo eccessivamente rigido. Il comportamento anoressico potrebbe, dunque, essere visto come il mezzo attraverso cui si manifesta una sorta di sovversione nei confronti di eccessivi canoni estetici, attraverso la loro esasperazione. L’anoressia, infatti, propugnando un modello di magrezza estrema, provoca reazioni sociali negative, che conducono alla messa in discussione dell’ideale di snellezza e della sua affannosa ricerca, nonché ha la finalità di ammonire gli individui preoccupati per il proprio peso ad accettare come salutare una più vasta gamma di forme corporee. Il ruolo della cultura nell’insorgenza di disturbi alimentari, è pressoché unanimemente riconosciuto, benché con diversi accenti in relazione al particolare approccio teorico utilizzato. L’accettazione della definizione dell’anoressia

7 Si noti che uno dei principali sintomi dell’anoressia nervosa è l’amenorrea. 8 Per un approfondimento del legame tra anoressia nervosa e condizionamenti religiosi si vedano anche: Bell 1997; Raimbault – Eliacheff 1991; Vandereycken – Van Deth 1995.

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nervosa come una culture-bound syndrome occidentale, da parte del pensiero medico-psichiatrico dominante, appare però, come fanno notare acutamente Cardamone e Zorzetto (1998), piuttosto contraddittoria: «mentre si riconosce soddisfatti la natura culture-bound di simili disturbi, li si colloca sull’Asse I del DSM-IV, ben distanti da quel glossario delle sindromi culturalmente caratterizzate che in fin dei conti deve contenere solo il disagio irrazionale ed esotico » (84). Sulla scia tracciata dalla Ritenbaugh (1982), si inserisce un altro interessante lavoro di due autori americani, Robert Hill e Dennis Fortenberry (1992). Questi due autori, in accordo con la definizione di CBS proposta da Cassidy/Ritenbaugh, sostengono che l’adolescenza, nel contesto sociale americano, può essere definita come una culture-bound syndrome. Essi affermano che questa fase dello sviluppo umano, nella società americana del ventesimo secolo, è progressivamente divenuta connotativa di un complesso di sintomi, ovvero di una condizione patologica. L’adolescenza è, dunque, descritta come una tormentata e pericolosa fase di crescita, e gli adolescenti sono indicati come i più esposti alle «‘epidemie’ multiple» che affliggono la nazione: malattie a trasmissione sessuale, abuso di droghe, gravidanze indesiderate, alcolismo, suicidi, sono tra le più note. Fanno notare polemicamente Hill e Fortenberry, che l’adolescenza è vista come l’inevitabile fattore di rischio per questi diffusi problemi, come se la loro origine fosse innata in essa, piuttosto che essere considerata come il prodotta di una complessa interazione tra fattori biologici, aspetti culturali, elementi di personalità, espedienti politici e disfunzioni sociali. I due autori sostengono che l’adolescenza, soprattutto nel corso dell’ultimo trentennio, è stata «medicalizzata» come una condizione essenzialmente patologica. La «medicalizzazione» viene descritta come una tendenza, nella società americano, a cercare spiegazioni biologiche per una vasta serie di disturbi psicosociali, sospinti dalla convinzione che tali fenomeni siano definibili e trattabili attraverso gli strumenti della moderna biomedicina. Il processo di «medicalizzazione» della adolescenza, viene ricondotto a due professionali basi culturali: la medicina e la psichiatria specializzate nella cura dell’adolescenza. Il Diagnostic and Statistical Manual (DSM) dell’ American Psychiatric Association, rappresenta la base scientifica, tecnica e ideologica della psichiatria americana. Nelle diverse edizioni di questo manuale, che si sono successe nel corso degli anni, si è verificato un progressivo aumento dello spazio dedicato all’adolescenza, quale condizione di rischio per l’insorgenza di una serie di disturbi comportamentali, nonché alla gravità ad essa attribuita. I due autori americani sostengono che i vari DSM, nonché la letteratura psichiatrica in generale, trascurano l’aspetto eziologico ed epidemiologico dei disturbi comportamentali dell’adolescenza che classificano come patologici. Hill e Fortenberry, invece, citano una vasto studio (Offer et al. 1990) condotto su più di 300000 adolescenti, che mette in discussione l’idea di una diffusione epidemica di disturbi comportamentali durante questa fase di sviluppo. Tale studio concludeva, infatti, che circa l’80% dei giovani esaminati era normale e non presentava disturbi comportamentali; se dal restante 20% si escludono le diagnosi di ansietà e depressione, identificabili durante tutto il ciclo di vita,

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rimane, fanno notare gli autori, una un esiguo numero di casi di disturbi mentali attribuibili alla specificità della fase adolescenziale. L’origine della medicina dell’adolescenza, come nuova specialità, viene attribuita a due principali forze: da una parte la riduzione dei tassi di morbosità e mortalità delle malattie infettive, che consentono lo spostamento delle ricerche (incluso i capitali) verso problemi prima trascurati; dall’altra lo sviluppo di un movimento sociale medico, per mezzo del quale un segmento di professionisti, con un simile background e interessi comuni, iniziarono a considerare le medesime cose come problemi (Silber 1980). Progressivamente, ed in particolare negli anni ottanta, si è affermata l’espressione «giovinezza ad alto rischio», con la quale si intendeva indicare l’adolescenza come fattore predisponente all’insorgere di una serie eterogenea di disturbi. Gli autori contestano questo processo che ha condotto ad eleggere l’adolescenza come primario fattore di rischio e, quindi, a connotarla come essenzialmente una situazione fortemente predisponente all’insorgere di disordini comportamentali, o come, ancora peggio, una patologia in sé stessa. Essi sostengono che questo processo si è fondato su una serie di stereotipi che si sono sempre più rafforzati, ma non ha avuto un reale supporto scientifico. Hill e Fortenberry, dunque, affermano che se si riconosce l’adolescenza come una condizione morbosa, essa non può che essere indicata come una culture-bound syndrome. I due autori avvalorano la loro tesi sostenendo che la natura culture-bound dell’adolescenza, nella società americana, è dimostrata dalla sua rispondenza ai criteri proposti da Cassidy/Ritenbeugh per classificare una CBS: «essa ha distintive caratteristiche culturali, con distintive radici storiche nelle sempre più ridotte stratificazioni d’età del diciannovesimo secolo; la sua eziologia (la progressiva perdita della fanciullezza e l’acquisizione dello status di adulto) sintetizza conflitti di conformità e individualismo; e, particolari culture professionali hanno fornito un ideologia e una tecnologia culturalmente specifiche per la diagnosi e il trattamento» (Hill – Fortenberry 1992: 74). L’idea secondo cui l’adolescenza fosse una sindrome culturalmente determinata, fanno notare gli autori, fu avanzata già da Margaret Mead (1968) agli inizi di questo secolo. La crescente diffusione, nel contesto americano, della designazione dell’adolescenza come una fase particolarmente difficile della vita, la «storm and stress» (Hall 1904 cit. in Hll – Fortenberry 1992), così veniva definita; indusse la Mead, intorno al 1920, ad intraprendere un viaggio in Polinesia, per determinare se le adolescenti samoane soffrivano delle stesse difficoltà nello sviluppo delle adolescenti americane. Dopo nove mesi di studio in questa piccola isola, la Mead riscontrò rari casi di stress e ribellione tra le giovani indigene, il che la spinse ad ipotizzare che i particolari problemi associati all’adolescenza, non fossero dovuti a questa fase di crescita, ma piuttosto a come essa si manifestava nella società americana. Studi successivi (Havighurst – Taba 1949; Elkin – Westly 1955; Bernard 1961; Coleman 1961) hanno supportato la percezione della Mead secondo cui il contenuto dell’adolescenza non è invariante e in se stesso determinato, ma, piuttosto, varia a seconda delle diverse influenze culturali. L’articolo di Hill e Fortenberry si pone in perfetto accordo con queste ultime conclusioni, asserendo con forza l’idea secondo cui

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l’adolescenza nella sua accezione patologica, come viene indicata nel contesto americano, è essenzialmente una culture-bound syndrome occidentale. Essi, inoltre, ammoniscono circa il rischio connesso con la concettualizzazione dell’adolescenza quale condizione costituzionalmente patologica. Ridurre, infatti, i disaggi adolescenziali ad una spiegazione organica o biologica, rischia di distogliere l’attenzione e l’impegno pubblico da ingenti problematiche sociali. E’ sicuramente più proficuo ricondurre le cause dei disturbi comportamentali, che insorgono in questa fase dello sviluppo, a situazioni di emarginazione, di discriminazione razziale, di disagio economico, piuttosto che etichettare genericamente l’adolescenza come innato fattore di rischio. Pertanto, probabilmente, più valido sarebbe, per la risoluzione delle problematiche dell’adolescenza, un serio impegno politicosociale, piuttosto che una passiva medicalizzazione. Il discorso condotto all’interno di questo capitolo, è finalizzato a dimostrare che è lecito utilizzare la nozione di sindrome cultur-bound per indicare una serie di disturbi che si manifestano anche in Occidente: l’obesità, l’anoressia e i problemi dell’adolescenza sono stati proposti come alcuni degli esempi possibili. In virtù di tali considerazioni appare, dunque, estremamente limitativo e tendenziosamente etnocentrico, da parte della biomedicina occidentale, relegare all’etichetta CBS esclusivamente il disagio degli altri, i disturbi esotici. Questo atteggiamento testimonia, da parte della cultura medica dominante, un’estrema difficoltà, una sorta d’incapacità a porre le altre culture sul suo stesso piano e riconoscersi, non superiore, ma simile ad esse. In questo senso, il caso dell’anoressia nervosa e dei disturbi dell’adolescenza può essere considerato emblematico. Sebbene, infatti, per entrambe si riconosca un influenza socioculturale come fattore causale della loro insorgenza e della loro diffusione, nel DSM, lo strumento principale della nosografia psichiatrica occidentale, si è ben lontani da qualsiasi equiparazione o associazione tra tali disturbi e le culture-bound syndromes rilevate in contesti non occidentali. Ad un simile atteggiamento sembra sottesa la convinzione secondo cui il bias culturale, svolgerebbe un lavoro determinante nell’insorgenza di situazioni patologiche, solo in cotesti extra-occidentali, mentre in Occidente resterebbe disoccupato o, comunque, ridotto ad un compito molto più esiguo. Gli Studi sinteticamente analizzati in questo capitolo (sull’obesità, sull’anoressia, sull’adolescenza) hanno avuto, invece, la finalità di dimostrare che la cultura ha un ruolo preminente nella genesi e nell’evoluzione di alcuni disturbi occidentali, e di mettere in evidenza, come sostengono anche Cardamone e Zorzetto, «il carattere esotico del proteiforme Occidente e la sua non possibilità di ergersi a principio etico» (1998: 104)

CAPITOLO QUARTO

DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA DEL KORO

Con il termine koro si usa indicare una condizione piuttosto diffusa nel sud-est dell’Asia, ed in particolare nel sud della Cina, condizione che è caratterizzata da

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disturbi legati alla retrazione degli organi genitali. I soggetti colpiti dal koro, sono assaliti dalla terribile sensazione che gli organi genitali si stiano progressivamente retraendo nell’addome, fino a scomparire del tutto. Questa sensazione è accompagnata da un intenso timore di morte imminente. Casi isolati di attacchi di koro sono alquanto rari; si pensi che Yap (1965) in 15 anni di studi ne descrisse solo 19. Sono state riportate, invece, in alcune parti del mondo, soprattutto in società cinesi, epidemie di koro che hanno investito, per un breve periodo di tempo, centinaia o miglia di persone (Koro Study Teame 1969; Jilek – Jilek-Aall 1977; Suwanlert – Coats 1979; Chakraborty 1983; Mo 1987; Tseng et al. 1988;). L’origine della parola koro è incerta, si crede però che essa derivi da alcuni termini malesi: kuru, kerukul, kereoh, che si riferiscono alla tartaruga e in particolare alla sua testa (Edwards 1985; Gwee 1968). Nel 1936 Wulfften Palthe sosteneva che il termine esatto sarebbe stato kura, con il quale ancora oggi in Malesia si indica la tartaruga, egli affermava che entrambi, malesi e cinesi, usassero la testa della tartaruga come espressione per alludere al pene. Il fatto che, asseriva Wulfften Plathe, «la tartaruga può ritrarre la testa con il suo collo retrattile sotto il suo guscio letteralmente dentro il corpo suggerisce, dunque, il meccanismo cosi tanto temuto nel ‘Koro’ (‘Kura’) e gli da il suo nome» (1936: 536). La retrazione dei genitali nell’addome sarebbe, dunque, associata alla retrazione della testa della tartaruga nel guscio. Attualmente il termine kura o kura-kura in Malesia e Indonesia significa tartaruga, inoltre in molti stati dell’Asia si usa il riferimento alla testa di questo rettile per alludere al pene (Sheung-Tak 1996). L’equivalente cinese del koro (inteso come disturbo) ha due diverse variazioni ortografiche: suo-yang in Mandarino, e suk-yang in Cantonese. Suo o suk sta per retrarre, restringere, contrarre, ridurre, accorciare, decrescere, e yang significa pene o genitali maschili (Werner 1961). In questo capitolo si cercherà di fornire, grazie ad un’analisi della letteratura mondiale sul koro, un sintetico quadro generale circa le caratteristiche esteriori di questo disturbo (diffusione, manifestazioni sintomatologiche, caratteristiche delle vittime, etc.). Tutto ciò al fine di consentire al lettore che non disponesse di alcuna nozione riguardo a questo male, di maturare un’idea sommaria, prima di addentrarci nella controversia che vede il koro conteso tra un riconoscimento quale sindrome essenzialmente culture-bound, e l’essere ricondotto ad un sintomo invariabile e universale (v. infra Cap. V). La difficoltà di fornire una definizione del koro nasce dall’assenza di un’opinione unanime circa le sue caratteristiche. Questo disturbo, infatti, per la sua esotica natura, crea – discorso che vale per tutti i disturbi esotici, come si è avuto modo di vedere nella parte precedente di questo lavoro – una spaccatura tra gli studiosi che ad esso si sono dedicati. Il koro, infatti, si è rivelato refrattario ai vari tentativi di ricondurlo ad un modello patologico occidentale. Sono state arrancate diverse ipotesi che, spesso in contraddizione tra loro, hanno proposto spiegazioni a carattere medico, biologico, psichiatrico, psicanalitico, che, però, invece di svolgere un ruolo chiarificatore hanno accresciuto la confusione. A complicare ulteriormente il quadro, già abbastanza torbido, sono stati – a mio avviso – quei rari resoconti di chi ha indicato come

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koro, forse perché non ha trovato nei manuali di psichiatria una diagnosi più appropriata, isolati disturbi anomali con qualche lontana analogia con i sintomi del koro, individuati magari in paesi dell’Africa, dell’Europa o dell’America. Estremamente rari sono stati, invece, studi che hanno cercato di cogliere il significato dell’epidemiche manifestazioni di koro, all’interno del loro ambiente specifico. Quasi inesistenti sono state, dunque, le indagini finalizzate a comprendere il drammatico messaggio che dietro le grottesche forme attraverso cui il koro si palesa, poteva nascondersi; è stata snobbata, quindi, un’analisi interpretativa volta a cogliere il senso di questo disturbo, una lettura del testo in relazione al suo specifico contesto (Devereux 1978; Karp 1985). In virtù di tali premesse, in questo capitolo si è cercato, allo scopo di tracciare un quadro sintetico del koro, di riportare dati oggettivi sui quali ci fosse un certo accordo consensuale da parte di diversi studiosi; le varie ipotesi eziologiche e i diversi tentativi di classificazione, che sono fonte di disaccordi e controversie, sono stati rimandati al capitolo successivo. Si farà sovente riferimento ai dati riguardanti l’epidemia di koro verificatasi nel 1984-85 nel sud della Cina perché è, tra le epidemie note, una delle più recenti, sicuramente quella di più vaste proporzioni, e tra le meglio studiate.

DIFFUSIONE Come si è detto, casi singoli di attacco di koro sono piuttosto rari, diversi resoconti, però, riportano vere e proprie epidemie, in diversi periodi, in varie zone del sud-est dell’Asia. Mo (1987) sostiene che i registri ufficiali dell’isola di Hainan, nel Guangdong, Cina meridionale, documentano un’epidemia di koro già nel tardo 1800. In queste stesse zone, dopo la seconda guerra mondiale, si sono verificate altre sei epidemie, rispettivamente: nel 1948, 1955, 1966, 1974, 1984-85, 1987 (Sheung-Tak 1996). Circa le prime epidemie che hanno colpito queste regioni della Cina non ci sono dati precisi, esse piuttosto sono state ricostruite attraverso i racconti dei vecchi residenti dell’isola di Hainan. Resoconti di forme epidemiche di koro non riguardano, però, solo la Cina meridionale, si conosce, infatti, un epidemie di questo male avutasi nel 1969 in Singapore (Ngui 1969; Koro Study Team1969), più di 1000 persone furono colpite in Tailandia dopo la guerra del Vietnam (Jilek – Jilek-Aall 1977; Suwanlert – Coates 1979; ), e un’altra forma epidemica è stata descritta in India (Chakraborty et al. 1983). L’epidemia di più vaste proporzioni è, comunque, sicuramente quella che si è avuta nel 1984-85 nelle province del Guandong. Essa durò quasi un anno colpendo più di 3000 persone in 16 città e contee. L’epidemia partì da Lingao, un paese nell’isola di Hainan, nel 1984 e si estese ad altre parti dell’isola. Alcuni mesi più tardi, si ebbero notizie della sua diffusione nel paese di Haikang, nella penisola di Leizhou, e da qui una nuova ondata di epidemia partì colpendo in lungo e largo tutta la penisola, arrestandosi in fine nella città di Zhajiang nella parte più a nord. Quest’epidemia è stata attentamente studiata da Mo (1987) e Tseng et al. (1988); poiché la penisola di Leizhou e divisa dall’isola di Hainan solo dal canale di Qiongzhou, questi due autori hanno trattato i due posti come una sola area di ricerca. Tseng notò che nonostante l’epidemia si fosse agevolmente diffusa tra queste due zone, essa

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però non si estese mai ad altre province del Guangdong al di là della penisola di Leizhou. Queste ultime riflessioni inducono Sheung-Tak (1996) a sollevare, retoricamente, una serie di quesiti circa il perché le epidemie di koro in Cina si siano limitate alle regioni della costa meridionale, e perché anche in queste zone è stata colpita solo una determinata parte della popolazione complessiva. Questi quesiti, sono le premesse di cui Sheung-Tak si serve per introdurre la sua idea secondo cui le forme epidemiche di koro, che si sono manifestate nel sud della Cina, sono state fortemente determinate da specifiche influenze culturali, più radicate in certe zone e in una certa tipologia di persone. Egli sostiene che l’insorgenza e la diffusione del koro in questi posti, si basa su particolari valori e credenze, e che esso è un fenomeno sociale in cui la comunità intera è partecipe della sua determinazione. Le interessanti argomentazioni di Sheung-Tak saranno approfondite in seguito, quando si analizzerà, come già è stato detto, la controversia circa la natura del koro. L’ultima epidemia di koro conosciuta e documentata, si è verificata nel 1987 anch’essa nelle province meridionali del Guangdong. In questo caso però la sua diffusione è stata di gran lunga inferiore rispetto al 1984-85, essa, infatti, ha colpito circa 300 soggetti nel giro di un paio di mesi (Mo 1987; Tseng et al. 1988; Tseng et al 1992; Sheung-Tak 1996). Resoconti di singole manifestazioni di koro non sono limitati solo al sud-est dell’Asia, ci sono, infatti, studi che riportano rari casi di attacchi isolati di koro anche dalla Tanzania (Lucieer 1984), dalla Nigeria (Ifabumuyi – Rwegellera 1979), dal Canada (Ede 1976), dagli U.S.A. (Scher 1987), dall’Inghilterra (Barrett 1978), dall’Irlanda (Tobin 1996; Sajjad et al. 1993), dalla Fracia (Burgeois 1968).

QUADRO CLINICO Il koro generalmente è considerato come un disturbo tipicamente maschile, poiché è legato alla retrazione del pene. Tuttavia, sono stati indicati come koro, anche rari casi di donne che lamentavano un’appiattimento del seno e una retrazione dei capezzoli e delle labbra vaginali (Chowdury 1994); casi ancora più rari, in genere ragazze preadolescenti, che lamentavano un restringimento del naso, delle orecchie o della lingua, anche sono stati considerati come forme di koro. Questo termine, dunque, quale indicativo di una categoria nosografica, è stato esteso a qualsiasi disturbo anomalo che si manifestava attraverso il timore di una retrazione di organi esterni all’interno del corpo ( Tseng et al. 1988). Nella fase iniziale di un attacco di koro, il soggetto colpito diventa teso, le mani e i piedi sono freddi, il battito cardiaco aumenta, il viso impallidisce, c’è un’intensa sudorazione, una vaga ansietà, una perdita di sensibilità alle estremità degli arti. La crisi vera e propria è caratterizzata da un irrigidimento del corpo, gli occhi si gonfiano e le pupille sono a malapena visibili, il soggetto emette dei gorgoglii. In casi estremi sopraggiunge la perdita di coscienza (Edwards 1984). Sheug-Tak (1996) descrive il manifestarsi del koro come un evento estremamente drammatico. Solitamente la malattia, ci dice questo autore, insorge con la sensazione da parte del soggetto colpito che i suoi organi genitali si stiano retraendo. Convinto che questa condizione sia fatale, la vittima diventa

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estremamente ansiosa, inizia a fare qualsiasi cosa in suo potere per impedire il ritrarsi dei genitali e urla vigorosamente invocando aiuto. Possono essere visti, continua Sheung-Tak, uomini che cercano di tirare il proprio pene o provano a tenerlo ancorato con pinzette di ferro o legato con pezzi di corda, tutto allo scopo di prevenire la temuta retrazione. I parenti e i vicini corrono a portare i loro soccorsi, e intervengono con massaggi o con una vigorosa pressione sul glande, continuando finché la vittima non smette di urlare dal dolore. Chi è colpito dal koro ha un forte timore di essere lasciato solo, perché è convinto che se non è aiutato la morte sopraggiungerà immediatamente. L’assistenza da parete di individui del sesso opposto è proibita; si pensa, infatti, che se il soggetto è toccato da donne questo gli potrebbe essere fatale. Ad un osservatore esterno, fa notare Seung-Tak, il manifestarsi del koro può apparire come una situazione assurda: si immagini di vedere un uomo che urla invocando aiuto e allo stesso tempo si tira i genitali esponendoli così in pubblico. Ma, questo grottesco sintomo, trova consenso nel resto della comunità, che riconosce la sofferenza della vittima, e condivide la convinzione che essa possa essere fatale. Il soggetto in preda ad un attacco di koro, riferisce l’autore, appare come un moribondo, si riscontra pallore, panico, tremori, iperventilazione, palpitazioni, svenimenti. Egli si sottopone, o è sottoposto da altri, ad una serie di violente operazioni per evitare che la presunta retrazione abbia luogo, finché, esausto, l’ansietà diminuisce. Spesso dopo un attacco di koro, riferisce Edwards (1984), ai soggetti colpiti sono date da bere delle pozioni che hanno la funzione di rafforzare la virilità. Esse sono composte da: corno di cervo, schegge di bambù, germogli fioriti di Borassus flabelliformis, steli della Arenga sacchariera. Questi ingredienti sono polverizzati e miscelati insieme con una bevanda alcolica derivata da un pastone di riso, per consentire al soggetto di ingerirli più agevolmente.

COMPLICAZIONI Le complicazioni che sorgono in relazione al koro non sono dovute al disturbo in se stesso, ma piuttosto ai medicamenti che il soggetto stesso o altri membri della sua comunità adottano per arrestare o prevenire la, presunta, retrazione genitale. Sono frequenti, infatti, danni fisici dovuti ad applicazioni di lozioni caustiche, trazioni manuali o meccaniche del pene, introduzione di fili metallici nell’uretra, shock ipotermici dovuti ad immersioni o lavaggi con acqua molto fredda, vomito indotto dall’ingestione forzata di sale comune (NaCl) (Chowdhury 1991). Contusioni, lacerazioni, perdite di sangue, infezioni, come risultato dei rimedi adottati dalla vittima o da altri per arrestare gli effetti del koro non sono, quindi, rare. Si conoscono addirittura casi di soggetti cui si è dovuto asportare il pene perché era stato legato con una corda in modo così stretto da impedire l'afflusso sanguigno (Mo 1987). Sono noti pochissimi decessi conseguenti ad attacchi di koro, e anche per questi rari casi si è concordi nell’attribuire il sopraggiungere della morte ad altri problemi di salute (es. disturbi cardiaci) o a medicamenti incauti ed eccessivi (Gwee 1963). In sintesi, dunque, il koro in se stesso, quale percezione di una retrazione genitale, non provoca alcun tipo di danno ai tessuti del corpo; complicazioni fisiche, però, possono insorgere come

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conseguenza dei presidi terapeutico messi in atto dal soggetto stesso o da chi gli è vicino, per impedire il verificarsi di una condizione che è ritenuta fatale per chi ne è colpito.

DECORSO Il koro, generalmente, si manifesta come un attacco acuto ma di breve durata, esso infatti, solitamente, si risolve tra i 20 e i 60 minuti e la maggioranza delle vittime non ha altri attacchi dopo il primo episodio. In un campione di soggetti colpiti dal koro, nella penisola di Leizhou, solo circa il 20% di essi ebbe un secondo attacco, ed un numero estremamente esiguo ne ebbe più di due (Tseng et al. 1988). In breve, quindi, l’attacco di koro può essere indicato come acuto, breve e tendente a non ripetersi. Tuttavia, ci sono resoconti che descrivono di soggetti che sono stati in preda ai sintomi del koro per anni (Geew 1963; Oyebode et al. 1986). Recentemente sono stati riportati due casi di persone, indicate come affette da koro, in cui il disturbo si manifestava: nella prima con attacchi ricorrenti uno o due volte alla settima per un intero anno (Adityanjee – Subramaniam 1991), nella seconda con episodi multipli, ricorrenti, stereotipati due o tre volte al giorno, tre o quattro volte alla settimana per cinque mesi (Chowdhury – Beta 1995).

CARATTERISTICHE DELLE VITTIME DEL KORO Una panoramica della letteratura mondiale sul koro mostra che l’età, rispettivamente più bassa e più alta, dei soggetti colpiti è di 8 e 54 anni (Chowdury et al. 1988; Chowdury 1996). Un caso particolare riguarda i bambini, ci sono, infatti, resoconti di epidemie di koro che riguardavano neonati o, comunque, bambini molto piccoli (4 mesi a 4 anni). Naturalmente, il disturbo non era manifestato direttamente dal bambino, ma, piuttosto, erano i genitori, in particolare il padre, in forte apprensione poiché erano convinti che il figlio fosse stato colpito da questo male (Mun 1968; Rubin1982). Attenti studi condotti nel paese di Haikang, nella Cina meridionale, su soggetti colpite da epidemie di koro, hanno fornito una serie di interessanti dettagli sulle caratteristiche delle vittime di questo disturbo. Su 232 soggetti colpiti oltre l’85% era di sesso maschile, il 26% era compreso tra i 10 e i 14 anni di età, il 32% tra i 15 e i 19, il 23% tra i 20 e i 24 e il 7% tra i 25 e i 29. Una percentuale piuttosto bassa riguardava i soggetti che avevano più di 30 anni (9%). Solo il 3% dei casi erano bambini compresi tra i 6 e i 9 anni (Mo 1987; Tseng et al. 1988). Il 22% dell’intero campione era sposato. Il 7% delle vittime era analfabeta, il 58% aveva frequentato la primary school, il 29% la junior high, e solo il 6% la senior high. In uno studio ulteriore Tseng et al. (1992) studiarono le caratteristiche delle vittime del koro somministrando ai soggetti che ne erano stati colpiti, e a due gruppi di controllo reclutati nell’area epidemica, vari questionari self-report. Il gruppo delle vittime del koro era costituito da 214 persone (173 maschi, 29 femmine) che erano state colpite dalle epidemie del 1984-85 e del 1987. I due gruppi di controllo erano costituiti uno da 56 pazienti psichiatrici (27maschi, 29 femmine), a cui erano stati diagnosticati disturbi ansiosi o altre nevrosi, e l’altro gruppo era composto da 153 soggetti normali ( 127 maschi, 26 femmine) che

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non avevano mai avuto disturbi psichiatrici o attacchi di koro. I questionari che furono somministrati erano: (a) la versione Guangzhou del Symptoms Checklist; (b) il Sixteen Personality Factor Test (16PF)9; (c) un Life Problems Questionnaire che determina l’esistenza di vari problemi psicologici, sociali e di salute, incluso problemi riguardo al sesso e al matrimonio; e (d) un Folk Belief Questionnaire che conteneva domande relative a credenze sul sesso (es., lo sperma dovrebbe essere conservato e il rapporto sessuale dovrebbe essere controllato in modo da proteggere la salute), sul koro (es., gli organi sessuali possono retrarsi nell’addome e causare la morte), e in forze soprannaturali (es., le forze soprannaturali sono potenti). I risultati delle vittime del koro al Symptoms Checklist erano in nessun modo simili a quelli dei pazienti nevrotici. Mentre, comparato con il gruppo di controllo, il gruppo clinico mostrava livelli più alti a quasi tutte le sottoscale (depressione, ansietà, nevrastenia, ira/ostilità, ossessione-compulsiva, ipocondria, sensibilità interpersonale), il gruppo del koro riportò risultati appena elevati nella sottoscala dell’ansietà. Tuttavia, però, la loro ansietà era di molto inferiore rispetto al gruppo clinico. Il 16PF rivelò notevoli differenze tra il gruppo del koro e quello di controllo solo per il fattore dell’intelligenza, dove, il gruppo del koro aveva punteggi più bassi di quelli del gruppo di controllo. Il gruppo clinico si differenziò dagli altri due gruppi su una serie di fattori: essi erano più tesi, sagaci, e intelligenti, meno sottomessi, calmi, timidi, e pratici. I risultati del 16PF e del Symptoms Checklist, suggerirono che le vittime del koro e le persone sane erano simili rispetto ai profili di personalità e sintomi, e che entrambi differivano dai pazienti nevrotici. Attraverso il Life Problemes Questionnaire non fu rilevato nessun problema in particolare tra le vittime del koro, neppure problemi sessuali o relativi al matrimonio. In fine, i risultati ottenuti dal Folk Belief Questionnaire non mostravano significative differenza tra i tre gruppi circa credenze relative al sesso, ma le vittime del koro ottennero punteggi significativamente più alti sulle credenze relative al koro e a forze soprannaturali. Questo studio, dunque, ha dimostrato che i soggetti colpiti dal koro non presentano alcuna similarità con i pazienti nevrotici, essi appaiono del tutto simili alle persone psichicamente sane; inoltre, non presentano alcun problema specifico a carattere sessuale o matrimoniale. La caratteristica che

9 È uno degli strumenti più noti per la valutazione delle caratteristiche “normali” della personalità. Il questionario considera 16 “tratti” che nel loro insieme dovrebbero descrivere la “sfera di personalità umana totale”. Il 16PF articola la valutazione in 16 scale, identificate con una lettera dell’alfabeto ed elencate in ordine decrescente di “rilevanza” statistica dei fattori, con riferimento alla percentuale di varianza spiegata da ciascuno. Quasi tutti i tratti sono “bipolari”, cioè rappresentano una caratteristica definita da due poli opposti tra loro. Un punteggio inferiore alla media (da 1 a 5 sten) rappresenta il polo “negativo”, un punteggio superiore alla media (da 6 a 10 sten) rappresenta il polo “positivo”. Gli items sono una decina per ogni scala, seguiti da tre alternative di cui una, intermedia fra due sintomatiche, è indicativa per lo più di incertezza (Boncori 1993: 658).

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fondamentalmente li distingue, sembra essere il riconoscere il koro quale entità morbosa e credere nell’esistenza di forze soprannaturali. In sintesi, la tipica vittima del koro che sembra emergere da questa sezione è un individuo di sesso maschile, giovane, di età compresa tra i 10 e i 24 anni, e di basso livello socioculturale.

RIFERIMENTI FAMILIARI Alcuni studi sul koro si sono occupati della sua diffusione all’interno di una stessa famiglia, senza rilevare, però, alcun risultato in particolare. Due casi di koro all’interno della stessa famiglia furono riportati, durante l’epidemia verificatasi in Singapore, da Ngui (1969). Altri due studi, che si occuparono dell’epidemia in India, notarono alcune relazioni familiari. Chowdhury (1989) trovò 21 casi in 9 famiglie con un differente legame di parentela, cioè: fratello-fratello; fratello-sorella; padre-figlio; padre-figlia; e marito-moglie. Anche Sachdev (1985) riportò 4 casi di koro che avevano avuto altri familiari colpiti da questo disturbo. Nessuna particolare relazione però, come si è detto, è stata riscontrata tra l’insorgenza del koro e specifiche connessioni familiari. Nel corso del tempo, in ambito medico-psichiatrico, ha prevalso la tendenza a ricondurre il koro a disturbi organici o psichici già noti in occidente, ovvero a categorie mediche universali, a psicopatologie ad eziologia nota. In questo lavoro invece, in particolare nel prossimo capitolo, si intende sottolineare i limiti e le contraddizioni di un simile approccio, che ha operato un’eccessiva riduzione e semplificazione di questo fenomeno, ostacolando la possibilità di comprendere l’evento koro nella sua interezza. Qui si intende appunto porre l’accento sulla necessità di prendere in considerazione gli aspetti sociali, le influenze culturali, i valori e le credenze popolari, le strutture mitiche e simboliche e il modo in cui tutti questi elementi si combinano, per cercare di comprendere il senso, il significato intimo che il complesso fenomeno koro, assume all’interno del suo specifico contesto socioculturale.

CAPITOLO QUINTO

IL KORO, UNA CULTURE-BOUND SYNDROME O UN SINTOMO UNIVERSALE? UNA

QUESTIONE IRRISOLTA Il caso del koro rappresenta un difficile problema di definizione nosologica per la psichiatria, da più di un secolo. La difficoltà nasce dalla inadeguatezza delle varie categorie diagnostiche occidentali, nel definire e classificare una condizione con specifiche caratteristiche culturali. Il koro, infatti, si è rivelato ostile all’essere passivamente ricondotto al catalogo nosografico occidentale. I primi resoconti di retrazione del pene, indicata come koro, furono riportati dalle colonie olandesi in Indonesia, da diversi psichiatri: Blonk (1895), Brero (1896), Vorstman (1897). Il fatto che essi scrivevano in giornali olandesi e tedeschi spiegherebbe, secondo Jilek (1985), la relativamente poca familiarità di studiosi anglosassoni con questi articoli. Il dizionario buginese (Celebes

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meridionale: isola dell’Indonesia) di Matthes del 1874, contiene il primo riferimento noto al termine “koro”, inteso come «to shrink» (restringere, ritirare), e l’espressione “lasa koro” indica «un ritirarsi del pene, una sorta di malattia che non è insolita tra i nativi e deve essere molto pericolosa» (Wulfften Palthe 1936: 536). Brero nel 1897, già cercò di definire in termini nosologici la convinzione, diffusa nel sud della Celebes, che in seguito ad un attacco di koro, il pene potesse retrarsi nella cavità addominale, e che ciò causerebbe inevitabilmente la morte. Egli giunse alla conclusione che si trattava di un’idea ossessiva-compulsiva, condivisa da molte persone nella Celebes meridionale, dovuta ad uno scarso sviluppo delle facoltà critiche in coloro che egli indicò come «half civilized people». Il koro, poi, per un certo periodo cadde nell’oblio, fino alla sua riscoperta negli anni ’30, furono pubblicati, infatti, in questo periodo, una serie di articoli che ripresero ad occuparsi di questo disturbo (Slot 1935, Mulder 1935, Wulfften Palthe 1935, 1936, 1937). Ciò che emerge fin dai primi resoconti sul koro, da parte di psichiatri europei, è una fortissima esigenza di ricondurre questo “strano male” a categorie medico-psichiatriche occidentali. Sebbene fosse indiscutibile una specificità culturale del koro, il problema principale, avvertito da questi primi studiosi, fu quello di spiegare questa esotica affezione, comparandola con disturbi psicopatologici noti in occidente. Kraepelin (1921), infatti, prontamente affermò che una sintomatologia simile a quella rilevata per il koro, poteva essere riscontrata nello stato di allucinazione ipocondriaca di pazienti tedeschi maniaco-depressivi. L’affrettata comparazione, tra patologie occidentali e esotiche manifestazioni, proposta da Kraepelin, è importante perché rivela un atteggiamento fondamentale dell’approccio medico-psichiatrico, nei riguardi di eventi patologici. Il fenomeno morboso, in questa prospettiva, è visto come un’entità autonoma che racchiude in se stessa tutti i significati essenziali. Esso è estirpato dal suo contesto di origine, dalla rete di significati culturali ad esso connesso, per essere classificato, diagnosticato, etichettato. La valenza semantica che la manifestazione patologica, o presunta tale, assume nell’ambiente in cui prende forma e si palesa, è completamente marginalizzata. Un simile atteggiamento è evidente, dunque, nelle formulazioni di Kraepelin in riferimento al koro, questo noto psichiatra tedesco, infatti, prima ancora di osservare, si accinge a comparare, diagnosticare. È evidente, dunque, una volontà di oscurare le differenze per affermare un universale modello patologico. Riconoscere la difficoltà o l’impossibilità di definire attraverso il paradigma nosologico occidentale i disturbi esotici, sarebbe stato un duro colpo all’autorità psichiatrica, avrebbe rappresentato, inoltre, una tacita ammissione, da parte degli adepti di questa disciplina, dei suoi limiti, e stroncato le loro pretese universalistiche. Lo studio del koro, dunque, fin dall’inizio, è stato improntato alla ricerca di caratteristiche che lo accomunassero a patologie occidentali ad eziologia nota. Le differenze e particolarità socioculturali, sono state ampiamente trascurate e misconosciute. Inoltre, nei casi in cui è stato posto l’accento sulle peculiarità dei popoli studiati, questo, spesso, è stato fatto con tono discriminatorio e svalutativo. Un esempio lampante di un simile atteggiamento, è evidente nelle formulazioni di Brero (1897), uno dei pionieri nello studio del koro. Questo studioso, infatti, dopo aver ricondotto i casi di koro

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rilevati nella Celebes meridionale ad un analogo disturbo occidentale, non indugiò nel attribuire la sua relativa diffusione tra la popolazione autoctona, ad una loro carenza, una deficienza, una forma di arretratezza e inferiorità. Il problema della definizione e classificazione del koro, assunse particolare importanza durante gli anni ’60-’70. Furono proposte, per definire il koro e altri disturbi esotici, varie etichette: «psychogenic psycosis» (Faergeman 1963), «hysterical psychosis» (Langness 1967), «exsotic psychosis» (Yap 1969). Le diverse nomenclature, che dovevano avere la funzione di stabilire la nosologia di queste manifestazioni morbose, in realtà, acuirono ulteriormente lo stato di confusione. Sin dal 1951, Yap aveva provato a fornire un coerente schema classificatorio per il koro e altri disturbi tipici del sud-est dell’Asia. Egli analizzò durante un periodo di oltre 15 anni, ad Hong-Kong, 19 casi di koro, e definì questo disturbo come una «atypical culture-bound syndrome». Lo psichiatra cinese, si impegnò anche nel tentativo di fornire una classificazione delle «atypical culture-bound syndrome», e posizionò il koro nella categoria delle «sindromi emozionali, con stati di depersonalizzazione». Per facilitarne la concettualizzazione occidentale, Yap collocò il koro anche all’interno della categoria di «culturally imposed nosophobia», definendolo come uno stato di depersonalizzazione associato con elevata ansietà, indotta da paure irrealistiche, e lo inserì all’interno della più vasta categoria delle psicosi reattive. Oltre a Yap, negli anni ’60, diversi altri autori proposero definizioni per il koro: Gwee (1963) lo indicò come un’acuta isterica reazione di panico, provocata da auto o etero suggestioni e condizionamenti dovute al background culturale; Rin (1965) lo definì come una paura di castrazione in associazione con deprivazione orale; Ngui (1969) come un disturbo psicogeno culture-bound. Nelle formulazioni di questi autori, come si vede, è posto l’accento sulla caratteristica culturale, che agisce nella determinazione di questo disturbo. Tuttavia, però, il limite che accomuna questi studiosi, è che sebbene essi riconoscano una specifica influenza culturale nell’insorgenza del koro, restano vincolati alla dicotomia patogenico/patoplastico. Infatti, ai fattori culturali è attribuito un ruolo nella strutturazione dell’aspetto esteriore della manifestazione morbosa, la quale però è ricondotta ad un sostrato universale invariante (patogenico). Essi, quindi, non differiscono sostanzialmente dai loro colleghi olandesi che, quasi un secolo prima, verso la fine del 1800, fornirono le prime descrizioni sul koro. Infatti, come questi, avvertono l’esigenza di ricondurre il disturbo esotico al modello medico-psichiatrico occidentale, minimizzando l’importanza delle differenze che le manifestazioni patologiche presentano nei diversi contesti, ed esaltando invece le somiglianze. Per cui, se pure mutano le categorie nosografiche a cui il koro è ricondotto, non cambia fondamentalmente l’approccio teorico ed epistemologico a questo disturbo. Le innovazioni teoriche apportate, sembrano essere, dunque, più formali che sostanziali (Ciminelli 1997). Si presuppone che alla base di questo fenomeno vi sia un processo bio-psicologico invariante, e che esso sia modellato patoplasticamente da distinti sistemi di credenza, collegati alla malattia e al disordine. Alle specifiche influenze culturali, dunque, è attribuito il ruolo di dar forma alle caratteristiche esteriori del disturbo, il quale, secondo questi autori, è legato e generato da un processo universale. Inoltre, la

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convinzione più diffusa tra i vari studiosi che si sono occupati del koro, o di altri disturbi esotici, è stata, come fa notare Signorini (1988), che si trattasse essenzialmente di fenomeni patologici, non di sindromi clinicamente distinte, però, ma le stesse già note alla nostra nosologia, tuttavia conformate e orientate ciascuna in modo differente dalle singole culture, che verrebbero, così, a dar loro quell’aspetto esotico che le contraddistingue. «In quanto alterazioni del comportamento, e riconosciute come costituenti una sindrome sono state trattate in chiave solo psichiatrica così che culture-bound syndrome (o meglio, secondo la definizione di Yap, culture-bound reactive syndrome) ha avuto subito l’implicito significato di culture-bound psychiatric syndrome» (Signorini 1988: 28). L’idea secondo cui, potesse trattarsi di manifestazioni intimamente connesse alla complessa struttura culturale, di ciascuna comunità in cui esse apparivano, è stata ampiamente misconosciuta. Quasi del tutto ignorata, è stata la prospettiva che attribuisse a questi disturbi una valenza sociale, che li considerasse, in qualche modo, funzionali per l’adattamento e la sopravvivenza dell’intera società, che li vedesse all’interno della specifica e intricata rete di significati, che si dispiega in ciascuna cultura. Nella spiegazioni del processo che determina l’insorgenza e il decorso del koro, è stato, sovente, riconosciuto un ruolo essenziale ai meccanismi psicoanalitici. L’idea freudiana del complesso di castrazione, come caratteristica universale dello sviluppo psichico, fu prontamente utilizzata da molti studiosi. Nel 1936 Wulfften Palthe, dopo l’analisi di alcuni casi di koro in soggetti cinesi, concludeva: «Noi abbiamo, qui davanti, pertanto, un chiaro esempio del complesso di castrazione di Freud» (1936 : 535). Più tardi, Yap sostenne (1969, 1974) che il fenomeno del koro, poteva essere riscontrato in società patriarcali, che consideravano con particolare enfasi l’importanza della potenza sessuale maschile. Partendo da queste premesse, lo psichiatra cinese, descrisse il koro come una forma culturalmente orientata, dell’universale complesso di Edipo e dell’angoscia di castrazione descritti da Freud. È stata frequente nella letteratura psichiatrica (Kobler 1948; Rin 1965; Wittkower 1969; Yap 1969) l’idea che il koro, interpretato come esempio non occidentale dell’angoscia di castrazione, confermasse l’universalità delle teorie freudiane. Quest’interpretazione – a mio avviso – rivela un ragionamento perverso, non solo, infatti, si riconduce, acriticamente, un fenomeno (koro) che si manifesta in culture ‘altre’ ad un modello interpretativo occidentale (complesso di Edipo), ma poi, paradossalmente, ci si serve di quello stesso fenomeno per dimostrare la validità transculturale e, quindi, l’universalità del proprio modello. L’idea dell’universalità del complesso di Edipo, è stata aspramente criticata dall’antropologia. È stato messo in dubbio il principio secondo cui la spiegazione di certi comportamenti, mediante le dinamiche edipiche, potesse essere valida per ogni cultura. «Ovunque e sempre si a che fare con lo stesso triangolo Padre-Madre-Figlio (Ego)? Oppure il sistema freudiano offre una spiegazione relativa alla sola cultura occidentale?» (Kilani 1996 : 117), questi sono i principali quesiti che sono stati mossi. La prima critica all’universalità del complesso di Edipo è venuta nel 1927 da Malinowski (1969), che ha messo in rilievo la relatività delle culture. L’esempio delle isole Trobriand dell’arcipelago corallino della Nuova Guinea

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orientale, dove Malinowski compì le sue ricerche sul campo, mostrava l’impossibilità del complesso edipico in una cultura che ignora la paternità biologica, ed in cui l’autorità del padre biologico è sostituita da quella dello zio materno. Nella polemica introdotta dall’antropologo polacco10, «tutto ruota intorno ai diversi caratteri che presenta una società organizzata intorno al principio della discendenza matrilinea e che inoltre non riconosce il ruolo del padre nel processo riproduttivo. Spostando i sentimenti ambivalenti del figlio dal padre allo zio materno, feroce matriarca, e centrando i tabù sessuali più sulle sorelle che sulla madre, la società delle Trobriand, ci dice Malinowski, mette in crisi il punto centrale dell’impianto freudiano: la pretesa universalità del complesso di Edipo» (Schirripa 1996: 209). Tuttavia, le formulazioni di Malinowski non sono esenti da critiche, anche esse, infatti, presentano una serie di vizi etnocentrici (idem 211). La critica più convincente alle spiegazioni psicoanalitiche freudiane, è venuta dall’antropologia strutturale. Lévi-Strauss (1969), il suo fondatore, ha mostrato che occorre superare l’antinomia fra natura e cultura, per porre il problema della proibizione dell’incesto in termini di regole o di leggi. Nei sui lavori sulle strutture elementari della parentela ha sottolineato che ciò che è importante non è tanto il contenuto biologico di una relazione (nel caso particolare, madre-figlio, padre-figlio), quanto le obbligazioni che ne sono all’origine, e che derivano dalla proibizione. La proibizione dell’incesto, sostiene Lévi-Strauss, non ha un contenuto biologico o psichico universale, ma costituisce una regola sociale universale fondata sul principio di interdire certe categorie e prescriverne altre. Essa è, più in generale, una regola nel senso che costituisce il principio di organizzazione in società, fondato sullo scambio e sulla reciprocità fra gruppi che donano e gruppi che ricevono (Kilani 1996). Le istanze critiche verso l’universalità delle teorie psicoanalitiche freudiane, e in particolare le dinamiche del complesso di Edipo, sono state, in tempi recenti, ribadite con forza da Obeyesekere (1990) e da Nathan (1993). Questi due autori, hanno sottolineato quanto possa essere impropria l’utilizzazione di concetti psicoanalitici classici nelle società tradizionali, o con pazienti di altre culture, se non si sia provveduto, preliminarmente, ad una loro traduzione nel particolare universo di relazioni parentali e simboliche proprie di quest’ultime. Nel tentativo di esportare le formulazioni psicoanalitiche sul complesso edipico, insistono i due autori, non è possibile trascurare l’orizzonte mitico, simbolico e sociale di altre culture. Nonostante tutto, però, come si è visto per il caso del koro, l’ingenua e presuntuosa convinzione dell’universalità del proprio metodo, ha spinto numerosi studiosi ad una interpretazione psicoanalitica di fenomeni esotici, senza preoccuparsi di appurare se tali strumenti fossero adeguati a cogliere quanto accadeva in altre culture, se i concetti chiave della psicoanalisi potevano funzionare per individui in cui relazioni parentali, forme di trasmissione del sapere e della soggettività, codici della legge e dell’autorità erano radicalmente diversi. Ritornando all’analisi dei modelli occidentali di concettualizzazione del koro, che si sono alternati nel tempo, è opportuno rilevare che un momento di 10 Per un approfondimento del dibattito aperto da Malininowski si veda l’attenta ricostruzione fatta da Schirripa (1996)

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particolare ambiguità nella definizione nosologica di questo disturbo, si è avuto tra gli anni ’70-’80. Nel 1970 Edwards pubblicò un resoconto con il titolo di «Koro-pattern of depersonalization» che trattava di un caso di koro in un paziente americano; negli anni ’80 furono pubblicati una serie di resoconti che riportavano sporadici casi di koro, spesso associati con altri disturbi psichiatrici o abuso di droghe, da differenti nazioni occidentali (Gran Bretagna, Francia, U.S.A., Canada) e dall’Africa (Nigeria, Tanzania) (Chowdhury 1996). Alla base di questi resoconti di, presunti, casi di koro, c’era un medesimo intento, quello, cioè, di confutare l’idea secondo cui questo disturbo fosse legato ad una specificità culturale. I vari studi che riportavano sporadici episodi di disturbi classificati come koro o koro-like, da contesti lontani da quello tipico di questa affezione (sud-est asiatico), implicitamente volevano affermare il suo essere un sintomo universale, riscontrabile ovunque. Invece di incrementare un’analisi del koro volta a comprendere questo disturbo nel suo ambiente naturale, ad acquisire elementi che consentissero una lettura e una comprensione del drammatico significato che questa manifestazione assume nel suo specifico contesto, ancora una volta sono prevalse delle azzardate comparazioni, finalizzate ad una riduttiva generalizzazione. Si legge, dunque, in questi resoconti una bramosa volontà di ricondurre il koro a patologie note, di cui si conosce l’eziologia, la patogenesi, la terapia. Prevale la volontà di collocarlo in una precisa categoria psichiatrica, imprigionarlo in una nicchia, imponendogli un’etichetta che, però, non sembra mai essere realmente appropriata ed esauriente. Ecco quindi che gli psichiatri si impegnano a cercare – o forse quasi ad inventare – anche in occidente, isolati casi di disturbi che immediatamente si apprestano a definire come koro o, peggio ancora, koro-like. Tutto ciò, probabilmente, allo scopo di dimostrare l’universalità di questo sintomo, di ricondurlo, quindi, a questo puto lecitamente, al proprio modello psicopatologico interpretativo, riaffermando così, la loro autorità professionale. È sorprendente il fatto che talvolta, come esempi di primi casi di sporadici attacchi di koro in occidente, vengano riportati i resoconti di due autori (Ivanov 1885 in Russia e Raven 1886 in Inghilterrra), che sono addirittura precedenti alle informazioni fornite dai primi pionieri olandesi che rilevarono la diffusione di questo disturbo nel sud-est dell’Asia. Naturalmente, Ivanov e Raven non fanno alcun riferimento al termine koro, visto che esso non era ancora noto, ma parlano di un’insolita condizione il cui sintomo fondamentale è rappresentato da una sorta di restringimento del pene. Raven scrive:

[…], un uomo sano, serio, scapolo, di ventisette anni, una notte subito dopo essere andato a letto sentì una sensazione di freddo nella regione del pene. Egli si agitò nello scoprire che l’organo, uno normalmente sviluppato, si stava rapidamente restringendo, ed era, egli pensava, definitivamente ritirato. Egli immediatamente diede l’allarme, e Io fui rapidamente convocato per curarlo. Lo trovai molto nervoso e allarmato. Il pene era quasi scomparso, il glande era appena percepibile sotto l’arco pubico. Era visibile solo la pelle del pene, e appariva simile a quando l’organo è sepolto in un idrocele, o, in un estremo esempio, come essa appare dopo la morte per annegamento. Io lo rassicurai, e gli diedi

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dell’ammoniaca, e riscontrai il giorno dopo che tutto era ritornato al suo stato naturale. Ma egli continuò a sentirsi debole e nervoso per alcuni giorni. Egli non fu in grado di dare nessuna spiegazione dell’accaduto, e la innaturale condizione non si verificò mai più.(1886: 250, cit. in Edwards 1984: 15).

Il caso di retrazione genitale descritto, invece, da Ivanov (1885) riguardava un contadino russo di 23 anni che aveva una moglie e una famiglia. La descrizione è del tutto simile a quella offerta da Raven (Edwards 1984). L’associazione di questi insoliti disturbi con il koro orientale, è avvenuta successivamente alla scoperta di quest’ultimo. In modo del tutto discutibile, infatti, dopo le descrizioni del koro riportate dal sud-est dell’Asia, si è superficialmente comparato questo disturbo con quelli descritti da Ivanov e Raven rispettivamente in Russia e in Inghilterra. La, presunta, similarità sintomatologica è stata ampiamente esaltata, mentre le profonde differenze sono state completamente oscurate. I rari casi di retrazione genitale occidentale rilevati sia da Raven e Ivanov sia, in tempi più recenti, da diversi studiosi (Barrett 1978; Burgeois 1968; Ede 1976 ; Sajjad et al. 1993; Scher 1987; Tobin 1996), in alcuni stati europei o americani, a cui indebitamente – ritengo – è stata attribuita l’etichetta di koro, presentano, infatti, delle fondamentali divergenze con le epidemiche manifestazioni di questo disturbo che si sono verificate nel sud-est dell’Asia e in particolare nel sud della Cina, differenze che non possono essere assolutamente trascurate. La retrazione genitale che lamentano, in rari casi, pazienti occidentali, può essere considerata semplicemente come un sintomo che fa parte di un più ampio quadro patologico. Esso, infatti, il più delle volte è associato con una preesistente situazione psicopatologica (depressione, schizofrenia ecc.) o con abuso di sostanze tossiche (droghe, alcol ecc.), e si dissolve con la risoluzione della condizione patologica primaria (Berrios – Morley 1984; Chadda – Shome 1991; Favezza 1985; Mo 1992). Cosa completamente differente è quella che riguarda le vittime del koro sud-est asiatiche, essi, infatti, normalmente non sono né pazienti psichiatrici né tossicodipendenti, e la loro condizione difficilmente può essere compresa al di fuori del contesto socioculturale in cui essi sono inseriti. Un elemento essenziale di un tipico attacco di koro, inoltre, è l’angosciosa convinzione che questa condizione sia fatale, che essa preannunci il sopraggiungere della morta. È questa convinzione che fa precipitare le vittime in uno stato di terrore, che le porta ad adoperarsi in tutti i modi per impedire questa situazione, che le spinge ad invocare disperatamente aiuto. In nessuno degli isolati casi di retrazione genitale riscontrati in occidente, era presente una simile convinzione. Ma l’essenziale differenza tra il koro orientale, e i fenomeni di retrazione peniena occidentali, consiste nel fatto che il primo può essere sicuramente definito come un “evento sociale”, mentre, i secondi, sono rari, indefiniti, disturbi isolati. Il koro, infatti, nelle forme in cui si manifesta nei contesti del sud-est dell’Asia, è un fenomeno che coinvolge l’intera comunità: tutti conoscono, condividono e partecipano al dolore e ai timori delle vittime. La famiglia, il vicinato accorrono a portare soccorsi al soggetto colpito dal male, si adoperano in tutti i modi possibili per arrestare questa condizione, di cui anch’essi condividono la

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convinzione che possa essere fatale. Il koro, dunque, per l’intera comunità rappresenta un fenomeno morboso che ha una sua storia, è una condizione reale, nota, verso la quale bisogna adottare degli specifici rimedi terapeutici (massaggi e trazioni del pene per evitarne la retrazione, somministrazioni di specifiche pozioni, bagni con acqua fredda, ecc.), e assolutamente evitarne altri (i soggetti di sesso opposto non devono toccare la vittima, ciò gli causerebbe la morte, ecc.). L’idea del koro è radicata quindi nelle comunità in cui si palesa, non è un fenomeno oscuro e sconosciuto ma, piuttosto, appartiene all’insieme di miti, di credenze, di simboli, di significati che costituiscono la specificità culturale di ogni comunità umana. Le manifestazioni di koro potrebbero essere considerate – a mio avviso – come una rappresentazioni sociale di un’antica partitura, in cui tutti conoscono bene il proprio ruolo, e non disdegnano di fare la loro parte. Cosa completamente diversa è l’insolito sintomo riscontrato in qualche isolato paziente occidentale, le cause che lo determina, organiche o psicogene che siano, sono del tutto individuali11. Nonostante queste differenze siano evidenti e innegabili, la comparazione tra questi due fenomeni, però, è stata tutt’altro che rara in ambito medico-psichiatrico. Essa, anzi, è stata sovente addotta come argomentazione da coloro che si sforzano nel dimostrare l’universalità di questo male. Negli ultimi anni sono stati frequenti i tentativi di definire e classificare il koro, riconducendolo ai modelli diagnostici e interpretativi propri della psichiatria occidentale. Nel 1984 Edwards si pose l’intento di sfatare definitivamente l’idea secondo cui le cause d’insorgenza del koro fossero culturalmente determinate, e sottolineare, invece, il ruolo di fattori organici o fisiologici nell’eziologia di questo male. Egli ritenne molto più appropriato indicare questo disturbo come «genital retraction syndrome» ponendo così l’accento sull’aspetto puramente sintomatologico, trascurando, invece, gli elementi tipicamente culturali, e definendo, quindi, questa affezione quale un sintomo fondamentalmente universale. Edwards formulò una triplice classificazione: vera retrazione fisiologica; panico di retrazione genitale come reazione a reali o immaginari insulti ambientali; e somatizzazione culturalmente modellata. Egli suggerì che il termine koro poteva essere utilizzato per indicare questo disturbo specificatamente nel contesto in cui questo termine è in uso, ma che comunque esso andava ricondotto alla più vasta categoria delle «retrazioni genitali», in quanto espressione di un sintomo, sia pur raro, invariante ovunque. Un altro noto tentativo di definizione e classificazione del koro, e delle altre culture-bound syndromes, fu effettuato da Ronald C. Simons (1985). Egli, come si è avuto già modo di vedere (v. infra p. 33), propose uno schema tassonomico in cui classificò le CBS in taxa. I taxa, nel modello di Simons, si basano sulla comparazione cross-culturale delle similarità che si ricavano da una descrizione accurata dei micro-dettagli comportamentali: questi ultimi costituiscono, infatti, secondo Simons, i tratti descrittivi della sindrome, ovvero «la sua forma» (33). Quest’autore raggruppa le CBS in base al sintomo più riconoscibile al di là delle 11 Di particolare interesse è la distinzione fatta da Devereux(1978) tra «disturbi etnici» e «disturbi idiosincratici»

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denominazioni e significati che tali sindromi assumono nei vari contesti culturali: il sintomo prescelto risponde allo scopo di identificare un eventuale fattore neuro-fisiologico comune. Simons, dunque, si propone sostanzialmente di evidenziare il ruolo svolto dalla biologia nel dar forma alle manifestazioni delle culture-bound syndromes. Nel suo schema tassonomico il koro è collocato all’interno della categoria indicata come «genital retaction taxon», che raggruppa tutti quei casi che presentano, come caratteristica comune, «elevata ansietà associata con la percezione che i genitali si stiano retraendo nel corpo» (151). Simons era convinto che questo taxon era idoneo a classificare entrambi i casi di koro, cioè sia quello del sud-est dell’Asia (con una forte specificità culturale) sia quello occidentale (associato con panico o condizioni organiche). Questo psichiatra, quindi, è incline a pensare che il koro – come del reste tutte le altre CBS – collima con una nosologia psichiatrica universale e assume una forma inusuale a causa di condizionamenti culturali localmente differenti. La posizione di Simons è stata duramente criticata dall’antropologo Michael Kenny (1988) il quale lo accusa di un eccessivo riduzionismo, e contesta l’idea di un riflesso neuro-fisiologico comune che – a suo avviso – se mai fosse dimostrato, non avrebbe, comunque, nessuna reale valenza esplicativa. Per ciò che riguarda specificamente il genital retraction taxon, Kenny sostiene che esso si fondi su di una confusione concettuale. Ciò che la letteratura etnografica descrive, sostiene questo autore, è il timor panico che il pene si stia ritirando nel corpo, non che esso si stia effettivamente verificando. Queste paure, sostiene Kenny, potrebbero essere ben spiegate attraverso l’analisi della loro matrice culturale, piuttosto che addurre una spiegazione neuro-fisologica, in virtù anche al fatto che non si conoscono resoconti medici ben documentati che riportino anomalie nel comportamento del pene. Kenny afferma che è impossibile condurre un’analisi del koro senza tenere conto delle idee circa la virilità (nel contesto in cui si manifesta), l’ambiente sociologico in cui gli episodi di koro si sviluppano, le caratteristiche idiosincratiche che fanno si che sia una determinata persona piuttosto che un’altra ad ammalarsi di koro, e in fine se pure ci fossero degli elementi biologici a influenzare questa condizione o perfino a determinarla completamente, comunque essa potrebbe essere culturalmente modellata. Kenny, dunque, ritiene impossibile nell’analisi del koro, e naturalmente di tutte le altre CBS, trascurare i fattori sociali e culturali, ma, piuttosto, considera indispensabile assegnargli il peso che essi chiaramente meritano. La posizione di Simons è rappresentativa del perdurare di un atteggiamento costante da parte della psichiatria occidentale nei confronti di esotiche manifestazioni “morbose”, cioè la volontà, o quasi un’ansiosa necessità, di ricondurle a universali fattori biologici. Nello stesso volume in cui Simons presenta il suo modello tassonomico per le CBS, Charles C.Hughes, l’altro curatore del libro insieme a Simons, propone un tentativo di inserimento del koro, e delle altre culture-bound syndromes, all’interno del DSM-III. Egli discute le diverse possibilità di associazione dei sintomi del koro con i vari assi diagnostici, suggerendo come potenzialmente appropriati quelli indicati come: «conversion disorder», «panic disorder» o «atypical somatoform disorder» (Simones & Hughes 1985: 193). La classificazione proposta da Hughes contempla la situazione in cui la retrazione

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genitale è la sola primaria affezione del paziente, ma non considera i casi in cui essa possa essere secondaria a qualche altra diagnosi psichiatrica (Chowdhury1996). Anche W.G. Jilek (1985), uno studioso che si occupò per molto tempo dei disturbi tipici del sud-est dell’Asia, propose una definizione del koro. Egli si pose polemicamente nei confronti della prospettiva che spiegava le manifestazioni di koro esaltando esclusivamente l’aspetto legato alla sessualità, interpretandole quindi come espressione dell’ansia di castrazione. Quest’autore, infatti, condivide le critiche all’idea dell’universalità del complesso edipico. Egli inoltre afferma la necessità di distinguere le manifestazioni epidemiche di koro del sud-est dell’Asia, dai casi isolati di disturbi associati con preesistenti condizioni psicotiche, nevrotiche o di abuso di sostanze tossiche, che sono stati rilevati in alcune società occidentali ed etichettati come koro-like. Jilek, ritiene che ciò che distingue i pazienti occidentali da quelli asiatici è, soprattutto, il fatto che nel loro caso si tratta di una convinzione ‘autistica’ non condivisa dal resto della comunità. L’autore conclude affermando che nel tentativo di spiegare l’eziologia e l’epidemiologia del koro, non ritiene valido né un modello basato sull’ansia da castrazione edipica, né uno che proponga una interpretazione nei termini di una patogenicità culturalmente specifica. Egli sostiene, piuttosto, che il koro sia il frutto di una distorta percezione dell’immagine corporea; e se si vuole rintracciare un denominatore comune nelle popolazioni colpite dall’esplosione di questa condizione, esso va ricercato nell’esperienza di una minaccia alla loro sopravvivenza socioeconomica, etnica, culturale e biologica. In questi contesti, sostiene Jilek, l’individuo che manifesta i sintomi del koro risponde alla paura collettiva di uno sterminio da parte di un ben definito nemico (un’altra popolazione ostile), che è percepito come pericoloso per la sopravvivenza del proprio gruppo etnico, poiché ne minaccia la capacità procreativa. Sebbene la prospettiva tracciata da Jilek sia suggestiva e originale, essa però resta piuttosto oscura in diversi punti. Rifiutando l’idea di una specifica influenza culturale nella determinazione delle manifestazione di koro, non è chiaro, se pure si accetti la sua complessa spiegazione socio-politica, perché la paura collettiva di un attacco alla capacità procreativa, e quindi all’esistenza del gruppo etnico, di cui lui parla, assuma quelle specifiche forme, trovi espressione in una sorta di ritualità, si fondi su particolari credenze, miti, simboli, sia inserita in una complessa rete di significati. In relazione alla spiegazione di Jilek, dunque, ritengo che al di là della sua ipotesi eziologica, che necessita, comunque, di una più approfondita indagine, tralasciando l’analisi della specificità culturale dei contesti in cui esplodono epidemiche manifestazioni di koro, lascia irrisolti una serie di interrogativi: perché colpisce alcune persone e non altre? Perché si espande in alcune zone e non in altre? Perché sono cosi radicate certe convinzioni, prescritti certi particolari comportamenti, adottati specifici presidi preventivi e terapeutici? Nonostante i limiti del suo approccio, va riconosciuto a Jilek il merito di aver proposto una prospettiva che contrasta l’egemonia delle spiegazioni psichiatriche classiche, che si ostinano ad imprigionare complesse manifestazioni, quali il koro, in sterili categorie nosologiche, che le inquadrano solo in una limitata ottica patologica, che si sforzano di trovare un universale elemento biologico a cui finalmente

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poterle ricondurre. Jilek introduce, invece, l’idea che il manifestarsi di questo disturbo possa avere un qualche significato sociale, che esso possa essere inteso come un messaggi, un segno, una spia che esprime uno stato di malessere condiviso dall’intera comunità. Devan e Ong (1987) tentarono di incorporare i recenti resoconti di koro in associazione con altri disturbi psichiatrici ed organici, all’interno di una semplificato schema classificatorio, nel modo seguente: koro classico (con forte copertura culturale); koro innestato su primari soggiacenti disordini psichiatrici; e koro come sintomo di malattie mentali. Bernstain e Gaw (1990) fecero un’approfondita analisi della sintomatologia del koro, e proposero una classificazione in tono con la filosofia del DSM-IIIR. Essi asserirono che il tratto cardine del koro non era l’ansietà, ma la retrazione genitale e la conseguente paura di morte. Panico e ansietà, invariabilmente conseguono quando gli individui iniziano a temere che si verificheranno alterazioni permanenti o, peggio, la morte. Pertanto essi, affermarono che da un punto di vista descrittivo, un disturbo da retrazione genitale rappresenta «un sintomo fisico che suggerisce un disturbo organico per il quale non ci sono risultati organici dimostrabili e che è presunto essere psicogeno all’origine» (1673). Sebbene, sostennero gli autori, il koro è simile alla categoria di «somatoform disorder» del DSM-IIIR, la sua particolare forma non collima con nessuna delle sue sottocategorie, pertanto, essi proposero una nuova sottocategoria indicata come «genital retraction disorder», allo scopo di consentire anche l’identificazione delle manifestazioni di koro culturalmente specifiche. Essi proposero uno schema per l’inclusione del koro nel DSM-IV; i criteri diagnosti, da essi stabiliti, per l’idividuazione e la classificazione di questo disturbo sono riportati nella tabella I. Bernstain e Gaw, suggerirono che per una completa classificazione del koro è necessario prendere in considerazione 3 punti fondamentali: 1) se la retrazione genitale è un disturbo psichiatrico primario o è causato da altre affezioni, 2) se esso si verifica in uno specifico contesto culturale, e 3) se il disturbo si presenta in una forma individuale o in un contesto epidemico.

TABELLA I

Criteri diagnostici del koro per il DSM-IV proposti da Bernstein e Gaw

(1990)

A. Un opprimente senso di panico associato con la sensazione o la credenza di

una retrazione genitale. B. Una paura di morte imminente, i genitali si potrebbero completamente

retrarre. C. Una tendenza a prevenire la retrazione tenendo fermo il pene, chiedendo

aiuto in questo anche agli amici e ai parenti, o applicando aggeggi al pene.

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D. Un comportamento che non è evidentemente strano o bizzarro, fatta eccezione per la credenza e le sue ramificazioni.

E. Una assenza di confluenza con qualsiasi disturbo dell’asse I diverso dal

somatoform disorder, e dove non si può stabilire un fattore organico predisponente e mantenente il disturbo.

Specificare il tipo:

Se in un contesto culturale o non in un contesto culturale. Se un caso singolo o uno epidemico. Si deve, essi sostenevano, differenziare i casi di koro culturalmente specifici, dalle situazioni koro-like. Inoltre, una persona sotto l’influsso della credenza popolare sul koro non deve essere considerata psicotica, a meno che le funzioni del suo ego non siano gravemente danneggiate. La presenza di una credenza popolare nel koro o altre credenze condivise, è il fattore chiave per la comprensione di questo fenomeno e per spiegare la genesi e la perpetuazione delle forme epidemiche di koro. È questa relazione con le tendenze culturali che rendono questo disturbo caratteristico, e la sua rappresentazione drammatica. Per dare chiarezza e adeguata considerazione a questi fattori culturali, sostenevano gli autori, il concetto di disturbo culturalmente specifico doveva essere inserito nel DSM-IV, dato che questa categoria era chiaramente assente. La proposta di Bernstein e Gew è rimasta, però, tale, poiché nel DSM-IV non fu inserita nessuna nuova categoria né per il koro né per altre CBS. Il DSM è uno strumento classificatore legata alla cultura occidentale o, più precisamente, è basato sulle concettualizzazioni psichiatriche della scienza medica occidentale. Si rivela pertanto un difficile problema collocare le CBS nelle nicchie di questa classificazione. A tale proposito considero molto appropriate le osservazioni di Tsung-yi Lin, che condivido a pieno. Egli afferma:

La moderna psichiatria è nata in Occidente, e durante la sua crescita è stata modellata da specifiche tradizioni filosofiche e scientifiche occidentali, essa si è sviluppata come un figlio della cultura occidentale. Considerando, poi, la prevalenza dell’etnocentrismo e l’infondata presunzione dell’universalità clinica nella moderna psichiatria, non è difficile comprendere perché fenomeni psichiatrici non familiari o folcloriche pratiche di guarigione dirette a disturbi mentali in culture non occidentali sono considerate come strane, primitive, prive di interesse, o perfino inferiori. Semplicemente essi sono considerati come fenomeni e pratiche isolate dalla totalità del contesto culturale che gli da forma e serve a definire il loro reale significato (1982: 235 ).

Questa lunga citazione pone l’accento sulla natura degli strumenti, dei modelli, delle interpretazioni cliniche proprie della psichiatria occidentale, ci induce a riflettere sul come esse – nonostante anelino ad una sorta di universale oggettività – siano intimamente legate alla cultura occidentale. Gli studi, dunque, che si occupano di definire e classificare nosologicamente particolari disturbi

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esotici, sono a loro volta culturalmente condizionati e orientati. I fatti, i dati che vengono osservati, riportati non sono semplicemente individuati, scoperti, ma piuttosto essi sono retoricamente costruiti, adattati, corretti, e talvolta, grossolanamente fraintesi. I fenomeni oggetto di osservazione spesso sono decontestualizzati, isolati dalla intricata rete di significati locali che ad essi sempre è connessa, oscurando il reale messaggio che essi vogliono rivelare, deprivandoli della loro essenziale valenza semantica. La psichiatria occidentale manifesta le sue tentazioni egemoniche quando, sovente, disprezza i successi clinici conseguiti dalle terapie tradizionali praticate in culture “altre”. Questi successi devono essere minimizzati, trascurati, negati perché contestano, con la loro stessa esistenza, la superiorità universale di cui si sentono portatori i clinici occidentali. Un’analisi di tutte le precedenti postulazioni riguardanti la definizione e classificazione del koro, mostra una notevole discrepanza nella concettualizzazione di questo disturbo. Le numerose etichette che sono state proposte (atypical psychosis, atypical somatoform disorder, panic disorder, sexual disorder not otherwise specified, genital retraction panic disorder, depersonalization disorder, conversion reaction ecc.) hanno creato un profondo stato di confusione, rendendo estremamente difficile individuare precisamente la natura, le caratteristiche, le cause alla base di questa complesso fenomeno. Ciascuno ha presentato la propria definizione come la definitiva, l’unica veramente valida, contestando e criticando le proposte degli altri studiosi. In questa ottusa disputa, però, quasi tutti sono stati d’accordo nel considerare questa manifestazione come un fenomeno patologico, riconducibile e spiegabile attraverso gli strumenti nosologici e i modelli diagnostici della psichiatria occidentale. Il koro, però, si è rivelato refrattario, ribelle all’essere interpretato, semplificato, imprigionato in una precisa nicchia nosografica, il che ha richiesto agli psichiatri occidentali un continuo lavoro di revisione, riformulazione delle loro teorie, senza mai raggiungere un accordo unanime, senza mai trovare, nel catalogo delle patologie note, una valida categoria medico-psichiatrica che riuscisse adeguatamente a incorporare e spiegare il koro nella totalità dei sui aspetti. Come più volte è stato detto, estremamente rara è stata un’analisi finalizzata a cogliere il significato che l’evento koro assume nel contesto in cui si manifesta, come esso appare dal punto di vista dei nativi, quali sono le specifiche influenze culturali che predispongono e determinano, successivamente, l’insorgenza e la diffusione di questo drammatico disturbo, come la comunità si pone e partecipa al verificarsi di questo evento. A questi interrogativi ha cercato di dar risposta Sheung-Tak Cheng (1996), il quale ha condotto un’analisi volta a mettere in evidenza i fattori socioculturali che non sono mai stati sufficientemente presi in considerazione dalle precedenti formulazioni. Sheung-Tak analizzando il koro nell’ambiente naturale in cui esso si manifesta, attacca la nozione secondo cui questa condizione sarebbe una psicopatologia individuale. Egli, piuttosto, sostiene che, almeno nei modi in cui si manifesta in Cina, questo fenomeno non può che essere considerato come un male sociale, sostenuto da fattori culturali, che colpisce l’intera comunità e non solo quelli che presentano i sintomi del koro. I più dettagliati resoconti circa forme epidemiche di koro, sono stati riportati dall’isola di Hainan e dalla penisola

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di Leizhou che per la loro vicinanza sono state considerate come un’unica area. Tseng et al.(1988) notarono che le epidemie di koro, nonostante si estendessero a zone vicine, non si diffusero mai ad altre province del Guangdong al di là della penisola di Leizhou. Partendo da questa osservazione, Sheung-Tak solleva una serie di interrogativi: perché le epidemie di koro sono limitate alle regioni della costa meridionali? Quali fattori potrebbero aver causato o facilitato la diffusione di questo disturbo in quella zona? Anche se il koro è relativamente prevalente in quest’area, non tutta la popolazione ne soffre. Le vittime del koro, condividono qualche caratteristica comune che le differenzia dal resto della popolazione e li rende più vulnerabili nei confronti di questo male? Ci sono dei valori e delle credenze sposati particolarmente dalla popolazione della costa meridionale che la predispone a subire l’esperienza del koro, e consentono di ascrive significati culturali al comportamento? Sheug-Tak sostiene che, solo identificando un fenomeno culturalmente specifico come il koro all’interno dell’ambiente in cui esso appare, e analizzando l’ambiente nella sua totalità, possiamo veramente comprendere la natura di questo enigmatico fenomeno. Solo integrando insieme una vasta serie di informazioni ( l’area dell’epidemia, il modo in cui essa si è diffusa, le persone che ne sono state colpite, la natura degli attacchi di koro, i sintomi manifestati, il modo in cui essa è stata trattata dalla popolazione locale, gli atteggiamenti e le credenze popolari della comunità nei confronti del koro), possiamo sviluppare una differente, e più profonda, comprensione di questa condizione. L’autore ritiene che, sia molto interessante il fatto che le notizie di un’epidemia di koro in un’isola vicina, inneschino una nuova ondata epidemica. Egli sostiene che le dicerie, generano un’aspettativa nella comunità, che ne influenza il comportamento. Sheung-Tak è convinto che qualsiasi formulazione, che si occupi dell’epidemica diffusione del koro, non possa ignorare il ruolo della collettiva anticipazione della minaccia. Questo studioso, inoltre, protesta nei confronti della posizione che vede nel koro un tipo di disturbo da panico. Egli sostiene, che questa associazione è stata piuttosto frettolosa, e non ha considerato altri importanti aspetti di questa affezione. Infatti, nel caso del koro, l’attacco di panico, normalmente, sparisce nel giro di 20-60 minuti e, nella maggioranza delle vittime, non si verificano ulteriori attacchi dopo il primo episodio. Poiché, una delle caratteristiche distintive di un disturbo da panico, è rappresentata da ricorrenti attacchi di panico, per la quasi totalità delle persone colpite dal koro, appare molto in dubbio che si tratti di una analoga forma di disturbo. Le forme in cui il koro si manifesta, il comportamento delle vittime, il processo di salvataggio dell’organo genitale che essi mettono in atto, può apparire, fa notare l’autore, estremamente assurdo ad un osservatore esterno, e perfino ad un cinese. Tuttavia, il fatto che parenti, amici, vicini accorrono premurosi ad aiutare e soccorrere il soggetto, per impedire la retrazione genitale, fa pensare che il koro non è qualche cosa che sperimenta solo la vittima, ma che c’è una realtà sociale definita da significati culturali assegnati al fenomeno koro, cosi che quelli che vivono insieme nella comunità condividono analoghe aspettative. Infatti, ci dice Sheung-Tak, capita spesso che molti dei cosiddetti “pazienti”, sono indicati come affetti da koro, non perché essi ne manifestano i sintomi, ma perché altre persone che

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gli stanno intorno, hanno mal interpretato i segni di disagio come tipici del koro, e immediatamente messo in atto misure terapeutiche. Un esempio di questo tipo, è evidente nei casi di koro che colpiscono bambini molto piccoli, in queste situazioni, infatti, non sono le piccole vittime a lamentarne i sintomi ma, piuttosto, sono genitori iperapprensivi, in forte allarme perché convinti che questo male abbia colpito i propri figli. Alcuni soggetti, dunque, sono designati come vittime del koro, e i loro genitali sottoposti ad operazioni di soccorso, contro il loro volere. Il koro, afferma Sheung-Tak, almeno nel modo in cui è esperito dalla popolazione del sud della Cina, non può essere considerato come la conseguenza di una soggettiva distorta immagine corporea, come si verifica nei pazienti con disturbi di depersonalizzazione – altra ipotesi dominante in questo campo ( Mo 1987; Yap 1965). C’è infatti, egli spiega, un processo sociale che rinforza la credenza nel koro della vittima, e virtualmente di ogni persona della comunità. Quasi tutte le vittime, riportavano una vivida sensazione che i loro organi genitali si stavano ritirando. Sostiene Sheung-Tak, che non potrebbe essere diversamente: la vittima crede nel koro, tutti coloro che gli stanno intorno sono spaventati per la sua condizione, tutti raccontano la stessa storia e partecipano nel portare soccorsi. Se c’è un disturbo, afferma l’autore, esso è un disturbo di massa; le emozioni individuali delle vittime, non possono essere separate dall’atmosfera circostante. Per quanto riguarda le caratteristiche delle vittime del koro, le ricerche condotte nel paese di Haikang (penisola di Lizhou) hanno fornito interessanti informazioni. Tutte le 232 vittime colpite in questo paese erano di etnia Han, il gruppo etnico dominante in questa regione e in tutto il resto della Cina. La più alta percentuale di soggetti colpiti, era compresa tra i 15-19 anni di età, un numero molto esiguo di vittime aveva dai trent’anni in su: solo il 9%. Solo il 22% dell’intero campione considerato era sposato, una piccola proporzione degli adolescenti colpiti frequentava la scuola, il livello medio d’istruzione era molto basso. Inoltre, dai test che furono somministrati (Symptoms Checklist, Sixteen Personality Factor Test, Life Problemes Questionnaire, Folk Belief Questionnaire), emerse che le vittime del koro non presentavano alcuna analogia con pazienti nevrotrici; avevano un punteggio più basso rispetto al gruppo di controllo per il fattore dell’intelligenza, dato che rafforzava la scoperta che le vittime del koro erano poco istruite; ottennero punteggi significativamente più alti agli items che rivelavano la credenza nel koro, e in forze soprannaturali. In sintesi, dalle indagini condotte, il profilo della tipica vittima del koro che emergeva, era quello di un soggetto di sesso maschile, di etnia Han, giovane, single, scarsamente istruito, e con una forte credenza e timore in forze soprannaturali, e nel koro (Mo 1987; Tseng et al. 1988). Vari autori si sono rifatti ad alcune credenze connesse al sesso, diffuse tra la popolazione cinese, per spiegare il verificarsi del koro. Questi autori (Gwee 1963; Tseng et al. 1988; Wen – Wang 1981), hanno costantemente fatto riferimento alla credenza culturale cinese relativa al controllo sessuale. Più specificamente, una prospettiva originatasi con il Taoismo, che ha fortemente influenzato il pensiero medico cinese, afferma che la frequente eiaculazione, inclusa l’emissione notturna, è dannosa per l’organismo. Lo sperma è considerato l’energia vitale maschile, e dovrebbe

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essere trattato con cura. L’esaurimento del seme condurrebbe alla morte. L’uomo è incoraggiato ad avere rapporti sessuali con la propria partner, ma non ad eiaculare, eccetto nel momento in cui la donna ha più probabilità di essere feconda, poiché l’eaiculazione, provocherebbe la riduzione dell’energia vitale. Il coito dovrebbe essere sostenuto per più tempo possibile senza eiaculare, poiché in questo modo si incrementerebbe l’energia dell’uomo (yang) attraverso l’assorbimento dell’energia femminile (yin). Allo stesso tempo, lo yin della donna sarebbe rafforzato dall’amplesso, e di ciò ne beneficerebbe ulteriormente lo yang maschile. Molti cinesi sono influenzati, a differenti gradi, da queste idee. Benché siano state associate con l’esperienza del koro, non è stato spiegato in che modo esse possano indurre un attacco, o creare una disposizione psicologica nei confronti di questo disturbo. L’idea della morte causata dal completo esaurimento del seme, sostiene Sheung-Tak, somigli in qualche modo all’idea della morte causata dalla completa scomparsa degli organi genitali, ma il loro presunto collegamento, è puramente speculativo. Anche se in alcune vittime del koro, è stata rinvenuta l’idea del controllo sessuale, essa, però, non è stata confermata da altri (Gwee 1963; Tseng et al. 1988). Sheung-Tak, rivolge l’attenzione al fatto che le persone colpite dal koro, credono in forze soprannaturali, e sono convinte che il koro realmente esista, e che loro ne possano essere colpiti. Tutte le 232 vittime esaminate ad Hikang, avevano una conoscenza del koro precedente all’attacco di questo male. Nel folclore cinese, riferisce l’autore, si attribuisce ad un fox spirit la capacità di trasformarsi in una bella donna, occasionalmente anche in un uomo, per sedurre e manipolare le persone, e per impossessarsi della loro energia vitale. Il fox spirit è molto potente, è capace di rendere le persone deboli, cosi come fisicamente e sessualmente forti. È descritto, afferma Sheung-Tak, in un famoso libro di storie di fantasmi, Strange Tales of Liao-Chai, che esso può provocare il restringimento di tessuti umani. Sheung-Tak, in base ad una serie di informazioni raccolte, avanza un’ipotesi molto interessante. Mo (1987) e Tseng et al. (1988), rilevarono che le 232 vittime del koro di Haikang, erano tutte appartenenti al gruppo etnico degli Han, nessuno apparteneva ai Li o ai Miao che sono gruppi minoritari in Cina, e nell’isola di Hainan vivono sulle montagne. A differenza degli altri gruppi etnici, nei cinesi Han è molto popolare la credenza nel fox spirit, questo potrebbe fornire, secondo Sheung-Tak, una possibile spiegazione del perché l’epidemia di koro si sia rapidamente estesa ad altre zone costiere dell’isola di Hanan, ma non ha mai colpito le aree di montagna, dove vivono i Li e i Miao. Tseng et al. (1992) confrontarono la credenza popolare delle vittime del koro, con quella di 100 persone del Guangzhou, una città del Guangdong non colpita dall’epidemia, e trovarono che il campione di Guangzhou era molto meno convinto dell’influenza di forze soprannaturali, e della reale esistenza del koro. Guangzhou è una metropoli, mentre Hainan è in larga misura una zona rurale (nel 1984 l’80% della popolazione era costituita da contadini). Il basso livello d’istruzione delle vittime del koro, sostiene Sheung-Tak, potrebbe essere un fattore legato alla maggiore ricettività di questi soggetti nei confronti delle credenze popolari che, a loro volta, li rendono più vulnerabili rispetto all’insorgenza del koro.

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Dato che la comunità è convinta, riferisce lo studioso cinese, che la vittima del koro è posseduta da un fox spirit che è venuto per rubare l’energia vitale del soggetto, i trattamenti tipici risultano essere una combinazione tra esorcismo e pratiche mediche. Sono frequenti preghiere rivolte a idoli, associate con richieste a sacerdoti Taoisti di eseguire esorcismi. Quando si sospetta che un soggetto abbia il koro, le persone che gli sono vicine, spesso, fanno forti rumori o scuotono la vittima per fare in modo che il fox spirit scappi via, oltre ad impegnarsi nel tentativo di salvare gli organi genitali. Saranno somministrate, inoltre, delle pozioni, prescritte dalla medicina cinese, che hanno la funzione di accrescere lo yang. Un numero estremamente esiguo di vittime, ricercano un trattamento psichiatrico per risolvere la loro condizione. Sheung-Tak nella sua analisi, cerca anche di delineare quelli che potrebbero essere i fattori scatenanti nello scoppio di un’epidemia di koro. In accordo con Mo (1987), l’autore riferisce che prima dell’esplosione della vasta epidemia del 1984-85, nelle province del Guangdong, un indovino, preannunciò che la seconda metà del 1984 sarebbe stato un anno disastroso, in cui in cui il suoyang (nome cinese del koro), sarebbe stato molto diffuso ad Hainan. Poiché la popolazione era scarsamente istruita e temeva l’azione di forze soprannaturali, sostiene Sheung-Tak, fu fortemente influenzata da questa previsione. I primi pochi casi di koro si manifestarono nell’agosto del 1984 – da quel momento in poi la diffusione del fox spirit ebbe inizio. Le notizie di casi di koro intensificarono l’ansietà collettiva. Come si è detto, non è raro che alcune persone fossero erroneamente identificate da altri come vittime del koro e, contro il loro volere, sottoposte a trattamenti preventivi, questo dimostra lo stato apprensivo e ipervigilante della comunità. Sfortunatamente, afferma l’autore, quando la popolazione va a caccia del fox spirit, non c’è nessun segno oggettivo che provi la sua presenza, o la sua assenza, ad eccezione della comparsa di un attacco di koro in un membro della comunità. Poiché è quasi impossibile tollerare una così elevata tensione, per un lungo periodo di tempo, Sheung-Tak ritiene che sia lecito affermare, che una volta che la caccia ha inizio, la “vittimizzazione” è inevitabile. Solo individuando o designando, infatti, alcuni membri di una o più comunità quali vittime del koro, si allevia l’ansietà collettiva. Il senso di terrore, dunque, creato dall’anticipazione della presenza dello spettro, sarebbe addirittura più difficile da sostenere se esso non si manifestasse mai, piuttosto che, se esso si palesa (Jahoda 1969). L’epidemia generalmente colpisce un paese o una città per pochi giorni e, poi, si sposta in un altro posto. Questo modello di trasmissione, sostiene Sheug-Tak, potrebbe essere compreso considerando – ancora una volta – i miti culturali. Poiché, argomenta lo studioso cinese, nessuno subisce una totale retrazione dei genitali, la comunità ritiene che il fox spirit ha sostanzialmente fallito nella realizzazione del suo malvagio fine e, per tanto, ci si aspetta che esso attaccherà un’altra zona, per perseguire il suo tentativo. Dato che l’attacco di koro è acuto e di breve durata, questo dimostra – secondo la prospettiva popolare – che l’esorcismo è stato efficace. Nel momento in cui giunge notizia di un caso di koro in un paese vicino, questo rappresenta, per la comunità, la prova che il fox spirit veramente si è spostato. Il villaggio in cui il male ha avuto origine, ne è,

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dunque, alleviato, e “l’infezione da koro” ha inizio nella nuova località. L’ultimo degli interrogativi a cui Sheung-Tak cerca di dar risposta, nella sua accurata analisi, riguarda il perché cosi tante vittime del koro sono adolescenti, o giovani adulti non sposati. Dato che l’adolescenza è un periodo di maturazione sessuale, afferma l’autore, i drastici cambiamenti fisiologici potrebbero generare una serie di domande, per le quali l’adolescente ha bisogno di spiegazioni. Però, egli sostiene, c’è in Cina una tendenza culturale ad evitare di parlare di questioni sessuali. Come conseguenza della mancanza di un’educazione formale, gli adolescenti delle zone rurali della Cina, sono particolarmente tendenti a ricevere ambigue e inesatte informazioni sessuali. Ad aggravare la situazione, contribuiscono la presenza di credenze popolari legate al sesso, soprattutto quando queste sono radicate nell’ambiente (es., l’enfasi sulle forze soprannaturali). Fondamentalmente, qualsiasi informazione riguardo al sesso, avrebbe un grande impatto su questi adolescenti. I dubbi e le perplessità circa il sesso, si dissiperebbero, però, con l’esperienza del matrimonio, e per tale motivo, secondo Sheung-Tak, solo un numero limitato di soggetti, tra le vittime del koro, è sposato. Un dato interessante, connesso con questo discorso, fa notare lo studioso cinese, è che i rapporti sessuali prematrimoniali sono, al contrario delle società Han, approvati nelle società Li e Miao (Deng 1992; Ma 1990; Wu 1991). Sostiene Sheung-Tak che l’oppressione sessuale tra le popolazioni Han, suggerisce il perché esse siano maggiormente esposte al koro, l’atteggiamento liberale dei Li e Miao nei confronti del sesso, invece, suggerisce il perché essi ne siano, in un certo senso, immuni. L’autore conclude, dunque, che la credenze in forze soprannaturali, e l’oppressione sessuale, predispongono all’insorgenza del koro, però, esse non sono sufficienti a causare un’esplosione di questo male, a meno che non ci sia un’assai diffusa aspettativa, che il koro stia per abbattersi sulla comunità. Sheung-Tak è convinto – convinzione da me pienamente condivisa – che è impossibile comprendere il fenomeno koro, al di fuori del contesto sociale e culturale in cui appare. Una diagnosi basata esclusivamente sulle manifestazioni sintomatologiche delle vittime di questo disturbo, è grossolanamente inadeguata e destinata a fallire. L’essere maschi, scarsamente istruiti, single, privi di corrette informazioni sessuali, e fortemente influenzati dalla credenza nel koro, sono tutti fattori di rischio per l’insorgenza di questa condizione. È futile e specioso considerare il koro nei termini di una psicopatologia individuale, poiché i maggiori fattori di rischio non sono presenti nell’individuo, ma nella comunità. Per questa ragione, il tentativo di inserire il koro in classiche categorie diagnostiche, può – come si è visto – solo creare confusione. Sebbene, epidemie di koro sono state rilevate anche a Singapore, in Malesia, in Tailandia, e in India, questo non prova certo – come in alcuni casi è stato sostenuto – che il koro non sia, fondamentalmente, un fenomeno culturalmente determinato. Naturalmente le influenze culturali varieranno nelle diverse località, saranno specifiche per ciascuna società, ma è indispensabile che esse siano seriamente indagate se si vuole raggiungere un sufficiente livello di comprensione di una condizione che, altrimenti, apparirà sempre oscura e indecifrabile. Si propugna, dunque, un approccio olistico, che cerchi di interpretare il fenomeno koro nella totalità dei suoi aspetti, all’interno del

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contesto in cui si origina e assume significato, piuttosto che perdersi in definizioni e generalizzazioni ingenue, e senza forza.

CAPITOLO SESTO

CONCLUSIONI CRITICHE

L’analisi del fenomeno koro, nonché della nozione di sindrome culturalmente determinata in generale, ha rivelato uno stato di ambiguità, confusione, disaccordo. La contrapposizione tra i diversi approcci teorici ed epistemologici, che non hanno saputo confluire e sovrapporsi, arroccati nella difesa dei loro saperi, della loro autorità professionale, timorosi di perdere la loro specificità, ha reso torbida e oscura la comprensione di quei fenomeni esotici diffusamente indicati come culture-bound syndromes. Una massa di fatti, di dati sono stati accumulati, ma essi sono ancora in attesa di una corretta interpretazione. Ad una recente conferenza, Good (1999) ha sottolineato in riferimento all’amok – una delle più note e studiate CBS – una situazione che è – ritengo – emblematica di tutte le culture-bound syndromes. L’antropologo americano ha acutamente evidenziato come questa condizione sia stata manipolata, sfruttata secondo le esigenze (politiche, ideologiche) di chi l’ha descritta. Prima la psichiatria coloniale, poi la stampa di regime si sono servite del fenomeno amok come strumento per perseguire i propri opportunistici fini, offuscando, imbavagliando il reale messaggio che esso conteneva. La perentoria definizione di questo fenomeno in termini di disturbo mentale, ha rappresentato una comoda categoria per estreme strumentalizzazioni. L’amok, e le altre esotiche manifestazioni hanno rivestito il ruolo di contenitori, che ciascuno (psichiatri coloniali, dittature politiche ecc.) ha riempito di impropri e utilitaristici significati. Ciò che ha accomunato queste indebite, e spudoratamente parziali, interpretazioni è stata la connotazione negativa e svalutativa con cui questi fenomeni sono stati “marchiati”. Essi, infatti, sovente, con fare discriminatorio, sono stati apostrofati come la prova evidente del sottosviluppo, l’inferiorità di individui o popoli primitivi. Good, richiama l’attenzione sulla difficoltà di pervenire al reale senso di queste drammatiche esotiche manifestazioni, senza perdersi in una selva di fraintendimenti. Egli è convinto – convinzione da me pienamente condivisa – che la valenza semantica delle culture-bound syndromes, non sia accessibile attraverso le definizioni e le classificazioni della nosografia psichiatrica occidentale. Il tentativo di cogliere il messaggio che dietro la manifestazione eclatante si cela, non può fare a meno di considerare il complesso intreccio degli elementi storici, politici, sociali, culturali, mitici e simbolici che inevitabilmente determinano questo tipo di fenomeni. È necessario, dunque, inquadrare questi eventi all’interno del loro ambiente naturale. È indispensabile rintracciare la relazione tra questi fenomeni e il contesto in cui si palesano, il rapporto che intercorre tra testo e contesto. Il drammatico senso che ogni CBS contiene, continuerà a sottrarsi e a mantenersi imprendibile, nei

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confronti di un sapere che tenta di comprenderlo, quantificandolo e fissandolo nell’osservazione. Il pensiero medico-psichiatrico, appare imbrigliato nell’idea che la conoscenza della malattia è vera e reale solo se oggettivabile, verificabile e definibile. Il modo soggettivo di vivere la malattia, i legami che questa presenta con il mondo di cui il soggetto fa parte ed è espressione, non possono interferire in questa operazione. Ciò che è la malattia non deve dunque interferire con ciò che la si fa diventare. La storia del cosiddetto paziente, è un’altra storia, appartiene a un’altra vita, non ha niente a che fare con la storia clinica che è solo la storia di una malattia (Basaglia 1978). La triste conseguenza di tutto ciò, sottolineata con forza critica da Frigessi Castelnuovo & Risso (1982), risulta essere:

[…] la separazione definitiva tra soggetto che studia e oggetto che viene osservato: la conseguenza, la meta è una verità fissa che coagula il divenire storico e le sue dinamiche in definizioni di carattere tecnico. Viene obliterata in tal modo la possibilità di esprimersi con un linguaggio alternativo: l’espressione di un bisogno – di un desiderio profondo – sarà una mancanza, una distorsione rispetto ad un ideale che i medici chiameranno salute ma non sarà che la norma.[…] Il male appare quindi rivestito dall’involucro interpretativo che il sapere ne dà. Ciò che appare, al tempo stesso copre, giustifica; e infine tutto si limita nel campo circoscritto da uno sguardo che, prima di vedere e denunciare, fissa e osserva, diagnostica e «cura» (1982: 38-39).

Nella ricerca transculturale è in agguato il rischio di incorrere in grossolani errori quando, sospinti da un deprecabile etnocentrismo, si impongono modelli interpretativi occidentali a società che non condividono il nostro stesso orizzonte sociale, culturale, simbolico. Ciò che intendo sottolineare con forza, in accordo con Beneduce (1997), è la necessità di porsi nei confronti di presunte manifestazioni morbose, tipiche di culture “altre”, con la consapevolezza che esse non costituiscono mai una realtà biologica e/o psicologica separata, individuale, quanto un complesso processo di costruzione sociale o, come direbbe Mauss (1965), un «fatto sociale totale» nel quale i significati vengono negoziati e condivisi, le esperienze narrate in contesti precisi, le strategie di cura prodotte all’interno di vincoli individuali, culturali e istituzionali (Kleinman 1986). Il caso del koro ha rivelato che la tendenza a decontestualizzare esotiche manifestazioni nell’intento di ricondurle a entità patologiche universali, ingenera molto spesso confusione e contraddizioni, e conduce ad insignificanti astrazioni (Lock 1987). Non è possibile tradurre, come fa notare criticamente Kleinman (1987b), i centinaia di idiomi di sofferenza, disagio, dolore culturalmente specifici, attraverso cui le culture-bound syndromes si esprimono, nelle nostre categorie diagnostiche, nel nostro linguaggio medico, senza che il significato, il senso profondo di queste manifestazioni sia frainteso o, peggio, completamente smarrito.

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