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FIGLIO DEL CONCILIO Una vita con i preti operai ROBERTO FIORINI prefazione di Armido Rizzi

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Che significato ha avuto la mia esistenza? Don Roberto lo scopre nel Vangelo sine glossa, senza interpretazioni di comodo o sconti. E così, cercando Cristo, si ritrova non solo nelle periferie del consorzio umano, ma pure ai margini di una Chiesa che, dai vertici, invita con forza a decentrarsi. »»» http://www.paoline.it/blog/attualita-e-societa/495-una-vita-con-preti-operai.html

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FIGLIO DEL CONCILIOUna vita con i preti operai

ROBERTO FIOR INI

06H

183Roberto Fiorini, ordinato prete a Man-

tova nel 1963, è stato Assistente provinciale delle Acli dal 1966 al 1972. Fatta la scelta di entrare nel mondo del lavoro, fu assunto, nel 1973, come dipendente all’OspedalePsichiatrico; successivamente ha svolto il lavoro di infermiere professionale nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitarioe infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Dal 1983 al 1989 ha ricoperto l’incarico nella segreteria dei preti operai italiani e dal 1987 è responsabiledella rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsidi studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su Bonhoeffer. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teo-logico del Segretariato Attività Ecumeniche di Mantova.

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rini

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I preti operai sono stati coloro a cui è toccato di interpretare l’Evangelonella vita quotidiana degli operai e dei lavoratori, dentro la società capitali-stica, in decenni che hanno visto una progressiva perdita di valore del lavoro.La loro scelta si colloca come parabola evangelica di un ministero vissutoin un tempo segnato dalla fine della « cristianità » e con l’impulso decisivo alla figura di Chiesa fatta balenare da Giovanni XXIII: la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri.

La narrazione si snoda attraverso la biografia di un prete che ha lavorato per 30 anni come infermiere nel Ser-vizio Sanitario Nazionale, pienamente inserito nell’organizzazione leggera dei preti operai italiani. Vengono alla luce le relazioni vive di cui la vita si è nutrita, la pressione dei momenti duri affrontati sul fronte del lavoro come nelle relazioni ecclesiali, la ricerca an-che teologica e spirituale, necessaria per sostenere un cammino di confine, la gratuità nell’esercizio del ministero.

Nel racconto compaiono volti di amici preti che in tanti anni di lavoro hanno incorporato l’odore delle pecore, diventato ormai una seconda pelle. Requisito che per papa Francesco deb-bono avere tutti i pastori.

D 16,00

Foto di copertina: © Jinga

prefazione diArmido Rizzi

Lentamente la mia coscienza si risvegliò, fino a imporsi con chiarezza la necessità di modificare la forma di vita ministeriale. Dialogai a lungo col mio vescovo, monsignor Ferrari. In quegli anni avevo comunque imparato che le scelte si devono fare assumendo in proprio la responsabilità.

Qualche anno dopo scrivevo: «Arrivai a percepirecon chiarezza che era arrivato il momento. E quando il momento viene o si decide, oppure il rimandare facilmente significa abbandonare per sempre il progetto. Di questo ne ebbi coscienza lucida ».

Per me significava entrare in mondi relazionali diversi, sconosciuti, assumendo ruoli in piena laicità, ma conservando la figura pubblica che mi legava alla Chiesa, alla Parola annunciata e ai sacramenti amministrati.

RobeRto FioRini

Posso appena accennare alla ricchezza dellefigure di preti operai che compaiono in tutto il libro, e che ne sono la testimonianza più commo-vente. D’altra parte si tratta di una testimonianza che non ha bisogno di interpretazioni, perché è il riflesso di una fede e di un amore che conquistanocon forza il lettore.

ARmido Rizzi

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PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2015 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it [email protected] Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Mi)

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PREFAZIONE

Credo che la chiave per capire questa autobiografia sia data dalla « « inclusione » che abbraccia tutto il libro. Inclusione significa che all’inizio di un testo – sia un articolo o un libro – compare un tema che si riaffaccia alla fine, e che rappresenta dunque una introduzione e una conclusione.

Ebbene, il tema che avvia e conclude questo libro è quello che ha definito il documento più esteso del Vaticano II (Gaudium et spes) e che è stato ripreso mezzo secolo dopo da papa Francesco nella Evangelii gaudium. Si tratta del rapporto tra Chiesa e mondo come tra centro e periferia; dove però i due termini non sono intesi staticamente, come le due parti di un complesso abitato, ma – paradossalmente e dinamica-mente – come la metafora di un rapporto dove il centro è chiamato a muoversi verso la periferia per portarvi ciò che a questa manca, e con la lieta sorpresa di sco-prire che spesso le periferie hanno moltissimo da dare e da insegnare.

« Vorrei una Chiesa povera e per i poveri »: questa è una delle prime affermazioni di papa Francesco, e in essa risuona come un’eco dell’inizio della Gaudium et spes: « Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti

Questo testo è un'anteprima del libro. Il numero delle pagine è limitato.

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coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo ».

Ma prima ancora di questo grande documento, la parola di papa Francesco ha richiamato a don Roberto papa Giovanni XXIII. Nelle prime pagine di questo li-bro leggiamo: « Dinnanzi all’assemblea dei giornalisti e operatori della comunicazione Francesco enunciò paro-le che mi sono arrivate dritte al cuore, congiungendosi con il messaggio che mi aveva affascinato quando mo-vevo i primi passi da prete: “Vorrei una Chiesa povera per i poveri”: un grande arcobaleno le legava a quelle di papa Giovanni, pronunciate un mese prima dell’aper-tura del Concilio: “Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati, la Chiesa si presenta quale è, e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolar-mente la Chiesa dei poveri” ».

Qual è l’esperienza che, a partire dal Vaticano II, ha maggiormente segnato l’esistenza di don Roberto? È la vita di lavoro, iniziata nel 1973, con la assunzione – in qualità di inserviente – nell’ospedale psichiatrico di Mantova1.

L’esperienza fatta in questi anni (dieci) è stata formu-lata in un’intensa pagina di diario: « Chi restituirà l’esi-stenza a quegli infelici? In quel luogo riscoprivo Jhwh, il difensore dei poveri e degli oppressi, un Dio non neutrale che assume pienamente in sé la causa di chi è negato nella propria esistenza umana; guardavo con

1 Negli anni precedenti, dopo un biennio in curia e in seminario, fu no-minato assistente provinciale delle ACLI ed esercitò il ministero con gruppi giovanili, in particolare di lavoratori, e con circoli delle ACLI.

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occhi nuovi Gesù crocifisso: la tragedia della quale ero testimone, con il suo carico di oscurità e non senso, quasi istintivamente mi riportava al silenzio di Dio sulla croce e a quella morte così simile e prossima a quanto anch’io vedevo consumarsi ».

Come testimoniano queste righe, l’esperienza di prossimità agli ammalati (che continuerà per altri vent’anni in diversi servizi sanitari) non ha tolto a don Roberto il senso del suo presbiterato; egli infatti conti-nuerà a celebrare l’eucaristia quotidianamente e nei giorni festivi nel Santuario delle Grazie, una frazione di Mantova.

Ma c’è una seconda dimensione che caratterizza la sua scelta di lavoro; ed è la partecipazione al cammino dei « preti operai ». Questo movimento era nato in Fran-cia negli anni ’40 del secolo scorso, e si era diffuso in diverse nazioni d’Europa, compresa l’Italia.

A partire dal quarto capitolo, il libro è dedicato so-prattutto a questo tema. Raccogliamone alcuni aspetti.

Innanzitutto: il punto che accomunava tutti i sacer-doti che facevano questa scelta era la condivisione della condizione di lavoro nella quale si soffriva « lo sfrutta-mento a cui la classe operaia era sottoposta nel sistema capitalistico » ma, insieme, « il collateralismo di una re-ligione congiunta al sistema stesso con alleanza di pote-re tra gerarchia e potentati economici ». Quindi da un lato l’adesione al mondo del lavoro, cioè il senso della giustizia e della solidarietà; dall’altro il problema della coniugazione tra le autorità ecclesiastiche e una politica che si schierava dalla parte dei padroni, che sfruttavano il lavoro ignorando appunto la giustizia e la solidarietà.

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Questa situazione faceva dei preti operai una « gente di confine »: nel senso negativo di essere isolati nelle rispet-tive Chiese diocesane, nel senso positivo di abitare nelle « periferie umane » (come dirà papa Francesco)2.

Dal 1987 i preti operai italiani hanno dato vita a una rivista che raccoglie riflessioni e testimonianze: sguardi dal basso e narrazioni che mettono in luce la concretez-za delle esistenze nel lavoro e nel pensare secondo l’E-vangelo. In questi decenni don Roberto ha gestito la responsabilità della pubblicazione.

Va inoltre sottolineato un altro aspetto che connota la sua vita; egli stesso lo chiama « Itinerario teologico-spirituale », e lo caratterizza con queste parole: « Vi è chi legge e studia per dovere professionale. Io lo faccio per vivere ».

La figura di spicco che guida questo itinerario è Die-trich Bonhoeffer, pastore protestante ucciso dai nazisti nell’aprile 1945.

Conosciuto fin dall’inizio degli anni ’70 mediante la lettura di alcuni suoi libri tradotti in italiano, Bonhoeffer diventa per don Roberto il maestro principale quando ne fa l’oggetto di una tesi teologica presso l’Istituto San Bernardino (prima a Verona, poi a Venezia). Mi pare che il centro della sua tesi sia identificabile in questa imma-gine: l’amare Dio con tutto il cuore è il cantus firmus;

2 Non vengono taciute altre difficoltà affrontate negli anni delle stragi di Stato e dei rischi di golpe, dell’azione delle BR, con due preti operai accusati ingiustamente di contiguità, e del pesantissimo clima che si respirava nei posti di lavoro e a livello sindacale. Inoltre va pure ricordato che si produsse con il refe-rendum sul divorzio la grossa spaccatura che interessò anche il mondo cattolico con i preti operai che dissentirono rispetto alle posizioni ufficiali della Chiesa.

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ma questo amore non cancella l’amore terreno, cioè la passione per i beni terrestri e per la loro destinazione a tutti. Detto con un’altra espressione bonhoefferiana: tutto è riconducibile a due momenti: pregare e operare per la giustizia.

Nel libro c’è anche un generoso riferimento al sotto-scritto, della cui teologia vengono sottolineati due aspet-ti, tra loro correlati: il « pensare dentro la Bibbia », cioè il tradurne concettualmente il linguaggio metaforico e simbolico in linguaggio concettuale; e una teologia « al-ternativa » a quella ufficiale cattolica, cioè che abbando-ni il primato del pensiero classico della cultura greca e si affidi alla rivelazione biblica riletta e riformulata in concetti aperti a tutte le culture.

Infine, la prassi ecumenica con la sua partecipazione al Segretariato Attività Ecumeniche (SAE) di Mantova, ma illuminata dagli studi teologici condotti a Venezia.

Posso appena accennare alla ricchezza delle figure di preti operai che compaiono in tutto il libro, e che ne sono la testimonianza più commovente. D’altra parte si tratta di una testimonianza che non ha bisogno di inter-pretazioni, perché è il riflesso di una fede e di un amore che conquistano con forza il lettore.

Armido rizzi

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1.

NON HO FATICATO INVANO

Ora si parla di periferia, meglio delle periferie. È stato papa Francesco, venuto « dalla fine del mondo », a lanciarle come spazi di presenza reale e condivisa del-la Chiesa, per tornare ad assaporare l’Evangelo. E così ci si ricorda dei preti operai, di quella strana mescolan-za, inesistente per la grande retorica pastorale e per i faraonici progetti culturali che per più di un ventennio hanno occupato la scena cattolica. Ibrido impossibile tra tonaca sacerdotale e tuta da lavoro. Pietra scartata perché nessuna malta riesce a connetterla con il resto della impalcatura presbiterale.

Periferie? Certo. Se il punto di osservazione è il pin-nacolo del tempio, i palazzi dei poteri o i quartieri bene: ma se ci si decentra, si scopre che l’umanità vive e muo-re in una Nazareth qualsiasi, nella bottega di un artigia-no… « Ogni uomo è un mondo », è uno dei detti della tradizione ebraica e « chi salva un uomo salva un mon-do ». Già, dove sta il centro dopo che Dio è venuto a piantare la sua tenda lontano da ogni « centro »?

L’altrove è il centro. Due settimane dopo l’arrivo di Francesco, trovai con

sorpresa, con foto d’epoca, la mia storia riportata su Avvenire. Il titolo era doc: Don Fiorini, sacerdote « fi-glio » del Concilio. Nessun contatto previo, almeno per

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avvertirmi. Però le parole virgolettate erano proprio mie, pescate qua e là da qualche articolo o testimonian-za rilasciata.

Ho pensato che, vista l’aria che tira col nuovo papa, anche l’angolino di periferia occupato dai preti operai, poteva tornare utile. Chissà, forse da qui è nata l’idea di chiedermi la narrazione che mi accingo a fare.

Sì, mi hanno chiesto di scrivere perché ho vissuto per decenni una vita di lavoro dipendente, in stretto colle-gamento con i preti operai italiani, disseminati qua e là in mezzo agli altri, nelle fabbriche, negli ospedali, nelle botteghe artigiane, nelle strade per la pulizia quotidia-na… Preti fuori dal tempio, nella forma di vita laicale ritmata dall’orario di lavoro. Non sarà la storia dei pre-ti operai, ma in qualche modo una loro rappresentazio-ne attraverso la mia vicenda.

Narrerò con la massima sincerità possibile. Consape-vole che sarà un’approssimazione, un ripensare il vissu-to, sapendo che se da un lato è inafferrabile, dall’altro, attraverso la maturazione del tempo e le connessioni che il suo trascorrere rende possibili, si può pervenire a una più profonda intelligenza del senso e delle costanti che hanno accompagnato la linea della vita.

Non si tratta di un diario intimo, ma di una narrazio-ne che rappresenti la mia appartenenza alla storia dei preti operai, i motivi profondi che ci spinsero su questa strada, coinvolgendo l’intera esistenza, la vitalità teolo-gico-spirituale che ci ha tenuto in piedi. L’esser dentro una realtà dura e conflittuale, quale quella del lavoro dipendente, dove nessun diritto è acquisito una volta per tutte, come ampiamente sta dimostrando in manie-ra cruda la nostra epoca.

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Appartenenti a una Chiesa che prima ci inviò nel mondo del lavoro, alla pari degli altri lavoratori, come scriveva Paolo VI nella Octogesimo adveniens del 1971, per poi farci capire che eravamo inutili, se non danno-si, per la causa della Chiesa stessa. La parola « inutile per la Chiesa » la sentii con le mie orecchie rivolta a me da parte di chi aveva un potere ordinario nell’ambito della mia Chiesa mantovana, quando decisi di intra-prendere la condizione di lavoratore dipendente. Para-dosso di una Chiesa dove un papa, sulla scia del Con-cilio, invitava ad andare e dall’altra il divieto di transito fatto balenare dalle legittime autorità locali nel tentati-vo di trattenere.

FrAmmenti di vitA

Ho pensato di partire da vicino, cioè da quello che ora sto facendo, perché iniziare da lontano si rischia di essere scambiati per quei soldati giapponesi che nella giungla per decenni continuarono a combattere una guerra che era ormai finita da tempo. Dirò alcune cose sull’ultimo anno vissuto, che coincide peraltro con il 50° della mia ordinazione presbiterale.

Alcuni episodi avvenuti per lo più nel 2013, con i pensieri che li hanno accompagnati, serviranno ad aprire un varco di accesso al mio mondo. Come in un piccolo puzzle, sono frammenti legati alla quotidianità che possono formare un abbozzo che collega con il lungo passato, mantenendo un suo intimo legame con il presente. Non nelle vicende esterne, è evidente, ma nelle linee di vita che, pur nella frammentarietà, man-

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tengono una loro filigrana interna. Oppure, se mi si consente un paragone eccessivo, ma che può rendere l’idea, è come quella pagina musicale della nona sinfo-nia di Beethoven, collocata prima del finale inno alla gioia, nella quale vengono ripresi in rapidi cenni i motivi delle parti precedenti di quel suo capolavoro. Con la differenza che io questa pagina la propongo come ouverture.

Francesco

Seguendo un mio ordine, anche se forse potrà sem-brare banale, inizio da quella serata del 17 marzo, dopo la fumata bianca uscita dal camino della cappel-la Sistina. La TV stava inviando le immagini del nuovo vescovo di Roma. Un papa spogliato, senza gli orna-menti simbolici che evocano l’immagine di un potere. Potere sacralizzato. Il nudo abito bianco lo esibiva semplificato e lasciava presagire qualcosa di nuovo, anzi di antico. Secoli di costumi pontifici e di ordina-menti rituali, su quella grande terrazza dove la forma è sostanza, si scioglievano per scomparire. L’attesa della parola era grande. Quando un segno colpisce nasce il bisogno della parola. Sì, la parola è arrivata: Francesco. La dolcezza del nome, che evoca immedia-tamente il Cantico delle creature, Madonna Povertà, il Vangelo « sine glossa », l’andata del fraticello povero e solo nel campo dei Saraceni al tempo delle crociate, non può evitare di lasciar trasparire una sfida dura, forse l’ultima carta da giocare per una reale riforma della Chiesa. Un tale nome genera attese, tante. Trop-

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pe? Pochi mesi dopo, alla fine del 2013, la rivista Time avrebbe pubblicato la sua foto in copertina sceglien-dolo come l’uomo dell’anno nel mondo. Aggiungendo un riconoscimento: « quello che lo rende così impor-tante è la rapidità con la quale ha catturato la speranza di milioni di persone che avevano abbandonato ogni speranza nella Chiesa ».

E poi altri segni in quella serata romana: il chinarsi dinanzi al popolo riunito in piazza San Pietro, invocan-do la preghiera di tutti prima di dare la benedizione del Signore e il presentarsi innanzitutto come vescovo di Roma… e poi il saluto laico: buonasera ai presenti e ai lontani.

Qualche giorno dopo, dinanzi all’assemblea dei gior-nalisti e operatori della comunicazione, Francesco pro-nunziò parole che mi sono arrivate dritte al cuore, congiungendosi con il messaggio che mi aveva affasci-nato quando muovevo i primi passi da prete: « Vorrei una Chiesa povera e per i poveri ». Un grande arcobale-no le legava a quelle di papa Giovanni, pronunciate un mese prima dell’apertura del Concilio: « Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri »1.

In quei giorni si era fatto largo nel mio animo un sentimento di gratitudine che aveva preso forma attin-gendo alle parole che l’evangelista Luca attribuisce a Simeone, il profeta che ha atteso fino a quando nel tempio ha potuto prendere nelle sue braccia il bambino Gesù: « Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo

1 Giovanni XXIII, Radiomessaggio, 11 settembre 1962.

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vada in pace, secondo la tua parola perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza… » (Lc 2,29-30).

Udire che quelle stesse parole, uscite dalle labbra del papa buono, ora riecheggiavano amplificate, pronuncia-te dal papa venuto dalla « fine del mondo », in me, prete da cinquant’anni, ha prodotto un’esplosione di gioia. Era la conferma di una ricerca e di un percorso durati tutta la vita: come sentirsi dire: « No, non hai la-vorato invano! » (cfr. Is 49,4). No, cari preti operai, non abbiamo lavorato invano. Quella domanda lacerante posta dal Servo di Jhwh nel racconto di Isaia, aveva attraversato il mio animo, almeno qualche volta, nei lunghi decenni di lavoro. La domanda che sollevava il dubbio sull’utilità della propria vita e quindi del senso stesso della vita.

Parlavo della gioia di Simeone. Paragone spinto? Forse, ma come si fa a misurare la temperatura dell’at-tesa? Al fondo ci sta sempre l’attesa di Dio, della sua rivelazione, ma nelle increspature della storia quando finalmente arriva qualche segnale che l’attesa non è stata vana, si fa festa, lo si deve fare. E la festa evoca sempre in qualche modo l’ottavo giorno, l’ultimo. No-stalgia di un futuro promesso.

Le parole di papa Giovanni sembravano perdute, in Italia almeno, ma non in Brasile e in molte parti del mondo dove la Chiesa è davvero povera. In realtà, erano state sovrastate, coperte, sepolte. Ma non spen-te, perché nel profondo avevano infiammato molti cuori. Come la brace sotto la cenere, tanta cenere, portavano ancora la loro incandescenza. Certamente nella nostra piccola storia di preti operai hanno conti-nuato a brillare come stelle, orientando il nostro cam-

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mino. A quarant’anni dalla fine del Vaticano II, nel nostro incontro nazionale di Bergamo, ci chiedemmo: « Dov’è la Chiesa dei poveri? »2.

Conferme

Di solito frequento le assemblee dei preti di Mantova e, quando è consentito e ho qualcosa da dire, prendo la parola. Nel settembre del 2012 il cardinal Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano, era stato invitato alla set-timana pastorale di Mantova per riprendere il discorso sul Vaticano II. Al temine della sua relazione, segnalai la mia intenzione di intervenire e mi fu data la parola. Ri-cordo i tre punti sui quali mi soffermai: la centralità del Regno, rispetto alla Chiesa, il tema della giustizia sociale che era raro sentir nominare e il silenzio tombale su « la Chiesa povera e dei poveri ». A questo punto dall’assem-blea sorse un brusio di disapprovazione e il moderatore mi fece chiudere perché il tempo era scaduto…

Parole sepolte nei decenni del post-concilio. Il solo nominarle creava fastidio. Ecco, uno degli effetti dell’ar-rivo di Francesco è stato quello di liberare un linguaggio bloccato, che frenava la circolazione del pensiero e della comunicazione, anche su temi scaturiti dalla « nuo-va Pentecoste », come papa Giovanni XXIII diceva del Concilio. È onestamente possibile parlare di Chiesa come communio, senza una reale libertà di parola, in...

Continua a p. 20 di Il figlio del Concilio 2 Si può trovare la documentazione nei numeri della rivista Pretioperai 67

(2005) e 69-70 (2006). L’intera serie della pubblicazione è disponibile in www.pretioperai.it.

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INDICE

Prefazionedi Armido Rizzi pag. 7 1. non ho FAticAto invAno » 13 Frammenti di vita » 15 Francesco » 16 Conferme » 19 La Parola corre » 22 Incontri con i preti operai della Lombardia » 24 Il compimento del cammino » 25 Il campo aperto » 26

2. lA vitA sorride » 31 Primi passi » 31 Amarcord » 35 Uno strano cappellano dell’ospedale » 37 L’oratorio si disperde nel mondo » 42 Tanti anni dopo » 45 Evento come realtà improvvisa e rivelativa » 49

3. mission » 52 Mandato » 52 Nuovi orizzonti » 54 Dentro i conflitti » 60

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ACLI e gerarchia cattolica nel mondo che sta cambiando pag. 64 « Vale la pena di continuare e ricominciare » » 68

4. il lAvoro: cAmBiA lA vitA » 72 Differenziazione » 72 La scelta » 74 Percorso lavorativo » 78 Silenzio e parola » 86

5. condivisione di unA condizione » 92 Insieme ai preti operai » 92 Quale fede? » 94 Gente di confine » 98 Il gruppo lombardo » 100 La spaccatura del referendum sul divorzio e le macerie prodotte dagli anni di piombo » 105 Valore e precarietà dei risultati » 109

6. « cAmminAndo s’APre cAmmino » » 115 Dimensione quotidiana della vita » 115 I miei anni in Segreteria Nazionale » 120 Seminario sui ministeri » 120 Incontri con la Commissione della CEI » 125 La fede interroga i progetti » 133 Vivere e annunciare le Beatitudini oggi » 136 « Preti operai qualche anno dopo » » 138

7. icone » 142 Don Sirio » 143

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Don Beppe pag. 148 Don Cesare » 152 Don Sandro » 158 Vatti a fidare delle parabole » 160 Una parabola » 162 8. itinerArio teologico-sPirituAle » 164 Dietrich Bonhoeffer » 165 « Vorrei imparare a credere » » 166 Lo sguardo dal basso » 167 Polifonia » 168 Disciplina dell’arcano » 170 Come parlare di Dio » 171 Armido Rizzi » 174 Pensare dentro la Bibbia » 175 Teologia alternativa » 177 Impegno ecumenico » 178

9. « quAnto restA dellA notte? » » 183 La notte » 184 La pagina bianca » 192 Le mie notti con papà » 198 10. Figli del concilio » 202 Nel mondo dei preti » 202 La parola di tre amici » 208 Don Renato Pipino » 208 Don Gianni Belotti » 211 Don Luisito Bianchi » 214 Nostalgia dell’Evangelo » 219

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FIGLIO DELCONCILIOUna vitacon i preti operai

ROBERTO FIOR INI

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183Roberto Fiorini, ordinato prete a Man-

tova nel 1963, è stato Assistente provinciale delle Acli dal 1966 al 1972. Fatta la scelta di entrare nel mondo del lavoro, fu assunto, nel 1973, come dipendente all’OspedalePsichiatrico; successivamente ha svolto illavoro di infermiere professionale nei servizi territoriali dell’ASL, in un distretto sanitarioe infine come coordinatore infermieristico all’assistenza domiciliare. Dal 1983 al 1989 ha ricoperto l’incarico nella segreteria deipreti operai italiani e dal 1987 è responsabiledella rivista Pretioperai. Ha frequentato i corsidi studi ecumenici a Verona e a Venezia con tesi di licenza su Bonhoeffer. Dal 1995, su richiesta dell’associazione, è consulente teo-logico del Segretariato Attività Ecumeniche di Mantova.

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I preti operai sono stati coloro a cuiè toccato di interpretare l’Evangelonella vita quotidiana degli operai e deilavoratori, dentro la società capitali-stica, in decenni che hanno visto una progressiva perdita di valore del lavoro.La loro scelta si colloca come parabolaevangelica di un ministero vissutoin un tempo segnato dalla fine della « cristianità » e con l’impulso decisivo alla figura di Chiesa fatta balenare da Giovanni XXIII: la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri.

La narrazione si snoda attraverso labiografia di un prete che ha lavorato per 30 anni come infermiere nel Ser-vizio Sanitario Nazionale, pienamenteinserito nell’organizzazione leggeradei preti operai italiani. Vengono alla luce le relazioni vive di cui la vita si è nutrita, la pressione dei momenti duriaffrontati sul fronte del lavoro come nelle relazioni ecclesiali, la ricerca an-che teologica e spirituale, necessaria per sostenere un cammino di confine,la gratuità nell’esercizio del ministero.

Nel racconto compaiono volti di amici preti che in tanti anni di lavoro hanno incorporato l’odore delle pecore, diventato ormai una seconda pelle.Requisito che per papa Francesco deb-bono avere tutti i pastori.

D 16,00

Foto di copertina: © Jinga

prefazione diArmido Rizzi

Lentamente la mia coscienza si risvegliò, fino a imporsi con chiarezza la necessità di modificare la forma di vita ministeriale. Dialogai a lungo col mio vescovo, monsignor Ferrari. In quegli anni avevo comunque imparato che le scelte si devono fare assumendo in proprio la responsabilità.

Qualche anno dopo scrivevo: « Arrivai a percepire con chiarezza che era arrivato il momento. E quando il momento viene o si decide, oppure il rimandare facilmente significa abbandonare per sempre il progetto. Di questo ne ebbi coscienza lucida ».

Per me significava entrare in mondi relazionali diversi, sconosciuti, assumendo ruoli in piena laicità, ma conservando la figura pubblica che mi legava alla Chiesa, alla Parola annunciata e ai sacramenti amministrati.

RobeRto FioRini

Posso appena accennare alla ricchezza delle figure di preti operai che compaiono in tutto il libro, e che ne sono la testimonianza più commo-vente. D’altra parte si tratta di una testimonianza che non ha bisogno di interpretazioni, perché è il riflesso di una fede e di un amore che conquistano con forza il lettore.

ARmido Rizzi