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LECTURA DANTIS ROMANA CENTO CANTI PER CENTO ANNI I. INFERNO 1. CANTI I-XVII A cura di Enrico Malato e Andrea Mazzucchi SALErNO EDITrICE rOMA

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lECTURA DANTIS ROMANA

CENTO CANTIPER CENTO ANNI

I. INFERNO

1. cantI I-xvII

A cura diEnrico Malato e Andrea Mazzucchi

MANLIO pASTOrE STOCChI

SALErNO EDITrICErOMA

IL LUME D’ESTA STELLA rICErChE DANTESChE

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CANTO IV

AUTOINCORONAZIONE POETICA NEL LIMBO*

1. « I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lascia-to nella cultura o nelle culture che hanno attraversato ».1 Questa riflessione di Italo Calvino è un ottimo viatico per il nostro esercizio. Ricorda infatti che nessuna lettura di un autore canonico può essere davvero incondizionata, pri-va di giudizi precostituiti, tanto piú, com’è il caso della Commedia, quando il relativo corredo esegetico si è accumulato nel corso di quasi settecento anni. Eppure la frase di Calvino, invece di dissuadere dall’impresa, stimola a riper-correre il canto assegnatomi nel tentativo (illusorio, forse) non tanto di illumi-nare sensi nascosti sinora sfuggiti (su Dante – credo – si è già scritto tutto), quanto di porre in rilievo elementi che la competenza e la sensibilità di ciascun lettore riescono a ricavare da un testo miracoloso, perché inesauribile e mai logoro.

L’entità “canto”, forzatamente enfatizzata in ogni lectura Dantis, non deve far dimenticare l’intero edificio dantesco dal quale viene estratta: il canto è, per cosí dire, la puntata di un unico ed esteso racconto, soggetto alla necessità nar- rativa (non dimentichiamo mai che la Commedia, anche nelle zone piú dottri-narie, sta raccontando una storia) ma anche consapevole delle capacità di te-nuta sia dell’autore sia del lettore/ascoltatore. La formidabile coesione del- l’intera architettura dantesca comporta una serie costante di segnali e di richia-mi – ora espliciti ora impliciti – che si inseguono a tutti i livelli del libro e gettano ponti verso l’intera produzione dell’autore. Dovremo perciò dare qualche sguardo sia all’indietro, nei primi tre canti, sia in avanti; né manche-ranno escursioni anche al di fuori del poema. La potente riflessione che Dan-te compie sulla tradizione culturale che lo precede (poetica, biblica, teologica, filosofica) si sviluppa infatti su tutto l’arco dell’opera che, pur essendo stata realizzata nel corso di circa un ventennio, ha una sostanziale compattezza (minime sono le sbavature) e prevede collegamenti nelle due direzioni, attra-

* Lectura tenuta alla Casa di Dante in Roma domenica 13 dicembre 2009. Il testo è stato rivisto in base ai criteri del presente volume.

1. I. Calvino, Perché leggere i classici (1981), in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1818-19.

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verso segnali interni che attestano la straordinaria cibernetica memoriale del- l’autore.2

Dante si propone di rifondare l’intera letteratura per attuare un progetto che, precisatosi via via, approda alla convinzione espressa nell’Epistola a Can-grande di poter salvare l’uomo dallo stato di miseria e di condurlo alla felicità eterna, ossia alla contemplazione di Dio, l’amore perfetto che tutto inchiude. Per realizzare tale disegno piú che ambizioso, Dante fa i conti con le culture classica, romanza e scritturale, le assorbe, le trasforma (e spesso le liquida) nel- l’edificio cristiano della Commedia, un testo che si presenta come profetico e sacro, con annuncio di eventi eccezionali, un libro-mondo. Egli dissemina i vari tasselli della sua riflessione all’interno di una narrazione vera e propria, in cui i suoi interlocutori ideali compaiono in veste di personaggi o richiamati mediante metonimia.

Ed è proprio all’inizio del poema che l’autore rivela gradualmente, via via che si presentano al Dante personaggio e in base a una precisa strategia di op-portunità narrative, alcuni degli elementi di una costruzione cosí complessa, inclusa la struttura dell’inferno, di cui si apprende ora, nel iv canto, che è una voragine circondata da piú cerchi (v. 24), ossia da gradoni circolari. Per aiuta- re il lettore a orientarsi progressivamente, Dante sfrutta lo spazio dell’unità- canto: è stato sottolineato che l’Inferno si caratterizza come la cantica con la piú ricca coincidenza fra misura di un canto e rappresentazione di un’unità topo-grafico-escatologica (cerchio o girone), coincidenza che si può dire sistematica nei primi sei canti: dopo i due introduttivi con l’antefatto (lo smarrimento di Dante e il soccorso di Virgilio, il dubbio di Dante e il conforto di Virgilio e l’entrata nel « cammino alto e silvestro », ii 142), il iii rappresenta l’antinferno, il iv il limbo, il v i lussuriosi, il vi i golosi.3

L’avvio del canto iv si collega testualmente con il verso conclusivo del can-to precedente, incentrato sulla perdita di sensi del personaggio Dante: « e cad-di come l’uom cui sonno piglia » (Inf., iii 136), riproponendo il termine sonno (« Ruppemi l’alto sonno ne la testa ») che ora, con la sua interruzione, provoca uno scatto in avanti dell’azione. È questa la prima e piú vistosa connessione fra i due canti contigui. È stato notato che i primi canti dell’Inferno sfruttano la tecnica trobadorica della cobla capfinida (ossia l’espediente per cui l’inizio di una nuova strofa o unità testuale riprende un termine o un concetto presente in

2. L’espressione è ricavata da G. Contini, Un nodo della cultura medievale; la serie ‘Roman de la Ro-se’-‘Fiore’-‘Divina Commedia’, in Id., Un’idea, p. 280.

3. Vd. L. Blasucci, Sul canto come unità testuale, in Leggere Dante, a cura di L. Battaglia Ricci, Ravenna, Longo, 2003, pp. 25-38, alle pp. 29-30.

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chiusura della strofa o unità anteriore): è un modo di rammentarci che il sin-golo canto è parte di un insieme collegato mediante connettori intratestuali, e che esiste un filo che lega verso di chiusura (a spiccato carattere epigrafico, con forte impatto memoriale) e quello della ripresa.

Non solo. Questo incipit introduce un altro elemento, che avrà ampio svi-luppo nel canto, ossia il confronto con gli autori classici. Infatti i primissimi versi, a quanto rilevano molti commentatori, riprendono un paio di suggestio-ni virgiliane (« somnum ingens rumpit pavor », Aen., vii 458; « sopor altus », ivi, viii 27). La volontà dantesca di confrontarsi con stilemi dell’Eneide proprio sulla soglia del canto continua il dialogo sotterraneo instaurato col suo amato « maestro » e « autore », ma percorso da una sottile tensione emulativa, come provano soprattutto le riprese scoperte e gli echi fittissimi dei canti precedenti (prolungati anche nei successivi): un confronto che da questo punto in poi della prima cantica si attua su una materia in comune, la descrizione dei re- gni oltremondani. E in tale ottica va registrata l’interpretazione metaletteraria che Benvenuto da Imola offre accanto a quella, tradizionale (che tuttavia riten-go sostanzialmente fuorviante) che indica in Virgilio l’ipostasi della ragione: quando Virgilio esorta Dante alla discesa nell’abisso avverte « io sarò primo e tu sarai secondo » (iv 15) e il maestro romagnolo chiosa: « hoc dicit quia Virgi-lius primo descripsit latine istam materiam, et etiam quia ratio semper debet praecedere e tu serai sicondo, quia scilicet imitaberis me in ista descriptione ».4

La ripresa dell’azione avviene in modo violento e brusco. Una fragorosa esplosione, descritta come « greve truono » (v. 2), un ‘tuono intenso’, risveglia Dante dallo svenimento in cui lo aveva sprofondato la luce vermiglia balenata dal vento misterioso che si era sprigionato dopo le parole di Virgilio. Il passag-gio sulla riva opposta dell’Acheronte è accaduto durante la mancanza di sensi, secondo modi che alcuni esegeti hanno oziosamente indagato, ma sui quali l’autore stesso taglia corto: « Vero è che ’n su la proda mi trovai » (v. 7), ossia ‘sta di fatto che mi trovai sulla sponda della voragine infernale’.5 La consapevolez-za della nuova situazione si fa strada attraverso gli effetti incrociati della vista e dell’udito. Alla ritrovata efficienza dello sguardo (« l’occhio riposato », v. 4) risponde dunque il rimbombo dei lamenti interminabili dei dannati (« [i]n- trono d’infiniti guai », v. 9) che sale dall’« abisso » (v. 8, termine biblicamente connotato per indicare l’inferno) e si oppone la cortina impenetrabile di un

4. Si avverte che le citazioni dai commenti antichi sono ricavate dai testi critici presenti nel DDP.

5. Per una fitta rassegna delle piú diverse posizioni critiche su questo canto vd. F. Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla ‘Commedia’. Il canto iv dell’ ‘Inferno’, in SD, vol. xlii 1965, pp. 29-206.

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buio carico di nebbia che lascia però percepire la voragine (vv. 10-12). Insiste poi sul motivo delle tenebre l’esortazione virgiliana a iniziare la discesa nel « cieco mondo » (v. 12), ossia quell’enorme penitenziario (si pensi alla variazio-ne « cieco / carcere » di Inf., x 58-59) abitato da demoni e da dannati, chiuso nelle viscere della terra e privo della luce di Dio. Solo un leggero chiarore, narrativamente indispensabile allo svolgimento del racconto, permette a Dan-te personaggio di vedere quanto basta (aveva già precisato, a iii 75: « com’i’ di-scerno per lo fioco lume »). L’insistenza sulla tenebra infernale ha lo scopo di preparare il contrasto tra l’intero « cieco mondo » e l’isolata luminosità della zona che sarà presentata dal v. 67 e che rischiarerà gli eventi del canto fin qua-si all’ultimo verso.

Grazie al vago lume Dante vede il pallore sul volto di Virgilio, ricavandone un ulteriore dubbio che manifesta al maestro: « Come verrò, se tu paventi / che suoli al mio dubbiare esser conforto? » (vv. 17-18). Virgilio spiega il proprio impallidire come effetto non di paura (« tema », v. 21) bensí di un coinvolgi-mento emotivo (« pietà ») per la sofferenza « delle genti / che son qua giú », ossia quelle che condividono col poeta latino la collocazione nel primo cer-chio, e non, come vogliono altri interpreti, tutti i dannati che popolano l’infer-no. Infatti è particolarmente vivo nel Virgilio personaggio costruito da Dante il turbamento per la propria condizione di escluso dalla salvezza senza colpa attuale, come risulterà chiaro entro poche terzine, da integrare con le sue pa-role di Purg., iii 37-45 e vii 25-36, e col dialogo con Stazio (Purg., xx-xxi), il poe-ta criptocristiano salvato: tre momenti che richiameranno proprio la situazio-ne descritta fra breve. Inoltre Virgilio avrà presto modo di manifestare con gesti e con parole la durezza contro Filippo Argenti, ricacciato nella « broda » della palude Stigia (« Allor distese al legno ambo le mani; / per che ’l maestro accorto lo sospinse, / dicendo: “Via costà con li altri cani!” », Inf., viii 40-42), sostenendone poi l’opportunità (Inf., xx 27-30).

I primi 22 versi introducono dunque i due grandi temi che, intrecciati e trasformati in materia narrativa, dominano nell’inventio del canto: il rapporto con l’intera tradizione culturale pagana (problema secolare affrontato dai maggiori intellettuali cristiani) e la questione teologica della sorte ultraterrena degli infedeli (trattata dai Padri della Chiesa).

2. La prima percezione ricevuta, una volta che Dante e Virgilio sono entra-ti nel « primo cerchio », è, come all’inizio del canto, sonora: essa precisa e in-sieme marca la differenza rispetto ai « sospiri, pianti e alti guai » (iii 22) che ri-suonavano nel vestibolo (iv 25-27):

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Quivi, secondo che per ascoltare, non avea pianto mai che di sospiri che l’aura etterna facevan tremare;

(‘In base all’udito, il solo suono lamentoso percepito era quello di sospiri che facevano vibrare l’atmosfera dell’eterno regno infernale’). I sospiri vibranti sono gli unici effetti del lamento emesso dalle « turbe [. . .] molte e grandi, / d’infanti e di femmine e di viri » (vv. 29-30). Un suono attutito, dunque, in contrasto con la cacofonia dell’antinferno, e che forse Dante indugia ad ascol-tare, visto che Virgilio constata in forma interrogativa la mancata richiesta di chiarimento da parte del suo protetto (vv. 31-33):

Lo buon maestro a me: « Tu non dimandi che spiriti son questi che tu vedi? Or vo’ che sappi [. . .].6

La spiegazione virgiliana (vv. 33-42) contiene uno scarto emotivo dopo l’enun-ciazione del fatto che la moltitudine d’anime di bambini, donne e uomini so-spiranti non ha compiuto alcun peccato individuale; i loro eventuali meriti non son bastati a salvarli, non avendo essi ricevuto il battesimo, sacramento che segna l’ingresso ufficiale nella fede cristiana; nel caso poi fossero vissuti prima dell’avvento del cristianesimo, non manifestarono in modo dovuto la loro fede in Cristo venturo (« non adorar debitamente a Dio », v. 38), come in- vece fecero i patriarchi e il popolo ebraico secondo la testimonianza dell’An- tico Testamento. Al v. 39 arriva la rivelazione che anche Virgilio appartiene a questo gruppo di spiriti: « e di questi cotai son io medesmo ».

Sottolineo il colpo di scena, l’impatto della rivelazione virgiliana e l’effetto di sorpresa previsto, che noi perdiamo perché di solito lo sappiamo già (come accade in molti altri passi di libri tanto frequentati). Se però ci mettiamo nei panni di un ipotetico lettore vergine, possiamo meglio apprezzare l’abilità dantesca nel dosaggio delle informazioni e nella scelta del momento in cui darle. Nei tre canti precedenti il personaggio di Virgilio assume via via i ruoli di duca, signore e maestro, sedando le paure di Dante, mostrandosi solido, senza cedimenti. Qui, coi segni vistosi di una profonda sofferenza interiore, prima spiega la situazione delle anime usando la terza persona plurale (vv. 33-38):

6. L’edizione Petrocchi pone un punto di domanda alla fine del v. 32, ma la situazione può giustificare anche il punto fermo: con tale punteggiatura, anziché domandare spazientito la causa dell’inerzia dantesca con palese intento provocatorio, Virgilio constaterebbe il silenzio di Dante.

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« Or vo’ che sappi, innanzi che piú andi, ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi, non basta, perché non ebber battesmo, ch’è porta de la fede che tu credi; e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo, non adorar debitamente a Dio [. . .] »,

poi aggiunge in un unico verso, dunque fortemente evidenziato, « e di questi cotai son io medesmo » (v. 39), e prosegue usando il pronome noi quando di-chiara la pena subíta (vv. 40-42):

« Per tai difetti, non per altro rio, semo perduti, e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio ».

(‘Queste mancanze e non altre colpe causano la nostra dannazione [« semo perduti »] e la nostra sola punizione è quella di vivere nel desiderio di vedere Dio senza speranza di vederlo compiuto’).

3. Tali spiriti sono sottratti alla pena sensibile (la “pena sensus”, secondo il linguaggio teologico, applicata invece agli altri dannati) ma subiscono una pe-na del danno (“pena damni”) che li priva della visione di Dio. Si tratta, a ben riflettere, di un castigo terribile, perché congela queste anime in una situazio-ne di stallo senza uscita, le priva di soddisfare la sete naturale di conoscenza (« Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere », Conv., i 1) che si appaga pienamente solo nella contemplazione di Dio. E tanto piú forte sarà il peso del castigo se applicato, come Dante intuisce subito e come si scoprirà fra poco, ai maggiori poeti classici e ai maggiori filosofi, ossia agli intellettuali che hanno posto al centro della loro esistenza l’attività conoscitiva, e che nella collocazio-ne oltremondana scoprono di aver fallito clamorosamente. È una sconfitta che Virgilio avverte con dolore anche altrove, ricordando proprio questo confino forzato nel limbo.7

L’assenza di un vero e proprio peccato commesso in vita si traduce nel mo-

7. « “State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria; / e disïar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmen-te è dato lor per lutto: / io dico d’Aristotile e di Plato / e di molt’altri”; e qui chinò la fronte, / e piú non disse, e rimase turbato » (Purg., iii 37-45); « Non per far, ma per non fare ho perduto / a veder l’alto Sol che tu disiri / e che fu tardi per me conosciuto. / Luogo è là giú non tristo di martíri, / ma di tenebre solo, ove i lamenti / non suonan come guai, ma son sospiri. / Quivi sto io coi par-goli innocenti / dai denti morsi de la morte avante / che fosser da l’umana colpa essenti; / quivi

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dulo retorico della negazione, col martellante ribattere dei non (cinque in die-ci versi, vv. 33-42), che sancisce la lucida presa di coscienza virgiliana di una condizione eternamente bloccata, che relega i limbicoli in una zona sí franca ma pur sempre dentro l’inferno, e li pone in uno stato di perenne frustrazione del desiderio di conoscere Dio: « [. . .] ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi / non basta, perché non ebber battesmo » (vv. 34-35), « non adorar debitamente a Dio » (v. 38), « per tai difetti, non per altro rio » (v. 40). La formulazione per via negativa della colpa punita con il confino nel limbo manifesta lo sbigottito smarrimento di chi non si capacita di aver commesso un errore, pur patendone le conseguenze, e ricomparirà per l’appunto, come un ritornello ossessivo, nella ricapitolazione dello stato proprio e degli altri limbicoli che Virgilio fa a Sordello nella seconda cantica.8

4. Il crescendo della rivelazione dei vv. 33-42 provoca il « gran duol » (v. 43) di Dante, perché egli comprende che persone di grande valore stavano nella condizione sospesa di quell’orlo, di quel lembo d’inferno; e solo ora il lettore realizza il significato della frase di Virgilio « Io era tra color che son sospesi » (Inf., ii 52), piuttosto misteriosa al suo apparire. Interessa notare che Dante usa il termine limbo come nome comune (altra occorrenza a Purg., xxii 14: « nel limbo de lo ’nferno »), pur sapendo di ricorrere a un termine che ha il signifi-cato tecnico assegnatogli dalla teologia scolastica, quasi per sottolineare la col-locazione topografica, fisica del luogo. Secondo le elaborazioni di san Tomma-so e di Alberto Magno, il lembo dell’inferno accoglie i bambini morti nel peccato originale (limbus puerorum) ed è stato anche, in via provvisoria, prima della morte di Cristo, la sede dei patriarchi biblici (limbus patrum).

L’assenza di definizioni dogmatiche di tale luogo lascia aperto a Dante il varco per accogliere il fondamento dottrinario tomistico dell’area marginale dell’inferno e insieme, per rielaborarlo con libertà che definiremmo creativa a fini poetici, sfiorando anche il problema della salvezza degli infedeli senza colpa che sarà sviluppato e sciolto nel Paradiso (xix 25-114). La piú vistosa licen-za concerne la presenza nel limbo delle anime di coloro che, pur possedendo e praticando le virtú cardinali, che danno « mercedi » (‘meriti’, v. 33), non rice-vettero il battesimo, ossia l’estensione agli adulti della condizione che Bona-ventura assegna ai bambini. Le scelte che fa Dante sono certo singolari, al

sto io con quei che le tre sante / virtú non si vestiro, e sanza vizio / conobber l’altre e seguir tutte quante » (Purg., vii 25-36).

8. « Io son Virgilio; e per null’altro rio / lo ciel perdei che per non aver fé » (Purg., vii 7-8 e 25-36, citati nella nota precedente).

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punto da provocare reticenze o condanne esplicite in alcuni commentatori, ma sono tutte condotte all’interno di un sostanziale rispetto delle indicazioni teologiche perché, di fatto, tali infedeli godono solo di un’attenuazione della pena: ricevono un trattamento preferenziale ma si trovano comunque dentro la voragine infernale, sono sí sottratti alla pena sensibile (applicata ai dannati veri e propri) ma soffrono di una pena del danno che li priva della visione di Dio. Quindi Dante applica in ogni caso la categorica affermazione paolina « Impossibile est sine fide placere Deo » (Ebr., 11 6, ripresa in Mon., ii 7 4-5).

L’altro “strappo” di Dante rispetto alle indicazioni patristiche consiste nell’a-ver egli radunato nel limbo le « genti di molto valore » (v. 45), ossia i magnani-mi di ogni tempo e religione. È merito di Fiorenzo Forti l’aver indicato nella virtú della magnanimità la ragione dell’inclusione nel limbo tanto di infedeli negativi (coloro che non ebbero alcuna notizia della fede o non ne ebbero di sufficienti; peccarono per mancanza di fede) quanto di infedeli positivi (coloro che peccarono per aver seguito una fede diversa dalla cristiana, tecnicamente “per contrarietà di fede”, come i grandi pagani del nobile castello che vedremo tra poco).9 Forti ha precisato che non si tratta di una virtú genericamente inte-sa, ma di quella concezione derivante dall’Etica Nicomachea di Aristotele, testo fortemente meditato da Dante all’altezza del Convivio, anche col supporto del commento di Tommaso d’Aquino. Si tratta della « Magnanimitade, la quale è moderatrice e acquistatrice de’ grandi onori e fama » (Conv., iv 17 5): la magna-nimità è coscienza della propria grandezza, consapevolezza della propria atti-tudine alle alte imprese, ma senza giungere alla superbia. L’Etica Nicomachea col- loca la magnanimità come virtú intermedia tra l’eccesso della presunzione e il difetto della pusillanimità.

Se si segue tale prospettiva, si comprendono le ragioni che spingono Dante a insistere sulla contrapposizione, fortemente chiaroscurata, tra pusillanimi del canto iii e magnanimi del iv. Alle « voci alte e fioche » e al « tumulto » dei primi (Inf., iii 27-28) corrisponde il silenzio sospeso dei secondi, rotto dai soli sospiri, che invece i pusillanimi mescolano a « pianti e alti guai » (ivi, 22). L’in-significanza e l’anonimità dei pusillanimi, indegni sia di fama sia di disprezzo, è sostituita con l’esemplarità e l’individualità di ciascun magnanimo: di qui la necessità degli elenchi di nomi. Il dinamismo dell’insegna dietro alla quale si muovono gli ignavi lascia il posto alla quiete felpata del primo girone, nel qua-le un’oasi luminosa – che vedremo oltre – contrasta con la « buia campagna » (ivi, 130) dell’antinferno. Il recupero della categoria aristotelica della megalo-

9. F. Forti, Magnanimitade (1961), in Id., Magnanimitade. Studi su un tema dantesco, premessa di E. Pasquini, Roma, Carocci, 2006, pp. 9-48.

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psykía (magnanimitas) ha permesso cosí di spiegare in modo piano ed economi-co la compresenza di mondi altri, estranei all’era cristiana della quale Dante si pone come il campione; i personaggi che egli incontrerà fra poco sono consi-derati esclusivamente in virtú della loro natura morale: grandi poeti classici pagani, eroi dell’azione ed eroi del pensiero, tanto antichi – di Roma e di Gre-cia – quanto moderni legati al mondo arabo.

5. Il narratore Dante non intende però attardarsi sul limbus puerorum, allarga-to, come si è ricordato, agli adulti dei due sessi, riservandogli pochi versi co-struiti a partire da un altro passo virgiliano (iv 28-30):

ciò avvenia di duol sanza martíri, ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi, d’infanti e di femmine e di viri.

La terzina riecheggia Aen., vi 305-7: « Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat, / matres atque viri [. . .] / [. . .] pueri innuptaeque puellae » (‘Là tutta una folla riversata sulle rive accorreva: le madri, ma anche i loro mariti [. . .] i fanciulli e le fanciulle mai maritate’, traduzione di Carlo Carena), dove accanto alla ripre-sa letterale di turba, che diventa un plurale, si assiste all’associazione di matres con le innupate puellae che si fondono nelle indistinte « femmine ».10 Dante neppure indugia sul limbus patrum: quest’ultimo viene presentato nel giro di quattro terzine (vv. 52-63), quando Virgilio risponde a Dante circa l’uscita dal limbo di anime che per merito proprio o di altri sarebbero poi state salvate, una domanda formulata per consolidare la fede, ossia richiedendo i particolari dell’evento capaci di fornire maggiori dettagli sulla discesa di Cristo risorto al limbo proclamata nel Credo sulla base della definizione dogmatica di due Con-cili (vv. 46-50):

« Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore », comincia’ io per voler esser certo di quella fede che vince ogne errore: « uscicci mai alcuno, o per suo merto o per altrui, che poi fosse beato? ».

In piena consonanza con l’intento occulto del suo protetto, Virgilio chiarisce

10. Quest’ultima osservazione si deve, come moltissime altre relative alle traduzioni-rifaci-menti danteschi, alla fine sensibilità di M. Chiamenti, Dante Alighieri traduttore, Firenze, Le Lette-re, 1995, p. 180. La traduzione di Carlo Carena è tratta da Virgilio, Opere, a cura di C. Carena, Torino, Utet, 1971.

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che le anime estratte da quel luogo (« trasseci », ‘portò fuori da qui’, v. 55) poco dopo il suo insediamento nel limbo, sono state le prime a essere salvate (vv. 62-63), e sono quelle dei patriarchi ebrei, nati prima della venuta di Cristo, ma che sono vissuti nell’attesa di questo evento (vv. 52-54):

[. . .] « Io era nuovo in questo stato, quando ci vidi venire un possente, con segno di vittoria, coronato ».

Cristo viene indicato mediante perifrasi (una tecnica particolarmente racco-mandata dalle poetiche antiche e medievali, segno di innalzamento di tono – è appunto Virgilio che parla – e qui anche espediente per tacere il nome di Cristo nell’inferno): « un possente, con segno di vittoria, coronato » (‘Cristo, con la croce in mano, e con aureola’, vv. 53-54). Seguo qui la soluzione adotta-ta da ultimo da Giorgio Inglese, che, ponendo una virgola tra « vittoria » e « coronato », risolve con grande linearità il dubbio circa l’altrimenti poco per-spicuo dettaglio dell’incoronazione mediante il segno di vittoria, che nell’ico-nografia è un’asta con croce, o un gonfalone o la palma del martirio: come potrebbero tali oggetti incoronare il « possente »?11

L’elenco delle figure dell’Antico Testamento che occupa i vv. 55-61 è il pri-mo dei tre che compaiono in questo canto (gli altri occupano i vv. 88-90 coi poeti classici e i vv. 121-44 con gli spiriti magni nel castello) e il primo di tutto l’Inferno. La sensibilità moderna trova poca attrattiva nell’enumerazione: Be-nedetto Croce la bollava come zona opaca alla poesia; Jorge Luis Borges, a proposito del finale di questo canto, parla di « arido catalogo di nomi propri, meno stimolante che informativo ».12 In realtà occorre recuperare una diversa prospettiva, che risale fin all’omerico, archetipico catalogo delle navi di Iliade, ii, ed è stata rilanciata da Umberto Eco.13 Si tratta non di nudi nomi, di fredde registrazioni onomastiche, bensí di affreschi verbali, nei quali basta leggere il nome, magari con qualche sottolineatura piú caratterizzante, per visualizzare un intero mondo. La forza evocativa del nome agisce, com’è ovvio, su chi co-nosce già i personaggi. E Dante qui richiama soprattutto figure di primo piano presenti nelle due componenti basilari della tradizione intellettuale del Me-dioevo – la Bibbia e i classici –, dunque personaggi noti anche ai meno colti

11. Altri interpreti intendono invece che il possente è incoronato dall’aureola crocifera presen-te in molte raffigurazioni.

12. J.L. Borges, Il nobile castello del canto quarto, in Id., Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, Mondadori, vol. ii 1985, p. 1271.

13. U. Eco, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009.

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attraverso canali indiretti, come, per esempio, le immagini dei cicli pittorici. La compresenza di figure appartenenti a epoche diverse – qui giustificata an-che dalla situazione specifica dell’oltremondo – è un “anacronismo” usuale in molti testi del Medioevo, che, oltre a radunare figure ed eroi di varie epoche, li ritrae con abbigliamento contemporaneo, adottando un uso elastico del cri-terio cronologico, come si constata anche negli elenchi danteschi. Le figure dei viri illustres e delle clarae mulieres, da storiche che erano, o che erano credute, diventano quasi simboliche.

Il catalogo biblico cita Adamo, il « primo parente » (v. 55), il progenitore dell’umanità intera, Abele il suo secondogenito, Noè – che ebbe il privilegio di scampare coi figli dal diluvio universale –, Mosè « legista e ubidiente » (v. 57), che trascrisse sulle tavole la legge divina ed eseguí l’ordine ricevuto da Dio di salvare il popolo ebraico dalla schiavitú d’Egitto; il patriarca Abramo, il re Davide, Giacobbe (« Israèl », v. 59) con il padre Isacco e i suoi figli avuti dalla seconda moglie Rachele, « per cui tanto fé » (v. 60), per ottenere la quale Gia-cobbe si piegò a servire per quattordici anni il padre di lei, Làbano. Attraverso la menzione diretta di sette personaggi e l’indicazione implicita di altri tre (due singoli e un gruppo di famiglia) vengono rappresentate le prime cinque età della storia umana secondo una partizione diffusa nella tradizione enciclope-dica e spesso raffigurata nei gruppi di statue che ornavano i portali di molte cattedrali. L’ultima delle tre terzine dedicate alle grandi figure dell’Antico Te-stamento che Cristo risorto ha recuperato dal loro temporaneo soggiorno nel limbo per condurle al cielo si chiude con l’informazione che esse furono le prime anime salvate (vv. 62-63).

6. Lo scambio di battute tra Dante e Virgilio avviene mentre i due prose-guono nel cammino e si aprono la strada in mezzo alla « selva » fatta di « spiri-ti spessi » (vv. 65-66), ossia tra le anime fitte come la vegetazione di una foresta. Il ricorso al termine selva, che potrebbe suscitare qualche incertezza nel letto-re, memore della « selva selvaggia » del canto i, impone la precisazione che occupa il v. 66: « la selva, dico, di spiriti spessi ». Il percorso compiuto da quan-do è svanito il sonno misterioso col quale si era aperto il canto non è stato molto, quand’ecco che agli occhi di Dante si presenta la vista di « un foco / ch’emisperio di tenebre vincia » (vv. 68-69). La terzina costituisce uno spar-tiacque del canto, perché segna il passaggio da una prima sezione buia a una seconda segnata da una luce che viene definita ora « foco » (v. 67), ora « lume-ra » (v. 103). È importante considerarne la qualità: non si tratta della luminosità diurna che illumina il purgatorio né di quella sfolgorante del paradiso; è come una luce emanata dal fuoco o da una lampada. Dunque è una luce, sí, che si

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oppone all’oscurità del restante inferno, ma è una luce artificiale, secondaria per cosí dire. Un chiarore un poco allucinato, come quello fisso del sole di mezzanotte o di un lumicino nella miniera.

Credo che sia essenziale tenere presente la natura e la particolare intensità della luce che rischiara questa seconda parte del canto. Perché, come risulterà evidente che l’illuminazione qui concessa indica un privilegio esclusivo di questa sede destinata ai grandi poeti dell’antichità, ai grandi filosofi e intellet-tuali in vari campi del sapere, ossia a tutto il retroterra pagano sul quale si fondava la tradizione culturale, cosí la sostanziale debolezza della fonte lumi-nosa, simile a quella di un falò nella notte o dei lampioni a gas, dichiara i limi-ti di quel mondo. In alcune miniature « il foco » è raffigurato come un insieme di fiamme in forma conica o come un fuoco di segnalazione posto in cima al castello.14 Questi « spiriti magni » (v. 119), a differenza di altri, non hanno rag-giunto il vero Dio cristiano, il sole spirituale, che « per l’universo penetra e ri-splende / in una parte piú e meno altrove », e pertanto li rischiara una sorta di suo surrogato, di sua parziale immagine simbolica; si legge in Conv., iii 12 7, « Nullo sensibile in tutto lo mondo è piú degno di farsi essemplo di Dio che ’l sole ».

L’ammirazione esplicita che Dante ha per tale tradizione, tanto da provo-cargli un’intensa emozione anche durante la scrittura del canto (« in me stesso m’essalto », v. 120), sottende pur sempre una condanna complessiva. L’incon-tro con i grandi intellettuali pagani non costituisce un loro elogio incondizio-nato, come potrebbe lasciar pensare una lettura decontestualizzata, né un im-probabile motivo “umanistico” invocato da una parte della critica; è piuttosto un momento di omaggio e insieme di distacco. Omaggio all’intera base cultu-rale che ha permesso a Dante di cominciare l’avventura della Commedia, avvia-ta verso lidi impensabili e improponibili senza la fede cristiana; e distacco da quel mondo che è divenuto insufficiente, cristallizzato in una bolla luminosa che non illumina altro che se stessa.

Tale prospettiva sembra fornire un’ulteriore sostegno all’interpretazione del verbo vincia (v. 69), come imperfetto del latinismo vincire, ‘avvolgere, lega-re’, e non di vincere. Dante scrive « io vidi un foco / ch’emisperio di tenebre vincia »: alcuni intendono ‘vidi un fuoco che vinceva un emisfero di tenebre’, ossia che la luce di quella zona si oppone al buio circostante formando un

14. P. Brieger-M. Meiss-Ch.S. Singleton, Illuminated Manuscripts of the ‘Divine Comedy’, Prin-ceton, Princeton Univ. Press, 1969, vol. ii tav. 69, con le lingue di fiamme (Egerton 943, f. 9r; Laur. 40.1, f. 12v) e il fuoco di segnalazione sul castello (Holkham Hall, 514, p. 6; Roma, Biblioteca An-gelica 1102, f. 3v).

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emisfero luminoso; altri, assegnando il valore di oggetto al relativo che e di soggetto a « emisperio di tenebre », interpretano: ‘vidi un emisfero di tenebre che avvolgeva la zona luminosa’. L’accertamento linguistico sul corpus delle opere dantesche indica come piú fondata la derivazione da vincire, visto che vincia da vincere sarebbe l’unico esempio di un imperfetto di un verbo in -ere in rima con forme in -ia. Inoltre l’immagine delle tenebre che, per cosí dire, asse-diano il luogo rischiarato dal « foco » sottolinea la sostanziale fragilità di questo mondo dell’intelletto umano privo della fede e della prospettiva cristiana, cir-condato dal buio di un regno voluto da Dio; l’emisfero di buio che avvolge gli « spiriti magni » fa risaltare il loro isolamento e la limitatezza di questo spazio nella smisurata voragine. Restituisce visivamente tale interpretazione la mi-niatura dell’Urb. lat. 365, f. 9r, in cui il nobile castello, posto di scorcio sul lato destro, è sovrastato da una calotta luminosa che sfumando lascia spazio al nero che domina lo sfondo.15

Dante riesce a distinguere « orrevol gente » (v. 72), persone onorevoli che stanno in quell’area e chiede a Virgilio, indicato con la perifrasi « tu ch’onori scïenzïa e arte » (v. 73), chi siano costoro dotati di tale onorevolezza (« onran-za », v. 74) che li distingue dagli altri limbicoli. Virgilio spiega che la loro « ono-rata rinomanza » (v. 76) guadagnata in vita li ha resi degni di questo privilegio concesso dal cielo. Una voce imprecisata invita a onorare Virgilio che fa ritor-no: « Onorate l’altissimo poeta » (v. 80). L’insistenza sul termine onore e deriva-ti (cinque volte in nove versi) è studiata per sottolineare quanto Dante poteva apprendere sia dal ricordato commento di Tommaso all’Etica Nicomachea, ossia che l’onore è il premio della magnanimità, sia dall’Ars poetica oraziana, dove si indica che l’azione civilizzatrice della poesia, avviata da Orfeo e da Anfione, guadagnò alla categoria dei poeti la rinomanza e l’onore: « Sic honor et nomen divinis vatibus atque / carminibus venit » (vv. 400-1).16 Onore, da intendersi in tale senso tecnico, era già stato usato nell’incontro con Virgilio definito « delli altri poeti onore e lume » (Inf., i 82), il cui « parlare onesto / [. . .] onora » lui e « quei ch’udito l’hanno » (Inf., ii 113-14), ed era stato applicato alla carriera poe-tica di Dante stesso (« lo bello stilo che m’ha fatto onore », Inf., i 87). Ancora in questo canto il concetto è ribadito ai vv. 93 (i poeti latini fanno bene a onorare Virgilio in quanto tutti compartecipi del nome onorevole di poeta), 100 (Dan-

15. Ivi, tav. 78.16. Approfondisce la riflessione dantesca sulla poesia C. Villa, Corona, mitria, alloro e cappello: per

‘Par.’, xxv (2005), ora in Ead., La protervia di Beatrice. Studi per la biblioteca di Dante, Firenze, Sismel- Edizioni del Galluzzo, 2009, pp. 183-200.

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te riceve il piú alto attestato d’onore dai poeti classici con l’inclusione nella loro schiera) e 133 (i filosofi onorano Aristotele).

Che il commento di Tommaso fornisca a Dante spunti per costruire le figu-re delle « quattro grand’ombre » che « sembianza avean né trista né lieta » (vv. 83-84) pare confermato da quanto il teologo esegeta scrive a proposito dell’at-teggiamento fisico del magnanimo: « motus magnanimi videtur esse gravis, et vox videtur esse gravis, et locutio esse stabilis et tarda » (in Eth., iv 1).17 Del resto l’impassibilità e la solennità dei gesti appartengono alla lunga tradizione che tratteggia la prossemica del saggio; qui però il distacco dissimulerà anche la sofferenza interiore del desiderio inappagato della visione di Dio. Contraddi-ce la solennità gestuale dei quattro poeti la pur suggestiva miniatura di Chan-tilly, dove tutti pieni di entusiasmo corrono incontro a Virgilio, staccati in ve-locità da Omero.18

7. I vv. 86-93 sono riservati al secondo elenco del canto, pronunciato da Vir-gilio, che presenta i suoi colleghi: è un canone di autori classici che Dante or-ganizza secondo criteri stilistici diffusi nella cultura mediolatina a partire dalla seconda metà del secolo X. Gli autori rappresentati sono figura di un livello stilistico, come dichiarano anche certe specificazioni del testo:

« Mira colui con quella spada in mano, che vien dinanzi ai tre sí come sire: quelli è Omero poeta sovrano; l’altro è Orazio satiro che vene; Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano ».

Omero, collocato in posizione predominante (occupa ben tre versi su cinque), reca in mano una spada, probabilmente allusiva alla materia bellica dei suoi poemi (« quia alte descripsit gesta armorum », precisa Benvenuto da Imola) noti all’intero Medioevo in forma indiretta o attraverso rifacimenti, ed è « so-vrano » perché la tradizione grammaticale ed esegetica riferisce il suo ruolo incontrastato di modello per i poeti latini, e in particolare per Virgilio. Orazio è qualificato come « satiro », cioè scrittore di satire, con una scelta precisa ri-spetto alle altre sue opere circolanti (che comprendevano anche le Odi, secon-do quanto documenta la tradizione manoscritta medievale). L’allineamento di Ovidio e di Lucano nel medesimo verso può far pensare a un’equivalenza stilistica, da risolvere indicando entro la vasta e nota produzione del primo il

17. Forti, Magnanimitade, cit., pp. 29-30.18. Illuminated Manuscripts, cit., vol. ii tav. 67b (f. 52v).

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poema epico delle Metamorfosi, affiancabile dunque al Bellum civile di Lucano, che si trova in ultima posizione non per un giudizio di valore ma solo per l’in-certezza classificatoria dei commentatori medievali, che, considerata la mate-ria del suo poema, centrato sulla guerra civile a lui quasi contemporanea e non, come nel caso di altri poemi epici, sulle vicende di fondazione, vedevano in lui tanto un poeta quanto un historicus.19

Se leggiamo il catalogo nella prospettiva della scuola medievale, consideria-mo che vi compaiono i rappresentanti esemplari di due generi, la tragedia (praticata anche da Virgilio con l’Eneide)20 e la satira, che stanno a significare due stili, l’alto e il medio, dei tre che la retorica medievale individua per la stesura dei canoni. I canoni letterari mediolatini seguono tutti, pur con varia-zioni, una scansione ternaria, al cui interno gli autori sono figura di un livello stilistico. Tenendo ben presente questa costante, aggiungeremo subito che lo stile terzo, quello basso, del quale manca il modello rappresentativo in questa pattuglia di poeti, è quello associato al genere commedia, che negli elenchi di tradizione era individuato in Terenzio. Lo spazio vuoto di questa casella stili-stica sarà poco dopo occupato da Dante stesso, che si proclama « sesto tra co-tanto senno », autore appunto di una Commedia.21 Chi non aderisce al criterio stilistico per spiegare la scelta dei componenti della « bella scola » invoca l’ade-sione dantesca al giudizio tradizionale che indica questi cinque poeti come i piú grandi senza altre specificazioni, forse però diluendo troppo l’elemento piú specifico e sottile della riconosciuta carica simbolica dell’intera scena.

Davanti allo spettacolo dei cinque poeti che si riuniscono Dante constata (vv. 94-96):

Cosí vid’i’ adunar la bella scola di quel segnor de l’altissimo canto che sovra li altri com’aquila vola.

La terzina apre una serie di questioni legate all’identificazione del detentore della « bella scola » e alla determinazione del che del v. 96, da alcuni collegato ad « altissimo canto », da altri al « segnor dell’altissimo canto ». Si tratta insom-

19. Altri preferiscono collegare Ovidio a opere di altra natura (Heroides o altri testi di contenuto amoroso) per allargare lo spettro stilistico del catalogo dantesco, altrimenti limitato agli stili alto e medio.

20. Cfr. Inf., xx 112-14 (parla Virgilio): « Euripilo ebbe nome, e cosí ’l canta / l’alta mia tragedía in alcun loco: / ben lo sai tu che la sai tutta quanta ».

21. La sostituzione di Dante a Terenzio è sostenuta da G.C. Alessio-C. Villa, Per ‘Inferno’, i 67-68 (1984), riedito in Dante e la ‘bella scola’ della poesia. Autorità e sfida poetica, a cura di A.A. Iannuc-ci, Ravenna, Longo, 1993, pp. 41-64.

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ma di capire se chi vola come un’aquila è l’altissimo canto in sé considerato o il titolare dell’altissimo canto. Posto che il termine scola condensa in sé il valore di società, gruppo di artisti sommi, collegio (« collegium dictorum poetarum », spiega Benvenuto da Imola), ma anche il senso largo di scuola come luogo di apprendimento collettivo, è chiaro che il suo titolare, pur condividendo con gli altri il titolo di poeta, che è di per sé meritevole di onore e in tal senso equi-para e nobilita tutti i colleghi (vv. 91-93), assume un valore di riferimento per tutti gli altri poeti, di primus inter pares. L’interpretazione piú diffusa parla della “bella scola di Omero”, riferendo al poeta greco la qualifica di signore del can-to poetico piú alto di tutti, lo stile epico, alto: in tal caso la superiorità tanto del personaggio quanto dello stile rende indifferente il collegamento del che (v. 96) ad « altissimo canto » o a « segnor » (per quanto l’assimilazione all’aquila me- glio si addica al poeta che al canto).22

Le perplessità di chi ha ritenuto contraddittoria l’assegnazione della mede-sima qualifica stilistica altissimo prima a Virgilio (« Onorate l’altissimo poeta », v. 80), poi a Omero (« segnor de l’altissimo canto », v. 95), decadono se si tiene conto del ruolo che i due poeti classici hanno nel sistema della Commedia e delle opere dantesche, senza trascurare che la tradizione grammaticale ed ese-getica riferisce che Virgilio ha usato per modello Omero, associando spesso i loro due nomi in quanto rappresentanti dello stile alto; e nella Commedia è sempre il personaggio Virgilio a proclamare la regalità e il primato omerico (in Purg., xxii, quando elenca gli altri poeti assegnati al limbo ma opportunamen-te taciuti in Inf., iv, userà la perifrasi « quel Greco / che le Muse lattar piú ch’altri mai », vv. 101-2).

Ne consegue che il « signor dell’altissimo canto » è ragionevolmente Ome-ro, in quanto iniziatore dell’ideale genealogia poetica dalla quale discende Vir-gilio (l’altissimo che li apparenta); oppure, se si sceglie la lezione plurale « quei signor dell’altissimo canto », possono essere Omero e Virgilio insieme, pro-prio perché appaiati tradizionalmente nella loro funzione di modelli di riferi-mento per tutti gli altri poeti, indipendentemente dal genere che ciascuno ri-terrà poi di praticare. Il canto altissimo (sia per la scelta stilistica del genere tragico sia per superiorità di risultati) di Omero (o di Omero e di Virgilio) si libra nelle piú alte zone del cielo come fa l’aquila (animale dalla forte carica simbolica per il Medioevo). Il primato di ‘Omero-Virgilio’ sugli altri poeti si spiega attribuendo a Dante la volontà di rappresentare il vertice della tradizio-ne poetica, gerarchicamente considerata, con la quale egli intende misurarsi.23

22. Si veda il commento di P.V. Mengaldo a D.v.e., ii 4 11, in OM iii.23. R. Antonelli, Omero “sire” e “segnor de l’altissimo canto”?, in Posthomerica, vol. i. Tradizioni omeri-

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8. I cinque poeti, dopo aver parlato fra di loro, rivolgono a Dante un cenno di saluto, che provoca il sorriso compiaciuto di Virgilio (che Dante chiama qui « [i]l mio maestro » (v. 99) per richiamare la propria discepolanza poetica); e gli conferiscono un ulteriore segno di onore accogliendolo nel loro gruppo, « sí ch’io fui sesto tra cotanto senno » (v. 102). La scena ha un valore simbolico evidente: è la legittimazione della missione poetica dantesca da parte di un ideale parnaso, come scrive Ernst Robert Curtius in apertura del secondo ca-pitolo del suo fondamentale Letteratura europea e Medio Evo latino.24 Dante si proclama sesto di una « schiera », termine che implica il concetto di ordine, di organizzazione, di posizione, e su tale aspetto il canto insiste: « io sarò primo e tu sarai secondo » (Virgilio a Dante, v. 15); le « quattro grand’ombre » (v. 83); « co-lui [. . .] / che vien dinanzi ai tre » (vv. 86-87); « l’altro è Orazio » (v. 89); « Ovidio è il terzo, e l’ultimo Lucano » (v. 90); « io fui sesto tra cotanto senno » (v. 102); « La sesta compagnia in due si scema » (v. 148). Dunque Dante si pone come succes-sore dichiarando la propria adesione alla tradizione poetica dell’antichità, ge-sto che è stato valutato in modi opposti, come segno di modestia o come di-chiarazione orgogliosa.25

In realtà l’incontro con i magni auctores del limbo traduce narrativamente l’omaggio e insieme il superamento ideologico e stilistico attuato da Dante nei confronti della tradizione classica pagana, che ora resta relegata in una zona franca, avendo esaurito la propria funzione; Dante la assorbe e la supera, es-sendo egli poeta e cristiano: la sua poesia – si è ricordato – ha una missione salvifica, preclusa a tutti i predecessori. La formale modestia che obbliga Dan-te a dichiararsi sesto è sostanzialmente contraddetta dall’effettiva autoincoro-nazione poetica, con l’effettiva estensione a se stesso di un termine, poeta ap-punto, che era riservato ai poeti latini e non ai rimatori in volgare.26 La transla-tio, il trapianto fertile – concetto fondamentale per il Medioevo – e la renovatio sono realizzate da Dante nella nuova letteratura in volgare attraverso un’ap-

che dall’antichità al rinascimento, a cura di F. Montanari e S. Pittaluga, Genova, Darficlet, 1997, pp. 63-83.

24. Curtius, pp. 25-26.25. Una rassegna di opinioni in A.A. Iannucci, Dante e la ‘bella scola’ della poesia (‘Inf.’, iv 64-65), in

Dante e la ‘bella scola’ della poesia, cit., pp. 22-27: il volume contiene anche studi su ciascun poeta della bella scola (G. Brugnoli, Omero; C. Villa, Dante lettore di Orazio; M. Picone, L’Ovidio di Dante; V. de Angelis, “. . . e l’ultimo Lucano” ) e su altre questioni connesse (G.C. Alessio-C. Villa, Per ‘Inferno’, i 67-68; L.C. Rossi, Prospezioni filologiche per lo Stazio di Dante; Z.G. Baranski, Dante e la tradizione comica latina; R. Hollander, Le opere di Virgilio nella ‘Commedia’ di Dante).

26. M. Tavoni, Il nome di poeta in Dante, in Studi offerti a Luigi Blasucci dai colleghi e dagli allievi pisa-ni, Lucca, Fazzi, 1996, pp. 545-77.

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propriazione e conseguente rinnovamento di strutture antiche: il trasferimen-to della fondamentale letteratura e cultura latina e pagana nel nuovo sistema letterario volgare e cristiano; senza la sapienza antica, ora però tutta confinata nel nobile castello, la radicale operazione dantesca non avrebbe potuto avere inizio. È una dichiarazione fondamentale da porre in limine: per questo il pri-mo incontro infernale di Dante è con quel mondo intellettuale e per questo non poteva avvenire che nel limbo, opportunamente adattato rispetto alle in-dicazioni teologiche.

Per Dante essere sesto significa anche andare a occupare una casella stilistica ben precisa, quella dello stile basso del genere commedia, occupata nei canoni scolastici da Terenzio. Tale esclusione del comico latino dal canone stilistico rappresentato dai cinque classici, e la conseguente inclusione di Dante, signi-fica l’appropriazione e il rinnovamento del solo genere letterario, la comme-dia – che è appunto il titolo del poema dantesco –, che consente escursioni stilistiche verso l’alto e verso il basso, a norma dell’Ars poetica oraziana (citata nell’Epistola a Cangrande) e, sotto il profilo della materia, prescrive un percor-so ascensionale da una situazione perturbata iniziale a un finale prospero e gradito, che è quanto dire il transito dall’inferno al paradiso. La volontà di so-stituirsi integralmente a Terenzio, modello indiscusso del genere commedia, comporterà anche, fra pochi canti, la violenta degradazione della « putain re-spectueuse » Taide dell’Eunuchus a « sozza e scapigliata fante » (Inf., xviii 130), segno preciso dell’avvenuto distacco del nuovo comico dall’antico.27

Questa ulteriore precisazione di natura stilistica, che investe in realtà il si-gnificato profondo dell’intera operazione di ricerca poetica dantesca realizzata nella Commedia, non trova un pieno consenso fra gli studiosi, che, fra le obie-zioni di varia natura, richiamano lo sguardo retrospettivo sul limbo di Purg., xxii 97-103, quando Virgilio informa Stazio sui vari poeti che gli sono compa-gni « nel primo cinghio del carcere cieco » (ivi, 103), includendovi proprio Terenzio, la cui presenza renderebbe dunque impossibile l’occupazione dan-tesca della casella dello stile comico. La rivelazione però avviene a distanza di una cantica, scritta, ragionevolmente anni dopo (ma sappiamo ancora relativa-mente poco su tempi e modi della composizione del poema), all’interno di un episodio che ha sue precise ragioni e strategie; non vale quindi come integra-zione da sommare automaticamente ai nomi di Inf., iv, con valore di verbale

27. C. Villa, Il canone poetico mediolatino (e le strutture di Dante, ‘Inf.’, iv, e ‘Purg.’, xxii) (2000), e ‘Co-moedia: laus in Canticis dicta’. Schede per Dante: ‘Paradiso’, xxv 1, ‘Inferno’, xviii (2001), rivisti in Ead., La protervia, cit., pp. 17-37 e 163-81.

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istruttorio.28 Credo piuttosto che all’altezza di questo canto infernale conti solo quanto vi si trova scritto e quanto noi sappiamo come lettori fino a quel punto dell’opera (come è per ogni atto di lettura sequenziale). Dunque per noi, quando leggiamo il iv dell’Inferno, i poeti della bella scola sono solo quelli lí nominati; e, se accettiamo la lettura stilistica, constatiamo che nessuno di essi è poeta qualificabile nella categoria medievale del comico.

Sta di fatto che, indipendentemente dall’adesione all’idea di Dante che si sostituisce a Terenzio, la perentorietà del v. 102 (« sí ch’io fui sesto tra cotanto senno ») afferma il senso di continuità con la tradizione classica consolidata e insieme di completamento della serie, pur nella sostanziale differenza che separa Dante poeta cristiano, impegnato a fondare una nuova tradizione lette-raria nel volgare di sí, dalla schiera dei poeti « la cui autorità non conosce tem-po » (Curtius), in quanto modelli assoluti nella lingua latina, ritenuta un pro-dotto artificiale per la comunicazione dottrinaria (locutio secundaria), ma estra-nei al progetto di salvazione del Dio cristiano. L’“invenzione” dantesca di mi-tigare la pena degli « spiriti magni » infedeli a vario titolo ponendoli nella riser-va indiana di un personalissimo limbo trasforma colui che si dichiara sesto della schiera nel primo di una nuova era.29

La scena dell’inclusione di Dante fra i componenti della « bella scola » ri-chiama l’idea della cultura espressa da Bernardo di Chartres, vista come una continua costruzione degli uomini, in cui i pensatori moderni, assimilati a nani collocati sulle spalle dei giganti, ossia dei grandi fondatori del sapere del passato, sono capaci tuttavia di vedere piú cose di loro e piú lontane proprio in virtú delle acquisizioni precedenti: una dipendenza, a ben considerare, che prevede il superamento senza alcun complesso di inferiorità.30 È da sottoli- neare che, a differenza dell’immagine di Bernardo, la traduzione narrativa dantesca di tale concezione elimina la differenza costitutiva fra nani e giganti e pone sul medesimo piano antichi e moderni.

28. Gli altri poeti residenti nel limbo secondo Purg., xxii, sono Giovenale, Terenzio, Cecilio, Plauto, Varro, Persio, Euripide, Antifonte, Simonide, Agatone e altri greci; ma non di tutti l’iden-tificazione è certa.

29. Sfrutterà l’ambiguità dell’ultima posizione assegnata a se stesso anche Petrarca nella can- zone R.v.f., 70, che sigilla le cinque stanze con un verso di altri rimatori, riservando all’ultima un proprio verso: chissà se anche per suggestione di questo canto dantesco?

30. Giovanni di Salisbury, Metalogicon, iii 4: « Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine, aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea ».

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9. Si chiude col ritmo epigrammatico e affermativo del v. 102 l’incontro coi poeti antichi, che occupa per l’appunto la parte centrale del canto e rischia, nella sua palese rilevanza, di attenuare il fatto che è il secondo momento dei tre riservati alla rappresentazione del limbo, successivo a quello delle turbe dei non battezzati e dei giusti non credenti (vv. 1-66) e precedente l’ingresso nel nobile castello (vv. 106-51). Nella sezione di raccordo (vv. 103-5), prima che il gruppo dei poeti raggiunga la sorgente di luce, trovandosi al piede di un ma-gnifico castello, Dante precisa l’inopportunità di riferire il contenuto della conversazione svolta cogli altri poeti (vv. 104-5):

Cosí andammo infino a la lumera, parlando cose che ’l tacere è bello, sí com’era ’l parlar colà dov’era.

Non è questo il solo punto del canto in cui alcuni elementi restano imprecisa-ti, avvolti nell’ombra: nulla vien detto su modi e tempi del passaggio dell’A-cheronte da parte di Dante e di Virgilio né sui contenuti della confabulazione tra i poeti classici prima di rivolgere il saluto a Dante (v. 97). I commentatori piú zelanti si ingegnano nel coprire questi vuoti con congetture di varia plau-sibilità, ora spassose ora assurde, come se le vicende narrate si riferissero a una realtà autonoma, esterna al poema. Circa il contenuto del conciliabolo del v. 97 si immagina, per esempio, che Virgilio faccia una presentazione ufficiale di Dante agli altri colleghi, come per l’ammissione in un club privato, illustran-done la carriera poetica, la devozione verso i poeti presenti, il progetto di rin-novamento morale del mondo, o addirittura si presume che, avendo Omero e gli altri poeti assistito al colloquio di Beatrice con Virgilio, ricevano un raggua-glio sul buon esito della missione. Quanto al contenuto dei discorsi fra poeti, si oscilla fra un elogio di Dante da parte degli altri poeti, omesso per modestia, e le discussioni su argomenti troppo elevati per essere riferiti in pubblico; chi invece recupera quanto Virgilio dirà a Stazio in Purg., xxii 104-5 (« spesse fïate ragioniam del monte / che sempre ha le nutrici nostre seco »), indica argo-menti di poetica, richiamando anche dal medesimo canto l’affermazione di Dante (vv. 127-29): « Elli givan dinanzi, ed io soletto / di retro, e ascoltava i lor sermoni / ch’a poetar mi davano intelletto ».

Dal punto di vista narrativo questi particolari sono irrilevanti. Taglia corto Boccaccio: « Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano d’indovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il che mi par fatica super-flua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse, poi che l’autore il volle tacere? ». Quel che conta non è la materia discussa ma la motivazione del silenzio, che consiste nell’inopportunità di trasferire quella conversazione nel tessuto del

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canto, come bene coglie Francesco da Buti, che è appunto professore di reto-rica:

Molti esquisitori domandarebbono qui: Che parlarono costoro che l’autore dice che il tacere è bello? Ai quali si può rispondere convenientemente che parlarono della poe-sia: imperò che dice Orazio: Quod medicorum est, promittunt medici: tractant fabrilia fabri [Ep., ii 1 115-16]. Et è qui notabile ai poeti, et a’ componitori che non deono fare nelle loro opere digressioni impertinenti alla materia che si dee scrivere, e però dice: che il tacere è bello; per non incorrere in vizio, che si potrebbe chiamare nell’arte della poesia Nimia ampliatio.

La precisazione « parlando cose che ’l tacere è bello » intende dunque sottoli-neare una delle caratteristiche tecniche del poeta professionista secondo le norme della trattatistica, ossia il rispetto della convenientia, quel criterio che impone coerenza fra materia e stile adottato, e vieta la incongrua stili mutatio. L’insistenza sull’impeccabile uso dei ferri del mestiere poetico da parte di Dan-te si coglie ai vv. 145-47, verso la fine del canto:

Io non posso ritrar di tutti a pieno, però che sí mi caccia il lungo tema, che molte volte al fatto il dir vien meno,

dove l’autore non sottolinea certo la sua incapacità a ritrarre adeguatamente tutti i sapienti del castello, ma richiama la necessità di non superare lo spazio fisico riservato al canto, fatto di fogli, come lui stesso informa a chiusura di Purg., xxxiii 136-41:

S’io avessi, lettor, piú lungo spazio da scrivere, i’ pur cantere’ in parte lo dolce ber che mai non m’avría sazio; ma perché piene son tutte le carte ordite a questa cantica seconda, non mi lascia piú ir lo fren de l’arte.

All’interno di questo canto iv, il cui carattere metaletterario è comunemente riconosciuto, Dante conferma di avere le carte in regola per entrare a tutti gli effetti nella schiera dei poeti, a partire dal rispetto delle principali regole che, sulla scia dell’Ars poetica oraziana, prescrivevano le poetrie medievali.

10. L’azione continua con l’arrivo dei sei poeti davanti alla prima delle sette cinte murarie di una magnifica costruzione, un castello nobile, dunque piena-mente adeguato a ricoverare gli spiriti dei magnanimi (vv. 106-11):

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Venimmo al piè d’un nobile castello, sette volte cerchiato d’alte mura, difeso intorno d’un bel fiumicello. Questo passammo come terra dura; per sette porte intrai con questi savi: giugnemmo in prato di fresca verdura.

Ogni dettaglio descrittivo è stato sottoposto a esami allegorici che hanno dato esiti di vario tipo. Vediamone una sintetica campionatura. Il castello indiche-rebbe la scienza in senso lato, oppure la scienza filosofica, o ancora la sede dell’umana nobiltà di natura, fondata sulle virtú naturali. Le sette cerchie di mura dotate ciascuna di porta sarebbero ora le sette arti liberali del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, musica, geome-tria, astronomia), ora le virtú morali (con varie combinazioni: quattro natura-li, giustizia, fortezza, temperanza, prudenza, e tre divine, fede, speranza, cari-tà; queste ultime sostituite da tre speculative: intelligenza, scienza, sapienza), ora le sette parti della filosofia (fisica, metafisica, etica, politica, economica, matematica, dialettica); il « bel fiumicello » che difende l’edificio, e che viene attraversato dal gruppetto come fosse « terra dura », cioè come terreno com-patto e non acqua, indicherebbe o le difficoltà iniziali da superare (le diletta-zioni mondane, i beni materiali) o un abito acquisito dai sei poeti (la perseve-ranza nell’impegno morale, la disposizione al bene operare). E via allegoriz-zando.31

In casi come questo risulta difficile, se non fuorviante, assegnare un sovra-senso a tutto, forzando i particolari figurativi o la lettura simbolica, che pure è prevista, perché non si riesce a trovare un unico sistema capace di giustificare ogni singolo elemento, e si perde, soprattutto, il significato complessivo. Inol-tre (questo vale soprattutto per il lettore colto della Commedia, ma non è inuti-le nemmeno per gli specialisti) non dimentichiamo l’ammonimento di Fede-rico Zeri: in tutte le opere artistiche esistono elementi ormai incomprensibili, « connotati che sono morti per sempre. Il passato è morto per sempre ».32 Sappiamo poi che Dante spesso sovrappone codici interpretativi in modo da moltiplicare le chiavi di accesso al testo, lasciando convivere diverse possibilità di lettura.

Se ci accontentiamo di cogliere il significato complessivo, constatiamo che

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31. Oltre a Mazzoni, Saggio di un nuovo commento alla ‘Commedia’, cit., vd. D. Consoli, s.v. Castel-lo, in ED, vol. i pp. 864-66.

32. F. Zeri, Dietro l’immagine. Conversazioni sull’arte di leggere l’arte, redazione a cura di L. Ripa di Meana, Milano, Longanesi, 1987, p. 75.

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il senso letterale ci indica il progressivo ingresso di Dante, ormai ufficialmente poeta, in una sorta di oasi verdeggiante, come nel cortile di un vero castello medievale, dove si contemplano eroi ed eroine, sapienti, filosofi, scienziati, letterati, tutti accomunati dalla « magnanimitade ». Dunque il generale valore simbolico del castello significherà, a grandi linee, la necessaria mediazione della poesia e della lettura dei testi specifici delle varie discipline filosofiche, secondo la vasta accezione medievale, per conoscere gli insegnamenti morali ivi contenuti e avere accesso al contenuto dottrinario che costituisce la base per il nuovo progetto poetico dantesco.

Che il castello sia un tradizionale scenario allegorico, presente nella lettera-tura mediolatina, romanza e volgare (si è soliti indicare, per ciascuna categoria, l’Anticlaudianus di Alano da Lilla, il Roman de la Rose, il Tesoretto di Brunetto Latini e L’Intelligenza), è un dato certo; ma, a differenza di tali modelli antece-denti, nei quali si descrivono le costruzioni e i palazzi interni, corredati di af-freschi di valore didascalico, il castello dantesco presenta solo il fossato ester-no, le sette cerchie di mura e, al centro, un « prato di fresca verdura » (v. 111), con un’altura su un lato (vv. 115-16 e 118). L’assenza di costruzioni, coincidente con l’immagine che almeno per noi è tipica del castello, è resa da alcune mi-niature tre-quattrocentesche che raffigurano le sette cinte murarie concentri-che e sovrapposte, cosí da costituire l’immagine di una torre a sette ordini (Madrid, Biblioteca Nacional, 10075, f. 10r ; Oxford, Bodleian Library, Holkham misc. 48, f. 6), sulla cui sommità stanno, come in una terrazza, i magnanimi (London, British Library,Yates Thompson 36). È interessante constatare come gli antichi illustratori abbiano trasferito dettagli delle città contemporanee in una struttura cosí apertamente simbolica: il castello, per lo piú quadrato o poligonale, consiste in una serie di mura con al centro una torre merlata.33

Il ripetuto dettaglio coloristico del prato di un verde brillante smaltato (vv. 111, 118), simile a certi sfondi di miniature, è uno degli indizi che svelano una ripresa dai campi elisi virgiliani (Aen., vi 637 sgg.), collocati fra « amoena virecta / fortunatorum nemorun » (vv. 639-40: ‘nelle amene verzure di fortunati bo-schi’, trad. di Carlo Carena), dove, fra gli altri gruppi, spiriti di guerrieri sono intenti a banchettare sull’erba (« per herbam / vescentis », vv. 656-57); l’ombra del padre Anchise si trova al fondo di una valle verdeggiante (« penitus conval-le virenti », v. 679); le anime di stirpi e popoli volano e la distesa risuona di mormorii come sui prati (« velut in pratis », v. 707) d’estate le api si posano sui fiori. E sempre dal medesimo episodio Dante riprende la posizione rialzata

33. Si vedano le osservazioni di P. Meiss, in Illuminated Manuscripts, cit., vol. i pp. 121-22.

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rispetto alle sedi delle anime per poterne facilitare la vista: Museo suggerisce a Enea e alla Sibilla di salire una collina e li accompagna e ‘i campi lucenti dal- l’alto vien mostrando’ (« camposque nitantis / desuper ostentat », vv. 677-78); Anchise si colloca su ‘un poggio, di dove tutte le ombre nella loro lunga teoria potesse di fronte elencare e di quante venissero riconoscere i volti’ (« tumulum capit, unde omnis longo ordine posset / adversos legere et venientun discere voltus », vv. 754-55). La volontà di misurarsi direttamente col riconosciuto mae- stro Virgilio induce Dante a concentrare soprattutto nei primi canti dell’Infer-no le riprese fortemente riconoscibili dall’Eneide; ed è quasi obbligatorio che, subito dopo essersi proclamato poeta mediante la nomina effettuata all’unani-mità dalla « bella scola » della poesia, Dante confermi il riconoscimento tra-piantando nel suo personalissimo limbo cristiano, con le indispensabili modi-fiche, i campi elisi pagani del suo modello.

Le « genti » che occupano il prato mostrano nello sguardo, lento e solenne, nell’aspetto che promana « autorevolezza », ossia dignità di fede e d’obbedien-za (secondo quanto Dante scrive per giustificare la « autoritade » di Aristotele, Conv., iv 6, soprattutto comma 5), la stessa impassibile solennità assegnata alle quattro grand’ombre dei poeti (vv. 83-84). La terzina si modella sul contegno dei magnanimi descritto da Tommaso nel ricordato commento all’Etica Nico-machea: anche le loro parole rade, ma significative, e a bassa voce (v. 114), ma-nifestano esteriormente l’atteggiamento riflessivo, secondo quanto prescrive-va una lunga tradizione di trattatistica sull’arte loquendi et tacendi.

L’osservazione dei nuovi personaggi è condotta in posizione soprelevata per favorire lo sguardo d’insieme, che poi si tramuta, secondo il linguaggio cinematografico, in piani lunghi, dai quali emergono figure identificate con espressioni divenute di repertorio, come « Cesare armato con gli occhi grifa-gni » (v. 123), « e solo in parte vidi il Saladino » (v. 129). Accanto alla suggestione virgiliana sopra ricordata agisce anche un criterio qualificativo: il gruppo degli eroi che operarono per l’impero di Roma e i magnanimi dell’azione, uomini e donne, elencati tra i vv. 121 e 129, sono figurativamente collocati piú in basso rispetto ai filosofi speculativi e agli autori morali, come si ricava dal v. 130: « Poi che inalzai un poco piú le ciglia, / vidi [. . .] », perché Dante rispecchia la gerar-chia delle scienze secondo la riflessione filosofica medievale, che giudica le scienze speculative umane superiori alle scienze pratiche (ivi compresa la po-litica), la vita contemplativa piú rilevante della vita attiva.34

34. G.C. Alessio, Il canto iv dell’ ‘Inferno’, in Regnum celorum vïolenza pate. Dante e la salvezza dell’u-manità, a cura di G. Cannavò, Montella, Accademia Vivarium novum, 2002, p. 48. Cfr. Conv., iv 22

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11. La forza evocatrice dei nomi, per noi oggi attiva solo parzialmente con alcuni dei personaggi menzionati, informa il terzo catalogo del canto, disteso su otto terzine (vv. 121-44), di cui le prime tre riguardano 14 eroi ed eroine della vita attiva, e le ultime cinque i 21 campioni della vita speculativa, con uno sbilanciamento numerico che conferma la predilezione dantesca per quest’ul-tima. Noto che i due elenchi sono costruiti su multipli del 7, il numero asse-gnato alle cerchie murarie del nobile castello: secondo un gioco numerico di rimbalzi che è fondamentale per la cultura medievale, e per Dante in partico-lare. E ciò perché la costruzione artistica si informava sulla creazione piú gran-de di tutte, quella di Dio: dice il libro della Sapienza (11 21) « omnia in mensura et numero et pondere disposuisti ». Il numero non è tanto uno schema esterio-re, quanto il simbolo e il segno dell’ordo cosmico.

Il primo gruppo, tenuto saldo anche dall’anafora, quasi perfetta, del verbo vidi (vv. 121, 124, 127) si apre col nome di una donna « Eletra », la prima delle otto selezionate: madre del fondatore di Troia, Dardano, inaugura la stirpe dalla quale discende, tramite Enea e Lavinia, entrambi nominati, quella roma-na, consentendo in tal modo l’esecuzione del piano divino di salvazione, se-condo quanto abbiamo appreso a Inf., ii 13-24. Poi due guerriere, Camilla e l’amazzone Pentesilea. Sono allineate in un solo verso quattro celebri incarna-zioni delle piú alte virtú coniugali, mogli e madri esemplari: Lucrezia, per la castità (ancorché suicida), Giulia e Marzia per l’obbedienza ai rispettivi coniu-gi (Pompeo e Catone l’Uticense) e Cornelia, madre dei Gracchi. Rispetto agli altri guerrieri solo nominati (« Ettòr ed Enea » v. 122, « [i]l re Latino » v. 125, « quel Bruto che cacciò Tarquino », cioè il Lucio Bruto autore della cacciata di Tarquinio il Superbo), occupano un intero verso ciascuno Giulio Cesare (v. 123) – per il cui icastico dettaglio « li occhi grifagni » non si sono recuperati adeguati precedenti35 – e, isolato, il Saladino (v. 129), che, rompendo la serie romana, ripropone il tema teologico della prima parte del canto, in quanto pagano negativo magnanimo, presente nella tradizione novellistica occidenta-le che ne fa un munifico e cavalleresco signore, attenuandone la componente musulmana.

18: « nostra beatitudine [. . .] prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni dele morali virtudi, e poi perfetta quasi nele operazioni de le intellettuali ».

35. Difficilmente attingibile per Dante il passo di Svetonio, De vita Caes., i (Div. Iulius) « nigris vegetisque oculis ». A norma di Brunetto Latini, Tresor, i 148 4, lo sparviero grifagno (Grifaing) « est uns oiseaus ke l’en prent a l’entree d’yvier, et a les oils rouges et vermaus comme feu »; pertanto l’aggettivazione dantesca sottolinea la minacciosa rapacità di Cesare, ribadita nella perifrasi « colui ch’a tutto ’l mondo fé paura » (Par., xi 69).

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La seconda e piú rilevante schiera costituisce un corrispettivo della « bella scola » poetica: infatti viene qualificata come « filosofica famiglia » (v. 132), os-sia una comunità legata da parentele, in cui Aristotele, gratificato dalla perifra-si antonomastica « il maestro di color che sanno » (v. 131), ha il ruolo primazia-le, analogamente a Omero che precedeva gli altri poeti « come sire », ed è og-getto di ammirazione e di onore, a conferma della sua singolare magnanimità. La rassegna dei sapienti, ispirata ai molti antecedenti tardoantichi e medievali, conferma la supremazia aristotelica, alla cui autorevolezza sono posposti tutti gli altri filosofi e sapienti, la cui specifica arte è riconducibile alle suddivisioni della scienza filosofica, senza preoccupazioni cronologiche.

La struttura piramidale dell’elenco pone, al di sotto del vertice di Aristotele, al quale sono riservati tre versi (« vidi ’l maestro di color che sanno / seder tra filosofica famiglia. / Tutti lo miran, tutti onor li fanno », vv. 131-33), Socrate e Platone, appaiati nel medesimo verso (« quivi vid’ïo Socrate e Platone », v. 134), a loro volta superiori al resto dei familiari: si tratta, come ha ben mostrato Gregorio Piaia, di una significativa variazione rispetto ad alcune raffigurazioni del XII secolo precedenti l’affermazione totale della filosofia aristotelica in Occidente, nelle quali, sotto l’immagine femminile della filosofia, spiccano le figure, simmetricamente disposte, di Socrate e Platone intenti a scrivere ap-poggiandosi a un leggío.36 Tale schema esprime visivamente la gerarchia sim-bolica assegnata ai maestri del pensiero dalle culture di varie epoche e trova successive applicazioni, tra le quali è facile pensare alla impressionante Scuola di Atene di Raffaello, in cui l’affiancamento di Platone e di Aristotele al centro della composizione, ma prospetticamente distanti rispetto agli altri personag-gi, denuncia una concezione molto distante da quella verticistica espressa nel-la « filosofica famiglia » di Inf., iv, a partire dal significativo rovesciamento d’or-dine dei due filosofi fondatori, che pone Platone prima di Aristotele.

I diciotto nomi degli ideali discendenti della triade che stipano i vv. 136-44, da Democrito a Averroè, ricevono un diverso trattamento: tre di essi (Demo-crito, v. 136; Dioscoride, vv. 139-40; Averroè, v. 144) hanno un rilievo speciale, ottenuto mediante specificazioni qualificanti e la destinazione di un verso in-tero (dilatato di un ulteriore emistichio per Dioscoride); inoltre il primo e l’ultimo sono collocati nelle posizioni estreme di questa sezione del terzo ca-talogo nominale.

Di Democrito viene sottolineata la convinzione che il mondo sia frutto del caso, una teoria materialistica in aperto contrasto con la visione provvidenzia-

36. G. Piaia, La “filosofica famiglia” nella poesia allegorica medievale, in « Medioevo », a. xvi 1990, pp. 86-93.

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le accolta da Dante stesso. Qualcuno ha visto un’implicita approvazione del filosofo greco, in quanto l’altro atomista Epicuro, a differenza di Democrito, ha « suo cimitero » fra le arche infiammate degli eretici (Inf., x 13-15) « con tut-ti i suoi seguaci / che l’anima col corpo morta fanno ». È un’altra manifestazio-ne dell’eccesso di zelo già ricordato. Non solo Democrito è posto dopo l’auto-rità dei tre grandi Aristotele, Socrate e Platone, ma valgono per lui le parole di condanna pronunciate da san Tommaso nei commenti aristotelici, che Dante ha tenuto presente sia nell’ideazione dei suoi magnanimi limbicoli sia, piú in particolare, in questa rassegna di scienziati, come ci hanno insegnato Forti e Piaia. L’accoglienza di Democrito nel castello dei grandi spiriti si spiega come esempio di amore esclusivo per la sapienza che Dante gli assegna in Conv., ii 14 8.

Dioscoride (presentato come « Diascoride », secondo la grafia dell’intera an- tica tradizione manoscritta, conforme a una diffusa forma dissimilata) è defi-nito « il buon accoglitor del quale », ossia il bravo catalogatore delle qualità (quale è sostantivo) relative alle piante medicinali; la sua presenza nel limbo si spiega non solo con la riconosciuta autorevolezza quale farmacologo botani-co, citato nei piú correnti manuali e trattati enciclopedici, ma anche come omaggio di Dante, immatricolato nell’Arte dei Medici e degli Speziali, al piú antico cultore della farmacopea.

Averroè (presentato secondo l’accentazione che i lessici medievali impone-vano a tutte le parole di origine non latina; basti pensare al « superbo Iliòn » di Inf., i 75) è tra i magnanimi per il suo ruolo di esegeta per antonomasia di Ari-stotele (in Conv., iv 13 8, è « il Commentatore »), la cui opera (« il gran comen-to ») non richiede ulteriori indicazioni e consente a Dante di chiudere la ras-segna degli spiriti infedeli impegnati nella vita intellettuale cosí come si era aperta, sempre nel segno di Aristotele, il cui nome rimane inespresso.

Quanto all’intera serie degli ideali discepoli dei tre capostipiti (i restanti quindici sapienti; in ordine di comparsa: Democrito, Diogene, Anassagora, Talete, Empedocle, Eraclito, Zenone, Dioscoride, Orfeo, Tullio, Lino, Seneca, Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galieno, Averroè), ci si è interrogati sulla provenienza dei loro nomi e sul criterio organizzativo della sequenza. La ricerca delle fonti ha messo in luce alcune riprese dalle enumerazioni della Metafisica aristotelica, parziali aggregazioni asistematiche in testi tardoantichi e una serie di opere eterogenee che riferiscono notizie e aneddoti ora su uno, ora su piú di uno.37

Quanto al disegno autoriale sotteso alla progressione per gruppi variamen-

37. Vd. Alessio, Il canto iv dell’ ‘Inferno’, cit., p. 52 n. 32.

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te omogenei (filosofi fino a Zenone, un botanico, un poeta mitico, un filosofo, un poeta mitico, uno studioso di geometria, un astronomo, tre medici, un fi-losofo) la soluzione piú economica è quella che li accomuna per aver essi ela-borato delle teorie a carattere generale nei rispettivi campi di competenza, tutti riconducibili alle suddivisioni interne della filosofia: quella naturale, cui appartiene la maggioranza dei nominati, e quella morale, rappresentata da Seneca, le cui opere note – autentiche e apocrife, nonché le ancor rare tragedie – venivano catalogate negli accessus introduttivi come appartenenti alla pars philosphie dell’etica, dai due poeti-teologi Orfeo e Lino (compaiono insieme in Virgilio, Buc., iv 55-57), e da Cicerone (chiamato, come usuale nel Medioevo, « Tullio ») teorico della retorica, arte indispensabile all’esercizio della politica.

Che Dante conoscesse direttamente tutti questi autori è certamente piú che improbabile. Sull’eccezionalità intellettuale di Dante non sussistono dubbi, ma se solo egli avesse letto un decimo dei testi che gli studiosi presumono, spesso senza minimi controlli sulla tradizione da lui raggiungibile, non avreb-be avuto il tempo di scrivere una sola riga. È sicuro invece che parte di questi nomi sono scelti in analogia alle rassegne presenti nella cultura medievale; e sarà piú prudente invocare il criterio dell’interdiscorsività, la suggestione della corrente cultura del tempo identificata su vari esempi, anziché moltiplicare a dismisura le presunte letture dantesche. Giustificare le ragioni bibliografiche per ciascun nome e trasformare tutti questi personaggi in altrettanti libri varia-mente consultati e studiati da Dante è operazione frustrante. Un simile estrat-tore di quintessenze non ha bisogno di troppi libri.38

12. La vista di questi eroi della vita intellettuale provoca ancora, nel momen-to della scrittura del iv canto, l’esaltazione di Dante, che appunto usa il presen-te al v. 120 (« del vedere in me stesso m’essalto »), un tempo verbale che coinci-de con il presente di ogni nostra lettura e rilettura, rendendoci letteralmente contemporanei all’autore, e che torna negli appelli al lettore e nelle riflessioni metanarrative. Il tempo presente, già usato al v. 104 per spiegare l’omissione di « cose che » adesso durante la scrittura « [i]’l tacere è bello », cosí com’era piace-vole la viva conversazione là dove era avvenuta, irrompe per la terza volta nel finale del canto, quando Dante, scrittore e personaggio, riprende il lucido con-trollo della propria materia, che è appena all’inizio: « Io non posso ritrar di

38. Cade nell’ingenuità metodologica di indicare un libro dietro ogni nome di auctoritas re- gistrato da Dante L. Gargan, Per la biblioteca di Dante, in GSLI, vol. clxxxvi 2009, pp. 161-93. La formula abstracteur de quinte essence applicata all’arte rappresentativa di Dante è di Auerbach, Studi, p. 129 (che la desume dal titolo definitivo assegnato da Rabelais a Gargantua, come informa la nota 155bis della traduttrice Maria Luisa De Pieri Bonino, ivi).

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tutti a pieno, / però che sí mi caccia il lungo tema, / che molte volte al fatto il dir vien meno » (vv. 145-47).39

Come si è già detto, Dante, che si appena proclamato poeta a tutti gli effet-ti, sesto della schiera dei poeti esemplari, non può ovviamente derogare alle regole delle poetrie e deve rispettare lo spazio narrativo che si è assegnato, ossia i 151 endecasillabi, equivalenti a 50 terzine piú il verso della chiusa. In tal senso il dir, ossia il racconto in versi, è insufficiente a contenere « il fatto », la realtà esterna che vuole rappresentare.40 Credo che il termine tema nell’acce-zione di ‘argomento, materia’ fornisca piena conferma del fatto che la terzina riguardi l’autoinvestitura dantesca: infatti ritornerà esclusivamente nei due punti nevralgici della riflessione sulla poesia della Commedia stessa, nei mo-menti piú intensi della sua crisi, quando, sulla scorta delle riflessioni oraziane di Ars poetica, 38-41, Dante ammette l’impossibilità di riferire l’indicibile dolce riso di Beatrice, riproponendo un sistema di rime quasi identiche a queste (tema : si scema : trema).41

Continuando a usare il presente nel quale è immerso insieme al lettore, Dante ora lo applica alla narrazione del « fatto » per conferire immediatezza e coinvolgimento e sposta di nuovo l’attenzione sul gruppo dei sei poeti, cui egli stesso appartiene per comune consenso degli altri membri (in realtà – ricor-diamolo – si tratta di un’autoproclamazione altamente simbolica). « La sesta compagnia in due si scema » (v. 146), ossia la schiera dei sei poeti si divide in due gruppi (oppure, meno bene, diminuisce di due elementi): Virgilio, che è l’« altissimo poeta », assume di nuovo le vesti del « savio duca » (v. 149) con una missione da compiere e sottrae il personaggio Dante all’atmosfera ovattata del primo cerchio per ripiombarlo nelle tenebre vibranti di lamenti, dove non c’è nulla che emetta una luce (v. 151).

39. Escludo dal conteggio il presente narrativo del v. 133: « tutti lo miran, tutti onor li fanno ». 40. Con gli stessi termini Dante invocherà l’aiuto delle muse che resero il canto poetico di

Anfione capace di erigere le mura di Tebe « sí che dal fatto il dir non sia diverso » (Inf., xxxii 12).41. Cfr. Par., xxiii 55-69: « Se mo sonasser tutte quelle lingue / che Polimnïa con le suore fero /

del latte lor dolcissimo piú pingue, / per aiutarmi, al millesmo del vero / non si verría, cantando il santo riso / e quanto il santo aspetto facea mero; / e cosí, figurando il paradiso, / convien saltar lo sacrato poema, / come chi trova suo cammin riciso. / Ma chi pensasse il ponderoso tema / e l’omero mortal che se ne carca, / nol biasmerebbe se sott’esso trema: / non è pareggio da picciola barca / quel che fendendo va l’ardita prora, / né da nocchier ch’a sé medesmo parca », e Par., xxx 22-33: « Da questo passo vinto mi concedo / piú che già mai da punto di suo tema / soprato fosse comico o tragedo; / ché, come sole in viso che piú trema, / cosí lo rimembrar del dolce riso / la mente mia da me medesmo scema. / Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso / in questa vita, infino a questa vista, / non m’è il seguire al mio cantar preciso; / ma or convien che mio seguir desista / piú dietro a sua bellezza, poetando, / come a l’ultimo suo ciascuno artista ».

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L’ultima parola del canto (« luca », voce del verbo lucere, ‘emettere luce’, ‘ri-splendere’) rievoca l’atmosfera luminosa del limbo dei sapienti, ma creata, te-niamo presente, in modo artificiale, fittizio. L’intera tradizione culturale paga-na costituisce un ponte necessario verso la nuova grande impresa totale avvia-ta da Dante. Essa ha svolto una funzione essenziale, ma ormai esaurita, e resta fissata in quel sole di mezzanotte, immobile. Dante ha fatto propria la sua le-zione, e adesso procede con Virgilio, il quale tornerà in quel limbo, una volta avvenuto il passaggio di consegne tra lui e Beatrice, che è soprattutto figura della nuova poesia di Dante: una poesia capace – appunto – di dare letteral-mente la beatitudine, perché conduce alla contemplazione diretta di Dio, alla piena, unica e vera luce. Tutto il resto è definitivamente superato.

Il rapporto di Dante coi classici latini è improntato a devozione e ricono-scenza, ma anche alla consapevolezza che essi hanno fatto il loro tempo: egli prende volontariamente il testimone della loro tradizione ma ne sposta com-pletamente il piano, « al divino da l’umano, / a l’etterno dal tempo » (Par., xxxi 37-38). In Purg., xxi, l’ombra di Stazio, altro poeta classico che nella Commedia si salva per una misteriosa conversione al cristianesimo, tenta di abbracciare il riconosciuto Virgilio, che lo ferma ricordandogli che « tu sè ombra e ombra vedi » (v. 132). Stazio si scusa, adducendo l’entusiasmo che lo ha spinto a di-menticare il loro stato attuale e a trattare « l’ombre come cosa salda » (v. 136).

Se torniamo, in conclusione, a considerare l’incontro di Dante coi poeti della bella scola, tenendo a mente l’episodio purgatoriale, potremo anche vedere nel congedo finale del canto la certezza che Dante ha del fatto che tutti gli altri col-leghi, relegati nel limbo, sono solo « grand[i] ombre » (v. 83), una congrega dei poeti estinti, che, dopo l’incontro col loro erede e liquidatore, tornano a essere ombre del regno dei morti. Solo Dante è cosa salda.

Luca Carlo Rossi

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Postilla bibliografica. Si segnalano qui, a integrazione dei contributi citati nelle note, altre letture che mi sono risultate utili a vario titolo per la lectura del canto, senza alcuna pretesa di completezza: R. Hollander, Il Virgilio dantesco: tragedia nella ‘Comme-dia’, Firenze, Olschki, 1983; T. Barolini, Dante’s Poets: Textuality and Truth in the ‘Comedy’, Princeton, Princeton Univ. Press, 1984 (trad. it., Il Miglior Fabbro. Dante e i poeti della ‘Commedia’, Torino, Bollati Boringhieri, 1993); A.A. Iannucci, Il limbo dei bambini, in Sotto il segno di Dante. Scritti in onore di Francesco Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 153-64; A. Rossini, La ‘bella scola’ ed il ‘salutevol cenno’: una ricerca semantica e stilistica, in « Quaderni d’Italianistica », a. xviii 1997, pp. 163-81; P. Nasti, Canti iii-iv. Contaminazio-

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ne ed ‘auctoritas’ alle soglie dell’ ‘Inferno’, in Esper. dant., pp. 25-60; G. Güntert, Canto iv, in Lect. Dant. Tur., Inf., pp. 61-74; M. Tavoni, Un nuovo strumento informatico per lo studio di Dante (con una proposta interpretativa per ‘Inf.’, iv 69), in Dante in lettura, a cura di G. De Matteis, Ravenna, Longo 2005, pp. 217-29; S. Carrai, Dante e l’antico. L’emulazione dei classici nella ‘Commedia’, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2012; E. Fumagalli, Dante e Virgilio, in Id., Il giusto Enea e il pio Rifeo. Pagine dantesche, Firenze, Olschki, 2012, pp. 215-45.

L.C. R.

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stampato

presso le officine di bertoncello artigrafiche

in cittadella (padova)

per conto della salerno editrice

dicembre 2013