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PSICOLOGIA CLINICA E PSICOPATOLOGIE PROFESSIONALI prof. Andrea L. Spatuzzi

IL SETTING CLINICO* dr.ssa Fulvia Ceccarelli

*( da non studiare per la preparazione dell’esame)

La psicologia ha faticato non poco per conquistarsi un posto come scienza autonoma, superando la fase di incerta emanazione della filosofia. Ci è riuscita sul finire dell’800. E per suggellare questa impresa, si è ispirata all’ideale di scientificità allora vigente, quello nato nell’alveo dell’Illuminismo e del Positivismo, che trovava la sua massima espressione nella fisica, la scienza per eccellenza. I cardini normativi del pensiero scientifico di allora erano: oggettività, empiricità ovvero osservabilità dei fenomeni, rigore misurativo e finalità esplicative. Coerentemente con queste premesse, l’uomo psicologico, per poter divenire oggetto di scienza, ha dovuto essere omologato all’uomo biologico, indagabile perfettamente dalle scienze naturali. Così oggetto di studio divennero fatti concreti, come il comportamento umano e fenomeni limitrofi alla fisiologia, come la percezione, ad esempio. L’obiettivo era la loro spiegazione in termini di leggi generali. Di qui l’importanza della psicofisica e dei laboratori sperimentali in cui erano impiegate le rigorose metodiche della neurofisiologia. Questo approccio si situava nel solco della tradizione cartesiana, che sanciva il dualismo mente-corpo. Come dire che solo il corpo è soggetto alla logica meccanicistica della natura, mentre la mente, in quanto spirito, vi sfuggirebbe. Inutile dire che fu alto il tributo pagato dalla psicologia. L’ottica riduzionistica nella quale si era incanalata ostacolò non poco l’affermarsi della psicologia introspettiva. Accadde però, inaspettatamente, che nei primi decenni del ‘900 gli ideali di scientificità propugnati dalla scienza moderna, quella positiva, entrarono in crisi. Paradossalmente entrarono in crisi a causa delle acquisizioni stesse della scienza, come la teoria della relatività, la scoperta di matematiche non euclidee, il principio di indeterminazione di Heisemberg ecc.. Si scoprì ad esempio che l’uomo non è più garante di un sapere oggettivo e universale, come volevano Aristotele e Cartesio, perché la conoscenza non è lo specchio della realtà ma solo una delle sue possibili interpretazioni. Che il sapere è mediato dal soggetto che filtra le informazioni provenienti dall’esterno in modo assolutamente personale. Che le osservazioni non sono neutrali ma influenzate dallo strumento di osservazione, il quale a sua volta è influenzato dalla teoria che sta a monte, come sostiene Popper. Dunque un cambiamento epocale. Lo stesso termine “scienza” un tempo usato per definire un ben preciso ambito del sapere, quello delle scienze matematiche e naturali, oggi si usa per indicare una qualsiasi disciplina che soddisfi delle condizioni metodologiche di scientificità. Infatti si sente parlare sempre più diffusamente di scienze sociali, scienze umane, scienze economiche ecc., perché il focus si è spostato dal contenuto al metodo con cui si costruisce la conoscenza. È il metodo di indagine fa da garante della scientificità, in quanto discrimina il sapere scientifico dal sapere di senso comune. Ne garantisce il rigore. Quindi, per affrontare il problema della scientificità senza incorrere in fraintendimenti, è quanto mai opportuno tener distinti due livelli compresenti: quello metodologico e quello epistemologico. Il primo rappresenta un insieme di regole e criteri che permettono la

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prassi scientifica. Il secondo, più astratto, non è altro che la teoria di riferimento implicita in ogni scelta metodologica. Ora, mentre il metodo scientifico è unitario nelle varie scienze, perché altro non è che un metodo rigoroso di indagine, il modello epistemologico di scientificità no. Ogni disciplina rivendica il proprio. Come dire che non esiste una “scientia prima” su cui modellare tutte le altre. Se la ripetibilità dei fenomeni alla scoperta di leggi generali che li governano, è il criterio epistemologico di scientificità delle scienze matematiche e naturali, non può esserlo evidentemente per la psicologia, che ha come oggetto di indagine la soggettività umana nella sua unicità e irripetibilità. Partendo da questo presupposto, si comprende come l’uso degli strumenti statistici per studiare quanto un individuo si scosti dalla media è un non-senso. L’individuo non può essere ridotto a un conteggio statistico. Un’ultima osservazione sul metodo che consente la prassi scientifica. Va sempre tenuto presente che non esiste un oggetto da indagare al di fuori di una metodologia di ricerca, ma che è proprio la metodologia che lo ritaglia e lo definisce nel ventaglio dei possibili fenomeni osservabili. Ad esempio, per misurare l’intelligenza di una persona, posso usare un reattivo psicometrico come un test d’intelligenza. Questa scelta metodologica rimanda ad una ben precisa opzione teorico-epistemologica e cioè che l’intelligenza è la capacità di risolvere determinati problemi cognitivi. Se per me l’intelligenza è un concetto più vasto, userò uno strumento diverso dal reattivo psicometrico. Detto questo, anche la psicologia necessita di uno sfondo metodologico che faccia da contenitore della ricerca, il setting, per l’appunto. Le cose, però, si complicano non poco quando bisogna definire il setting della psicologia clinica ed in particolare della psicoanalisi. Infatti la questione epistemologica della psicoanalisi vede contrapposti due schieramenti. Da un lato, il filone ermeneutico, che la considera una scienza umanistica, il cui compito non è spiegare le azioni umane, ricercandone le cause, ma piuttosto comprenderne il significato. Dall’altro, il filone sperimentalista, di ispirazione comportamentista, che ne mette in discussione la scientificità con tutta una serie di argomentazioni del tipo che l’inconscio non è oggettivabile perché è esperibile solo soggettivamente ed è per definizione sconosciuto; che le interpretazioni sono soggettive, il paziente è suggestionabile e gli psicoanalisti si autolegittimano ecc.. Ma come si può invocare il criterio di scientificità delle scienze naturali, come vorrebbero alcuni, se di tutte le arti e mestieri, quello del terapeuta è il più soggettivo di tutti? Dove oggetto e strumento di lavoro sono proprio le soggettività di paziente e terapeuta, uniche e irripetibili, fatte di bisogni, desideri, emozioni, aspirazioni, intenzioni, fantasie, pensieri, che si declinano in una gamma sconfinata di intensità e sfumature. Per uscire da questo vicolo cieco, è utile e necessario ampliare il focus includendo l’etica. L’etica, attraverso il setting, diventa garante e custode non solo del rigore metodologico, ma anche di alcuni valori di ampio respiro che attengono all’ambito filosofico, quali l’aspirazione alla libertà, alla responsabilità, alla salute sia del paziente che del terapeuta. E non potrebbe essere altrimenti visto che gli attori sono delle persone nella loro complessità (anima e corpo). In questo consiste il rigore del metodo e l’eticità della scelta di un terapeuta. Nonostante la psicoanalisi abbia più di cent’anni, i clinici si interrogano seriamente sul concetto di setting forse solo da una trentina. Dopo Freud, che è stato il primo a sentire l’esigenza di una definizione temporale e spaziale della relazione analitica per proteggere il paziente dalle influenze ansiogene della realtà esterna e per favorire il manifestarsi del transfer, c’è stato un vuoto di concettualizzazione o quantomeno i tentativi di concettualizzazione sono stati poco incisivi. Tanto che quando la metapsicologia è entrata in crisi, ha preso il sopravvento la tecnica della prassi clinica,

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come insieme di regole svuotate di significato, perché avulse da una teoria che desse loro senso.Questo ritardo storico è paradossale, se si pensa che il fattore di cura della psicoterapia sembra essere insito proprio nella relazione umana paziente-terapeuta più che nel differente orientamento teorico del terapeuta. A maggior ragione, dunque, il terapeuta come potrebbe governare quella sconfinata soggettività di cui è intessuta una relazione terapeutica, se non disponesse di una bussola? Il setting stabilisce le regole fondamentali del rapporto psicoterapeutico. Non si limita a un pacchetto di istruzioni per l’uso, come: il giorno, l’ora, il luogo dell’incontro, il numero di sedute a settimana, la durata delle sedute, la modalità di pagamento ecc., che il terapeuta esplicita al paziente. Perché nel momento in cui egli si mette all’opera, lo fa con un suo personale bagaglio di nozioni teoriche, di soluzioni tecniche più o meno collaudate e con una formazione personale che rimanda a un ben preciso orientamento teorico. La prassi operativa del terapeuta varierà a seconda delle convinzioni che egli ha riguardo al suo mestiere, in base alla concezione che ha della persona umana e del suo grado di libertà e responsabilità. Ad esempio, considera l’altro oggetto o soggetto del suo intervento? Pensa di dover intervenire sui suoi sintomi o ritiene invece di doversi incontrare e dialogare con lui? Si sente responsabile della sua vita, delle sue scelte, dei suoi comportamenti tanto da doversi affannare per il suo bene o pensa di doverlo semplicemente accompagnare alla ricerca della sua autorealizzazione, ponendogli da subito quelle domande che sottolineano la sua parte di responsabilità, che gli fanno notare quanto a volte la realtà esterna gli appaia distorta a causa delle sue rappresentazioni interne? In ogni situazione clinica che vede al lavoro un terapeuta e un paziente, si possono individuare due aree: quella processuale e quella strutturale. La prima è rappresentata dall’incontro di due persone, il terapeuta e il paziente, che rappresentano due mondi sconfinati. Questa è la parte viva della relazione, una realtà immensa perché infinite sono le possibili coppie paziente-terapeuta al lavoro, nella loro unicità di persone. Poi c’è la parte strutturale, che ho chiamato bussola, perché permette al terapeuta di orientarsi nella processualità a volte tumultuosa dell’incontro. L’area strutturale comprende: la domanda del paziente, il ruolo del terapeuta, l’asimmetria della relazione terapeutica, la responsabilità al 50%, l’astinenza del terapeuta. Partiamo dal primo dato strutturale, che è la domanda del paziente. Non basta che un paziente si riconosca bisognoso di aiuto. Il bisogno rimanda a qualcosa di cui non si può fare a meno, a qualcosa di soverchiante. Non c’è un pensiero dietro al bisogno, c’è una pressione. Ne sono un esempio i bisogni primari del bambino. Se un terapeuta rispondesse al bisogno del paziente, gli darebbe una risposta illusoria. Lo collocherebbe in una condizione di dipendenza assoluta, di deresponsabilizzazione totale, mentre lui, per contro, assurgerebbe a figura onnipotente che può guarire il paziente per magia. Il bisogno, per poter essere accolto, deve tradursi in desiderio. Questo presuppone il passaggio dal mondo materiale a quello psichico. Il desiderio è la rappresentazione mentale del bisogno. Attiene all’ambito della creatività, perché presuppone che un soggetto possa compiere una serie di azioni volte a soddisfarlo. Ma ancora non basta, serve la domanda del paziente, cioè un preciso movimento nel mondo delle sue relazioni, per ottenere una risposta conforme al suo desiderio. E’ la domanda che trasforma il paziente da oggetto in soggetto di cura. Sempre a proposito di domanda, il terapeuta non risponde alla domanda del paziente, ma sulla domanda, cioè inizia a svolgere il suo ruolo da subito. Rispondere sulla domanda significa trasformare domande impossibili in domande possibili, tenendo conto che il paziente può non accogliere la proposta.

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Altri dati strutturali sono il ruolo del terapeuta e la struttura asimmetrica della relazione terapeuta-paziente, che tratto contemporaneamente. Parlare di struttura asimmetrica significa sostenere che i ruoli di paziente e terapeuta non sono intercambiabili. Ciascuno di essi è connotato da attributi predefiniti e non modificabili. L’autorità, la capacità, la competenza, la responsabilità connotano il ruolo del terapeuta. L’incapacità, il bisogno, la dipendenza connotano quello del paziente. D’altronde il paziente è tale proprio perché patisce di un’incapacità che ha a che vedere con la realizzazione di sé e si affida a una persona che occupa una posizione di capacità e competenza per essere aiutato. Non deve però sfuggire un dato fondamentale. Se un paziente è andato con le sue gambe da un terapeuta, è perché intuisce una remota possibilità di benessere. Altrimenti non chiederebbe aiuto. La relazione terapeuta-paziente rimanda alla relazione parentale che è la capostipite di tutte le relazioni asimmetriche, dove il rapporto è tra adulto e bambino, tra capace e incapace, tra forte e debole. Il ruolo parentale e tutti quelli che discendono da esso sono detti di autorità. Etimologicamente la parola “autorità” deriva dal latino “augere” che vuol dire aumentare, far crescere (chi è in posizione di inferiorità). Una caratteristica delle relazioni asimmetriche è che sono destinate a saturarsi nel tempo, cioè il divario tra le due posizioni si riduce, a differenza di quanto accade nelle relazioni simmetriche, quelle tra pari. Il primo a introdurre il ruolo del terapeuta tra gli elementi del setting è stato Codignola, negli anni ’70. Egli argomenta la sua tesi nel testo “il Vero e il Falso”. Questa scelta epistemologica ha consentito di dirimere molte controversie sulla liceità dell’interpretazione in psicoterapia, che entra nel setting a pieno titolo, grazie al ruolo del terapeuta. Codignola definisce il setting “il vero” della terapia, ciò che è dato, che è invariabile, che non può essere né interpretato né falsificato. Ciò che consente che la processualità che si instaura tra terapeuta e paziente sia finalizzata e disponga di riferimenti coerenti e verificabili. Tutto il resto, “il falso”, è interpretabile. Così il terapeuta, per ricoprire bene il suo ruolo, è tenuto ad interrogare ciò che accade all’interno del setting, ovviamente tenendo conto di modi e tempi. Come ad esempio far notare a un paziente che usa spesso avverbi assolutizzanti come “sempre”, “mai”. Sottolineare un “sempre” o un “mai” significa metterli tra le cose “false” ovvero falsificabili, con lo scopo di aumentare la consapevolezza del paziente. Questo gli è consentito dalla “verità” del suo ruolo. Veniamo ora al concetto di responsabilità, che fa da spartiacque tra due concezioni di cura opposte. La concezione più diffusa è quella che prevede ed avalla sconfinamenti continui della responsabilità del terapeuta nella sfera di responsabilità del paziente. Di conseguenza il terapeuta si assume la responsabilità della vita del paziente, delle sue scelte, di cosa sia il suo bene, di quanto dovrà durare la sua terapia, di come preparare il distacco ecc.. Come se l’incapacità e la dipendenza del paziente, da connotazioni di ruolo, diventassero delle caratteristiche della sua persona. È questo presupposto che giustifica il fare al posto dell’altro. Nell’altra concezione, la responsabilità del terapeuta si limita al modo in cui egli ricopre il proprio ruolo , al fine di aiutare il paziente a ritrovare quella responsabilità di sé che per mille ragioni è ostacolata. Secondo questa logica, l’incapacità del paziente non è considerata un dato di realtà, ma un vissuto soggettivo. Non è considerata una mancanza, ma una modalità relazionale malata. Il terapeuta, trattando da subito il paziente da persona libera, responsabile di sé, che aspira alla salute, gli restituisce quel 50% di responsabilità imprescindibile perché la relazione terapeutica possa avere senso. Dunque l’astinenza del terapeuta è su quel 50% che spetta al paziente e non quella caricaturale dell’analista “in grigio”, totalmente asettico che si limita a far da specchio al paziente. Così come la diagnosi che fa il terapeuta è sulla motivazione del paziente

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ad accettare il gioco che gli propone, piuttosto che una categoria nosografia nel quale inserirlo a forza e senza appello. Dal concetto di responsabilità discende consequenzialmente quello di cura. Nel primo dei due casi esaminati, il terapeuta tratta il paziente come oggetto di cura, si ritiene esperto dei suoi problemi e dei suoi bisogni. Nel secondo caso, invece, il terapeuta è convinto di non poter curare che se stesso, attraverso un percorso terapeutico personale e una formazione permanente. È consapevole che il concetto di salute è relativo, perché la salute non si raggiunge una volta per tutte, tanto è vero che le insidie della vita e certe problematiche dei pazienti possono risuonargli dentro in maniera ancora molto dolorosa. La sua competenza, allora, consiste nell’essere più avanti del paziente nel suo percorso di crescita personale. Gli testimonia con la sua presenza che anche lui ce la può fare, che ha fiducia in lui e nelle sue potenzialità, altrimenti non sarebbe lì a fare quel lavoro. Gli si propone come compagno soccorrevole che accoglie la sua sofferenza, pur considerandolo del tutto simile a sé per quanto riguarda responsabilità e capacità potenziali.

dr.ssa Fulvia Ceccarelli Bibliografia Il vero e il falso di Enzo Codignola Ed. Boringhieri, 1977 Introduzione alla psicologia della personalità di Clara Capello Libreria Utet, 1993 Psicologia di Darley et al. Ed. Il Mulino, 1991 Psicologia della personalità di Caprara e Gennaro Ed. Il Mulino, 1994 Articoli di Sergio Erba, Luciano Cofano, Pierluigi Sommaruga tratti dai numeri 52, 97,101 della Rivista quadrimestrale di clinica e formazione psicoanalitica ”Il Ruolo Terapeutico”, Ed. Franco Angeli, 1989, 2004, 2006 Domanda e Risposta per un’etica e una politica della Psicoanalisi di Sergio Erba, Ed. Franco Angeli, 1995 Terapia Psicoanalitica di Paolo Magone Ed. Franco Angeli, 2002 Scienza Cognitiva di Bruno Bara Ed. Bollati Boringhieri, 1993 Le immagini della mente di Kosslyn Giunti Editore, 1989 I tempi del tempo di Boscolo e Bertrando Ed. Bollati Boringhieri, 1993 Verità e pregiudizi di Cecchini, Lane, Ray Cortina Editore, 1997