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Francesco Ferri - Il Caso Pacciani ... Storia Di Una Colonna Infame ?

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Francesco Ferri

IL CASO PACCIANI Storia di una colonna infame?

À EDIZIONI PANANTI, FIRENZE

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Presentazione

Come la maggioranza degli italiani conosco il caso del Mostro di Firenze per sentito dire. Attraverso ciò che ne hanno scritto sui giornali, ne han detto alla radio, ne han fatto vedere alla televisione. Vale a dire: non ne so nulla; in-tendo da un punto di vista giuridicamente obbiettivo. Come la maggioranza degli italiani, posso esprimere un'opinione, non un giudizio.

Fra gli italiani non includo i fiorentini. Essi infatti sono stati troppo parte in causa per essere considerati neutrali. Per oltre venti anni hanno convissuto col 'mostro', credendo a questa e a quella voce, dominati da un unico desiderio: che l'esecutore dei terribili delitti fosse scoperto, acciuffato, pu-nito. E così, ogni volta che si faceva un nome erano, neces-sariamente colpevolisti o innocentisti. In queste faccende la ragione, si sa, c'entra poco. È vista di malocchio: come una pretesa di superiorità o di indifferenza morale. Se hai un cuore - par che dica la gente in certi casi - devi essere di qua o di là. E il cuore dei fiorentini, batteva più per la colpe-volezza che per l'innocenza.

È naturale; ed è forse sempre stato così ogni volta che una questione controversa ha coinvolto i sentimenti, i desideri, le passioni. A Firenze, non c'è dubbio, in questi venti anni, ogni volta che il delitto si ripeteva, la temperatura morale saliva. E alterava il giudizio. Bisognava trovare un colpevo-le. Ma un colpevole non è necessariamente: il colpevole.

La cosa non desta meraviglia, né preoccupazione. Preoc-

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cupa solo quando ad essere investita da questa passionalità è la giustizia stessa, i giudici si vorrebbe che fossero immuni da tentazioni. È forse una pretesa eccessiva, dal momento che sono uomini. Ci si contenterebbe che fossero immuni dalla tentazione più grave: quella di avere una convinzione già fatta. E quindi di non avere bisogno di prove; prove at-tendibili, s'intende, prove vere.

Ancora peggio, se, col suo convincimento già fatto, il giu-dice crede di interpretare la volontà popolare. Perché allora è come cedere alla forza. E non ha molta importanza se la forza sia fondata sulle armi, le torce e i bidoni di benzina, o sulle parole, le opinioni, gli appelli. L'invocazione popola-re, quando si crea un clima di potente suggestione, è sempre la stessa: sia fatta giustizia! Ma quale? Nel caso Pacciani, la giustizia invocata esigeva la condanna, o almeno, la preferi-va a un'assoluzione.

È una storia che si ripete da secoli. Nel 1630, a Milano, nel pieno della peste, la volontà popolare esigeva che fossero trovati e puniti i responsabili del contagio. Dovevano esser-ci; toccava alla giustizia scoprirli. E la giustizia, cedendo alla passione popolare, fece del suo meglio; e purtroppo li scoprì. Ne ricordiamo ancora alcuni nomi, Mora, Piazza, Padilla. Sono quelli che ci ha tramandato il Manzoni nella sua Storia della Colonna infame, pubblicata in appendice al famoso romanzo.

Ed è alla Storia della colonna infame che si riferisce, pas-so passo, come ad un memorabile modello, il giudice Fran-cesco Ferri, in questo pamphlet. Sono cento pagine che si leggono con un senso di doloroso stupore. Pacciani non c'entra. Davanti all'esame accurato delle prove che ne han-no determinato la condanna, la sua faccia aborrita scompa-re. Ci si chiede: come può essere accaduto? Come si può ar-rivare a una sentenza basandosi su così fragili motivi? Ben inteso: questo non vuole dire che Pacciani sia innocente.

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Francesco Ferri è il presidente della Corte d'Appello di Firenze che ha riformato la sentenza di primo grado che condannava il Pacciani. Il suo è stato un atto coraggioso. L'opinione pubblica infatti si sentiva appagata dal primo giudizio. Non era limpido, lasciava dubbi, ma soddisfaceva il bisogno di avere un colpevole. Nessuno comunque era più adatto del Pacciani ad assumerne la parte. "Un delinquente, un essere abbietto, capace di tutto. Anche se non è stato lui...".

"Anche se non è stato lui... ". È qui, forse, che il giudice di primo grado è caduto in tentazione. La gente voleva un col-pevole; l'imputato ne aveva tutte le caratteristiche, e in ogni caso nessuno avrebbe pianto per lui. Diamoglielo dunque.

Naturalmente ci volevano le prove. Ma le prove sono en-tità che sembrano fatte di cera. Nelle mani degli esperti, giu-dici, avvocati, periti, si piegano, si mutano, assumendo volta a volta una fisionomia diversa. Un indizio può, quasi indif-ferentemente, diventare una prova di innocenza o di colpevolezza.

Anche nel processo al Mora, al Piazza e al Padilla, accu-sati di avere concorso a spargere la peste in Milano, le prove erano molte. E agli inquisitori e ai giudici dell'epoca sem-brarono determinanti; così forte era la suggestione che agiva sui loro animi, la vox populi, il bisogno d'avere un colpevo-le. Eppure sarebbe bastato un esame appena un poco più attento, per renderle irrisorie. Manzoni questo esame l'ha fatto nel suo memorabile saggio, dopo due secoli. Il giudice Ferri non ha aspettato tanto. Il suo libro si raccomanda alla lettura di tutti i cittadini, siano di Firenze o no, che non vo-gliono, per condannare un delitto, farsi complici di un'in-giustizia.

Manlio Cancogni

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Un'ipotesi conduce, nella testa nella quale ha trovato spazio o nella quale è addirittura sta-ta concepita, una vita che assomiglia a quella di un organismo, in quanto assimila dal mon-do esterno soltanto quello che le è proficuo e omogeneo e non fa invece nemmeno avvici-nare ciò che le è eterogeneo e dannoso, oppu-re, se non può assolutamente fare a meno di accoglierlo, lo espelle lasciandolo completa-mente intatto.

Arthur Schopenhauer

Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condan-narono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver de-cretata, in aggiunta ai supplizi, la demolizio-ne della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'in-nalzasse una colonna, la quale dovesse chia-marsi infame, con un'iscrizione che traman-dasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudi-zio fu veramente memorabile.

Alessandro Manzoni

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Ho scritto questo "pamphlet", lasciando per scrupolo e con qualche rimpianto la magistratura, per la massima parte composta da degnissime persone, anzitutto in difesa del mio diritto alla salute, essendomi troppo duro assistere passiva-mente allo straripare incontrollato del diritto d'accusa. L'ho scritto anche, e perciò lo pubblico, superati gravissimi pro-blemi di coscienza e personali, in difesa del diritto di difesa.

Non escludo di sbagliare, ma credo che, certo in buona fede (anche gli inquisitori della Storia della Colonna Infame lo erano), si stia commettendo un'iniquità alla quale, costi quel che costi, mi ribello.

Talvolta "oportet ut scandala eveniant", in questo caso anche come spunto di meditazione sui ruoli dei magistrati, sia del pubblico ministero che giudicanti, e sullo pseudo-garantismo che ci riserva il nuovo codice di procedura pena-le nella fase delle indagini preliminari, simulando di proteg-gere l'imputato, ma in realtà lasciandolo in balia dell'arbi-trio degli inquirenti e senza adeguati controlli sul loro ope-rato. E di meditazione, anche, sul ruolo e sull'influenza dei mezzi di informazione nei processi clamorosi.

L'Autore

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Il caso Pacciani

Questo piccolo libro contro l'inquisizione inizia con la domanda, alla quale è stata data risposta affermativa nella parte finale della sentenza di assoluzione di Pietro Pacciani dalla serie di omicidi di cui era accusato, e che gli aveva procurato in primo grado una condanna all'ergastolo: un essere moralmente spregevole e già condannato defini-tivamente per gravissimi reati, conserva, scontate le pene per quelle condanne, il diritto ad avere un processo giusto ed una sentenza giusta? Chi risponde negativamente a que-sta domanda non vada oltre nella lettura. Noi non servia-mo a lui e lui non serve a noi.

Queste note vogliono essere un invito a tornare all'ordi-ne, alla ragione, alla legalità, un invito a bandire demo-nizzazioni preconcette ed a bandire finalmente ogni pre-sunzione di colpevolezza. La propaganda delle tesi d'accu-sa nella fase delle indagini preliminari, attraverso veline e comunicazioni alla stampa, camuffate per indiscrezioni, ma in realtà orchestrate per creare un certo clima, appare deleteria. Poche e presto spente senza eco le voci di contra-sto e nessun serio tentativo di critica che abbia un minimo di approfondimento. Quando, nella nuova fase d'inchiesta, si leggono sui giornali titoli come "Trecento testimoni con-tro Pacciani", appena due mesi dopo che una Corte d'Assi-ste d'Appello lo ha assolto, non si sa davvero se ridere o piangere.

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Pacciani viene condannato in primo grado senza le ne-cessarie prove, sulla base di artifici dialettici, di palesi illogicità, di illazioni e di mere invettive, come si pensa sia stato dimostrato nella sentenza di secondo grado.

Proprio mentre questa sentenza, frutto di un lungo ed approfondito studio preliminare degli atti, stava per esser pronunciata, viene a prospettarsi una pista investigativa nuova, che appare già dal primo sguardo assai infida e che finirà per delineare un quadro del tutto diverso dal prece-dente e con quello non integrabile, essendo anzi con quello inconciliabile sia sotto il profilo criminologico che sotto il profilo della ricostruzione di determinati fatti; avente con esso in comune soltanto la figura del principale sospettato, alla quale sembra ci si sia per così dire abbarbicati. Nien-t'altro che leghi i due quadri all'infuori di questa figura, che però ora si muove in uno scenario prima neppure immagi-nato. Dall'originario maniaco isolato, unico al mondo nella storia della criminologia per l'assoluta peculiarità delle sue deviazioni sessuali, e per la lunghezza del periodo di attivi-tà delittuosa, si passa ad una combriccola di ubriaconi e di frequentatori e sfruttatori di prostitute, una piccola banda del tipo "Amici miei" in peggio, ancor più volgare nella versione vernacolare paesana, le cui "zingarate" consiste-vano talvolta nelle "merende" e, soprattutto, nelle bevute in cantinette varie (dalle quali era difficile perfino venir via per l'ubriachezza), talvolta nella ricerca di un facile sesso nei dintorni della stazione del capoluogo o in squallide case di campagna, talvolta in messe nere ed in sedute di magia da quattro soldi, e talvolta, infine, ma nel periodo cruciale almeno una volta o due l'anno, quasi come di precetto, in orrendi delitti a scopo di libidine.

Secondo questo nuovo quadro andrebbe riscritta tutta la dottrina criminológica mondiale, per ora attestata sulle posizioni che dopo si vedranno. Si può fare, certo, ma solo

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sulla base di elementi di assoluta certezza. Bisognerebbe quindi procedere con gran cautela, per le responsabilità che si hanno non solo verso singole persone, gettate in pa-sto alla pubblica esecrazione ed esposte al ludibrio, oltre che per i loro miseri vizi, per accuse da ergastolo; ma anche nei confronti della storia stessa della scienza. Cantar tutti i giorni vittoria attraverso giornali e spot televisivi non giova alla serietà dell'indagine. Quella che sembra si abbia di mira è solo, a quanto può apparire, la ricerca in tutti i modi di un colpevole, finalmente scovato in una persona che non fa pena a nessuno e da non lasciarsi scappare dalle mani, anche a costo di coinvolgere altre persone, pure esse di poco conto (una di loro è segregata da mesi, e non pare che qualche familiare l'abbia richiesta); pazienza se poi si coin-volge anche un appuntato dei carabinieri andato in pensio-ne al termine di un onorevole servizio.

Quello che era o doveva esser un caso serio diviene un caso da servette. Al posto di delitti "gratuiti", caratterizzati dall'assenza di ogni movente logico e che trovano la loro tragica ed unica fonte nella perversione, si prospetta ora un movente di lucro, consistente nella rivendita dei feticci ad un mago, che se ne serviva per i suoi filtri amorosi. E que-sta ipotesi per più versi folle, tra l'altro in contrasto col rac-conto a sua volta folle dell'unica fonte d'accusa per il delit-to del 1984, che parla del sotterramento immediato dei fe-ticci, viene evidentemente diffusa dagli inquirenti e ha tro-vato al solito la sua cassa di risonanza in una stampa gene-ralmente acritica e irresponsabile, capace di innescare mec-canismi perversi di proliferazione di "conferme" e "riscon-tri", come spesso si vede. Tutto questo a pochi anni dal duemila. Ecco, dunque, "le magnifiche sorti e progressive" dell'umanità, di leopardiana memoria.

Tuttavia ipotesi simili potrebbero domani (chi ha letto la sentenza di primo grado non dovrebbe meravigliarsene)

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essere accreditate da qualche giudice: non paia strano di vedere un tribunale farsi seguace ed emulo d'una o due donnicciole; giacché, quando si è per la strada della passio-ne, è naturale che i più ciechi guidino. Non paia strano il veder uomini i quali non dovevano essere, anzi non eran certamente di quelli che vogliono il male per il male, vederli, dico, violare così apertamente ogni diritto; giacché il credere ingiustamente, è strada a ingiustamente operare, fin dove l'ingiusta persuasione possa condurre" (come questa anche le successive citazioni in corsivo sono tratte dalla Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni; le "donnic-ciole" sono quelle che dissero d'aver visto il Commissario alla Sanità Guglielmo Piazza ungere i muri per propagare la peste a Milano).

Quanto poteva pagarli il mago i feticci? Per i fornitori, poi, era un guadagno da dividersi in due, e ad un certo pun-to, con l'imprudente ed antieconomica iniziazione del novi-zio, forse addirittura in tre. "Non domandiamo al lettore se, tra l'enormità e i pericoli di un tale delitto, e l'importanza di tali guadagni... ci fosse proporzione".

Quanto ai pericoli delle diffusioni dei "media", quello che mi meraviglia è che ancora non sia venuto fuori qual-cuno a dire che 12 anni fa vide Pacciani, Vanni e Lotti a sghignazzare in un bar mentre si stavano recando a Vicchio per commettere un delitto frutto di un impulso sessuale terribile ed irrefrenabile (ma ora non si sa nemmeno que-sto, perché pare che fosse soltanto per una "buona mano de denari"). In primo grado tre o quattro testimoni almeno ravvisarono nel Pacciani l 'uomo da loro visto sei o sette anni prima in luoghi o atteggiamenti a loro giudizio sospet-ti poco dopo che la sua effige, come "mostro" sbattuto in prima pagina, era comparsa sui giornali ed in televisione. Dalla pubblicazione di un disegno con tutti i pezzi di una Beretta 22, il cosidetto "esploso", all'invio anonimo ai Ca-

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rabinieri di un'asta guidamolla riconducibile a questo tipo di arma, ma anche di altre della stessa marca, passarono venti giorni. Oggi questo lasso temporale è già abbondan-temente trascorso, ma c'è ancora la possibilità, per alcuni la speranza, di veder spuntare qualche testimone che parli dell'incontro al bar.

Ma procediamo con ordine nel raccontare i fatti. Partia-mo da quelli che hanno formato oggetto del processo e, se-guendo un ordine logico oltre che cronologico, proprio dal primo degli otto duplici omicidi, quello che certamente potrebbe costituire la chiave, mai finora trovata, per arri-vare ad aprire le porte degli altri; porte che, infatti, proprio in mancanza di questa chiave, sono rimaste finora inesora-bilmente chiuse.

La notte tra il 21 ed il 22 agosto 1968 nella campagna di Signa, ad ovest di Firenze, vennero uccisi a colpi di pistola, mentre stavano amoreggiando in un'auto, due giovani di origine sarda, Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, moglie di Stefano Mele. Nell'auto si trovava addormentato anche il figlio della Locci, Natalino Mele, di sei anni, che venne portato subito dopo il fatto da un adulto, che si scoprirà poi essere stato appunto il padre Stefano Mele, pure sardo, in una casa posta a circa tre chilometri dal luogo del delitto.

Al padron di casa, svegliato da una scampanellata verso le due di notte, il piccolo Natalino, che non lo conosceva, disse: "Aprimi la porta, perché ho sonno ed ho il babbo a letto ammalato. Dopo mi accompagni a casa perché c'è la mamma e lo zio (in realtà, il Lo Bianco, che il bambino chiamava zio) che sono morti in macchina".

Nelle successive ricerche i carabinieri trovarono i due cadaveri. Le indagini si appuntarono subito sul Mele, mari-to ripetutamente e con sua tolleranza tradito dalla Locci. Questi, dopo un'iniziale posizione negativa, finì per confes-

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sare a distanza di un paio di giorni e disse di avere sparato alla moglie, non potendone più del comportamento di co-stei, che lo tradiva, lo irrideva e negli ultimi tempi le si era costantemente negata, istigato da uno degli ex amanti della moglie medesima, tutti di origine sarda, a nome Salvatore Vinci. Era stato proprio lui, secondo le prime dichiarazioni del Mele, a fornirgli la pistola, un'arma simile, disse, alla pistola d'ordinanza dei Carabinieri, la Beretta calibro 9, dalla quale si differenziava solo (oltre che per il calibro: si accerterà poi trattarsi di una Beretta cai. 22) per la lun-ghezza della canna. Il Mele cambiò poi di volta in volta versione, sia sulla sorte dell'arma, che prima disse di aver gettato via e poi di aver restituito a chi gliela aveva procu-rata, sia sulla persona che avrebbe concorso con lui nel-l'esecuzione materiale del delitto, indicando via via altri ex amanti della moglie, Francesco Vinci, fratello di Salvatore, e Carmelo Cutrona. Tutti costoro sono stati incriminati e poi prosciolti, proprio a causa della contraddittorietà delle chiamate di correo del Mele. Quest'ultimo, invece, venne condannato con sentenza definitiva per il duplice omicidio e per calunnia in danno degli ex amanti della moglie, con concessione della diminuente della seminfermità mentale. Il Mele, infatti, è il primo dei vari personaggi affetti da quella forma di deficienza mentale congenita o acquisita detta oligofrenia, che si incontreranno poi con una certa ri-correnza nel processo.

Anche questo duplice omicidio, che risulterà commesso con la stessa Beretta cai. 22 Serie 70 usata nei successivi, e con le stesse cartucce, delle Winchester cai. 22 tipo "Long Rifle" contrassegnate sul fondello dalla lettera "H", sarà poi ascritto ventiquattro anni dopo, con qualche esitazione, al Pacciani, attraverso l'unico possibile nesso dell'identità dell'arma e delle munizioni. Niente altro poteva collegare costui, che allora abitava in Bovino, nel Mugello, località

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piuttosto distante dal luogo dell'omicidio, al delitto di Signa. L'accusa ipotizza che frequentasse quelle zone per-ché lì, dopo il proprio matrimonio, era andata a stare Miranda Bugli, sua ex fidanzata per la quale nel 1951 egli aveva commesso un delitto, uccidendo con un coltello a serramanico e con un corpo contundente il giovane che sta-va per possederla, un cenciaiolo di passaggio.

Sostiene l'accusa che il Mele, pur essendosi trovato sen-za dubbio sul posto almeno subito dopo l'omicidio, come indicavano tante circostanze, come quella d'aver portato il piccolo figlio a cavalluccio fino ad una casa dei dintorni, sarebbe però arrivato a cose fatte ed in realtà l'omicidio sarebbe già stato commesso immediatamente prima dal Pacciani. È questa l'unica maniera che si è riusciti ad esco-gitare per superare lo scoglio rappresentato dalla matrice sarda del primo delitto. Se, infatti, il delitto del 1968 fu commesso dai sardi, e se non vi è la benché minima prova di un collegamento tra i sardi e Pacciani, come si spiega che costui fosse poi entrato in possesso dell'arma con la quale commise, sempre secondo quanto sostiene l'accusa, tutti gli altri delitti? Per eliminare l'ostacolo, altrimenti insor-montabile, va dunque negata la matrice sarda e va formula-ta l'ipotesi che in realtà la pistola sia sempre stata in pos-sesso del Pacciani, e che il Mele sia stato soltanto un occa-sionale spettatore dell'omicidio da costui commesso, essen-dosi recato proprio in quel momento sul posto non tanto per uccidere la moglie, cosa che pure voleva fare, ma per recuperare un modesto peculio che essa aveva portato via da casa.

Per arrivare a tanto l'accusa deve ricorrere, a partire da questo primo episodio, a delle acrobazie tali da costituire l'apice della illogicità, una sorta di fuoco d'artificio basato sul nulla. La navigazione viene a risultare ancora più diffi-coltosa di quella che doveva farsi per superare lo scoglio

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del passaggio di mano dell'arma. Sostiene infatti l'accusa che il Mele, essendo andato per le campagne, senza tra l'al-tro avere un idoneo mezzo proprio (aveva solo la biciclet-ta), al solo o principale scopo di recuperare in quei posti sperduti la somma che poteva farsi restituire dalla moglie a casa, più comodamente e senza avere davanti il Lo Bianco, un ex pugile, trovò la moglie ed il suo amante già uccisi da persona a lui completamente sconosciuta, per un caso dav-vero unico e per lui fortunato. Che il Mele conoscesse il Pacciani nessuno lo afferma ed il Mele stesso, quando gliene fu domandato dopo che Pacciani era comparso nel processo, ha sempre negato ogni conoscenza, benché sem-mai avesse tutto l'interesse a dir cose che potessero portare alla condanna di Pacciani, per poter contare, unica residua speranza possibile per lui di fronte al giudicato, alla revisio-ne del suo processo.

Invece, e qui davvero si supera ogni limite di illogicità, si pensa che Mele abbia fatto pressappoco un ragionamento simile: "Questo sconosciuto, che mi ha fatto inconsapevol-mente il piacere d'ammazzarmi la moglie, che io stesso vo-levo uccidere per i suoi clamorosi tradimenti e per recupe-rare i miei soldi (ma la somma venne poi lasciata sul po-sto), merita che lo ricompensi e che lo copra. Nessuno sa chi sia ed i carabinieri non sono informati neppure della sua esistenza, ma è meglio che io confessi, che mi procuri una condanna e che accusi persone che, al contrario di lui, potrebbero farmi del male, quali i miei compaesani, pre-giudicati pericolosi e vendicativi". Una sorta di "veni, vidi, confessai", non per schivare un danno, ma per procurarsi quello certo della condanna e per rischiare quello della vendetta. Va bene essere oligofrenici, ma fino a questo punto?

Quanto all'unico collegamento ipotizzato tra Pacciani ed il territorio di Signa, che questi spasmodicamente cer-

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casse la Bugli e comunque l'avesse in quel periodo trovata è pura fantasia. Per l'omicidio del cenciaiolo entrambi ven-nero condannati definitivamente, il Pacciani a 18 anni e 5 mesi di reclusione e la Bugli, accusata di concorso nell'omi-cidio a titolo di istigazione per aver detto al primo, secondo la versione di costui, "ammazzalo, ammazzalo", a 10 anni. Dopo l'espiazione delle pene, i due, che si erano duramen-te scontrati durante il processo, si rifecero a modo loro una vita: la Bugli sposandosi con una persona che la portò poi a Lastra a Signa, il Pacciani sposandosi nel 1965, un anno dopo essere uscito dal carcere, con Angiolina Manni, una donna che rivelò anch'essa un grave deficit mentale. Se-condo le dichiarazioni della Bugli, e non v'è motivo di non crederle a meno di non ritenerla complice nel delitto del 1968, i due, dopo essere usciti dal carcere, si rividero una volta sola, casualmente, quando la donna stava di nuovo nel Mugello, a Rincine di Londa, nel 1969. E questa sareb-be stata per Pacciani "l'ossessione della sua vita", la donna che l'avrebbe indotto a causa "dell 'orrendo spettacolo", com'egli definì, per difendersi, la vista di lei che stava per concedersi al cenciaiolo Bonini, ad uccidere tante donne a lui sconosciute, e per giunta i loro occasionali compagni che con questa pulsione non c'entravano per nulla, giun-gendo alla fine ad escindere il loro seno sinistro, che sareb-be stato quello stesso offerto dalla Bugli al cenciaiolo?

Neanche il più labile indizio, dunque, della presenza di Pacciani in Signa. Si consideri poi che tra la località Bovino di Vicchio, dove egli all'epoca abitava, ed il luogo del delit-to vi sono 77 chilometri di strada, che presenta anche note-voli dislivelli e che comporta l'attraversamento di Firenze. Siccome a quel tempo Pacciani possedeva soltanto una Lambretta ed un ciclomotore, avendo comprato la sua pri-ma macchina soltanto l 'anno successivo, come risulta documentalmente provato, si dovrebbero calcolare un paio

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d'ore per l 'andata ed un paio per il ritorno. Ciò rende ancor più improbabili frequenti spostamenti a Signa per incontrarsi con la Bugli, la quale, va ripetuto, mai ha detto d'aver incontrato in quel luogo il Pacciani in tutto il tempo in cui ci stette; e mai nessuno ha detto, nonostante il clamo-re della vicenda, d'aver visto il Pacciani a Signa.

Passano sei anni di silenzio, finché la notte tra il 14 ed il 15 di settembre del 1974, che era anch'essa, come in tutti gli altri casi meno l'ultimo, una notte di novilunio, ossia di piena oscurità, vengono uccisi nella campagna attorno a Borgo San Lorenzo, a nord-est di Firenze, due giovani amanti, Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini. I due ven-gono colpiti da proiettili di pistola mentre si trovano in macchina, semisvestiti. La ragazza viene poi portata fuori dall'auto e colpita con novantasei colpi di coltello in tutto il corpo, ma principalmente nella zona pubica dove le ferite venivano quasi a disegnare un semicerchio attorno alla va-gina, dentro la quale era stato infilato un tralcio di vite. Questo delitto sarà poi considerato dai periti come una prova generale fatta dal maniaco, o un punto intermedio di passaggio per arrivare poi alle escissioni; forse uno stimolo in questa direzione, come uno dei possibili stimoli per la serie degli ulteriori omicidi vengono considerati la visione del delitto del 1968 ed il possesso dell'arma con la quale fu commesso. Per il resto il primo omicidio resta totalmente slegato per modalità e, soprattutto, per la spinta criminale ai successivi, nei quali, al contrario che per il primo, uno specifico movente manca del tutto, parendo indubbio che l'omicida non conoscesse neppure le sue vittime.

Passano altri sette anni. La notte del 7 giugno 1981 nella campagna di Roveta, ad ovest di Firenze, vengono uccisi a colpi di pistola altri due giovani, Giovanni Foggi e Carmela

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Di Nuccio, al solito mentre si trovavano in un'auto, intenti agli approcci amorosi. È questo il primo caso in cui venne poi escissa alla ragazza tutta la zona pubica, con una tecni-ca che i periti medico-legali indicarono allora come ecce-zionale, tanto da prospettarla come orientativa delle future indagini.

Poi vi fu un crescendo impressionante e, nel giro di cin-que anni, vi furono sei omicidi di coppie. Erano passati solo quattro mesi dall'ultimo episodio quando nella notte tra il 22 ed il 23 ottobre 1981 nella campagna di Calenzano, a nord-ovest di Firenze, furono uccisi in auto i giovani Ste-fano Baldi e Susanna Cambi, come al solito mentre si ap-prestavano ad amoreggiare e si stavano svestendo. Anche in questo caso alla donna venne praticata un'ampia escis-sione del pube.

L'anno dopo nella notte tra il 19 ed il 20 giugno 1982, nella campagna di Montespertoli, ad ovest di Firenze, ven-nero sorpresi nei preliminari amorosi Antonella Migliorini, subito uccisa, e Paolo Mainardi, che mise in atto un tentati-vo di fuga con l 'auto e che venne colpito ugualmente a morte.

Sopravvisse per qualche ora, ma senza uscire dal coma e senza poter dire nulla. L'omicida quella volta non praticò escissioni, si pensa perché costretto a dileguarsi alla svelta, dato che il Mainardi, facendo retromarcia nel tentativo di fuga, era giunto a tornare su una strada provinciale traffi-cata. Nonostante ciò, l'omicida esplose due colpi di pistola, forse gli ultimi rimastigli, contro i due fari, si impossessò delle chiavi dell'auto e le gettò via poco distante, in un ge-sto che può essere interpretato come di rabbia e di di-spetto.

Passato un altro anno, nella notte tra il 9 ed il 10 settem-bre 1983 nella campagna del Galluzzo, assai prossima a Fi-

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renze, vennero uccisi due giovani turisti tedeschi, Wilhelm Horst Meyer e Uwe Jeus Rusch, che si trovavano in un fur-gone attrezzato a camper. Si trattava di due uomini, ma il Rusch, che aveva lunghi capelli biondi, si suppone sia stato scambiato per una donna. Si suppone anche che l'omicida, accortosi dell'errore, si sia dileguato senza questa volta in-fierire col coltello sui corpi delle vittime. Nel furgone ven-nero ritrovati numerosi oggetti personali dei due giovani, tra i quali macchine fotografiche e cose varie anche di valo-re. Il tutto venne poi riconsegnato ai familiari delle vittime, senza che in questo caso venisse eseguita una perizia bali-stica. Nonostante ciò gli accertamenti permisero di stabilire che i colpi erano stati esplosi dalla stessa pistola Beretta cai. 22 ed era stato usato lo stesso munizionamento, le Whincester "Long Rifle" contrassegnate con la lettera "H".

Dopo un altro anno ancora, nella notte tra il 29 ed il 30 luglio 1984 nella campagna di Vicchio, nella stessa zona del Mugello a nord-est di Firenze dove l'omicida aveva colpito esattamente dieci anni prima, furono uccisi i giovani Clau-dio Stefanacci e Pia Gilda Rontini. Anche essi si erano appartati su un'auto, una Panda, in una stradina campestre senza uscita, verosimilmente percorsa nell'ultimo tratto a retromarcia.

Anche essi furono sorpresi, senza poter nemmeno ac-cennare a movimenti di difesa, come accerterà la perizia necroscopica, mentre erano semisvestiti. La ragazza, subito colpita alla testa con un colpo di pistola, che le provocò immediatamente uno stato di profondissima incoscienza, fu dopo colpita con due pugnalate al collo quando stava morendo e la circolazione sanguigna si stava spegnendo. Era già morta quando venne trascinata per alcuni metri in un campo e lì le vennero praticate le escissioni del pube e, per la prima volta, del seno sinistro.

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Passato ancora un altro anno, nella notte tra l'8 ed il 9 settembre (ma si ipotizza anche un'alternativa con quella tra il 7 e l'8 settembre), in una piazzola sterrata adiacente alla Via degli Scopeti, vicino a San Casciano Val di Pesa a sud-ovest di Firenze, vennero uccisi due giovani turisti francesi, Jean Kraveichvili e Nadine Mauriot. Essi si erano accampati in quella zona, forse da qualche giorno, con una tenda di tipo canadese, dietro la quale, verso un bosco che fiancheggiava la strada, si trovava la loro auto, una Wolkswagen Golf bianca. Anche in questo caso vennero poi praticate sulla giovane donna le escissioni del pube e della mammella sinistra. Il suo cadavere venne rinvenuto nella tenda. Il cadavere dell'uomo venne invece rinvenuto ad una quindicina di metri da essa, verso il bosco. L'omici-da, esaurite ormai le cartucce della pistola, inseguì a piedi il giovane con l'arma bianca e con essa, raggiuntolo, lo finì. Questo è rimasto l'ultimo episodio della serie. Due giorni dopo pervenne alla dottoressa Della Monica, unico sostitu-to di sesso femminile della Procura di Firenze che si era occupato del caso, una missiva impostata la notte o la mat-tina del 9 settembre nel Mugello, a notevole distanza, quin-di, dal luogo dell'omicidio, il cui unico contenuto era costi-tuito da un lembo del seno della Mauriot.

Tutte le indagini dirette all'identificazione dell'omicida non avevano dato alcun esito. Ben sei persone, indicate via via come "il Mostro di Firenze" erano state prosciolte in istruttoria, spesso perché la prova della loro innocenza era data dal proseguire dei delitti quando erano detenute.

Ad un certo punto della serie degli omicidi perizie balistiche comparative, anche per merito della memoria e dell'intuito di un sottufficiale dei Carabinieri che aveva partecipato alle indagini per il delitto del 1968 e se ne era ricordato, permisero di stabilire, con un grado di certezza

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che nessuno metterà più in dubbio, che l'arma ed il munizionamento usati per tutti gli omicidi erano gli stessi: una pistola Beretta cai. 22 della serie 70 e cartucce Winchester Long Rifle con impressa sul fondello la lettera "H", facenti parte di uno o due lotti prodotti e messi in commercio poco prima dell'omicidio iniziale del 1968.

Anche le perizie medico-legali portarono a stabilire che unica era la mano che aveva praticato le escissioni e che il "modus operandi" dell'omicida era sempre stato lo stesso, a parte le discrepanze relative al movente per l'omicidio del 1968. Avvicinandosi furtivamente alle auto in cui una coppietta si trovava nella fase preliminare degli atti amoro-si, spesso durante la svestizione, l'assassino esplodeva in successione rapidissima numerosi colpi d'arma da fuoco in-dirizzati in primo luogo sull'uomo, e neutralizzate così le vittime faceva uso di un'arma bianca per assicurarsi della loro morte e per infierire su di esse, principalmente quella di sesso femminile sulla quale da un certo punto in poi ini-ziò con lo stesso tagliente a praticare delle escissioni, dap-prima sul solo pube e, a partire dal 1984, anche sulla mam-mella sinistra.

Accertato che si trattava di un unico individuo, eviden-temente un maniaco sessuale, la Procura della Repubblica di Firenze prese la lodevole iniziativa di disporre una peri-zia criminológica, per veder di capire di quale soggetto po-tesse trattarsi, soprattutto a scopi preventivi e di indirizzo delle indagini, più che a fini probatori. La perizia venne af-fidata dopo l'omicidio Rontini-Stefanacci a noti crimi-nologi dell'Università di Modena, capitanati dal Prof. Francesco De Fazio, direttore dell'Istituto di Medicina Le-gale di Modena. Dopo che i periti avevano depositato la loro prima relazione, se ne rese necessaria un'altra per l'episodio successivo.

Si viene a sapere anzitutto dalle perizie, sotto questo

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aspetto da considerarsi come fonte di conoscenze scientifi-che, che casi come quello di cui si tratta non si erano mai verificati in tutta la storia della criminologia. C'erano stati nel mondo germanico ed anglosassone, mai in quello lati-no, dei casi di "lust-morders", ma non di assassini dediti all'uccisione notturna di coppie sorprese in macchina nei preliminari amorosi, prima della consumazione dell'atto sessuale, quasi che l'omicida volesse impedirlo. Si è ipo-tizzata perfino una qualche mania moralistica, che portava ad interrompere bruscamente il compimento di un atto for-se considerato come immondo.

Il "lust-mord" è un omicidio a fine di libidine, tanto noto nella letteratura scientifica e nel diritto germanici da dar luogo ad una particolare figura di reato, nel quale l'omicida arriva alla soddisfazione sessuale proprio in se-guito alla morte della vittima, in sé considerata, o provan-do il piacere nel contatto diretto con la vittima agonizzan-te, o col sangue che ne sgorga. Nel nostro caso, invece, l'omicida sembrava perfino evitare ogni contatto fisico di-retto con la donna, per la quale sembrava mostrare odio e perfino ribrezzo, tanto da usare il tagliente, e non le mani, per liberare dagli indumenti le parti erotizzanti che voleva asportare.

Niente a che vedere, poi, con un "voyeur", un "guar-done" puro, il quale al contrario trova la sua soddisfazione sessuale proprio nell'assistere passivamente ad atti sessuali altrui. Un soggetto del genere, infatti, si guarderebbe bene dall'interrompere proprio la scena che gli provoca il culmi-ne del godimento. Forse, in origine, l'omicida che si cerca poteva essere stato un guardone, ma non più dal 1974, quando i suoi impulsi si erano chiariti e slatentizzati con l'uccisione selvaggia della Pettini, né tanto meno dal 1981, quanto erano iniziate le pratiche di escissione. Da allora eventuali attività di osservazione delle coppie sarebbero

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state finalizzate non più al diretto soddisfacimento del pro-prio piacere di "voyeur", ma alla ricerca delle vittime in vista di un ben più complesso e torbido piacere. Si trattava, in sostanza, di un sado-feticista, ossia di un composito tra sadismo e feticismo, intendendosi per "sadismo" la ricerca del piacere sessuale nella sofferenza delle vittime, determi-nata con maltrattamenti, umiliazioni, lesioni, fino a giunge-re nei casi estremi all'uccisione; e per "feticismo" la ricerca del piacere nel possesso e nella manipolazione di oggetti o parti del corpo appartenenti alla persona verso la quale si dirige la libidine. Attardarsi, quindi, a ricercare l'omicida in un guardone non ha senso, sotto il profilo scientifico, come del resto riconobbe al dibattimento lo stesso inquisi-tore dott. Perugini, di cui si dirà.

Attardarsi, poi, a ricercare indizi dalle escissioni del seno sinistro, con riferimento all'omicidio del cenciaiolo, perché sarebbe stato proprio quello che la Bugli avrebbe scoperto nell'offrirsi all'occasionale amante, ha meno sen-so ancora. Si è già detto che è mera fantasticheria, non sor-retta da un minimo di consistenza probatoria, affermare che la Bugli fosse rimasta la donna del destino di Pacciani, l'ossessione della sua vita. Basterà aggiungere che non ap-pare possibile secondo le cognizioni comuni (i periti di Modena non furono interpellati in proposito, perché tutto questo venne fuori molto dopo il loro intervento, ma non ci vuol molto a capirlo neppure a un profano) che questo im-pulso sia uscito dallo stato di latenza a distanza di trentatre anni dal fatto scatenante e dopo che erano già iniziate da tre anni le escissioni della zona pubica. Infatti, la prima escissione del seno si verificò nel 1984. E basterà poi una considerazione del più comune buon senso: l'omicida, a parere di tutti i medici legali, era destrimane. Gli riusciva quindi più naturale, trovando la donna davanti a sé in posi-zione supina, escindere il seno sinistro anziché il destro.

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Che bisogno c'è allora, se non per creare suggestioni, di ri-correre ad infidi argomenti di tipo psicanalitico?

D'altra parte, dicono i periti di Modena, le escissioni sia del pube che del seno non erano strettamente dirette al piacere sessuale, ma erano funzionali al possesso degli og-getti feticistici, quegli stessi oggetti che un teste, come al solito suggestionato dalla propagazione dei "media", aveva detto alla polizia di aver visto stesi al sole, come panni, nel-l'orto del Pacciani. Non certo l'inverosimiglianza, della quale gli inquirenti non si curano, ma soltanto il fatto che i feticci sarebbero stati visti in epoca anteriore all'inizio dei prelievi di essi ha impedito che questo, che altrimenti sa-rebbe stato definito dalla stampa come uno dei tanti "supertesti" (i semplici testi sembra non esistano più), sia stato portato davanti alla Corte.

Concludono poi i periti di Modena che l'omicida era un soggetto di sesso maschile, che agiva da solo per l'assoluta straordinarietà delle sue pulsioni (ed anche perché in un paio di casi, quelli del 1982 e del 1985, essendo sorte delle difficoltà per la fuga delle vittime di sesso maschile, un complice sarebbe materialmente intervenuto per aiutare ad impedire quelle fughe), con una destrezza semi-profes-sionale nell'uso dell'arma da taglio ed una conoscenza quanto meno dilettantistica dell'uso dell'arma da fuoco. Probabilmente, poi, si trattava di soggetto iposessuale, con forti difficoltà ad avere un rapporto eterosessuale normale e con accentuate inibizioni al coito, comunque raramente in grado di avere normali rapporti sessuali. Il soggetto, infi-ne, non sceglieva preventivamente quelle determinate vit-time, che neppure conosceva, ma era attratto da una deter-minata situazione, appunto quella delle coppiette ap-partate, e quindi i delitti avevano un che di casuale, sotto questo profilo.

La Procura della Repubblica di Firenze chiese anche un

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parere alla F.B.I., che si avvalse della "Unità Investigativa Comportamentale Forense" ad essa collegata. Anche se-condo questa fonte, il "serial killer" non conosceva le vitti-me, che erano perciò da considerarsi "vittime per caso", aveva come obiettivo primario le donne, per una sua inade-guatezza sessuale e per astio verso di loro, cercava nei fe-ticci dei "souvenirs" che l'aiutassero a rivivere l'evento per un periodo il più lungo possibile, aveva avuto pochi contat-ti sessuali con donne della sua età, con le quali non era in grado di sostenere relazioni di successo.

Si tratta senza dubbio di mere ipotesi basate, nel caso dei periti di Modena, soprattutto su nozioni scientifiche e, nel caso dell'F.B.I., su dati attinti dall'esperienza investiga-tiva, ma si può dire fin d'ora che i soggetti come sopra de-scritti ben poco in comune hanno con la figura di Pacciani, dotato di una sessualità animalesca, ma non certo carente, che bene o male si è sposato, ha avuto una relazione più o meno fissa con una donna della sua età, la Sperduto, ha frequentato a quanto sembra prostitute, era talmente por-tato al coito da non avere remore a praticarlo con la Bugli accanto al cadavere dell'uomo da lui ucciso poco prima e da praticarlo con le due figlie fin dalla loro adolescenza, e così via. I rapporti violenti ed incestuosi con le figlie, so-stiene l'accusa, sono un segno di iposessualità e rendono compatibile la figura di Pacciani con quella delineata dai periti di Modena e dall'F.B.I.; ma si tratta di un fuor d'opera, perché Pacciani non praticava il sesso solo con le figlie, le quali erano uno sfogo ulteriore della sua sfrenata e bestiale libidine, non l'unico sbocco psicologicamente debole di essa.

Ciò che appare di maggior rilievo nella relazione dell'F.B.I., per quanto poi ha determinato, è la notazione che il "mostro", in contrasto con una verosimile presenza

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di pulsioni irresistibili, aveva avuto dei lunghi periodi di inattività, tra il 1968 ed il 1974, e fra il 1974 ed il 1981. Si poteva quindi pensare che in tali periodi egli si fosse trasfe-rito altrove, o fosse stato in qualche clinica per malattie mentali, o anche in prigione, o ipotesi similari. Dev'esser questa notazione che ha costituito per il Vice-Questore Perugini, capo della neo-costituita Squadra Anti Mostro, lo spunto per un'indagine col computer, uno "screening", come oggi usa dirsi, ossia, detto in italiano, un vaglio, o una scrematura (se si vuol mantenere una certa assonanza fo-netica).

Purtroppo questa indagine, mal impostata e soprattutto mal interpretata, ha condotto a risultati esiziali. Prima di tutto l'indagine è stata ridotta alle persone che erano in carcere, trascurando tutte le ipotesi alternative suggerite dalla stessa nota dell'F.B.I., oltre che dal solito buon sen-so. Si ricercavano le persone comprese tra i 30 ed i 60 anni, tuttora detenute al momento del vaglio nel 1989 (e chissà perché, se ci si basava sulla constatazione che il "mostro" non aveva più colpito dal settembre 1985; ben poteva essere già stato scarcerato, o dimesso da una casa di cura, nel 1988, ad esempio, e non aver ancora colpito di nuovo), le quali fossero state arrestate immediatamente dopo l'ultimo episodio criminoso e fossero state in libertà da una settimana prima ad una settimana dopo gli omici-di. Vien fuori il nome di Pacciani, sebbene costui al mo-mento del vaglio avesse già compiuto 64 anni e fosse stato arrestato non immediatamente, ma oltre un anno e mezzo dopo l'omicidio del 1985. Quindi, e lo si dice non per por-tare elementi a favore dell'imputato, ma per sottolineare la casualità del dato, a rigore, secondo gli stessi criteri scelti dagli investigatori, il nome di Pacciani non avrebbe neppure dovuto esser compreso nell'elenco. In esso erano inclusi altri 60 nominativi, ridotti poi a 26, sul conto dei

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quali non si sa neppure quali indagini siano state svolte (si doveva indagare su di loro con la stessa intensità che sul Pacciani).

Ogni volta che il Pacciani era libero, insinua l'accusa, ve-nivano commessi gli omicidi, mentre essi non si verificava-no quando Pacciani era detenuto. In realtà l'imputato è stato libero ininterrottamente dal 4 luglio 1964 al 30 mag-gio 1987, come centinaia di migliaia di persone che sono vissute in quello stesso periodo nella provincia di Firenze, anche a voler escludere che l'omicida venisse da province o addirittura da regioni limitrofe. Che indizio è, o anche sol-tanto che base d'indagine è? Non si risolve poi il problema più pregnante che aveva dato spunto alla notazione dell'F.B.I., ossia quello dei larghi vuoti tra il 1968 ed il 1974 e tra il 1974 ed il 1981. E successivamente anche quello tra il settembre 1985, data dell'ultimo omicidio, ed il 30 mag-gio 1987, data dell'arresto per la violenza alle figlie. Quin-di, Pacciani fu ininterrottamente in stato di libertà per quattro anni prima che iniziasse la serie degli omicidi e per oltre un anno e mezzo dopo la fine di essa. Se l'imputato fosse stato dentro anche nei periodi di latenza, allora sì che la cosa avrebbe potuto avere un significato; ma Pacciani era fuori e senza impedimento alcuno.

Un altro vaglio computerizzato era stato fatto, sempre sul presupposto che l'omicida non aveva più colpito dal settembre 1985, tra le persone che subito dopo quest'ulti-mo delitto avevano avuto motivo di "sentirsi il fiato degli inquirenti addosso", il che avrebbe potuto indurle a desi-stere dalla serie dei crimini. Anche qui, tra altri 82 nomi-nativi, era venuto fuori il nome del Pacciani, e su costui si indagò, mentre anche qui non si sa che fine abbiano fatto le indagini eventualmente svolte sugli altri. Pure in questo caso, tuttavia, l'estrazione del nome del Pacciani fu del tut-to casuale, perché egli era venuto a trovarsi nella lista sol

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perché a seguito di una lettera anonima (identificatone re-centemente l'autore, è risultato confermato che, come già appariva dalla lettera, egli non sapeva proprio nulla dei fatti) una diecina di giorni dopo l'omicidio dei due francesi l'imputato subì una perquisizione ed un blando interroga-torio, di cui si parlerà in seguito. Sarebbe bastato ciò per frenare un impulso irresistibile ad uccidere le coppie?

Si indagò particolarmente su Pacciani perché egli figura-va in entrambi gli elenchi? Ma si è visto che questi elenchi non valevano niente sul piano indiziarne ed investigativo. Allora ci si trova di fronte non ad una seria base d'indagi-ne, ma ad un ambo. Eppure è proprio su questa base inesi-stente che iniziarono le indagini su Pacciani, dapprima as-sai timidamente, eppoi, quando ci si accorse che egli aveva precedenti per omicidio e per violenza carnale sulle figlie, del tutto neutri tuttavia rispetto ai delitti del "mostro", sempre più pressantemente.

Pacciani venne sentito dal Perugini molto a lungo su cir-costanze relative agli omicidi quando era ancora in carcere, il 27 ottobre 1990. Il giorno 11 giugno 1990 gli era stata no-tificata una informazione di garanzia sul possesso di armi, chiaro paravento per coprire e rendere possibili le vere in-dagini che si volevano svolgere, quelle sugli omicidi. Solo dopo un altro anno e mezzo, il 29 ottobre 1991, gli venne notificata una seconda informazione di garanzia relativa questa volta proprio agli omicidi. Si credeva tanto nell'ac-cusa che si lasciò che Pacciani venisse scarcerato per fine pena il 6 dicembre 1991, salvo a riprendere subito dopo le serie di perquisizioni, che aveva avuto inizio, nella cella, nelle case e nella sua auto, quando era detenuto. Si arrivò infine alla cosidetta "maxiperquisizione", che ebbe inizio il 22 aprile 1992 e nel corso della quale vennero messe sotto-sopra le due case di Pacciani in Mercatale e le loro adiacenze, tanto che il terreno dell'orto venne smosso per

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una profondità di una sessantina di centimetri e accurata-mente vagliato, in senso letterale. Il 29 di quel mese venne rinvenuta, interrata nel foro di un paletto per vigna, la fa-mosa cartuccia. Il 25 maggio 1992 pervenne, accompagnata da una lettera anonima, un'asta guidamolla di una pistola. Si credeva tanto al valore di questi indizi che solo il 13 gen-naio 1993 venne emessa contro Pacciani, nel frattempo tranquillamente scarcerato, un'ordinanza di custodia cau-telare in carcere, per tutti i duplici omicidi, escluso ancora, però, quello del 1968. Il 2 giugno 1993, in un'ennesima per-quisizione venne sequestrato in casa Pacciani un blocco da disegno di marca tedesca.

Ancora nell'esposizione introduttiva nel primo grado del processo il pubblico ministero si dimostrava possibilista e si dichiarava in attesa degli sviluppi dibattimentali; segno che non riteneva tranquillizzanti per l'accusa i risultati fino a quel momento acquisiti. Eppure, c'erano già la cartuccia ed il blocco per gli schizzi, in definitiva rimasti anche dopo il dibattimento gli unici elementi probatori di una certa se-rietà.

La montagna delle perquisizioni, in cui la terra e le case di Pacciani erano state rivoltate in lungo e in largo, con l'uso anche dei più sofisticati mezzi di ricerca per scoprire nicchie occulte nei muri, e così via, ha partorito in realtà solo due topolini, anche se all'apparenza posson sembrare due macigni: il blocco degli schizzi e la cartuccia.

Il blocco era un album da disegno di produzione tede-sca, un "block notes" delle misure di cm. 17x24. Sostiene l'accusa (con questa espressione ci si riferisce sempre al pubblico ministero di primo grado, non a quello di secondo grado) che esso fosse appartenuto ad uno dei giovani tede-schi, Horst Meyer, che aveva frequentato una scuola di di-segno e grafica ad Osnabruck, una città universitaria tede-

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sca di circa 160.000 abitanti, e che si era diplomato pochi mesi prima d'essere ucciso. Si suppone anche, e si recepisce nella sentenza di primo grado, che l'omicida lo avesse pre-so dal furgone nel quale i due giovani tedeschi vennero uccisi, subito dopo il delitto (ottobre 1983). Questa sarebbe la prova che inchioda Pacciani per quello specifico duplice omicidio, perché il blocco venne rinvenuto nella sua abita-zione durante la perquisizione del 2 giugno 1993, dieci anni dopo il fatto.

Secondo le travagliate e inizialmente contrastanti con-clusioni dei periti calligrafi, eseguite su alcuni numeri scritti a matita e assai stinti che si trovavano sul retro di esso, il blocco sarebbe stato acquistato nel grande magazzino Prelle-Shop di Osnabruk, dove appunto il Meyer aveva studiato. Ecco la prova che il blocco apparteneva ai tede-schi e che fu preso dal loro furgone, sostiene l'accusa, forse anche perché l'omicida, resosi conto di non poter praticare le escissioni su organi femminili per essere un uomo anche quello dei giovani che aveva preso per la lunghezza di ca-pelli per una donna, non voleva andarsene a mani vuote. Comunque, dice ancora l'accusa, anche se su elementi assai vaghi e non ritenuti validi dai periti di Modena, l'omicida era solito impossessarsi di oggetti e valori appartenenti alle vittime.

L'assunto appare di per sé ben poco credibile: l'omicida che si trattiene sul posto, "come se - osserva ancora il Manzoni - fosse usanza de' malfattori trattenersi più del bi-sogno nel luogo del delitto", per prendere un blocchetto da disegno da quattro soldi, e forse un portasapone usato an-cora più vile e comunissimi lapis da disegno, lascia lì gli oggetti di maggior valore, quali autoradio, macchine foto-grafiche con costosi obbiettivi, danaro liquido, eccetera. La sorella del Meyer, non certo sospettabile di compiacenza verso l'imputato, ci dice poi che il fratello quando viaggia-

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va non portava d'abitudine materiale da disegnare, ma pre-feriva fare fotografie.

Le perplessità che già deriverebbero da queste osserva-zioni sono fugate dai rilievi che seguono, ma in senso del tutto favorevole all'imputato. Risulta infatti per certo in base a prove documentali (fatture dell'epoca, e relativi chiarimenti del proprietario del negozio, su cui non sorgo-no dubbi) che il prezzo di 4,60 marchi tedeschi annotato sul retro dell'album da una delle commesse del negozio si adattava ai prezzi praticati nel 1980-81, perché nel periodo del delitto il prezzo era già salito a 5,90 marchi. Era quindi assai improbabile che il blocco fosse stato comprato dal Meyer, perché l'acquisto risaliva a due o tre anni prima dell'omicidio e risultavano tra l'altro utilizzati pochi fogli, in rapporto all'attività grafica di uno studente di disegno. Per l'appunto, poi, il blocco contiene annotazioni di pugno del Pacciani su fatti riscontrati come verosimili, ed alcuni rigorosamente provati come veri, che recano le date del 1980 e del 1981, proprio quelle in cui i fatti effettivamente si svolsero, nonostante la difficoltà della ricostruzione probatoria a distanza di 12 anni. Se, dunque, come si deve ritenere per la concordanza delle date desumibili dal prez-zo e dalle annotazioni del Pacciani, il blocco era già in pos-sesso di costui da due o tre anni prima dell'omicidio dei tedeschi, appare evidente che non potè esser preso dall'as-sassino in occasione dell'omicidio medesimo.

Sostiene allora l'accusa che le annotazioni il Pacciani evidentemente le mise dopo, sulla base di alcune annota-zioni su fatti di quasi dieci anni prima, che conservava chis-sà per quale motivo ancora allo stato di appunti volanti, perché si era reso conto che il blocco era stato notato dagli inquirenti in qualcuna delle varie precedenti perquisizioni. Se non l'avevano sequestrato subito, era segno che gli sta-vano preparando qualche trucco. Allora, sostiene l'accusa,

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anziché distruggere l'album, che sarebbe stato troppo peri-coloso (più che il farlo trovare?), ricorse al controtrucco di apporvi delle annotazioni retrodatate ad epoca anteriore al delitto, e coincidenti con quella del prezzo all'epoca del blocco (che egli non poteva certo conoscere). Penso che basti evidenziare questi argomenti perché chi legge senza prevenzione si renda conto della mania colpevolista che li ispira.

Veniamo alla cartuccia. Si trattava effettivamente di una cartuccia Winchester Long Rifle cai. 22, inesplosa e disassata in conseguenza, a quanto può ritenersi, di un pre-cedente inceppamento. Essa venne rinvenuta interrata nel foro di un paletto da vigna, che Pacciani aveva steso insie-me ad altri simili per terra, come a delineare dei sentieri interni dell'orto, mentre lo stava sistemando prima di esse-re arrestato per il fatto delle figlie. La cartuccia venne rin-venuta nel paletto, che si era spezzato proprio in corrispon-denza di quel foro durante la perquisizione.

La scorse il Dott. Perugini, verso le 17,45 del piovoso pomeriggio del 29 aprile 1992. Dice Perugini che vide ad un certo punto uno "scintillio" provenire dal foro nel quale la cartuccia era completamente "imbozzolata" dalla terra. Essa venne poi sottoposta ad un esame dalla Polizia Scien-tifica ed a due perizie, una chimica per stabilire l'epoca dell'interramento, ed una balistica, per stabilire quali fos-sero la natura e l'origine del dissestamento e delle piccole tracce riscontrate su di essa.

Sgombriamo pure il campo dalle insinuazioni della dife-sa sulle modalità, per vero un po' strane, del rinvenimento, ed escludiamo pure ogni dubbio sull'esistenza di una "fro-de processuale", non provata, da parte della polizia (la pre-sunzione d'innocenza deve pur giocare anche a favore di essa). Resta, però, che la perizia chimica porta ad escludere

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che la cartuccia sia stata interrata quando Pacciani era libe-ro, e che sia stato lui a nasconderla (ma a che prò, se era ormai inutilizzabile?) o a perderla nell'orto (in una mano-vra di scarrellamento in una corte sulla quale affacciavano altre case, che anche il certo non benevolo giudice di primo grado esclude). Dunque, il perito chimico ha trovato nella letteratura in materia che la perdita di zinco nell'ottone determinata dall'interramento in un terreno qualsiasi (fe-nomeno espresso dalla impronunciabile parola "dezincifi-cazione") arrivava ad un certo valore nel termine massimo di cinque anni. Siccome il valore della perdita di zinco da lui riscontrata sulla cartuccia era dieci volte meno del valo-re indicato in letteratura, il perito ne trae la conclusione, per la verità piuttosto semplicistica, ma almeno in questi termini certa, che la cartuccia da lui presa in esame in nes-sun modo poteva essere stata interrata per più di cinque anni. Sembra un po' come se ad un medico legale venisse chiesto che età potesse avere l 'uomo del quale gli viene sottoposto il cadavere e che, sul rilievo che la vita umana, che consti, non può superare i 110 anni, dica che al massi-mo quell'uomo poteva averne 110, nonostante l'aspetto giovanile.

Ma per quel che ci serve il dato dell'interramento massi-mo basta. Anche a partire per il calcolo a ritroso dei cinque anni dalla data del ritrovamento, benché poi il perito abbia preso in esame la cartuccia qualche mese dopo (ma mettia-mo pure che il fenomeno di perdita di zinco fosse cessato col dissotterramento), si arriva come termine massimo al 29 aprile 1987. Pacciani venne arrestato per la questione delle figlie il 30 maggio di quell'anno, sicché, l'accusa so-stiene, aveva avuto circa un mese per far finire nell'orto la cartuccia, non in una poco credibile manovra di scar-rellamento, ma forse perdendola da qualche abito in cui l'aveva riposta. Il termine di cinque anni è però, s'è detto,

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proprio quello massimo in via teorica. Anche se non si può ottenere il termine effettivo per extrapolazione, data l'aleatorietà dei tempi di perdita dello zinco, andare a prendere in considerazione quel mese a disposizione prima del tempo massimo di cinque anni appare azzardato, per-ché si tratta di un termine al di là del quale proprio non si può andare in alcun modo. E quindi ragionevole credere, anche come calcolo di probabilità in rapporto ai due tempi, che la cartuccia sia stata interrata nettamente prima dei cinque anni, ossia quando Pacciani era in carcere. Non ap-pare invece per niente ragionevole ipotizzare, come fa il giudice di primo grado, che, anche se ciò fosse, la cartuccia potrebbe essere stata perduta dalla moglie, mentre stava tenendo in ordine i panni del marito detenuto, o da qual-che fantomatico complice.

Resterebbero i pochi mesi dopo la scarcerazione, tra il 6 dicembre 1991 ed il 29 aprile 1992. Lasciamo stare il calco-lo delle probabilità e lasciamo stare se il fenomeno di per-dita di zinco riscontrato potesse o meno essersi verificato nel giro di pochi mesi (il perito sul punto del minimo di interramento non ha inteso rispondere), sta di fatto che in quel periodo Pacciani era sottoposto a vigilanza continua, in casa e fuori, ed appare del tutto inverosimile che egli possa aver perso o sotterrato nell'orto in quel periodo una cartuccia che fino ad allora doveva aver conservato da qualche parte, benché ormai inutile per il disassamento, e che nessuno aveva trovato nonostante le puntigliose per-quisizioni.

Ragionamenti analoghi possono farsi per l'asta gui-damolla, inviata il 25 maggio 1992, un mese dopo il pub-blicizzato ritrovamento della cartuccia. Secondo la missiva anonima che l'accompagnava, l'asta, avvolta in pezzi di un lenzuolo regalato alle figlie durante la detenzione di Pacciani, era stata trovata in un boschetto nella campagna

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attorno a Mercatale, dove abitava allora la famiglia. Ma nessuno aveva visto l 'imputato disfarsi dell'asta guida-molla, che è uno dei più piccoli dei 53 pezzi che compongo-no una Beretta. Se smembrata a tal punto, ossia in ognuno dei suoi più piccoli pezzi (i cui disegni erano stati pubblicati su un giornale 20 giorni prima), il Pacciani avrebbe dovuto girare tutti i boschi della zona, ma i ben appostati poliziotti non lo notarono. E il fatto, posto che il piccolo pezzo era avvolto in un cencio che in casa prima dell'arresto del 1987 non c'era, perché regalato alle figlie durante la detenzione, non poteva che essere avvenuto dopo che Pacciani era sta-to scarcerato. C'è da aggiungere che questi avrebbe dovuto porsi in grado di recuperare poi tutti e 53 i pezzetti per ricomporre l'arma, predisponendo una qualche mappa o una qualche traccia per ritrovarli, come una specie di Pollicino.

Quanto alla perizia balistica, senza scendere a dettagli tecnici che appesantirebbero troppo il discorso, basterà dire che non si è potuta raggiungere attraverso di essa la prova dell'incameramento della cartuccia nella pistola usa-ta per gli omicidi. Un simile accertamento sì che sarebbe stato un macigno; ma ad esso non si è pervenuti, né si può pervenire allo stato attuale delle cognizioni in materia. Nella cartuccia rinvenuta manca la contestuale presenza dei tre segni distintivi fondamentali, quelli del percussore, dell'estrattore e dell'espulsore. Sono questi tre segni, tutti insieme e correlati tra loro (se ne manca uno già si resta nella mera probabilità) a dare la certezza che il bossolo repertato provenga da una certa arma, dalla quale è stato espulso dopo la percussione che ha provocato lo sparo. Proprio la coincidenza di questi tre segni sui bossoli trovati "in loco" dopo gli omicidi ha permesso ai vari periti di giungere alla concorde conclusione che i colpi fossero stati

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esplosi dalla stessa arma. Che si trattasse poi di una pistola i periti lo ricavano non dalle tracce, ma da considerazioni logiche che esulano dagli accertamenti balistici e che essi prendono come presupposti ricavati dalle indagini. Non si può infatti pensare che l'omicida si servisse di un fucile o di una carabina, in quelle circostanze di tempo e luogo. I periti affermano poi che dalle impronte sui bossoli non si può neppure stabilire se si trattasse di pistola a canna lun-ga o a canna corta, o addirittura se si trattasse di una cara-bina, il che conferma che la prima e unica fonte sulla lun-ghezza della canna della pistola in questione va ricercata nel Mele.

A parte le conseguenze dell'inceppamento, sulla cartuc-cia trovata nell'orto di Pacciani sono rilevabili solo piccole tracce di un precedente incameramento, lasciate sul bosso-lo. Principalmente, una traccia lenticolare nei pressi del collarino, in un punto solitamente intaccato dall'estrattore, ed alcune microstrie. Cosa sono queste benedette micro-strie? Nient'altro che delle minuscole incisioni provocate sul bossolo dallo strisciamento sulle parti metalliche del-l'arma, nella fase dell'introduzione della cartuccia in can-na. In parole povere, dei piccoli graffi. Siccome la trancia che taglia e forma i pezzi della pistola, in questo caso il car-rello otturatore, lascia delle piccole bavature, c'è poi un operaio che con un colpo di lima le toglie; questa operazio-ne produce la caratteristica del pezzo e la conseguente ca-ratteristica della microstria. Già da questo si vede come la traccia non possa che determinare risultati aleatori, assai vaghi e non probanti, ossia che nessuna indagine balistica in proposito può approdare a certezze. I periti hanno infat-ti concluso che i dati raccolti non erano sufficienti per for-mulare un giudizio di certezza in ordine alla provenienza degli elementi di colpo dalla medesima arma usata per gli omicidi, anche se la buona coincidenza di alcuni fasci di

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microstrie, nella comparazione con quelle sui bossoli spa-rati, "non consente di escludere questa possibilità". Non consente di escludere la possibilità, il che rappresenta un niente assoluto sul piano probatorio. Gli sforzi dell'esten-sore della sentenza di primo grado per dar corpo almeno alla solita "quasi certezza" non possono condurre oltre il parere espresso dagli esperti, che altrimenti è inutile con-sultare.

Nella letteratura mondiale non si trova un solo caso in cui sia stata affermata la corrispondenza tra bossolo spara-to e cartuccia inesplosa sulla sola base delle microstrie. Gli americani sono maestri in materia, ma sono giunti ad affer-mare l'identità dell'arma nella comparazione tra bossolo esploso e cartuccia in soli due casi: in un caso citato dal Mathews, massima autorità in questo campo, e nel caso dell'omicidio del Presidente Kennedy; ma in entrambi i casi la comparazione è stata fatta non sulla sola base delle microstrie, sibbene anche su quella di una delle tre impron-te primarie, lasciata dall'estrattore, e si era in possesso del-l'arma sospetta (un fucile) da utilizzarsi per eseguire prove comparative.

Nel nostro caso, invece, si hanno soltanto delle micro-strie, e se un'impronta di estrattore c'è questa esclude l'incameramento della cartuccia nell'arma del "mostro". Sull'impronta attribuibile ad un estrattore la difesa ha fatto una propria battaglia, per richiedere anche in secondo gra-do una nuova perizia balistica, appunto allo scopo di dimo-strare che l'impronta trovata alla base del bossolo, vicino al collarino, era proprio un'impronta di estrattore, e che, quindi, essendo certo che essa non era stata lasciata dalla pistola usata per gli omicidi, ogni prova contro Pacciani al riguardo veniva meno in radice. Si tratta di un'impronta lenticolare rinvenuta in un punto del bossolo solitamente interessato dall'unghiata dell'estrattore nel momento in cui

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la cartuccia viene allogata in canna, nella camera da scop-pio.

Dicono i periti: siccome nel caso esaminato l'impronta è larga almeno il doppio di quelle lasciate sui bossoli dall'ar-ma omicida, se ne deve concludere che non è un'impronta d'estrattore di una Beretta, ma che ha una diversa origine. La difesa nota l'evidente illogicità del ragionamento, frutto di una petizione di principio: si parte, infatti, come dato presupposto proprio dal dato che si dovrebbe accertare, ossia l'incameramento della cartuccia nella Beretta cai. 22 usata dal "mostro". No, dice giustamente la difesa, tu mi devi dire qual'è l'origine dell'impronta e da lì partire per dedurne le conclusioni che ti son chieste, ossia se quella cartuccia possa essere stata incamerata in quell'arma; non il contrario. Se, aggiunge, tu avessi fatto le comparazioni non solo tra le varie Beretta, ma tra le decine e decine di armi dello stesso calibro e marca diversa in produzione nel mondo, avresti visto che si trattava dell'estrattore di un al-tro tipo di arma. E allora avresti raggiunto la prova che il rinvenimento di quella cartuccia non diceva assolutamente nulla contro Pacciani, anzi era una chiara prova a suo favo-re, definitiva sul punto.

È sulla base di questa impostazione che la difesa ha insi-stito nella richiesta di rinnovazione della perizia, mezzo di difesa, dunque, e non di rafforzamento dell'accusa, alla cui ammissione il Procuratore Generale d'udienza non si è opposto, prospettando in aggiunta un'estensione dell'ac-certamento alle microstrie, che peraltro, come si è visto, non poteva portare da nessuna parte in termini di prova a carico. E siccome la ricerca di una prova a discarico appari-va inutile, posto che per legge la mancanza di prova giova all'imputato e comporta già di per sé l'assoluzione piena, si può fin d'ora anticipare che la Corte d'Assise d'Appello non ha ritenuto affatto necessaria la rinnovazione della

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perizia balistica. Si dovrebbe, semmai, ritenere già raggiun-ta una prova dell'estraneità della cartuccia ritrovata all'ar-mamentario del pluriomicida, data dalla constatazione, fat-ta più nettamente dal Gabinetto di Polizia Scientifica che dai periti, delle differenze relative alla lettera "H" stam-pigliata sul fondello della cartuccia rinvenuta. Tali diffe-renze indicano dunque che la cartuccia non faceva parte dell'unico lotto, o al massimo due, utilizzato dal "mostro", che uno dei periti balistici che si sono succeduti nel proces-so ha accertato essere stato prodotto poco prima del delitto del 1968. Esclusa ogni possibilità di stabilire una positiva relazione tra la cartuccia rinvenuta e l'arma ed il muni-zionamento usati dall'omicida, resta solo il rinvenimento di una cartuccia della stessa marca, ma, trattandosi di marca e calibro diffusissimi (vi sono milioni di cartucce di quel tipo per pistola e per carabina sparse per il mondo), l'indizio sarebbe tanto generico da essere inconsistente.

In questa situazione probatoria si arrivò al processo ed essa sembrava anche all'accusa carente, come si è detto. Fino all'apparizione del Nesi, niente di nuovo c'era stato, però, se non l'inutile, o forse troppo utile scempio rappre-sentato dall'audizione delle due figlie di Pacciani, ancora minorenni, su fatti coperti da giudicato e per i quali la pena era già stata scontata. Appare chiaro che unico scopo di questo scempio poteva esser quello di gettare delle ombre sinistre sull'imputato, al fine di delineare quella figura di "tipo d'autore", dalla quale si dice tuttavia di voler rifuggi-re. Sicché le povere ragazze devono ripetere davanti alla Corte d'Assise, e soprattutto alla televisione, fatti già rac-contati in occasione del precedente processo contro il pa-dre. Fu adottato il consueto ipocrita espediente di non ri-prendere i testi in volto durante la deposizione, ma il volto appare lo stesso quando il teste si avvicina alla sedia e vi si

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allontana, e si vedono lo stesso i contorcimenti delle mani, le pose innaturali delle gambe, e si sentono le incerte voci.

Ad un certo punto viene a delinearsi quella che in gergo giornalistico si dice "la svolta del processo", con l'apparire ed il riapparire di certo Lorenzo Nesi, indotto dal pubblico ministero dopo le solite preventive audizioni da parte della S.A.M.

Il Nesi in una prima "spontanea" deposizione aveva det-to che Pacciani si era vantato con lui di andare a caccia di notte nella riserva entro la quale a quell'epoca abitava e di sparare con una pistola ai fagiani appollaiati sugli alberi, che "venivan giù come sassi". Questa icastica frase è pia-ciuta molto all'estensore della sentenza di primo grado, che in più punti la riporta a riprova del fatto che Pacciani aveva una pistola, negli anni '70-'80. Figuriamoci: il callido assas-sino che nel bel mezzo della serie dei delitti va a vantarsi di avere una pistola con un chiacchierone come il Nesi! Ri-flettendo alla cosa con un minimo di buon senso si dovreb-be concludere che o il Nesi immagina, per suggestione, o che se quello che narra è vero Pacciani non è il callido as-sassino. Invece, per l'accusa questa è una prova contro Pacciani, perché indica che costui una pistola l'aveva e che con tutta probabilità si trattava proprio di "quella" pistola.

Un'ulteriore prova del possesso di una pistola, e questa volta proprio di una Beretta cai. 22, secondo l'accusa va ri-cavata dall'episodio Bruni. Questi era un guardiacaccia or-mai ottantenne al momento del processo (ora è morto), che svolgeva i suoi compiti in una riserva del Mugello quando Pacciani, che anche troppo bene egli conobbe, sta-va ancora lì, fino al 1970. Un teste spontaneamente si pre-senta al dibattimento e dice che il Bruni, dopo che le inda-gini si erano già orientate verso Pacciani, nel 1991-1992, aveva fatto davanti a lui, e ad altra persona non identifica-

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ta, un commento su circostanze relative ad una ricerca, che ad un certo punto dell'indagine era stata eseguita su tutte le Beretta della provincia di Firenze. Avrebbe detto pres-sappoco il Bruni: "a me la pistola l'hanno richiesta ed esa-minata, ma certo a Pacciani no, pur avendone egli avuta una uguale alla mia, come allora vidi, perché è altrettanto certo che non l'avrà denunciata". Il Bruni, sentito il giorno dopo questa deposizione ed in seguito, anche in un con-fronto, ha sempre recisamente negato la circostanza, che se pure fosse stata vera poteva essere una mera vanteria o il frutto di un impreciso ricordo della vista di una pistola, av-venuta oltre venti anni prima. La legge impone che quando un teste fa riferimento ad un'altra persona quale fonte del-la conoscenza dei fatti, il cosiddetto teste di riferimento vada sentito, a pena di inutilizzabilità della deposizione "de relato", ossia del teste indiretto. Segno che il legislatore, saggiamente, dà preferenza alla deposizione diretta, quella di colui che può davvero "attestare" il fatto, piuttosto che a quella indiretta. Invece no, il giudice di primo grado, come farà sempre nel caso di deposizione indiretta che giova al-l'accusa e di diretta che le nuoce, senza nemmeno fermarsi al dubbio sceglie la prima. E come lo giustifica? Il Bruni, dice, afferma il falso, pur avendo gravissimi motivi d'astio verso Pacciani, che vent'anni prima con un calcio gli aveva leso gravemente un rene, per paura di costui (che però è in prigione) e per la vergogna e il rimorso di non aver parlato quando doveva, perché se avesse parlato prima la serie degli omicidi poteva forse essere interrotta. Allora chiun-que sappia che un altro ha un'arma è tenuto a denunciarlo come possibile mostro? E quando, poi, il Bruni avrebbe dovuto denunciare il fatto? Non nel 1970, quando avrebbe visto la pistola, perché allora non si sospettava neppure che vi fosse un "serial-killer"; non più in tempo utile quando venne fuori il nome del Pacciani come accusato, perché or-

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mai la serie si era da tempo conclusa ed il presunto colpe-vole era già nelle mani degli inquirenti. Su questa base l'ottantenne guardiacaccia venne ripetutamente e pesante-mente redarguito al dibattimento ed invitato a dire la veri-tà, quella che si voleva, e tacciato di palese mendacio in sentenza.

Uguale sorte venne riservata al teste Iandelli, il quale aveva recisamente negato di aver riconosciuto nel Pacciani un "guardone", che si sarebbe appoggiato con una pistola in pugno al parabrezza della sua auto mentre egli vi stava amoreggiando con la ragazza dell'epoca. La ragazza, che per la sua posizione non vide nulla, dice, diversi anni dopo il fatto, che lo Iandelli le aveva sul momento confidato d'aver riconosciuto il Pacciani; ma lo Iandelli ha negato d'aver det-to così, e comunque ha negato di aver riconosciuto in quel-l'individuo Pacciani. Anche in questo caso con il solito ar-gomento che la reticenza del teste era determinata dal ri-morso per non aver fatto scoprire in tempo il "mostro", si preferisce la testimonianza indiretta a quella diretta.

Ecco dunque le prove che Pacciani avesse una pistola, quasi certamente una Beretta cai. 22: la deposizione Nesi, l'episodio Bruni e l'episodio Iandelli. Le altre circostanze addotte sul possesso di una pistola sono ancora più chiara-mente inconsistenti, come quella che negli anni '70 Pacciani avesse dato ad un meccanico di biciclette un re-volver che avrebbe avuto, perché gli allargasse i fori del tamburo al fine di farci entrare certe munizioni da guerra che aveva trovato (con l'unico risultato prevedibile come certo di far scoppiare tutto, perché non veniva richiesto anche un contestuale allargamento della canna, del resto impossibile).

Eccoci, dunque, alla seconda apparizione di Lorenzo Nesi, a quella decisiva. Dopo una ventina di giorni e dopo

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il consueto pellegrinaggio in Questura, il teste si ripresenta spontaneamente e racconta questa incredibile storia, alla quale tuttavia si è creduto. Dieci anni prima, nella tarda serata dell'8 settembre 1985, il giorno dell'omicidio dei francesi in località Scopeti, di ritorno da una scampagnata sull'Appennino tosco-emiliano con alcuni amici, fu costret-to a prendere la via degli Scopeti per arrivare a San Casciano dall'autostrada, perché la Superstrada Firenze--Siena, da lui solitamente percorsa, era interrotta per lavori (si accerterà poi che i lavori sul tratto Firenze-San Casciano determinarono l'interruzione solo la settimana successiva, ma questo è il meno). In ora imprecisata tra le 21,30 e le 22,30, oltrepassato di circa un chilometro il punto dov'era la piazzola dell'omicidio, di cui seppe il giorno se-guente, il teste lasciò ad un incrocio la precedenza ad una Ford Fiesta color rossiccio, o amarantino, che a quel che gli sembrava al 90% era condotta da Pacciani ed a bordo della quale vi era un altro non riconosciuto individuo, quasi sicu-ramente di sesso maschile. La circostanza gli era ben pre-sente al ricordo anche al momento della precedente dichia-razione, ma egli non l'aveva riferita, perché era sicuro solo al 70-80%, e ad un tribunale si devono raccontare cose si-cure. Cosa aveva fatto aumentare la percentuale di proba-bilità, che dovrebbe comunque ritenersi pur sempre insuf-ficiente, circa l'esattezza del ricordo? Il fatto che Pacciani la volta precedente aveva finto di non riconoscerlo, ed egli salendo quei "tre scalini", quelli che dovette salire per re-carsi sull'emiciclo a deporre, si rese conto che era una fin-zione. Ripensandoci, aveva concluso che la finzione non era che un espediente di Pacciani, il quale temeva che egli dichiarasse non soltanto della faccenda dei fagiani, che venivan giù come sassi, ma anche la ben più scottante cir-costanza dell'incontro; perché, dice il teste, come egli vide Pacciani, Pacciani deve aver visto lui.

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Seguendo a ritroso il ragionamento induttivo del Nesi, si ha un'allucinante sequenza di questo genere: Pacciani ha fatto finta di non riconoscermi quando venni a deporre, ne induco che temeva dicessi cose a lui sfavorevoli; non paren-domi così grave la storia dei fagiani, ne induco temesse qualcosa di peggio; quel qualcosa di peggio potrebbe esse-re l'incontro della sera dell'8 settembre 1985; dal fatto che io riconobbi lui, induco che lui riconobbe me e da questo induco che egli temeva perciò la mia deposizione; da que-sto induco che egli attribuisce un qualche valore pro-batorio contro di lui all'incontro; da questo induco che egli non venisse da un'innocua gita e che ci fosse sotto qualcosa di più grave; ne induco anche che doveva esser proprio lui e la mia certezza al riguardo passa dal 70 al 90%; se poi fosse stato sulla Fiat 500 la mia certezza sarebbe salita al 100%, perché quell'auto la conoscevo meglio della Fiesta e la grossa sagoma del Pacciani lì dentro sarebbe stata inconfondibile; la sicurezza al 90% è però già sufficiente per indurmi a ripresentarmi a raccontare la cosa ai giudici, benché ad essi vadano dette solo cose vere e certe, essendo superato il limite di tolleranza da me stabilito nel 70-80%.

Si tratta, come ognuno dovrebbe vedere, di una serie di illazioni all'ennesima potenza da parte di un teste, che un giudice non dovrebbe tenere in considerazione alcuna. In-vece, il giudice non solo ci crede, benché la macchina "amarantina" fosse in realtà bianco-ghiaccio (eppure il Nesi puntigliosamente alle obiezioni della difesa dice che lui, facendo maglieria, di colori se ne intende senza tema di smentite), ma ci aggiunge qualcosa, anzi molto del suo. Letta con animo sgombro da pregiudizi, la deposizione del Nesi gioverebbe alla tesi difensiva. Infatti il Pacciani fu vi-sto, se fu visto, provenire da una strada del tutto diversa da Via degli Scopeti, un chilometro oltre il luogo dell'omici-dio, con a bordo una persona che per una mente normale e

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non prevenuta doveva apparire come un innocuo compa-gno di gita: ossia, una specie di alibi, tutto sommato. Invece questo compagno diviene inopinatamente un complice e la Via di Faltignano diviene il luogo dove era stata lasciata l'auto per andare a commettere l'omicidio. Eppure il Nesi stesso lì per lì pensa che Pacciani percorra Via di Falti-gnano di ritorno da un convegno con la propria amante Antonietta Sperduto (se la parola amante può essere leci-tamente usata in questo contesto) che stava proprio in quella strada; o poteva percorrerla tornando a casa sua da una qualsiasi altra parte, perché si trattava della via di casa per arrivare al non lontano paese di San Casciano eppoi a Mercatale, dopo una normale gita, per esempio di ritorno dalla Festa dell'Unità a Cerbaia di cui dovremo parlare. Neanche il Nesi ebbe sulle prime dei dubbi, che gli vennero solo, per il solito effetto perverso, quando il Pacciani di-venne il presunto "mostro"; anzi neppure allora, solo quando salì i tre gradini e l'imputato fece finta di non rico-noscerlo. Quanto all'amarantino o al rossiccio, il giudice di primo grado dice che forse il teste fu tratto in inganno dal riverbero dei catarifrangenti apposti sulla fiancata e perciò vide rosso quello che in realtà era bianco: con questa logica di notte tutte le auto sono rosse, come i gatti grigi. Allora inutile chiedere il colore.

Il punto in cui il Nesi avrebbe visto Pacciani ed il compa-gno di gita costituisce il vertice di un triangolo quasi rettan-golo, formato appunto dalla Via di Faltignano e la Via de-gli Scopeti (l'ipotenusa), mentre il terzo lato è una linea ideale che congiunge le due predette strade fino al punto che fu teatro dell'omicidio. La deposizione del Nesi costi-tuisce per un giudice la prima prova certa (proprio così si dice: "prova certa") dell'esistenza di complici. E questo palese errore si sta ancora scontando.

Immagina allora il giudice di primo grado che l'omicida,

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Via di Faltignano e luogo di sosta ipotizzato per la Ford Fiesta

( 4 ) Incrocio dove Nesi avrebbe visto Pacciani

( 5 ) Percorso a piedi ipotizzato

© P u n t o di sosta della Ford Fiesta secondo Pucci e Lotti

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mentre il complice non si sa se lo seguisse, o se stesse a bada dell'auto, sia giunto alla piazzola su Via degli Scopeti da Via di Faltignano, attraverso campi e boschi con un per-corso forse appena segnato da qualche viottolo, per coprire il quale ci vogliono, secondo il comandante della Guardia Forestale sentito come teste sul posto in occasione di un sopralluogo, un'ora o un'ora e un quarto ad andare ed al-trettanto a tornare. Questo completamente al buio, perché, per quanto il giudice di primo grado dica che c'era la luna che mostrava metà della sua faccia, in realtà risulta senz'ombra di dubbio dalle attestazioni dell'Osservatorio di Arcetri che era iniziato da un giorno l'ultimo quarto di luna e che l'8 settembre la luna sorgeva alle 23,14 con ora solare, e quindi a mezzanotte e un quarto con l'ora legale che al momento vigeva. Partendo dagli accertamenti medi-co-legali, che fanno risalire la morte dei francesi a due ore dopo l'ultimo pasto, ossia verso le 22-22,30 (orario che già risulta incompatibile con quello indicato dal Nesi, perché all'ora della morte indicata dai medici legali si deve aggiun-gere almeno l'ora o l'ora ed un quarto di cammino; né si può pensare che l'incontro sia avvenuto prima dell'omici-dio, nel percorso d'andata, perché Nesi aggiunge che poi sorpassò l'altra auto nel tratto verso San Casciano), è evi-dente che al momento dell'omicidio era buio pesto ed una certa luce, anche secondo i periti di Modena, ci sarebbe stata solo a partire dalle due di notte.

Perché poi tutta questa camminata con i feticci addosso nel ritorno? Qui viene di nuovo acconcia, e non sarà l'ulti-ma volta nel processo, l'osservazione di Manzoni: "come se fosse usanza de' malfattori trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto". Ma, dice il giudice di primo grado, era perché sarebbe stato imprudente in una sera domenicale, col rientro dalle gite, lasciare ferma per un certo tempo l'auto in Via degli Scopeti. E lasciarla ferma almeno due

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ore e mezza in Via di Faltignano, tra andata, consumazione del duplice omicidio, con le complicazioni che ci furono, escissioni e ritorno, non era forse anche peggio?

Eppure tutta questa artefatta ricostruzione è la prima pietra miliare dell'accusa relativamente all'omicidio dei francesi. Per ritener certa la responsabilità dell'imputato quanto ad esso si deve ricorrere ad una congerie di illogicità forse pari a quella con la quale si chiude in sen-tenza la disamina degli omicidi, ossia quella sull'omicidio dei sardi di cui si è già detto. Le altre pietre miliari sono costituite dalla deposizione del teste Longo, dall'interpre-tazione distorta della deposizione dell'Avv. Zanetti e dal-l'interpretazione distorta dell'alibi, ritenuto falso e malizio-samente predisposto.

Il teste Ivo Longo ha dichiarato, come al solito dopo averne parlato spontaneamente prima alla S.A.M., che la notte sull'8 settembre, verso mezzanotte, egli andava verso Firenze percorrendo la Superstrada Siena-Firenze, di ritor-no da una gita al mare in Maremma. Giunto all'altezza del-l'imbocco da San Casciano, dice il Longo, si vide tagliare la strada da un'auto scura a tre volumi, alla guida della quale si trovava un uomo come in "trance". Quest'uomo, che era solo, a lui era parso (chissà perché, dice egli stesso) un ve-terinario, o un dottore, che tornasse da qualche casa di campagna, dopo aver fatto partorire una scrofa o una vac-ca. L'uomo, che era sudatissimo ed indossava una camicia bianca, portava occhiali da vista con leggera montatura metallica (il Longo è un ottico, del quale erano clienti alcu-ni poliziotti) e teneva accesa la lampadina interna.

Si sa che Pacciani non portava occhiali, ma poteva trattarsi di una semplice montatura priva di lenti proprio allo scopo di non farsi riconoscere, sostiene l'accusa (non si capisce allora perché tenesse accesa la luce interna).

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Comunque al dibattimento il teste ha dichiarato di aver ri-conosciuto senza ombra di dubbio Pacciani nello scono-sciuto veterinario, al solito dopo averne visto l'effige in te-levisione, quando già era stato indicato come il presunto mostro.

Il teste si dice certo del riconoscimento, ma su quali se-rie basi? La descrizione da lui fatta è del tutto difforme e non si vede come Pacciani possa identificarsi nel veterina-rio o nel dottore. L'auto non era certo la sua, ma, si affer-ma nella sentenza di primo grado, doveva allora necessa-riamente essere di qualche complice, da lui indotto con le buone o con le cattive a prestargli la sua auto, dopo che la Ford Fiesta era stata "bruciata" per l'avvistamento da par-te del Nesi. Il Pacciani, si dà per certo, passava dalla Superstrada per imboccare a Firenze l'Autostrada del Sole nella direzione Firenze-Bologna con l'intenzione di uscire a Barberino e da lì, fatti 11 chilometri su strada normale, raggiungere San Piero a Sieve dove, a fine di depistaggio, imbucò una lettera indirizzata alla dottoressa Silvia della Monica, alla quale essa pervenne il 10 settembre. Nella busta era contenuto soltanto un "reperto" prelevato dal seno della Mauriot.

Non si domanda l'accusa a che scopo un assassino che abitava nei pressi di San Casciano dovesse con grave ri-schio, pur essendo stato scorto dal Nesi e forse proprio per questo, mettere in atto un depistaggio (o forse più che altro un gesto di sfida, secondo l'interpretazione dei periti di Modena) per orientare gli inquirenti proprio verso il Mugello, dove aveva commesso l'omicidio precedente e dove aveva a lungo abitato anni prima, anziché, ad esem-pio, verso l'empolese. Non s'interroga l'accusa sulla serietà del riconoscimento, anche in questo caso possibile frutto della suggestione e delle insistenze degli inquirenti. Niente si chiede davanti all'assurdità del prestito forzato della

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macchina, per neutralizzare un riconoscimento già avvenu-to da parte del Nesi.

I periti di Modena, poi, fanno risalire la morte dei due francesi alla notte tra il 7 e l'8 settembre 1985 (sabato-do-menica). I cadaveri vennero infatti trovati nel primo pome-riggio di lunedì in condizioni tali da non apparire del tutto giustificate dal caldo della giornata e su questo punto la difesa aveva chiesto una nuova perizia; se l'omicidio fosse avvenuto sabato sera, cadrebbero radicalmente sia la co-struzione collegata al Nesi, sia quella attuale collegata ai nuovi "testi". Già la datazione della morte, comunque, non è sicurissima.

Riprove dell'influenza nefasta dei mezzi di informazio-ne in processi clamorosi, che provocano suggestioni e mitomanie, sono date da altri riconoscimenti seguiti pun-tualmente alla pubblicazione, sui giornali o in televisione, dell'effige dell'imputato. Basterà accennare ad un teste che ha riconosciuto in Pacciani un guardone che a suo dire l'aveva importunato una diecina d'anni prima. Il riconosci-mento non avvenne quando rivide Pacciani in carne ed ossa un anno dopo il fatto e si trattenne per un certo tempo con lui; no, avvenne dieci anni dopo, quando ne vide sul giornale una fotografia in cui era ripreso con un berretto con la visiera alzata. La visiera era l'elemento che determi-nò un attendibile riconoscimento, sostiene l'accusa. Siamo alle solite: se l'elemento caratterizzante è la visiera alzata, tutti gli uomini che portano cappelli con la visiera alzata sono uguali. Così un altro teste riconosce Pacciani in dibat-timento, o meglio, dice che "gli sembra lui", dopo averne visto una fotografia sul giornale; pur avendo detto ai Cara-binieri che, posto che l'aveva scorto assai fugacemente, egli non era in grado di descrivere la persona e pur avendo det-to che l'individuo da lui intravisto era alto come lui, ossia

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oltre un metro e ottanta, mentre Pacciani era al massimo uno e sessantasette. Infine, un teste riconosce Pacciani dopo averlo descritto come un uomo "distinto" (per quanti sforzi dialettici si facciano, è impossibile qualificare l'impu-tato come distinto), e averne indicato un'età di 10 o 15 anni meno di quella che effettivamente aveva all'epoca del fatto.

L'apice si raggiunge, forse, quando una riprova dell'esi-stenza di un complice viene cercata nella deposizione del-l'avvocato Zanetti. Questi era un ciclista dilettante che ai primi di settembre del 1985 faceva per allenamento la sali-ta degli Scopeti quasi tutti i giorni, all'uscita dallo studio. Ebbe così modo di notare più volte in posti diversi lungo quella strada, dove sarebbe stato di lì a poco commesso il duplice omicidio dei francesi, una Ford Fiesta bianca, del tutto simile a quella di Pacciani; ma in un paio di queste cir-costanze egli vide anche la persona che si trovava accanto ad essa, e che non era certamente Pacciani. Quando duran-te il dibattimento di primo grado era venuta fuori la versio-ne del Nesi, l'avvocato Zanetti parlò della cosa al figlio del difensore dell'imputato, avvocato Bevacqua, il quale ulti-mo lo indicò come teste a difesa. Mal gliene incolse, perché la deposizione è stata considerata un elemento di accusa, che aggravava ancor più, "se possibile", la situazione del-l'imputato: infatti, si sostiene, se ne doveva ricavare in ter-mini di certezza (proprio così si dice: "in termini di certez-za") che la persona vista vicino alla macchina se non era Pacciani doveva essere per forza un suo complice, che l'aspettava durante i suoi sopralluoghi alla ricerca di coppiette da colpire.

Dunque le "prove certe" a favore della tesi dell'esisten-za di complici, della quale ancora oggi si scontano le

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esiziali conseguenze, sono le deposizioni Nesi, Longo e Zanetti. Bisogna allora ripetere che "non paia strano di vedere un tribunale farsi seguace ed emulo di una o due donnicciole'''' (non certo l'incolpevole avvocato Zanetti). Si può anticipare fin d'ora, poi, che la ricostruzione ricavata dalle loro deposizioni è del tutto inconciliabile, per orari, modalità del fatto, posto in cui l'auto era stata lasciata in sosta, ecc., con quella fornita dalle "due donnicciole" del-l'ultima fase delle indagini.

Quel che è peggio ancora, poi, è che l'ipotesi dei compli-ci sia stata avanzata per la prima volta nel corso della stesu-ra della sentenza, senza che neppure l'accusa l'avesse pro-spettata, pur dopo le deposizioni viste, e senza che nessuno avesse interloquito su di essa. E su questa arbitraria rico-struzione, col corollario dei complici, viene ad esser fonda-ta in buona parte la condanna, perché quello dei francesi è uno dei due soli omicidi seriali sui quali si ritiene raggiunta la prova diretta di una partecipazione del Pacciani, gli altri essendo silenti ed attribuibili all'imputato unicamente per l'identità dell'arma. Così viene utilizzata una tesi accu-satoria sulla quale la difesa non ha mai potuto dir la sua, non essendo mai stata contestata neppure implicitamente all'imputato.

Altro elemento a carico di Pacciani, sostiene ancora l'ac-cusa, è quello dell'alibi falso per le ore dell'omicidio dei francesi, oltre a quello delle sue continue menzogne. La giurisprudenza più alta, sia come autorevolezza che come impegno civile, è concorde nel dire che l'alibi può essere utilizzato come indizio contro l'imputato soltanto quando risulta che esso è stato preordinato maliziosamente, perché solo in questo caso se ne può dedurre che chi l'ha inventato voglia coprire una colpa che sa d'aver commesso; non

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quando sia soltanto falso o fallito. Quanto alla menzogna, un minimo di civiltà giuridica porta a concludere che essa rientra nella facoltà difensiva dell'imputato, non tenuto a dire "contra sé", essendo onere dell'accusa provare la colpevolezza, non quella dell'imputato provare la sua inno-cenza. Anche Manzoni ricorda come superato "l'insegna-mento comune, e quasi universale de' dottori, che la bugia dell'accusato nel rispondere al giudice, fosse uno degl'indizi legittimi, come dicevano, alla tortura" (e non, si badi, alla condanna). Ma il giureconsulto Farinacci, vissuto a cavallo tra il '500 e il '600, diceva "essere dottrina comune che due (testi) sian necessari a provare un indizio remoto, quale è la bugia". Ed osserva il Manzoni uche la bugia dovesse risultar da prove legali, e non da semplice congettura del giudice, era dottrina comune e non contraddetta".

Sulla base di questi secolari principi, non può attribuirsi valore indiziario alcuno né alle menzogne del PacciaHi, dif-fuse a piene mani nel processo e spesso a suo danno (ecco il diabolico assassino, che altri non era che un contadino furbastro), né alla storia dell'alibi. Certo Pacciani, appunto con le sue menzogne, ha intrigato assai le cose al riguardo in memoriali superflui e dannosi, e in successivi interroga-tori. Ma quando venne sentito per la prima volta dai Cara-binieri, a seguito di quell'anonimo di cui si è già detto, il 19 settembre 1985, a dieci giorni di distanza dal fatto, Pacciani disse che domenica 8 settembre si era recato con le figlie (una delle quali ha espressamente confermato, mentre l'al-tra non ricorda) alla Festa dell'Unità a Cerbaia, da dove secondo lui erano venuti via verso le 19,30 (secondo la fi-glia, addirittura dopo cena), che era tornato a casa a cenare e che era riuscito di nuovo dopo cena per andare alla Casa del Popolo di Mercatale, dove si era trattenuto fin verso le 22, rientrando poi per dormire. Questo è il vero alibi da valutare, al di là delle successive menzogne, ed esso, mi

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ostino a credere, costituisce una prova non contro, ma a favore: come si può pensare, infatti, che il vero assassino, ben conscio naturalmente dell'ora del delitto da poco com-messo, si affannasse a coprire puntigliosamente tutta la giornata e lasciasse scoperte ed affidate alla sola sua parola proprio le ore della consumazione del crimine, dalle 22 in poi, consentendo si potesse pensare che era in giro con la macchina nella zona?

Sostiene l'accusa (si parla, al solito, del pubblico mini-stero di primo grado) che i caposaldi sui quali deve fondar-si la condanna di Pacciani sono questi: la "compatibilità" con la figura del mostro, la conoscenza specifica del terri-torio dove stava o era stato (ma Signa, Scandicci e Calenzano?), il possesso della pistola, l'omicidio dei fran-cesi, l'omicidio dei tedeschi provato dal blocco per schizzi, gli acceitamenti balistici e l'omicidio dei sardi. A parte un dubbio su quest'ultimo episodio, la sentenza di primo gra-do, ha recepito completamente le tesi d'accusa, aggiungen-dovi, anzi, qualcosa di suo: la storia dei complici.

Si andava ormai delineando la riforma della sentenza di condanna, specie dopo le conclusioni del Procuratore Ge-nerale d'udienza, criticate immediatamente dal pubblico ministero di primo grado in interviste televisive, e dopo di-verse camere di consiglio "in itinere". Si era proprio alla vigilia della camera di consiglio finale, quando l'accusa, pur avendo avuto tutto il tempo di svolgere le indagini sui com-plici, a distanza di decenni dai fatti e dopo quasi un anno e mezzo dalla sentenza di primo grado, cala la carta della "Katanga Story", destinata a soppiantare quella della "Nesi Story", all'evidenza ormai ritenuta insufficiente. Al-trimenti sarebbe bastato attendere una inevitabile confer-ma della condanna del principale imputato e vedersela poi subito dopo con i complici. Si preferisce invece cambiare le

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carte in tavola, come se all'ultima mano di un gioco di carte si dicesse che la briscola, o l'atout, non è più fiori, ma pic-che, o in una partita di poker, ed il paragone con questo gioco sembra più calzante, si facesse un rilancio dopo che il termine per farlo è scaduto, secondo regola.

Le indagini su improbabili complici, che avevano avuto impulso poco prima dell'inizio del giudizio d'appello, giun-sero ad una forzata maturazione mentre quel giudizio stava per concludersi. Con tempestività ed eleganza eccezionali, proprio la notte prima della chiusura della discussione ven-ne arrestato il "complice" Mario Vanni, vecchio postino di San Casciano, detto "Torsolo". Sulla base, si dice, della deposizione di due testi il cui nome era mantenuto segreto per non meglio specificati motivi di sicurezza e riserbo, ed indicati come Alfa e Beta (ma il giorno dopo la stampa conosceva i loro veri nomi: Pucci e Lotti, rispettivamente), che avrebbero visto Vanni e Pacciani uccidere i francesi verso la mezzanotte tra l'8 ed il 9 settembre (ma secondo gli accertamenti medico legali i francesi erano stati uccisi circa due ore dopo l'ultimo pasto, ossia verosimilmente tra le 22 e le 23 di quella sera, se non addirittura verso la stessa ora della sera precedente, come pure è stato autorevol-mente sostenuto). L'accusa, certo in buona fede convinta d'aver trovato finalmente delle prove, "per mantener l'in-ganno fino alla fine, dovette ancora eludere le leggi", le qua-li imponevano non la segretazione, come incautamente è stato detto ai giornalisti, sibbene dirette ed immediate ri-chieste al giudice del dibattimento. Se si volevano utilizza-re i risultati delle indagini parallele anche nel processo già in corso, e non solo in quello contro i complici, si doveva, infatti, una volta scoperto un teste, portarlo senz'altro in-dugio all'esame dibattimentale, con tanto di nome e cogno-me, senza proseguire le indagini nel chiuso delle stanze, mettendo la documentazione già acquisita "immediata-

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mente" a disposizione della difesa. Questo dice una specifi-ca disposizione di legge, altro che "segretazione"! E cosa avrebbe detto l'accusa se la difesa, durante la discussione finale, avesse indicato che c'era un teste a discarico, del quale sul momento non voleva fare il nome? E cosa se la discussione fosse stata sospesa in attesa che ci si decidesse a farlo?

Le motivazioni indicate nelle interviste per giustificare la segretazione sono le più svariate e sarebbe necessario conoscere quelle formalmente addotte nel decreto motiva-to con il quale per legge va disposta. Il che conferma che tener segreti all'accusato i nomi degli accusatori è l'ecce-zione, non certo la regola. Né si era mai sentito dire, finora, che il rigoroso rispetto del diritto di difesa potesse costitu-ire reato, come pure è stato detto in questa circostanza.

Il male è che una commistione simile tra indagini preli-minari contro un presunto complice e processo d'appello contro il principale imputato forse non si era mai vista. Un altro elemento di confusione deriva dal fatto che l'eventua-le complice, al quale fino ad allora si era attribuito semmai un ruolo marginale e di supporto, ora diviene un complice a parità d'impegno sul piano della partecipazione materia-le, o addirittura una sorta di capo-mostro, a dispetto del nomignolo di Torsolo, dal momento che le escissioni, fine ultimo degli orrendi delitti, le avrebbe praticate proprio lui. Insomma, uno sconvolgimento completo di tutte le car-te in tavola, destinato a gettare inevitabile discredito.

"Cercarono un altro zero, per ingrossare un conto in cui non potevano far entrare nessun numero", raccogliendo e provocando dichiarazioni di due personaggi che subito do-vevano apparire come inaffidabili: uno ha una pensione di invalidità per oligofrenia ed ha preso la licenza elementare a 15 anni; l'altro, soprannominato spregiativamente "Katanga" (una provincia del basso Congo anni fa triste-

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mente famosa), a quanto si legge sui giornali ha fatto solo la quarta elementare ed ha anch'egli una qualche pensione di invalidità, senza sapere neppure perché. Se anche testi-moni del genere, spuntati dal nulla dopo oltre dieci anni, fossero stati esaminati al dibattimento, ed avessero retto alle contestazioni, chi se la sarebbe sentita di confermare un ergastolo sulla sola base delle loro dichiarazioni, appese nel vuoto probatorio di cui la Corte aveva già piena consa-pevolezza? "Quanto il delitto è più grave, tanto più le pre-sunzioni devono esser forti: perché dove il pericolo è mag-giore, bisogna anche andar più cauti", diceva già sul princi-pio del secolo decimoquinto il giureconsulto Nicolò Tede-schi, citato da Manzoni.

Meno male, anche col senno del poi, che ci si è attenuti alla legge e non si è interrotta la discussione finale per dar tempo al pubblico ministero di desegretare. Anzitutto, quello che era uno dei testi chiave sarebbe ben presto dive-nuto, dopo che era stato fatto sentire ad un giudice sotto il vincolo del giuramento, un indagato o un semindagato, ancora non si capisce bene (dell'altro teste non si sa più nulla, non avendolo più l'accusa utilizzato, almeno a quan-to appare). Quella che inizialmente era una deposizione su un solo delitto, sarebbe divenuta una deposizione per due delitti, almeno finora. Si sarebbe resa necessaria tutta una serie di indagini per veder di cavare qualcosa dal nuovo zero, e la Corte sarebbe stata portata a cercar riscontri nel-le buche degli Scopeti, sui sassi della Sieve o per assai im-probabili percorsi di fuga. Oppure sarebbe stata chiamata a far ricerche su quella fantomatica lettera che Pacciani avrebbe scritto dal carcere, per formulare oscure minacce e per parlare di gravi fatti di sangue, pur andando soggetto alla censura, e che il postino Vanni avrebbe ricevuto e avrebbe dovuto recapitare, non senza prima confidarsi col fido Lotti. Sembra "quella scrittura" che il malcapitato bar-

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biere Giangiacomo Mora, tirato in ballo come untore, fece a pezzetti e che probabilmente era del tutto innocua. Co-munque, Pacciani nel frattempo sarebbe stato scarcerato ugualmente, per l'inesorabile decorrenza dei termini di carcerazione preventiva ed ormai sarebbe fuori, dopo tre anni di prigione. D'altronde, dice Farinacci, benché si tratti di delitto enorme, non consta però che l'uomo l'abbia com-messo: e fin che non consti, è dovere che si serbino le solen-nità del diritto".

A parte tutte le difficoltà processuali e le incongruità delle nuove rivelazioni, resta che prima di riscrivere in base ad esse un processo e ad un tempo la storia della crimi-nologia occorrerebbero riscontri ben più seri di quelli im-probabili e fugaci che si vanno cercando, pur essendo certo fin dall'inizio che non si possono trovare. Come si pensa di trovare conferma in una buca nella quale dieci anni fa ven-ne riposta per qualche tempo una pistola? E come se undi-ci anni fa su alcuni sassi del greto di un fiume torrentizio siano state lasciate delle macchie di sangue umano? Tutti questi accertamenti che si vanno propagandando si palesa-no a prima vista impraticabili e pare che li si prospetti per influenzare l'opinione pubblica, lasciandoli poi cadere nel dimenticatoio, "per mantener l'inganno fino alla fine".

Invece di cercare questi "riscontri", sarebbe meglio veri-ficare se i racconti dei "pentiti" (che tali però non sono ne-anche, perché nulla propriamente confessando di nulla si pentono) abbiano un minimo di verità intrinseca, oltre che di verisimiglianza. Dice il Bossi, criminalista del sedicesimo secolo, "tocca dunque al giudice (e, in prima battuta, ad un magistrato del pubblico ministero) a esaminare se un indi-zio sia verisimile e probabile". Qui, invece, le dichiarazioni probatorie sono già di per sé ugualmente strane ed inverisimili. "A/a il più strano e il più atroce si è che non

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paressero tali neppure all'interrogante, e che non chiedesse spiegazione alcuna. O se ne chiese, sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo". Il fatto è che l'in-terrogante era "impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che gli veniva messo davanti ... aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo". E così "/a rab-bia resa spietata ... era diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; il timor di mancare a un'aspettativa generale, di parer meno abili se scoprivan degli innocenti, di voltar contro di se le grida della moltitudine, col non ascoltarle..."-. Avrebbero potuto fare tante domande: "ma temevano di non trovarlo reo. E que-sta veramente è la chiave di tutto".

Il più grave, però, assai più grave, non è la improbabilità dei racconti, l'inverosimiglianza, ma la falsità oggettiva su punti di rilievo. I due individui, secondo quanto concorde-mente riferiscono i vari giornali, ricavandolo presumibil-mente da una comune fonte ufficiosa, hanno raccontato particolari sugli omicidi, di cui dicono d'essere stati testi-moni oculari, che non collimano affatto con i dati oggettivi rilevati a suo tempo. Per l'omicidio del 1985 essi dicono che, soffermatisi sulla piazzola, non si capisce ancora bene se per caso, per curiosità, per costrizione (?) o per compli-cità, videro il Vanni tagliare con un coltellaccio la tenda e poi entrarci dentro, il giovane francese uscire fuori e Pacciani colpirlo a pistolettate, inseguendolo, mentre il Vanni teneva a bada la ragazza; finito il giovane a coltella-te, il Pacciani tornò alla tenda ed uccise la ragazza, a quan-to pare con la pistola (anche se gli pseudo-testi sentirono solo due colpi e ne furono sparati nove); i due eseguirono le escissioni e poi fecero una buca, sembra per occultarvi la pistola. Ora risulterebbe, però, non essendosi trovato nulla

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nella buca, che quest'ultima proposizione sia già stata ret-tificata dal Lotti, col beneplacito e senza osservazioni degli inquirenti, e sostituita con un allontanamento di un quarto d'ora nel bosco di Vanni e Pacciani.

Tutto ciò appare intanto "a prima vista" assurdo e perfi-no ridicolo, se si potesse usare per fatti così tragici questa parola. Innanzi tutto, la figura del Vanni, che fa da cane a molteplici usi: prima cane da caccia, gettato nella macchia per stanare i fagiani; poi, da pastore, per sorvegliare la ra-gazza, che frattanto strillava, in attesa del ritorno del Pacciani; poi, infine, da riporto, per i feticci. Veramente non si dovrebbe fare dell'ironia su tali cose, ma oltrepassa-to un certo limite la tragedia diventa commedia, come un dramma recitato da pessimi attori. In secondo luogo, quel soffermarsi sul posto del delitto per nascondere la pistola, con un inutile quanto assurdo sommarsi dei rischi ("come se fosse usanza de' malfattori trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto'''')', ed obbligandosi a recuperare nei giorni successivi l 'arma lasciata intanto alla mercé degli inqui-renti, ed anche dei consueti curiosi. Infine, l'attesa del Lotti e del Pucci sul posto, mentre gli esecutori materiali uccide-vano, escindevano e nascondevano, o si allontanavano un quarto d'ora per ragioni misteriose nel bosco; e loro se ne stavano lì, a pochi metri da una strada di transito, forse in attesa che qualcuno li scoprisse vicini ai cadaveri! Anche qui si può ripetere quello che si è detto per il Mele: va bene essere oligofrenici, ma fino a questo punto? Come può un inquirente creder questo? "Che avessero il senso del verisi-mile così ottuso, così lento... Essi? Tutt'altro. L'avevano delicatissimo, anzi fin troppo delicato" (almeno alcuni di essi).

A parte le inverisimiglianze, è oggettivamente provato: 1) che nessuno entrò dal retro nella tenda, perché lo strap-

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po riscontrato nell'apertura posteriore era insufficiente e c'era, soprattutto, un successivo telo, che non venne nep-pure intaccato e che impedì comunque l'accesso (tutti i ri-cordi dei "testi" sui sinistri rumori fatti dallo strappo nella tenda con un coltello lasciano il tempo che trovano e non bastano certo a render verosimile una scena almeno per tutto il resto non vera); 2) che i colpi vennero tutti sparati in rapida successione nelle immediate adiacenze della ten-da, dove vennero trovati tutti i bossoli (uno all'interno); 3) che non vi fu quindi nessun inseguimento a pistolettate, e neanche l'inceppamento immaginato da una delle parti ci-vili, perché vennero esplosi tutti i colpi solitamente in dota-zione dell'arma, nove, di cui otto in caricatore ed uno al-loggiato preventivamente in canna; 4) non vi poté essere nessun grido da parte della ragazza, mentre aspettava d'es-sere uccisa sorvegliata dal Vanni, perché essa venne subito colpita alla testa dal colpo di pistola mortale, mentre il ra-gazzo poté uscire dalla tenda essendo stato colpito all'ini-zio solo in modo non grave ad un incisivo dell'arcata supe-riore (il medico legale ipotizza che il proiettile avesse poca forza perché era passato attraverso il corpo della ragazza, che in quel momento, giacendo riversa su quello di lui, ca-sualmente lo proteggeva; ed ipotizza anche che il ragazzo, uscendo disperatamente dalla tenda, abbia travolto l'ag-gressore, che era abbassato davanti alla sua apertura). Non torna niente, quindi, con il racconto.

Altrettanto per il racconto del solo Lotti sull'omicidio del 1984. Quanto alla verisimiglianza, dice costui di essere stato ingaggiato quella sera stessa dal Vanni e dal Pacciani, per andare a fare "un lavoretto" ad una coppia che era so-lita amoreggiare nella campagna di Vicchio e che egli stes-so aveva loro segnalato. Ora pare venga fuori a puntate anche un altro precedente sopralluogo. A parte che le pun-

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tate non dovrebbero essere ammesse, perché chi parla per levarsi un peso dallo stomaco, come sembra abbia detto il Lotti, lo fa tutto in una volta e senza rigurgiti, se vi fosse stata questa abitudine di girare, sempre meno si compren-derebbe come mai Pacciani abbia fatto con la Fiesta solo 8800 chilometri in circa 5 anni, la metà di quelli che percor-re in un solo anno un italiano medio. Né pare ragionevole che per i sopralluoghi ci si servisse di un'auto diversa. Ed ancor meno si comprenderebbe che bisogno avesse Pacciani di fare il calcolo della distanza tra San Casciano e Vicchio, mediante sottrazione sul contachilometri, poco prima di raggiungere il chilometraggio complessivo sopra detto e quindi nel 1987 inoltrato, due anni e mezzo dopo l'omicidio di Vicchio ed i relativi appostamenti.

L'ignaro Lotti a quel che racconta si trovò ad assistere ad una scena inaspettata e fu messo davanti al fatto com-piuto. Solo dopo Pacciani e Vanni, i diabolici assassini, si domandarono se costui avrebbe parlato. Ma, rispose uno di loro, non parla di certo, perché ormai è dei nostri. Quasi novello D'Artagnan, cooptato dai due moschettieri; ma come potevano esserne sicuri prima? E non parla di certo, "sennò si ammazza", aggiunge uno di loro. Lo ammazzano dunque quando ha già parlato?

Quel Guglielmo Piazza di cui si è fatto cenno, accusato di far unzioni sui muri per diffondere la peste e messo dagli inquirenti alle strette, finì col dire (non è appropriato il ter-mine confessare) che l'unguento glielo aveva dato un bar-biere, Giangiacomo Mora. I due vennero presto messi a confronto, perché almeno nel '600 i confronti si facevano e non si rinviavano "sine die", col pretesto da parte dell'ac-cusa che non son maturi. Nell'annotare a margine il verba-le di confronto, avendo il Piazza detto d'aver fatto le unzioni per "una mano de danari", Pietro Verri, illuminista

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milanese del '700, anch'egli citato da Manzoni, osserva: "Ma perché il Barbiero senza arrischiare non ungeva da sé di notte1.". Oggi osserverebbe: ma perché Pacciani e Vanni non seguitarono come prima ad agire da soli, senza metter-si tra i piedi un individuo infido come il Lotti! Che garanzie poteva dar loro costui? Nessuna osservazione è stata fatta su questo e su altri punti dagli inquirenti e "ci volle l'accecamento della passione per non farla, o la malizia del-la passione per non farne conto, se, come è più naturale, si presentò anche alla mente degli esaminatori".

Ma al solito ciò che è peggio, più ancora dell'inverisi-miglianza, è la smentita dei fatti. Dice Lotti, a quel che si legge, che, mentre egli si teneva ad una certa distanza, e tuttavia vedeva bene (non si sa come, in piena notte di no-vilunio), Pacciani mise la sua macchina di traverso davanti alla Panda in cui stavano i due giovani innamorati, i quali nel sentirlo e poi nel vederlo ebbero un moto, e si alzarono un po' dal sedile posteriore, in cui si trovavano. Pacciani, allora, tornò subito indietro a prendere la pistola, che tene-va in macchina, e li colpì. La ragazza fu solo ferita ed il Vanni, che nel frattempo aveva indossato uno spolverino, la tirò fuori dall'auto, mentre strillava, la trascinò nel vici-no campo e lì la finì con alcune coltellate, prima di pratica-re le escissioni. Neanche in questo caso torna nulla. Risulta dagli accertamenti medico legali che i due giovani, com'è del resto naturale e come era sempre accaduto nei fatti precedenti, non ebbero neppure il tempo di abbozzare una difesa. Se fecero un movimento, forse sorpresi dall'improv-viso accendersi della torcia elettrica, fu impercettibile. La ragazza venne subito attinta alla testa dal proiettile morta-le, che le penetrò nell'encefalo e le determinò immediata-mente una profondissima perdita della conoscenza, se non subito la morte assoluta. Le ferite (due) di coltello alla gola le furono inferte "in limine vitae", ossia mentre la circola-

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zione sanguigna stava cessando, forse appena tirata fuori dalla macchina, e non sarebbero state per sé causa di mor-te, mentre le escoriazioni da trascinamento rilevate sul dor-so erano "già mortali", evidentemente nel senso di prodot-te "post-mortem", quando la circolazione sanguigna era cessata. Si ha quindi, una sequenza del tutto inversa a quel-la che racconta il Lotti. Dispiace tornare su questi partico-lari macabri, ma non se ne può fare a meno per spiegare le cose. Specie quando, con lo sbandieramento di certe vitto-rie, si creano illusorie aspettative di giustizia nei parenti delle vittime. La legge imporrebbe al pubblico ministero di svolgere accertamenti anche su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini. Nel nostro caso, non solo non risultano ricercate le prove a favore, ma sembrano vistosamente trascurate anche le prove già acquisite, che vengono occultate all'indagato Vanni e, pare, rimosse dalla mente degli inquirenti.

Non parliamo poi della verosimiglianza dei fatti succes-sivi. Gli assassini seppelliscono subito sul posto qualcosa, il Lotti pensa ai feticci, si vanno comodamente a lavare nella Sieve a poche decine di metri di distanza da dove avevano sparato più colpi (che in effetti vennero sentiti da qualche vicino prima delle 22, ora in cui secondo la deposizione Lotti il terzetto sarebbe invece partito dalla lontana San Casciano), a quanto pare dopo aver preso le auto, e poi percorrono una strada assurda per allontanarsi dal posto, quasi che, ancora, " fosse usanza de' malfattori di trattenersi più del bisogno ecc.". Invece di fare un paio di chilometri di comoda strada asfaltata, in un paio di minuti, essi giungono allo stesso preciso punto percorrendo in 15-20 minuti alme-no, a tutta velocità, una stradina in forte pendenza, tortuo-sa, stretta, dissestata e pericolosa. A che scopo? Nonostan-te la teoria della relatività, nella geometria comune la linea più breve, specie per chi voglia scappare, resta la retta.

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Pare volessero però nascondere in quella zona la pistola, che poi avrebbero dovuto con ulteriore rischio recuperare i giorni successivi. O forse, si adombra, il ghirigoro fu fatto per evitare un passaggio a livello. Ammesso che con quel percorso l'abbiano evitato (resta tutto da vedere), sarei curioso di sapere quanti treni passano dopo le 22 di sera per una linea ferroviaria secondaria come quella per Borgo San Lorenzo. Che sappia io, e per quanto meglio ne avreb-be dovuto sapere uno che era stato in quella zona per tanti anni, neppure uno.

Al solito, in luogo di sensate domande si apprestano assurdi riscontri. Il Lotti viene portato a riconoscere una stradella che egli avrebbe fatto una sola volta di notte undici anni prima, e lo si invita ad indicare il percorso esatto. Naturalmente il Lotti non riconosce un bel nulla, almeno finché non lo portano col muso sopra il posto da riconoscere, come un cane al quale si voglia insegnare a riconoscere e riportare un oggetto. Ad un certo punto, fermata tutta la "troupe" degli inquirenti, gli si domanda se riconosce un posto ed egli dice di riconoscere un pon-te, sotto il quale però, precisa bene, la notte del fatto scorreva meno acqua. "Quale riconoscimento d'un corpo di delittoì", esclama Manzoni parlando del grande riscon-tro trovato dagli inquisitori delle unzioni, allorquando ri-ferirono loro che "si son visti né luoghi abbrugiati alcuni segni di materia ontuosa tirante al giallo, sparsaui come con le deta". E tutto ciò di notte, con quel patema d'ani-mo, correndo alla massima velocità possibile, undici anni prima! Alla fine, Lotti riconosce una strada, che sarebbe quella da lui fatta inseguendo l'auto di Vanni e Pacciani, ma in senso inverso. Chiederei a qualche inquirente di ri-conoscere un pezzo d'autostrada da lui percorso in senso inverso, con tutta calma e in piena luce, il giorno prima.

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Finalmente ancora, a quanto pare da una collina contrap-posta, Lotti riconosce una casa diroccata e "subito" porta gli inquirenti alla buca nel muro ove sarebbe stata nasco-sta la pistola, che viene immediatamente cercata e natu-ralmente non trovata. Con quel "subito" essi credono di ammantare la verità, ma non fanno che scoprire la men-zogna. Come si può riconoscere con tanta rapidità e sicu-rezza un luogo visto al buio completo undici anni prima? "A/a il mantello dell'iniquità è corto; e non si può tirarlo per ricoprire una parte, senza scoprirne un'altra". Invece di controllare davvero ciò che Lotti dice, lo si pungola a dire qualunque cosa, purché giovi all'accusa. Ma il man-tello resta corto.

È certo che Pucci e Lotti mentono grossolanamente e puntualmente sugli unici particolari che riferiscono sugli omicidi (orari, che non collimano con quelli accertati, le povere ragazze che strillano, e che strillare però non pote-vano perché non ne ebbero il tempo). E ben difficile, allo-ra, pensare che nei loro racconti ci sia un benché minimo fondo di vero. Non è questo il luogo per stabilire perché e fino a che punto i due inventino o siano stati in un modo o nell'altro portati ad inventare: l'unica cosa sicura è che in-ventano sui pochi dati di fatto che espongono, a parte l'evidente inverosimiglianza delle situazioni che riferisco-no (compresa quella dell'ultimo omicidio, commesso no-nostante la grande arrabbiatura per la presenza di un nuo-vo non gradito adepto). Ma ore ed ore di interrogatori al tempo stesso divaganti e pressanti, condotti da un nugolo di inquisitori, tra pubblici ministeri e poliziotti (anche sette od otto insieme), non possono indurre una persona non troppo salda di mente, sola in tanto consesso, a dire qual-siasi cosa essa ritenga, a torto o a ragione, che si desideri che dica? Od a farsi più grande di sé? Stupisce, comunque,

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che nessuno faccia mostra di essersi finora accorto delle gravi deficienze dei racconti del Pucci e del Lotti: inqui-renti, difensori, giornalisti (a parte qualche isolato accen-no); neanche dopo la sentenza di secondo grado, che pure descriveva nei tratti essenziali anche le modalità e le ore degli omicidi. Anche questo è un segno dei tempi: si prefe-risce pubblicizzare qualche estemporanea sortita di un pubblico ministero, piuttosto che un meditato argomento di un giudice di secondo grado, o un dato di fatto da lui in-dicato. Mi vedo quindi costretto per amor di verità ("amicus Plato, sed magis amica veritas") a metterlo in ri-lievo io, perché qualcuno dica o spieghi qualcosa.

Sempre a quanto si apprende dagli informati giornali, una prostituta racconta che al feroce postino Vanni cadde-ro una sera nella corriera con cui veniva a Firenze dei vibratori, che, messi dalla caduta in moto, cominciarono a scorrazzare sul pavimento, con ilarità dei presenti. Gettare uno schizzo di fango sull'indagato pare non nuoccia; ma, andiamo, cosa c'entra tutto ciò con l'assassino delle coppiette, quello sì davvero feroce? E si racconta sempre che il postino la sera della programmata uccisione dei fran-cesi venne a cercar prostitute nei pressi della stazione del capoluogo con la solita corriera, per poi trovarsi, non si sa come, puntuale all'appuntamento con l'altro feroce com-plice, che nel frattempo era stato con le figlie ad una festa paesana. Ma andiamo! Si apprende anche dalle insufflate gazzette che nella perquisizione contestuale all'arresto vennero trovati in casa di Torsolo un fallo di gomma ed un coltello da cucina, a quanto pare molto affilato e un po' ar-rugginito: segno evidente, sembra si voglia suggerire, che era proprio il coltello usato undici anni prima per tagliare la tenda con quel sinistro rumore e praticare poi le escissioni. "Quale riconoscimento di un corpo di delitto!"

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Pare che in una delle ultime rivelazioni del solito Nesi, al solito diffusa alla stampa, si dica che una ventina d'anni fa il Vanni aveva un lunghissimo pugnale (che ora sarebbe misteriosamente sparito, a quel che si tende ad insinuare). Ma bisognerà pur decidersi: il pugnale di circa mezzo me-tro, o il coltellaccio da cucina con lama di una ventina di centimetri, entrambi strumenti ideali per portarsi in tasca di nascosto e per usare poi come un bisturi?

La cosa più straordinaria, però, è più straordinario anco-ra è che nessuno l'abbia rimarcata, è che da mesi il Lotti sia tenuto e custodito - dormire, mangiare e forse soprattutto bere, e forse anche un mensile - in luogo a tutti ignoto, fuorché talvolta a qualche telecronista, come una gallina d'oro alla quale ogni tanto si vanno a chiedere le uova. Si hanno così le rivelazioni a rate, più o meno tra di loro con-traddittorie, e pare spesso che lo siano. Diceva già il Farinacci: "// complice che varia e contradice le sue deposi-zioni, essendo perciò anche spergiuro, non può fare contro i nominati indizio ... nemmeno all'inquisizione". Dicono gli inquirenti che egli è tenuto nascosto per salvaguardarne la sicurezza, ma non si sa bene da chi, dal momento che il Vanni è detenuto e che il Pacciani è come se lo fosse. D'al-tronde, non si vede miglior modo per tenerlo al sicuro che metterlo in prigione, sotto l'accusa di concorso in plurimo omicidio, avendo egli da tempo confessato, secondo la sua versione, di avervi avuto parte come informatore preventi-vo e come palo.

Allora, l'unica spiegazione che possa trovarsi al perdu-rare di questo stato di semi-teste-semi-indagato-semi-libe-ro-semi-detenuto, forse mai visto almeno in delitti comuni, è che ci si voglia servire del Lotti unicamente per colpire Pacciani e Vanni, che però sarebbero colpevoli solo un poco più di lui, a dar retta alle sue parole. Vien da credere

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che gli sia stata fatta balenare, in cambio delle sue rivela-zioni, una qualche impunità, forse per altri reati. Può darsi che io sia in errore, ma a me sembra che la nuova base d'in-dagine sia ancor più insidiosa di quella precedente e che possa esser fonte del moltiplicarsi di ingiustizie. Perciò non posso fare a meno di esternare le mie gravi perplessità. Che almeno si rifletta. E se finisse tutto in un colossale fiasco? Le indagini, poi, si possono e si devono fare. Quello che non si dovrebbe fare è propagandare, un giorno sì e uno no, le loro acquisizioni, come se si trattasse di risultati defi-nitivi, creando un'atmosfera di linciaggio morale, che po-trebbe tralignare in linciaggio materiale. Se trovassero qualcosa di solido d'ora in avanti sarebbe puro caso: per ora sono sabbie mobili.

Negli interrogatori del Lotti e degli altri testi dell'ultima ora sembra ci sia soffermati sulle prostitute, sul favoreggia-mento, o lo sfruttamento della loro attività e sui vibratori del Vanni più e più a lungo che sugli omicidi, come per cre-are un clima di torbida confidenza. La labilità mentale dei soggetti, la loro nulla moralità e la speranza di impunità o di vantaggi potrebbero costituire la spiegazione dei loro contorcimenti accusatori, anche se il Lotti finisce con l'ac-cusare pure se stesso, rendendosene o meno conto (per vedere se se ne rende conto basterebbe metterlo in prigio-ne davvero; pare quasi si tema che, posto di fronte alla re-altà, ritratti e preferisca l'accusa di calunnia a quella di con-corso in omicidi; sorge anche il dubbio che lo stesso timore induca ad evitare il confronto col Lotti richiesto, come suo diritto, dal Vanni. Ma se questo fosse il timore, la fiducia nell'accusa sarebbe scarsa; e il rifiuto sarebbe allora assai grave, perché vorrebbe dire che davvero "temevano di non trovarlo reo").

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La promessa di una certa impunità o di un alleggerimen-to della propria posizione è un forte strumento di pressio-ne, troppo spesso usato, ormai. Addirittura pare anche col Vanni, a quanto secondo i giornali avrebbe detto il suo di-fensore, senza che nessuno abbia smentito; gli inquirenti, dunque, trovatisi finalmente dopo tanti anni davanti ad un autore di così gravi delitti, avrebbero fatto a costui qualche promessa d'alleviamento: forse la prospettiva di trent'anni di reclusione, anziché l'ergastolo, a un uomo di quasi set-tant'anni. Certo che la promessa d'impunità, o di altri van-taggi, fatta o meno con riserva mentale, è un formidabile mezzo, se si pensa che il povero Piazza, che aveva resistito fino ad allora alle torture, si decise a chiamare qualcuno come correo, e la scelta cadde casualmente sull'altrettanto povero Mora, quando gli venne promessa in mala fede l'impunità "il Piazza dunque chiese, ed ebbe l'impunità, a condizione però che esponesse sinceramente il fatto... quan-do capì altro espediente non esservi per lui fuorché l'accu-sarsi e nominare complici, così avrebbe salvato la vita, e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni gior-no", annota il Verri. Giacché, prosegue poi Manzoni, "non poteva credere che fossero per abbandonare una preda, sen-za averne acquistata un'altra almeno, che volessero finire senza una condanna". Per questa forza di convincimento della promessa di vantaggi in secoli che noi consideriamo più arretrati dei nostri si diceva che "a chi rivela per la spe-ranza dell'impunità concessa dalla legge, o promessa dal giudice, non si crede in nulla" (Farinacci); e si citava la "re-gola che esclude il complice dall'attestare... perché colui che attesta per una promessa d'impunità, si chiama corrotto e non gli si crede" (Bossi, altro giureconsulto del '500). Le citazioni dalla Storia della Colonna Infame sono a questo punto troppe, ma l'opera è di straordinaria adattabilità al nostro caso e bisognerebbe citarla tutta.

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Potrà sembrare improprio prendere come riferimento un libro che trattava del problema della tortura, ormai legi-slativamente superato. In realtà, sotto forme più sottili, "la tortura c'è ancora", come dice Leonardo Sciascia nel com-mentare il libro da cui le citazioni sono state tratte a piene mani. Non ci sono più i canapi e le tenaglie, ma c'è un mi-scuglio composto dalla carcerazione preventiva, dalla reiterazione di estenuanti interrogatori, fatti da un gran numero di inquirenti tra magistrati e poliziotti contro uno solo indifeso, e dalle prospettive di impunità, rappresenta-te chiaramente o fatte baluginare.

La mistura trova il suo ambiente adatto, perché dopo l'arresto l'imputato è immesso in un tunnel, dal quale non potrà uscire che quando sarà posto davanti ai giudici del dibattimento, gli unici che potranno avere piena cognizio-ne dei fatti. Fino ad allora, i giudici che si occuperanno della sua situazione sapranno solo, in sostanza, quello che farà loro sapere l'accusa, senza possibilità di veri controlli. È questo il punto debole di tutta l'architettura del nuovo processo penale per la fase delle indagini preliminari.

Qualche tempo fa ho sentito alla televisione uno dei "personaggi" della magistratura, che ora fa il pubblico mi-nistero, menar vanto del fatto che non ricordo bene se nel 90 o nel 95% dei casi i Giudici per le Indagini Preliminari (G.I.P.) ed i Tribunali del Riesame (detti, assai pomposa-mente, "della Libertà") accolgono le loro richieste. Non si tratta, però, di prova a favore della credibilità dell'accusa, ma di prova contro l'efficienza dei controlli nella fase pre-liminare. Semmai, la statistica andrebbe fatta con l'esito fi-nale dei giudizi, e credo che ci sarebbe molto meno da trar-ne vanto.

Nella fase dell'adozione dei provvedimenti, il G.I.P. si trova davanti solo la richiesta del pubblico ministero e gli atti da lui scelti. Né in questo momento, né in quelli succes-

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sivi, a meno che non venga proposto dalle parti un inciden-te probatorio (che però è soltanto una parentesi nella fase delle indagini preliminari e che non può che dare una visio-ne settoriale dei fatti), il giudice ha qualche potere autono-mo di controllo e può procedere di sua iniziativa al compi-mento di atti, come poteva fare il Giudice Istruttore del vecchio codice, per esempio sentendo personalmente i testi sulla cui deposizione si dovrebbe fondare il provvedimento restrittivo, o sentendo preventivamente l'indagato, se ritie-ne che egli sia in grado di portare elementi tali a discolpa da evitargli un'inutile carcerazione preventiva. Neanche il Tribunale della Libertà ha poteri autonomi, che gli permet-tano di esercitare un controllo. L'unico garantismo che il nuovo codice ha escogitato è quello della ristrettezza dei termini per la deliberazione: 10 giorni, neppure un minuto di più, dalla ricezione degli atti. Si ritiene, mettendo dei termini capestro di aver garantito l'indagato; in realtà la fretta si ritorce a suo danno, perché in quella fase, nel dub-bio, il tribunale tende a non pregiudicare l'indagine, specie se riguarda casi gravi.

Resterebbe il ricorso per cassazione, ma anche questo è un rimedio illusorio. Nel merito, la Cassazione non ha po-tere alcuno ed il ricorso può esser proposto per i motivi di legittimità tassativamente indicati, ossia, oltre che per pa-tenti violazioni di legge, per mancanza o manifesta illo-gicità della motivazione, quando, però, il vizio risulti dal testo stesso del provvedimento impugnato. Si tratta di vizi rari e quindi altrettanto rari sono gli annullamenti in mate-ria di libertà. Chi, senza poter conoscere gli atti processuali e se non ricorrono illegittimità clamorose, si sentirebbe di rimettere in libertà un indagato per gravissimi reati? Le pronunce della Cassazione sul punto sono giuridicamente ineccepibili, ma non vanno usate come una conferma della bontà, nel merito, della tesi d'accusa.

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Tutto questo sistema, quindi, ha solo l'apparenza della garanzia. Lo si potrebbe tollerare se, secondo le utopi-stiche previsioni del legislatore, il dibattimento si potesse svolgere nel giro di qualche mese dal fatto. Così come stan-no le cose, siccome già il primo filtro tra polizia e giudice, che dovrebbe esser rappresentato dal magistrato del pub-blico ministero, non filtra abbastanza, succede che quello che dovrebbe essere il primo gradino della fase di indagine resta anche l'ultimo e che, in pratica, il cittadino è nelle mani della polizia per un tempo troppo lungo.

Lo stesso personaggio di cui si è detto affermò nella stessa intervista che i magistrati del pubblico ministero si adeguavano, e si sarebbero sempre adeguati, alle prescri-zioni del legislatore. Il fatto è, però, che finora non vi si sono adeguati per nulla. Nella materia della custodia caute-lare, ad esempio, il legislatore di fronte ad evidenti forzature ha cercato di restringere sempre di più le maglie della discrezionalità, che già sarebbero state abbastanza strette se la norma fosse stata interpretata secondo ragione fin dall'inizio. Ma più il legislatore restringeva, più la prassi tendeva a forzare la lettera stessa della legge, cosicché il ri-sultato pratico è rimasto identico. E inutile usare nel testo della legge la parola "eccezionale" quando nella prassi si fa mostra di ritenere eccezionale anche il normale. Pure se il legislatore usasse delle iperboli, come straordinariamente, eccezionalmente eccezionale, le cose, volendo, in pratica potrebbero restare uguali.

La custodia cautelare in carcere, dice il legislatore, e già basterebbe, può esser disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata? Certo, sostiene l'accusa, ma nes-suna altra misura può ritenersi adeguata per uno che si so-spetta abbia commesso un reato di una qualche gravità. Non può esser disposta la custodia in carcere per una per-

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sona ammalata o ultrasettantenne, se non sussistono esi-genze cautelari di "eccezionale rilevanza"? Certo, ma si indaga per un grave reato. Il pericolo di fuga, dice il legisla-tore cercando di restringere, deve essere "concreto", e la Cassazione specifica che deve trattarsi di un pericolo "rea-le", effettivo e non solo supposto o immaginato, ancorato a concreti elementi da cui desumere una effettiva prepara-zione della fuga (in pratica, l'acquisto del biglietto o poco meno)? Certo, risponde l'accusa, ma l'indagato sfogandosi con un amico ha detto che se le cose si mettevan male se ne sarebbe andato in qualche paese esotico (l'esigenza caute-lare, in sé considerata a prescindere dalla gravità degli indi-zi di colpevolezza, ossia i concreti pericoli di fuga, di inqui-namento della prova, reiterazione del reato, per una sem-plice intenzione non ci sarebbe nemmeno, ma si finge che sia addirittura "eccezionale" se la cosa riguarda un ultra-settantenne). Deve esserci il "concreto" pericolo, desu-mibile dalle specifiche modalità del fatto o dalla personali-tà dell'imputato, della reiterazione di delitti analoghi a quello per il quale si indaga? Certo, ma l'indagato, benché persona incensurata, ha una funzione pubblica e "potreb-be" ricadere in delitti contro la pubblica amministrazione. Deve esserci un altrettanto "concreto" pericolo di inquina-mento della prova? Certo, ma quella funzione pubblica "potrebbe" agevolarlo nell'alterare le prove.

E facile, così, superare anche le più rigide barriere lin-guistiche. Se per assurdo il legislatore emanasse una norma interpretativa del vocabolario italiano, che specificasse qual'è il significato di "reale", parola derivante da "res", cosa, e che in italiano vuol dire che ha effettiva esistenza, in contrapposizione a possibile, immaginario, solo apparente, solo supposto, c'è da credere che le cose tuttavia non cam-bierebbero. Per esempio, quanto alle intercettazioni telefo-niche cosa potrebbe dirsi di più, dando alle parole il loro

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valore letterale, come le buone regole interpretative im-porrebbero, se non che esse debbono risultare "assoluta-mente indispensabili" ai fini della prosecuzione delle inda-gini? Eppure si trova modo di chiederle e di disporle pur-ché uno sia, o possa essere indagato, per una generica ri-cerca della prova, "ad esplorandum": "intanto - dice l'ac-cusa - sentiamo quel che dicono, può darsi che venga fuori la prova di qualche reato". Ma così facendo si violano la lettera e lo spirito della norma, arrivando a mettere sotto controllo poliziesco tutti e tutto. Le intercettazioni ambien-tali nel domicilio delle persone possono esser disposte solo se vi è fondato motivo di ritenere che "ivi si stia svolgendo l'attività criminosa", ossia quella che forma oggetto dell'in-dagine? Certo, sostiene l'accusa, ma può darsi che intercet-tando una conversazione tra amici venga fuori qualche re-ato, o anche solo un proposito di favoreggiamento (non sarebbe di per sé penalmente perseguibile, ma intanto l'in-quisito ed il suo amico sono messi in cattiva luce, e questo vale già quasi quanto una prova; per non parlare delle con-versazioni tra le mogli).

Ormai sono stati estesi oltre necessità e misura i sistemi di indagine dell'antimafia. Così anche per delitti comuni si usano le intercettazioni telefoniche e ambientali anche molto al di là di quanto consente la legge, si usano le "segretazioni", i pentiti, i programmi speciali di protezione, e così via. In tal modo si imbarbarisce tutto il sistema giudi-ziario, anche oltre i confini delle zone e dei casi di crimina-lità organizzata. Ma così la mafia ha già vinto. Purtroppo, forse nessuna civiltà giuridica potrebbe sopravvivere ad ol-tre un ventennio di emergenza, tra terrorismo, tangentoli e mafia, scaricata completamente sulle spalle della magistra-tura, sulle quali ora c'è chi prospetta di scaricare anche la repressione di una possibile guerra civile. Si deve invece

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cercare di restringere e non di dilatare oltre misura il meto-do di lotta dell'emergenza.

Se il legislatore non riesce ad arginare la prassi con le norme strettamente processuali in materia di libertà perso-nale, non gli resta forse che tentare di incidere sulle norme, relative alla prova, togliendo la possibilità stessa che la confessione sia considerata la "prova regina". Non è un tentativo facile, perché a rigore non sarebbe prova regina neanche ora, essendo previsto il reato di autocalunnia ed essendo richiesto dalla giurisprudenza più alta che la con-fessione sia creduta solo se ne risultino la veridicità, la ge-nuinità e l'attendibilità. Ma se nella prassi quotidiana gli in-quisitori cercano "non la verità, ma una confessione", come diceva Manzoni, bisognerebbe in qualche modo arrivare ad eliminare, come nel diritto inglese, ogni dignità di prova alla confessione, all'autoaccusa, con o senza accusa per i complici; che costituisce spesso il vero fine della carcera-zione preventiva, forma residua della tortura.

La legge non è un elastico che si può tirare dove si vuo-le; altrimenti è inutile essersela data come rimedio all'arbi-trio. Se si dilata oltre misura la norma, sia quella processuale che quella sostanziale, avendo di vista non quello che essa vuole, ma quello che persegue l'investigato-re o il giudice (il quale ultimo non dovrebbe voler perse-guire nulla, all'infuori dell'applicazione della legge), si cade appunto nell'arbitrio.

La norma processuale è l'unica bussola che si abbia per navigare nel processo ed al giudice non resta che seguirla con rigore, senza utilizzarla a suo piacere per ricorrere ad astuzie ed "escamotage", come quello che si pretendeva dalla Corte d'Assise d'Appello (alla quale si è rimprovera-to di non aver disposto una qualche perizia, inutile ai fini della decisione ed utile soltanto a guadagnar tempo, per

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vedere dove andava a parare il nuovo viscido filone d'inda-gine). La norma sostanziale, quella che prevede le figure criminose, deve essere anch'essa osservata con rigore nella sua lettera e nel suo spirito, perché altrimenti non vi è cer-tezza alcuna nel diritto e si può far diventare reato, o quel certo reato che più fa comodo all'inquirente (ad esempio contestando una concussione quando al massimo potrebbe profilarsi un abuso d'ufficio), ogni comportamento umano.

Ora, per esempio, e così si torna al nostro caso, l'accusa ricorre all'espediente di configurare il reato di associazione per delinquere all'unico scopo, a quel che sembra, di far rientrare nell'indagine l'imputato che è stato assolto in ap-pello dai reati per commettere i quali l'associazione sareb-be stata costituita. Parrebbe chiaro che se non fosse per ri-mettere Pacciani nel gioco, e possibilmente dentro, a nes-suno sarebbe venuto in mente di ipotizzare un'associazione finalizzata a commettere, in un arco di tempo lunghissimo, degli omicidi a fine di libidine del tipo "lustmord".

I periti di Modena, sulla base di conoscenze ed esperien-ze di carattere mondiale, non per loro semplice supposizio-ne, hanno escluso l'ipotesi di concorso di più persone nei delitti presi in esame. È da escludere, infatti, essi dicono, un'azione di carattere "collettivo", tipo violenza di gruppo, che in genere implica violenza sessuale vera e propria e può comprendere atti sadici, ma non arriva mai al "lustmord" vero e proprio. Anche i delitti commessi in coppia sono in questo ambito molto rari e nella letteratura scientifica tedesca vengono riportati pochi casi, che in real-tà sono violenze sessuali sadiche con successivo omicidio attuato per conseguire l'impunità e non per provarne pia-cere. Nella letteratura scientifica anglosassone vengono descritti alcuni casi di "lustmord" commessi da due omici-di, che però implicano sempre scarsa sistematicità di azio-ne, elementi contraddittori e ridondanza di comportamenti

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sadicolesivi. Infine, notano i periti di Modena che se i delit-ti fossero stati commessi in coppia si sarebbe manifestata una maggior varietà di lesioni e di modalità d'azione, e che, ultima osservazione sul punto, appare difficilmente confi-gurabile una coppia di "lustmorders" che continua ad agire per un tempo così lungo sempre allo stesso modo.

Di certo ancor più difficile e remota appare l'ipotesi di un concorso di altre persone che, secondo quanto si dice, sarebbero intervenute a turno a collaborare nell'esecuzio-ne di delitti così segretamente perversi, prima commessi da una persona sola, poi da due e poi anche da altre che si avvicendavano nell'unirsi al capo, senza neppure conoscer-si tra loro, in un "logistico di guardoni", espressione davve-ro inusitata e ben poco comprensibile nella sua formulazio-ne poliziesco-burocratica. Un'associazione deve avere un inizio, un momento in cui almeno tre persone, che è il mini-mo richiesto dalla legge, si mettono d'accordo per commet-tere una serie indeterminata di delitti. La giurisprudenza non richiede che tutti gli associati si conoscano, ma richie-de almeno che, quando vi sia stato un mutamento dei membri, l'associazione sia sempre stata composta da un numero minimo di tre persone e che l'associato debba es-ser consapevole di far parte di un sodalizio criminoso.

Le tre persone sarebbero state da ultimo Pacciani, Vanni e Lotti. Ma secondo le dichiarazioni di quest'ultimo, che a quanto sembra sono l'unica base dell'accusa, l'accor-do tra i tre sarebbe stato occasionale ed estemporaneo, con una specie di promozione sul campo del terzo adepto, pri-ma neppure avvertito del disegno criminoso che costituiva per così dire la ragione sociale del sodalizio. Sempre sulla base delle dichiarazioni del Lotti, a quel che si legge sui giornali (ma ai giornalisti queste notizie qualcuno le avrà pur fornite, tanto che del "logistico di guardoni" si parla contemporaneamente in vari giornali), vien fuori che qual-

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che anno prima l'associato sarebbe stato un altro, Giovanni Faggi. Costui, a quel che risulta finora provato, avrebbe avuto il torto di aver incontrato un paio di volte Pacciani nel 1979 o nel 1980 (su una imprecisione del Faggi nell'in-dicare l 'anno si fonderebbero tutte le illazioni; amicizia equivoca? amicizia sospetta? e, anche se così fosse, associa-zione per delinquere a scopo di omicidio?), di avergli rega-lato una tuta da lavoro, di risiedere a poco meno di un chi-lometro dal luogo in cui venne commesso uno degli omici-di, quello del 23 ottobre 1981 (allora sarebbero sospettabili tutti quelli che abitano nel raggio di un chilometro da tutti i luoghi degli omicidi?) e di possedere dei falli di gomma e di legno. Sembra che quello dei falli artificiali sia un gran segno distintivo, una specie di marchio della ditta dei "lustmorders".

Per il resto, oltre all'ultima rata delle propalazioni del Lotti, al quale della precedente partecipazione dello scono-sciuto - a lui - Faggi avrebbe parlato, chissà perché, uno dei presunti associati, non sembra ci sia nulla. E questo basta, tanto per assicurare sempre il numero legale, ad in-cludere tra gli accusati di così orrendi delitti uno di passag-gio? Se si crede davvero all'accusa, perché non lo si arresta come il Vanni? C'è da tremare.

Si è già detto all'inizio che la storia della criminologia potrebbe anche esser riscritta ed arricchita di nuove figure di perversioni e di patologie. Ma ci vuol altro che le dichia-razioni a scaglioni del Lotti. Può anche darsi che, contraria-mente a quanto finora conosciuto dalla scienza, possa esi-stere una associazione di "serial killers" a scopo sessuale. Può anche darsi che i nostri Pacciani, Vanni, Lotti e Faggi siano dei precursori di nuove forme di criminalità, degli innovatori, degli inventori.

Di solito i soprannomi colgono dati della personalità meglio di dettagliate analisi psicologiche. I soprannomi che

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abbiamo tra le mani sono il Vampa, Torsolo, Katanga, det-to anche Zampino, Garibaldi, Canapone, Ringo... L'analisi asettica del raziocinante e l'intuito dei paesani sembrano convergere verso le stesse conclusioni. Pare, quindi, non resti che ribadire, in conclusione, che per riscrivere ad un tempo un processo e la storia della criminologia ci vorreb-bero elementi ben più seri di quelli finora fatti trapelare sui giornali. D'altronde insistere a senso unico su un'indagine che si muove sulle sabbie mobili di una più che dubbia attendibilità fa trascurare le residue possibilità d'identifica-re il vero omicida, ammesso che sia ancora vivo, del che può a questo punto dubitarsi.

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APPENDICI

L'editore ringrazia i periti per aver consentito la pubblicazione di estratti di loro elaborati.

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Estratto della Perizia criminológica sui delitti dal 21-8-1968 al 29-7-1984

redatta dai periti Prof. Francesco De Fazio, Prof. Ivan Galliani

e Prof. Salvatore Luberto

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(omissis) Il caso in esame (omicidio Locci - Lo Bianco) diventerà, in

seguito, uno dei punti chiave dell'intera vicenda delittuosa, po-sto che le indagini balistiche hanno attribuito tutta la serie dei sette duplici omicidi ad una stessa arma da fuoco, una pistola cai. 22, che ha sempre sparato proiettili che sembra appartengo-no ad una stessa partita in quanto presentano caratteristiche co-struttive analoghe.

Da rilevare, tuttavia, che in questo caso non si registrano le-sioni di tipo traumatico diretto sul corpo della donna (abrasioni, ecchimosi, contusioni, ecc.).

Di per sé considerato, dunque, il caso in esame non si qualifi-ca come omicidio sessuale. Manca un qualsiasi interesse per le parti sessuali, non sono state usate armi da taglio né ci sono se-gni di violenza di altro genere sui corpi, in vita o in morte; nessu-na attenzione sembra essere stata prestata dall'omicida ad og-getti presenti sulla scena del delitto.

Non è possibile stabilire con certezza quale delle due vittime sia stata colpita per prima. È possibile che ad agire sia stata un'unica persona, posto peraltro che la dinamica del fatto non ha comportato atti tali da far ipotizzare il concorso di più perso-ne.

Chi ha commesso questo delitto, dunque, anche nell'ipotesi che sia l'autore dei successivi delitti, non sembra sia stato mosso da motivazioni sadico-sessuali, bensì da motivazioni comuni; motivazioni cioè che portano a desiderare la eliminazione fisica delle vittime, secondo una modalità ed una dinamica psicologica del tutto svincolata da elementi sessuali abnormi e, ancor più, da impulsi sadistici...

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Occorre sin d'ora formulare l'ipotesi che questo primo delitto abbia costituito, per l'autore o per qualcuno che vi ha assistito, uno stimolo qualificato per una ulteriore evoluzione in senso criminoso di motivazioni che sono alla base della dinamica dei delitti. Vale a dire che l'aver compiuto tale delitto (anche se per motivi inerenti alle passioni e/o alle debolezze umane, di per sé stesse non necessariamente abnormi o patologiche) o l'avervi as-sistito da "complice" non materialmente esecutore, anche da semplice "spettatore", può aver innescato un processo psicologi-co di slatentizzazione di impulsi sadico-sessuali, che ha poi con-dotto alla perpetrazione di altri delitti, con ben diversa matrice motivazionale.

Sono noti nella letteratura scientifica casi in cui tale processo di slatentizzazione e di successivo passaggio all'atto si sono veri-ficati in soggetti senza alcun precedente comportamentale speci-fico, per il solo fatto di aver letto sul giornale il resoconto di par-ticolari delitti; si trattava però, in questi casi, di delitti la cui de-scrizione, per la tipologia delle vittime (ad es. bambini) e per le modalità della dinamica materiale, suggerivano direttamente ed inequivocabilmente le componenti "sadico-sessuali", e trovava-no quindi il loro potere suggestivo nel fatto di costituire rappre-sentazioni "dirette" di fantasie ed impulsi latenti.

Il caso in questione (omicidio Locci-Lo Bianco) non può aver avuto tale potere di influenzamento che per due vie-stimolo, entrambe qualificate; la prima, come si è detto, costituita dal-l'aver assistito al delitto; la seconda, di meno intuitiva compren-sione, ma di non minor efficacia psicologica, consistente nel pos-sesso dello strumento lesivo (l'arma da fuoco) unitamente alla conoscenza (diretta, o secondo una ipotesi psicologicamente non inverosimile, anche soltanto mediata) delle circostanze e della situazione in cui fu usata.

Come si dirà in modo più approfondito in seguito, molto spesso il delitto sessuale in senso proprio (quello definito "lustmord" nella letteratura scientifica e nel diritto tedeschi, e che d'ora in poi designamo con tale termine) prima di divenire azione rimane a lungo un fatto puramente psichico, vale a dire che è a lungo oggetto di fantasie attivate a scopo di eccitazione e gratificazione sessuale, prima di venire effettivamente agito. Tali

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fantasie possono venire alimentate, rinnovate, stimolate, dal possesso tangibile di oggetti-feticcio, quali possono essere, ad es., oggetti appartenenti alla vittima fantasticata (o ad una pre-cedente vittima, nel caso sia già stata commesso un delitto) op-pure oggetti particolarmente pregnanti per la dinamica del-l'azione fantasticata, quale può essere per l'appunto l'arma o lo strumento con cui si fantastica di compiere il delitto.

In definitiva, di per sé stesso considerato, il caso Locci/Lo Bianco si discosta nettamente dai successivi fatti delittuosi sia per le dinamiche materiali che psicologiche, mentre appare lega-to ad essi da circostanze situazionali (coppia di amanti su un'au-to in un luogo appartato) e, soprattutto, dal mezzo lesivo usato (arma da fuoco), la cui costante presenza nella serie di delitti sembra poter assumere significati psicologici che vanno ben al di là di semplici questioni di funzionalità materiale e di opportuni-tà...

Il caso in esame (omicidio De Nuccio - Foggi) riveste una sin-golare rilevanza in quanto attesta una evoluzione della dinamica delittuosa messa in atto, che si specifica ancora più chiaramente in senso sessuale. Sono stati escissi, infatti, con mezzo molto ta-gliente, con colpi precisi e con tecnica sicura, il pube e parte del-la vagina; parti corporee che vengono poi portate via dall'omici-da, come avverrà in successivi casi.

La mutilazione, che sarà poi riproposta con tecnica analoga in altre due occasioni, sarà oggetto di una valutazione compara-tiva con le analoghe lesioni dei successivi casi in altra sede e ci si limita ora a registrare il precipuo interesse dell'autore per la cute e per i peli del pube rispetto alla vagina, di cui è parzial-mente asportata solo parte del grande labbro di sinistra.

La De Nuccio è stata colpita da cinque colpi d'arma da fuoco, dei quali solo due mortali perché diretti al collo, con interessa-mento della seconda vertebra cervicale, ed agli organi toracici (cuore e polmoni) raggiunti da un proiettile sparato a contatto, o comunque da distanza molto ravvicinata, come si può evincere dai segni di affumicatura sugli indumenti, in sede sottoscapolare sx. Gli altri tre colpi hanno raggiunto la regione mentoniera di striscio ed i due avambracci.

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Evidentemente la donna, colpita dopo l'uomo, ha compiuto dei movimenti attivi di difesa che potrebbero giustificare sia il fallimento della testa come bersaglio per quanto concerne il col-po di striscio al mento, che le ferite agli avambracci. Sembra co-munque evidente la scelta della testa come bersaglio primario e l'intenzione di provocare con certezza la morte dei due prima di iniziare il macabro rituale...

Come si è detto, questo delitto presenta evidenti caratteristi-che che lo qualificano come "lustmord", consistenti essenzial-mente nella asportazione del pube. Tralasciando le considera-zioni sul possibile significato sessuale dell'azione omicidiaria nella peculiare situazione (coppia di amanti su di un'auto in lo-calità appartata) - considerazioni che verranno svolte nella par-te riassuntiva - annotiamo tuttavia la irrilevanza ed accessorietà dell'uso dell'arma da punta e taglio nella medesima, ed il fatto che l'omicida non ricerca il contatto con la vittima nel compiere l'azione, se non nel "macabro rituale" dell'asportazione del pube, che viene condotto in maniera apparentemente preor-dinata e funzionale all'appropriazione del "feticcio", e senza se-gni che indichino una particolare "voluttà" nel compiere l'azio-ne né, tantomeno, nell'uso dello strumento tagliente...

L'arma da punta e taglio quindi non costituiva per l'omicida un 'oggetto privilegiato' nel compimento dell'azione, né uno strumento atto a procurare godimento, diversamente da quanto accade nella maggior parte dei "lustmord", in cui il contatto con la vittima agonizzante, o con il suo sangue che fuoriesce, produ-cono il godimento, e in cui vengono perciò privilegiate modalità omicidiarie che consentano un contatto fisico ravvicinato, quali appunto lo strangolamento o l'uso di un'arma da taglio. In que-st'ultimo caso le ferite appaiono in genere ampie e beanti, ovve-ro numerose ma per lo più superficiali e limitate ad un'area piuttosto ristretta, in quanto inferte in uno stato di eccitazione e di godimento sessuale che inducono a pochi atti spasmodici e "insistiti" oppure ad una gragnuola di colpi inferti in modo fre-netico.

Il fatto che ciò non avvenga nel caso in questione, né nei suc-

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cessivi, avvalora l'interpretazione già fornita a proposito del caso precedente (Pettini), in cui le numerose ferite da arma da taglio avrebbero potuto suggerire una simile dinamica psicologi-ca dell'azione, che va invece del tutto esclusa.

Mancano anche in questo caso segni di tentativi di violenza sessuale, né vengono descritte tracce di sperma sui corpi o sugli indumenti delle vittime...

In questo caso (Cambi - Baldi) emerge che l'omicida si è av-vicinato all'auto da destra, forse perché protetto da una vegeta-zione più fitta che lo poteva nascondere più a lungo nella notte meno buia rispetto ai casi precedenti per la diversa fase lunare (ultimo quarto), ed ha sparato avvicinandosi progressivamente all'autovettura. Oltre che da vari colpi di arma da fuoco le due vittime, in particolare l'uomo, sono state colpite ripetutamente con uno strumento da punta e taglio, probabilmente al fine di ottenere la certezza del risultato letale.

Sono stati spostati entrambi i cadaveri dall'auto, trovati poi uno sulla destra e l'altro sulla sinistra dell'auto, ma solo la don-na è stata oggetto di "ulteriori attenzioni" da parte dell'omicida. Negli altri casi, invece, il cadavere dell'uomo è stato sempre la-sciato nell'auto. L'attuale diverso comportamento non è facil-mente interpretabile ed è forse riferibile alla necessità di supe-rare difficoltà oggettive in ordine alla esigenza dell'omicida di poter disporre rapidamente del corpo della ragazza fuori dal-l'auto.

L'escissione dei tessuti pubici e perineali è eseguita anche questa volta con buona tecnica e la lesione presenta evidenti analogie con quella relativa al caso precedente. In entrambi i casi i margini sono netti e precisi ed è riscontrabile una analoga incisura sul margine destro del pube nella stessa posizione (ore 10).

L'area escissa è però questa volta decisamente più estesa, in-teressando anche i tessuti perineali fino alla regione perianale, mentre negli altri due casi, quello precedente del giugno 1981 e quello seguente del luglio 1984, essa è limitata alla regione pubica con parziale (1981) o totale (1984) rispetto delle grandi labbra.

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Da sottolineare che una così vasta escissione ha comportato problemi "tecnici" non facili, per cui il "ritorno" alla prima mo-dalità potrebbe essere correlato ad essi, o, più attendibilmente, ad una più difficile conservazione e/o utilizzazione di una parte anatomica più grande, più irregolare, più ricca di tessuto adipo-so, tanto che un frammento non piccolo di quest'ultimo è stato repertato sul luogo del delitto.

Da rilevare che l'esame del secreto vaginale ha escluso la pre-senza di spermatozoi e che si dà atto nella perizia medico-legale dell'assenza di impronte digitali sui cadaveri...

Ancor più appare evidente in questo caso che manca la ricer-ca di un contatto fisico con le vittime, anche quelle di sesso fem-minile; non solo non vi sono tracce di violenza sadica o sessuale di alcun tipo, (né tracce della ricerca di gratificazioni sessuali abnormi nel contesto dell'azione al di là del significato che in tal senso possono rivestire l'azione omicidiaria in sé e l'aspor-tazione del pube), ma sembra anzi ci sia il tentativo di limitare al minimo indispensabile il contatto fisico con la vittima; in tal sen-so possono essere viste le manovre di denudazione della vittima femminile, operate attraverso l'uso del coltello, senza alcuna manovra di svestizione manuale. Quest'ultima fu presente sol-tanto nel secondo caso (Pettini), e del tutto verosimilmente limi-tata alla asportazione della mutandina...

L'assenza di ferite di tal natura, cioè a tipo "mutilazioni sadi-che", spoglia di contenuto sessuale immediato la stessa asportazione del pube, nel senso che induce a vedere in questo atto un comportamento di per sé non istintuale, compulsivo o contestuale al godimento sessuale, ma un atto pienamente "fun-zionale" al possesso dell'oggetto feticistico.

Depongono per tale interpretazione la freddezza, la raziona-lità, la precisione con cui viene compiuto l'atto, nonché ovvia-mente la mancanza di eviscerazione vera e propria (i visceri in-fatti non solo sono lasciati in situ; ma non vengono né lesi ulte-riormente né manipolati) e di tutti quei comportamenti più tipici delle forme patologiche più gravi, che alludono a componenti istintuali antropofogiche, agite realmente o in maniera larvata...

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Il seno della donna non sembra costituire sinora oggetto di interesse da parte dell'omicida, né in senso sadico, né in senso libidico o feticistico. Dei tre casi finora esaminati (Pettini, De Nuccio, Cambi) soltanto nel primo si notano numerose ferite da arma da taglio ad entrambi i seni, presumibilmente inferte in vita come altre ferite all'emisoma superiore, in uno stato emoti-vo di ira o di rabbia, con l'intento di conseguire l'esito letale per cui non erano stati sufficienti i colpi d'arma da fuoco. Nel secon-do caso il seno sx. presentava una piccola escoriazione, in quan-to attinto accidentalmente da un frammento di vetro o di proiet-tile; la ferita d'arma da punta e taglio che ha attinto nel terzo caso la zona sottomammaria sx è stata evidentemente inferta con l'intento di raggiungere una zona vitale. In tutti e tre i casi mancano ferite che suggeriscono l'ipotesi di un tentativo di escissione.

In questi tre casi, dunque, a parte il significato che può rive-stire di per sé la dinamica omicidiaria, l'interesse dell'omicida era rivolto prevalentemente, se non esclusivamente, al pube come oggetto-feticcio, come oggetto libidico capace di polariz-zare l'interesse sessuale...

È evidente che in questo caso (omicidio Migliorini-Mainardi) la dinamica materiale non può essere ricostruita con esattezza; sembra come di poter evincere globalmente alcune importanti deduzioni.

1) L'agilità, l'abilità e la freddezza con cui è stata portata a termine l'azione fa ritenere che l'omicida, anziché essere scon-certato e scoraggiato dall'imprevisto (di qualunque natura esso sia stato) ne sia stato per così dire stimolato, tanto da farlo rea-gire con un maggior sforzo di prontezza e precisione;

2) Il fatto che non abbia infierito sulle vittime con l'arma da taglio neppure per assicurarsi del loro decesso, da un lato ribadi-sce la scarsa importanza che riveste l'uso di. tale strumento nel-l'economia psicologica dell'azione delittuosa, dall'altro può de-notare un tratto psicologico di notevole importanza: il crescere del senso di sicurezza, con parallelo decremento delle precauzio-ni per quello che deve essere stato vissuto come un particolare insuccesso. Tale interpretazione è avvalorata, se non dal possibile

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'spreco' degli ultimi due colpi sparati in direzione dei fanali, in quanto ciò potrebbe essere avvenuto in momenti precedenti del-l'azione, dal fatto che il tempo impiegato dall'omicida per toglie-re le chiavi dell'auto del cruscotto e gettarle lontano dall'auto, avrebbe potuto essere utilizzato per "finire" le vittime a coltella-te.

Questo tratto allude a sentimenti di grandezza incrementati dai "successi" omicidiari ed è senza dubbio indicativo di tratti di personalità di tipo paranoicale, anche se non consente deduzioni circa la loro effettiva modalità di manifestazione nella struttura psichica globale, sia in senso qualitativo (al di qua o al di là del limite patologico in senso nosografico), sia in senso quantitativo (di quanto incidano nell'economia globale della personalità);

3) Il gesto di togliere le chiavi dall'auto dal cruscotto e di get-tarle nel campo è evidentemente privo di significato e di finalità materiali, ed ha un valore puramente psicologico, quasi fosse un gesto spezzante di vittoria e di trionfo...

Il luogo ove il delitto è avvenuto si differenzia dagli altri per essere in prossimità di una strada provinciale piuttosto trafficata, ma va rilevato che la piazzola è circondata da vegetazione folta, al di là della quale potevano, in ipotesi, essere messi in atto i ri-tuali ormai consueti.

Le analogie tecniche, anche a prescindere dall'arma da fuoco usata, non lasciano spazio a molti dubbi in ordine all'attribuzio-ne di questo duplice delitto alla stessa persona che ha commesso i precedenti. L'imprevista reazione del Mainardi e le conseguen-ti manovre, cui l'omicida fu costretto per portare a termine il suo triste disegno, sembrano tali da avvalorare ancora una volta l'ipotesi dell'assenza di complici. Ove egli non avesse agito da solo, sarebbe stato logico aspettarsi l'intervento del (dei) com-plice (i) al verificarsi della situazione nuova ed imprevista della messa in movimento dell'auto sulla strada provinciale, con in-dubbi maggiori rischi...

In molti casi alcuni particolari circostanziali (ad es. lo stato dell'abbigliamento) suggeriscono decisamente l'ipotesi che la coppia si trovasse nella fase dei preliminari amorosi - come può

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essere accaduto anche in quest'ultimo caso - quando ha avuto inizio l'azione omicidiaria.

Si può affermare sostanzialmente che ciò è vero nella mag-gior parte dei casi. È però difficile e forse impossibile, stabilire se questo sia il frutto di una precisa scelta, o un evento del tutto casuale. È indubbio che è frutto di una precisa scelta il fatto che i delitti siano commessi su di una coppia e non su una persona singola, e che ciò deve avere un ben preciso significato psicologi-co, che si cercherà di analizzare più oltre; ove si riconoscessero altre condizioni situazionali e/o vittimologiche frequenti, il signi-ficato psicologico dell'azione si specificherebbe meglio nei suoi connotati.

È stata avanzata l'ipotesi che il momento d'inizio dell'azione venga scelto in funzione del fatto che nel corso dei preliminari amorosi si abbia uno stato di minor vigilanza da parte della cop-pia, in quanto concentrata sull'hic et nunc ristretto dell'atto amoroso, del desiderio e dell'eccitazione sessuale. Se questo fosse il ragionamento dell'omicida, allora la scelta cadrebbe più verosimilmente sul momento dell'orgasmo, o su una fase avan-zata dell'atto amoroso, quando ovviamente l'attenzione per il mondo esterno è minimale. Ma si può ipotizzare che questo modo di pensare presupponga una conoscenza ed una esperien-za diretta del comportamento amoroso, del coito, delle sue va-rie fasi e delle relative sensazioni, che forse l'omicida non ha, o per una globale distorsione della sessualità, o per modalità pe-culiari in cui questa può presentarsi nel soggetto in questione, anche per quanto attiene alle fasi di eccitazione, orgasmo ed eiaculazione.

Ma questi aspetti verranno trattati più oltre. La scelta quindi, ammettendo che scelta vi sia, può essere dettata o da fattori meramente circostanziali e di opportunità (una volta individuata e raggiunta l'auto, dopo essersi accertato dell'assenza di altre coppie o persone nelle immediate vicinanze, si impone l'esigen-za di risparmiare tempo e di passare subito all'azione); oppure può dipendere da un fattore psicologico, che può essere indivi-duato in questo caso nel desiderio di impedire o interrompere l'atto sessuale, desiderio o impulso che possono trovar posto nella psiche dell'omicida in modo conscio o inconscio: nel primo

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caso si potrebbe pensare a componenti "moralistiche" nella mo-tivazione delittuose...

Una ulteriore considerazione va qui introdotta, a proposito del problema della 'scelta' del momento d'inizio dell'azione e delle circostanze dell'azione; innanzitutto il fatto che l'interesse sia rivolto ad una coppia, nell'ambito di una azione che si conno-ta come "lustmord" è del tutto peculiare e statisticamente ecce-zionale se non unico. L'aggressione a coppiette, infatti, ha gene-ralmente il significato di uno stupro eterosessuale per lo più col-lettivo, spesso accompagnato da finalità appropriative, oltre che sessuali, non ha i connotati veri e propri del "lustmord", anche se si può manifestare con modalità brutalmente aggressive a ta-lora sadiche, quali ad es. sevizie in vita sulle vittime, specialmen-te quelle femminili, e l'eventuale esito letale è accidentale, o perseguito per assicurarsi l'impunità. In questo caso invece la scelta delle vittime e della situazione è tanto peculiare che deve necessariamente esserle attribuita una importanza psicologica fondamentale.

Ci limitiamo in questo momento, a tale proposito, al vaglio di una ipotesi, che si pone ormai in grande evidenza: la situazione, il "set" omicidiario, pone inizialmente l'autore nella posizione del "voyeur": cioè nella 'posizione' di chi, per motivi inerenti in senso lato al desiderio di appagamento di una sessualità distorta, spia - non visto - una coppia in atteggiamento amoroso. Parlan-do di 'posizioni' intendiamo ovviamente non solo la collocazione materiale dell'omicida nel campo d'azione, ma soprattutto certi aspetti del suo 'habitus mentale' e del suo modo di porsi di fron-te alla sessualità: si tratta cioè di una persona in cui l'atteggia-mento e la situazione voyeristici suscitano attrazione ed eccita-zione, entrano nella fantasia sessuale, sia in quelle che accompa-gnano generalmente la gratificazione sessuale, sia ovviamente, in quelle che precedono l'azione omicidiaria, e contribuiscono alla premeditazione e alla preparazione materiale dello stesso, all'aumento della soglia del desiderio o della compulsione all'at-tuazione.

Vi sono però alcuni aspetti delle modalità, dell'esecuzione dei delitti che contraddicono l'ipotesi che l'omicida sia essenzial-

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mente un voyeur nel senso usualmente intenso nell'ambito della nosografia delle perversioni, vale a dire in termini di struttura psicologica legata alle modalità ed abitudini per il conseguimen-to dell'eccitazione e della gratificazione sessuale. Già di per sé il compimento di un duplice atto omicidiario, vale a dire l'estrin-secazione di un atto in cui vengono convogliate ed agite elevate cariche sadistico-aggressive, mal si concilia con la struttura psi-cologica del voyeur, che è connotata essenzialmente da passivi-tà, ed assimilabile perciò in un certo senso alla personalità masochistica, e che nella ricerca di gratificazione sessuale si col-loca in una posizione passiva in cui le cariche aggressive (e, se si vuole, sadistiche), sono investite e convertite nell'azione del guardare senza essere visti, nella quale generalmente si appaga-no e si esauriscono. Inoltre, va considerato che, nei casi in esa-me, di fatto (casualmente o per scelta dell'autore dei delitti) l'at-to sessuale viene generalmente impedito e ciò contrasta con quanto ci si aspetterebbe da un 'voyeur', vale a dire da una per-sona che trae la massima eccitazione e la più intensa gratifi-cazione sessuale dall'atto di spiare un rapporto sessuale; in quanto un individuo siffatto indulgerebbe all'attesa del compi-mento dell'atto sessuale, o del suo pervenire ad una fase avanza-ta allo scopo di aumentare l'eccitazione sessuale.

Se ne deve quindi concludere che difficilmente, quantomeno all'epoca dei delitti commessi dall'81 in poi, l'omicida ha manife-stato abitudini di voyeur. Queste, invece, potrebbero essersi manifestate in passato, sia pur in forma peculiare e, per così dire, transitoria, o quali primissime manifestazioni di una sessualità distorta, poi evoluta più chiaramente in senso sadico, o come modalità strumentale, sussidiaria alla produzione e vivificazione di fantasie sadiche non ancora attivamente agite. Si è già accen-nato all'ipotesi, ovviamente non dimostrabile (cfr. caso Locci-Lo Bianco), che il primo omicidio abbia in qualche modo innescato i meccanismi psicologici che hanno in seguito condotto alla ela-borazione fantastica, alla preparazione ed alla estrinsecazione delle successive azioni delittuose con le modalità descritte. Se tale ipotesi ha fondamento, i comportamenti voyeristici possono essersi manifestati nel periodo che va dal primo al secondo delit-to, o negli anni immediatamente successivi al secondo delitto...

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Il caso (omicidio dei tedeschi Meyer-Rusch) presenta indub-bie analogie con gli episodi precedenti (a parte l'uso della stessa arma, stesso modus operandi) ma si differenzia da essi per mol-tissimi altri aspetti, di cui non è agevole fornire una interpreta-zione.

L'omicida ha operato, come in quasi tutti gli altri casi, in una notte di novilunio, in circostanze simili (vettura in luogo appar-tato abitualmente frequentato da coppie) ed, a quanto è emer-so su base balistica, ha usato la "solita" pistola per uccidere le due vittime, sulle quali poi non ha infierito in alcun modo, cir-costanza quest'ultima che da un lato convalida l'ipotesi del co-stante disinteresse dell'omicida per le vittime maschili, e dall'al-tro fa pensare ad un suo "errore" iniziale nella scelta delle vit-time per cui, quando si accorse si trattava di due giovani uomi-ni, potrebbe essersi allontanato senza compiere nessuna azione ulteriore.

Va sottolineato in proposito che uno dei due giovani portava i capelli lunghi, con foggia femminea, tanto da poter essere scambiato, ad uno sguardo superficiale, per una donna.

Nella fattispecie bisogna supporre che l'omicida si sia reso conto, immediatamente dopo aver terminato l'azione omici-diaria, di trovarsi di fronte a due cadaveri di sesso maschile, ed abbia a quel punto receduto da ogni ulteriore azione. Va ulte-riormente sottolineato, a questo punto, il fatto che, quando l'omicida non procede ai suoi macabri rituali, poco gli importa di "accertarsi" della effettiva morte delle sue vittime; il che accen-tua il significato di "ridondanza", ossia di precauzione pleo-nastica ed eccessiva che l'uso dell'arma da taglio riveste negli altri casi, sia per quanto attiene alle vittime di sesso maschile che a quelle di sesso femminile. L'uso dell'arma da punta e taglio acquista sempre di più il significato "rituale", legato alla rigida prefigurazione della "seconda parte" dell'azione, quella cioè mirata all'escissione del pube, che viene eseguita in modo mec-canico e predeterminato: qualche colpo alla vittima di sesso ma-schile, qualcuno alla vittima di sesso femminile, mirati a punti vitali, trasporto del cadavere della donna in un punto ove sia agevole operare con maggiore occultamento, taglio degli indu-menti, escissione del pube...

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Nel caso in questione, dunque, non sembra che l'omicida ab-bia eseguito molte manovre, all'interno del veicolo, né per ac-certarsi della morte effettiva delle due vittime, né per "verificar-ne il sesso", come se già sapesse di trovarsi di fronte a due perso-ne di sesso maschile...

Sembra opportuno premettere che la dinamica materiale è stata, nel caso in esame (omicidio Rontini-Stefanacci) condizio-nata in una certa misura dalle più sfavorevoli condizioni logistiche nelle quali l'omicida ha operato: era possibile raggiun-gere, e con difficoltà maggiori rispetto agli altri casi, solo il lato destro dell'auto, lo spazio di movimento disponibile intorno al mezzo era scarso e relativamente accidentato, la visibilità era molto scarsa perché, come del resto in quasi tutti gli altri casi, era una notte di novilunio.

L'omicida ha usato sia un'arma da fuoco che un'arma da pun-ta e taglio, indirizzando i proiettili al capo della vittime e vibran-do successivamente colpi da punta e taglio ad entrambe, proba-bilmente nell'intento di essere sicuro dell'esito letale dell'azione. Le due vittime, in particolare la Rontini, ha presentato però un sia pur breve periodo di sopravvivenza.

Contro lo Stefanacci sono stati esplosi quattro proiettili, uno dei quali a vuoto perché ha danneggiato solo i pantaloni appog-giati nell'auto; contro la Rontini sono stati esplosi probabilmen-te due colpi, uno solo dei quali ha attinto la donna al capo, men-tre l'altro, oltre tutto non certo, l'ha ferita solo ad un avambrac-cio.

In totale l'omicida ha quindi esploso 5 o 6 colpi, di cui solo uno indirizzato al capo della Rontini, e sembra che abbia prefe-rito colpire poi i due con l'arma bianca invece di continuare a sparare gli altri colpi che potenzialmente il caricatore avrebbe dovuto ancora contenere. Il problema acquista maggior rile-vanza se visto alla luce dell'anzidetto, sia pur breve, tempo di sopravvivenza che, nel caso dello Stefanacci (colpito poi con die-ci colpi di arma bianca), era evidenziata chiaramente dal vomito seguito ai primi colpi. Una prima ipotesi potrebbe riguardare l'indisponibilità di altri colpi nel caricatore o una intenzione di risparmiare munizioni (l'omicida ne ha sparato finora più di cin-

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quanta); ma una seconda, e forse più verosimile ipotesi, potreb-be concernere l'intenzione dell'omicida di non voler rischiare più di tanto che i colpi venissero uditi da qualcuno nelle vicinan-ze, posto che egli "sapeva" che avrebbe impegnato più tempo nell'esecuzione del "suo" rituale, sia perché più complesso in quanto comportava anche l'asportazione della mammella, che per le maggiori difficoltà logistiche nel trasporto del cadavere.

In tali condizioni era evidentemente maggiore il rischio di essere sorpreso sul fatto da chi avesse udito i colpi e si fosse di-retto in quella zona.

Il soggetto non si è limitato questa volta ad asportare l'area pubica, con tecnica analoga ai casi precedenti, ma ha esteso la mutilazione del cadavere, con tecnica altrettanto "buona", al-l'intera mammella sinistra. Il che pone, accanto ai difficili pro-blemi interpretativi, anche quello della destinazione dell'organo, tenuto conto delle difficoltà di "conservazione" di esso, a causa dell'abbondante tessuto adiposo...

Alla donna sono stati riservati pochi colpi, complessivamente uno (o due) da arma da fuoco e due da taglio, tutti mirati a punti vitali, e apparentemente inferti col preciso scopo di conse-guire rapidamente un esito letale. Il corpo della donna è stato poi trascinato in uno spiazzo a sei sette metri dall'auto, nascosto dall'alta vegetazione, qui è stata compiuta la doppia escissione. Gli slip sono stati incisi con lo strumento tagliente, gli abiti no, in quanto verosimilmente la ragazza, al momento di inizio del-l'azione omicidiaria, non portava più i calzoni (che sono stati rinvenuti nell'auto) e si era tolta o stava togliendosi sia la blusa che il reggiseno, forse ancora non completamente sfilati dal braccio e dalla mano dx., ai quali sono stati trovati impigliati. Depone per questa ipotesi il fatto che alcune ferite della ragaz-za non trovino corrispondenza sulla camicetta (ad es. la grossa ferita escoriata al braccio sx., verosimilmente causata da un frammento di vetro o di proiettile).

Anche in questo caso, quindi, la manipolazione del corpo del-la vittima si sarebbe limitata al minimo indispensabile. Non sono state trovate tracce di violenza e di abuso sessuale sulla ragazza, come negli altri casi.

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Si impongono a questo punto alcune considerazioni circa le escissioni, quantomeno sotto due profili: uno riguarda il loro si-gnificato e la loro finalità, un secondo circa l'evoluzione del ri-tuale, con asportazione della mammella oltre che del pube.

Generalmente l'asportazione di parti del cadavere corrispon-de ad una incapacità da parte dell'omicida a compiere l'atto ses-suale in sito, che può venire però sostituito da atti masturbatori, compiuti per lo più sulla vittima, manipolando questa o serven-dosi dei suoi vestiti. In tutti i casi esaminati, tuttavia, non si è tro-vata traccia di sperma, il che avvalora l'ipotesi che l'omicida non compia alcun atto masturbatorio o sessuale sostitutivo. Ciò de-pone per una sessualità completamente (o quasi) narcisistica, che si appaga esclusivamente in fantasia o nella rievocazione e/o riproduzione di situazioni-stimolo, indipendentemente da un rapporto interpersonale diretto, e, ancor più, in modo relativa-mente indipendente dalle stimolazioni meccaniche sui genitali (quali avvengono appunto nel coito, nella masturbazione, ecc.).

È lecito quindi supporre nell'omicida un habitus sessuale connotato da una impotenza assoluta o da una accentuata inibi-zione al coito...

Per inciso, vengono descritti in letteratura scientifica casi di omicidio con asportazione di parti sessuali del cadavere, il cui autore è stato poi trovato in possesso di numerosi e svariati og-getti, da lui trafugati in diverse circostanze per impulso fetici-stico, ed evidentemente serviti per atti masturbatori (in possesso ad uno stesso individuo sono stati trovati: fotografie, forcine, reggiseni, fazzoletti, ed altro, persino feci!).

In riferimento al nostro caso, ciò significa che l'omicida può avere comportamenti appropriativi di stampo feticistico anche al di fuori delle azioni omicidiarie in esame, e conserva accurata-mente gli oggetti di cui entra in possesso. L'oggetto feticistico infatti è gelosamente custodito in quanto il rimirarlo e il manipo-larlo consentono l'eccitazione e la gratificazione sessuale, e ciò implica che sia possibile conservarlo. Si potrebbe dedurne, nel caso in questione, che l'omicida ha trovato il modo di conserva-re, cioè di preservare dal deterioramento organico, il feticcio costituito dal pube escisso; in tal senso deporrebbe anche l'accu-

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ratezza con cui viene condotta l'escissione, con asportazione del-la sola parte pilifera e cutanea e scollamento della parte adiposa, di impossibile conservazione e di più rapido deterioramento. Le conseguenze tecniche per tale tipo di operazione conservativa potrebbero in qualche modo essere mutuate dalla pratica (pro-fessionale o dilettantesca) di conservazione di animali impaglia-ti, o di "concia" di pelli di animale, pratiche entrambe piuttosto diffuse in Toscana, sia per la presenza di un fiorente artigianato (o industria) pellettiero, sia per la diffusione che vi ha la caccia...

Si sono introdotti, a questo punto, alcuni elementi utili per il secondo ordine di considerazioni, inerenti cioè all'evoluzione del rituale di escissione, con asportazione della mammella. Va annotato innanzitutto che non si tratta di un "cambiamento" nelle modalità di esecuzione del delitto e nelle sue apparenti fi-nalità, ma semmai di una "aggiunta", di un "perfezionamento", che non sottende quindi una modificazione notevole delle dina-miche psicologiche e delle motivazioni sottostanti al comporta-mento delittuoso (considerato in senso lato), ma semmai un de-siderio (o bisogno) aggiuntivo. Si è già detto che nei casi prece-denti (cfr. commento al caso Boldi-Cambi), il seno non costitui-sce oggetto di interesse (né sessuale né aggressivo) da parte del-l'omicida: l'evoluzione del rituale delittuoso può quindi corri-spondere ad una parallela evoluzione delle modalità di auto-soddisfacimento narcisistico, come se queste divenissero pro-gressivamente più simili alla simulazione di un qualche tipo di rapporto con una partner reale.

Al fatto in sé dell'asportazione della mammella non sembra comunque di poter attribuire alcun significato specifico relativo al caso in questione, dal momento che rappresenta in generale una delle mutilazioni più diffuse nei "lustmorders", e semmai più rara è l'asportazione del solo pube senza gli organi genitali, e peculiare del caso in esame sembra l'accuratezza della tecnica di escissione.

Che l'escissione della mammella sia finalizzata ad una qual-che forma di conservazione e non alla ricerca di un sadico soddisfacimento supplementare ottenuto con l'infierire sulla vit-tima, è attestato ancora una volta dalla cura, dall'attenzione,

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dalla precisione con cui l'operazione è stata condotta, non solo nelle fasi finali ed intermedie, ma anche in quelle iniziali, parti-colarmente meditate, a giudicare dalle numerose intaccature "di prova" riscontrate sul torace della vittima al margine superiore ed esterno della mammella escissa...

Come emerge dalle pagine precedenti, l'analisi seriata dei singoli episodi delittuosi ha progressivamente rafforzato l'ipote-si che tutti gli omicidi siano stati commessi dalla stessa persona, il cui modus operandi ha subito, negli anni, una sensibile evolu-zione, senza però perdere alcuni caratteri peculiari riscontrabili in tutti i casi, fatta eccezione per l'episodio del 1968 (Locci/Lo Bianco), la cui problematicità è stata ampiamente illustrata nel commento al caso.

In definitiva, l'ipotesi che sia stata una stessa persona a com-mettere i 14 omicidi (ipotesi che non si può dare per scontata, anche in considerazione del lungo lasso di tempo intercorso tra il primo ed il settimo duplice omicidio), si basa sostanzialmente sui seguenti dati:

- In tutti i casi, da quanto emerge dalle indagini balistiche, è stata utilizzata la stessa arma da fuoco e sono stati utilizzati pro-iettili provenienti da identiche partite di fabbricazione e commercializzate in epoca anteriore al 1968.

A parte la scelta ed il tipo dei mezzi lesivi (non può essere trascurato il significato assunto dall'arma da fuoco e da quella da punta e taglio, essendo l'impiego dei suddetti mezzi lesivi interpretabile secondo una prospettiva evolutiva, ma unitaria), va segnalata la ripetitiva scelta delle condizioni ambientali e si-tuazionali.

L'analisi delle dinamiche materiali dei delitti porta ad avalla-re l'azione di una stessa persona e ad escludere il concorso di complici. Al riguardo le situazioni impreviste verificatesi nel-l'episodio dal 1974 (sopravvivenza della Pettini dopo l'esplosio-ne dell'intero caricatore) ed in quello del 1982 (inaspettata mes-sa in movimento dell'auto da parte del Mainardi su una strada in genere trafficata) sono molto significative poiché in tali casi l'eventuale intervento di complici sarebbe valso a ridurre, so-prattutto in riferimento all'omicidio Mainardi, gli obiettivi mag-

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giori rischi nel condurre a termine l'azione da parte di una unica persona.

Per quanto concerne l'escissione di parte della regione geni-tale a danno di tre vittime di sesso femminile, l'ipotesi che sia stato uno stesso individuo a provocare tali lesioni, già attendibile per le peculiari caratteristiche "tecniche" di produzione delle stesse, trova un riscontro obiettivo nell'analisi elettronica delle relative immagini, che documenta inequivoche analogie tra le tre lesioni, reperto molto improbabile nel caso esse fossero state prodotte da persone diverse. Al riguardo una conferma speri-mentale si è ottenuta utilizzando un campione di venti soggetti (opportunamente selezionati, anche in riferimento all'esperien-za o meno di pratiche settorie), nei confronti dei quali è stata dimostrata una costane e significativa difformità di esecuzione dei "tagli".

Sulla base di tali dati, e prescindendo in questo capitolo da considerazioni di ordine criminologico sembra di poter afferma-re, con criterio di grande probabilità sino al limite della certezza pratica, che le lesioni genitali riscontrate in tre casi vanno attri-buite ad uno stesso autore, certamente molto abile nell'uso dello strumento da punta e taglio ma non necessariamente "esperto" in tecniche settorie o chirurgiche.

- Tenuto conto che nell'ultimo episodio del 1984 (Rontini) viene riproposta una estensione dell'escissione pubica sostan-zialmente simile alla prima del 1981 (De Nuccio), dopo l'espe-rienza della più vasta mutilazione dell'ottobre 1981 (Cambi), che ha comportato probabilmente maggiori difficoltà, verrebbe anzi da pensare ad una scarsa dimestichezza con problemi di natura anatomica e chirurgica. Un tale comportamento suggerisce inol-tre qualche considerazione in ordine al successivo uso del "fetic-cio", perché risulta evidente il maggior interesse per la cute e per i peli della regione pubica.

- A parte ciò, le predette lesioni si segnalano per una "tecni-ca" sicura ed omogenea (il taglio appare molto netto, come se fosse stato effettuto con una lama molto tagliente e con fredda decisione da parte di un soggetto pratico nell'uso dello strumen-to), posta in essere probabilmente da un destrimane, come sem-bra di poter evincere dalla costante presenza di una "incisura" al

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terzo superiore del margine pubico destro, probabile sede di partenza del taglio.

- Pur tenendo conto dei limiti dell'analisi elettronica di im-magine, dovuti all'assenza di alcuni parametri di riferimento, si può affermare che le analogie riscontrate quanto alla forma, al perimetro, alla profondità ed all'area delle tre lesioni, possono valere a documentare l'ipotesi iniziale che l'autore dei delitti sia sempre la stessa persona.

Prendendo ora in esame la dinamica materiale dell'azioni compiute dall'omicida nelle diverse situazioni, sembra di poter cogliere una progressiva modificazione del modus operandi e, parallelamente, un "miglioramento" della tecnica, man mano che l'omicida si è reso conto delle effettive possibilità e dei limiti dell'arma da fuoco di cui dispone.

In particolare, si ha l'impressione che sino all'episodio del 1974 l'omicida non avesse ancora una cognizione sicura del po-tere d'arresto della sua pistola, tanto che sceglie come bersaglio preferenziale il torace della vittima, scontando, in particolare nel caso della Pettini, inconvenienti tutt'altro che modesti. Dal 1981 in poi, invece, mira preferibilmente al capo, spara a volte colpi a distanza ravvicinatissima e/o fa uso dell'arma bianca per essere certo dell'esito letale. Il bisogno di esser certo dell'uccisione del-le vittime risulta particolarmente evidente in due episodi che seguono quello del 1974, ma compare anche negli altri casi, seppure in forma meno eclatante.

Tutto ciò, limitatamente all'uso dell'arma da fuoco, potrebbe far pensare ad un soggetto non espertissimo, al più dedito al tiro occasionale, con discrete doti naturali di tiro più che con espe-rienza consumata, che però ha poi "appreso", divenendo capace di valutare bene le potenzialità della propria arma, tanto da spa-rare ai due giovani tedeschi nel 1983 attraverso la lamiera della carrozzeria del furgone, conseguendo effettivamente l'intento.

Non sembra tuttavia che "il miglioramento" raggiunga livelli particolarmente elevati, ovvero di tipo "professionale, poiché l'omicida, nelle fasi iniziali delle sue azioni; esprime costante-mente un comportamento piuttosto disordinato: è mobile, non sfrutta vantaggiosamente l'elemento sorpresa, tende a "spreca-re" proiettili con un tiro rapido ed istintivo...

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Sembra pertanto opportuno ipotizzare anche l'eventualità di uno stato di "eccitamento" dell'omicida nella fase iniziale del-l'azione, peraltro unico momento, in cui il soggetto utilizza l'ar-ma da fuoco.

Diversa sembra invece la condotta dell'omicida quando usa l'arma bianca, di cui è indubbiamente più esperto: identicandosi un primo tempo puramente strumentale, perché finalizzato a "fi-nire" le vittime o ad assicurarsi dell'esito letale, a volte "ad abuntantiam"; ed un secondo tempo in cui adopera lo strumento da punta e taglio con fredda determinata precisione per i suoi macabri rituali sulle vittime di sesso femminile, rituali che risul-tano limitati ad alcuni casi forse perché impreviste circostanze estranee hanno interferito limitando l'azione progettata. In tali situazioni l'omicida fa un uso metodico, meditato tecnicamente preciso del mezzo da punta e taglio, come dimostra la più volte richiamata nettezza dei margini, la sostanziale uniformità di cer-te lèsioni e, a volte, l'esecuzione dei tagli di prova, quasi che avesse timore di "rovinare" il feticcio da asportare. Ciò lascia supporre uno stato di "calma e di freddezza" (evidentemente contrastante con la supposta "eccitazione" iniziale) nonostante il tempo richiesto per lo spostamento del corpo della vittima fuori dall'auto e per l'esecuzione del rituale possa aumentare il rischio dell'arrivo di abitanti dei cascinali vicini, di altre coppie in auto nella stessa zona, di voyeurs, ecc. o di persone attirate dal rumore degli spari (se, a quanto pare, l'arma usata non è munita di silenziatore).

L'omicidio della Pettini (1974) segna l'esordio di un simile uso dell'arma bianca da parte dell'omicida, che prima ha finito la donna con una serie di coltellate inferte con rabbiosa energia e poi l'ha seviziata con innumerevoli colpi meno violenti, meno profondi e sempre meno disordinati; fino a circoscrivere abba-stanza nettamente l'area pubica, che sarà oggetto di precisa escissione nel successivo omicidio della De Nuccio (1981), non-ché in altri due casi. Da rilevare che anche prima di asportare la mammella sinistra della Rontini l'omicida ha probabilmente ef-fettuato alcuni "tagli di prova" nella regione circostante, sede di piccole lesioni da taglio superficiali che non sarebbero altrimenti facilmente interpretabili.

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Anche relativamente all'uso dell'arma bianca emergono dun-que elementi comuni ai vari casi, tali da suggerire la presenza di analoghe caratteristiche di strumento e d'uso, difficilmente riscontrabili nell'ipotesi di una esecuzione da parte di persone diverse...

Circa le caratteristiche corporee dell'omicida, tenuto conto delle "operazioni" da lui svolte nei vari casi e, spesso, su terreni scoscesi e/o accidentati, possiamo affermare che si tratta di per-sona dotata di una discreta forza fisica (il che fa pensare più ad un uomo che ad una donna) e di una certa agilità. Basti pensare che ha più volte trascinato e trasportato fuori dall'auto le vittime femminili e, in un caso, anche quella maschile, senza evidenti difficoltà.

Inoltre, posto che i fori di ingresso dei proiettili sparati contro il furgone dei due giovani tedeschi sono situati ad un'altezza da terra compresa tra cm. 137 e cm. 140 e che, per quanto concerne il colpo sparato attraverso la lamiera della carrozzeria (cm. 137 dal suolo), si può ragionevolmente supporre una posizione "na-turale" di tiro, è possibile ipotizzare che l'omicida abbia una al-tezza sicuramente al di sopra della media, probabilmente di ol-tre cm. 180.

Tale ipotesi sembra trovare conferma nei dati emersi dal-l'analisi di alcuni particolari del caso successivo, Rontini/ Stefanacci, perché l'impronta di un ginocchio lasciata probabil-mente dall'omicida sulla parte superiore del fascione laterale destro della carrozzeria della Panda consente interessanti dedu-zioni. Va ricordato che sul gocciolatoio dell'auto, al di sopra del-la predetta impronta, sono state rinvenute impronte digitali, come se qualcuno avesse poggiato una mano al tetto dell'auto, poggiando un ginocchio contro la carrozzeria. L'altezza da terra del punto medio dell'impronta, che potrebbe corrispondere al punto medio rotuleo, è di cm. 55-56. Con riferimento alle tavole antropometriche di Rollet che consentono una sia pure generica determinazione dell'altezza ove si conosca l'esatta misura di un osso lungo (nel nostro caso la tibia) e tenuto conto che il valore riscontrato comprende, oltre la tibia, parte del ginocchio, il cal-cagno e la scarpa, può fondatamente presumersi un altezza note-

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vole di chi ha lasciato la predetta impronta, sicuramente supe-riore a cm. 180. Si pensi, al riguardo, che ad una lunghezza di cm. 43 della sola tibia corrisponde, in base alle tavole menzionate, una altezza di cm. 183 di un uomo...

In definitiva, l'analisi unitaria dei dati criminalistici e medico-legali che caratterizzano i singoli episodi delittuosi fornisce ele-menti utili per una valutazione globale della dinamica materiale dei delitti, che orientano verso una stessa persona (di sesso ma-schile, destrimane, altezza 1,80 o oltre, robusto, agile, discreto sparatore, abituato all'uso di strumenti da taglio, scaltro, abile, freddo nell'azione delittuosa, capace di far tesoro delle esperien-ze precedenti e di perfezionare l'opera delittuosa)...

Appare evidente che l'attuazione dei delitti in notti di novilu-nio (con una irrilevante variante nel 4° caso: ultimo quarto di luna), non può essere un fatto casuale, ma è una precisa scelta, dettata da cautela: il che depone per una precisa premeditazio-ne, e contrasta con ipotesi implicanti impulsività e pulsionalità incontrollata, o scatenamento dell'azione per effetto di stimoli circostanziali e situazionali. Alle stesse deduzioni porta il riscon-tro di una concentrazione dei delitti nei giorni di fine settimana (tranne nel 1° caso), qualunque sia il significato 'pratico' di tale scelta: la maggior probabilità di trovare coppiette, una migliore (o preclusiva) disponibilità di tempo da parte dell'omicida, la possibilità di avere a disposizione un giorno non lavorativo dopo il delitto, per effettuate le 'operazioni' atte a conservare le parti asportate, ecc...

Anche la scelta della località in cui il soggetto agisce non sem-bra affidata al caso, bensì dettata da una certa cautela, volta for-se ad evitare i rischi suscitati dall'effetto di allarme, di sospettosità e di all'erta che per molto tempo suscitano i delitti nelle zone circostanti: a parte il sesto delitto, tutti gli altri sono stati compiuti in zone piuttosto lontane da quella del precedente delitto, in una posizione pressoché diametralmente opposta, prendendo come punto di riferimento su di una carta geografica linee rette che passano attraverso la città di Firenze. Anche la situazione, il set del delitto, si presenta piuttosto costante, ed

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implica in una certa misura la scelta dei siti, quantomeno come ricerca di luoghi in cui possono trovarsi coppiette appartate in macchina (spesso vicino a luoghi di ritrovo, quali ad es. locali da ballo).

È molto verosimile che la ricerca impegni l'omicida per molto tempo, tra un delitto e quello successivo, sia che venga effettuata di notte che di giorno. È comunque subordinata ad un altro ele-mento, che rappresenta forse la costante più peculiare degli omicidi in questione: il fatto che le vittime siano sempre coppiette in atteggiamento amoroso.

L'unica eccezione è costituita dalle due vittime del 6° caso, due ragazzi tedeschi di sesso maschile, uno dei quali però porta-va i capelli lunghi, con foggia e taglio femminei, tanto da poter essere scambiato per una donna. Indipendentemente da ciò, si tratta di una unica eccezione, peraltro 'relativa', se si pensa al-l'identità del set situazionale con gli altri casi.

Va sottolineato che la letteratura scientifica in materia di omicidi sessuali riporta pochissimi casi di duplici delitti, e nessun caso in cui si manifestasse una specifica predilezione o una reiterazione di delitti su 'coppiette'. A parte sporadici delitti commessi da pluriomicidi su 'coppiette' accidentalmente e non per scelta, nell'ambito di sequenze delittuose in cui la vittima era preferibilmente una donna, sono descritti duplici omicidi di bambini, scaturiti da circostanze situazionali e non premeditati come tali...

Resta da esaminare l'ipotesi del concorso di più persone, ipo-tesi la cui attendibilità viene meno ove si faccia riferimento ai quattro delitti connotati sessualmente. Appare infatti evidente dalla modalità di esposizione dell'analisi dei casi e dalle conside-razioni sin qui esposte che riteniamo non sia possibile che questi delitti sessuali siano stati commessi da più persone, e ciò per al-cune considerazioni, sia di ordine generale che inerenti ai dati documentali, che esponiamo sinteticamente:

a) è da escludersi decisamente un'azione di tipo "collettivo", tipo violenza di gruppo, che in genere implica violenza sessuale vera e propria, può comprendere atti sadici (che sono di varia natura, espressione di diverse volontà ed intenzionalità lesive, e

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prodotti da strumenti diversi), ma non arriva mai al lustmord vero e proprio;

b) anche i delitti commessi in coppia sono, in questo ambito, molto rari: nella letteratura scientifica tedesca vengono riportati pochi casi, che in realtà non sono lustmord veri e propri, ma vio-lenze sessuali sadiche con successivo omicidio (con o senza scempio del cadavere, tipo depezzamento) attuato per consegui-re l'impunità;

c) nella letteratura scientifica anglo-sassone vengono descritti alcuni casi di lustmord commessi da due omicidi, che implicava-no sempre scarsa sistematicità d'azione, elementi tra loro giudi-cati contradditori (quali ad es. stupro e asportazione di parti di cadavere) ridondanza dei comportamenti sadico-lesivi e delle mutilazioni;

d) se i delitti fossero stati commessi in coppia si sarebbe ma-nifestata una maggior varietà di lesioni e di modalità d'azione, ed il "modus operandi" non sarebbe risultato così ritualizzato;

e) è difficilmente configurabile una "coppia" di lustmorders che continua ad agire per un tempo così lungo sempre allo stesso modo...

In campo criminologico, la letteratura scientifica più ricca in tema di omicidi sessuali in generale e di lustmorders in particola-re è quella di lingua tedesca; la casistica che vi è rappresentata indica chiaramente che si tratta di delitti non infrequenti nei Paesi germanici, diversamente da quando accade nei Paesi latini. Per questo il codice penale tedesco da tempo prevede in propo-sito diverse fattispecie di reato, circostanziate secondo le carat-teristiche comportamentali e psico-motivazionali dell'autore, tra cui è contemplato il "lustmord", vale a dire l'omicidio attuato allo scopo di soddisfare un proprio impulso sessuale in modo abnorme. Disponibilità casistica ed esigenze diagnostiche medi-co-legali, criminologiche e psichiatrico forensi, hanno consentito agli Autori tedeschi un notevole approfondimento delle tematiche connesse con tali delitti, ed hanno indotto a diffe-renziazioni e chiarificazioni, di cui la più completa appare quella di Berg, formulata nel modo seguente:

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a) omicidio involontario nell'ambito di atti sessuali; b) omicidio premeditato per motivi generici ed attuato insieme

con atti sessuali; c) omicidio commesso per consentire atti sessuali; d) omicidio commesso successivamente a un delitto sessuale,

per conseguire impunità; e) omicidio come culmine sadico di un atto sessuale; f) omicidio come equivalente sadico di un atto sessuale...

Riportiamo qui appresso la definizione e le connotazioni es-senziali delle principali entità nosografiche sulla base degli orientamenti tassonomici di prevalente ricorso nella letteratura:

a) Sadismo: Perversione caratterizzata dal condizionamento del piacere sessuale alla sofferenza prodotta ad un'altra persona (o ad un animale), mediante umiliazioni, crudeltà, percosse, le-sioni. Può esprimersi sotto forma di azioni brutali che accompa-gnano l'atto sessuale, oppure in forma ritualizzata, che implica la reiterazione di determinate "scene" o situazioni stereotipiche, all'interno delle quali si esplica l'atto sadico vero e proprio. Così come è essenziale la situazione-stimolo, in questi casi può essere di importanza fondamentale, per ottenere il piacere sessuale, lo strumento con il quale viene effettuata l'azione sadica (nell'am-bito del sadismo vengono classificati da Krafft-Ebing gli omicidi a scopo sessuale).

b) Masochismo: Perversione sessuale caratterizzata dal condizionamento del piacere sessuale alla sofferenza (fisica o morale) da parte del soggetto. Può accompagnarsi a forme di sadismo; questa forma combinata se la sessualità è vissuta essen-zialmente o esclusivamente in fantasia, può dare luogo a moda-lità masturbatone autolesive (anche fino alla morte per soffoca-mento, strangolamento, dissanguamento) attraverso l'utilizza-zione di un complesso strumentario autoerotico (si tratta di for-me che vengono anche definite automonosessualismo).

c) Feticismo: Perversione nella quale l'interesse sessuale è as-sorbito da un oggetto o una parte del corpo, la cui manipolazio-ne (e il cui possesso) possono divenire l'unica fonte di gratifica-zione sessuale. È di gran lunga predominante nel sesso maschile.

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Può accompagnarsi ad altre perversioni. Si parla di sado-feticismo quando è connesso ad azioni sadiche.

d) Esibizionismo: Deviazione sessuale, generalmente maschi-le, caratterizzata dall'esibizione dei genitali a terzi, come azione compulsiva, cui può essere condizionato il soddisfacimento ses-suale. Entra nelle manifestazioni di disordini mentali di diversa natura. Può accompagnarsi ad altre deviazioni sessuali.

e) Voyerismo (mixoscopia): perversione che consiste nel condizionamento dell'eccitazione sessuale dalla situazione di as-sistere all'accoppiamento di altri. Per la passività del soggetto nella situazione-stimolo, è stato a lungo considerata una sotto-specie di masochismo. Associata dalla Psicoanalisi all'esibizioni-smo sul piano psico-genetico, come difesa dell'angoscia di castrazione, ha comunque in sé aspetti sadici latenti, che posso-no divenire manifesti.

f) Omosessualità: perversione nella quale l'interesse sessuale è rivolto verso persone dello stesso sesso. Quando si accompa-gna a sadismo, queste è generalmente rivolto a persone dello stesso sesso.

g) Pedofilia-, perversione nella quale l'interesse sessuale è ri-volto ai bambini. Atti sadici su bambini, fino all'omicidio, non implicano necessariamente un orientamento pedofilo da parte dell'autore...

Tutto questo induce a ritenere che l'omicida abbia personali-tà abbastanza ben organizzata, capace sul piano comporta-mentale e delle relazioni sociali, discretamente integrato sugge-risce inoltre che non vi sia scelta delle vittime o conoscenza prece-dente di queste da parte dell'autore dei delitti, ma soltanto una scelta dei siti e dell'occasione propizia...

Per quanto attiene ad ipotesi generali circa la sessualità del-l'omicida, è importante anche il "ritualismo" accentuato delle azioni omicidiarie; le indicazioni tratte dalla casistica esaminata e dalle riflessioni su osservazioni scientifiche di vari Autori, sia di lingua tedesca che anglo-sassone portano alla conclusione che vi è un rapporto inverso tra grado di ritualizzazione degli atti omicidiari e sessualità agita nella vita comune.

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L'accentuato ritualismo corrisponde spesso ad una sessualità vissuta a livello di fantasia, specialmente attraverso la produzio-ne di fantasie sadiche che prefigurano l'atto omicidiario, e che da questo vengono in seguito alimentate. L'atto omicidiario as-sume in questi casi il significato di "equivalente sadico" dell'atto sessuale.

Del resto è evidente la mancanza di una sessualità agita sul luogo del delitto (mancanza di segni di stupro, o di abuso sessua-le, o di masturbazione): ciò depone per una sessualità in cui sia l'eccitazione che l'orgasmo sono più il portato di fattori psicogeni che non di stimolazioni genitali, ciò che in genere si accompagna ad una conrazione anatomica ed ormonale più vicina all'ipogenitalismo e, più in generale, depone per una tipologia d'autore che raramente è in grado di avere normali rapporti eterosessuali...

Il "feticcio", una volta asporto e probabilmente in qualche modo 'conservato', può essere utilizzato in tre modi:

a) semplicemente come oggetto da 'manipolare', in quanto di per sé fonte di eccitazione e soddisfacimento (se è più accentua-ta la componente feticistica), oppure in quanto atto a rivivificare nella fantasia la situazione delittuosa (nel caso sia più accentuata la componente sadica);

b) come oggetto rientrante nell'ambito di uno 'strumentario sado-masochistico, per atti complessi d'automonosessualismo; in questo caso il pube asportato potrebbe essere per così dire 'in-dossato' dallo stesso soggetto, per atti automanipolatori che do-vrebbero verosimilmente includere anche atti autolesivi, nel-l'ambito di una "finzione" sado-masochistica, nella quale il sog-getto gioca contemporaneamente i ruoli di vittima e di aggresso-re (questa ipotesi appare comunque la meno verosimile, in quanto meno conciliabile delle altre con il forte sadismo etero-diretto dell'azione delittuosa, anche se trova antecedenti similari in casi descritti da Berg);

c) come oggetto feticistico che acquista valore se inserito in una serie di azioni 'simulate', nell'ambito delle quali l'omicida finge una scena più o meno complessa, con una partner (o partners) immaginari.

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Tutte le ipotesi formulate non contrastano con l'estensione dell'escissione dal pube al seno. Volendo tradurre queste consi-derazioni in ulteriori ipotesi circa possibili comportamenti del-l'omicida, si può affermare che, nel caso dell'automonoses-sualismo, ci si può aspettare esiti autolesivi delle pratiche masturbatone (es. ferita da arma da taglio in zone circostanti il pube e i genitali), più che non comportamenti eterolesivi.

Nel caso di "finzioni" masturbatorie di diverso genere può entrare in causa invece materiale pornografico, tipo bambole gonfiabili.

Altri comportamenti ipotizzabili sono quelli che consentono all'omicida qualche forma di contatto con il pube femminile, in-dipendentemente dalla ricerca di rapporto sessuale. Possono entrare in causa in questo caso i comportamenti da "frotteur". L'omicida può avere inoltre, o aver avuto in passato, una profes-sione che gli consenta qualche forma di contatto con l'oggetto feticistico (infermiere, massaggiatore); in tale ambito può aver avuto 'noie' in passato per qualche comportamento di tipo frotteuristico su pazienti o clienti (richiami disciplinari, licenzia-mento)...

Gli elementi di valutazione esaminati concordano con quanto emerge dalla letteratura scientifica per quanto attiene ad alcune caratteristiche di fondo dell'autore di lustmord un soggetto che agisce scegliendo i luoghi e le situazioni ma non le vittime, che gli sono in genere sconosciute, sotto la spinta di un impulso ses-suale abnorme nel quale confluiscono cariche aggressive profon-de sessualizzate (sadismo sessuale) ed un desiderio sessuale (ad orientamento quasi sempre eterosessuale), che in genere non trova altre vie di appagamento se non quelle dell'azione sadica e delle fantasie sadiche masturbatorie, nell'ambito delle quali spesso si esaurisce la sua sessualità extra-delittuosa...

Le modalità dell'azione depongono comunque più per una ipo-sessualità che non per una ipersessualità, se non addirittura per una tipologia d'autore che raramente è in grado di avere normali rapporti sessuali.

Da ciò si può dedurre, in linea di massima, che le maggiori probabilità stanno per l'ipotesi che l'omicida sia un uomo non

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perfettamente integrato sul piano affettivo ed emotivo con una figura femminile. Il senso comune potrebbe suggerire ridut-tivamente trattarsi di uno scapolo, ma le connotazioni psicologi-che alle quali intendiamo far riferimento non corrispondono ne-cessariamente ad una condizione di stato civile, potendo rispec-chiare situazioni di convivenza e di rapporti con figure femminili le più diverse.

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Estratto della perizia criminológica sull'omicidio di Nadine Mauriot e Michel Kraveichvili

redatta dai periti Prof. Francesco De Fazio, Prof. Salvatore Luberto,

Prof. Ivan Galliani, Prof. Giovanni Pierini e Prof. Giovanni Beduschi

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(omissis) Il delitto Mauriot Nadine - Kraveichvili Michel (caso n° 8).

Il rinvenimento dei cadaveri è avvenuto lunedì 9 settembre, ma sulla base dei riscontri tanatologici l'epoca della morte è ri-sultata collocabile nella notte tra il 7 e 8 settembre 1985 (sabato/ domenica).

Le condizioni atmosferiche erano di cielo sereno; fase lunare di ultimo quarto.

Vittime: Kraveichvili Jean Michel, n. a Montpéliard (F) il 6.3.1960 e Mauriot Janine Gisel Nadine n. a Delle (F) il 16.3.1949, entrambi cittadini francesi, residenti in Francia; si tro-vavano in Italia per turismo.

Non è dato sapere da quanto tempo fossero in Italia e, in par-ticolare, da quanto tempo si trovassero nella zona di Firenze.

Caratteristiche del luogo: San Casciano Val di Pesa (FI) Via degli Scopeti, all'altezza del n. civico 124.

Il luogo è situato a Sud rispetto alla città, in prossimità della Certosa; vi si accede dalla via Cassia (loc. ponte degli Scopeti) ed è in prossimità della superstrada Firenze-Siena e del Casello Autostradale di Firenze-Certosa, per la distanza del luogo ri-spetto alle sedi degli altri delitti, si veda planimetria.

Il luogo del delitto è costituito da una radura (sopraelevata e a dx. rispetto alla strada comunale di cui al bivio anzidetto con la SS. Cassia), con un dislivello di mt. 3,35 circa rispetto alla comu-nale stessa. Vi si accede a mezzo di uno stradello in sterrato con leggera pendenza in salita, largo circa m. 6 e lungo circa m. 50.

Lo stradello di accesso è delimitato bilateralmente da filari di cipressi; a circa la metà della sua lunghezza, sulla sn., si diparte

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altro stradello di minori dimensioni, sempre in sterrato, che fini-sce a fondo cieco e separa circa a metà costa la radura dalla stra-da comunale. La distanza effettiva tra strada comunale e radura è di circa 21 mt. di pendio scosceso coperto da vegetazioni arbustiva bassa e rada.

La radura - di forma grossolanamente ovalare, estesa circa mt. 20x15 con maggiore asse parallelo alla strada comunale - è interamente circondata da vegetazione arbustiva, rada e bassa sul fronte contiguo alla strada e più compatta ed elevata sul fon-do e sul fronte di dx. per chi vi accede; completamente aperto ed in continuità aperta con lo stradello è il fronte d'accesso.

La parte dx dello spiazzo appare sepimentata da una siepe arbustiva piuttosto compatta che delimita nell'ambito della ra-dura stessa, un recesso budelliforme a fondo cieco di mt. 3x12,50.

Il fondo della radura è in terra battuta compatta ed è percor-so da numerose protuberanze lignee costituite da radici emer-genti degli alberi circostanti.

Lungo il margine sn. della radura (per chi vi accede), paralle-la e prospiciente la strada comunale sottostante è allogata una tenda da campeggio con ingresso rivolto all'accesso della radura stessa, seminascosta alla vita vista da un tronco di albero ad alto fusto.

Posteriormente alla tenda, lungo il medesimo margine è par-cheggiata l'autovettura VW Golf appartenente alle vittime.

I dati salienti caratterizzanti la scena del delitto sono compendiabili (oltre a quelli relativi ai cadaveri, descritti a par-te) in: a) rilievi relativi alla tenda:

lembi d'accesso alla tenda (in numero di tre: protezione metallizzata di superficie, teli costitutivi propriamente detti di coloré giallo, e telo di zanzariera, calato sul varco d'accesso) sollevati, con accesso anteriore aperto; lacerazione da taglio sul telo esterno, in corrispondenza della parte posteriore (opposto al fronte d'accesso), verticale, che interessa il telo pressoché per tutta la sua altezza, con margini non del tutto regolari.

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Bossoli: rinvenuti (nel corso dei vari sopralluoghi) in numero di nove, prevalentemente prospicienti la parte anteriore della tenda (dove si contavano, in numero di sei, di cui uno appena varcato l'accesso alla tenda) e due lungo il fianco dx., prospicien-te la radura, della tenda stessa.

Circa la dinamica dell'evento, limitatamente all'uomo, è da ritenersi che la vittima sia stata raggiunta primieramente dai col-pi d'arma da fuoco.

Successive, e comunque temporalmente ben distinte dalle fe-rite d'arma da fuoco (in ragione di un impossibile utilizzo con-temporaneo dei (due mezzi lesivi da parte dell'aggressore) si col-locano le ferite da arma da taglio, che presuppongono, ovvia-mente, l'avvenuto raggiungimento fisico della vittima (arrestata nella sua fuga sia dalla natura dei luoghi - la siepe di rovi difficil-mente superabile - che dalle precedenti lesioni - appunto da arma da fuoco - con conseguente shock psicologico e traumati-co).

Lo studio delle sedi e della direzionalità dei tramiti delle le-sioni da taglio autorizza a ritenere che in primis la vittima sia stata raggiunta a tergo dall'aggressore che impugnava il coltello con la mano dx e colpita al dorso da una prima coltellata (2. b) (senza esito, tuttavia, avendo attinto la 5a vertebra dorsale). Successivamente, aiutato eventualmente dalla retroflessione algogena del collo da parte della vittima, nella medesima posi-zione da tergo, l'aggressore può aver agito afferrando il collo della vittima con il braccio sn. ed affondando la lama del coltello - impugnato con la mano dx - in regione cervicale (ferita 2. d) (trapassandovi la trachea, senza colpire, a quanto sembra, il fa-scio nervovascolare relativamente retroposto su piani tissutali più laterali e più profondi) con un colpo vibrato quindi da dx a sn.

È verosimile che a questo punto la vittima, ormai esausta, sia stramazzata supina al suolo, offrendo il petto all'aggressore, che nel frattempo si sarebbe posto vis a vis con essa.

Il cambiamento di piano nei rapporti tra aggressore e vittima spiegherebbe l'opposta direzionalità dei colpi inferti al torace, rispetto a quelli vibrati al dorso ed al collo...

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Un'ipotesi ricostruttiva delle modalità dell'evento, relativa-mente alla donna, consente di ipotizzare come primarie le lesio-ni da arma da fuoco al volto, entrambe con tramite superficiale, le quali, in quanto palesemente "di striscio" rendono plausibile che la donna sia stata attinta dai colpi che le hanno prodotte, in primis, quasi accidentalmente, mentre a qualche titolo ella era in movimento e con un'azione necessariamente approssimativa; "a casaccio", da parte dello sparatore. Naturalmente la sostanziale identità della direzione dei due tramiti autorizza a ritenere que-sti primi due colpi in successione tra loro...

Non sono presenti nella donna lesioni da difesa agli arti, se-gno e conferma che la stessa era stata precedentemente messa fuori da ogni possibilità di reazione col colpo d'arma da fuoco al capo...

È da ritenere che il reo, giunto probabilmente sul posto con mezzo mobile lasciato parcheggiato a margine della strada co-munale che costeggia su di un piano più basso la radura del delit-to, abbia prima accortamente studiato il luogo di intervento, de-cidendo di operare sulla tenda dalla parte posteriore (elemento sorpresa) aprendosi un varco nel telo con uno strumento taglien-te (verosimilmente la medesima arma bianca usata per le succes-sive operazioni). Egli deve tuttavia aver trovato, quale fatto non previsto il secondo telo di riparo, (il che deporrebbe per una non piena dimistichezza con tende da campeggio) che da un lato avrebbe impedito l'accesso all'interno, dall'altro avrebbe evoca-to l'allarme degli occupanti...

Quale ulteriore sviluppo della dinamica operativa del reo, è da ritenere che esso si sia spostato rapidamente sul davanti della tenda, ponendosi in vista dell'accesso di questa; da qui infatti stava per uscire, (o era appena uscito), la vittima maschio; verso la quale l'aggressore deve aver esploso verosimilmente un primo colpo di pistola al volto (si vedrà all'autopsia che tale colpo in realtà non interesserà l'encefalo, esplicando quindi sulla vittima solo un effetto di shock traumatico doloroso ma non un vero e proprio potere d'arresto). Ciò darebbe ragione della fuga della

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vittima verso la macchia, la quale benché ferita al volto, sarebbe riuscita a percorrere la ventina di metri della radura. (È impro-babile, per i motivi che si sono detti in precedenza, che tale col-po sia stato esploso sul volto del maschio ormai riverso sul limi-tare della macchia; perché, in quel contesto, la vicinanza con il bersaglio avrebbe certamente provocato la penetrazione del proiettile in cavità cranica); d'altra parte ben 9 bossoli sono stati trovati in prossimità della tenda (parte anteriormente, parte sul fianco dx.), deponendo ciò per un'area di azione dello sparatore circoscritta a quella zona e, verosimilmente, in sequenza tempo-rale continua.

Al tentativo di fuga del maschio verso la macchia il reo deve aver reagito immediatamente, esplodendo altri colpi verso di lui, che ormai gli volgeva il dorso: a questo momento è possibilmen-te riferibile il colpo rinvenuto sulla parte posteriore del gomito dell'uomo (causativo e concausativo anche della frattura comminuta di omero).

Si pone a questo punto un delicato momento interpretativo in rapporto alla ristrettezza di tempi nei quali il reo si dev'essere trovato ad agire su due fronti da un lato, infatti, egli aveva la vittima femmina nella tenda, non sicuramente neutralizzata nel-le possibilità di fuga; dall'altro egli aveva la vittima maschio che, benché ferita, stava fuggendo, ancorché quasi alla cieca. Unica ipotesi possibile è che il reo, dimostrando la consueta prontezza di riflessi e lucidità mentale, oltre che una collaudata sicurezza nell'agire, abbia prima neutralizzato ogni possibilità di reazione della donna penetrando velocemente nella tenda e ferendola mortalmente al capo - assicurandosi l'inanimità della donna - e dandosi poi all'inseguimento del maschio il quale - a causa delle ferite di cui era presumibilmente portatore, del fattore sorpresa e disorientamento, della particolare natura del terreno che egli si trovava a percorrere a piedi scalzi - aveva possibilità di fuga certamente rallentate...

Anche la fase lunare del momento può essere coerente con le scelte fatte dal reo nei delitti precedenti: benché in questo caso, trattavasi di fase in ultimo quarto (il quale, precisamente a quan-to risulta dai lunari giornalistici, sorgeva alle 23,31 e tramontava

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alle 14,34 del giorno successivo); con che la luna veniva ad illu-minare, pur debolmente solo la seconda parte della notte: ipotizzando quindi che il reo abbia voluto scegliere il momento di massima oscurità, è da presumere che ciò sia avvenuto entro le ore 2 (il tempo alla luna di alzarsi utilmente all'orizzonte)...

L'ipotesi di una scarsa dimistichezza del reo in tema di "ten-de" camping potrebbe essere rafforzata dalla sua mancata valu-tazione che la tenda potesse essere costituita da due teli, con intercapedine interposta (come deporrebbe il taglio posteriore sul primo telo, con evidenti intenti d'accesso, frustrati dalla pre-senza di un secondo diaframma, tagliare il quale avrebbe potuto dire la fuga della preda, o la messa in atto di efficace difesa).

Non solo la tipologia e le modalità di produzione delle muti-lazioni sessuali, ma anche alcune significative circostanze situa-zionali, quali ad es. la scelta casuale delle vittime, la preordinata ed accurata individuazione del luogo in cui operare in una notte buia di un fine settimana, avvalorano del resto l'ipotesi che i delitti siano stati compiuti dalla stessa persona, suggerendo pe-raltro la più che probabile assenza di complici, in quest'ultimo, come negli altri precedenti casi.

A quest'ultimo riguardo si rileva, incidentalmente che in que-sta occasione l'omicida ha dovuto affrontare situazioni imprevi-ste e potenzialmente molto rischiose (come sia pure in misura minore, è accaduto in alcuni casi precedenti) che avrebbero comportato la collaborazione di eventuali complici, ove fossero stati effettivamente presenti...

In realtà il duplice omicidio della coppia francese è stato sco-perto quasi due giorni dopo, nel primo pomeriggio di lunedì 9 settembre, con maggior ritardo rispetto a tutti gli altri casi. Ciò può essere naturalmente accaduto in relazione alla nazionalità delle vittime la cui scomparsa non ha provocato l'immediato al-larme di un mancato rientro a casa per le giovani vittime, nei precedenti casi, in cui essere essendo residenti nella zona, l'allar-me era stato sempre suscitato poche ore dopo il delitto.

Si deve però rilevare che i due cadaveri sono rimasti sul posto per un'intera giornata festiva; ed è difficile immaginare che le

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persone, probabilmente affluite numerose in collina, non avreb-bero trovato prima i corpi, se essi non fossero stati lasciati in posizione riparata...

Va rilevato, infine, che per la prima volta il soggetto aveva probabilmente programmato quale atto successivo al delitto, la spedizione della lettera alla dott.ssa Della Monica: atto alla cui attuabilità non ha certo nociuto il ritardo con cui i cadaveri sono stati scoperti. Sembra infatti che la lettera sia stata prelevata dalla cassetta postale nella mattinata di lunedì 9 settembre, men-tre la prima notizia del duplice omicidio si è avuta nel pomerig-gio dello stesso giorno. Ritorneremo diffusamente su questo particolare episodio, limitandoci intanto a ricordare la laboriosa composizione dell'indirizzo a riprova della possibile prefi-gurazione dell'invio della missiva con il macabro reperto, tenen-do conto che essa può essere stata imbucata la stessa notte del delitto e prelevata solo il lunedì mattina a causa della giornata festiva...

Va inoltre ricordato che la prevalenza della sessualità fanta-stica rispetto a quella agita, avvalorata dalla conferma della ritualizzazione dei comportamenti sadici, può forse rendere con-to del progressivo compiacimento del soggetto nell'elaborazione di fantasie sadiche, fino alla prefigurazione dell'azione delittuo-sa, che assume quindi il significato di un "equivalente sadico" dell'atto sessuale...

Come abbiamo precedentemente detto, è pervenuta alla Pro-cura della Repubblica di Firenze una busta inviata alla Dr.ssa della Monica, in cui indirizzo, composto da lettere ritagliate da un giornale, conteneva un errore di ortografia. Nella busta era stato posto un piccolo frammento di tessuto organico, risultato poi di natura ghiandolare e certamente prelevato dal seno della vittima, incluso in un piccolo involucro di plastica molto sottile.

Le indagini esperite hanno consentito di accertare che la bu-sta fu prelevata dagli impiegati addetti al ritiro della corrispon-denza da una cassetta postale, sita in un borgo a media distanza dal luogo del delitto verso le ore 10 di lunedì 9 settembre. Gli

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elementi circostanziali riferiti suggeriscono, come molto proba-bile, l'ipotesi che attribuisce all'omicida la confezione e l'invio del reperto, forse la stessa notte del delitto.

Un primo problema concerne però l'individuazione del mo-mento in cui il soggetto ha deciso di raccogliere ed inviare il frammento di seno, essendo intuitivamente importante riuscire a stabilire se l'atto è stato predeterminato, oppure deciso nel cor-so dell'azione delittuosa, o addirittura deciso in un momento successivo, tenuto conto dei tempi e del fatto che l'omicida po-tesse disporre del "feticcio" dal quale è stato verosimilmente prelevato il frammento.

Non è evidentemente possibile dare a questo primo quesito una soluzione certa e ci si dovrà muovere necessariamente nel campo delle ipotesi più probabili, senza poterne escludere alcu-na.

Una prima ipotesi concerne la prefigurazione della specifica azione in esame, o comunque di un qualche atto di natura dimo-strativa e/o provocatoria, nell'ambito della preparazione, certa-mente accurata ed emotivamente significativa, del duplice omi-cidio.

In tale caso il fatto era stato già precedentemente program-mato e valutato ed è solo possibile che alcuni dettagli "tecnici" siano stati decisi nel corso dell'attività delittuosa.

Alcuni importanti aspetti della dinamica criminosa deporreb-bero a favore di una siffatta ipotesi, se interpretati nel senso pro-posto nelle pagine precedenti, posto che essi non sarebbero al-trimenti di facile definizione.

La confezione dell'indirizzo sulla busta, di non facile ed im-mediata esecuzione specie se si tiene conto delle precauzioni ne-cessarie ad evitare il rischio di fornire un qualche elemento di identificazione personale, e la supposta intenzionalità di ritarda-re il rinvenimento dei due cadaveri, potrebbero già risultare in-dicativi in questo senso. Non è pertanto molto attendibile, anche se teoricamente possibile, che il soggetto, nella fase di allontana-mento del luogo del delitto, abbia provveduto ad imbucare la lettera in una località relativamente lontana, quasi certamente non scelta casualmente, per confondere ulteriormente le indagi-ni o, comunque, per evitare di favorirle inconsapevolmente...

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Né si può escludere, sul piano delle mere ipotesi, che i suppo-sti maggiori rischi possono essere stati percepiti dal soggetto in termini di "sfida" alla sua onnipotenza, procurandogli stimo-lazioni aggiuntive ed un compiacimento altrettanto più intenso nella preparazione dell'impresa, tenuto conto di quanto si è det-to a proposito del prevalente ruolo dell'elaborazione fantastica.

L'invio del frammento di seno alla Dott.ssa Della Monica potrebbe allora assumere il senso di una risposta provocatoria o di un messaggio volto a testimoniare il macabro trionfo.

Non vanno però affatto sottovalutate le altre due possibilità menzionate, perché nessun elemento di fatto consente di esclu-dere con certezza che l'idea di inviare "il messaggio" possa esse-re nata durante l'esecuzione del delitto o successivamente, alme-no fino tutto il giorno dopo. Anzi, per un certo verso è più plau-sibile che le attività preparatorie alla spedizione della lettera (comporta "il prelievo" del piccolo frammento, attuato con buo-ne tecniche) abbiano richiesto "calma", "tempo", e "cautela".

In tale senso è evidente che le attività connesse alla compila-zione della busta, alla preparazione del frammento ed al deposi-to della lettera nella cassetta postale debbano essere state espletate il giorno successivo all'omicidio, nel quale l'omicida si dedica verosimilmente alle operazioni di conservazione dei fe-ticci asportati.

Non è in ogni modo possibile giungere a conclusioni certe e ciò non solo per l'assenza di elementi di valutazione sicuri, ma anche perché l'imprevista diffusione della notizia, da parte della stampa non ha consentito di tentare l'acquisizione di dati ag-giuntivi ed ha pregiudicato la verifica delle ipotesi sopra formu-late...

A quest'ultimo proposito le indagini praticate hanno consen-tito di stabilire con maggiore verosimiglianza rispetto al passato le caratteristiche dell'arma bianca: nel senso che si tratta presumibilmente di un coltello dotato di una lama robusta e con due fili di taglio, di cui uno forse zigrinato, corrispondente ad es. ad un modello sportivo...

(omissis)

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Estratto della perizia necroscopica sull'omicidio Claudio Stefanacci e Pia Rontini

redatta dai dottori Mauro Maurri, Giovanni Marello e Franco Marini

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(omissis) Posizione dei due corpi al momento del sopralluogo

Per quanto riguarda il corpo dello Stefanacci Claudio, è da rilevare che esso, al momento del sopralluogo medico-legale (h. 7 del 30 luglio 1984) si trovava ancora nella macchina e precisa-mente sul sedile posteriore opposto a quello di guida occupan-dovi però una posizione quasi centrale e quindi vicino alla linea mediana dei due sedili. Il corpo era rannicchiato in decubito la-terale sinistro con le anche simmetricamente flesse e discreta flessione anche delle ginocchia. Le braccia erano del pari flesse a livello dei gomiti e la sinistra sotto il tronco, a contatto quindi con le strutture dei sedili, la destra lungo il tronco sulla parte alta. Il cadavere appariva sommariamente vestito, ma al mo-mento del sopralluogo, anche per non ostacolare le indagini del-la Polizia e gli esami fotografici, non era possibile alcun ulteriore preciso rilievo.

Per quanto riguarda il cadavere della Rontini Pia Gilda, esso si trovava a circa 8 m. di distanza dalla macchina, sulla destra al limite di un campo di erba medica e di un sentieruolo che immette dal campo stesso verso la strada sterrata ove era par-cheggiata la macchina. Il cadavere si trovava in posizione supina su un fondo di terra con erba e con rovi con le gambe modica-mente divaricate, con l'arto superiore sinistro in posizione di abduzione per la scapolo-omerale e di flessione del gomito, così che in definitiva, la mano era chiusa a semi-pugno e si veniva a trovare subito al di sopra ed a contatto del vertice cranico. La faccia era ruotata nettamente sulla sinistra e lievemente flessa in questa stessa posizione. L'arto superiore destro era abdotto,

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quasi ad angolo retto rispetto al corpo con il gomito esteso e le dita semi-chiuse nelle quali erano impigliati alcuni degli indu-menti.

Posizione al momento dello sparo

Per quanto riguarda la ragazza, si ritiene che essa al momento in cui insieme al fidanzato fu sorpresa dall'assassino, si dovesse trovare sul sedile posteriore destro rispetto alla guida della mac-china e che essa fosse in quel punto della macchina in posizione semi-seduta supina. Non vi è infatti dubbio, che allorché essa fu raggiunta dal colpo mortale, doveva offrire alla bocca dell'arma la parte anteriore della faccia e del tronco e che appunto nel tratto anteriore della faccia sulla destra fu raggiunta dal colpo d'arma da fuoco che ne determinò la morte. È probabile che, come del resto si suppone sia accaduto per lo Stefanacci, la ra-gazza sorpresa dal rumore, dalla luce, dalla rottura del vetro della portiera di destra si sia istintivamente sollevata a sedere, offrendo così con nettezza ancora maggiore il bersaglio della faccia all'arma omicida. Si ritiene anche che, contrariamente a quanto è avvenuta per il ragazzo, la Rontini non abbia avuto si-gnificativi movimenti attivi pre-agonici nell'interno della mac-china dopo essere stata raggiunta dai due proiettili.

Se i due giovani furono uccisi nell'interno della macchina

Per quanto riguarda la ragazza, è sicuro che i colpi d'arma da fuoco (uno alla testa, l'altro all'arto superiore sinistro), la rag-giunsero quando essa era ancora in macchina, con ogni verosimiglianza nella parte posteriore dell'abitacolo). Sappiamo che il colpo d'arma da fuoco alla testa fu quello mortale, ma sap-piamo anche che la Rontini, subito dopo, fu raggiunta da alcuni colpi di arma bianca al collo, allorché essa, sicuramente priva di conoscenza, era però ancora viva. Può darsi perciò che le ferite da coltello, prodotte sicuramente dopo quelle da rivoltella, siano state inferte allorché l'omicida aveva già iniziato le manovre di

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trascinamento del corpo della Rontini fuori dalla macchina, ed è perciò possibile che la breve sopravvivenza abbia avuto termine quando la ragazza era già stata trascinata fuori dell'auto, forse solo parzialmente; è certo però che le ferite della schiena provo-cate da trascinamento sui rovi del fondo erano già mortali e per-tanto si ribadisce che la ragazza deve essere venuta a morte nella fase iniziale del trascinamento del di lei corpo al di fuori della macchina.

Per quanto riguarda lo Stefanacci, non vi è dubbio che anche egli è stato raggiunto sia dai colpi d'arma da fuoco, sia da quelli da arma bianca, allorché si trovava nell'interno della macchina. Non vi è del pari dubbio che egli, nella vettura, quando venne ferito a morte, doveva occupare il sedile posteriore al di dietro di quello di guida. È semmai solo da notare che il corpo dello Stefanacci dovette subire piccoli spostamenti dalla posizione ori-ginaria e che in parte alcuni di questi spostamenti, probabilmen-te quelli iniziali, furono attivi, determinati dall'impatto dei pro-iettili e dalle reazioni dolorose conseguenti alle ferite; altri, in parte, verificatisi subito dopo la morte, o in limine vitae, furono conseguenza di gesti compiuti dall'omicida e forse legati al trascinamento fuori della macchina del corpo della ragazza. In altre parole si può ritenere che la posizione di decubito laterale sinistro nella quale si trovava il cadavere dello Stefanacci al momento del suo rinvenimento, sia stata conseguenza di sposta-mento attuato dall'aggressore, che fra l'altro ha colpito reiteratamente la schiena del giovane con l'arma bianca provo-cando ferite post-mortali.

Direzione e distanza dalla quale furono esplosi i colpi

Il proiettile che penetrò nelle strutture facciali e craniche del corpo della ragazza, come emerso dalla autopsia, fu ritenuto nel-la cavità cranica, nella massa encefalica. Esso aveva una nettissi-ma direzione, dall'avanti indietro, risultò inoltre assai poco obli-quo da destra a sinistra per chi si ponesse di fronte alla ragazza e dal basso verso l'alto, a riprova che, allorché la ragazza fu rag-giunta dal colpo mortale, si trovava pressoché frontalmente ri-

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spetto alla bocca dell'arma dalla quale sono partiti i colpi ed in posizione leggermente più alta.

La distanza dalla quale furono esplosi i colpi non è esatta-mente determinabile, ma tenendo conto delle modalità secondo le quali con ogni probabilità si è verificato il duplice omicidio, tenendo anche conto che il vetro della portiera di destra fu in-franto da un proiettile e che nell'interno della macchina sono stati rinvenuti i bossoli, si ha motivo di supporre che la distanza sia stata breve, nell'ordine al massimo di uno-due metri. Si esclu-de comunque che i colpi possano essere stati esplosi a distanza minore e particolarmente si esclude che essi siano stati esplosi a contatto od a bruciapelo.

Eventuale sopravvivenza e possibilità di movimenti coordinati e finalistici

Per quanto riguarda la ragazza, si deve ricordare che a pre-scinderne dalle mutilazioni post-mortali, e dalle lesioni vitali, ma di entità trascurabile, all'arto superiore sinistro ed alla schiena risultò che essa era stata colpita da un colpo d'arma da fuoco alla guancia destra con penetrazione e ritenzione del proiettile nella cavità cranica. Inoltre i due colpi d'arma bianca al collo, con le-sione vascolare anche se non a danno dei vasi di calibro maggio-re. La ferita più grave fu sicuramente quella da colpo di rivoltel-la perché essa ha provocato non solo fratture craniche multiple, ma anche gravi lesioni dell'encefalo e del cervelletto, oltre tutto in assoluta vicinanza delle strutture del quarto ventricolo e del bulbo, la cui compromissione è da considerarsi incompatibile con la vita.

Se ne deve dedurre, quindi, che già il colpo d'arma da fuoco alle strutture cranio-encefaliche ha sicuramente determinato una immediata, profonda perdita di coscienza e della motilità volontaria, rivelatesi purtroppo irreversibili, per cui la ragazza non solo non è stata in grado di abbozzare alcun movimento di difesa, ma non ha potuto muoversi nemmeno minimamente, con assoluta impossibilità a compiere atti coordinati e finalistici. Ciò anche a prescindere dagli ulteriori danni e lesioni, con eventuali

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caratteri di vitalità che possano essere stati provocati dalla dupli-ce ferita al collo da lama di coltello.

Affermare come è stato fatto, motivatamente, che la perdita di coscienza seguì immediatamente al colpo d'arma da fuoco, non significa però necessariamente che anche la morte si sia ve-rificata immediatamente (o quanto meno a brevissima distanza di tempo) dal ferimento. Ci sono anzi alcuni reperti sul cadavere della ragazza che ci fanno sospettare il contrario e che cioè la perdita di coscienza e la cessazione irreversibile delle più impor-tanti funzioni vitali, ci sia stato un certo lasso di tempo, senza che vi sia stata peraltro una ripresa della coscienza od una atte-nuazione della sua gravissima compromissione.

I reperti cadaverici che fanno pensare ad una certa sopravvi-venza, sono rappresentati da: 1) emorragia nei due tramiti delle ferite da arma bianca al collo; 2) perdita notevolissima di sangue con emorragia interna

(bronchi e cavo pleurico) e soprattutto all'esterno (sul pianale della macchina, sugli indumenti, sul terreno sotto il cadavere);

3) presenza di edema polmonare e di modesto trasudato endo-pleurico, nonché di schiuma biancastra alle narici. I punti sub 1) e sub 2) possono essere, almeno parzialmente,

trattati in maniera congiunta. Si deve partire dal presupposto che, finché c'è vita, c'è circolazione del sangue, e quindi una fe-rita inferta in vita, provocando inevitabilmente lesioni vascolari, provoca anche uscita di sangue con emorragie interne e/o ester-ne variamente copiose ed abbondanti.

Al contrario, con il giungere della morte, cessa anche la circo-lazione e perciò una ferita inferta ad un cadavere, per. quanto grave ed estesa possa essere, non provoca uscita di sangue dai vasi che risultino lesi post-mortalmente.

Purtroppo i due punti di quanto ora enunciato, peccano per approssimazione, così come la suddivisione fra lesioni vitali e lesioni post-mortali pecca di schematismo: infatti è vero che con la cessazione della vita si ha anche quella di tutte le funzioni e quindi anche di quella respiratoria, ma è anche vero che non

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tutte le funzioni cessano immediatamente (né contemporanea-mente). Ne consegue perciò che si può avere emorragia, varia-mente copiosa, anche da ferite inferte "in limine vitae", allorché si ha cioè la residua sussistenza di funzione circolatoria. Non solo, ma la perdita di sangue, se esso specialmente rimane flui-do, si può avere da tessuti e vasi discontinuati, anche per un ap-prezzabile tempo dopo la morte, quando cioè avvenga per sem-plice gravità, cioè da ferite localizzate nelle parti declivi del cor-po.

Ben si comprende infatti, che lo Stefanacci, sorpreso dal-l'omicida, si sia presentato ad esso volgendosi verso il lato destro dell'autovettura con tutto il tronco in evidenza ed ivi, è stato colpito prima nell'emitorace sinistro e, quindi, nell'ipocondrio sinistro da due colpi d'arma da fuoco sparati in rapida successio-ne. In conclusione si può dire che lo Stefanacci ebbe al massimo un iniziale moto di sorpresa e di difesa, passando dalla posizione semi-sdraiata a quella seduta, immediatamente prima di essere raggiunto dai colpi d'arma da fuoco, risultati mortali. Essi deter-minarono una immediata perdita di coscienza, impossibilità a compiere gesti o movimenti, anche solo istintivi, e furono seguiti dalla morte nell'arco di pochissimi minuti, ovviamente senza al-cuna ulteriore possibilità di difesa.

Tanto per la ragazza, quanto per l'uomo, si può dire in con-clusione, che non ebbero alcuna possibilità di difesa e che lo sta-to di profonda incoscienza in cui essi entrambi piombarono dopo essere stati colpiti alla testa, determinò per entrambi solo un brevissimo periodo di sopravvivenza, nel quale fu pratica-mente impossibile qualunque tipo di movimento attivo o reattivo.

Causa della morte

Per quanto riguarda la Rontini, fermo restando che le gravi mutilazioni a livello della regione mammaria sinistra e della re-gione pubica e perineale sono sicuramente post-mortali, fermo altresì restando quanto è stato detto circa le due ferite da arma bianca inferte al collo, che sono da ritenersi provocate in limine

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vitae, è chiaro che, dato che la ferita da arma da fuoco a proiet-tile unico a livello dell'arto superiore sinistro fu pressoché tan-genziale ed interessò del tutto superficialmente i tessuti cutanei e sottocutanei, la morte non può essere dovuta che al colpo d'ar-ma da fuoco a proiettile unico che penetrò nelle strutture cranio-facciali dalla regione zigomatica destra, determinando ampio sfacelo cerebrale e quindi, morte proprio per lesioni ampie e di-struttive del sistema nervoso centrale.

Anche per quanto riguarda lo Stefanacci è da mettere in evi-denza che le ferite da arma bianca, ancorché numerose, sono tutte con caratteri di ferite in limine vitae". Le ferite da arma da fuoco al torace solo in parte risultarono penetranti e comunque non provocarono lesioni tali da poter da sole giustificare l'even-to letale. In realtà la morte è dovuta al colpo d'arma da fuoco che, penetrando dalla regione auricolare sinistra, ha interessato anche per questo soggetto, le strutture endo-craniche, con am-pio sfacelo della massa cerebrale.

Si deve pertanto concludere che tanto nel caso della Rontini Pia, quanto nel caso dello Stefanacci Claudio, la morte è dovuta a gravi lesioni cerebrali per proiettile d'arma da fuoco...

È probabile che questa fase dello strisciamento peraltro bre-vissima, non abbia prodotto lesioni o comunque lasciato tracce sul corpo della ragazza. La fase successiva del trascinamento si è svolta fuori della macchina, lungo un sentiero appena abbozza-to, e ricco tanto sul fondo quanto sui lati di sterpi, rovi, spine, erba e foglie. Gli sterpi ed i rovi hanno lasciato numerose evi-denti tracce sulla regione posteriore del tronco, sui glutei e sulla faccia posteriore delle cosce. Si tratta di graffi, per lo più paral-leli fra loro, a direzione longitudinale, privi di caratteri di vitali-tà, di cui alla descrizione autoptica ed alla iconografia acclusa. Questi graffi sono più numerosi alla schiena e lo sono assai meno sui glutei e sulle cosce. Essi indicano che il cadavere è sta-to trascinato in posizione supina e mediante sollevamento dalla parte delle caviglie. Del resto le tenui suffusioni emorragiche sottocutanee riscontrate mediante incisione all'altezza delle ca-viglie e descritte nel corso dell'autopsia potrebbero essere il ri-sultato di un affertamento manuale deciso, forte e discretamen-

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te prolungato, di un corpo con circolazione ancora in minima parte residua.

Il corpo deve essere stato sollevato da terra per un'altezza non notevole e deve cioè essere rimasto in contatto con i rovi del terreno, per tutta la regione della schiena, dei glutei e di un trat-to superiore della regione posteriore delle cosce. Se fosse stato sollevato in misura maggiore, sarebbero mancate le lesioni da strisciamento alle cosce e forse anche ai glutei. Ciò fa pensare che chi ha fatto strisciare il cadavere lo abbia fatto non stando eretto, ma più o meno curvo in avanti, con sollevamento delle caviglie della Rontini di pochi cm. e con azione lesiva da parte dei rovi, di intensità decrescente dalla testa verso gli arti inferio-ri. Il fatto che lesioni di questo tipo non si siano prodotte sul cuoio capelluto nella regione occipitale (che pure era quella che più direttamente e pesantemente poggiava e strisciava sul suolo) è da ascrivere all'azione protettiva esercitata dai capelli lunghi e folti di cui era dotata la ragazza.

I superficiali graffi della regione posteriore del corpo non hanno corrispettive lacerazioni sulla blouse perché questa, ap-punto per lo scrisciamento, si è sollevata verso l'alto, scoprendo appunto la cute della schiena. Le maniche, mediamente strette ai polsi, non si sono del pari sollevate verso l'alto e così non si è avuta alcuna lesione da strisciamento sulla cute degli arti supe-riori.

II rinvenimento di frammenti vegetali, foglie e fili d'erba fra la blouse e la cute e nello slip conferma lo strisciamento del cor-po in posizione supina.

Risposte ai quesiti

È pertanto possibile rispondere nei seguenti termini ai quesiti postici dalla S.V. Ill.ma: 1. L'epoca della morte è compatibile con una collocazione verso

le 22-22,30 del 29 luglio 1984. 2. Per entrambi la morte è stata determinata da ampie e distrut-

tive lesioni del sistema nervoso centrale.

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3. I mezzi responsabili della morte dei giovani sono da indivi-duarsi in un'arma da fuoco a proiettile unico.

4. I due giovani sono morti nell'autovettura. 5. Lo Stefanacci è stato attinto da tre colpi d'arma da fuoco (ol-

tre ad una ferita determinata da un frammento di proiettile), nonché da dieci colpi inferti con uno strumento da punta a taglio. La Rontini venne attinta da due colpi d'arma da fuoco, due colpi d'arma bianca, nonché venne mutilata nella regione mammaria sinistra e nella regione pubica e perineale.

6. Non vi fu alcuna possibilità di difesa. 7. Relativamente alla lesività riscontrata sul corpo dello

Stefanacci, si può affermare che i colpi d'arma da fuoco furo-no sicuramente inferti in vita, mentre i colpi d'arma bianca furono per lo più inferti in limine vitae. Per quanto riguarda la Rontini i colpi d'arma da fuoco furono sicuramente inferti in vita, mentre quelli da arma bianca al collo furono quanto meno inferti in limine vitae. La mutilazione mammaria sinistra e quella pubico-perineale vennero eseguite invece, sicuramente dopo la morte.

8. L'omicida si trovava vicino alla portiera laterale destra del-l'autovettura, mentre le vittime si trovavano entrambe sul se-dile posteriore: lo Stefanacci a sinistra e la Rontini a destra.

9. I colpi esplosi furono in tutto 6, di cui 2 attinsero la ragazza, 3 l'uomo ed 1 andò a vuoto, sui pantaloni dello Stefanacci. La direzione è per tutti da destra a sinistra, dall'avanti all'indie-tro e lievemente dal basso in alto, da una distanza di circa 1-2 metri.

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Estratto della perizia necroscopica sull'omicidio dei francesi

Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot redatta dai dottori

Mauro Maurri, Aurelio Bonelli e Antonio Cafaro

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Il sopralluogo è stato eseguito nel tardo pomeriggio del 4.9.1985.

Si tratta di una radura grossolanamente rettangolare di circa m. 13x33 con superficie sterrata più estesa longitudinalmente (per chi la guardi arrivando dal viottolo d'accesso) delimitata ai due lati e posteriormente da cespugli ed alberi.

A destra della suddetta radura e disposto parallelamente a questo esiste un altro spazio più piccolo di forma pressoché ovalare, sterrato e lievemente concavo.

Nel quadrante anteriore sinistro (sempre per chi guardi la radura con il viottolo d'accesso alle spalle) è parcheggiata un'autovettura Volkswagen bianca la cui fiancata destra rasenta i cespugli e la cui parte anteriore è rivolta verso il viottolo. Circa m. 1,5 al davanti della macchina si trova una tenda da campeg-gio biposto tipo canadese alta cm. 140, con una copertura di materiale impermeabile di color argento. L'apertura principale della tenda è rivolta verso il viottolo di accesso e presenta la cerniera aperta mentre quella secondaria rivolta verso la mac-china ha la cerniera chiusa. La parte posteriore della copertura presenta nella sua parte destra una soluzione di continuo a bor-di netti e lineari, obliqua in basso e a destra della lunghezza di cm. 40.

Sul terreno antistante l'apertura principale della tenda a cm. 80 da questa si trova una chiazza di sangue coagulato grossola-namente circolare del diametro di circa cm. 20.

All'interno della tenda sul materasso, in decubito laterale si-nistro giace il cadavere nudo e mutilato di una donna dell'appa-rente età di anni 35.

Nello spazio più piccolo, contiguo e parallelo alla suddetta 137

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radura, lungo circa m. 12 e larg. m. 5, esiste sulla destra una rien-tranza prodotta dal diradamento dei cespugli e dallo schiacciamento dell'erba con andamento discendente. In questa rientranza si trova il cadavere di un uomo nudo ed imbrattato di sangue, dell'apparente età di anni 30, supino con la testa rivolta verso lo spiazzo e gli arti inferiori sollevati che poggiano sui rami di un cespuglio all'altezza di 50 cm. da terra. Gli arti inferiori sono estesi, accostati e paralleli tra loro, gli arti superiori sono lievemente abdotti e poco divaricati dal tronco. In prossimità della testa si trova un contenitore di latta vuoto per vernici, il cui coperchio poggia sulla regione parietale destra dell'uomo.

Lungo il margine destro dello spiazzo si trova una chiazza di sangue coagulato delle dimensioni di circa cm. 30x40.

Si fa presente che si tratta di una prima sommaria descrizio-ne, cui fanno seguito osservazioni più dettagliate nel corso della relazione.

Posizione reciproca delle vittime e dell'omicida 1° - Posizione della ragazza e dell'omicida

I fori dei proiettili attraverso la zanzariera della tenda, la po-sizione dei bossoli rinvenuti indicano che lo sparatore si trovava al di fuori e di fronte all'apertura della tenda intesa convenzio-nalmente come anteriore, allorché, egli fece fuoco, colpendo a morte la M. D'altra parte l'altezza dei fori della zanzariera, le dimensioni della tenda, la direzione dei tramiti sul cadavere del-la M. indicano anche che l'omicida dovette flettersi sulle ginoc-chia, forse inginocchiarsi per poter vedere il bersaglio, che si tro-vava a terra, sul materasso o pochissimo sollevato da esso.

Per quanto riguarda la posizione della ragazza, assumendo che essa fosse regolarmente con la testa dalla parte dei cuscini, e non viceversa, e non prendendo in considerazione la ferita alla mammella sinistra dalla quale niente è possibile dedurre circa la posizione reciproca fra vittima e omicida al momento degli spari, si debbono ricordare due punti essenziali e che cioè tutti e tre i colpi al cranio avevano direzione da destra verso sinistra ed era-no pressoché paralleli all'asse maggiore del corpo. È chiaro quindi che la M., quando fu colpita doveva avere la parte destra

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della testa rivolta verso la zanzariera. Ciò è compatibile solo con una posizione prona della M. Se però la donna era distesa prona sul materasso, con la testa ruotata verso destra, i tre tramiti dei proiettili, sulla faccia e sul cranio, non avrebbero potuto avere la direzione parallela all'asse maggiore del corpo che essi in effetti hanno. Tale direzione con la donna giacente secondo l'ipotesi ora avanzata, si sarebbe potuta avere solo se l'arma fosse stata quasi perpendicolare rispetto alla testa della vittima, il che pre-supporrebbe fra l'altro che la persona che sparava fosse in piedi quasi sopra la donna e senza contare che i fori nella zanzariera avrebbero dimostrato una notevole obliquità verso il basso, che essi in effetti non dimostrano.

Ammettiamo invece che la donna fosse prona non a terra ma sul corpo dell'uomo, l'altezza dei fori più bassi repertati sulla zanzariera è grosso modo compatibile con l'altezza da terra di un corpo che si trovi adagiato su un altro corpo umano; la faccia a contatto l'uno dell'altra fa sì che non ci sia il bisogno di apprez-zabile rotazione laterale del collo della donna, così che la metà destra del cranio e della faccia, quando lo sparatore si trovi ab-bassato e a ginocchia flesse, si trova quasi sulla stessa linea della bocca dell'arma; in tal caso i proiettili raggiungono il corpo della M. perpendicolarmente all'asse maggiore e il tramite risulta qua-si trasversale. In tal modo, ammettendo che i due si stessero ba-ciando in quel momento, si può anche spiegare che il proiettile che ha raggiunto la guancia della ragazza abbia subito dopo in-contrato il labbro e uno dei denti superiori del K. 2° - Posizione dell'uomo e dell'omicida

È evidente che se si concede l'ipotesi ora avanzata il K. deve trovarsi supino sul materasso, sotto il corpo della M. e così in posizione tale da offrire tutto il lato sinistro all'omicida. A pre-scindere dalla ferita al labbro, di cui è stata ora tentata un'inter-pretazione, il K., in questo momento non può essere colpito che a sinistra, ma ovviamente non al bersaglio maggiore, cioè la testa e il tronco, sia perché egli si trova troppo basso sul materassino, sia perché il corpo della ragazza lo copre e lo protegge parzial-mente, solo da questo lato. Se si ammette che la ragazza sia prona su di lui è logico pensare che egli la abbracci; in questo

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modo l'arto superiore sinistro di lui passa intorno alla metà de-stra del tronco della M. e si offre completamente libero alla boc-ca dell'arma e per di più ad un'altezza compatibile con la posi-zione dell'omicida piegato in avanti. In tal modo si possono spie-gare sia il colpo trasversale dell'eminenza tenar, sia quello latero-laterale da destra verso sinistra delle ultime dita lunghe. Se si suppone poi che in quel momento la mano del K. fosse poggiata sulla testa o sul collo della ragazza si può anche ipotiz-zare che uno dei due colpi che hanno trapassato la mano del K. abbiano poi secondariamente e del tutto superficialmente rag-giunto la fronte della M. con un tramite brevissimo e superficia-lissimo interessante solo i tessuti molli.

Rimane da considerare che il quarto colpo, quello al gomito destro che è probabilmente l'ultimo dei proiettili a raggiungere il K., quando questi non è più in posizione supina, essendo la ragazza ormai caduta inanime sul materassino, si è sollevato par-zialmente, forse in ginocchio (ma non in piedi data la relativa altezza della tenda) e con ogni probabilità volto frontalmente verso la zanzariera, con l'arto superiore destro sollevato nel ten-tativo di proteggersi e di difendersi. A questo punto egli viene raggiunto dal colpo al gomito, tuttavia egli è ancora in grado di muoversi, di uscire dalla tenda e di tentare la fuga.

È chiaro che il K. non può essere uscito dalla tenda che dalla parte anteriore, dove a sbarrare l'apertura si trova lo sconosciu-to. Non si può pensare ad un'uscita dalla parte posteriore, sia perché sulla tenda gialla e sul suo rivestimento esterno, in que-sto punto, non vi sono tracce di sangue che-il K. sicuramente perdeva e in misura abbondante, dalle varie ferite, sia perché si dovrebbe ammettere che l'ingresso posteriore della tenda sia stato prima aperto e quindi successivamente richiuso con cura perfetta, il che non è ovviamente possibile. Per uscire dall'unico lato possibile della tenda, il K. è probabile che si sia proiettato in avanti, forse con notevole decisione, per paura di quanto stava accadendo e per il dolore causato dalle ferite. In tal caso è anche probabile, o quanto meno possibile, che lo sparatore, il quale, non lo dimentichiamo, è sporto in avanti in posizione di accovacciamento o di inginocchiamento, e si trova perciò in equilibrio instabile, sia stato sorpreso nel vedere che (contraria-l o

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mente a quanto era accaduto in tutti gli episodi precedenti) una delle sue vittime è in grado di muoversi di camminare e forse anche di difendersi. È anche possibile che il K. nell'uscire il più rapidamente possibile dalla tenda, abbia materialmente urtato la persona di fuori e l'abbia sbilanciata, forse fino a farla cadere, seduta, a terra. Fatto sta che il K. è riuscito senza alcun dubbio ad uscire dalla tenda e ad abbozzare una fuga, purtroppo breve. È evidente che l'omicida, ripresosi dalla sorpresa, si è gettato subito all'inseguimento del K., riuscendo a colpirlo con il coltel-lo, già nello stretto varco esistente nel cespuglio interposto fra le due radure e successivamente, altre volte, su per la radura in cui si trovano le macchie di sangue, la maggiore delle quali indica il punto di giacitura del K., ormai morente. Il francese viene infatti a morte in questo punto ove giace per qualche minuto; il suo cadavere viene poi trascinato nel punto assai poco distante, ove esso sarà poi trovato.

Si è visto che la ragazza ha perso immediatamente conoscen-za dopo essere stata colpita; si può quindi dire con sicurezza che essa non è stata in grado di compiere il minimo movimento e pertanto se ne può dedurre che essa, morente o già morta, sia stata spostata dall'omicida, parzialmente fuori della tenda in posizione supina, e perpendicolare all'apertura della tenda stes-sa. In tal modo l'omicida ha spazio e forse anche luce migliore che dentro la tenda per mutilare il cadavere del pube e della mammella sinistra. Del resto l'estesa chiazza di sangue al davan-ti della tenda, a 75 cm. dall'apertura di essa, ha gruppo identico a quello della ragazza; si tratta perciò sicuramente di sangue del-la M. che non può provenire altro che dalla mutilazione e dalla cruentazione della regione pubica. Ciò significa che il corpo del-la ragazza è stato spostato dall'interno della tenda, fino a farle assumere una posizione nella quale con la regione glutea tocca-va il terreno in corrispondenza dell'inibizione di sangue con gruppo. Una volta completate le mutilazioni l'omicida ha ricollocato il cadavere della ragazza nell'interno della tenda, presumibilmente nella stessa posizione in cui è stato ritrovato e cioè lungo la parte opposta all'apertura, in decubito laterale sini-stro, con la parte anteriore del corpo verso l'apertura anteriore della tenda.

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Dove furono uccise le due persone

Per quanto riguarda la ragazza non sembra vi siano motivi di dubbio o di perplessità, quando si afferma che essa fu uccisa dentro la tenda, ove più tardi venne rinvenuta cadavere. E da notare che i colpi d'arma da fuoco che raggiunsero la giovane donna al cranio provocarono lesioni così gravi ed immediate, che non poterono consentire alla donna alcun movimento, né alcun tentativo di muoversi o di fuggire. Il fatto che alcuni pro-iettili perforarono la zanzariera della tenda perché furono esplo-si contro un bersaglio posto nell'interno della tenda e il fatto che gli estesissimi imbrattamenti emorragici sui guanciali, sul len-zuolo, sul piumone, sul materassino ad aria sino in gran parte di gruppo sanguigno simile a quello della donna, così come quasi tutti gli imbrattamenti ematici sul terreno circostante la tenda siano di gruppo diverso da quello della donna, tranne quello posto direttamente di fronte all'apertura della tenda ci dicono che la donna si è anemizzata nell'interno della tenda e che qui essa è venuta a morte.

Per quanto riguarda l'uomo, invece, pur tenendo presente che anche egli era nell'interno della tenda quando l'omicida co-minciò a sparare, che anche l'uomo fu ferito dentro la tenda, vi-sto che gli imbrattamenti ematici nella tenda sono in parte di gruppo uguale a quello dell'uomo, si ritiene che l'uomo sia stato ferito da colpi d'arma da fuoco in regioni ed organi non vitali e che nonostante tali ferite egli sia stato in grado di uscire dalla tenda e di iniziare un tentativo di fuga. Gli imbrattamenti ematici nella zona circostante la tenda sono tutti di gruppo ugua-le a quello dell'uomo e pertanto si è autorizzati a desumere che il sangue fu perso dall'uomo anche, ed in quantità maggiore, fuori dalla tenda. I reperti autoptici hanno dimostrato anche che l'uomo è venuto a morte per le lesioni da arma bianca, le quali, come emerge dalla ricostruzione del fatto, furono inferte a più riprese, ma in brevissima successione di tempo, quando l'uomo era fuori della tenda, per impedirne la fuga. La notevole raccolta di sangue contrassegnata e descritta con la lettera nel sopral-luogo e che oltre tutto era vicinissima al punto ove è stata rinve-nuto il cadavere dell'uomo suggerisce l'ipotesi che egli sia cadu-

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to ormai allo stremo proprio in quel punto e che in quel medesi-mo punto egli sia venuto a morte, senza alcuna possibilità di mo-vimenti né di spostamenti attivi. Si può pertanto concludere che la donna fu uccisa nell'interno della tenda e che la grossa chiazza di sangue rinvenuto davanti alla tenda, di gruppo uguale a quel-lo della donna, non indica necessariamente che la donna si sia attivamente mossa e sia uscita dalla tenda, ma indica invece che il corpo della donna ha perso sangue anche in quel punto fuori della tenda, pur essendo stata raggiunta dai proiettili dentro la tenda. Per converso, le macchie di sangue dimostrano anche che l'uomo fu raggiunto da alcuni colpi d'arma da fuoco mentre si trovava ancora dentro la tenda, ma la sua morte, a seguito di ulteriori lesioni provocate con arma bianca, si è verificata fuori all'aperto, vicinissimo al punto ove il cadavere è stato trovato.

Eventuale sopravvivenza e possibilità di gesti e di movimenti

Si deve premettere che al momento in cui cominciò l'aggres-sione culminata poi con l'omicidio della coppia francese, en-trambe le persone si trovavano dentro e sotto la tenda.

Per quanto riguarda la ragazza, tenendo presente che essa è stata raggiunta da almeno quattro colpi d'arma da fuoco di cui uno al cranio, con penetrazione nella massa encefalica, si può con assoluta sicurezza affermare che la ragazza appena raggiun-ta da proiettile penetrato nel cranio, a causa del grave sfacelo della massa encefalica che ne è conseguito, è venuta a morte im-mediatamente o quanto meno, ha perso immediatamente*cono-scenza, entrando in un profondissimo stato di coma che si è rive-lato irreversibile ed è culminato con la morte, a breve e forse brevissima scadenza dall'instaurarsi del coma.

(omissis)

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Indice

Prentazione di Manlio Cancogni L'Autore Il caso Pacciani Appendici Estratto della perizia criminológica sui delitti dal 21-8-1968 al 29-7-1984 Estratto della perizia criminológica sull'omicidio di Nadine Mauriot e Michel Kraveichvili Estratto della perizia necroscopica sull'omicidio di Claudio Stefanacci e Pia Rontini Estratto della perizia necroscopica sull'omicidio dei francesi Michel Kraveichvili e Nadine Mauriot