f. masi, l'arte della misura

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GIANNINI EDITORE FELICE MASI L’ARTE DELLA MISURA CONTRIBUTI SU FENOMENOLOGIA E CONOSCENZA NATURALE

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€ 15,00

Giannini EditorE

Giannini EditorE

Felice Masi

l’arte della Misuracontributi su FenoMenologia

e conoscenza naturale

La storia della misura e dei suoi strumenti è ben più ampia di quella della scienza: è storia materiale e delle idee, degli strumenti e delle macchine, delle arti e della medicina, dei commerci e delle navigazioni. L’arte della misura, la metrica, è infatti quel tentativo di misura in cui la conoscenza del mondo naturale è ogni volta impegnata. Tentativo inevitabilmente ambiguo ed oscillante che attraversa l’intera vicenda del pensiero occidentale.

I contributi che compongono questo volume muovono dallo Husserl di Gottinga, in cui i primi abbozzi di una teoria dell’esperienza e del pensiero sono connessi alle domande della conoscenza naturale, alla determinazione del suo linguaggio ed alla formazione dei suoi concetti. Uno Husserl che – nella malinconica ricerca dell’unità di quei problemi, e di se stesso con quei problemi – trova il proprio centro nella stessa nozione di misura e nell’esperienza che di essa si fa, la Meßkunst, l’arte della misura, appunto. Attraverso un insistito confronto con la tradizione filosofica moderna di Hume e Kant, e con quella antica di Platone e Aristotele, ma anche con l’epistemologia contemporanea di Schlick e Carnap, Whitehead e Popper, si tenta così non certo di ricomporre una fenomenologia della natura, ma almeno di fare luce su una relazione – quella con la cosa naturale – a cui è appeso il Göttingen-Projekt e la formazione della fenomenologia come filosofia trascendentale. Come filosofia della misura.

Felice Masi è Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Tra le sue ultime pubblicazioni: Emil Lask. Il Pathos della Forma, Macerata 2010, ed I modi della figura. Tre studi per un’estetica eidologia, Napoli 2011. Per questi stessi tipi, ha curato l’edizione italiana di Edmund Husserl, Sulla fantasia. Manoscritti 1918-1924, Napoli 2009 e ha pubblicato, con Maria Teresa Catena, Fenomenologia e Critica della Ragione, Napoli 2008.

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Felice Masi

L’arte della misura.Contributi su fenomenologia

e conoscenza naturale

Giannini EditorE

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ISBN-13: 978-88-7431-636-6

copyright © 2012 by Giannini Editore

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indicE

Introduzione “ 11

I. La necessità dell’individuo. Logica della conoscenza naturale “ 15

II. La “bilancetta” di pensiero ed esperienza. Grandezza e quantità nella formazione della Fenomenologia “ 79

III. I paradossi della continuità. Prolegomeni alla storia del concetto di spazio “ 109

IV. Metrica e profezia. Sulla conoscibilità della natura “ 149

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a María Lidache mi dà misura

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Con quale bilancia, dunque, peserai la verità della conoscenza?[…] La stadera è un tipo di bilancia e il bilancino del

saggiatore un altro tipo. Anzi di più: l’astrolabio è una bilanciaper misurare le distanze lineari, e il filo a piombo una bilancia

per accertare la perpendicolarità e la curvatura.Questi strumenti, sebbene differiscano per forma, hannoin comune il fatto che per loro mezzo si conosce che cosa

è l’eccesso e cosa il difetto. Invero la prosodia è unabilancia per la poesia, per mezzo della quale si conosce

la metrica della poesia e si distingue il verso zoppoda quello corretto. Essa è la più spirituale delle

bilance materiali, sebbene non sia esente dal contatto coicorpi: soppesa infatti i suoni e i suoni non sono

separabili dai corpi.

Abū Hāmid al-Ġazālī, La Retta Bilancia

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Introduzione

Pare che le più antiche tavole delle misure e dei pesi, a noi perve-nute, siano contenute in un trattatello che ha per titolo perì mètrōn kaì stathmôn kaì tôn deloùntōn autà semàtōn, sui metri ed i pesi e sui segni che li mostrano. Basterebbe anche solo questo indizio archeolo-gico per intendere come la storia della metrologia sia ben più ampia di quella della scienza: storia materiale e delle idee, degli strumenti e delle macchine, delle arti e della medicina, dei commerci e delle navigazioni1. Regoli, otri, gravi, abachi, monete, sestanti, astrolabi, portolani, lenti o semplicemente ombre, come quelle che Talete osservò per ottenere la misura dell’altezza delle piramidi, formano il glossario di quei segni in cui si fa presente la misura. Expositio et ratio omnium formarum – avrebbe scritto un metrologo, e soldato, romano del secondo secolo dopo Cristo2.

Da Galeno a Erone, dall’Aequiponderantibus di Archimede al Liber de ratione ponderis di Giordano Nemoriano, fino a Mach, a Helmholtz ed a Cantor, la conoscenza della natura è un tentativo di misura. Così, ancora nel 1953, Alexandre Koyré definiva il metodo galileiano, ponendolo tra Leonardo e Pascal3. Meßversuch rende appieno il legame tra esperienza e forma, rivelando quanto anti-nomica sia l’oscillazione tra la misura che si impone e quella che si ottiene. La misura è giusto quel doppio non-ente – impensabile per Aristotele – che il numero esprime come un rapporto. Né l’una né

1 Come ulteriore suffragio dell’ampiezza della metrologia, è di recente pubblicazione R. Pietrantoni, Salto di scala, Torino 2012.

2 Cfr. F. Hultsch, Griechische und Römische Metrologie, Berlin 18822, pp. 8, 12.3 Cfr. A. Koyré, Meßversuch (1953), in Id., Leonardo, Galilei, Pascal. Die

Anfänge der neuzetlichen Naturwissenschaft, hrsg. von R. Dragstra, Frankfurt am Main 1998, pp. 151-184.

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l’altra delle cose misurate e nemmeno il metro della misura. L’unità, piuttosto, di un non-ente ogni volta bifronte.

Non è, però, marginale ricordare che la delineazione, da parte di Koyré, di un’espressione così acuta – come quella di Meßversuch, appunto – avesse alle spalle già una ricca biblioteca di studi, che potrebbero essere fatti cominciare dalla pubblicazione, sugli «Annali fenomenologici», dalle Annotazioni sui paradossi di Zenone4. Era il 1922 e da oramai più di dieci anni aveva lasciato Gottinga, ma delle lezioni husserliane aveva conservato una chiara impronta, che avrebbe poi guidato la sua analisi concettuale dello sviluppo delle idee scientifiche.

Due anni prima dell’arrivo di Koyré a Gottinga, in una nota del 25 settembre 1906, Husserl descrive così – in un racconto intimo – le incertezze del suo passato cammino di ricerca: «mentre mi affaticavo con progetti di logica del pensiero matematico, ed in particolare del calcolo matematico, mi tormentavano due mondi inconcepibilmen-te estranei: quello della logica pura e quello degli atti di coscienza. Non sapevo unificarli, ma dovevano avere una relazione reciproca e rappresentare un’interna unità. Così mi lambiccavo il cervello, da un lato, sull’essenza della rappresentazione e del giudizio, sulla teoria delle relazioni ecc., e, dall’altro, sulla chiarificazione della connessio-ne tra formalità logico-matematiche»5. Così non resta che redigere un serrato programma che ponga al primo posto i problemi di una fenomenologia della percezione, della fantasia, del tempo, della cosa, e quindi quelli della fenomenologia del significato, delle intenzioni vuote e delle rappresentazioni simboliche. La fenomenologia dello spazio sarebbe dovuta essere legata all’analisi essenziale delle diverse forme proposizionali, con la dottrina della molteplicità definita, ma anche con la logica della probabilità e delle asserzioni ipotetiche6.

E l’unico appiglio che gli sembra possibile trovare, in quanto ha già compiuto, sono le lezioni del semestre invernale 1904/05.

4 Id., Bemerkungen zu den Zenonischen Paradoxen, in «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschungen», 1922, pp. 603-628.

5 E. Husserl, Persönliche Aufzeichnungen (hrsg. von W. Biemel), in «Philo-sophy and Phenomenological Research», 16, 3, 1956, p. 294.

6 Ivi, pp. 298-299.

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Null’altro potrebbe alleviargli il peso dell’inneres Einssein, dell’essere internamente uno con quei problemi, che gli gravava sulle spalle come l’armatura al Cavaliere di Dürer, tra morte e diavolo. Non incede però come un miles christianus, né come lo Schopenhauer di Nietzsche, ma come lo homo mathematicus di Musil. Come colui che, dotato di un so phantastisches Gefühl, riesce a vedere fino al fondo tutto «un edificio sospeso in aria, nonostante le macchine funzionino ancora»7. Quell’analogia dell’uomo spirituale dell’avvenire, cui Musil indulge ripensando agli scampati dal tramonto dell’Occidente.

Ciò da cui i contributi, contenuti nelle prossime pagine, prende-ranno le mosse è giusto questo Husserl, lo Husserl di Gottinga, per come in esso i primi abbozzi di una teoria dell’esperienza e del pen-siero siano immancabilmente connessi alle domande della conoscen-za naturale, alla determinazione del suo linguaggio, alla formazione dei suoi concetti e delle sue argomentazioni. Per come cioè riesca ad intendere che l’essere internamente uno dei problemi che solleva stia nella stessa nozione di misura e nell’esperienza che di essa si fa, la Meßkunst, l’arte della misura.

Così proprio partendo dalle riflessioni che Husserl compie nel corso del 1904/05 sul rapporto tra uno e molti e quindi sulle questioni dell’individuazione e dell’identificazione, e poi tornando indietro alle ricerche che, negli anni tra i due secoli, lo occupano attorno ai concetti di molteplicità definita, quantità e grandezza, ed infine andando avanti fino al corso del 1907 su Cosa e spazio, per individuare una determinazione piena della grandezza continua, abbiamo cercato di rendere il quadro incompleto di una logica della conoscenza naturale. Restava però ancora in sospeso una domanda che Husserl pone negli anni gottinghesi e che solo parzialmente avrebbe trovato risposta nelle rettifiche alle analisi del concetto di tempo, presentate, alcuni anni dopo, nei Manoscritti di Bernau. Una domanda che, prima facie, esula dal regno della natura e che invece si rivela decisiva per la sua conoscibilità. È possibile una coscienza profetica? È cioè possibile una conoscenza previsionale? La medesima

7 R. Musil, L’uomo matematico (1913), in Id., Saggi e lettere, a cura di B. Cetti Marinoni, Torino 1995, pp. 17-18.

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domanda che avrebbe formulato, nell’autunno viennese, Moritz Schlick.

Non si tratta, pertanto, di contributi ad un’epistemologia feno-menologica, né di scritti sulla fenomenologia della natura, che è ancora molto lontana dalle capacità di queste pagine. Piuttosto di contributi su fenomenologia e conoscenza naturale. Di glosse, appunti, commenti su una relazione a cui è appeso il Göttingen-Projekt e la formazione della fenomenologia come filosofia trascen-dentale. Come filosofia della misura.

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I. La necessità dell’individuoLogica della conoscenza naturale

1. Seefeld: le difficoltà di Husserl e quelle di Pfänder-Daubert.

«In che relazione mettere, ora, tutte queste considerazioni su con-tenuti costitutivi, proprietà ecc., con la vecchia dottrina dei contenu-ti indipendenti e non-indipendenti»1. Sul finire della sua residenza estiva a Seefeld, Husserl riguarda alle riflessioni che hanno provato a dare un senso nuovo all’opposizione tra unità e molteplicità, nella descrizione dell’esperienza percettiva degli oggetti individuali, e non può trattenere la domanda circa l’adeguatezza dell’abbozzo di onto-logia formale che solo cinque anni prima aveva consegnato nella Terza Ricerca Logica. La vecchiezza di quella teoria non era infatti cronologica, ma, ben più gravemente, teorica: consisteva nell’oscu-rità da cui sembrava avvolta la composizione di momenti in unità, l’indecisione circa il problema classico di quale fosse la parte capace di rendere l’interezza di qualcosa. «Si possono pensare degli oggetti costruiti di “momenti”? Come se un collegamento o una fusione di momenti restasse non-indipendente fino al sopraggiungere di un momento ultimo»2. Non appena si sottopongono ad esame la posizione e la durata temporale, non appena cioè viene aperta la questione della cosa, non possono non essere revocate in dubbio sia lo schema mereologico, in cui fino ad allora era stata incardinata

1 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), ed. it. a cura di A. Marini, Milano 20015, p. 274.

2 Ibid.

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l’individualizzazione, che la stessa definizione di indipendenza, come ciò che non è integrato da altro.

Tra l’agosto ed il settembre del 1905 – avendo alle spalle il com-pletamento del corso sui Lineamenti fondamentali di fenomenologia e teoria della conoscenza, dedicato a quei «problemi che cadono sotto i titoli vaghi di percezione, sensazione, rappresentazione di fanta-sia, rappresentazione figurale, ricordo»3, la cui terza parte era stata interamente occupata dalle lezioni sulla fenomenologia della coscien-za interna del tempo – Husserl si immerge nel tormentato studio sull’individuazione, condividendo difficoltà ed asprezze concettuali con alcuni dei suoi allievi, come Daubert e Pfänder che avevano già svolto un ruolo decisivo nell’indirizzo della Winter Vorlesung del 1904-05. «Inizialmente avrei voluto occuparmi degli atti intellettivi più elevati, che ricadono nella sfera della “dottrina del giudizio”. Ma lavorando con i miei allievi ho pensato dovessero essere affrontati problemi, per nulla formulati o poco conosciuti», fondamentali però tanto per la critica della conoscenza quanto per la psicologia4. Ancora una volta lo sguardo retrospettivo, sui primi tentativi in quella direzione di ricerca, mira al secondo volume delle Ricerche Logiche, ma anche alle conferenze psicologiche che Pfänder tenne a Monaco tra il 1895 ed il 1900, includendo acute analisi sulla differenza tra sensazione e sentimento e sulla teoria dell’attenzione, od a quella che Daubert pronunciò nella stessa città, nel 1902, sulla psicologia dell’appercezione e del giudizio.

A dimostrazione del rilievo che questo retroterra ebbe nella rifles-sione husserliana potrebbero essere utilizzati gli appunti che Daubert stese tra il luglio del 1905 ed il novembre del 1906, dai quali si desu-me una puntuale ricostruzione delle «difficoltà Pfänder-Daubert» – cui Husserl fa riferimento in margine ai Manoscritti di Seefeld – e del corso professato da Pfänder nel semestre invernale dell’anno succes-sivo, su Logica e teoria della conoscenza, il cui argomento di maggior rilievo fu giusto la gegenständliche Einheit5. Scorrendo queste righe si

3 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit. Texte aus dem Nachlass (1893-1912), hrsg. von T. Vongehr und R. Giuliani, Husserliana Gesammel-te Werke [d’ora in poi, Hua], XXXVIII, Dordrecht 2004, p. 3.

4 Ibid.5 Tale notizia si deve ad un altro protagonista della prima fenomenologia,

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comprende come vada affermandosi la questione dell’individualità e come questa irrompa nell’interrogazione circa la disposizione alla coscienza oggettuale esibendole l’aporia del doppio riguardo del-l’«unità che l’oggetto ha e che l’oggetto è»6. Fu questo uno sviluppo di grande intensità, se è vero che proprio in quell’estate condivisa del 1905 Daubert inalberò una delle bandiere che avrebbero guidato la prima delle secessioni fenomenologiche: quel richiamo alla wirkliche Wiklichkeit non avrebbe avuto echi solo nella ben più tarda opera di Heldwig Conrad-Martius, ma anche nelle riflessioni del maestro, da quei manoscritti coevi e fino al secondo volume di Ideen7. A decidere però se quell’espressione raddoppiata fosse un’iperbole o una tautologia non fu indifferente il ricorso alla domanda sull’indi-vidualità. Mentre ancora la tesi di partenza identificava, per Daubert, l’oggettualità con il «materiale sensibile. La medesimezza [Selbigkeit].

che era stato però assente a Seefeld, ma che non mancò alle lezioni pfände-riane, Adolf Reinach, cfr. K. Schuhmann-B. Smith, A. Reinach: an intellectual Biography, in K. Mulligan (ed. by), Speech-Act and Sachverhalt: Reinach and the Foun-dation of realistic Phenomenology, Dordrecht-Boston-Lancaster 1987, p. 9.

6 J. Daubert, A I 11/53r, 62r (8/11/1906) e A I 8/78 (14 luglio 1905); cit. da K. Schuhmann, Daubert-Chronik, in Id., Selected papers on phenomenology, ed. by C. Leijenhorst and P. Steenbakkers, Dordrecht 2004, p. 313 e p. 298.

7 A questo riguardo offre un preciso orientamento la nota che Stefano Besoli include sui Münchner, in margine alla sua introduzione a A. Reinach, La visione delle idee, a cura di S. Besoli e A. Salice, Macerata 2008, pp. XV-XVI. Sulla formazione e diffusione della locuzione wirkliche Wirklichkeit nel-la cerchia degli studenti lippsiani bisognerebbe poter valutare tuttavia anche un’altra variabile, forse non trascurabile. Pochi anni prima quell’espressione fa infatti il suo ingresso nel lessico filosofico attraverso le nietzscheane Opi-nioni e sentenze diverse (1879), che comporranno il secondo volume di Umano, troppo umano (1879), il cui paragrafo 32 (ed. it. a cura di M. Montanari, Mila-no 201010, p. 23) è titolato appunto: Die angebliche “wirkliche Wirklichkeit”, la cosiddetta “realtà reale”. In quel caso, il raddoppiamento giustifica il “per così dire” da cui viene introdotto: è solo la mossa retorica, e poco con-vincente, del poeta che, imponendo una gerarchia assiologica alla realtà, la svaluta, la abbandona ad un valore “reale” della realtà, che però, giusto valendo come reale, non è più soltanto reale. La dimostrazione di quanto quest’uso nietzscheano fosse noto ai Münchner esula dai compiti di questa nota – nonostante sia acquisito che Pfänder fosse lettore di Nietzsche; che, però, quelle righe fungessero almeno da monito all’utilizzo realista del mot-to “realtà reale”, sembra sufficientemente evidente.

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L’essenza della determinazione in generale. Lo stato di cose»8, pochi mesi dopo l’attenzione sarà rivolta ai differenti livelli della coscienza di oggettualità, ove si distinguono «1) l’oggetto come ciò che è già colto concettualmente o formato semanticamente; 2) l’oggetto deter-minato solo dall’intuizione o dalla “coscienza-di”; 3) l’oggetto come la messa in forma [Formung] soggettivistica o sostanziale nell’unità del pensiero, quest’autentica indipendenza, a cui ci si riferisce»9. Quando sul finire delle lezioni pfänderiane, si sarebbe incontrato con la problematica affermazione secondo cui essere-inteso, oggettualità ed unità sarebbero la stessa cosa10, Daubert aveva già maturato un tentativo di chiarimento fenomenologico dell’autodatità come ulti-ma adeguazione che trovava nell’individualità una precondizione tanto necessaria quanto difficile ad afferrarsi. «Nell’intendimento diretto non si dà differenza se ciò che è presente è lo stesso o non lo è. L’identificazione non è lo stesso. Il Quale rispetto all’individua-zione non muta se è colto nella rappresentazione o nella percezio-ne. Bisogna invece distinguere l’individuo: 1) come ciò che è dato isolatamente; 2) come ciò che fa differenza tra questo e un altro. Nell’ultimo caso [l’individuo] è già sempre incluso in un contesto (sia reale che di calcolo [Rechnungszusammenhang]), che fa la diffe-renza tra questo e un altro. Perché si realizzi una differenziazione, non basta la differenza [Dispartheit], ma c’è bisogno del contesto»11.

8 J. Daubert, A I 8/78, cit. in K. Schuhmann, Daubert-Chronik, cit., p. 299.9 Id., A I 1/41, cit. in K. Schuhmann, Daubert-Chronik, cit., p. 299. Con-

corrono alla maturazione della posizione daubertiana sia un colloquio, nel Natale del 1905, con Lipps, il quale per primo aveva utilizzato l’espressione wikliche Wirklichkeit nel 1899, sia una approfondita lettura degli Hume-Studien di Meinong (Hume-Studien I: Zur Geschichte und Kritik des modernen Nominalis-mus, in «Sitzungsberichte der philosophisch-historischen Klasse der Kaiser-lichen Akademie der Wissenschaften», 87, 1877, pp. 185-260; Hume-Studien II: Zur Relationstheorie, ivi, 101, 1882, pp. 573-752).

10 Questa tesi viene attribuita ad August Gallinger, anch’egli già pre-sente a Seefeld, cfr. K. Schuhmann, Daubert-Chronik, cit., p. 299; Id., Die Dialektik der Phänomenologie I: Husserl über Pfänder, Den Haag 1973, p. 130. August Gallinger, assiduo frequentatore delle lezioni di Pfänder, si sarebbe abilitato a Monaco nel 1914; tra le sue opere, Das Problem der objektiven Mögli-chkeit, Leipzig 1912.

11 J. Daubert, annotazione sulle lezioni di Logica di Pfänder (13/03/1906), Pfänderiana B 11 1/B, cit. in K. Schuhmann, Daubert-Chro-

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È così evidente come l’iniziale solidarietà tra indipendenza ed adeguatezza ultima o, meglio, tra completezza e datità, si incrini dinanzi al rovinio dell’individuazione nel nicht selbst, includendo accanto alla disparatezza dell’individuo, la sua differenza, ovvero ammettendo oltre alla indipendenza dell’interezza anche la dipen-denza dell’unità individuale, in quanto differente. Tale dipendenza si amplifica inoltre dacché si considera l’identità del Quale rispetto alla sua estensione, da quando cioè si fa innanzi anche l’analisi dell’essenza individuale. «Può un Quale, a prescindere dalla sua estensione, essere definito individuale?»12 oppure «l’haecceitas si dà oggettualmente?13».

Queste dovrebbero essere in breve le difficoltà di Daubert e Pfänder, cui si riferisce Husserl; ma queste difficoltà sono soltanto gli effetti del modo in cui era stato impostato il problema dell’in-dividualità e dell’individuazione, e come tali ci aiutano a condurre un’indagine indiziaria su come si sia consumata la distanza tra il pri-mato della realtà reale e l’affermazione dell’identità del reale o della necessità dell’individuale14. Ma contribuiscono anche ad intendere la traduzione della wirkliche Wirklichkeit prima in reale Wirklichkeit, quale grado dell’essere empirico, «il reale che si costituisce nel pre-reale [Vor-reale]»15 e poi di nuovo in una wirkliche Wirklichkeit che corrisponde «al costituirsi di una piena datità della cosa materiale, a quella datità in cui una cosa esibisce la sua reale realtà»16, all’interno

nik, cit., p. 305.12 J. Daubert (13/02/1906), Pfänderiana B 11 1/6-7, cit. in K. Schuh-

mann, Daubert-Chronik, cit., p. 304.13 J. Daubert (20/02/1906), Pfänderiana B 11 1/7, cit. in K. Schuh-

mann, Daubert-Chronik, cit., p. 304.14 Due principi che Husserl esprime rispettivamente nelle forme de

«l’identico è il reale» (Manoscritti di Seefeld [1905], in Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 255) e de «l’individuale è necessario» (Per la dissoluzione dello schema contenuto apprensionale-apprensione [1907-1909], ivi, p. 275).

15 Ivi, p. 289.16 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica,

II, ed. it. a cura di V. Costa, Torino 2002, p. 59. Un passaggio intermedio è costituito dal primo volume delle Ideen – Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I (1913), ed. it. a cura di V. Costa, Torino 2002, p. 49 – , ove l’espressione reale Wirklichkeit è utilizzata per rendere un significa-

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di un’esperienza che si orienta a partire dal corpo proprio del sog-getto esperiente.

Quanto ricade sotto il titolo fenomenologico di individuale e di individuazione è un ambito nominale e terminologico che compren-de le nozioni di unità e di identità, di medesimezza e di identità, di molteplicità e di differenza, di relazione e comparazione, ed ancora di tipo e qualità, di essenza individuale e di estensione. Tali lemmi andranno fissandosi nel vocabolario husserliano – incorrendo in oscillazioni e fasulle sinonimie – attraverso una lunga durata che si estende per lo meno fino ai manoscritti di Bernau del 1917 ed oltre, coincidendo con un primo approntamento di un’estetica trascenden-tale fenomenologica, e quindi con le corpose analisi sulla struttura della coscienza – che occuparono gli anni di Gottinga e che furono ampiamente utilizzati per la composizione postuma di Esperienza e Giudizio 17– ma anche con la ripresa di alcuni capitoli dei suoi prece-denti studi filosofico-matematici. Sarà infatti proprio attorno ai ripe-tuti tentativi di definizione dell’unità cosale, e pertanto dell’ancora vaga distinzione tra la coscienza di identità e la forma dell’unità, che si poterono fondere nei programmi di ricerca di quest’epoca la ride-terminazione dei concetti di numero e di varietà e la composizione di una più coerente teoria dell’esperienza percettiva e del giudizio. Ciò permise a Husserl di avviare su nuove basi non solo il confronto con Kant e Hume – rispettivamente circa l’unità, e la sua grandezza, e circa il nesso tra individuazione ed identificazione – ma anche una vera e propria riscrittura dell’enciclopedia filosofica antica, come comprova la frequente occorrenza delle locuzioni di tòde tì e di hèn epì pollôn, ambedue utilizzate in una peculiare platonizzazione del lessico aristotelico, su cui ci soffermeremo in seguito.

to parziale di Wirklichkeit limitato all’ambito effettualmente naturale.17 Come attesta Eugen Fink in Die Spätphilosophie Husserls in der Frei-

burger Zeit, in H. I. van Breda (hrsg. von), Edmund Husserl. 1859-1959, Den Haag 1959, p. 110, Husserl avrebbe chiesto a Landgrebe nel 1927 di mettere insieme i materiali delle lezioni ed i manoscritti stesi nel periodo gottinghe-se tra il 1901 ed il 1916 sotto il titolo di Studie zur Strukture des Bewusstseins. Cfr. Th. Vongehr, Husserl über Gemüt und Gefühl in der Studien zur Struktur des Bewusstseins, in B. Centi-G. Gigliotti, Fenomenologia della Ragion Pratica, Napoli 2004, pp. 227-253.

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Di questo ampio rivolgimento concettuale riteniamo possa fare da centro un appunto, che, significativamente intitolato al ripensa-mento della riflessione di Seefeld, Husserl dedica al tipico, al mate-matico ed all’unità dell’oggetto temporale18. Un tale accentramento è motivato dalla possibilità di individuare, a partire da qui, il legame che tiene insieme la costituzione dell’unità reale della cosa – quel-la che in seguito sarà definita come aisthetòn e che in questi anni merita il nome di unità di apparizione – le forme tipiche di unità e «la sfera delle idee, dei puri concetti limite di tipo matematico: punto matematico, lunghezza o segmento matematico, divisione in infinitum»19. Un legame che stringe la storia naturale dell’esperienza e la logica della conoscenza scientifica, imponendo alla fenomeno-logia husserliana un’irrimediabile posizione storico-critica rispetto a quella tradizione baconiana che aveva distinto come due concorrenti fonti scientifiche la storia naturale e l’esperienza, ove il rigore della prima emendava l’approssimazione della seconda. E se non sarà pos-sibile seguire la formazione di quella Naturhistorie che sorregge ogni correlazione ed inferenza empirica, bisognerà comunque imparare a leggerla in filigrana mentre si seguirà il versante che dall’unificazione condurrà alla tipizzazione ed alle più compiute formalizzazioni ide-ali per poi tornare a dare conto dell’individualizzazione nell’essenza concreta. Quanto un siffatto percorso teorico riesca a far coincidere l’emendazione della precedente dottrina ontologico-formale dell’in-tero e delle parti20 – dalle cui ambasce siamo partiti – con l’abboz-zo di una ontologia metrica che possa finalmente sostenere una fenomenologia della natura, sarà compito delle pagine che seguono dimostrarlo, nella convinzione che ne vada non solo della deline-azione di un’epistemologia fenomenologica, ma anche della stessa

18 Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., pp. 262 e sgg. 19 Ivi, p. 264.20 Ciò non significa affatto che si considera archiviata la teoria della

Terza Ricerca Logica, che invece, pur emendata, accompagnerà l’intera rifles-sione husserliana sino agli scritti di genealogia della logica, come ancora si evince da Esperienza e Giudizio (1938), ed. it. a cura di F. Costa e L. Samonà, Milano 2007, in part. pp. 305 e sgg. Cfr. G. Piana, La tematica dell’intero e delle parti, Milano 1977.

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auto-caratterizzazione storica della fenomenologia come filosofia trascendentale.

2. Simultaneità impossibile.

«La stella che ora vedo, forse non c’è più da migliaia di anni»21 – così Husserl formula l’esempio più chiaro dell’incoincidenza reale tra la cosa naturale, il fenomeno e la sua percezione, ed allo stesso tempo designa il margine inferiore di quell’essere allo stesso tempo che avrebbe assicurato all’esperienza la presenza dell’esperito. Tuttavia, seppure il corpo celeste potrebbe non sussistere più, od almeno non sussistere più allo stesso modo, il corrispettivo oggetto estetico, così come quello scientifico, pare darsi insieme alla sua visione a distanza. Quanto più aumenta la distanza – quantunque questa possa essere tecnicamente ridotta dalla ben calcolata successione di lenti in un telescopio – tanto più si allontana la sussistenza dell’ente reale dal suo aisthetòn. Non si tratta qui della semplice distinzione, consueta in Husserl sin dal confronto con Twardowski, tra oggetto reale ed oggetto intenzionale, quanto piuttosto del tentativo di delimitare l’ampiezza possibile di una simultaneità immanente tra l’apprensione e l’appreso nell’identico “ora” presente. Detto altrimenti, si tratta di vincolare la presenza al carattere distintivo della simultaneità: se cioè allo stesso tempo non è necessario alla percezione che sia l’og-getto esterno, dovrebbe pur tuttavia esserlo quello propriamente percepito22. È pertanto al fine di superare la dualità insistente tra dato sensibile ed apprensione – che così rigidamente aveva segnato la formazione della fenomenologia di un’ingombrante ipoteca sensi-stica e di un poco consapevole kantismo della cecità del contenuto

21 Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 290.22 Cfr. U. Melle, Das Wahrnehmungsproblem und seine Verwandlung in phäno-

menologischer Einstellung. Untersuchungen zu den phänomenologischen Wahrnehmungs-theorien von Husserl, Gurwitsch und Merleau-Ponty, Den Haag 1983, in part., pp. 34 e sgg.

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sensibile23 – che Husserl richiama l’ambigua nozione di simultaneità tra l’apparire dell’apparizione e quello di ciò che appare.

Lungi dal risolverlo, il problema ne risulta ulteriormente compli-cato. «Problema: questa simultaneità è qualcosa di originario, di origi-nariamente essenziale, o è scaturita soltanto dall’obbiettivazione delle cose spirituali e delle anime? È questa obbiettivazione a presupporre quella simultaneità o viceversa»24. Se infatti la funzione a cui obbe-diva l’apprensione era quella dell’obbiettivazione, l’indecisione così espressa ha il solo merito di introdurre l’ipotesi dell’ulteriore appa-rire della simultaneità. Una tale simultaneità infatti dovrebbe poter “apparire”, ma «in generale essa non [potrebbe] affatto sussiste[re] “veramente”, come è ovvio»25. Se così non fosse allora il medesimo flusso dei modi di coscienza sarebbe un processo e la coscienza-di-“ora” sarebbe a sua volta adesso, se così non fosse dovremmo cioè considerare come oggetto temporale immanente la medesima coscienza percettiva o sensibile26. La simultaneità, in altri termini, è una relazione di coincidenza temporale possibile – di coincidenza, si intenda, e non affatto di identità della forma o della durata temporali

23 Mentre sulla prima questione non posso che rimandare all’ingen-te letteratura al riguardo (si vedano almeno, oltre il già citato U. Melle, H. U. Asemissen, Strukturanalytische Probleme der Wahrnehmung in der Phäno-menologie Husserls, in «Kantstudien», Ergänzungshefte 73, Köln 1957; D. Lohmar, Grundzüge eines Syntesis-Modells der Auffasung: Kant und Husserl über der Ordnungsgrad sinnlicher Vorgegebenheit und die einer Phänomenologie der Auffa-sung, in «Husserl Studies», 10, 1993-1994, pp. 111-141; V. Costa, L’estetica trascendentale fenomenologica, Milano 1999) sulla seconda sembra opportuno ricordare un brano del 1907-09, in cui si legge (Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 297): «la coscienza del tempo è quindi una co-scienza obbiettivante. Senza identificazione e distinzione, senza posizione-d’“ora”, posizione-di-passato, posizione-di-futuro ecc., nessuna durata, nes-suna quiete e mutamento, nessun essere di successione ecc. Ciò vuol dire: senza tutto questo il “contenuto” assoluto resta cieco, non significa alcun essere obbiettivo, né durata ecc. E in questo contesto rientra anche quella differenza tra presentazione e presentificazione, su cui si fa tanta confusio-ne. Qualcosa è nel tempo obbiettivo. Qualcosa! Questo riguarda l’apprensione obbiettiva ecc.».

24 Ivi, p. 290.25 Ibid.26 Ivi, p. 326-327.

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– all’interno di un tempo già obbiettivato, e che pertanto non può essere predicabile della medesima obbiettivazione. Perché anche solo possa apparire, la simultaneità deve apparire temporalmente mentre l’obbiettivazione è atemporale e non è lecito affermare che l’obbiet-tivato le è simultaneo. «(In che misura poi sia obbiettivabile nella natura, nel tempo “obbiettivo”, è una questione a sé)»27.

Il carattere della simultaneità è quello che la tradizione moderna – da Leibniz a Kant – aveva attribuito alla costituzione appercettiva dell’oggetto ed alla medesima possibilità della sua successione. La serie infinitesima delle percezioni così come la struttura analogica dell’esperienza doveva essere assicurata dal ripetersi di una simul-taneità parziale tra i margini delle diverse fasi. L’ordito stesso della meccanica classica sarebbe impensabile se non si potesse ipotizzare la sovrapposizione di ciò che almeno in parte – o meglio, soltanto in parte – accade allo stesso tempo. La simultaneità infatti era la forma fisica della correlazione, di quella in prossimità, per contatto, per contiguità, e di quella a distanza, mediata dalla comunità spazio-materiale (l’etere) e dalla ubiquità temporale (il tempo assoluto)28. Quando, dunque, Husserl, dopo averla introdotta, si vota a smontare la nozione di simultaneità – mentre quasi negli stessi anni un’opera analoga era condotta sul versante scientifico-naturale da Einstein29 –

27 Ivi, p. 327.28 Sulla presenza, pur non chiaramente tematizzata, del simul nella

meccanica newtoniana rimando a M. Jammer, Concepts of Simultaneity. From Antiquity to Einstein and Beyond, Baltimore 2006, pp. 68-94. Non è possibi-le rendere in nota la rilevanza che la nozione di simultaneità assolve nella filosofia kantiana (in part. nella Terza Analogia dell’Esperienza) e quindi an-che nell’accantonamento del motivo leibniziano di una simultaneità pre-temporale, in quanto espressione dell’unità continua della molteplicità degli enti, che invece pare tornare vivacemente nelle analisi fenomenologiche sul tempo e sulla costituzione della cosa. Che tuttavia il principio del Zugleichsein – garante ultimo della struttura analogico-unitaria dell’esperienza, risultasse allo stesso Kant insufficiente, lo dimostra il ripensamento dello Übergang e l’introduzione di un fenomeno del fenomeno in temporale, come suggello del passaggio dai Principi metafisici alle Scienze della natura. In proposito si veda almeno E. Cassirer, Teoria della relatività di Einstein (1921), in Id., Sostanza e funzione – Sulla teoria della relatività di Einstein, ed. it. a cura di G. Preti, Firenze 1973, pp. 524 e sgg.

29 Si veda il primo paragrafo, La definizione di Simultaneità, in A. Einstein,

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ingaggia un radicale confronto con la vicenda del pensiero filosofico e scientifico della Modernità. Non possiamo allora definire l’insieme della coscienza della sensazione originaria, né quello della serie con-tinua dei modi di deflusso di sensazioni originarie anteriori come dei “simultaneamente”, perché non possiamo parlare «di un tempo della coscienza e se concepiamo le sensazioni originarie come coscienza di simultaneità, e cioè del suono, del colore od altro ancora in uno stesso e medesimo “ora attuale”, non diciamo però simultanea essa stessa e soprattutto non chiamiamo fasi simultanee di coscienza le fasi dell’“insieme”-di-segmento-temporale, come non chiamiamo sequenza temporale la successione della coscienza»30. Restano tut-tavia sia la simultaneità istantanea delle sensazioni originarie sia la continuità del loro deflusso; nel primo caso la simultaneità sta per l’identità di un insieme quanto alla forma, nel secondo la continuità sta per la disidentità dell’altro insieme quanto alla forma. L’essere istantaneamente-insieme deve quindi essere essenzialmente distinto dall’essere continuamente-insieme. «Istantaneamente-insieme con ogni sensazione originaria c’è questa o quella sensazione originaria di altri oggetti, e anche la sensazione originaria di un oggetto può eventualmente essere considerata come un complesso i cui elementi sono istantaneamente-insieme. [Invece], con ogni sensazione origi-naria, nella consecuzione fansica di sensazioni originarie troviamo un “insieme” fansico di segmento di modi, come la parola segmento suggerisce, una serie continua unidimensionale, i cui punti racchiu-dono a loro volta in sé l’“insieme”-istantaneo»31.

È facile notare come il simultaneamente-insieme sia diventato l’i-stantaneamente-insieme mutando decisamente significato dalla desi-gnazione di un complesso esteso e contiguo a quello di uno inesteso e puntuale. Nonostante risulti alquanto balzano chiedersi se l’un oggetto penda dal lato dell’essere istantaneamente-insieme oppure da quello dell’essere continuamente-insieme, rimane comunque ancora

Zur Elektrodynamik bewegter Körper, in «Annalen der Physik», 17, 891–921 (1905); poi in Id., The Collected Papers of Albert Einstein, Princeton 1987, vol. 2, pp. 276–306. Cfr. Id., Relatività. Esposizione divulgativa, ed. it. a cura di L. Geymonat, Torino 2011, pp. 61-63.

30 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 360.31 Ivi, pp. 360-361.

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oscuro il modo in cui rispettivamente istantaneità e continuità possa-no rendere conto dell’identità nel cambiamento ovvero dell’unità nel molteplice. Istantaneo e continuo sorgono infatti dall’impossibilità del simultaneo, dalle macerie di una serie contigua e densa, ma cio-nonostante restano gli estremi di contiguità e densità: infinitamente densa può essere una serie di istanti, ma non contigua né continua, così come ad una continuità non è sufficiente essere composta da ele-menti di un insieme semplicemente contiguo. «Potrà mai una serie di contenuti primari coesistenti portare all’intuizione una successione? Una serie di contenuti-di-“rosso” simultanei, una durata di un rosso, di un suono do, e simili? È possibile ciò in linea di principio?»32.

Per comprendere come vada in frantumi la simultaneità e faccia largo all’istantaneo ed all’identico del tempo33, riprendiamo alcuni manoscritti che dalla prima parte del corso del 1904-05 si estendono fino al 1909. Ancora agli esordi di una fenomenologia della percezio-ne, Husserl rinviene una qualche peculiarità quanto alla «modalità relazionale rispetto all’oggetto di una percezione» nel «“qua-stesso” (di persona) [Selbst-da (in eigener Person)], lo “Stesso presente”, lo “Stesso colto” faccia a faccia. Dunque non solo obbiettivamente: [ma] in stesso questo, simultaneamente ecc.»34. L’emersione di questo carattere proprio alla percezione – guadagnato attraverso una rudi-mentale comparazione con la fantasia, il ricordo e la percezione – che di qui a poco, ricapitolando le prime ore di lezione, meriterà il nome di leibhaft35, implica una difficile declinazione della simultaneità, in

32 Ivi, p. 318.33 Ivi, p. 279: «Il tempo non è là due volte, simultaneità vuol dire identità

del tempo, benché il momento temporale sia dato come inerente al reale». Sulla simultaneità Husserl torna nell’Appendice 14 (1920/21) al §. 27 delle Analyse zur passiven Sinthesis, Hua, Bd. XI, hrsg. von M. Fleischer, Den Haag 1966, pp. 389-392. Cfr. G. C. Moneta, On Identity. A Study in genetic Phenome-nology, Dordrecht 1976.

34 Id., Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 9.35 Ivi, p. 14. Nell’introduzione al volume – ivi, pp. XLVII-XLVIII –

Regula Giuliani attesta nel corso del 1904/05 il primo utilizzo di leibhaft e adduce come prova le annotazioni che Husserl aveva segnato in margine alla sua copia della dissertazione per il Rigorosum di Wilhelm Schapp, pubblicata nel 1910 a Gottinga con il titolo di Die Beiträge zur Phänomenologie der Wahr-nehmung e letta dal maestro l’anno precedente la sua edizione. «Accanto alla

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cui il gleich della Gleichzeitigkeit dovrebbe valere come sinonimo del Selbst del “Selbst gegenwärtig”, l’uguale come sinonimo dello stesso, l’insieme come sinonimo dell’uno. Una tale precauzione è necessa-ria ad evitare due pericolosi fraintendimenti, che Husserl mette già chiaramente in luce, ambedue inclusi nell’intendimento letterale della simultaneità come risultato di una comparazione esplicita, nel primo caso, tra percezione ed oggetto, nel secondo tra percepito ed essere (vero) del percepito. Alla percezione, infatti, «è presente lo stesso oggetto, [il quale] non può essere ritrovato [vorgefunden] nel percepito come qualcosa da esso distinto. Il trovarsi [vorfinden] dell’oggetto è proprio questo e null’altro, è solo un altro modo di esprimere il percepire, ed il percepire l’oggetto non può consistere nel fatto che l’oggetto sia qualcos’altro»36. Ciononostante è possibile che, nonostante sia percepito un qualche oggetto, noi pensiamo che esso non sia (vero). Nella percezione così si può distinguere tra un semplice Wahrnehmen, in cui «lasciamo da parte il dubbio sull’essere del percepito oppure non lo prendiamo in considerazione»37, un für-seiende-halten, un tenere-per-essente, ove si tiene, si mantiene vigente il riferimento a qualcosa, ma non si prende l’essente come ciò che veramente è e che, veramente essendo, causa il riferimento ad esso, ed infine questo prendere per vero, questo wahr-nehmen, a cui si può opporre un falsch-nehmen, o che semplicemente può scolorare in quest’ultimo nel corso dell’esperienza.

Per poter considerare allora solo il primo significato di percezione, la simultaneità non potrà più valere come com-presenza (e quindi il presente percettivo come con-presente), ma come con-pre-presenza, come con-presentazione: al gleich-zeitig dovrà sostituirsi il gleich-darstellend. A questo punto però non sarà più in gioco la presenza

proposizione: “Che una cosa stia qua o si presenti come questa leibhaft: que-sto è un titolo per le predatità, che stanno prima di ogni teoria sulle cose o sulla percezione di cose” (p. 37), Husserl ha segnato una H (=Husserl)». Vi sarebbe inoltre la lettera del 17 ottobre 1911 che Jasper scrive per ringrazia-re Husserl per aver letto il suo Zur Analyse der Trugwahrnehmungen. Leibhaftig-keit und Realitätsurteil, pubblicato sul «Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie», 6, 1911, pp. 460-535. Cfr. E. Husserl, Briefwechsel, Bd. VI, Philosophenbriefe, p. 199.

36 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 10.37 Ibid.

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allo stesso tempo, ma la presentazione diversa di uno stesso, o meglio le presentazioni diverse, e tendenti all’uguaglianza, di uno stesso.

Se non seguiamo il dubbio circa das Sein des Wahrgenommenen, ci resta: «molte percezioni – lo stesso oggetto. E molte percezioni sono anche quanto al loro contenuto [Gehalt] fenomenologico evidente-mente differenti. È chiaro che nell’identificazione non si trova [vor-finden] qualcosa di comune [Gemeinsames], di fenomenologicamente identico: l’oggetto che, come una parte reale [reel], sarebbe comune in ogni vissuto»38.

Perché possa essere definitivamente consumato il passaggio dalla presenza-insieme alla presentazione dell’uguale o dell’uguagliabile e poi ancora a quella dell’identico (essendo sia l’uguale che il comune insufficienti a definire l’identico), Husserl inserisce un’ulteriore capi-tale differenza – con cui emenda la dottrina della percezione sensi-bile che era stata esposta nelle Ricerche Logiche39 – tra il contenuto effettivo, reale [reel] della percezione, ovvero ciò che «la percezione contiene fenomenologicamente, effettivo come parte costitutiva, come parte, lato» ed il contenuto intenzionale, ovvero «l’oggetto e le parti e i lati dell’oggetto. Ed “intenzionale” è il contenuto o meglio l’oggetto [Gegenstand], perché è inteso nella percezione o appare nella percezione nel modo ad esso proprio. L’apparire dell’oggetto, l’intendere-l’oggetto deve essere un momento effettivo [reel] della percezione. Solo perché la percezione contiene essenzialmente un carattere, un momento che chiamiamo intendere-l’oggetto, e più precisamente intenderlo-come-lo stesso-presente [selbst-gegenwärtig-Meinen], solo per questo può riferirsi all’oggetto»40.

38 Ibid.39 Ivi, p. 22: «Il concetto di percezione sensibile non è identico a quello

che nelle Ricerche Logiche porta lo stesso nome e che ha come suo opposto la percezione categoriale. La delimitazione che qui abbiamo introdotto per necessità di fatto, non era stata sviluppata [nelle Ricerche Logiche]. Il concetto di contenuto sensibile oppure di sensazione sensibile è stato cursoriamente nell’Appendice al vol. II [cfr. Percezione esterna e interna, II, ed. it. a cura di G. Piana, Milano 2005, pp. 528 e sgg.], a cui qui accenno nell’analisi detta-gliata sui concetti di percezione esterna ed interna, adeguata ed inadeguata (questo concetto di sensazione coincide con quello di contenuto primario)».

40 Id., Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 10.

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Nonostante sembra sia scongiurata la ripetizione del modello della simultaneità – questa volta tra contenuto effettivo [reel] ed oggetto intenzionale, giacché il secondo non è tenuto in relazione con il primo da una e, ma da un se..e solo se, all’interno di una elementare struttura inferenziale, che alla lettera, in-fert, conduce-in, all’interno di una peculiare inclusione che non prevede però che il secondo sia parte del primo – bisogna ancora intendere cosa distingue ciò che si trova nel contenuto effettivo e cosa nell’oggetto (intenzionale). «Essi non coincidono [decken] in generale, nonostante, anche solo parzial-mente, i colori corrispondono [entsprechen] ai colori, i suoni ai suoni ecc., dunque l’intera determinatezza dell’oggetto, le sue note interne [Merkmale] sembrino essere del medesimo genere [derselben Gattung] dei contenuti vissuti sensibilmente»41.

Così nell’impossibilità di rispondere direttamente su cosa sia propriamente l’identificazione di un oggetto, su come un oggetto possa apparire come lo stesso, su come cioè si costituisca e si renda conto del Selbsterscheinen des Gegenstandes, Husserl rimanda ad un genere comune che comprenderebbe i contenuti sensibili e le note caratteristiche dell’oggetto, ad un genere che sia l’ambito in cui rin-venire una comunità tra differenti. La comunità generica dovrebbe cioè rimediare ad un’essenziale disidentità non solo tra complessioni sensibili e percezioni, ma già prima tra sensazioni e contenuti presen-tanti; disidentità espressa nell’assunto secondo cui «le complessioni sensibili [e le sensazioni più in generale] non sono in sé ancora per nulla intenzionali [poiché] l’intenzione [Intention] subentra solo mediante il carattere dell’apprensione, il carattere della presentazione [Präsentation]»42.

Quantunque si compia in queste righe una delle esposizioni più chiare della dualità sussistente tra contenuto sensibile ed apprensione – dualità che come è noto sarà del tutto superata solo alla fine degli anni ’2043 – bisogna essere avvertiti su due dirimenti specificazioni che Husserl inserisce riguardo ai due capi della coppia: la conside-razione dell’Empfinden come un Erleben e la non-indifferenza della

41 Ivi, p. 11.42 Ivi, p. 12.43 Cfr. V. Costa, L’estetica trascendentale fenomenologica, cit., pp. 139 e sgg, e

J. Benoist, I confini dell’intenzionalità, Milano 2008.

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Präsentation all’Empfindungsinhalt. Si può intendere con sensazione «la semplice esperienza vissuta dei contenuti corrispondenti [solo se non si considera] in quali contesti di esperienze vissute si trovi e si assuma come indifferente che sia percepita o no. Se sentire significa esperire un vissuto, allora contenuto sensibile o sensazione signifi-cano lo stesso contenuto, senza però considerare l’io ed il contesto in cui [la sensazione] sta nell’io»44. Che la sensazione sia un Erleben esprime un carattere relazionale dei contenuti sensibili, ottenuto per esclusione della sua inclusione in un contesto ed in una serie di atti; esprime cioè l’essere del contenuto nel contesto della coscienza, laddove questo contesto non valga come l’infinita implicazione di atti in cui si costituisce un oggetto, ed il suo essere-saputo, né come connessio-ne della vita attuale di un io.

La contenutezza del sentito indica così l’imposizione di un qual-cosa pre-empirico nell’esperienza. Per questa ragione allora il sentire sarebbe Erleben e non Akt, giacché esso rende l’introduzione del contenuto presentante sensibile, il cui essere è la sua situazione nel contesto della coscienza in quanto diveniente-percepibile o divenien-te-oggetto, ma non ancora percepito né oggetto45.

44 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 23.45 A margine di queste pagine Husserl annota che, laddove invece si

scambiasse il contenuto sensibile con l’oggetto percepito, ovvero il dive-nire-percepibile con il già percepito come qualcosa, si finirebbe – come si verifica nel fenomenismo machiano – per considerare le medesime cose come complessi indiziari di contenuti sensibili. Cfr. E. Mach, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältniss der Physichen zum Psychischen, Jena 19034, pp. 47 e sgg. e pp. 182 e sgg. L’esito di un tale empirismo sensistico era però già stato fatto presente – seppure in un linguaggio che indulge talora all’oscurità del neologismo, ivi, pp. 38 e sgg. – dalla Kritik der reinen Erfahrung di Richard Avenarius. Nel secondo volume, pubblicato a Lipsia nel 1890, Avenarius conia il termine Idential – ivi, pp. 28 e sgg. – per indicare il grado di assue-fazione alle oscillazioni nervo-stimuliche cui corrisponderebbe il valore E del correlato dipendente. In ragione della ripetizione o della non-ripetizione di forme di oscillazioni, già assuefatte, quindi della positive oder negative Tran-sexertition, dell’abitudine confermativa o delusiva all’assuefazione, si deter-minano i valori del Thautote e dell’Eterote, dello stesso o dell’altrimenti, che rappresentano la variazione positiva e negativa dell’Idential. Ad essere idential è quindi un determinato gruppo di dati elementari della sensazione, che può risultare un contenuto indipendente, irrigidito come identità dell’ente senti-

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Eppure, la carenza oggettuale della sensibilità contraddice, di primo acchito, la sua medesima funzione di presentanza: se davvero fossero presentanti dovrebbero presentare qualcosa. Ma così non può essere. «Il contenuto “non presenta altro che se stesso” ovvero: non presenta affatto in senso proprio»46. La presentazione piuttosto ha due livelli: la presentazione immanente e la presentazione transeun-te, che si fonda mediatamente sulla prima. La mediatezza di questa seconda modalità della presentazione è data dalla sua appartenenza ad una coscienza di unità, che ha alla base una presentazione imma-nente del suo medesimo genere. Laddove però – per astrazione – risolvessimo il nesso fondativo, i presentanti non avrebbero più la loro funzione eppure non smetterebbero di essere contenuti. Si dà una presentazione, si dà una rappresentazione percettiva e così un contenuto rappresentativo ed un inteso in senso proprio. Ma una volta così distinto questo essere inteso del presentato, si solleva l’ipo-tesi che «ogni rappresentazione, che sia intenzione in senso peculiare (ogni rappresentare, cioè ogni intendere), abbia un suo fondo non-cosciente»47, ovvero un alone non propriamente inteso, una rappre-sentazione di fondo completamente vaga.

to, solo a causa dell’inversione compiuta dall’introspezione. In questo caso, l’unità sarebbe solo un’inversione dell’identità (e la molteplicità della non-identità), avendo assunto l’identificazione come primo risultato della assue-fazione bio-fisica agli stimoli. Più ancora, quindi, della distanza nella consi-derazione dei dati sensibili come elementi primari e semplici dell’esperienza (in quanto contenuti indipendenti), si può affermare che – nell’ottica della nostra indagine – sia giusto l’anticipazione dell’identità sull’unità a produrre la differenza più ampia che si scava tra Avenarius e Husserl. Sul confronto tra Husserl ed l’empirismo di Mach e Avenarius si veda M. Sommer, Husserl und der frühe Positivismus, Frankfurt am Main 1985. Ad una rinnovata lettura in particolare del rapporto tra Husserl e Avenarius – il cui nome ritorna, come quello di chi, in Germania, insieme a Schuppe, ha imboccato uno dei più seri tentativi di giungere ad una filosofia trascendentale, nella Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1934), ed. it a cura di E. Paci, Milano 1997, p. 220 – invita giustamente Vincenzo Costa nell’Introduzione – p. XXVIII – all’edizione italiana di E. Husserl, I problemi fondamentali della fenomenologia. Lezioni sul concetto naturale di mondo (1910-11), Macerata 2008.

46 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 220.47 Ivi, p. 260.

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Può essere questo sottofondo non-inteso una definizione della presentanza propria ai contenuti sensibili? Non-inteso starebbe per non-avente-oggetto, quindi per non-atto. «Gli atti psichici sono quelli che hanno contenuto intenzionale, che può effettivamente inabitare in essi durante tutta la loro durata oppure può essere susci-tato in una loro parte oppure può essere solo una disposizione. Il contenuto intenzionale è quello a cui l’atto si dirige ed in cui esso è allo stesso tempo fondato»48. Tutt’altro dagli atti sono i Zustände, quegli stati che non sono rivolti a qualcosa, che non traguardano se qualche oggetto può essere indicato; in essi «il mio animo che si comporta quindi passivamente, non attivamente, riceve, non dà»49. Ne sono esempi il piacere ed il dolore, il coraggio, la disperazione, la gioia, al cui fondamento starebbe un oggetto a cui non mi rivolgo attivamente. Non potrei però dire lo stesso del sentire: esso avrebbe a fondamento un oggetto solo se lo considerassi una risposta fisiolo-gica ed assumessi l’oggetto fondante come la cosa-stimolo, ma ciò è interdetto all’analisi fenomenologica50. Il sentito è pre-fansico, è un dabile pre-empirico, è lo stato del divenire percepito. È, in quanto pre-sentanza, l’estremo opposto alla rappresentanza. Come nella seconda il vuoto è dato dal riferimento che il contenuto non ha ancora com-piuto al proprio oggetto, nella prima è invece dato dalla relazione che l’oggetto non ha ancora compiuto al proprio essere-contenuto.

L’imporsi però di un richiamo al riferimento – il farsi avvertire della sensibilità sentita – decreta una peculiare dipendenza della pre-sentazione, essendo questa condeterminata dal contenuto sensibile. Tra contenuti presentanti e presentazione appresa vige un rapporto di dipendenza funzionale che si esprime nella formula secondo cui «il contenuto presentante dato non può essere appreso percettivamente in un qualsiasi senso, e nel senso dato non possiamo assumere un qualsiasi contenuto presentante»51. I contenuti sentiti rimandano

48 Ivi, p. 17949 Ibid. Cfr. N. Depraz-D.Zahavi,(eds.), Alterity and Facticity. New Pers-

pectives on Husserl, Dordrecht-Boston-London 1998; N. Depraz, Lucidité du corps. De lempirisme transcendantal en phenomenologie, ivi 2001.

50 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 21.51 Ivi, p. 40. Questo nesso di dipendenza funzionale, altrimenti reso

come una connessione univoca, viene del tutto eluso – e di questo Husserl

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significativamente [deuten zu] a determinatezze dell’oggetto, che però sono dello stesso genere del sentito. Ciononostante è possibile non solo che un medesimo contenuto sensibile venga appreso-come o, meglio, presenti oggetti diversi, ma anche che differenti contenuti vengano appresi-come o, ancora, presentino un medesimo ogget-to. Perché allora si intenda fenomenologicamente quest’apparente contraddizione alla dipendenza sopra esposta, bisogna ammettere che «nell’essenza di queste apprensioni si fondi la possibilità dell’i-dentificazione [o della disidentificazione o della delusione] sicché una coscienza di identità le porta a fusione [Verschmelzung] e ci dà la coscienza “lo stesso” [“dasselbe”]. L’identità non è quella dei feno-meni, ma della cosa. I fenomeni si mostrano [erweisen] come diversi: allora le percezioni che vi si rivolgono non giungono, e non possono giungere, all’identificazione»52.

Per mostrare come possa mantenersi la medesima dipendenza funzionale anche quando nello stesso senso apprensionale cambiano i contenuti presentanti, oppure con gli stessi contenuti presentanti cambia invece l’apprensione, Husserl riporta il disegno di alcuni diagrammi, che meritano attenzione ed una qualche integrazione. Poniamo di avere i seguenti cinque esempi53:

Restando medesimo l’oggetto g, nel primo esempio, si segnala il contenuto presentante parziale α, nel secondo caso l’integrazione del precedente contenuto α con β (α + β), nel terzo il contenuto parziale γ, diverso da α, da β e da (α + β), nel quinto, invece, la totalità del

è chiaramente consapevole, ibid. – dall’espressione W = Ag p, cioè percezio-ne = oggetto dell’apprensione + contenuto presentante; sarebbe altresì più chiaramente reso dall’eguaglianza W (Ag) = φP, ovvero l’apprensione og-gettuale, ovvero l’intera percezione, è funzione della Presentanza. Sulla con-nessione funzionale, e non causale, dei contenuti primari, si veda ivi, p. 219.

52 Ivi, pp. 12-13.53 Ivi, p. 42.

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contenuto di g. Il quarto esempio mostra, però, un caso particolare, in cui, fermo restando il contenuto α, ciò che è appreso come oggetto unitario non è più g, ma g+g1. Un tale allargamento apprensionale potrebbe derivare da una peculiare integrazione indicativa, hinwei-send della pura e semplice percezione del propriamente percepito, tanto da determinare una percezione mista. Un lato dell’oggetto indi-ca la sua prosecuzione, di cui non abbiamo alcun contenuto presen-tante, neanche parziale; non si tratta però né di un completamento immaginativo né di una percezione simbolica o signitiva, come quella che avrebbe luogo se avessi dinanzi una scatola di fiammiferi riportante il marchio di un’industria od un’immagine, la cui com-prensione, signitiva appunto, potrebbe sopperire ad una percezione vaga o potrebbe rafforzarla. Anzi, perché emerga la legalità della dipendenza funzionale tra contenuto presentante ed apprensione, non ogni contenuto sensibile può avere la funzione di presentare un qualsiasi oggetto. «Se deve avere un’autentica funzione presentante, un lato dell’oggetto deve almeno essere riguardato nel modo della presentazione effettiva. Quindi il colore di questo lato può essere davvero presentato solo da una sensazione di colore, la rugosità da una sensazione di rugosità e così via»54. Questo non esclude una prosecuzione immaginativa – e pertanto modificante – della presen-tazione iniziale, né che possa fare da vicaria della presentanza una rappresentanza o una presentificazione, e neanche esclude che in questi ultimi casi viga allo stesso modo una legalità essenziale nella costituzione di qualcosa.

Ciò che viene accantonato è, in prima istanza, la necessità della totalizzazione appercettiva o rimandativa – come del resto era già stato sufficientemente chiarito nel §. 26 della Sesta Ricerca Logica – e, in seconda istanza, la possibilità di mantenere una coerenza presenta-tiva nel passaggio a fonti o modi diversi. Se allora osservo il disegno di un quadrato sulla carta posso riempire ciò che ho propriamente visto – le linee perimetrali nere su un fondo bianco – con una speci-fica colorazione, o ancora posso sottoporre a traslazione e torsione la sua forma geometrica, senza variare per nulla il senso apprensionale (un quadrato), né la linea essenziale della sua esperienza percettiva.

54 Ibid.

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Se, invece dinanzi alla medesima figura, prendo un angolo per uno spigolo e quindi un quadrato per un cubo, allora non potrei esibire alcuna indicazione possibile per la prosecuzione in una dimensione che non è impropriamente percepita, ma semplicemente non appar-tiene all’oggetto. Un quadrato non è un cubo, né – a rigore – una sua parte, e così non posso estendere l’apprensione fino ad includere la faccia coperta, perché un angolo non è uno spigolo e non fugge verso una faccia che non abbiamo propriamente davanti agli occhi. È differente la struttura percettivo-essenziale delle parti e diversa è l’incompletezza percettiva in cui possiamo incappare55.

Tuttavia la possibilità di apprendere diversamente il medesimo contenuto sensibile è data da una proprietà dell’apprensione diversa da quella che consente di identificare contenuti sensibili differenti. Se sperimentiamo le diverse percezioni prospettiche di un oggetto tridimensionale, avremo rappresentazioni percettive diverse non solo individualmente – non solo cioè perché sono successive – ma anche per il loro contenuto effettivo e per il loro carattere apprensionale; in tale carattere però può risiedere un medesimo senso apprensionale, ovvero la possibilità di apprendere “nello stesso senso” le differenti apprensioni percettive, come lati o momenti del medesimo oggetto. «Così l’identificazione fonde le differenti rappresentazioni percettive nonostante la differenza nelle sensazioni sensibili, in altre parole costituisce la coscienza del medesimo oggetto. […] La coscienza di identità identifica quindi la cosa [Sache], non il vissuto della cosa»56. Le percezioni restano diverse e molte dacché hanno definito una serie nella lacuna aperta dall’imposizione delle sensazioni sentite; una serie di elementi individuali che, in quanto tali, si distinguono successivamente. Ciononostante le percezioni possono adattarsi all’identificazione, o alla contraddizione, non per una caratteristica secondaria, non cioè per la secondarietà di un’unificazione. Se, infat-

55 Una siffatta legalità essenziale – che deriva dalla dipendenza funzio-nale della presentazione dal presentante e che prescrive peculiari rapporti di compatibilità tra percezione parziale e percezione complessiva – non ha uno statuto normativo, come invece sembra esigere l’“empirismo minimale” di J. McDowell, Mind and World, Cambridge 1994, pp. XI-XII e pp. 3 e sgg. Cfr. P. Spinicci, Lezioni su Mente e Mondo di John McDowell, Milano 2010.

56 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 16.

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ti, trattenessimo, di percezioni individualmente diverse, solo il senso apprensionale e modificassimo tutto il resto – ovvero la sequenza e la modalità, ma non l’ordine – allora avremmo «la possibilità della coscienza dell’identità, l’oggetto percepito resterebbe lo stesso ed invero con evidenza»57.

Avremmo così ottenuto, certo, una prima giustificazione essen-ziale dell’identificazione di percezioni diverse, perché tra senso apprensionale ed essenza (della percezione) – che abbiamo appena assunto come identici – si mantiene una differenza non ancora del tutto chiarita: quella tra continuità (l’ordine che abbiamo lasciato immutato nelle percezioni diverse, perché venisse messo in rilievo lo stesso senso apprensionale) e comunità (quella dell’essenza generale e quindi comune alle diverse percezioni, ordinate in un medesimo senso apprensionale). Ripetendo una domanda che lo stesso Husserl pone in calce agli appunti di una lezione del novembre 1904, perché «nell’essenza della percezione W si fondi la possibilità del riempimento e dell’identificazione in una sintesi continua, nella cui connessione sorge l’apparizione di W1 e viceversa»58, è necessario che tra l’essenza di W e quella di W1 vi sia già in sé una connessione essenziale e se così fosse come si presenterebbe? Pare che il suggeri-mento sia a pensare in primo luogo ad una comunità essenziale, che consenta poi la sintesi continua dell’identificazione delle apprensioni percettive differenti, ma uguagliabili; viceversa, laddove non vi sia alcuna unità essenziale nel gruppo di percezioni in esame, laddove, quindi, le percezioni propriamente non costituiscano un gruppo, sarà necessario pervenire ad una disidentificazione o differenziazione tra elementi mutuamente dissimili. Ciò che deve emergere empiri-camente come lo stesso è una “direzione all’oggetto” a sua volta resa possibile da una comunità essenziale di un gruppo di percezioni. Tuttavia l’essenzialmente comune a tutte le percezioni di un gruppo è di essere tutte dirette all’uno ed allo stesso. Più chiaramente: che abbiamo un’essenza comune è dato dall’unità della direzione (alla cosa), che invece si fondino in una sintesi continua è dato dall’iden-tità della cosa (a cui le percezioni si dirigono).

57 Ivi, p. 17.58 Ibid.

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Eppure queste non sono che le prime ed imperfette definizioni di unità, identità ed uguaglianza che si possono ricavare dai mano-scritti che stiamo prendendo in esame. Se il loro merito non è quello dell’ampiezza e della conclusività, almeno riescono ad escludere le aporie della simultaneità nella trama della coscienza dell’identifica-zione. Che questa sia immediata o mediata59, che si imponga come «evidenza l’identità dell’oggetto percepito» – laddove cioè gli adom-bramenti trapassino gli uni negli altri continuamente, come quando un oggetto si allontana e si avvicina – o invece che «G1 e G2 si diano in maniera discreta, senza passaggio, così che si creda che sia lo stesso G, pur non vedendolo, pur non avendone evidenza»60, in nessun caso si potrebbe introdurre una qualche simultaneità. L’individualità delle percezioni o delle apparizioni di qualcosa impone che siano sempre nacheinander, l’una dopo l’altra, anche quando vige la coscienza dell’ineinander, giacché è impossibile che «due fenomeni dello “stes-so oggetto” siano simultaneamente nella “stessa coscienza”»61.

Si delinea così la complessa struttura dell’identità nella continu-ità sia quanto ai suoi modi sia quanto alle componenti della sua costituzione. «All’essenza dell’identificazione appartengono: a) la credenza, b) l’apparizione che sta a fondamento. [L’]identificazione propria è una credenza non-modificata; quella impropria è una cre-denza modificata come l’assunzione o la credenza di fantasia. Inoltre l’apparizione può essere percepita, il contenuto presentante può essere una sensazione o può essere un’apparizione di fantasia»62. Se allora ritorno su un sentiero di montagna – quello del Rohns a cui spesso Husserl si riferiva nelle sue lezioni gottinghesi – e riconosco che il dirupo che ora, scendendo, ho sulla mia destra è lo stesso di cui ho avuto timore, da cui mi sono allontanato, quando, salendo,

59 L’espressione “identificazione mediata”, appena introdotta, viene su-bito riconosciuta da Husserl come erronea (ivi, p. 224, Beilage XI – 1904/05), intendendo piuttosto una lacuna nella connessione delle percezioni proprie, ovvero il fatto che pur avendo un gruppo di percezioni qualcosa di es-senzialmente in comune, non sia per ciò stesso necessaria l’esistenza dello stesso oggetto empirico (ivi, p. 223).

60 Ivi, p. 223.61 Ibid.62 Ibid.

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lo vedevo sulla mia sinistra, e che questo stesso dirupo è quello che avevo visto silenzioso ed innevato qualche mese prima, avrò chiara la coscienza dell’identità delle tre diverse presentazioni. «Solo se si suppone il ricordo (non più fresco, percezione come coscienza diretta del passato) e, poi in seguito, un’identificazione conservante [absetzende Identifizierung], il pensiero, potrò avere una conclusione di identità»63.

Adesso che pare essere stata defalcata la possibilità della simulta-neità nella coscienza di identificazione – e con essa sia il residuo di una frontalità adeguativa rispetto alla cosa reale sia la mitologia di una coincidenza verticale nei contenuti di coscienza – ritorna alla mente quella traduzione, abborracciata con sin troppa leggerezza, dell’essere-allo-stesso-tempo nell’istantaneo ed anche l’inevitabile parentela che lega l’istantaneo ad un margine di dissomiglianza o di discontinuità.

3. L’istantaneo tra contiguità e somiglianza.

Assunto che la “percezione di un oggetto” è una complessione, una serie temporale di percezioni distinte e legate le une alle altre, o, ancora meglio, che «la percezione è sempre una fase nel contesto di una serie temporale (il ricordo)»64, non si può tuttavia negare che gli elementi di una tale unità continua, pur essendo a loro modo ancora dei complessi, non sono però continui dello stesso genere. E questo non vale soltanto per gli elementi presentanti, che non sono a rigore affatto elementi, avendo fatto astrazione da una qualsiasi loro inclusione in una serie o in un contesto; è piuttosto il caso di quelle percezioni monofasiche [einphasige Wahrnehmung] che non fungono da fase in una sintesi continua. Ad esempio, «quando, in una buia notte di tempesta, un lampo illumina all’improvviso [urplötzlich] una regione del cielo, noi ne abbiamo certo una percezione, ma non si può parlare di una sintesi di percezioni che scorrono l’una sull’altra [ineinander übergehender]»65. Dall’esibizione di questo caso si posso-

63 Ivi, p. 224.64 Ivi, p. 44.65 Ivi, p. 44.

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no isolare nozioni differenti e non sovrapponibili: la repentinità di ciò che accade, la sua istantaneità nella sequenza del tempo oggettivo, la discontinuità e semplicità della corrispondente percezione. Tuttavia repentinità, istantaneità e non riducibilità al continuo del semplice si trovano di consueto intrecciate ed indistinte nella trattazione dell’unimolteplice nella temporalità, in ragione di una grossolana confusione tra l’exaiphnes platonico ed il nun aristotelico e quindi tra la partecipazione uno-molti ed il limite infinitesimo di un con-tinuo66. Ovvero tra logica ontologica e psicologia della conoscenza. La possibilità che si apre nell’analisi fenomenologica dell’Urplötzlich-Augenblick – in cui, come sarà reso evidente in seguito, rifluiscono i temi greco-classici dell’uni-molteplicità – è quella di distinguere ed accordare una dottrina sinecologica dell’esperienza (di chiara ascen-denza aristotelico-brentaniana, seppur sottoposta a forti correzioni) ed un’ontologia elementare in cui può farsi largo la discontinuità delle essenze individuali degli enti che sono. E questa potrebbe esse-re, per ora, la migliore definizione di quell’onto-fenomenologia al primo livello che segue il filo conduttore della cosa – così come va delineandosi nella prima decade del secolo scorso. O di quell’onto-logia metrica dell’ente fisico, di cui stiamo cercando di rintracciare i lineamenti.

Il problema posto dall’Urplötzlich-Augenblick potrebbe essere inteso come quello dell’entificazione di qualcosa che non era già prima, oppure dell’alterità dell’individuale. Un tale limite discon-tinuo alla sintesi identificante è solitamente rappresentato con il carattere dell’indeterminatezza o della vuotezza67. Ciò che rimedia a queste lacune è un Gattungsmäßige, quella comunanza essenziale di cui partecipano le presentazioni di un determinato gruppo o genere e che qui viene espressa da un allgemeines Moment, da un momento generale. «Il nuovo è la più piccola delle determinazioni specifiche; ciò che rende possibile e media il riempimento è la forma generica [gattungsmäßige Form]. […] Il riempimento come autopresentazione del conosciuto – di un qualcosa che è inteso ed appare in maniera

66 Platone, Parmenide, 156 d1-e2; Aristotele, Fisica, IV, 218 e sgg. Cfr. A. Masullo, Il tempo e la grazia, Roma 1995 pp. 39-47; M. Cacciari, Dell’Inizio, Milano 1990, pp. 275-290.

67 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 60.

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determinata – [si distingue] dal riempimento come autopresentazio-ne di ciò che è conosciuto solo in generale ed in modo del tutto inde-terminato; vi è autopresentazione di qualcosa di nuovo, di qualcosa che solo ora giunge ad essere noto, ma nel senso di un’intenzione che vi si rivolge»68. La differenza tra conosciutezza e novità è però solo relativa e costantemente digradante, giacché sia l’assoluta deter-minatezza che l’assoluta indeterminatezza sono casi-limite. «Nessuna percezione – sostiene Husserl – può rendere presente la meraviglia, una cosa assolutamente sconosciuta non può essere portata a chia-rezza singolarmente. Un cosa assolutamente sconosciuta è un con-trosenso. […] Una cosa che si presume assolutamente sconosciuta è però già un oggetto spaziale, ha ovviamente una forma spaziale, ha contrassegni sensibili-qualitativi»69. Quello che qui sembra decisivo è la locuzione zu einzelner Klarheit, ad una chiarezza singolare ovve-ro in quanto singolarità, in quanto semplicità singolare. E lo stesso varrebbe per il non-essente.

Non per questo però orrore e meraviglia sono espulsi dal tessuto dell’esperienza. «Il terrore del sole che nasce» può davvero pararci-si davanti solo quando ha perduto la sua semplicità. Solo perché non è affatto qualcosa di nuovo. Nel poema in cui Miłosz ci affida il racconto in versi di una Varsavia all’alba della Seconda Guerra Mondiale, la piccola prostituta e l’operaio di Tamka attraversano l’aria silente del non-ancora-mattino, sotto l’ombra indistinta dei palloni di sbarramento che riempiono, minacciosi, il cielo sopra la città. Ma davanti a loro può darsi il terrore del sole che nasce, solo perché già sono condannati al pensiero di «cosa è stato di loro nei giorni e negli anni»70. E come il poeta polacco – e i suoi piccoli

68 Ivi, p. 61. 69 Ivi, p. 62. «È nuovo – annota Husserl (ivi, p. 33) – ciò che è mes-

so in risalto [Herausheben] in quanto appare di per se stesso separatamen-te [Für-sich-gesondert-Erscheinen], ma non è nuova la determinatezza ovvero lo è il fenomeno della determinatezza rispetto all’oggetto ed al fenomeno dell’oggetto. È evidente che nell’essenza dell’intera percezione data (dell’in-tero fenomeno) si fonda la possibilità ideale di compiere percezioni parziali e quindi la possibilità ideale di compiere l’identificazione con evidenza, che l’uno e l’altro stanno nella relazione del tutto con la parte».

70 C. Miłosz, Trattato poetico (1957), ed. it. a cura di V. Rossella, Milano 2011, p. 33.

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uomini e donne che fanno fatica a dire addio a ciò che è scomparso – anche Husserl sembra bandito nel secondo giorno della creazione, in una liturgia feriale in cui non può celebrarsi l’inizio se non come ciò che è sempre già-stato. Una percezione puntuale, non composta, semplice, einfach, non sarebbe affatto unitaria, einheitlich. Ciò non esclude l’eventualità di una percezione monofasica, quanto piuttosto che questa possa valere come monotetica, come determinazione di qualcosa di particolare, di una parte.

Orbene la peculiare indeterminatezza della percezione parziale potrebbe verificarsi anche come percezione parzialmente indetermi-nata di un intero, «l’indeterminatezza in cui l’oggetto è noto secondo il modo, ma ignoto individualmente. Se mi trovo in uno spazio estraneo riconosco comunque gli oggetti, che mi sono ignoti, secon-do il loro modo»71. Non rileva qui però una modalità di conoscenza, o di non conoscenza, mediata verbalmente, non è importante che mi manchino le parole per esprimere cosa sia o a che cosa serve. «Se l’oggetto non è apprendibile in maniera distinta (mi è lontano e non risalta abbastanza distintamente dal contesto), lo colgo comunque come un oggetto. Mi avvicino e d’improvviso lo riconosco come “un banco”. Forse non ho nemmeno propriamente visto un banco. Eppure l’ho appreso come un banco»72. Ciò che sembra subentrare d’improvviso è il cambiamento del verso apprensionale, non solo dell’inteso, ma più propriamente del notato. Laddove anche seguis-simo il cambiamento continuo di un contrassegno oggettuale – il ripetuto mutare di colore, della sua forma, della sua posizione o della mia – non potremmo giungere ad alcun riempimento costante di un carattere che dura identicamente: «il cambiamento continuo servi-rebbe ora come presentazione per il cambiamento del contrassegno. Il salto apparente inganna forse l’intenzione della durata del contras-segno, ma serve comunque da presentazione per il salto del contras-segno, per il suo cambiamento “istantaneo”»73. L’istantaneo che ha

71 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 194.72 Ivi, p. 195.73 Ivi, p. 216. In questi passi, come altrove nelle Lezioni del 1904/05,

pare emergere un abbozzo di analisi cinestetica della costituzione della cosa, a partire dall’assunto che l’immobilità dell’oggetto e dell’osservatore siano solo semplificazioni, da cui partire per un’indagine ben più complessa (ivi,

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oramai perduto la sua originarietà – Husserl qui scrive “plötzlich” e per giunta tra virgolette e non urplötzlich – indica soltanto un rio-rientamento nella continuità empirica; le percezioni non mutano di ordine, ma di direzione ed il cambiamento di direzione obbliga ad una ridisposizione del contesto.

p. 26). Nonostante si possa concordare con Thomas Vonegehr e Regula Giuliani, quando dicono che la mancanza di «una considerazione comple-ta della cinestesi corporea» – accanto all’ancora rudimentale introduzione della riduzione fenomenologico-trascendentale (le cui prime indicazioni ri-salgono però, per ammissione dello stesso Husserl, proprio ai Manoscritti di Seefeld), ed al ruolo non certo centrale che gioca il concetto di Io – sia uno dei tre punti che distinguono queste lezioni da quelle di solo due anni successive (ivi, p. XVIII), non si possono altresì passare sotto silenzio i ri-petuti accenni che già nel 1904-05 Husserl fa all’analisi del movimento nella percezione e quindi al loro valore teorico rispetto alla stazione precedente del suo pensiero, documentata nelle Ricerche Logiche. Non tanto il rimando al movimento del capo nella determinazione del piano frontale di un oggetto (ivi, p. 53) – che in un manoscritto del 1909, successivo quindi alle Lezioni del 1907, assunte a documento dell’inizio delle nuove indagini, si ripete qua-si con le stesse parole (ivi, p. 232) – quanto una lunga trattazione dedicata all’Apparizione della cosa reale, e datata Seefeld 1905, costituisce una prova dif-ficilmente discutibile. Ricapitolando infatti i caratteri del fenomeno del cam-biamento (e non solo il cambiamento-molteplicità dei fenomeni), Husserl specifica – ivi, p. 217 – «1) cambiamenti spaziali; 2) cambiamento delle note che riempiono lo spazio; 3) cambiamento delle note indirettamente riferite allo spazio. Punto di relazione [Beziehungspunkt]: il corpo dell’io [Ichkörper]. “Io mi muovo”: cambiamenti prospettici corrispondenti, ecc. Sono mosso sulla vettura: corrispondenti cambiamenti prospettici senza sensazione di movimento ecc.». Da ciò si desume chiaramente che, quantunque non ri-corra l’utilizzo di Leib o Leibkörper, come invece accadrà appena due anni dopo – mentre un derivato di Leib, leibhaft, già definisce lo statuto dell’og-getto percepito – Husserl abbia oramai ampiamente imboccato la strada di una descrizione della coscienza dell’unità, a partire dalla determinazione del fenomeno del movimento rispetto ad un punto-zero. Non si sostiene quindi una concordanza letterale – che pure si evince dalla menzione della differenza tra l’io-mi-muovo e l’io-sono-mosso (su una vettura), similmente rinvenibile nella Dingvorlesung – piuttosto uno scarto teoretico che fa del-le Lezioni del 1904/05, e dei manoscritti coevi, un autentico nuovo inizio nella teoria fenomenologica della percezione, che avrà un ampio sviluppo, lungo il quale maturerà una più chiara determinazione, ma che qui, al suo stato aurorale, pare ancor più fedele all’impegno di definire una logica della conoscenza naturale.

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Ancora improvviso può cioè apparire l’affermarsi di una, per così dire, imprevista funzione presentativa. Ma nonostante l’ambiguo uso linguistico, che ancora Husserl ne fa, non è possibile considerare propriamente istantanei neanche «i contenuti sensibili, che fanno da presentanti dell’istantanea oggettualità esterna, [perché] nella [loro] composizione unitaria sembrano dispiegarsi gli oggetti speci-ficamente percepiti»74. In un manoscritto precedente, datato 1898, Husserl annota che la cosiddetta complessione istantanea del feno-meno non è affatto la cosa stessa. «Piuttosto questo “stesso”, pieno e tutto, può essere dato solo in una sequenza composta e continua di percezioni, ognuna delle quali contiene una tale complessione [istantanea], ognuna delle quali cioè percepisce la medesima cosa da “lati” distinti»75. L’istantaneo non potendo più designare l’unità semplice, finisce per sostituire il nome della parte, della percezione parziale, o meglio il rapporto specifico che sussiste tra intero e parte in una percezione o tra una percezione di una medesima cosa, una volta considerata a partire dalle sue parte, un’altra a partire dalla sua interezza. Se osservo questa stanza ne colgo immediatamente le articolazioni e così se osservo un albero «colgo immediatamente una pluralità di rami che parte dal fusto, come un tutto di parti legate»76. L’ancora una volta immediata o istantanea conversione del tutto – si badi non dell’intero – nelle sue parti merita alcune delimitazioni. Non solo l’oggetto preso per sé – nelle sue determinazioni costitutive – non è lo stesso che l’oggetto nel complesso, ma anche la percezione di una complessione è differente da quella del tutto. Nella seconda occorrenza non abbiamo più la percezione di un complesso, ma quella di un tutto, costituita, però, da diversi elementi. «Se, dopo aver colto nella percezione di una complessione gli elementi come parti determinanti, come parti che le appartengono, assumo il punto di vista del tutto, allora la situazione fenomenologica muta; non realizziamo più una complessione, ma una percezione di un oggetto intero composto da queste e da quelle parti»77. Una totalità ed una complessione non sono solo due oggetti intenzionali differenti, ma

74 Ivi, p. 92.75 Ivi, p. 130.76 Ivi, p. 66.77 Ivi, p. 65.

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non costituiscono nemmeno un semplice reciproco l’uno dell’altro. Se percepisco una superficie uniformemente bianca senza alcuna linea di confine interna o esterna, posso di certo fantasticarvi dentro [hineinphantasieren] delle suddivisioni, ma non potrò ad ogni modo assumerla come la complessione di quelle parti artificiosamente suddivise. Sia quindi la possibilità della suddivisione, sia la determina-zione del tipo di unificazione si fondano nell’essenza della percezione78. L’immediata convertibilità dell’intero nelle sue parti non è quindi comune ad ogni e qualsiasi unità.

È inevitabile che da queste riflessioni su divisione e totalizzazione riemerga una delle domande che avevano già propiziato la conver-sione filosofica husserliana: quella circa la complessione, la pluralità di unità e quindi l’origine del concetto di numero. «Al senso della pluralità appartiene la non-identità, cioè pluralità e identità sono opposti che si escludono vicendevolmente; tuttavia al senso della pluralità non appartiene la necessità di provare l’identificazione ed attestarne l’impossibilità. Nella percezione adeguata della datità effettiva di oggetti, la differenziazione è data nella collezione che li comprende. Questa collezione è la complessione che sta a fonda-mento della relazione “a diverso da b”»79. La collezione implica la non-identità, perché, cioè, si possa esprimere una qualsiasi congiun-zione o addizione è necessario che gli elementi non siano identici; la forma a e b, ma anche quella a e a – laddove si intenda il secondo a come a’ – significa già implicitamente che a ≠ b e che a ≠ a, giacché anche l’ecceterazione di 1+1+…1, sottintende che ciascuna unità sia differente dall’altra (anche se simbolicamente o quantitativamente uguale). Non vi è quindi alcun bisogno che nella complessione si espliciti un atto di disidentificazione. «La differenza collettiva non comprende alcuna negazione (il non-identico)»80. Ebbene, nono-stante una tale implicazione tra collezione e differenza fosse già stata chiarita nella Filosofia dell’aritmetica, Husserl ritiene che quell’opera, anche proprio a questo riguardo, mancasse di chiarire i motivi logici. Mediante tale ammenda non si riconoscono solo le ragioni delle cri-

78 Ibid.79 Ivi, p. 226.80 Ivi, p. 227.

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tiche fregeane – che si concentravano giusto sulla ripresa husserliana di un passaggio da The Principles of Science di Jevons, secondo cui “i numeri sono forme della differenza, cioè della pluralità”81, ritenendo fosse incapace di cogliere la peculiarità delle serie numeriche, oltre quelle naturali – ma si riporta anche l’attenzione su uno dei luoghi della Filosofia dell’aritmetica in cui più frequentemente ricorreva la combinazione tra istantaneità o momentaneità e coglimento delle parti nell’intero o all’inverso dell’intero nelle parti82. Citando ora, a distanza di più di dieci anni, i Principles jevonsiani, Husserl non ripe-te però la medesima eccezione sulla carenza «di una fondazione psi-cologica più profonda», che riesca a dare conto non solo del numero come “vuota forma della differenza”83, ma anche della differenziazio-ni tra i numeri, ma prova a considerare cosa consenta di nascondere la differenza nella pluralità. «All’unità di un insieme [Menge] appartie-ne ciò che l’unità di una (obbiettivamente valida) appercezione può comprendere. Ma come stanno le cose con le totalità [Allheit] della logica, tutti gli A, l’insieme [Gesamtheit] degli A? Questi non sono propriamente insiemi [Mengen]»84. Nel pensiero matematico, infatti, anschauungsbedürftiges, povero d’intuizioni, le rappresentazioni di insiemi fungono da intuizioni sostitutive, «in cui si colgono forme di relazione, che “quanto alla forma” possono sostituire quelle pro-priamente intese (salva veritate)»85. In questo modo, Husserl prova a dimostrare la differenza tra Allheit e Menge, tra totalità ed insiemi, e, quindi, almeno nell’accezione che adesso si utilizza, tra tutto ed intero, individuando due modalità apprensionali completamente differenti, una propria ed una simbolica, e due classi di molteplicità, che tuttavia potrebbero essere comparate “quanto alla forma”.

81 W. S. Jevons, The Principles of Science. A Treatise on Logic and Scientific Method, London 1883, p. 156; cit. in E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica (1891), ed. it. a cura di G. Leghissa, Milano 2001, pp. 92-93, e in Id., Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 227. Sulla presenza della lettura dei Principles je-vonsiani in un’area molto vasta della cultura filosofico-scientifica dell’inizio del XX secolo, si veda M. Schlick, Forma e contenuto. Un’introduzione al pensare filosofico (1932), ed. it. a cura di P. Parrini, Torino 2008, p. 83.

82 E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica, cit., in part., pp. 238 e sgg.83 Ivi, pp. 92-93.84 Id., Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 228.85 Ibid.

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A tal fine, però, bisognerebbe prima distinguere: «1) una pluralità di contenuti (datità fenomenologiche), ad esempio, una differenza tra rappresentazioni, di fenomeni; e 2) una differenza, una pluralità di oggetti, di “realtà” [“Wirklichkeiten”] trascendenti. Ed ancora a) una differenza nel fenomeno, dell’oggetto che appare sulla base della semplice rappresentazione, così come la appercepisco effettivamente [faktisch]. Presupposto di questa appercezione è la differenza, devo aver rappresentato una pluralità. b) Una differenza dell’oggetto effet-tivo, una differenza ed una pluralità nella realtà. – Una differenza tra oggetti percepiti, che devono essere delle realtà, una differenza tra oggetti, che, sulla base dell’esperienza ed attraverso il pensiero, sono posti come così e così determinati. Una pluralità posta categorial-mente, una pluralità effettiva in opposizione ad una semplicemente rappresentata, supposta»86. Una pluralità, che restando in ogni caso differenza, può essere effettiva, o reel, reale, o real, ed intenzionale; la forma di quest’ultima – quella del riferimento ad una differenza – può a sua volta attraversare l’esperienza ed il pensiero, per giungere ad una determinatezza categoriale o simbolica.

Ebbene, qual è la forma di quella differenza che consideriamo come una molteplicità? Come cioè si differenziano gli elementi di una molteplicità e come si distinguono in quanto elementi di una (e non di un’altra) molteplicità? Perché è giusto questo che dovrebbe distinguere una molteplicità da una totalità: che la prima possa pren-dersi per un intero e la seconda no. Si potrebbe affermare – utilizzan-do un modello concettuale che Husserl proporrà in un manoscritto della primavera del 191787 – che mentre nell’apprensione di un intero la coscienza di somiglianza-uguaglianza modifica l’essenza dei

86 Ivi, p. 227.87 Id., Das Individuum und sein Wesen (1917), in Id., Zur Lehre vom Wesen

und zur Methode der eidetischen Variation (1891-1935), Hua, Bd. XLI, hrsg. von D. Fonfara, Dordrecht 2012, pp. 121-122: «Ciò che emerge in comune nella coincidenza del simile, ciò che è in comune non si singolarizza affatto, ma si modifica; questo comune emerge nella “comparazione” o nella coscienza sensibile della somiglianza-uguaglianza, mentre nel singolo emerge il mo-mento. Se però non faccio alcuna comparazione posso “analizzare”, fare attenzione ai momenti, anche senza la spontaneità del notare. La differenza individuale non modifica l’essenza, non le dà nessun modo specifico. Ogni altra differenza lo fa».

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momenti individuali, in quella di una totalità la specifica; ed al con-trario, mentre nella differenziazione di un’individualità di un intero, questa si specifica, in quella di un elemento di una totalità, questo si modifica. Se, ad esempio, ripongo questa mela che ho sotto gli occhi all’interno di una cesta di mele, la apprenderò come una mela, di cui potrei ancora dire questa, solo però in quanto è simile alle altre; lad-dove invece tornassi a separarla dalle altre, la apprenderei di nuovo come questa mela che è una, anche senza una comparazione con le altre. Il questo-uno della mela nella sua individualità si modifica in uno, mentre l’uno si specifica in questo-uno. Nel caso, invece, di una totalità, di una serie, e della serie dei numeri naturali, in specie, se considero il 3 all’interno della serie dei numeri precedenti e suc-cessivi, esso sarà appreso semplicemente come il numero 3 diverso dai successivi e dai precedenti. Laddove, viceversa, considerassi lo stesso 3 fuori dalla serie cui appartiene, esso sarebbe semplicemente un numero che esprime la somma di tre unità. Il numero, cioè, si specifica nella totalità di cui fa parte e vale come simbolo di una posizione individuale; nell’analisi della totalità, lo stesso numero perde la propria specificità e può accomunarsi alla somma delle unità di cui è simbolo. In altri termini, nella serie dei numeri naturali 2 < 3 < 4; nella sua analisi 3=2+1 o 3=1+1+1. Intero e totalità non sono la stessa cosa, quindi, per come sono in rapporto con le loro parti e non per come le parti sono tra di loro; condividono la stessa forma di differenza tra le parti, ma non la stessa forma di differenza tra le parti e ciò a cui appartengono88.

88 La compiuta differenziazione tra totalità, intero ed unità fornisce inoltre anche la possibilità di sciogliere uno dei passi più intricati di Idee I, ma in fondo – come notò Enzo Meandri (Logica ed Esperienza in Husserl, Bologna 1960, in part. pp. 48-73) – dell’intera fenomenologia: il rapporto tra gene-ralizzazione e formalizzazione. Si potrebbe difatti assumere per genere l’e-stensione semantica dall’intero alla totalità, ovvero dalla generalità sensibile a quella logica, mentre per forma la definizione stessa di unità. Al riguardo, E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, I, cit., pp. 33-34. «La generalizzazione è del tutto diversa dalla formalizzazione, quale ad es. si mostra nell’analisi matematica, mentre la specializzazione è del tut-to diversa dalla deformalizzazione [concretizzazione, Versachlichung], intesa come riempimento di una vuota forma logico-matematica o di una verità formale». Per meglio esplicare la differenza tra generalizzazione e formaliz-

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Per distinguere, più da presso, le modalità di presentazione di un intero – o meglio, i modi in cui una presentazione è una presentazio-ne intera di un intero – nelle Lezioni del 1904/05, Husserl riprende una coppia concettuale, già utilizzata nelle Ricerche Logiche, seppure con altre valenze: quella di contiguità e somiglianza. Testimoniando

zazione cfr. appendice I, al § 1 e al § 13 (ivi, p. 350): «1) la generalizzazione [formalizzazione] logico-matematica che porta alle pure forme sostituendo i nuclei pieni con nuclei vuoti, materie determinate con indeterminati qual-cosa (materie in generale), oggetti determinati mediante “oggetti in gene-rale”, le essenze determinate mediante “essenze in generale” (cfr. § 13). 2) La generalizzazione materiale, per le essenze pure, la generalizzazione pura [in breve, la generalizzazione], che procede dalle specie ai generi, ai generi veri e propri, i quali, dal canto loro, sono un che di materiale, pure materie, previa astrazione da tutte le forme sintattiche che li circondano». Tornan-do sul medesimo tema – introducendo al corso sulla fenomenologia della vita religiosa – Heidegger scrive: «“Generalizzazione” significa universalizzazione secondo il genere. Per esempio, il rosso è un colore, il colore è qualità sensi-bile; oppure la gioia è un affetto, l’affetto è esperienza vissuta. Sembra che si possa proseguire: le qualità in generale, le cose in generale sono entità. Rosso, colore, qualità sensibile, esperienza vissuta, specie, genere, essenza sono oggetti. Sorge però subito la domanda: il passaggio universalizzante da «rosso» a «colore», oppure da «colore» a «qualità sensibile» è lo stesso passaggio da «qualità sensibile» a «entità» e da «entità» ad «oggetto»? Evi-dentemente no! C’è qui una frattura: il passaggio da «rosso» a «colore» e da «colore» a «qualità sensibile» è generalizzazione, quello da «qualità sensibile» a «essenza» è formalizzazione. Si può domandare se la determinazione «qua-lità sensibile» definisca «colore» nello stesso senso in cui la determinazione formale «oggetto» definisce un qualsiasi oggetto. Evidentemente no. Ciò nonostante la distinzione tra generalizzazione e formalizzazione non è an-cora del tutto chiara». M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano 2003, p. 95. Su formalità e deformalizzazione si consi-deri anche M. Heidegger, Essere e Tempo (1927), ed. it. di P. Chiodi, Torino 1994, pp. 85 e sgg. Segno dell’interesse del tutto nuovo che esercita l’asse della formalità/formalizzazione sulla rinascita logica, che concresce anche in seno alla fenomenologia, sono anche gli studi di O. Becker sulla logica e la matematica antiche, intendendo quest’ultima come studio dell’esistenza ma-tematica. Cfr. O. Becker, Formallogisches und Mathematisches in griechischen Texten, in «Philologus», 1956, pp. 108-112; Id., Zwei Untersuchungen zur antiken Logik, Harrassowitz, Wiesbaden 1957. Il valore preparatorio di queste riflessioni, e di studi di tal genere, è quello di avvisare sulla possibilità di intendere una radicalizzazione della formalizzazione, fino alla conseguente (per l’ordine della riflessione) deformalizzazione (ovvero preformalizzazione).

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una sempre più frequente lettura di Hume, Husserl annota, accanto alle sue riflessioni circa il nesso tra identità e pluralità di unità, il tito-lo di problemi humeani. Nei Manoscritti di Seefeld, dopo aver distin-to la coscienza continua d’identità, come unità ininterrotta, dalla coscienza interrotta, spezzettata, che appare per l’appunto come una pluralità di unità, si legge che «ogni unità è unità […] rispetto alla continuità temporale di ogni pezzo. Si tratta però di unità distinte, che tuttavia non si raccolgono nell’unità di un tutto, ma, dato che esse riposano sull’unità di un’apparizione continua e di una continua coscienza di unità, si ripristina l’unità identica dei distinti: il “bruno” di questo pezzo e il “bruno” di quel pezzo di durata sono distinti, in quanto però riempiono in continuità un segmento di tempo, ciò che percorre tutto questo segmento di tempo è un oggetto che “dura”, è l’“uno” e “medesimo”». In calce al brano è riportato un rimando alla fine della prima parte del Treatise humeano, in cui si affrontano le aporie dell’identità personale. È noto che in queste pagine Hume trascorra dal decretare l’improvabilità della continua – “in ogni istante” – ed intima – quindi evidente – coscienza del nostro io alla determinazione dei limiti dell’identificazione nella sua generalità, per quanto essa sia «comune ad ogni essere la cui esistenza abbia una durata»89. Data la differenza, la distinzione e la separabilità delle percezioni successive, non sarebbe in alcun modo lecito affermare la semplicità e l’identità loro e quelle di un qualsiasi altro loro ple-onastico supporto, che sia una soggettività o una sostanzialità. Ma allo stesso modo emerge la vanità di dichiararli diversi. «Gli oggetti variabili o interrotti, i quali tuttavia si suppone che continuino a essere gli stessi, sono quelli soltanto che risultano da una successione di parti unite dalla relazione di somiglianza, di contiguità e di cau-salità. Se questa successione, infatti, corrisponde evidentemente alla

89 D. Hume, Trattato sulla natura umana (1739-40), ed. it a cura di E. Lecaldano, in Id., Opere filosofiche, I, Roma-Bari 2004, p. 26. Cfr. R. Donnici, Husserl e Hume. Per una fenomenologia della natura umana, Milano 1989, in part., pp. 91 e sgg; C. V. Salomon, The central Problem of D. Hume’s Philo-sophy, in «Jahrbuch für Philosophie und Phänomenologische Froschung», 1929, in part., pp. 300-301; R. Butts, Husserl’s Criticism f Hume’s Theory of Knowledge, Ann Arbor 1957. Si veda infine anche P. Bozzi, Unità, identità, causalità, Roma 1969.

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nozione di diversità, è soltanto per errore che noi attribuiamo a essa un’identità; e siccome il rapporto delle parti, che ci induce in errore, non è altro in realtà se non una qualità che produce un’associazione di idee e il facile passaggio dell’immaginazione dall’una all’altra, ciò che dà origine all’errore è la somiglianza fra quest’atto della mente e quello col quale contempliamo un oggetto unico e continuo»90. Risulta facilmente prevedibile che di qui l’argomentazione inciampi in un paradossale esito megarico: per distinguersi però da Eubulide, salvando così all’inverso i molti a scapito dell’uno, Hume definisce il rapporto tra le parti e l’intero, ovvero tra successione e identità, come una proporzione reciproca, che supererebbe l’indecidibilità della loro reale grandezza. Le parti sono contigue in proporzione all’inte-ro e l’intero a se stesso simile in proporzione alle parti: contiguità e somiglianza sono le misure, rispettivamente, delle parti e dell’intero.

Ancora nella Terza e nella Sesta Ricerca Logica, somiglianza e contiguità rappresentano due forme improprie di identificazione e di unificazione: la prima rende la relazione tra immagine e rappre-sentato per immagine, la seconda invece la composizione di una complessione mediata tra parti91.

La ripresa di somiglianza e contiguità muove proprio dall’im-proprio, ed in particolare dalla domanda su «come stiano le cose con le determinatezze, presentate impropriamente, dell’oggetto»92, come nel caso della parte posteriore, che pur non essendo visibile, appartiene all’interezza della sua percezione. «In una sorta di campo di azione le presentazioni dirette fungono anche da indirette: esse non hanno solo la funzione della autopresentazione della determi-natezza, ma anche dell’appren-sione indiretta. Detto altrimenti: alla presentazione propria, che ha il carattere di una presentazione per somiglianza, se ne lega una impropria, una presentazione per contiguità»93. L’uso di somiglianza ha una giustificazione diversa da quello di contiguità: mentre la presentazione percettiva propria è simile, completamente dello stesso tipo o almeno genericamente dello stesso tipo [völlig gleichartig oder wenigstens gattungsmäßig gleichartig]

90 D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 267.91 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, cit., II, pp. 60 e sgg., e pp. 352 e sgg.92 Id., Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 35.93 Ibid.

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del sentito, quella impropria è contigua non al sentito, ma al perce-pito. Questa difformità nelle ragioni delle due diverse relazioni causa l’equivoca attribuzione di un carattere segnico alle determinazioni direttamente presentanti, a cui Husserl cerca di rimediare già in nota rammentando che «non si può parlare di segni [Zeichen], perché non si tratta di un “oggetto” che rimanda a qualche altra cosa»94, né di un latore-di95. Essi sono piuttosto linee di continuazione ancora vuote, che non rimandano solo ad un lato non propriamente dato, ma, per così dire, suppongono «in modo vuoto un’unità in base ad una dua-lità o una pluralità di rappresentazioni, senza che un’unità continua le attraversa»96. Si tratta ovviamente di una supposizione spuria, di una possibilità, piuttosto, che «l’unità debba darsi [zu gebende] intu-itivamente, che cioè possa essere costituibile un’intuizione unitaria e continua, che alcune rappresentazioni del medesimo contenuto di significato passino continuamente l’una nell’altra e che si costituisca in questa continuità l’unità dell’inteso come un’unità intuibile»97. Oppure, al contrario, questa possibilità non viene confermata ed il verso intenzionale muta. La mediatezza che grava sull’apprensione, non completamente piena, dell’unità di qualcosa – ovvero sulle apprensioni percettive inadeguate nella loro generalità – non viene allora rimediata da un’aggiunta simbolica, immaginativa, né da un’a-spettazione98; piuttosto può essere anch’essa, a sua volta, presentata dal Zu-meinen Zu-Gebendes, dall’intendere, dal mirare-al da-darsi, dalla ripetuta indicazione del verso, Zu.

94 Ivi, p. 36.95 Ivi, p. 37.96 Ivi, p. 267.97 Ibid.98 «L’aspettazione [Erwartung] come un atto rivolto a qualcosa di futu-

ro (anche temporalmente nuovo) non è in generale una caratteristica della coscienza di riempimento» (ivi, p. 49). Questa è una delle più chiare di-chiarazioni della estraneità del futuro nella costituzione della temporalità percettiva della cosa, che, come è noto, sarà ritrattata solo più di dieci anni dopo nei Manoscritti di Bernau del 1917 (Id., Die Bernauer Manuskripte über das Zeitbewusstsein (1917/18), Hua, Bd. XXXIII, hrsg. von R. Bernet und D. Lohmar, Dordrecht 2001). Cfr. V. Costa, Estetica trascendentale fenomenologica, cit., in part. pp. 110 e sgg.; D. Lohmar-I. Yamaguchi, On Time- New Contribu-tions on Husserlian Phenomenology of Time, Dordrecht 2010.

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Pur non riuscendo a superare del tutto l’impasse, Husserl aggiun-ge un’importante postilla circa la compenetrazione tra presentazione propria ed impropria, sostenendo che essa non solo si verifica «nelle percezioni della cosa piena, ma […] anche nei contrassegni com-plessivi che comprendono l’unità della cosa»99. Non solo quindi il plenum della cosa – il livello fansiologico – è costituito propriamente da presentazioni che somigliano ai presentanti sensibili ed impro-priamente da presentazioni che sarebbero contigue alle prime, ma anche l’identità unitaria della cosa – il livello ontico – si costituisce per approssimazioni di somiglianza, il cui grado può essere maggiore o minore100.

La presentazione di qualcosa segue così una delle direzioni dei gradi di somiglianza, quella dal minore al maggiore – l’aumento [Steigerung] di somiglianza – o quella inversa – la diminuzione [Minderung] di somiglianza. Ed, in quest’ottica, la contiguità potrebbe coprire la distanza massima tra le parti compatibile con la continuità oppure la dissomiglianza massima compatibile con l’identità. Così però anche la mitologia del punto massimale, e di un’assoluta chiarezza percettiva – in cui verrebbe meno la differenza tra fenomeno ed oggetto o tra rilievo e cosa – decade, si rivela come «un ideale in realtà fasullo»101, la cui valenza regolativa viene ristretta al caso delle percezioni immanenti, che non comprendono contenuti presentanti, ed alle forme ideali della geometria piana102. Allora la

99 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 37.100 Nella terminologia che qui Husserl utilizza il plenum definisce l’unità

dei fenomeni estetici, il contrassegno [Merkmal] l’identità oggettuale. «Dello stesso lato – ivi, p. 50 – ho diverse “vedute” [“Ansichten”], diversi “fenomeni estetici”. Le componenti del fenomeno estetico pieno dell’oggetto sono i fenomeni estetici di determinatezze dell’oggetto, di contrassegni. Una stes-sa cosa: molti fenomeni estetici; lo stesso contrassegno: diversi fenomeni estetici del contrassegno». Sull’accezione propria di Merkmal e sulla sua evo-luzione nel pensiero husserliano si veda in seguito, infra. Cap. II.

101 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 56.102 «Può essere data adeguatamente anche solo la più piccola parte di

una superficie curva? Si dà per ciò un massimo? E così anche per tutti gli oggetti tridimensionali. Solo per la retta, la superficie, per le figure elemen-tari [si dà un tale massimo]. Quindi si tratta anche in questo caso di un’ide-alizzazione» (ivi, p. 54).

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relatività del massimale è un’Angemessenheit des Gegebenseins, una commisuratezza dell’esser-dato, la determinazione della misura della datità dell’intero, la commisurazione del punto di svolta in cui la chiarezza si volge in oscurità, in cui la direzione dei gradi di somi-glianza si inverte. «Nel passaggio da presentazioni a presentazioni più fortemente analoghe o da percezioni a percezioni, che presentano meglio l’oggetto, in maggiore somiglianza, noi sentiamo [fühlen] per così dire l’approssimazione alla meta percettiva. Non esperiamo soltanto l’identità, ma anche il rafforzamento, l’aumento di riem-pimento del pieno»103. Si badi che nel consueto luogo retorico del non solo…ma anche Husserl indica due piani paralleli, non ancora chiaramente distinti: quello dell’identità e quello della continuità. La stessa duplicità può essere resa sostenendo che «la maggiore per-fezione dell’apprensione, il meglio-corrispondere [Besser-Entsprechen] è fenomenologicamente un altro modo per esprimere la caratteristica peculiare – fondata [gründende] nell’essenza delle apparizioni date, delle percezioni – di fondare [fundieren] una tale coscienza dell’au-mento continuo nel passaggio sintetico»104.

Ciò che motiva quindi la ripresa humeana – che da qui in avanti si renderà sempre più esplicita, pur non declinando mai della critica dell’insostenibile polarità tra impressioni ed idee, definita, inoltre, secondo Husserl, inadeguatamente attraverso inopportune caratte-ristiche di forza e di debolezza – è giusto il tentativo di individuare una misura dell’identità, una metrica proporzionale dell’identico. E nonostante le vaghezze e le oscillazioni, che accompagnano questa epoca del magistero gottinghese, proprio dal ripensamento di questa proporzionalità reciproca, Husserl potrà giungere a comprendere l’unità tipica come una peculiare nozione di grandezza.

4. La regola dell’unità: un confronto con J. Cohn.

Proviamo ora a ribaltare una frequente affermazione husser-liana in una sorta di proposizione assiomatica. «Di regola [in der Regel] – scrive Husserl già nel 1898, in un manoscritto dedicato

103 Ivi, p. 50.104 Ivi, p. 51.

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all’unità ed alla pluralità nella percezione – l’unità della percezione è fondata in una molteplicità dell’apprensione»105: la regola dell’unità della percezione è fondata in una molteplicità dell’apprensione. Una tale molteplicità, di regola, corrisponde ad un movimento della percezione, «ad un movimento all’interno dell’unitaria apprensione oggettuale, in cui risalta ora una ora un’altra parte»106. La regola che lega movimento, molteplicità e unità è, ovviamente, una regola che vale per l’apprensione trascendente, la quale si soddisfa nel modo della durata o, modificandosi, in quello del cambiamento. Ebbene tale regola implica in primo luogo un’assoluta dipendenza del che-cosa della percezione al come della percezione107, assoluta dipendenza, cioè, del propriamente percepito, di questa scatola così come appare, da questo lato e con questo orientamento, dal modo in cui appare, a cui appartiene essenzialmente l’orientamento. Assunta, inoltre, la distinzione tra l’oggetto dell’atto percettivo ed il che-cosa della sua intenzione, l’intendere questo oggetto, in quanto effettivamente pre-sente da sé, l’essere-inteso come effettivo, la medesima regola prescri-ve, in secondo luogo, una serie scalare di gradi di soddisfacimento o di sufficienza dell’intenzione apprensiva rispetto alla compiutezza del proprio essere-inteso. La regola essenziale o apriorica – che in Ideen I si espliciterà nel suo ruolo di mediatrice rispetto «alle regole onto-logiche e noetiche che appartengono alla scienza sperimentale»108 – sancisce un principio di sufficienza del riempimento intenzionale, in base alla dipendenza tra che-cosa e come dell’intenzione.

«Una percezione compiuta non è però una pura ed adegua-ta percezione; percepire adeguatamente tutto l’oggettuale [alles Gegenständliche] non significa percepire tutto quanto l’oggetto»109. Una percezione compiuta, o sufficiente, sarebbe così una percezione capace di presentare tutti i momenti oggettuali e solo questi, capace di cogliere, così come è stato inteso, un oggetto che dura, e non solo una continuità di fenomeni percettivi: un’unità oggettuale e non

105 Ivi, p. 201. 106 Ivi, p. 205.107 Ivi, p. 238.108 Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit.,

p. 356.109 Id., Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 55.

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la sua totalità. Questa unità – a differenza della presunta totalità corrispondente – sopporta ancora una differenza tra rilievo e cosa o tra presentante e presentato110. La sufficienza è allora il carattere della “trascendenza” e la regola dell’unità111. Si badi che il passaggio da adeguazione ad unità è necessario a non far scadere la regola in una norma, riconoscendone la natura metrica e non prescrittiva. O, meglio, detto nei termini di una coppia nota alla disputa giusfilosofi-ca di inizio Novecento, consente di accedere ad un ambito di legalità e non di legittimità112.

Che sia possibile una tale ambiguità sull’interpretazione di una regola «per le infinità legali delle esperienze inadeguate [für die eben gesetzmäßigen Unendlichkeiten inadäquater Erfahrungen]»113, sarà ben presto chiaro a Husserl confrontandosi con quanto, negli stessi anni, era diventato il primato pratico del Gegenstand der Erkenntnis114. È certo comprensibile – nota Husserl nel corso del semestre estivo del 1907 – «in che senso il neokantismo indichi, giustamente, la determinazione definitiva dell’oggetto come un compito infinito, ovvero quale sia il fondamento fenomenologico di questo assunto. Ad ogni manifestazione infatti appartengono a priori possibilità di nuove determinazioni, l’arricchimento, etc., [appartengono] ovvero a priori l’infinità delle possibili determinazioni cinetiche, che quan-to all’oggetto possono essere dominate grazie alla geometria; ma a priori vi sono anche le possibilità di infinite determinazioni annesse, che caratterizzate come appartenenti all’oggetto, sorgono dalla con-

110 Ivi, p. 56.111 Ivi, p. 222.112 Su questo è utile confrontare le nozioni legittime (e non semplice-

mente legali) di diritto e contesto normativo che emergono in W. Dilthey, Contributi alla soluzione del problema circa l’origine e il diritto della nostra credenza alla realtà del mondo esterno (1890), in Id., Per la fondazione delle scienze dello spirito. Scritti editi e inediti. 1860-1896, ed. it a cura di A. Marini, Milano 1985, pp. 228-276, e McDowell, Mind and World, cit. pp. 3 e sgg.

113 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit., p. 356.

114 Cfr. H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, Tübingen/Leipzig 19042. (La scelta della seconda edizione è determinata dalla soglia temporale imposta dai corsi husserliani in esame).

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nessione dell’esperienza in virtù della sua motivazione»115. Tuttavia, sussistendo molte, e sempre nuove, possibilità di determinazione cosale, e non potendosi indicare l’assoluta determinazione di una qualsiasi cosa, ovvero la sua determinazione come totalità, come una mira ragionevole, allora non si può prendere la cognizione percetti-va dell’oggetto – ed al contempo quella generale delle oggettualità scientifiche – come una unendliche Aufgabe116. Il problema non è costituito dall’infinità, ma dall’Aufgabe, dal compito dell’adeguazio-ne, a cui dovrà essere sostituito il Beruf dell’unità.

In verità, nelle scuole neokantiane, sarebbe stato compiuto il medesimo movimento come testimonia la pubblicazione, appena un anno dopo la Dingvorlesung, delle Voraussetzungen und Ziele des Erkennens di Jonas Cohn, la cui prima parte è ampiamente dedicata alla Gegestandsbildung della matematica. «Anche se considerassimo l’oggetto come semplice unità» – scrive Cohn – «perché lo si possa distinguere da altre unità, bisogna presupporre in generale qualcosa di estraneo al pensiero. Questo è un Qualcosa – cioè la forma dell’i-dentità deve in qualche modo essere pensata come riempita in esso con qualcosa di estraneo al pensiero. Senza il Qualcosa non si può parlare dei puri fondamenti della logica. Già se si volesse formula-re l’identità come posizione [Satz], bisognerebbe presupporre una pluralità di oggetti differenziabili e la ripetuta possibilità di porre [Setzbarkeit] lo stesso oggetto. Comprendiamo in tal guisa, da un’al-tra angolazione, perché è così difficile, se non impossibile, esprimere in un principio l’identità con la semplicità che le compete. Possiamo indicare questa possibilità di una qualsiasi formazione oggettuale come quel minimo di estraneità al pensiero, senza di cui non si forma alcun oggetto, né dunque lo si può giudicare»117. La generazione di una serie numerica dunque, anche la mera ecceterazione, quale forma più semplice della successione, inanellare unità ad unità, la

115 E. Husserl, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, Hua, Bd. XVI, hrsg. von Ulrich Claesges, Den Haag 1973, p. 134.

116 Ibid.117 J. Cohn, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens. Untersuchungen über

Grundfrage der Logik, Leipzig 1908, pp. 109-110. Cfr. R. Klockenbusch, Hus-serl und Cohn.Widerspruch, Reflexion und Telos in Phänomenologie und Dialektik, Dordrecht 1989.

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sequenza aritmetica di (x1 + x2 + x3 + … xn), dipende dalla differen-ziazione, dalla variazione delle unità e dalla ripetizione in esse impli-cata. La condizione della formazione oggettuale rimanda pertanto ad un principio che figura come presupposto, come precedenza ad ogni posizione, come forma della Unterscheidheit. In altri termini, se la forma dell’identità copre la riflessione propria dell’eguagliamento, è la forma della differenziazione quella in cui qualcosa viene esibito, a soddisfare l’esigenza costitutiva dell’identificazione. Ciò che viene definito come minimo di estraneità al pensiero è dunque ancora un’in-dicazione formale, che tuttavia esorbita dalla ricorsività riflessiva, in quanto Form der Inhaltlichkeit, forma della contenutezza, forma dell’essere-contenuto. Così viene correttamente disposta la questione circa la Gegenstandbildung, la formazione di un oggetto, quale rivol-gimento differenziale ad un contenuto.

Da ciò tuttavia discende un ulteriore interrogativo in riferimento specifico alla costruttività matematica: «Come si forma nelle scienze costruttive un nuovo oggetto? Si applicano le relazioni definite agli oggetti già formati come referenti e si assume il nuovo oggetto come correlato. Nella serie dei numeri naturali la relazione che consente la continuazione è “più grande di 1”. In questo modo si rimane all’interno della medesima classe. Una nuova classe può ottenersi solo attraverso il postulato, che essa possieda una relazione, in qual-che modo derivata, con tutti i referenti della vecchia classe. Ma con quale diritto si presuppone la sufficienza di questo postulato?»118. Si trascorre dunque dalla determinazione degli elementi ulteriori di una serie, alla posizione, alla circoscrizione dell’intero ambito di una serie, di cui assicurare la dipendenza relazionale, formale, da un lato e l’indipendenza costitutiva, contenutistica, dall’altro. Quanto pretende di essere giustificato è la derivabilità del principio relazionale, del principio in virtù del quale si decide dell’appartenenza alla serie degli elementi, ed, in uno, l’inderivabilità degli stessi elementi da quelli di una serie differente. Ambedue le condizioni richieste deducono la propria validità dalla sufficienza, Suffucienz, di quel postulato, che prescrive assieme la correlabilità, la consequenzialità, e la differenza. La domanda dunque con cui Cohn amplifica la questione della

118 J. Cohn, op. cit., p. 179.

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formazione degli oggetti, o meglio della costruibilità degli oggetti matematici potrebbe piuttosto suonare come quale forma ha la suf-ficienza di un postulato. «Chiamiamo» – scrive ancora Cohn – «in generale postulato una pretesa [Forderung], e ciò attraverso cui viene soddisfatto [genügt] tale postulato, lo indichiamo come il sufficiente di questo postulato [Suffizienten dieses Postulates]. Nel sufficiente vi è sempre una estraneità al pensiero. Se invece questo fosse derivabile dalle pure forme del pensiero, se cioè fosse garantita senza altro la soddisfazione [Erfüllung] del postulato, non vi sarebbe alcun bisogno che questa fosse richiesta. Da questa considerazione delle relazioni si ottiene immediatamente che l’estraneità al pensiero non coincide affatto con ciò che si indica come carattere empirico»119.

La struttura formale di un postulato, derivante dall’arco insito in ogni pretesa, Forderung, come esazione di qualcosa di non già presente, cui si aspira, dunque come declivio verso il suo esterno temporale, in primo luogo, da cui discende la stessa radice della posizione numerica, è quella che, nei termini adottati dalla logica formale dopo Frege120, può essere definita come funzione proposi-zionale insatura. Utilizzando così ancora una volta il gergo chimico, si potrebbe definire la collocazione di una posizione vuota, non semplicemente incognita, in cui si indica l’argomento della funzione, come ciò che viene esatto, gefordert dal postulato, la cui saturazione, o soddisfazione, implica pertanto sempre un ricorso a qualcosa di altro, perché sia postulato di qualcosa. L’estraneità quindi ancora una volta è l’eccedenza dal piano riflessivo formale in cui viene composta la funzione proposizionale. Così come una nuova classe o serie di elementi oggettuali è, e deve essere, altra da quella da cui parte la costruzione matematica, ed allo stesso tempo deve poter esservi cor-relata, nella forma del riferimento comune alla regolazione della serie delle serie, vale a dire al sistema che include ciascuna delle possibili serie, allo stesso modo, in questo caso, Cohn, tenta di tenere assieme

119 Ivi, p. 113.120 G. Frege, Funzione e concetto (1891), in Id., Senso, funzione e concetto, ed.

it. a cura di C. Penco e E. Picardi, Roma-Bari 2005, pp. 3- 27. Cfr. P. Casa-legno, Il paradigma di Frege, in Id. (a cura di), Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, Milano 1997, pp. 3- 40; G. Gabriel, Frege als Neukantianer, in «Kantstudien», 77, 1986, pp. 84 – 101.

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la protensione fuori da se stessa della funzione-postulato, e la sua coerenza, generalmente valida, dunque logicamente necessaria, con l’imposizione formale di cui è portatrice. È allo scopo appena addita-to che Cohn distingue la Denkfremdheit, sempre contenuta dalla sod-disfazione di un postulato, dal carattere empirico della particolarità, Besonderheit. Tuttavia, nell’esempio offerto dalla scienza puramente costruttiva, l’eccezione costituita dal minimo di estraneità al pensiero, proprio in quanto separata non solo dalla mera empiricità, ma dalla medesima proprietà del differente, in quanto particolare, rischia di costringere il pensiero ad una torsione in cui la determinazione contenutistica non sembra nemmeno più affidata ad una formalità del contenuto, ancora tutta da rischiarare, ma solo alla costruzione finzionale di qualcosa nel seno stesso dell’apodeixis: l’anticipazione di una mancanza, più che il rimando ad un riempimento. Questo infatti è ciò che Cohn definisce come die überschiesende Teile des Suffizienten, la parte eccedente del sufficiente, ovvero la condizione autentica della soddisfazione, che non rimanda alla ulteriorità della saturazione, ma la precede e la consente. «C’è dunque – risponden-do del significato del numero di dimensioni dello spazio, ovvero della possibilità di determinare lo spazio come tridimensionale – un certo momento della sufficienza, che deve essere determinato, perché l’esperienza sia possibile, cioè la cui determinazione non può essere derivata dall’esperienza, senza però che si possa derivare teleologicamente dal postulato un tipo completamente determinato del riempimento. Chiamiamo questa parte la parte eccedente del sufficiente»121. In virtù di questa porzione che eccede l’estraneità, la non appartenenza del riempimento all’indicazione del postulato, il sufficiente figura dunque come la costruzione anticipata, apriorica, della saturazione.

Nonostante le pur evidenti differenze tra la trattazione cohnia-na della costituzione dell’oggetto matematico e quella husserliana, rivolta piuttosto alla possibilità di rendere conto della costituzione della cosa, non si potrebbe non notare la comune riconduzione della sufficienza ad unità, e di quest’ultima alla determinazione essenziale dell’oggettualità. L’unità in questione, però, come del resto è già

121 J. Cohn, Vorassetzungen und Ziele des Erkennens, cit., p. 242.

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stato anticipato, non è un’unità semplice122, ma un’unità identica, vale a dire l’unità di una molteplicità: l’unità diviene così la misura dell’identità del reale.

5. Identità e differenza.

A ben vedere, però, la regola, che abbiamo cercato di esaminare, esclude non solo la presentazione della totalità, ma anche quella di «un intero oggetto nella sua unità intesa»123. Non è allora impresenta-bile solo la totalità – quella totalizzazione impossibile che avrà ancora eco in Heidegger124 – ma anche l’unità?

«Cogliere un esaedro, intuendo tutti i suoi lati in una percezione effettiva, è impossibile. Già la configurazione della superficie può essere percepita da tutti i lati e con tutti i suoi caratteri [Belegungen] qualitativi nel migliore dei casi in una pluralità di percezioni che portano ad intuizione pezzo a pezzo ciò che nell’oggetto è dato insieme e che solo nella coscienza della connessione identificante raggiunge la continuità del riferimento allo stesso oggetto [denselben Gegenstand]»125. L’identità, quindi, si predica del contenuto della coscienza, la continuità del riferimento ed infine la stessità dell’og-getto: il contenuto della coscienza si identifica nella continuità iden-tificante del suo riferimento, del suo senso apprensionale, della sua oggettualità, rispetto al sempre medesimo oggetto. Una percezione sarebbe allora unitaria per la sua durata, per la sintesi continua «dei diversi lati, delle diverse forme di presentazione», perché può conver-tire un intero nelle sue parti e viceversa126. Ovvero, l’essenza unitaria della percezione corrisponde ad un’identità contenutistica, estesa nel tempo e quindi sinteticamente continua, che prescrive alcune deter-minate relazioni tra intero e parti.

122 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 54: «[La perce-zione] è continuo-unitaria, divisibile, quindi “complessa”: la semplicità è qui solo un’astrazione». Cfr ivi, pp. 43, 56, 57, 63.

123 Ivi, p. 55. 124 Cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo (1927), ed. it. a cura di P. Chiodi,

Milano 1994, pp. 366-372.125 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 57.126 Ivi, pp. 63-64.

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Tornando sul medesimo argomento, dopo alcuni anni, Husserl noterà che la continuità dei differenti che-cosa della percezione nei loro come, non è solo una continuità, non è solo un molteplice successivo inteso come uno, ma è anche unità di intenzione ed, a sua volta, ancora, intenzione dell’unità con il carattere dossico dell’ef-fettività, del tenere-per-effettivo. «Se la continuità dell’intenzione stessa è a sua volta unità dell’intenzione, ed essa stessa intenzione, allora anche essa avrà un carattere ed un contenuto, e questo conte-nuto non è quello della cosa, a cui pure soltanto si riferisce questa intenzione unitaria. La continuità può sempre ancora allargarsi e può così cambiare l’inteso in quanto tale, l’unità dell’intenzione (l’inteso e l’unitariamente inteso, in quanto tale, nella continui-tà dell’intenzione)»127. L’analisi della costituzione dell’unità della cosa – che nelle sue evidenti asperità è uno dei fili conduttori che le ricerche dei primi anni del secolo scorso affidano agli sviluppi successivi della fenomenologia – può non coincidere con un caso-limite, con il margine impresentabile della presentabilità, a patto che venga condotta in porto la sua differenziazione dall’identità128. Se denotiamo la continuità dell’intenzione come A (α, β, γ), dovrem-mo distinguere l’unità della sua intenzione (iA), in quanto i [A (α, β, γ)], il cui contenuto, la cui intenzione unitaria, sarebbe [A (α, β, γ)]; tuttavia, poiché ciascun contenuto inteso ha un suo proprio carattere (αk) dovremmo più correttamente scrivere la serie continua dei presentati nei termini A (αk’, βk’’, γk’’’) e la sua intenzione unita-ria, dotata anch’essa del proprio carattere, diventerebbe allora ik [A (αk’, βk’’, γk’’’)], in breve ik (Ak’). Avremmo in questo modo una chiara distinzione grafica dell’unità dell’intenzione dall’intenzione unitaria, ovvero dell’unità ik (Ak’) – che è un’unità che dirige il molteplice del contenuto – dall’intenzione unitaria, [A (αk’, βk’’, γk’’’)], ciò che è inteso unitariamente, identificando continuamente il molteplice del contenuto. In questo modo, però, sarebbe ancora difficile intende-re, oltre alla differenza, il nesso che tiene insieme unità e identità, mediante la continuità.

127 Id., Das Perzeptionale (1909), ivi, p. 236128 Ivi, p. 216.

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Se è vero, allora, che nel letto della continuità percettiva si forma sinteticamente una coscienza di unità, di quell’unità percezionale, di quell’unità di significato che coincide con una ed una medesima direzione oggettuale, allora si possono distinguere 1) la forma unita-ria della coscienza di qualcosa, 2) lo statuto differenziale e continuo dei contenuti presentati, 3) la costituzione identica dell’oggetto inte-so. La coscienza – che ha forma di unità – percepisce lo stesso ogget-to, identificandolo nel corso continuo dei contenuti vissuti, in modo da presentare un qualcosa, un individuum che è solo impropriamente un unum. «“Uno, che è rappresentato qui con un contenuto e poi con un altro; uno che si orienta ora così ora diversamente; uno che appare ora con queste ora con quelle determinazioni”»129: questo è il significato unitario di una coscienza di unità.

L’unum del sempre uno e lo stesso oggetto è un’unità nella mol-teplicità e non la molteplicità assunta unitariamente, come nell’iden-tificazione continua. È l’uno dell’unica direzione all’oggetto e non l’identità continua della coscienza del contenuto. Si dovrebbe allora domandare se è proprio «in questa unità della coscienza che si costi-tuisce l’unità del riferimento oggettuale ed i contenuti percezionali appartengono effettivamente all’unità del contenuto intero, giacché si riferiscono ad uno ed allo stesso oggetto (inteso)? I significati – in quanto unificati in quest’unità – sono unificati in un significato di unità e cioè appartengono senza dubbio ad una “direzione”; essi sono indubbiamente rivolti ad uno e ad uno stesso oggetto»130. Non si può però domandare se questa unità abbia “un buon diritto”, ma se l’identità che essa ha diretto unitariamente abbia legalmente integrato le presentazioni proprie e quelle improprie. L’uno non è né l’identico né lo stesso, ma la direzione lungo la quale si identifica un molteplice rispetto ad uno stesso.

Quando, infatti, si acquisisce l’esperienza vissuta della determi-nazione di qualcosa che pareva prima indeterminato, quando cioè si compie un riempimento identificante – la sufficienza dell’identi-ficazione – si può dire realizzata l’apprensione di un qualcosa, che appare, come A, come Questo che è A. Ebbene, ciò che così è stato

129 Ivi, p. 266.130 Ivi, p. 267.

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esposto, «può essere una semplice messa in risalto analitica (“giu-dicativa”), ma può anche essere che il Questo che si determina per me solo come A, mentre in precedenza era, in “questa prospettiva” indeterminato. Questa è la determinazione in senso pregnante, una determinazione più da vicino [Näherbestimmung]. Qui non si parla affatto di “concettuale”»131. Una tale accortezza nel distinguere un Questo della determinazione percettiva, da quello risultante dall’ana-lisi attenzionale ed ancora di più da quello derivante dall’applicazio-ne giudicativa e poi quindi concettuale, non è per nulla ridondante sia per ragioni teoriche che per ragioni storico-filosofiche. Da un lato è infatti evidente che il Questo costituisca una forma di riferimento che attraversa da parte a parte l’intera connessione tra esperienza e giudizio, una forma di riferimento unitaria che aveva già occupato le acute analisi sul concetto di numero cardinale nella Filosofia dell’A-ritmetica132. Dall’altro, doveva essere noto – sia allo stesso Husserl che ai suoi uditori – che il Questo aveva a lungo segnato la frontiera linguistica, e quindi già quasi-concettuale, tra la certezza sensibile e l’intelletto133. A questo scopo è pertanto necessario distinguere tra l’apprensione complessiva, il Questo, e la serie delle asserzioni percettive, Questo è A. «L’evidenza, che l’oggetto sia inteso come quello che è qui espresso, si impone perché viene espresso ciò che la percezione complessiva “ha effettivamente” di mira [an Meinung “wirklich enthält]. Giacché la percezione complessiva è visione con-tinua, unitaria del medesimo oggetto, il senso dell’apprensione è evidentemente lo stesso»134. Tuttavia tra l’unità di identità del Questo e l’asserzione, ovvero il giudizio percettivo che si adatta all’unità del senso apprensionale, ovvero tra l’identificazione unificante della percezione e l’identificazione ricorsiva del giudizio – il giudizio che

131 Ivi, p. 62.132 Id., Filosofia dell’Aritmetica, cit., pp. 126 e sgg.133 Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, ed. it. a cura di E. De

Negri, Firenze 1996, in part. pp. 61 e sgg. Ancora McDowell (Mind and World, cit., pp. 43-45) intende la sua dottrina della attualizzazione passiva dei contenuti concettuali nella percezione come una ripresa della critica hege-liana alla teoria kantiana della conoscenza sensibile.

134 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 191.

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è lo stesso nella “ripetizione”135 – subentrano almeno altri tre livel-li: a) quello dell’apprensione di un oggettuale – di un momento o dell’interezza dei momenti oggettuali di un qualcosa – come rappre-sentante esemplare di un genere, vale a dire la formazione del tipo; b) quello della apprensione di un oggetto come questo individuo, ovvero il suo riconoscimento, Questo non è solo del tipo A, ma lo riconosco come un A; c) quello dell’apprensione di un oggetto, di un Questo che è A, nelle sue determinatezze individuali, quindi non solo Questo è A, ma è un A fatto così e così136. Come si evince da questa griglia, il ruolo di clausola di chiusura è assunto dalla for-mazione del tipo, da quella che già due anni dopo Husserl definirà come intreccio sistematico tra indicizzazione e tipizzazione e che invece in questo caso denomina semplicemente tipo generale, ciò che assertivamente risulta essere l’un, un qualcosa, un albero, una casa, una scatola. La forma generica – che rappresentata come momento generale «rende possibile e media il riempimento»137 – esprime nella Wahrnehmungsaussage come tipo non già l’unità del senso appren-sionale, ma la comunità essenziale delle percezioni di un medesimo gruppo. Si può allora sostenere la cosità, la Dingheit del tipo genera-le, perché «laddove pure l’intenzione riferita alla forma corporea non avesse trovato il suo riempimento, [ciò a cui l’intenzione è riferita], resterebbe comunque un corpo o più in generale un’unità cosale»138. Seppure, quindi, non giungessi a riconoscere che “questo è proprio ciò che pensavo fosse”139, dovrei ammettere che “questo è diversa-mente da come pensavo” o almeno che “è un qualche questo”.

Eppure, dovendomi esprimere su ciò che ho percepito, la coesi-stenza tra lo “essere-diversamente (da come pensavo)” e lo “essere un qualche questo”, determina un’oscillazione e, quantunque l’oscilla-zione nelle apprensioni non costituisca di per se stessa una forma di dubbio, «la credenza del giudizio si dirige pur sempre verso quella

135 Ivi, p. 245. Le riflessioni che di seguito riporteremo su giudizio, categoriale e percezionale risalgono ad un testo del 1909, titolato Das Perzep-tionale, e pubblicato nel volume XXXVIII, cit., alle pp. 232-270.

136 Ivi, p. 192.137 Ivi, p. 61.138 Ivi, p. 59.139 Ivi, p. 48.

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della percezione: ovvero lo “esiste” del giudizio esistenziale si dirige verso il carattere di effettualità [Wirklichkeitscharakter] del percepito in quanto tale, del che-cosa. L’incredulità o la “nullità” [“nichtig”], la finzione come ciò che è espresso nel giudizio si dirige al “nullo” della percezione (che è nulla, che è finzione)»140. Avviando così la sua teoria della percezione verso la formazione dei modi e delle qualità del giudizio – percorso che solo alla fine degli anni ’20 lo condurrà a riscrivere la tavola kantiana della modalità – Husserl incontra alcuni dei temi più frequentemente discussi nella filosofia a lui contempo-ranea: principalmente quelli del giudizio problematico e del giudizio negativo. Su quest’ultimo, il Maestro cita lo scritto di abilitazione di un suo allievo, che aveva letto nel gennaio del 1909 e che vedrà la luce due anni dopo: Zur Theorie des negativen Urteils, da cui ricava la distinzione tra convinzione ed affermazione, tra gradualità della cre-denza e posizionalità dell’intenzione141. Ciò che però in questo caso interessa Husserl è la differenziazione tra i caratteri del giudicare e quelli del percepire. «Un modo è quello del giudizio percettivo, il giu-dizio sull’oggetto della percezione, un altra è quello del giudizio sul percezionale [ovvero il che cosa della percezione]; ed un altro ancora è quello del giudizio sull’atto, cioè sull’esperienza vissuta e quindi sul flusso temporale immanente»142. Si può così affermare che nell’e-spressione il che-cosa del giudizio, il categoriale, colga il che-cosa della percezione, il percezionale, dà ad esso una Denkfassung, un’ar-ticolazione, una formazione, lo si adatta all’espressione. Ambedue, percezione e giudizio, «hanno un “carattere” corrispondente: caratte-re di effettualità l’una, carattere di verità l’altro»143. Ma il carattere di verità non è affatto la verità stessa144. Anzi, il contenuto del giudizio – lo stato di cose che è posto come realmente sussistente, come vero

140 Ivi, p. 242.141 A. Reinach, Sulla teoria del giudizio negativo (1911), in Id., La visione delle

idee, ed. it. a cura di S. Besoli, Macerata 2008, pp. 59-107. Cfr. W. Windel-band, Beiträge zur Lehre vom negativen Urteil, in «Strassburger Abhandlungen zur Philosophie», Festschrift zu E. Zeller, 1884; E. Lask, Die Lehre vom Urteil, in Gesammelte Schriften, 3 Bde., hrsg. von E. Herrigel, Tübingen 1924, II, in part., p. 439.

142 E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit, cit., p. 243.143 Ibid.144 Ivi, p. 247.

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– non è però ciò di cui si predica: il contenuto categoriale è caratte-rizzato come un’unità ideale, l’unità del medesimo contenuto in una credenza ripetuta. E come l’oggetto effettivo non si trova nella perce-zione così lo stato di cose vero non si trova nel giudizio145. Certo, «al contenuto S è P conviene l’essere-veritiero cioè è il contenuto di un giudizio vero (di un categoriale vero). Il contenuto stesso non ha il predicato significativo “veramente essente”, al contenuto corrisponde piuttosto uno stato di cose effettivo»146. L’effettività dello stato di cose è quella modalità espressiva che, nel giudizio caratterizzato come vero, assumerà la forma di un’unità ideale: l’unità del contenuto o del concetto di stato di cose147. Questa unità è quella del significato categoriale, un’unità semasiologica. Un’unità inesistente. «L’esistenza non è un predicato interno del significato»148. Eppure quell’unità è la forma essenzialmente necessaria di un qualsiasi stato di cose: perché questo si possa prendere-per-vero è necessario che almeno conservi l’unità del percezionale che si tiene-per-essente. In comune allora il prendere-per-vero ed il tenere-per-essente hanno la forma dell’unità, né propriamente vera né propriamente essente.

Torniamo, ora, alla nostra scrivania e fermiamoci a descrivere il modo in cui la sua superficie superiore, un rettangolo, si presenta ed il modo in cui può essere appresa. «Mentre il momento [rettan-golo] “si” muta costantemente [stetig], la forma del rettangolo resta inalterata, dura»149. Il costante mutamento del momento – che pur essendo costante non è propriamente continuo – resta nell’invarianza della forma. Non sarebbe corretto dire che l’identico del non-muta-mento presenta, o rende possibile la presentazione, dell’identico del mutamento, perché l’invarianza della forma non coincide con la sua identità: la forma del rettangolo può certo essere identificata come la forma di questo rettangolo o, meglio, del piano di questa scrivania, ma non identifica essendo essa stessa identica. La comunità essen-ziale delle percezioni-rettangolo ed il tipo generale rettangolo – ma

145 Ivi, p. 252: «La realtà effettiva si determina nel contesto dell’espe-rienza».

146 Ibid.147 Ivi, p. 273.148 Ivi, p. 258.149 Ivi, p. 220.

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anche il contenuto della definizione geometrica di rettangolo, se non la definizione nella sua interezza – condividono lo statuto di unità non-identificata. All’essenza della percezione complessiva di qualcosa appartiene di poter fondare l’unità dell’identificazione, che però con più cura andrebbe definita come unità dell’identità parziale150, unità in cui può procedere l’identificazione parziale. L’identificazione è cioè possibile – sia che l’oggetto muti, sia che a modificarsi sia invece il senso apprensionale delle percezioni – laddove, in presenza o in assenza di completamento tra l’indeterminatezza di una percezione e la determinatezza di un’altra, le percezioni abbiano la medesima Richtung auf den Gegenstand, nonostante questo appaia una volta come α ed una volta come α1 e nonostante α ed α1 non si concilino, pur corrispondendosi151.

Di ciò Husserl prova a formulare una legge: «Se osservo ade-guatamente a e poi adeguatamente <non-> a, allora l’unità della coscienza a non-a include l’identificazione. Un’appercezione di unità dell’identico è necessariamente un’appercezione di identità. Quindi: due appercezioni che hanno un contenuto del tutto uguale, dirette cioè a G ed a G, fondano necessariamente un’appercezione di iden-tità, se esse conseguono nella coscienza. E non vale lo stesso per ogni identità, anche per quella parziale, purché sia fenomenologicamente effettiva? Dunque tutto e parte, oggetto e proprietà, espressione e intuizione corrispondente. Ci si domanda allora: bisogna riconoscere come α quell’A che io ho inteso come A = (α, β, γ)?»152. La domanda – tanto quanto la risposta – risulterebbe banale se (α, β, γ) fossero solo alcuni, o tutti, gli aspetti di A, se cioè stessimo chiedendo: possiamo dire che il gesso è bianco, pur avendo inteso il gesso come bianco e rigido e parallelepipedale. Diventa meno banale se si fa questione dell’identificabilità di A con A(0), A (1) e poi addirittura con B, laddove A(0), A (1) e B sono modificazioni, per semplice inganno o per cambiamento, dell’intenzione iniziale A. Posso infatti dire che A ≡ A(0) ≡ A (1) ≡ B, solo se l’essenza di A – il suo unitario riferi-mento oggettuale – include A(0), A (1) e B. Se cioè l’unità A include

150 Ivi, p. 200.151 Ivi, pp. 197-198.152 Ivi, p. 225.

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«quell’unità di dati adeguati, che non hanno il carattere dell’unità dell’identificazione, essendo eo ipso pluralità, differenza»153. La plu-ralità è infatti un’unità nella differenza, mentre l’identico è, ancora una volta, un’unità della differenza, ovvero un’unità in cui i differenti sono stati identificati. Ciò significa soltanto però che se identità e differenza si escludono reciprocamente in un’apprensione – vale a dire che nonostante l’identità identifichi una differenza, stanti A, A(0), A (1) e B o apprendo A come identica ad A(0), A (1) e B o come non identica – ciò non vale affatto per l’unità, che non ricade nella contraddizione apprensionale tra identità e differenza. Ma, dato che l’apprensione o apprende l’identità o la differenza, in essa l’unità o si presenta come identità (l’unità del molteplice) o come differenza (l’unità nel molteplice).

6. L’unità della misura. E proprio le aporie che gravano sulla presentazione dell’unità rendono limpidamente l’immagine, riferi-taci da Schapp, di uno Husserl indeciso, pur con acume e rigore, se sedersi sulla sedia del Platonismo o su quella Empirismo154. Lo stesso, frequente, rimando che pare facessero i Monacensi all’approfondi-mento, nella fenomenologia husserliana, della dottrina platonica del metéchein – della partecipazione dei molti all’uno – potrebbe avere così finalmente la sua giustificazione155. Ma solo a condizione di portare a termine fenomenologicamente quanto sulla scena del Parmenide era solo accennato nella domanda circa l’unità che rispet-to ai molti è identica156: ovvero che la partecipazione non sia un’im-plicazione della somiglianza – che cioè i simili non partecipano ai simili perché sono simili – ma al contrario ne sia una condizione – i simili sono simili perché partecipano ai simili157.

153 Ibid.154 W. Schapp, Erinnerungen an Husserl, in Aa. Vv., Edmund Husserl. 1859-

1959, La Haye 1959, p. 18: «Qualcuno aveva detto, come Husserl stesso ci aveva raccontato: Husserl si trovava con tutta la sua pignoleria come l’asino di Buridano [zwischen zwei Stühlen] tra Platonismo ed Empirismo».

155 Ivi, p. 21.156 Platone, Parmenide, 132c 4.157 Il nesso di consequenzialità tra somiglianza e partecipazione è giusto

quello che Parmenide utilizza per inchiodare l’abbozzo di teoria delle idee proposto da Socrate. Se infatti i simili partecipassero all’idea in sé, allora

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Ancora nel § 9 della Krisis, Husserl avrebbe richiamato la methexis per descrivere lo stato arcaico ed ingenuo in cui la geometria antica si era guadagnata «la possibilità di una rudimentale applicazione alla realtà»158. Ma nel rapporto tra uno e molti – che abbiamo cercato di seguire nei primi manoscritti husserliani sulla percezione ed il giu-dizio – non ne va dell’applicazione, piuttosto di ciò che – nella nota Appendice III al medesimo paragrafo – verrà chiamata letteratura, tradizione. La geometria non esiste una sola volta, non è «identica-mente la stessa nella “lingua originale” di Euclide come in tutte le “traduzioni”»159, perché la prima si applica all’indefinito numero delle seconde, ma perché le seconde partecipano della prima e questa non sarebbe nulla senza la loro partecipazione.

Si potrebbe allora dire che la partecipazione, o ancora meglio – come abbiamo in precedenza già visto – la comunità essenziale, la koinonìa, è la soluzione platonica che Husserl propone alla crisi empiristica della somiglianza o piuttosto a quella messa in crisi della somiglianza che Hume enuncia nella maniera più limpida e che in Avenarius si mostra nel suo fondo psico-fisiologico. Quella dottrina delle idee veramente platonica, cui Husserl variamente si appella nel tentativo di fornire alla fenomenologia la sua collocazione storico-critica160, sarebbe veramente platonica se riuscisse ad intendere «anche le idee come oggetti», come scrive, in risposta a Natorp, nell’Abbozzo di una prefazione alle “Ricerche Logiche”161. E che le idee siano oggetti,

sarebbe davvero «impossibile che qualcosa fosse simile all’idea e che l’idea lo fosse a qualcos’altro; [perché] altrimenti accanto all’idea farà sempre la propria apparizione un’altra idea e se questa sarà simile a qualcosa, un’altra ancora e non cesserà mai di sorgere sempre una nuova idea, se l’idea viene ad essere simile a qualcosa che partecipa di essa» (ivi, 132e-133a).

158 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 53.

159 Ivi, p. 384.160 Cfr. Id., Storia critica delle idee (1923/24), ed. it. a cura di G. Piana,

Milano 1989, pp. 141-153. 161 E. Husserl, Abbozzo di una prefazione alle ‘Ricerche Logiche’, in Id., Lo-

gica, psicologia e fenomenologia,a cura di S. Besoli e V. De Palma, Genova 1999, p. 202. Ciò che costituisce il centro focale del confronto Natorp-Husserl sia riguardo allo statuto proprio della logica, e del Logico, sia quanto al di-scernimento della lettura di Platone, che ne rappresenta un mezzo di contrasto esplicativo, è indubbiamente costituito dalla Frage nach der Gegenstand selbst,

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nuclei oggettuali, oggetti generali e non concetti o significati di paro-le è proprio ciò che un attento lettore della nascente fenomenologia, come Emil Lask, presentava quale differenza tra il Platone marbur-ghese e quello, che a suo parere, avrebbe potuto scrivere, o, almeno, sottoscrivere le Ricerche Logiche162. Se infatti la riduzione delle idee ad una simbolica concettuale – riduzione chiaramente esclusa da tutti i pur litigiosi protagonisti del Parmenide – avrebbe costretto ad un’ulteriore ricaduta nelle panie della somiglianza, ed avrebbe con ciò stesso avvalorato l’una volta per tutte esemplare obbiezione aristotelica, così non è se delle idee si coglie l’unità oggettuale e la stessa unità come essenza ideale.

È interessante perciò notare che, quando Husserl si trova alle strette con gli interrogativi circa l’unità, ricorra a termini chiaramen-te aristotelici, la cui ascendenza doveva risultare viepiù intelligibile ad un allievo di Brentano. E se potrebbe anche passare sotto silenzio l’utilizzo di un’espressione comune in greco antico, tradotta però in termine tecnico da Aristotele, come tòde tì, per indicare il questo qui, l’individualità dell’individuale163, è perlomeno poco accorto che Husserl, per definire la sua concezione del rapporto tra l’uno ed i

o meglio dalla questione trascendentale dell’oggetto. «L’Idealismo intende fondare il reale nell’ideale, gli onta nei logoi; così in Platone, così in Leibniz, così in Kant, che ha riconosciuto con particolare chiarezza che la questione dell’oggetto stesso era la questione centrale nella sua nuova logica “trascenden-tale”, in quanto l’intero concetto dell’oggetto si costituisce solo dei costi-tuenti formali della conoscenza, del Logico nel senso più profondo». P. Na-torp, Frage nach der logischen Methode. Mit Beziehung auf E. Husserls “Prolegomena zur reinen Logik”, in «Kant-Studien», Bd. 6, 1901, pp. 282-283. Una puntuale analisi della questione si ritrova nel saggio di M. Ferrari, Husserl, Natorp e la logica pura, in S. Besoli, M. Ferrari, M. Guidetti, Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza, Macerata 2002, pp. 91-108; sul brano del confronto da noi esaminato, in part. pp. 98-99.

162 E. Lask, Plato, in Id., Gesammelte Schriften, cit., III, p. 19: «È pertanto scorretto intendere le idee come “concetti”, i logoi come “significati di pa-role”; in verità, le idee ne sono i correlati». Cfr. Lettera a Rickert, del 14 no-vembre 1912, ivi, p. 52. Sulla lettura laskiana della fenomenologia e sul suo debito platonico, mi sia consentito di rimandare al mio Emil Lask. Il Pathos della Forma, Macerata 2010.

163 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenome-nologica, I, cit., pp. 35-36.

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molti, adoperi quello hèn epì pollôn che è l’epigrafe dell’argomento del terzo uomo164.

A dire il vero le stesse analisi husserliane su unità, intero e tutto potrebbero essere intese come puntuali glosse al libro quinto della Metafisica. Lo hèn kath’autò, l’uno in quanto lo stesso uno ogni volta, è o continuo, o per specie, o per genere, o per definizione dell’essenza o ancora per numero165; e così l’intero (òlon) è quell’unità, in cui la posizione delle parti produce differenza, come negli enti biologici, mentre il tutto (pàn) è quell’unità, in cui la posizione delle parti non produce alcuna differenza, come per i numeri166. Sarebbe ora del tutto ridondante redigere una tavola delle concordanze, che tuttavia si può agevolmente desumere da quanto scritto in precedenza, ma non è possibile eludere l’indicazione delle divergenze principali tra le definizioni aristoteliche e quelle husserliane, giacché costituiscono un privilegiato punto d’osservazione dal quale apprezzare come, seppure implicitamente, la fenomenologia riesca a confrontarsi con le vicende del pensiero occidentale, rivendicando per sé il titolo di filosofia prima. Non sarà sfuggito infatti che, al fine di mantenere una coerenza logica tra il primo e l’ultimo significato di uno, è necessario considerarlo ad un tempo come grandezza, mèghethos, quindi continua, misurabile e non numerabile, indivisibile e simul-tanea, e come quantità, plèthos, discreta, denumerabile anche se come prôton mètron, numero primo o unità di misura, prima per principio e principio di ogni divisibilità. E proprio la coesistenza tra continuo, simultaneo ed unitario – che produce molteplici para-dossi nella filosofia aristotelica, primo tra tutti nella trattazione del tempo, continuo come il movimento, e diviso e numerabile come le unità successive in cui psyche può metterlo in ordine – è quella che abbiamo visto mano a mano sciogliersi nelle analisi husserliane. Il continuo non è l’uno, il simultaneo non è il continuo, e l’unità non è divisa, pur essendo ancora divisibile. Eppure pare sopravvivere in Husserl un motivo, che era trascorso in Aristotele, per segnare poi il Medioevo arabo-cristiano, attraverso Avicenna e Duns Scoto, ed

164 Aristotele, Metafisica, VII, 10, b27-b31.165 Ivi, V, 1015b 16-1017a 7.166 Ivi, V, 1023b 12-26.

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approdare, finalmente, con quest’ultimo, con la sua formulazione di una Metaphysica come Scientia quasi Transcendens167, alla Modernità di Leibniz e della scienza logico-sperimentale: quello del tò hèn quale prôton mètron, prima misura, e archè toû gnōstoû perì hèkaston, prin-cipio della nostra conoscenza per qualsiasi genere di cose. Dell’uno, cioè, come principio della conoscenza di qualsiasi cosa, come misu-ra del molteplice. Ma perché questo sia anche solo ammissibile è necessario provare che in Husserl si realizzi un’interpretazione ed un utilizzo platonici della terminologia aristotelica e che ciò non sia affatto estraneo al suo annoso studio dell’empirismo humeano, ma ne rappresenti anzi l’esito più alto168.

Quando in un manoscritto del 1918, Husserl esplicita la «sud-divisione individuale dell’essenza concreta» nei termini di hèn epì pollôn, non intende certo riferirsi all’incongruenza di moltiplicare all’infinito i simili dell’uno per intenderne l’identità, ma esporre la relazione sussistente tra «un Quale che si differenzia solo per specie ed una Estensione che si differenzia invece individualmente»169. E, a dimostrazione del legame di queste pagine con gli anni gottinghesi, Quale ed Estensione è la coppia di termini che abbiamo già trovato espressa dal Daubert di Seefeld. «Il Quale – scrive Husserl – non si differenzia individualmente in se stesso, ma solo attraverso la diffe-renziazione di posizione [Lagen-differenzierung] della sua estensione,

167 Alexandre Koyré, ad esempio, – come attesta Paola Zambelli, nell’Introduzione a Id., Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, To-rino 2000, p. 12 – era convinto della prossimità della filosofia husserliana a quella scotista. Sul trascendentalismo scotista si veda L. Honnefelder, Ens in quantum ens, Münster 1979.

168 Il legame – che solo, prima facie, può sembrare azzardato – tra la lettura husserliana di Platone e quella di Hume (del resto consonante con la reinachiana Interpretazione kantiana del problema di Hume – in A. Reinach, La visione delle idee, cit., pp. 29-58 – ove si contesta la caratterizzazione analitica per le relazioni di idee) viene ampiamente tematizzato da Dirk Fonfara nella sua introduzione al volume XLI dell’Husserliana, cit., pp. XXI-XXIV. Per una ricostruzione della interpretazione husserliana di Platone (e del con-fronto riguardo alle dottrine platoniche, principalmente, tra Husserl e Na-torp), si veda C. Möckel, Platon als “Gewährsmann” Husserls? Zur Platonsrezep-tion im Husserlschen Werk, «Recherches husserliennes», 12, 1999, pp. 77-111.

169 E. Husserl, Zur Lehre vom Wesen und zur Methode der eidetischen Variati-on, cit., p. 147 (Text n. 11).

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ovvero – più semplicemente – attraverso la sua posizione spaziale e temporale; o, ancora in altri termini, l’essenza dell’estensione che appartiene all’essenza concreta di un oggetto individuale (un indivi-duo cosale, un “reale” individuale) si differenzia individualmente e così si differenzia il Quale specifico inferiore, che appartiene necessa-riamente, all’essenza concreta, al Quale individuale»170. La singolarità individuale, qualsiasi individuale è e ha un’individualità: è qualcosa di esteso e di posto, nel tempo e nello spazio, è una differenza indi-viduale di posizione, e ha il modo della sua differenza, il modo in cui è individualmente, il modo in cui è questo qualcosa-qui, un tode ti, un individuo che ha un’essenza concreta individua. Quest’essenza – questo modo in cui l’individuo essendo ha una differenza individuale rispetto a qualcos’altro, questo modo in cui l’individuo essendo non è qualcos’altro – può essere a sua volta compresa in due generi: il Quale e l’Estensione, ovvero, un contenuto qualificante ed una forma – un’estensione – qualificata171, un che-cosa che si specifica ed un come che si individua. Un individuo, cioè, è una Lage, un Ort, che – pur non essendo «fissabile attraverso un significato generale, né tipizzabile come la specie più prossima»172 – si differenzia, speci-ficando il contenuto ed individuando la forma che ha. L’individuo non è una differenza specifica, piuttosto la differenza individuale implica una specificazione e un’individuazione. E così il generale, Allgemeine, non risulta più essere la totalità, Allheit, che include un certo numero di specificazioni, restando così lo stesso per ciascuna di esse. «Solo il genere aristotelico – aveva scritto Husserl nei Manoscritti di Seefeld – rimane identicamente lo stesso»173; mentre il Quale, pur essendo, come il ghenos, hypokeìmenon taīs diaphoraīs, sostrato per le differenze, en tô tì estì tò prôton, il primo nella definizione del che-cos’è – il contenuto dell’essenza – è ciononostante un tò poiòn, una qualità, che sarebbe aristotelicamente semplicemente una differenza che può soltanto dirsi del genere174.

Se guardiamo al dorso di questo libro, notiamo che è di un

170 Ibid.171 Ivi, p. 150.172 Ibid.173 Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 255.174 Aristotele, Metafisica, V, 1024a 28-1024b 16.

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particolare blu, che questo blu è un particolare tipo di blu, che questo colore è un blu; come è un blu quello di una vecchia carta da zucchero, ma di certo non lo stesso. Allora «il colore comune [, il blu del nostro esempio,] è identico, ma in ognuno dei molti “il” colore è “un colore diverso”. Il genere non si lega alla differen-za specifica come se – laddove astraessimo dalle cose per sé [dagli individui, cioè,] – portasse con sé un qualcosa di indeterminato del completamento necessario»175. È da qui evidente come Husserl provi a rettificare la dottrina aristotelica del genere, mirando però più da vicino ad emendare, ancora una volta, la trattazione empirista della formazione degli oggetti ideali. La generalità del Quale non è allora quella dell’identità nonostante la differenza, ma quella dell’identità della differenza, di un’identità costituita dal differenziarsi e non deri-vata dall’indifferenziarsi rispetto alle differenze. Il colore comune «è solo ciò che è, in quanto comune alle sue differenze possibili, [esso] <vale> correlativamente: esso può essere dato solo “in” una qualsiasi differenza ed in riferimento ad un orizzonte indeterminatamente aperto di differenze inferiori»176.

Ma se ciò è vero, perché Husserl utilizza per rendere il concetto di essenza concreta proprio hèn epì pollôn, espressione che Aristotele utilizza – insieme a quella di hèn katà pollôn – solo in accezione pole-mica, ogni volta che si riferisce alla dottrina platonica delle idee177? E perché la utilizza in testa ad un paragrafo che pare interamente dedi-cato a capovolgere l’interdetto aristotelico ad intendere «ciò che si predica in comune come un tòde tì, un questo qui, un individuale»178, invece che come un toiònde, un modo in cui qualcosa è?

«L’essenza concreta – scrive infatti Husserl – è l’hèn epì pollôn ed invero è ciò che è eideticamente del tutto identico della molteplicità delle singolarità individuali che non contengono nessun’altra spe-

175 E. Husserl, Zur Lehre vom Wesen und zur Methode der eidetischen Varia-tion, cit., p. 147.

176 Ivi, p. 148. 177 Aristotele, Metafisica, 990b e sgg.; Id., Analitici Posteriori, 77a 5-9. In-

vece che hèn epì/katà pollôn, Aristotele utilizza per intendere, ad esempio, l’universalità della dimostrazione hèn parà tà pollà (Analitici Posteriori, 77a 6; 100a 7). Cfr. H. Bonitz, Index Aristotelicus, Berlin 1955, p. 223.

178 Aristotele, Metafisica, 1038b 36-1039a 1.

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cificità. Se, in questo hèn, in questa essenza concreta, mettiamo in risalto il “Quale” esso è assolutamente identico per ogni singolarità individuale. È un momento essenziale, che non contiene in se stesso nessun’altra differenza specifica. Diversamente, l’estensione – con cui [il “Quale”] non si lega, ma in cui si estende, in cui esso si espande ed espandendosi [la] “qualifica” – non è, se consideriamo ora i pollòi, assolutamente identica, ma ciascuna è in sé diversa, a prescindere dalla qualificazione»179. Ciò che è comune ad un individuo nella sua individualità, l’essenza concreta di qualcosa, il tòde tì, può certo esse-re inteso sia come hèn che come pollòi, come l’unità del Quale che si differenzia in specie e come la molteplicità delle differenze individuali di posizione, ma non in quanto comune. E a dire il vero, nemmeno la molteplicità delle Lagendifferenzierungen rende appieno l’esten-sione, in cui – come si è notato – Husserl raccoglie tutte le nozioni che aveva consuetamente adoperato nelle analisi sulla costituzione dello spazio: il termine più ampio Extension, quello pre-empirico di Ausbreitung (espansione), quello geometrico di Ausdehung (estensio-ne come grandezza) e quello logico di Umfang (estensione in relazio-ne a intensione, Inhalt). Se infatti l’estensione è la differenziazione delle posizioni e le posizioni non sono solo la correlazione di un essere-posto rispetto ad un altro, ma l’indeterminatezza di una qual-siasi determinata posizione relativa, allora intendere correttamente i pollòi – che compongono un livello dell’essenza concreta – signi-fica coglierli come momento individuale dell’estensione180, come il momento individuale di qualsiasi posizione individuale. L’essenza concreta quindi non è hèn epì pollôn perché un uno, il Quale, in que-sto caso, sta sopra i molti, le posizioni, ma perché da ciascun lato la si possa prendere quella contrassegnata dall’epì è sempre la relazione dei molti rispetto all’uno e dell’uno rispetto ai molti. Dell’uno nella misura dei molti e dei molti nella misura dell’uno.

E non aveva poi torto Aristotele a rimproverare all’ipotesi che ammette tò hèn epì pollôn l’intenzione di riferirla anche al pros tì, alle relazioni, ed ai phantàsmata, giacché ancora Husserl sarebbe ricorso

179 E. Husserl, Zur Lehre vom Wesen und zur Methode der eidetischen Varia-tion, cit., p. 147.

180 Ivi, p. 148.

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alla variazione operata dalla fantasia per poter delineare l’essenza individuale di quegli individui che propriamente la fantasia non coglie se non come luoghi di una relazione possibile. Pur assumendo la dirimente distinzione tra i modi in cui può darsi l’unità dell’essen-za, come unità tipica o come essenza esatta – distinzione guadagnata da Husserl in un arco temporale che copre le ricerche e le lezioni almeno dal 1905 al 1927, anno in cui tiene, nel semestre estivo, il suo secondo corso su Natur und Geist 181– resta comunque la pos-sibilità di definirla come tò hèn epì, come l’uno-rispetto-a e quindi come uno e limite.

Dovrebbe essere adesso chiaro come Husserl abbia ritenuto di poter ribaltare la formulazione, che Aristotele utilizzava per stigma-tizzare le incoerenze della dottrina platonica delle idee, contro il suo stesso autore, di poter assumere in proprio le inconcludenze di quella teoria messe in fila dal titolo per essa scelto dal suo erede liquidatore. Tuttavia, nonostante la strategia polemica può anche considerarsi riuscita, l’adozione in pieno di quella formula finisce per falsificare tanto il pensiero husserliano quanto quello platonico. E non soltanto perché la saggia voce della filologia smentirebbe l’utilizzo dell’espres-sione hèn epì pollôn in uno qualsiasi dei dialoghi platonici, ma perché le locuzioni che effettivamente ricorrono ne emendano profonda-mente il significato. Come altrimenti Husserl potrebbe guadagnare per la sua nozione di essenza concreta il rapporto con una qualsi-asi differenza, con una qualsiasi singolarità individuale, se rispetto all’uno vi fossero semplicemente i molti e non ciascuno – qualsiasi ciascuno – dei molti? Sarebbe stato pertanto meno equivoco richia-mare la perifrasi veramente platonica di un eidos hèn…perì hèkasta tà pollà182, di un eidos per ciascuno dei molti, per ciascuno di quei molti che, presi per ciascuno, sono a loro volta uno.

Ripetendo quasi alla lettera il Parmenide, la relazione tra Quale ed Estensione, infatti, non implica che le individualità partecipino alla

181 Id., Natur und Geist. Vorlesungen Sommersemester 1927, Hua, Bd. XXXII, hrsg. von M. Weiler, Dordrecht 2001, in part. pp. 202-207, pp. 216-220. Cfr. A. Schütz, Type and Eidos in Husserl’s Late Philosophy, in «Philosophy and Phenomenological Research», 20 (1959), pp. 147-165.

182 Platone, Repubblica, X, 596a 6.

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loro unità comune né in parte né per intero183, perché parte ed intero non coincidono se non grossolanamente con i risultati della differen-ziazione specifica del primo e di quella individuale del secondo. Né il Quale è una totalità né l’Estensione è un insieme. Le individualità, tà hèkasta, partecipano dell’uno, piuttosto, come di un limite, che è sempre uno per ciascuno dei molti che ne condividono la misura. Ed a ciò non basta la sola somiglianza che invece comprova e presenta l’unità comune dell’essenza di un gruppo di percezioni.

Questo epilogo doppiamente anacronistico – anacronistico per il ripiegamento su Platone e per l’accostamento di manoscritti husser-liani risalenti a più di dieci anni distanza gli uni dagli altri – potrebbe giustificarsi qualora fossimo riusciti a determinare più distintamente la nozione fenomenologica di unità e la sua funzione, sia nell’analisi dell’esperienza – o meglio, dell’unità dell’esperienza – sia nella for-mazione di una logica della conoscenza naturale, della conoscenza, in primo luogo, cioè, dell’uni-individualità della cosa naturale. Ancora nel 1917, Husserl annota che «un generale è uno stesso rispetto ad un differente-legato: ma questo non è affatto un generale generico [Gattungsallgemeine]. Nella sovrapposizione si unifica [einigt] l’ugua-le o anche il simile. Diventa effettivamente uno [Eines]. O cade la distanza, che non c’è più, oppure resta la duplicità nella distanza»184. E quest’ultima precisazione serve ancora una volta a distinguere l’u-nità dall’identità, l’unificazione dall’identificazione: unità può essere, in un caso, annullamento relativo della distanza o della differenza – giacché la completa somiglianza è solo un’approssimazione della minore dissomiglianza possibile – in un altro, duplicità del dissimile o anche del contrastante. Quello che risultava incomprensibile all’A-ristotele che obbiettava alla pretesa platonica di rivendicare la priorità della diade ed anche quella dell’unità ideale del numero, sembra esse-re qui ribadita da Husserl nei termini della continua differenziazione degli individuali e della unità identica della loro commisurazione.

Provando a scongiurare, in anticipo, l’assurdità contenuta nell’ar-gomento del terzo uomo, Platone notava che la misura dei molti

183 Id., Parmenide, 131e 4.184 E. Husserl, Zur Lehre vom Wesen und zur Methode der eidetischen Varia-

tion, cit., p. 121.

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è uno, ovvero che la grandezza è uno [hèn tò mèga], non perché «ciascuno dei molti oggetti grandi [hèkaston tôn pollôn megàlōn]» condivida «una parte di grandezza più piccola della grandezza che è sempre la stessa [autò to mèghetos]»185, ma perché la grandezza è la misura della differenza di ciascuno dei molti, è l’unità ideale delle relazioni possibili tra ciascuno dei differenti che sono.

Seppure carsicamente, queste nozioni scavano la storia del pen-siero filosofico e scientifico, dall’Antico alla Tarda Modernità, ogni-qualvolta unità, grandezza e misura vengano assunte come forme della differenza, indici della molteplicità. Nomi insomma per il rife-rimento che il pensiero è a ciò che non è pensiero soltanto. E questo ancora pare ripetersi nella fenomenologia husserliana.

185 Platone, Parmenide, 131c 12-d 1.

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II.

La “bilancetta” di pensiero ed esperienza.Grandezza e quantità nella formazione della

Fenomenologia

1. Il trascendentale moderno: una storia eudossiana.

«La teoria delle proporzioni è quell’Umido che legando insieme il resto della materia la prepara e la condiziona ad ogni più esquisito lavoro, abilitandola a pigliar qualunque forma di gran rilievo»1. Così scriveva Vincenzo Viviani, introducendo la prima edizione delle ultime due giornate che erano rimaste escluse dai Discorsi e dimostra-zioni su due scienze nuove e che egli aveva ricomposto collazionando gli appunti di una dettatura del loro comune maestro, conservati da Torricelli. La parte più rilevante di quelle pagine era costituita dall’abbozzo di una riscrittura del V libro degli Elementi euclidei, che negli auspici dell’autore sarebbe dovuta essere in grado di dissipare la spessa caligine che avvolgeva la definizione, sin troppo formale, del rapporto di proporzionalità tra grandezze, avvalendosi della ben più intuitiva soluzione avanzata da Archimede nel libro sulle Spirali. Più che per la capacità di liberare da ogni dubbio in proposito, quella galileiana si rivelò, però, un’eredità difficile da sostenere proprio perché l’imperativo, che consegnava, di ripensare la dottrina delle proporzioni, e la teoria dei numeri ad essa legata, era messo in capo alla stessa possibilità di accordare la sensata esperienza con le certe dimostrazioni2.

1 G. Galilei, Scienza Universale delle Proporzioni (con aggiunte di E. Torricel-li), a cura di V. Viviani, Firenze 1674, p. 4.

2 Id., Discorsi e dimostrazioni su due nuove scienze (1638), in Id. Opere, a

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Non pare quindi peregrino riconoscere nell’opera postuma di Galilei l’annuncio intempestivo di un’età che avrebbe misurato il proprio pensiero scientifico e filosofico giusto sulla comprensione del lascito eudossiano. L’intera storia del trascendentale moderno potrebbe, difatti, essere letta come la lenta e faticosa vicenda della com-prensione filosofica della teoria delle proporzioni di Eudosso, secondo cui «il concetto di numero diventa perfettamente isomorfo a quello di grandezza»3, secondo cui, cioè, i numeri sono grandezze e le grandezze soltanto rapporti. Potrebbe essere cioè intesa come la storia dell’im-barazzo nella interpretazione, anche solo di una delle definizioni (def. 3, l. V) che giungono ad Euclide e che potremmo tradurre tenden-ziosamente come: «due grandezze sono in rapporto in quanto sono generate dal medesimo logos come “due grandezze in rapporto tra di loro”, se esse sono tenute insieme da quale sia il loro proprio “quanto grande”». Ovvero non vi sono due grandezze prima del rapporto, prima della loro comune ratio mensurae, e questo stesso rapporto le tiene insieme per come l’una è in relazione con l’altra, quanto alla loro grandezza reciproca; e solo dacché sono in rapporto, il quale delle grandezze è il loro quanto-grande.

È in questa medesima storia che corrono criticismo e fenomeno-logia, cercando ambedue di fronteggiare le sue questioni, in maniera diversa e talora alternativa, con l’intento di determinare più da vicino la ragione di quella proporzionalità o il principio di ogni relazione. Impegnarsi allora a discernere quale sia il ruolo delle nozioni di quantità e grandezza all’interno della formazione della fenomenolo-gia husserliana, attraverso il confronto con le scienze contemporanee ed il modello kantiano, implica qualcosa di diverso dalla redazione di un capitolo di filosofia della matematica, giacché espone uno dei versanti più ripidi della differenza tra esperienza e pensiero. Nel viag-gio tra Halle e Gottinga – ovvero dalla Filosofia dell’aritmetica alle Ricerche logiche ed oltre – frequenti sono le riflessioni husserliane che potrebbero raccogliersi in una, seppur non sistematica, Grössenlehre, fino a quando, almeno dalle Riflessioni di Seefeld – sino quindi all’an-

cura di F. Brunetti, Utet, Torino 1996, p. 732.; E. Giusti, Euclides reformatus. La dottrina delle proporzioni nella scuola galileiana, Torino 1993.

3 E. Melandri, La linea e il circolo. Saggio sull’analogia, Macerata 20042, p. 265.

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nuncio di intraprendere il disegno di una fenomenologia trascenden-tale4 – il termine grandezza smette gli abiti propriamente matematici per acquisire uno statuto concettuale autonomo, all’interno di una rinnovata teoria dell’oggetto e dell’ente. Non può negarsi, infatti, che i Prolegomeni ad una estetica trascendentale fenomenologica, che Husserl stenderà tra il 1904 ed il 1907, sarebbero di difficile inten-dimento qualora non si fosse realizzata una profonda elaborazione della differenza antica tra meghetos e plethos o di quella moderna tra magnitudo e quantitas, soprattutto se si rammentano le puntuali distinzioni tra la “grandezza temporale” e l’estensione o il segmento o ancora tra «la tipica unità sensibile, […] a cui appartengono i rappor-ti “a più lungo di b”, “b più corto di a”»5,e la successiva suddivisione. E che un più avanzato assestamento del concetto di grandezza possa essere fatto coincidere con l’impegno ad auto-caratterizzare storica-mente la fenomenologia come filosofia trascendentale lo dimostra una volta di più quanto Husserl asserisce in un corso decisivo, come quello del semestre invernale del 1906-07, sostenendo che «gran-dezza, ed ancora di più intero, sono concetti che non hanno origine nella teoria dei numeri o degli insiemi. Essi hanno origine, piuttosto, nell’essenza formale di un oggetto in generale [...]. La pura matema-tica della grandezza e del numero può anche essere intesa come pura logica del quantitativo»6.

Così l’almanacco delle grandezze si fa più fitto e comprende la grandezza ortoide della temporalità, la sovrapposizione – costituente la varietà dimensionale dello spazio – tra grandezze ortoidi e cicliche, corrispondenti rispettivamente ai campi sensibili ed all’elementare decorso cinestesico, e, finanche, come si è appena visto, l’oggettità in generale.

Se però quelli appena elencati possono figurare come risultati, alla loro intelligibilità riesce necessaria la ripresa del cammino nascosto che vi ha condotto e che può trovare due significative tappe nella redazione della Filosofia del calcolo (1890 ca.) e nella preparazione

4 E. Husserl, Per una fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), cit., p. 248 e sgg.

5 Ivi, p. 263.6 Id., Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. Vorlesungen 1906/07,

hrsg. von U. Melle, Hua, Bd. XXIV, Den Haag 1984, p. 78.

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della conferenza sull’Immaginario nella matematica (1901), che segna l’ingresso husserliano nella Gottinga dei matematici, su invito di Felix Klein e David Hilbert7. Due momenti che tradiscono l’allon-tanamento dalla prima fase del suo pensiero, ma anche l’esordio del ripensamento del «contrasto tra la cosa immediata della imaginatio sensibile e la cosa dell’intellectio fisica»8, che lo occuperà almeno dal primo volume delle Idee alla Crisi, quando la questione galileiana guadagnerà di nuovo, e definitivamente, la scena.

Per comprendere però la formazione di un concetto propria-mente fenomenologico di grandezza non si può non esaminare il confronto costante, ma non sempre esplicito, con la dottrina generale delle grandezze con cui Kant aveva definito l’ambito specifico dell’a-ritmetica e grazie alla quale aveva deciso i suoi rapporti e vincoli con l’esperienza. Raccogliendo gli indizi sparsi nell’intera opera kantiana – dalla Prima Critica sino all’epistolario ed all’Opus Postumum – potremmo definire il quantum (o Grösse), come a) un’unità succes-siva, seriale e quindi divisibile o denumerabile9; b) limitata ad enti finiti e sensibili10; e c) indifferente alla qualità ed alla composizione dell’ente quantizzato11. Ne deriva una nozione fluentistica o meglio

7 Non solo, infatti, David Hilbert ne sostenne la chiamata a Gottinga, ma nel 1917, quando Husserl era ormai a Friburgo, questi, insieme ad altri membri del Mathematisches Institut scrisse un Minoritätgutachten in cui lamen-tava la poca attenzione tributata dalla Facoltà per i problemi epistemologici connessi agli sviluppi della matematica, adducendo come prova che «non si fosse trattenuto un uomo come Husserl, non riconoscendone l’importanza». V. Peckhaus, Hilbertprogram und kritische Philosophie, Göttingen 1990, p. 210.

8 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit., p. 132.

9 Si vedano in proposito gli Assiomi dell’intuizione (Critica della Ragion Pura, A 162-B 203, ed. it. a cura di P. Chiodi, Torino 1967, pp. 206 e sgg.). Cfr. inoltre sulla definizione di quantità di materia, l’Opus Postumum (ed. it. a cura di V. Mathieu, Roma-Bari 2004, p. 75).

10 Sulla limitazione della matematica, in quanto dottrina della quantitas, ai sensibilia, si rimanda alla lettera a Johann Schultz, del 25/11/1788 (in I. Kant, Briefe, hrsg. von F. Ohmann, Leipzig 1911, p. 150), in cui si delineano i termini della controversia con Eberhardt.

11 Su come il duplice richiamo alla quantizzazione rispetto al mosso e rispetto al movimento imponga la definizione di «un concetto determinato di una grandezza [come] il concetto della produzione della rappresentazione

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cinematica12, in cui sarebbe fuorviante accentuare la temporalizza-zione, ovvero la sensibilizzazione, delle proprietà dei numeri (come pure determinazioni di quantitas)13, dacché la scienza dei numeri, o l’aritmetica, resta pensiero, e non esperienza, «pura sintesi intellet-tuale […], a prescindere dalla successione che ogni costruzione di grandezza richiede»14.

Se allora un quantum definisce un oggetto come successivamente appresso – un oggetto in quanto assiomaticamente esteso – ovvero rassegnabile in una successione o serie; la quantitas (o Grössenheit), invece, rappresenta una tale successione nei termini di una divisibi-lità, rappresenta cioè il modo (lo schema) in cui la successione può essere trasformata in divisione rispetto ad un’unità, il criterio o meto-do della divisione. Nella misura in cui qualcosa è un mero quantum, non è necessario che sia solo divisibile, ma che lo sia in parti omo-genee, ovvero in parti che sono parti di un intero e non parti per se stesse, parti non per il loro contenuto proprio ma per la connessione formale in cui si trovano. Orbene, però, l’omogeneità non è un carattere proprio delle parti di un quantum, come non è lo la sua unità, ma deriva dalla sua composizione ovvero dalla determinazione di un intero come quantum. Una tale omogeneizzazione è quella, ad esempio, che, nella cinematica moderna attraverso la riconduzione delle dimensioni ontiche di spazio e tempo a grandezze geometriche nella forma dei due lati di un triangolo rettangolo, rende possibile

di un oggetto mediante la composizione di parti omogenee», si veda la Pre-fazione ai Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaften (1786), Gesam-melte Schriften, Akademie Ausgabe, IV, Berlin 1902, pp. XX-XXI.

12 M. Friedman, Geometry, Construction and Intuition in Kant and his Suc-cessors, in G. Sher e R. Tieszen (ed. by), Between Logic and Intuition. Essays in honour of Ch. Parsons, Cambridge 2000, p. 193. Cfr. A. Moretto, Dottrina delle grandezze e filosofia trascendentale in Kant, Padova 1999; Id., Matematica, in S. Be-soli, C. La Rocca, R. Martinelli (a cura di), L’universo kantiano. Filosofia, scienze, sapere, Macerata 2010, pp. 261-313. Cfr. Ch. Parsons, Mathematical Intuition, in «Proceedings of Aristotelian Society», 80, 1979-80, pp. 145-168; J. Hintikka, Kant’s Transcendental Method and his Theory of Mathematics, in «Topoi», 3, 1984, pp. 99-108.

13 I. Kant, Lettera a J. Schultz , cit., pp. 149-150.14 Ibid. Cfr. Id., Risposta alla domanda se pensare sia un’esperienza, in Id., Che

cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Milano 2000, pp. 75-77.

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la misurazione del movimento come un quantum. E come una tale omogeneizzazione, quella kantiana è un procedimento figurativo che ha nel movimento e nella molteplicità, che del movimento diviene espressione lineare, i suoi presupposti fondamentali15.

Era così inevitabile che, recependo la nozione di grandezza nell’ac-cezione kantiana, cioè come grandezza lineare o quantitativa, lo Husserl della Filosofia dell’aritmetica rifiutasse di definire l’aritmetica come scienza di grandezze e quindi di derivare il concetto di numero da quello di grandezza, seguendo alla lettera la Wissenschaftslehre bolzaniana. In tal guisa però vengono ereditate anche non poche ambiguità e contraddizioni che gravavano ancora su alcuni capitoli matematici che sarebbero rimasti irresolubili se non si fosse dissocia-ta la grandezza dalla quantità, e quindi dalla divisibilità, per farne «la forma più generale di essere finito (endlich zu seyn)»16.

Questo sarà il corso del ripensamento bolzaniano della Grössenlehre, che doveva però restare sconosciuta a Husserl, chiusa com’era nei faldoni dell’opera postuma. Ebbene i capitoli a beneficio dei quali Bolzano avrebbe provveduto a fornire una rappresentazione più fondata della matematica, definendo la grandezza come «appar-tenente ad una specie di cose, tra ciascuna delle quali prese a due a due è possibile asserire una ad una solo delle seguenti relazioni: o che

15 In questa sin troppo breve esposizione della dottrina kantiana resta il vuoto della grandezza come idea estetica; la ragione di questo accantona-mento – che qui non si può che esporre solo lapidariamente – sta nell’op-posizione (tutt’altro che eudossiana!) della misura estetica della magnitudo a quella logico-matematica del quantum, resa a sua volta possibile da una dicotomia irriducibile tra l’attestazione di qualcosa come una grandezza (quantum), che si desume dalla cosa stessa, in quanto unità formata da una molteplicità di elementi omogenei, ed il riconoscimento di quanto grande essa sia, il quale richiede sempre qualcos’altro. I. Kant, Critica del Giudizio, a cura di A. Bosi, Torino 1993, p. p. 223.

16 B. Bolzano, Recensione anonima a Vieth, Anfangsgründe der Mathema-tik , in «Neue Leipziger Literaturzeitung», (81), Luglio, 1808, p. 1291; cfr. P. Cantù, Mathematik als Grössenlehre, in J. Stolzenberg-O.-P. Rudolph, (ed. by), Christian Wolff und die europäische Aufklärung, Akten des 1. Internationalen Chri-stian-Wolff-Kongresses, Bd. IV, Hildesheim 2008, pp. 13-24. Sulla rilevanza del concetto di grandezza nella matematica contemporanea si veda D. K. Lewis, Mathematics is Megethology, in «Philosophia Mathematica», 3, 1993, pp. 3-23.

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sono uguali tra di loro o che una contiene una parte uguale all’altra»17, erano quelli delle grandezze negative, irrazionali ed in particolare immaginarie, le quali pur non avendo alcuna corrispondenza con oggetti in ogni modo intuibili, conservano il rango di cosalità ed, in specie, di cosalità del pensiero (Gedankendinge). È probante che Husserl, nei primi anni ’90, non avendo ancora conseguito un’affi-dabile nozione di Grössenheit, considerasse gli immaginari come una sfera di Gegenstandslosigkeit, di mere rappresentazioni segniche senza oggetto, derivanti solo da procedure operative e di calcolo18. In tal guisa però di Kant non solo si ripeteva l’interdetto a poter anche solo pensare il «concetto vuoto (senza oggetto) della radice quadrata di un numero negativo»19, che non potrebbe corrispondere ad alcun «numero che ne rappresenti nel concetto la quantità (la sua relazione all’unità)»20, ma anche la ragione teorica più profonda, giacché una tale espressione rovinerebbe nell’intuizione di un’impossibilità senza alcuna sintesi nel tempo. Detto altrimenti, rimaneva contraddittorio che «l’unità come grandezza positiva, si riferi[sse] ad un’altra x»21, che esprima a sua volta una grandezza negativa, perché il sistema numerico, in cui vige la rappresentabilità propria delle grandezze, è delimitato contenutisticamente dall’istanziazione sensibile di indivi-dualità di grandezza.

17 B. Bolzano, Einleitung zur Grössenlehre und erste Begriffe der allgemeinen Grössenlehre, in Gesamtausgabe. Bd. II, 7, Stuttgart 1975, § 1, pp. 25-26.

18 Ancor prima, nella Dissertazione del 1887 sul concetto di numero, oltre a denunciare il fallimento nei tentativi fino ad allora messi in atto di appli-care i numeri irrazionali ed immaginari a qualsiasi ambito della matematica, non meno significativamente, Husserl rifiutava l’intuibilità helmoholtziana di forme non-euclidee dello spazio (pena un’alterazione essenziale del con-cetto di intuizione!), e la sua fondazione della legge di causalità, e dichiarava il “principio di permanenza delle leggi formali” di Hankel (che grande parte avrà nella ripresa successiva dell’immaginario nella matematica e nella no-zione di varietà definita) come un principio né “metafisico” né “odogetico”. E. Husserl Studien zur Arithmetik und Geometrie. Texte aus dem Nachlass (1886-1901), hrsg. von I. Strohmeyer, Hua, Bd. XXI, Den Haag 1983 p. 339.

19 I. Kant, Lettera a A ugust. W. Rehberg (25/9/1790), in Id., Briefe, cit., p. 196.

20 Ibid.21 Ivi, p. 198.

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Ancora negli Studi psicologici per la logica elementare (1894), Husserl si trovava nel medesimo imbarazzo, opponendo un esito scettico all’incapacità che la logica antica e moderna mostravano nel promuovere una cognizione profonda «della validità del pensiero sim-bolico (in primo luogo, naturalmente del pensiero matematico)»22; ma, in questo caso, la posizione del problema circa le molteplici teorie, totalmente differenti, avanzate per contenere i numeri imma-ginari, viene finalmente istradata verso un’Einsicht «nell’essenza dei processi elementari dell’intuizione e della rappresentanza»23. Sulla medesima strada si trova il confronto con Twardowski, l’avanzamen-to della nozione di oggetto intenzionale e la revisione della brenta-niana Sprachkritik e della sua definizione di percezione: basterebbe già solo questo per valutare il ruolo che le considerazioni husserliane, a cui ci rivolgeremo, hanno avuto nella delineazione dei rapporti tra esperienza e giudizio24.

2. Grandezze immaginarie.

Raccogliendo alcuni vecchi manoscritti matematici, in prepara-zione delle due conferenze da tenere alla Società Matematica di Gottinga, che recavano il titolo originale de Il passaggio attraverso l’impossibile e la completezza di un sistema assiomatico, Husserl decide di porsi sulla difficile frontiera tra matematica e filosofia, o meglio

22 E. Husserl, Studi psicologici per la logica elementare, in Id., Logica, psicolo-gia e fenomenologia. Gli Oggetti intenzionali e altri scritti, cit., p. 83. Cfr. F. De Gandt, Husserl and Impossible Numbers: A Sceptical Experience, in T. Koetsier-L. Bergmans (ed. by), Mathematics and the Divine: a Historical Study, Den Haag 2005, pp. 613-623.

23 E. Husserl, Studi psicologici per la logica elementare, cit., p. 83.24 Sulla concatenazione teorica – presente nello Husserl gottinghese –

tra la logica del pensiero matematico, il calcolo logico, la varietà definita, la fenomenologia, dunque, delle intenzioni vuote e delle rappresentazioni sim-boliche, ma anche l’analisi delle essenze delle diverse forme proposizionali e di giudizio, ed i problemi della percezione, della fantasia, del tempo, della cosalità e dello spazio, si veda la Persönliche Aufzeichnung del 25/10/1906, pubblicata da W. Biemel, in «Philosophy and Phenomenological Research», 16, 3, 1956, pp. 294-300.

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tra matematica, logica e filosofia25. Giusto l’ambiguità in cui cade la definizione delle grandezze immaginarie, tra la loro funzione opera-tiva e la loro significanza concettuale – che ne aveva già caratterizzato l’inclusione nel progetto del secondo volume della Filosofia dell’A-ritmetica, dedicato ad una dottrina del simbolismo matematico, e l’esclusione dalla trattazione dell’idea di teoria nei Prolegomena, in quanto semplice esempio tecnico26 – costringeva a domandarsi di quale interesse filosofico fossero le relazioni tra la matematica for-male e le sue applicazioni nella matematica reale, ovvero «i problemi dalla cui soluzione dipende l’intendimento dell’essenza generale delle scienze deduttive e delle teorie in generale»27.

Una volta assicurata la costruzione di stabili regole di calcolo e di regole per un operare indubitabilmente sicuro e corretto, il problema filosofico delle grandezze immaginarie dovrebbe essere presentato come segue: «sia dato un ambito di oggetti, in cui, attraverso la pecu-liare natura degli oggetti, sono determinate forme di collegamento e di relazione, che si esprimono in un certo sistema assiomatico A. In base a questo sistema e quindi alla peculiare natura degli oggetti certe forme di collegamento non hanno alcun significato reale, sono cioè forme di collegamento controsenso»28.

Come allora è possibile elaborare nel calcolo questo contro-senso? Ovvero l’elaborazione che il calcolo, che un’operazione del pensiero compie su questo contro-senso non insensato, può meritare il rico-noscimento di un senso filosofico?

Andiamo per gradi. Delle possibili teorie sull’immaginario Husserl non considera quelle che riguardano una sua acquisizione mediante induzione empirica o la sua evidenza immediata a priori, perché eludono, con ogni chiarezza, la questione così come è stata posta. Allo stesso modo risulta inadempiente, o meglio unilaterale, la

25 E. Schuhmann-K. Schuhmann, Husserls Manuskripte zu seinem Göttin-ger Doppelvortrag von 1901, in «Husserl Studies», 17, 2001, pp. 87-88.

26 E. Husserl, Logica formale e trascendentale (1929), a cura di G. D. Neri, Milano 2009, pp. 109-110.

27 Id., Das Imaginäre in Mathematik (1901) [d’ora in poi: IM], in Id., Phi-losophie der Arithmetik. Mit ergänzenden Texten (1890-1901), hrsg. von L. Eley, Hua, Bd. XII, Den Haag 1970, p. 432.

28 Ivi, p. 433.

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soluzione (di Dedekind) dell’assoluta illimitatezza nell’introduzione di regole o simboli operativi. In questa preliminare rassegna, Husserl restituisce i modi in cui, storicamente, i numeri immaginari sono stati introdotti nell’algebra, ossia attraverso il metodo di postula-zione (l’introduzione di un nuovo tipo di entità chiamata numero immaginario) e quello di definizione implicita o di simbolizzazione, lasciando però da parte quello costruttivo di Hamilton, secondo cui «l’espressione numero immaginario è il simbolo abbreviato per una certa coppia di integrali, frazioni o altri numeri reali, laddove le operazioni su queste coppie siano governate dalle regole stabilite»29.

Tale accantonamento sembra ragionevolmente motivato dall’in-clusione di quest’ultimo metodo all’interno del principio hankeliano di permanenza, grazie al quale «superiamo gli ambiti particolari ed

accediamo al formale, potendo così liberamente operare con »30. In virtù di questo principio possiamo offrire una determinazione

formale di teoria e del suo limite “operativo” consistente almeno in due passi: 1) una teoria è un sistema assiomatico deduttivo definito in maniera assoluta o relativa; 2) un sistema assiomatico-deduttivo coincide con un ambito o una varietà definita in maniera assoluta o relativa. Questa è la prima definizione della “varietà definita”, con cui Husserl continuerà a delimitare la nozione di teoria, e che però qui, più che altrove, esplicita le differenze con quella hilbertiana di saturazione o chiusura.

Una varietà definita è un ambito di grandezze, la cui esistenza è posta o fondata da un numero finito (ed irriducibile) di forme di operazione, di relazione e di connessione; detto altrimenti, le gran-dezze che compongono un tale ambito sono poste come esistenti – vere o false – nella forma delle operazioni, delle relazioni e delle connessioni. Le tre modalità formali che assicurano l’esistenza delle grandezze – o degli oggetti di quell’ambito che corrisponde ad una varietà definita – sono statuite assiomaticamente, mentre i limiti di esistenza sono dettati in maniera deduttiva e quindi in assenza di contraddizioni rispetto agli assiomi.

29 E. Nagel, The Formation of Modern Conception of Formal Logic in Develop-ment of Geometry, in «Osiris», 7, 1939, pp. 162-163.

30 E. Husserl, IM, p. 438.

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Le leggi, o gli assiomi, che caratterizzano alcune operazioni attra-verso relazioni tra alcuni tipi di operazioni, sono leggi formali e leggi esistenziali31, le quali indicano delle condizioni limite che stabilisco-no l’impossibilità di talune combinazioni, ma anche l’indecidibilità di talaltre operazioni. Si può così intendere la definitezza di una varietà come completezza sintattica, laddove il sistema assiomatico non sia ulteriormente estensibile, come decidibilità, laddove sia pos-sibile dimostrare l’esistenza o non esistenza (verità o falsità) di una proposizione al suo interno, e come completezza semantica laddove si possano dimostrare tutte le formule valide di un determinato ambi-to32. Diviene così evidente che un caso di indecidibilità possa essere affrontato, logico-matematicamente, solo tenendo insieme la possi-bilità di pensiero dei giudizi nelle regole di relazione e connessione, la non-contraddittorietà degli oggetti connessi e la provabilità delle operazioni. Ma ciò non basta: dal cono d’ombra gödeliano la nozio-ne husserliana di definitezza potrebbe uscire solo elaborando oltre il rapporto tra esperienza e pensiero, o tra intuizione e formalizzazione. Oppure – preparando il Durchgang durch das Imaginäre – mediante la comprensione del limite e del rapporto tra forma dell’operazione e forma della grandezza33.

Quando, infatti, Husserl affronta l’introduzione dell’immagina-rio in matematica, pur comprendendo tutte le specie di deviazione dai numeri reali, quindi irrazionali, negativi e complessi, definisce il numero immaginario con il termine classico introdotto da Gauss, Lateral-Zahl, numero laterale. Pochi anni dopo l’interdetto kantiano (1790), di cui abbiamo detto sopra, Caspar Wessel nel 1797, Carl Gauss nel 1798 e J.-R. Argand nel 1806, tutti indipendentemente

31 E. Schuhmann-K. Schuhmann, op. cit., p. 119.32 D. Lohmar, Phänomenologie der Mathematik. Elemente einer phänomenolo-

gischen Aufklärung der mathematischen Erkenntnis nach Husserl, Dordrecht-Bo-ston-London 1989, p. 184. Cfr. C. Ortiz Hill, Husserl’s Mannigfaltigkeitslehre, in C. Ortiz Hill-G. E. Rosado Haddock, Husserl or Frege? Meaning, Objectivity and Mathematics, Chicago 2000, pp. 161 e sgg.

33 Sembra opportuno ricordare come proprio l’accostamento husserlia-no di una riflessione sull’operatività e di una sull’oggettità motivi l’interesse gödeliano – altrimenti difficile a giustificarsi – nella lettura dei testi feno-menologici. Si veda ad esempio K. Gödel, Che cos’è il problema del continuo di Cantor (1964), in Id., Scritti scelti (1933-1964), Torino 2011, pp. 235-275.

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l’uno dall’altro, avevano proposto un metodo di rappresentazione geometrica dei numeri immaginari, ed in specie del numero cardina-le che è la radice di -1, consistente (così ancora lo descrive Husserl) nella rotazione di 180° di un segmento rispetto al proprio asse. In una tale rotazione consisterebbe la lateralizzazione; ma questo è proprio il punto dolente: che cos’è questa rotazione? «L’immaginario dell’aritmetica, nel senso del numero cardianle, significa: un numero cardinale è la radice quadrata di –1. Ma ciò che così si rappresenta è il concetto di un segmento, che ruota rispetto ad un segmento principale, di modo che se io gli applico la medesima rotazione arrivo a quel segmento ruotato però di 180° rispetto alla posizione originaria»34.

Nonostante la rotazione – qui indicata da Husserl – corrisponda, laddove venga correttamente riferita ad un punto, alla trasformazio-

ne di in e non semplicemente all’individuazione dell’unità immaginaria i, a partire da un numero reale a, che vale come i0, ciò che più conta è che la corrispondenza tra unità immaginaria e rotazione sia garantita dalla costituzione di un piano complesso, che segue la legge secondo cui ad ogni elevazione a potenza superiore

di un’unità si compie una rotazione di 90° (i0=0°=1; i1=90°=

; i2=180°=–1; i3=270°=– ; i4=360°=0°=1). è semplice-mente a destra del punto 0 sull’asse dei numeri reali (x); ma perchè tale punto possa essere segnato è necessario introdurre l’ascissa dei numeri immaginari (y) grazie alla quale l’unità reale, ruotando nel derivante piano complesso, può trasformarsi in unità immaginaria. A differenza della generazione cinematica dello spazio geometrico, la possibilità della “traslazione” attraverso cui si compie il passaggio da un numero o una grandezza reale ad un numero od una grandezza immaginaria, non è un’operazione primaria, ma è concessa dalla determinazione di un ambito più ampio: quello di una varietà defini-ta, come spazio ideale. Tale varietà definita – in quanto Grössensystem – è ciò che concede la determinazione di una singola grandezza in quanto tale.

34 E. Husserl, IM, pp. 436-437.

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All’esposizione delle condizioni di una tale operazione potrebbe-ro essere ricondotte alcune delle principali riflessioni che in ambito fenomenologico hanno riguardato lo statuto degli oggetti matematici: l’ontologia intuizionistica di Becker, la dialettica tra tematizzazione ed idealizzazione in Cavaillès e l’accordo matematico-fisico dell’ulti-mo Weyl. Al primo appartiene la convinzione che «l’aritmetica delle grandezze complesse sia passibile di sensibilizzazione intuitiva»35, al secondo l’ambizione a descrivere l’esperienza matematica come «un sistema di gesti, retto da una regola e sottomesso a della condizioni indipendenti da quei gesti»36, al terzo infine l’ipotesi secondo cui «i concetti matematici di numero, funzione ecc. (o i simboli di Hilbert) in generale svolgono un ruolo nella costruzione teorica della realtà allo stesso modo dei concetti di energia, gravità, elettrone, ecc.»37.

Si disegna così un ventaglio ampio, in cui la posizione husserlia-na è riconoscibile solo a patto di integrare la dimostrazione segnica con la descrizione fisica e di accantonare la possibilità di esibire «un sostrato intuitivo, in cui le nuove relazioni numeriche possano avere significato concreto»38, e quindi un’intuibilità limitata all’intuizione del metodo di costruzione della coppia (reale e immaginario) che costituisce l’ambito delle grandezze complesse. Se prendiamo, infatti, in considerazione il metodo hamiltoniano, che sancisce effettiva-mente la consacrazione di questi numeri impossibili39, individuando un procedimento essenziale all’intera fisica contemporanea (attra-verso l’utilizzo dei quaternioni), dove potremmo, infatti, trovare la

35 O. Becker, Mathematische Existenz. Untersuchungen zur Logik und Ontolo-gie mathematischer Phänomene (1927), Tübingen 19732, pp. 38.

36 J. Cavaillès in «Bulletin de la Societé française de Philosophie», XL, 1946, p. 9; cit. in Lettres inédites de Jean Cavaillès à Albert Lautman, a cura di M. Hourya Benis-Sinaceur, in «Revue d’histoire des sciences», 40, 1987, p. 123.

37 H. Weyl, Die heutige Erkenntnislage in der Mathematik, in «Symposion», I, 1925, pp. 1-23; cfr. G. Lolli, Filosofia della matematica. L’eredità del Novecento, Bologna 2002, p. 176.

38 O. Becker, op. cit., p. 41.39 Questa ancora mistica impossibilità, con cui il Moderno (dal Descar-

tes della Geometrie a Clavio a Leibniz) aveva gravato i numeri immaginari, viene arginata giusto dalla descrizione di «come alcuni di questi numeri si-ano dati e come si opera con essi» (H. Weyl, Philosophy of Mathematics and Natural Sciences [1949], Princeton 2009, p. 32).

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prova intuitiva? Piuttosto l’onere della prova si sposta sulla possi-bilità di descrivere grandezze con direzioni, ovvero nel riconoscere nella doppia serie infinita delle grandezze reali ed immaginarie, una forma di rapporto, la cui legalità è prescritta dalla definitezza della varietà logico-fisica di cui fa parte. Solo così sarebbe lecito risalire alla genealogia di quella coppia di segni che definisce un valore, indivi-duando la forma della relazione in generale proprio nel concetto di grandezza.

3. Grandezza pletoide e contrassegno relativo.

È chiaro allora che l’applicazione alle grandezze immaginarie comanda di tornare su una delle questioni più dibattute della Filosofia dell’aritmetica, una di quelle a cui lo stesso Husserl si appella per indicare il limite prefenomenologico del suo pensiero: la formazione della nozione di numero nell’atto di secondo grado della riflessione su un collegamento collettivo che determina un aggregato. Come noto, Husserl distingue dal collegamento proprio di un aggre-gato, il collegamento metafisico o continuo ed il collegamento pri-mario. Per collegamento metafisico qui si intende quello sussistente tra parte ed intero (così come significato metafisico di spazio è quello pertinente all’unità della sua continuità), mentre per collegamento primario si intende quello di un intero rappresentazionale, in cui le parti si notano per sé ovvero si riconoscono in quanto tali parti di un intero40. Assunto un oggetto intero, le sue parti risultano collegate primariamente tra di loro ed al tutto in virtù del loro semplice con-tenuto, risultano cioè collegate concretamente ed il loro collegamen-to è immediatamente intuibile. Limitato però dai contenuti delle parti un tale collegamento non può variare oltre i limiti prescritti dall’intero. Diversamente il collegamento dell’aggregato dipende «da un’unificazione collettiva [che] non è data intuitivamente nel contenuto rappresentazionale, ma sussiste solamente in certi atti psichici che inglobano i contenuti unificandoli»41, quindi in primo luogo omogeneizzandoli in quanto indifferenti al loro contenuto.

40 E. Husserl, Filosofia dell’aritmetica, cit., pp. 114-115.41 Ivi, p. 116.

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Tra collegamento primario e secondario riscontriamo così una frat-tura simile a quella moderna tra qualità primarie e secondarie e forse anche più ampia, considerando la presunta indipendenza metafisica del primo. In questo senso, una grandezza è solo un tipo di insieme maggiormente astratto rispetto all’aggregato, ottenuto ammettendo oltre all’indifferenza contenutistica anche l’introduzione di alcune operazioni relazionali come: uguale, maggiore o minore.

Se torniamo ora alla grandezza, attraverso i manoscritti della Filosofia del calcolo, potremmo comprendere come la priorità dell’ag-gregato, del collegamento continuo e quindi del concetto di numero cardinale, che da ciò deriverebbe, sulla grandezza è una priorità psicologica, o meglio una priorità che vale in un’ancora rudimentale analisi psicologica dell’attenzione astraente42.

La definizione moderna di grandezza come ciò che può essere uguale o divisibile in parti uguali (omogenee) e quindi maggiore o minore43, non consente di giungere ad alcuna chiarezza. Anzi costrin-ge a chiamare grandezze cose che, matematicamente, non potrebbero mai esserlo, come un cavallo più grande del carretto che tira o un edificio con la stalla rispetto ad uno senza. E così si ripresenta la frattura: la definizione filosofico-matematica di grandezza dovreb-be, invece, consentire di utilizzare l’espressione “essere-grande” in maniera inequivoca anche nei contesti più differenti.

Proviamo quindi a definire la grandezza come «un concetto di relazione, che pertiene a singoli oggetti in quanto parti di un sistema infinito»44.

42 Ivi, p. 123. Tale priorità che vale anche in un’analisi logica della mate-matica, come si può desumere dai Principi russelliani che, pur dedicando alla grandezza una trattazione acutissima, che mira a definirne una teoria indi-pendente dal numero, non può non riconoscere che «le grandezze sono più astratte delle quantità», in quanto le prime riguardano termini che possono essere uguali, le seconde termini che possono essere maggiori o minori. B. Russell, I principi della matematica (1903), a cura di L. Geymonat, Torino 2011, p. 240.

43 R. Descartes, Regole per la guida dell’ingegno, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Lojacono, Torino 1994, pp. 307-311.

44 E. Husserl, Philosophie des Kalküls, [d’ora in poi: PK], in Id., Studien zur Arithmetik und Geometrie. Texte aus dem Nachlass (1886-1901), hrsg. von I. Strohmeyer, Hua, Bd. XXI, Den Haag 1983, p. 70.

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Una grandezza è tale solo in un sistema di grandezze, quindi, ed un sistema di grandezze è quello in cui «ogni coppia di grandezze è tale che queste sono commensurabili l’una con l’altra; ovvero un sistema di grandezze reciprocamente commensurabili»45, anche lad-dove tra due di queste si denoti un’incommensurabilità in quanto anche questa sarebbe una commisurazione a cui però non si adegua l’unità di misura adottata per esprimere la relazione. Grandezza sarebbe un “contrassegno relativo” che può essere applicato agli oggetti di un concetto generale46. Ora gli oggetti così contrassegnati rientrano nel concetto di grandezza, in quanto stanno in un recipro-co rapporto di grandezza, ovvero non hanno altra caratteristica che quella di stare in un reciproco rapporto di grandezza. Questo fa sì che «il concetto di grandezza sia indeterminato dal lato del genere ed anche dal lato dell’ambito»47.

Della grandezza possono fare parte sia gli insiemi di unità qualsia-si, sia i numeri cardinali, sia i pesi, le forze, i piani, le distanze. Della grandezza, come contrassegno dell’essere in relazione di qualcosa con qualcos’altro, i numeri allora rappresentano caratteri concettuali specifici (o notazioni concettuali specifiche) ovvero i caratteri esterni della distinzione che deriva dalla relazione reciproca contrassegnata come grandezza. Avanziamo però un’altra definizione, una definizio-ne integrativa di quanto fino ad ora esposto: definiamo grandezza il

45 Ivi, p. 75.46 Husserl utilizza sin da un manoscritto del 1893-94 (Attribution und

Prädikation. Affirmation der Vorstellung als solcher im Gegensatz zur Affirmation des intendierten Gegenstands, ora contenuto in Id., Untersuchungen zur Urteilstheorie, (1893-1918), Hua, Bd. XL, hrsg. von R. D. Rollinger, Dordrecht 2009, pp. 66-67), il termine Merkmal, traendolo da Benno Erdmann, Logische Elemen-tarlehre, (Halle, Niemeyer 1892). «Le singole parti costitutive – scrive Er-dmann (ivi, p. 118) – della coscienza contenute in una rappresentazione, le sue rappresentazioni parziali sono chiamate, in quanto determinazioni di oggetti, contrassegni (Merkmale). Contrassegni (notae, determinationes) sono le determinazioni indivisibili degli oggetti del pensiero sia che in essi si predi-chino caratteristiche (Beschaffenheiten), come rosso, dolce, irascibile, oppure relazioni di grandezza (Grössenbeziehungen), come piccolo, veloce, quadran-golare, o ancora relazioni finali, come buono, cattivo, perfetto. Ogni con-trassegno di un oggetto può essere espresso, predicato di esso. Non ogni predicato di un oggetto è però un contrassegno».

47 E. Husserl, PK, p. 72.

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più generale concetto di relazione, e gli oggetti, di cui essa si può pre-dicare, ovvero le grandezze, come oggetti qualsiasi in quanto corre-labili, oggetti che sono appunto oggetti qualsiasi, qualsiasi qualcosa, in quanto correlabili. La correlabilità di un qualsiasi qualcosa non è una sua caratteristica, ma la sua stessa definizione. La grandezza non è attributo di qualcosa, ma lo stesso qualcosa in quanto pensabile e quindi anche qualcosa a cui può attribuirsi qualcos’altro, come d’es-sere più o meno o ugualmente grande di qualcos’altro. La medesima relazione, in generale, è una grandezza48.

Ma tale definizione, per il suo elevato grado di formalità, deve essere ricondotta all’esame dei diversi tipi di grandezza. Se ne distin-guono principalmente due: grandezze pletoidi (molteplicità disordi-nate) e grandezze seriali (molteplicità ordinate)49. E si noti che, così, non si richiama solo all’esemplificazione di casi, già solo perché il neologismo con cui Husserl definisce il primo tipo di grandezza – un hapax che compare solo in questo manoscritto per scomparire per sempre forse sostituito da una o più denominazioni, che dovremmo però individuare – ovvero il solo titolo “grandezza pletoide” pone enormi problemi di interpretazione. Sembrerebbe, a tutta prima, restando su un piano etimologico, la traduzione tedesca della defini-zione euclidea di numero, un meghethos divisibile in un plethos, una grandezza in una molteplicità, un continuo in un discreto, un misu-rabile in un numerabile. Ma se così fosse non saremmo andati molto lontani: vi è una lunga tradizione, che distingue grandezza, come grandezza continua, e molteplicità come grandezza discontinua, una tradizione che distingue in virtù della divisibilità i tipi di grandezza, ovvero introduce una differenza all’interno di un genere comune mediante un’operazione (la divisione), una differenza in un genere non definito propriamente se non grazie all’opera del numerante e della numerazione50. Tale lacuna è rimediata dalla temporalità della

48 Ivi, p. 98.49 Ivi, p. 73.50 Di una tale antichissima consuetudine di pensiero si rammentino

almeno due stazioni: l’Aristotele di Metafisica V, 1020a, 7-1020b, 25 ed il Rie-mann di Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen (mitgetheilt durch R. Dedekind), in «Abhandlungen der Königlichen Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen», 1843, p. 135.

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numerazione e dalla vaga domanda comune sul “quanto?”. Eppure queste soluzioni sono a loro volta grandezze: perché il tempo è gran-dezza della successione e non successione soltanto e la predicabilità del quanto è una grandezza giacché se il quanto è una categoria allora è anche un genere di predicazioni o di modi di cui fanno parte delle specie, ovvero un intero con delle parti: quindi una grandezza. Quindi se la locuzione “grandezza pletoide” fosse solo la ripetizione di una tale tradizione sarebbe una notevole sopravvivenza, un signi-ficativo reperto archeologico, ma non aiuterebbe certo a definire l’indefinito concetto di grandezza.

Proviamo ad andare a fondo nella definizione husserliana. I due tipi di grandezza presentati sono due tipi di unità i cui collegamenti sono mengenartige e reihenartige, in quest’ultimo caso «gli elementi non sono tutti direttamente legati, ma solo alcuni a certi altri e tutti i restanti solo in modo mediato»51.

Questi due tipi allargano la loro estensione dalle grandezze ai numeri cardinali ed anche ai numeri complessi, così da ottenere concetti di numeri complessi mengenartig e reihenartig 52. Ora se per il secondo tipo abbiamo una pur breve definizione ed un nome sufficientemente comprensibile come “tipo-serie” o “serieforme”, più difficile è la comprensione del primo. Cosa si intende affermando che la grandezza pletoide è del tipo di una Menge, di un insieme53? Più avanti Husserl distingue due specie di Menge: una in cui gli elementi sono unificati, indifferentemente dalla loro realtà o idealità così come dalla mediatezza o immediatezza del loro collegamento, ed una in cui gli elementi sono concatenati, alcuni mediatamente, altri immediatamente. Questo significa, in altri termini, solo che nel primo caso non conta la posizione o l’ordine degli elementi e nel secondo sì, pur non essendo ancora pienamente un’ordinazione. Quindi alla prima definizione corrisponde un’unificazione pletoide, alla seconda un’unificazione concatenante o seriale o ordinale54.

51 E. Husserl, PK, p. 85.52 Ivi, p. 89.53 G. Falk, Physik: Zahl und Realität. Die begrifflichen und mathematischen

Grundlagen einer universellen quantitativen Naturbeschreibung, Basel-Boston-Ber-lin 1990.

54 E. Husserl, PK, pp. 92-93.

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Da questa seconda specie derivano le molteplicità (o serie) ortoidi, lineari e cicliche discrete o continue ed in tale ambito la grandezza, in senso stretto, vale come intervallo. Le leggi di posizione, senso e connessione che, in questo contesto, vengono messe a punto per la definizione di un concetto generale di grandezza e che convengono alle molteplicità unificate in serie saranno, come risulta facile notare, applicate pochi anni dopo alla costituzione del tempo, dello spazio e della cosa. Quindi, è evidente che la medesima Reihe è una Menge, che la serie è un insieme. Come si distingue allora quest’ultima dalla grandezza mengenartig? Sappiamo solo, e forse non è poco, che que-sta grandezza è indifferente alla forma o al modo dell’unificazione, così come alla sua materia, al contenuto dei suoi elementi.

Significativamente, cercando di esplicitare le leggi che defini-rebbero questo tipo di grandezza, Husserl dopo aver introdotto il principio di divisione, appunta una domanda: ma a che serve55? È davvero proprio necessario a questo riguardo? Quello che caratte-rizzerebbe questo tipo di grandezza piuttosto è che in questo caso il collegamento collettivo corre parallelamente a quello cosale, sachlich.

Ci ritroviamo ora dunque dopo tante evoluzioni ancora una volta al collegamento primario? Se non è così, ora bisognerà dimostrarlo. In primo luogo, si noti la parallelità tra le due nozioni di collega-mento e quindi di grandezza, perché la parallelità qui espressa è pro-babilmente la prima anticipazione del nesso principale in quella che sarà la modificazione nella fenomenologia matura, e proprio questa parallelità potrebbe consentire una formalizzazione del concetto di grandezza che non sia più limitata all’astrazione. In secondo luogo, si ponga mente all’esempio che viene condotto per mostrare cosa sia effettivamente una grandezza pletoide: quello del soppesamento di due corpi su una bilancia. Una bilancia – una semplice leva sui cui due bracci sono posti dei corpi che tendono all’equilibrio – e non già una stadera56, laddove quest’ultima implica non solo un’unità di misura, ma anche che questa unità sia già una grandezza ortoide. Nel caso della bilancia davvero i corpi, in quanto pesanti, sono unificati

55 Ivi, 121; cfr., ivi, pp. 133 e 140.56 Cfr. P. Spinicci, Il mondo della vita ed il problema della certezza. Lezioni su

Husserl e Wittgenstein, Milano 2000, pp. 41-42.

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dai suoi piatti e non da un collegamento collettivo57. E lo stesso vale per l’interferometro, per l’Etalon, a cui Husserl si riferisce sul finire di queste pagine58, in virtù del quale si definisce prima la relazione di grandezza e quindi gli oggetti come grandezze interrelate. Si badi che qui l’introduzione di una tecnica di relazione o di uno strumento di misura non è fuorviante, e non lo è nemmeno l’utilizzo di uno strumento che è già esso stesso una cosa della fisica, nella misura in cui lo si comprenda come analogo esemplare della correlazione, ovvero come la determinazione di un sistema di grandezze nella forma della dualità. In questi casi, l’unità di misura comune59 – che viene poi contrassegnata da un numero di grandezza o di scala, tra-ghettando la teoria della grandezza in un’aritmetica della grandezza, che può avere generalissime notazioni proprie – è la semplice dualità. L’implicazione che lega il concetto di grandezza a quello di misura o misurazione – implicazione che riemergerà carsicamente nella Krisis, ove l’esattificazione delle grandezze deriva dalla rigorizzazione di una prassi metrica mediante la fissazione di figure o grandezze-limite come unità di misura – deriva appunto dalla necessità dell’inclusio-ne in un sistema di oggetti, affinché un oggetto sia indicato come grandezza60. Questo sistema è definito dalla vigenza di uno specifico rapporto tra ciascuna coppia dei suoi oggetti. Così l’espressione lin-guistica della grandezza non è semplicemente “quanto”, ma “tanto...quanto”, mentre la sua formulazione simbolica – il suo contrassegno matematico – può essere quello della somma convergente61, ovvero della convergenza in un numero finito di una doppia serie (dop-pietto) di valori. E proprio in ragione della sua presentabilità come somma convergente, la grandezza può ammettere un’unità di misura e quindi la sua espressione numerica.

Una grandezza di certo è un intero definito in relazione ad altre grandezze, un oggetto che tanto è quanto è un altro oggetto. Domandare dell’esistenza di un tale intero, che in quanto unità è

57 E. Husserl, PK, p. 122.58 Ivi, p. 152.59 Ivi, p. 125.60 Ibid.; cfr. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascen-

dentale, cit., §9.61 E. Husserl, PK, p. 147.

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contrassegnabile matematicamente, non significa altro che doman-dare se «vi sono grandezze unitarie, che vi corrispondano»62. La domanda sull’esistenza matematica può così essere ridotta ad una domanda sull’esistenza meghetica o di grandezza. Il sintagma genera-le tanto-quanto, che esprime il concetto di grandezza, prevede alme-no due gamme di differenziazioni: quelle del maggiore e del minore, da cui possono sorgere tutte le possibili operazioni che valgano per delle grandezze, ed in primo luogo la divisibilità. Se però consideria-mo tali differenziazioni come variazioni di un tipo più generale di relazione, cosa resta e cos’è che varia nella forma del tanto-quanto?

«Ogni constatazione di una differenza di grandezza – scrive Husserl – poggia sulla precedente constatazione (sul presuppo-sto) dell’uguaglianza»63. In quanto presupposto, l’uguaglianza non dovrebbe essere un modo della relazione di grandezza, ma appunto la sua forma più generale. Ed allora bisognerebbe distinguere da questa l’uguaglianza come grado minimo della differenza. L’uguaglianza, come presupposto, è il tanto-quanto senza valori. Questo tanto è quanto è quest’altro, e, tematizzando questa predicazione esistentiva, questo ha tanto-essere quanto-essere ha quest’altro.

Tutto quanto abbiamo sino ad ora dedotto varrebbe per un con-cetto generale di grandezza, a partire da uno dei suoi tipi, quello di grandezza pletoide. Ebbene, allora, perché l’argomentazione tenga dobbiamo ancora dare conto di quel collegamento cosale che lo caratterizza e che fino ad ora abbiamo lasciato in sospeso, curandoci solo di sostenere la sua diversità dal collegamento primario. Che cosa si intende allora per collegamento cosale, di fatto? In che cosa consiste il fatto di essere collegati per oggetti non collegati colletti-vamente? Ed in cosa si differenzierebbe il fatto di essere collegati dal modo e dal contenuto del collegamento?

Bisognerebbe allora definire insieme il fatto d’essere collegati, il fatto di essere collegati in una relazione tanto-quanto, il fatto, in definitiva che un oggetto sia tanto-quanto un altro, ma anche alcuni lineamenti di una teoria dell’esperienza e del pensiero, che possa rivelarsi compatibile con una fenomenologia della matematica come

62 Ivi, p. 150.63 Ivi, p. 151.

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scienza eidetica degli enti matematici. A tal fine dovremmo poter dimostrare che “qualcosa è tanto quanto qualcos’altro” corrisponda ad uno stato di cose elementare, su cui possono formarsi gli oggetti elemen-tari della matematica – i diversi tipi variabili, gli oggetti in generale (numero, collettivo, elemento) – la cui autodatità è però delimitata dalle relazioni deduttive, dagli assiomi vuoti e formali, ovvero dagli oggetti primari64. Nel caso della nozione generale di grandezza non ci riferiremo pertanto a degli oggetti elementari, ma ad un complesso stato di cose dalla cui predicativizzazione questi possono derivare: la gran-dezza non è affatto già un numero, né ciò che da un numero attende d’essere contato; piuttosto l’implicazione tra la grandezza e la varietà che la include può infine essere espressa numericamente. Diverrebbe così del tutto esplicito il movente celato nella ricerca di una definizione generale di grandezza: individuare un’oggettualità, non ancora pri-maria (matematica) né elementare (logico-formale), che corrisponda all’essenza di tutte le relazioni possibili.

64 D. Lohmar, op. cit., pp. 199-200. Cfr. ivi, p. 213. Una tale articolazione ricade nella medesima questione circa l’oggettualità matematica che Bena-cerraf ha riproposto alla filosofia contemporanea attraverso il paradosso della differenza tra proposizioni matematiche e contenuto delle rappresen-tazioni, sostenendo che tale connessione non viene assicurata né dalla gene-ralizzazione della teoria tarskiana della verità agli oggetti matematici, né dal metodo di postulazione o dalle definizioni implicite di Russell. Queste ulti-me, in particolare, riuscirebbero soltanto a «limitare la classe di definizioni (interpretazioni) consistenti con la stipulazione [la determinazione del siste-ma assiomatico]». P. Benacerraf, Mathematical Truth, in P. Benacerraf-H. Put-nam (ed. by), Philosophy of Mathematics, Cambridge 1983, p. 419). R. Tieszen (Mathematics, in B. Smith-B.W. Smith (ed. by), The Cambridge Companion to Husserl, Cambridge 1995, p. 455) – esaminando la dottrina fenomenologica della conoscenza matematica, proprio in relazione al paradosso di Benacerraf – ritiene di poter risolvere tale problema, affermando che «gli oggetti mate-matici sono “astratti” e che i numerali, i termini di frazione ecc. si riferisco-no a questi oggetti, [ovvero] che questi termini si riferiscono ad invarianti o identità trovati nella molteplicità dei nostri atti e dei nostri processi mate-matici. Sappiamo di queste invarianti attraverso serie di atti in cui abbiamo prova della loro esistenza, nonostante li conosciamo solo parzialmente ed in maniera incompleta. Detto altrimenti, queste invarianti [scilicet gli oggetti matematici] sono intese nel senso che un’intenzione diretta agli oggetti esi-ste anche se non abbiamo esperienza degli oggetti stessi, e queste intenzioni possono avere una qualche stabilità nella nostra esperienza».

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4. Un’ipotesi di ricerca: la grandezza come situazione di cose.

Le espressioni matematiche si costituiscono, però, in giudizi-universali matematici che comprendono una predicazione non riferita ad un qualche qualcosa, ma ad un qualsiasi qualcosa, del tipo «in generale con A è dato B, in generale quando una cosa è A essa è anche B»65. Una tale modalità di giudizio è certo una forma dipendente di giudizio, ma «appartiene ad una del tutto nuova forma di senso di stati di cose, o di giudizi, la quale in questo nuovo senso rimanda a giudizi possibili schiettamente predicativi»66.

Come è allora possibile intendere il rimando che implicherebbe lo stato di cose “in generale A è tanto-quanto (è) B”? Un tale inter-rogativo non misconosce che nel giudizio universale “qualsiasi A è tanto-quanto qualsiasi B”, con cui andrebbe resa la forma generale della grandezza, non viene espresso null’altro che questo: non mi riferisco né posso riferirmi ad alcun questo-qui né ad alcun qualche questo; la dipendenza che una tale forma di stato di cose può avere riguarda piuttosto la sua modificazione. Ma uno stato di cose modi-ficato non ha bisogno, per essere inteso, di riferirsi ad un presunto stato di cose non modificato. È evidente, cioè, che non rientra affat-to negli intenti di una teoria della grandezza, così come può essere ricostruita fenomenologicamente, di sostenere una corrispondenza uno-a-uno tra la sintassi elementare del pensiero matematico ed il decorso semantico dell’esperienza, e che resta esclusa in via di principio anche una generazione intuitivistico-costruttiva della serie dei numeri naturali dalla biunità empirica del prima e del dopo. Ebbene, perché una siffatta constatazione non ricada in una impasse strumentalista67 né nella negazione già lockeana della concepibilità

65 E. Husserl, Esperienza e Giudizio. Ricerche sulla genealogia della logica, cit., p. 917.

66 Ivi, 915.67 Quella dello strumentalismo può essere definita come un impasse

perché la sua evidenza, come ha mostrato Popper, è sospesa tra la tauto-logia, secondo cui le operazioni di calcolo o gli apparati metrici sono degli strumenti, e l’ipotiposi di un’essenza nascosta delle cose, che così coniuga una dottrina dell’esperienza immediatista ed essenzialista con una del linguaggio finzionalista (Karl R. Popper, Tre differenti concezioni della conoscenza umana, in Id., Congetture e confutazioni, I, ed. it. a cura di G. Panicaldi, Milano 2001, pp.

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di oggetti ideali (quali sono tanto gli oggetti matematici elementari quanto quelli primari), sarebbe necessario ricondurre la differenza delle modalità espressive in seno al metodo di prova, in cui la serie delle modificazioni, esprimendo nessi di dipendenza, implichi anche relazioni di compatibilità che legano all’inverso i gradini più bassi a quelli più alti. Per esempio, perché sia pensabile geometricamente, è l’esperienza comune dello spazio euclideo a dover essere compatibile con la forma di una varietà estesa n-dimensionale, ovvero quest’ulti-ma deve poterla includere come possibilità, poiché è la varietà asso-lutamente definita a dover includere quella relativamente definita; viceversa, il nesso di fondazione che sussiste tra la spazialità esperita e la costituzione sistematica dello spazio è garantito dall’esibizione, già nel primo, di un tipo sensibile di varietà parzialmente definita, invece che dall’intuizione di determinati oggetti o di forme di oggetti o di disposizioni o orientamenti. Ebbene, in questo caso, sul gradino più basso vi sarebbe la grandezza pletoide e su quello più alto la forma della grandezza e ciò che dovrebbe assicurare la loro compatibilità sarebbe proprio la parallelità presente nella grandezza pletoide tra collegamento cosale e collegamento collettivo.

Allora se il collegamento collettivo può essere fatto coincidere con lo stato di cose dell’insieme, a che cosa potremmo assimilare il collegamento cosale? Nel tentativo di rispondere a questa domanda, avanzeremo l’ipotesi secondo cui il collegamento della grandezza pletoide possa essere reso da una Grössensachlage, da una situazione di cose di grandezza. E ciò potrebbe non essere solo un sotterfugio per far quadrare i conti, giacché quando Husserl stabilizza – nelle lezioni del 1908 – la distinzione tra stato di cose e situazione di cose pensa proprio ai casi in cui una stessa situazione di cose corrisponde a due diversi ma equivalenti significati proposizionali (Satzbedeutung) o stati di cose, come ad esempio i significati proposizionali “a<b” e

169-206). È interessante notare come, se si riduce la distanza tra la teoria dell’esperienza machiana e quella husserliana, sovrapponendo gli schemi sensibili alle sensazioni sensibili, diviene inevitabile dedurre un’epistemo-logia fenomenologica strumentalista, che riesce a recuperare l’esperibilità dello strumento attraverso le sensazioni sensibili nella lettura dell’indicatore di mi-sura (B. Rang, Phänomenologie der materiellen Natur, Frankfurt am Main 1990, pp. 376-377).

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“b>a”68. Già due anni prima, esaminando un esempio evidente del nesso tra determinazione di grandezza e riferimento ad una varietà, Husserl aveva inteso la somma degli angoli interni di un triango-lo come «una situazione di cose che appartiene all’essenza dello spazio»69.

Pare inoltre più che indicativo che un tale uso terminologico invalga contemporaneamente a quella definizione di un peculiare concetto di grandezza – di cui abbiamo detto all’inizio – e che si mantenga sino alla ben più tarda e matura Esperienza e giudizio, che pure dalle ricerche di Gottinga prende le mosse70. Ed in ciascuna di queste occorrenze testuali, l’esempio che si avanza per dimostrare il nesso tra stato di cose e situazione di cose è sempre quello di una situazione di grandezza, fino a quando Husserl affermerà che allo stato di cose “la terra è più grande della luna” corrispondono nella ricettività le relazioni o, diremmo, situazioni: relazioni del conte-nente e dell’esser-contenuto, del maggiore e del minore ecc. Queste [relazioni o situazioni] sono un identico che si esplica per essenza in maniera doppia, nel senso che giudizi predicativi equivalenti riman-dano alla stessa situazione come ad un rapporto dato intuitivamente. «Ogni situazione contiene in sé più situazioni, uno stato di cose semplicissimo, fondato su una coppia, due stati di cose, per esempio la situazione di grandezza [Grössensachlage] a-b contiene i due stati di cose a>b e b<a»71.

Ora, nonostante tali situazioni di cose, laddove siano assunte tematicamente, risultino a loro volta oggettualità fondate [fundierte Gegenständlichkeit], esse nella ricettività non sono altro che situazioni e situazioni di proprietà [eigenschaftliche Sachlage], di parti ed intero

68 E. Husserl, Vorlesung über Bedeutungslehre (1908), Hua, Bd. XXVI, hrsg. von H. Peucker, Den Haag 1987, pp. 29 e sgg.; cfr. G. E. Rosado Haddock, On Husserl’s Distinction between State of Affairs (Sachverhalt) and Situation of Af-fairs (Sachlage), in C. Ortiz Hill-G.E. Rosado Haddock, op. cit., pp. 253 e sgg.

69 E. Husserl, Einleitung in die Logik und Erkenntnislehre (1906-07), Hua, Bd. XXIV hrsg. von U. Melle, Den Haag 1985, p. 38.

70 Sulla formazione del testo di Erfahrung und Urteil, si veda D. Lohmar, Zu der Entstehung und Ausgangsmaterialen von E. Husserls “Erfahrung und Urteil”, in «Husserl Studies», 13, 1996, pp. 31-71.

71 E. Husserl, Esperienza e Giudizio, cit., p. 581.

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e quindi situazioni relazionali72. Per di più, una medesima situazio-ne di cose permette che i giudizi predicativi in merito corrano in diverse direzioni. Riprendiamo il caso – in verità l’unico che Husserl illustra a questo proposito – della situazione di grandezza che fonda lo stato di cose secondo cui “la terra è più grande della luna”: ebbe-ne da qui possiamo derivare diversi stati di cose, quelli già indicati che esplicitano la relazione di grandezza (t>l e l<t), ma anche altri che, tematizzando le forme di collegamento di quella relazione, tra-sformino le relazioni di grandezza “maggiore o minore” in forme di ordinazione, in un verso o nell’altro, in forme che cioè orientino il collegamento facendone una serie scalare. In una scala di grandezze infatti che parta dal più piccolo al più grande, la luna precede la terra e questa precedenza può esprimersi con il segno <; se poi questa scala viene espressa come una retta e le grandezze come suoi punti, allora tutti i punti-grandezze che sono a sinistra di t (terra) saranno minori e quelli a destra maggiori. Questa serie può rendersi infinitamente densa, secondo la legge di continuità di Archimede-Dedekind, diver-samente dalla situazione di grandezza t>l. E ci ritroviamo così alla definizione husserliana della grandezza pletoide (non addensabile) e della forma di collegamento che le corre parallela (addensabile) e più semplicemente tra grandezza ed insieme.

In maniera più analitica e graduale potremmo presentare il pas-saggio dalla nozione grandezza pletoide alla determinazione di una varietà definita, nel modo che segue: a) una grandezza pletoide è una situazione di grandezza, su cui corrono paralleli gli stati di cose che vi si possono fondare; b) una grandezza pletoide è una grandezza la cui unificazione non si distingue per il modo del suo collegamento né per i contenuti collegati; c) una grandezza pletoide è definibile in un sistema di grandezze pletoidi in cui valga una relazione di gran-dezza pletoide per ciascuna coppia dei suoi oggetti; d) una relazione di grandezza pletoide corrisponde ad una somma convergente; e) in quanto esprimibile come somma convergente, una grandezza pletoi-de ammette l’indicazione di un’unità di misura comune; f ) l’unità di misura comune può essere contrassegnata da un numero di grandez-za, solo all’interno di un sistema di numeri di grandezza; g) il sistema

72 Ivi, p. 583.

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dei numeri di grandezza compone l’ambito definito di un’aritmetica dei numeri di grandezza.

Dalla grandezza pletoide (come situazione di cose) si distingue, quindi, sia l’insieme che la serie o l’ordinamento (come stati di cose), giacché questi ultimi sono tutti aggregati dipendenti dalla forma del loro collegamento. Si può concludere che il concetto generale di grandezza dovrebbe essere ciò che è comune alle modalità variazio-nali sino ad ora elencate ed oltre: per definire che cos’è una grandezza non astraggo più certo dalle sue possibili variazioni, ma giudico piut-tosto quello che queste hanno in comune. Ed in comune è l’esser-grande di qualsiasi qualcosa che può variare o relazionarsi, ovvero che semplicemente è ed è (in quanto grande) in considerazione della molteplicità variazionale o relazionale. La grandezza è l’essere di ciò che può variare in molteplicità (aumentare o diminuire, dividersi...) o correlarsi ad una molteplicità. La grandezza è ciò che può determi-nare una molteplicità per variazione o relazione, a partire dall’essenza formale che essa è.

Siffatto concetto di grandezza in quanto tale è oggetto di un giudizio generale-universale del tipo “un qualsiasi qualcosa è tanto quanto qualsiasi qualcos’altro”. Questo concetto esprime però anche la forma più generale di grandezza, l’essenza della grandezza che può essere fatta oggetto di una eidetische Erschauung, di un Selbst-Sehen, di un vedere lo stesso che da se stesso emerge come «indifferente termine di partenza di una serie di variazioni»73.

Dalla sovrapposizione attivamente comparativa della congruenza di una tale serie si evidenzia l’essenza stessa della comparazione, della relazione in tutta la sua generalità universale, l’essenza quindi della grandezza. Ma quello stesso che può essere colto nell’essenza della grandezza non è altro che l’eguaglianza espressa dal tanto-quanto senza valori, senza collegamento né contenuto. Tale grandezza in generale dovrebbe pertanto realizzarsi nell’oggetto, o meglio nell’oggettità in generale, laddove si intenda per oggetto il senso identico avente «differenti caratteri noematici che, in quanto tali, non appartengono a quella linea dell’identificazione possibile, su

73 Ivi, p. 853.

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cui si determina l’oggetto stesso intenzionato (vermeinte)» 74, ovvero propriamente esperito. E quello stesso a cui corrisponde un qualcosa (o l’oggetto) in generale è – nella forma della grandezza – fondato sull’eguaglianza tipico-sensibile della Grössensachlage.

5. Dalla Größenlehre alla Naturphänomenologie.

Un tale nesso di fondazione è solo uno degli esiti della dottri-na della grandezza che abbiamo cercato di ricomporre: quello che riguarda il livello più alto dell’ontologia formale. Ma, ponendo mente tanto alla segnatura numerica ed alle operazioni che ad essa sono legate, quanto al comune riferimento alla situazione di gran-dezza nella costituzione della cosa in generale ed in quella della cosa fisica, si delineano altri due sbocchi, che mirano rispettivamente ad una logica dei segni e ad una Naturphänomenologie o almeno ad una fenomenologia della conoscenza naturale. Nel primo caso si tratta di esaminare la traduzione del contrassegno in simbolo e quindi non solo la regolarità nelle sue composizioni, ma anche la legalità nella sua generazione, attraverso la nozione di varietà definita. Nel secondo, invece, giusto muovendo dalla ricettività complessa di una situazione di grandezza, invece che dalla semplice puntuatività di una sensazione sensibile, inconscia ed involontaria (come nel fenomenismo di Mach75) o dalla forma pura della sensibilità e dal connesso assioma dell’estensività delle percezioni (come nella logica trascendentale kantiana), pare possibile intendere più pienamente il ruolo normativo che può avere l’essenza dell’esperienza nella costituzione della regione logico-empirica – e quindi linguistico- o simbolico-empirica – delle scienze naturali. Quest’ultima, giacché determina secondo un procedimento logico il suo oggetto, in quanto l’identico di differenti grandezze metriche, si troverebbe ad essere così prossima ed abissalmente distante dall’esperienza di fatto degli

74 Id., Bewußtsein und Noema (1920), in Id., Analysen zur passiven Synthesis. Aus Vorlesungs- und Forschungsmanuskripten (1918-1926), Hua, Bd. XI, hrsg. von M.Fleischer, Den Haag 1966, p. 322. Cfr. D. Føllesdal, Husserl’s Notion of Noema, in «Journal of Philosophy», 66, 20, 1969, pp. 680-687.

75 E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dargestellt, Leipzig 1883, in part. pp. 13 e sgg. e 188 e sgg.

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enti di natura. Prossimità e distanza, pur non essendo dissociabili l’una dall’altra, non potrebbero altresì semplificarsi, riducendo l’am-piezza della seconda perché la prima non venga dispersa, come se dei concetti logici e matematici si potesse dire – con Kant – che davvero non hanno altra «funzione ed applicazione legittima che all’interno della scienza empirica stessa»76 oppure che ne sono – questa volta in accordo con Mach – semplici strumenti di regolarizzazione e di esposizione delle esperienze fisiche.

L’emendazione profonda che nella fenomenologia si compie della Grössenlehre – giusto per il modo in cui riformula il rapporto gali-leiano tra esperienza naturale, linguaggio matematico ed esperienza fisica – può quindi essere utile a mostrare, una volta di più, quale sia stata la trasformazione che l’impianto logico-trascendentale ha subito da Kant a Husserl, dalle condizioni di possibilità di oggetti determinabili nella scienza dell’esperienza alle cose nel senso di leggi ontologiche, a partire dalle quali è possibile asserire che solo per-cezioni o qualsiasi altro atto intellettivo di quel genere «rendono rappresentabili quegli oggetti nella loro essenza e possono fondare l’essere di tali oggetti, gli stati di cose ad essi riferiti, etc., sia imme-diatamente che mediatamente»77.

Alla riscrittura della medesima essenza della correlazione – che nel lessico filosofico della modernità veste la maschera della più antica teoria delle proporzioni – si volge una dottrina fenomenologica di grandezza.

76 Ernst Cassirer, Kant e la matematica moderna (1907), in E. Cassirer e Louis Couturat, Kant e la matematica, a cura di C. Savi, Milano, 1991, p. 135.

77 E. Husserl, Ms. B IV 1 (1908), pp. 245-246, cit. in Iso Kern, Husserl und Kant. Eine Untersuchung über Husserls Verhältnis zu Kant und zum Neukan-tismus, Den Haag 1964, pp. 154-155.

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III.

I paradossi della continuità.Prolegomeni alla storia del concetto di spazio1

Quando, agli inizi di giugno del 1932, scrive a Gerhardt Albrecht, riferendo di una crisi che riguardava i fondamenti e l’evidenza metodo-logica che appartiene alla scientificità, nella quale ci si lambiccava «il cervello sull’abbandono della legge di causalità e sul sovvertimento dei concetti di spazio»2, Husserl non sembra solo riportare la mente alla temperie storica dell’inizio del XX secolo – individuando le due categorie che rispettivamente le geometrie non-euclidee (lo spazio) e la meccanica quantistica (la causa) sottoponevano ad esame – ma, mediante tali annotazioni, finisce per tracciare una cornice più vasta in cui si possano ridefinire i caratteri del nesso scienza e filosofia. «La scienza rigorosa, – continua – identificata con la scienza posi-tiva moderna, sta da una parte e la filosofia da un’altra, così che la metafisica (in fondo null’altro che scienza, scienza capace dell’ultima chiarificazione sul mondo e sugli uomini, scienza che ha a tema il loro senso ultimo ed assoluto) vale come un campo di vaghe spe-culazioni o come il regno di una mistica fantasticante»3. Pochi anni dopo, lo Heidegger dei Beiträge poteva ancora annotare che la storia

1 Questo saggio è apparso, in versione ridotta, in P. Amato, M.T. Cate-na, N. Russo, L’ethos teoretico. Scritti per Eugenio Mazzarella, Napoli 2011, pp. 161-193.

2 E. Husserl, Briefwechsel, IX, Familienbriefe, Hua, Dokumente, 3/9, hrsg. von K. Schuhmann, Dordrecht 1994, p. 83.

3 Ibid.

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delle ‘rappresentazioni’ dello spazio è «la storia della verità dell’Essere (Seyn) e può essere compiuta in maniera filosoficamente fruttuosa solo insieme alla storia della domanda-guida»4. Dimostrando una concordanza tutt’altro che terminologica o occasionale, la fenome-nologia tedesca arresta – all’altezza della metà degli anni Trenta del secolo scorso – il suo proprio cammino dinanzi ad una questione, mediante cui cerca di riconquistare uno sguardo sulla vicenda del pensiero occidentale e di commisurare il ruolo e la dimensione dell’interrogazione filosofica ed, in specie, di un’interrogazione filosofica circa le scienze. E si badi, sin da subito, che poco sarebbe comprensibile di un tale tentativo se si cedesse all’isolamento di un solo termine, come quello di spazio, essendo piuttosto in gioco la complicazione che lega questo alle nozioni di molteplicità, relazione e rappresentazione, definendo così il livello elementare di un concet-to fenomenologico di mondo naturale. Quanto rappresenta il fronte critico rispetto ai saperi contemporanei è costituito dal modo in cui questi ultimi ereditano tali nozioni, prima ancora che quella di ente o di fenomeno: è difatti attraverso di esse che si decide della determi-nazione topologica del mondo o della notificazione scientifica dello spazio (logico-geometrico-fisico) del mondo.

Pertanto rimettere mano alla storia del concetto di spazio e pre-sentarla al vaglio delle fenomenologie di Husserl e Heidegger, signi-fica considerare un capitolo decisivo nella vicenda della metafisica occidentale e consentire al tradizionale confronto tra maestro e disce-polo di guadagnare confini per nulla più scolastici5. Per conseguire un tale obbiettivo, o anche solo per avvicinarsi alla sua preparazione, occorre, però, cogliere il filo dell’invenzione neoplatonica dello spazio, che derivò da un’ancora arcaica necessità di interpretare filosofica-mente i risultati, tecnici e teorici, conseguiti dalle scienze ellenisti-che, e da lì delineare le opzioni di sviluppo che quel concetto avrebbe potuto assumere nelle successive epoche del pensiero. Poiché tuttavia

4 M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (1936), Gesamtausgabe [d’ora in poi GA], Bd. 65, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Frankfurt am Main 1994, p. 579.

5 Cfr. D. Frank, Heidegger et le probleme de l’espace, Paris 1986; G. Neu-mann, Die phänomenologische Frage nach dem Ursprung der mathematisch-naturwis-senschaftlichen Raumauffassung bei Husserl und Heidegger, Berlin 1999.

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un così ambizioso progetto di ricostruzione storico-effettuale sareb-be non solo troppo ampio, ma anche fuorviante per l’intento che muove questo saggio, si dovrà piuttosto valutare, come da quell’ide-azione tardo-antica, la Modernità abbia assunto la fisionomia di un Kampf ums Raum e come rispetto ad una tale battaglia si sia potuta giocare la trasvalutazione fenomenologica dell’immagine del mondo. Partire dall’assunto di una lettura della metafisica moderna sub specie spatii comporterà di sottoporre ad esame non solo diversi modelli di costituzione della spazialità, ma anche di valutare se, e come, nel contesto della crisi fondazionale delle scienze naturali, che, agli inizi dello scorso secolo, toccava i temi dello spazio e del suo ordine for-male (e quindi razionale-causale), le filosofie fenomenologiche siano state in grado di intendere quale fosse la materia del contendere.

1. Ontologia metrica.

Se la storia dello spazio6 può essere fatta risalire all’apocrifo concettuale, rappresentato dall’invenzione aristotelica dell’aporia zenoniana sull’entità reale del luogo, sarà la revisione epistemolo-gica che Proclo avviò sugli Elementi di Euclide ad annunciare il peculiare statuto della geometria moderna come metrica universale. Nel suo Commentario non solo giunge ad espressione il risultato di una vicenda secolare, ma l’intento di offrire alla geometria “matura” una disposizione teorica e metodologica, di definirne una teoria della conoscenza e di affidarle un posto tra le scienze matematiche e tra quelle fisiche, finì per produrre uno dei più grandi monumenti della proto-modernità: l’idea della materia noematica come ragione degli oggetti spaziali tradotta nell’idea dello spazio come principio di ontologia della fisica. Il paradosso dello pseudo-Zenone – traman-dato nei termini di se il luogo è qualcosa e non nulla, esiste un luogo del luogo? – mediante cui la Fisica aristotelica tentava anche una riduzione all’assurdo della tesi platonica circa la necessità di ricono-scere una localizzazione all’ente perché questo fosse pensabile come

6 Cfr. K. A. Algra, Concepts of Space in Greek Thought, Leiden-New York-Köln 1995; E. S. Casey, The Fate of Place: a philosophical History, Berkeley-Los Angeles 1997; D. R. Lachterman, The Ethics of Geometry. A Genealogy of Mo-dernity, New York 1989.

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essente7, se non può ritenersi risolto dalla nozione ancora arcaica di limite o dalla distinzione tra la condizione fisica del luogo e quella logica-ontologica del dove, rappresentò senza alcun dubbio la ragio-ne dell’accorto accantonamento euclideo di un qualsiasi riferimento all’idea di uno spazio. Quella degli Elementi era infatti una scienza proto-fisica, una cinematica pura, in cui le entità erano definite come quanta geometrici: l’elaborazione teorica di una tale quantizzazione rappresenta l’intento specifico del Comentario procliano.

Affidando, secondo un uso già platonico ed aristotelico, alle scienze matematiche un carattere dianoetico, quindi razionale ed argomentativo, Proclo ne definisce in primo luogo la stabilità, l’ir-refutabilità e l’esattezza del metodo8, distinguendone la geometria come scienza ipotetica delle grandezze9. Perché sia possibile fondare una teoria «delle grandezze, delle figure e dei limiti loro propri, dei rapporti che sono in esse e delle proprietà loro peculiari, delle loro posizioni e dei loro movimenti svariati, procedendo dal punto senza parti ed arrivando fino ai corpi solidi»10, è necessario stabilire in che cosa consista l’ipotesi da cui ha principio, ché in essa proprio il riferimento ai principi denota l’ipotesi. Quell’ipotesi protetica, anti-cipativa di quelle tetiche, positive11, riferisce di una composizione del limite e dell’illimitato in conformità alla misura ed all’ordine degli

7 Aristotele, Fisica, IV, 209a 25-26, 212 b 27. Quanto al confronto tra la nozione aristotelica di limite, come pèras, e quella euclidea di hòros, cfr. id., Metafisica, D, 17, 1022a 4 ed Euclide, Elementi, 1, 13. Per una ricostruzione teorica del pensiero di Zenone di Elea si veda G. Colli, Zenone di Elea (1964-65), Milano 1998. Inoltre cfr. H. R. King, Aristotle and Paradoxes of Zeno, in «The Journal of Philosophy», 46, 21, 1949, pp. 657-670; J. Barnes et al., Ze-none e la grandezza delle cose, Sankt Augustin 2010. Nella vasta bibliografia sulla teoria aristotelica del luogo, si vedano almeno E. Hussey, Aristotle’s Physics Book III and IV, Oxford 1983; B. Morison, On Location: Aristotle’s Concept of Place, Oxford 2002.

8 Proclo, Commento al I Libro degli Elementi di Euclide, ed. it. a cura di M. Timpanaro Cardini, Pisa 1978, p. 27; cfr., ivi, p. 40.

9 Ivi, p. 31.10 Ivi, p. 65.11 Proclo distingue (ivi, p. 79) i “principi comuni” in ipotesi, postulati

ed assiomi, a differenza di Euclide che segue una suddivisione in termini, postulati e nozioni comuni, considerando quello delle parallele non un po-stulato, ma un’ipotesi da sottoporre a dimostrazione.

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onta12. Gli oggetti geometrici infatti condividono del limite l’unita-rietà e l’identità, mentre dell’illimitato la varietà e la generazione, dal primo traggono rapporti, figure e forme, dal secondo il sostrato in cui le forme risiedono13. Ebbene ciò che più pesa sullo statuto della geo-metria è appunto la genesi delle figure intellettuali, che non possono derivare per astrazione dalle cose materiali, né per conglobamento dei dati comuni alle singole cose, né per esperienza delle cose sensibili14; in altri termini, se in questione è appunto la definizione della grandezza degli enti geometrici (o delle grandezze qua enti geometrici) allora questa non risulta dalla generalizzazione analitica dalle quantità degli enti naturali, né dalla sintesi di tali generi metrici né tantomeno in seguito (posteriormente) alla conoscenza sensibile della natura. Prima di portarla ad ulteriore chiarimento si intenda, sin d’ora, che l’ipotesi geometrica – che la grandezza non costituisce una genera-lità, né analiticamente né sinteticamente – assume e ribalta l’aporia zenoniana: si può riconoscere come le grandezze, che gli oggetti geometrici sono, siano nello spazio, a partire dalla constatazione che non derivino dall’accumulo delle nozioni comuni alle evidenze, che l’estensione non rimonti alla sommatoria. E questo assunto acqui-sisce un rilievo decisivo per l’intera vicenda del pensiero scientifico moderno, qualora si ponga mente solo alla definizione ancora kan-tiana del quantum come unità dell’ente fisico15.

Perché si comprenda il tipo di grandezza che compete alle figure geometriche non è sufficiente distinguere tra “quanto” e “quanto grande”, tra le specie del “quanto” in se stesso ed in relazione ad altro, tra il “quanto grande” in quiete ed in movimento; e non lo è perché essa deriva dalla differenziazione e dalla dimensionalità degli oggetti geometrici16. Se infatti le “conoscenze prime sono essenzialmente senza figura e senza dimensione”17, mentre le ultime, quelle sensibili, limitatamente alla loro istantaneità radicale, alla loro infinita discre-

12 Ivi, p. 28.13 Ivi, pp. 29-30.14 Ivi, p. 36.15 I. Kant, Opus postumum (1882-1884), ed. it. a cura di V. Mathieu, Ro-

ma-Bari 2004, pp. 75-77.16 Proclo, op. cit., p. 51.17 Ivi, pp. 61-62.

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zione, sono tanto mutevoli da proibire di intenderne la continuità dello stesso movimento, come è possibile distinguere le grandezze geometriche ed identificarle mediante misura? Ciò che è giustappun-to inconcepibile in ciascuno dei due piani contrapposti è l’estensione, la grandezza continua di una figura e, per converso, è proprio questo l’argomento della geometria. Pertanto il modo in cui sono costituiti e conosciuti gli oggetti geometrici rappresenta il più alto problema cui dare soluzione. Quella che assumerà il titolo fenomenologico di Frage nach der Ursprung der Geometrie viene declinata, nella psi-cologia procliana della conoscenza, nei termini di una genealogia dell’invenzione dei teoremi, delle proiezioni, delle costruzioni «di sezioni, posizioni, applicazioni, aggiunte e sottrazioni»18. La specie dimensionabile di un circolo – che quanto al suo concetto puro ed universale è uno soltanto, senza figura né dimensione, avendo sotto di sé la pluralità dei circoli sensibili da quello stesso ordinati come circoli – può dispiegarsi in grazia della hyle noetè, che costituisce «un solo ed immateriale sostrato, inseparato nella realtà di un corpo semplice che sorpassa per l’estensione la sostanza indivisa»19. E che questa non sia soltanto la ripetizione della materia dei matematici, già indicata da Aristotele, che non sia “ciò di cui è fatta la pensabilità delle figure geometriche” o la concepibilità dei luoghi che le figure geometriche sono, è chiaramente mostrato dalla sua comparazione con l’estensione della sostanza indivisa, con l’assolutamente illimita-to. La hyle noetè, in quanto concetto geometrico e solo quindi logico, garantisce la conoscenza di dove siano “molti cerchi omocentrici” e le loro differenze «di grandezza, di piccolezza, del loro essere conte-nuti o contenenti»20. La sua medesima estensione è composta dalle variazioni delle figure, è l’ambito di un gruppo di trasformazione che risponde a specifiche leggi di proiezione e di traslazione. In ragione della sua posizione mediana è comprensibile alla sola immaginazio-ne, pur non essendo di essa un esclusivo prodotto, giacché «misura comune di tutta quanta la scienza è l’intelletto»21; essa è infatti ogget-to di un intelletto passivo, da cui deriva la sua processione razionale,

18 Ivi, p. 81.19 Ivi, p. 62.20 Ivi, p. 62.21 Ivi, pp. 44-45.

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ed in quanto tale merita il nome di materia noematica. Non si tratta di un piano infinito, ma del campo di relazioni, rappresentabile certo ancora come piano, in cui si compie la genesi della figure a partire da quella più semplice del triangolo equilatero sino al romboide ed oltre. La sua estensione, come quella degli oggetti geometrici, non è propriamente numerica né numerabile: essa piuttosto ne consente la misurazione in quanto ambito di corrispondenza. È una grandezza che permette comparazione e divisione solo al suo interno, come principio di variazione e di differenziazione: è l’ipotesi dello spazio da cui dipende la geometria proto-moderna. Mediante questa idea di spazio – l’ipotesi che sta a fondamento della geometria – divengono pensabili estensione e movimento, limite e continuità; è mediante questa idea di spazio che la geometria può raggiungere i suoi ultimi risultati nella “scienza della natura”, nell’ottica, nella catottrica e nella meccanica, sino all’organopoietica ed alla taumatopoietica22, alla tec-nica di costruzione di macchine o congegni.

E ciò ancora non basta, dacché la fondamentale domanda filo-sofica rivolta alla scienza geometrica, a quella scienza cioè segnata dall’ipotesi che i propri onta abbiano grandezza, che gli oggetti costruiti con riga e compasso abbiano un’estensione, diventa: «ser-vendosi di quali norme [poios kanòsi] ‹la scienza [theorìa]› può misu-rare [parametreî] la verità che è negli oggetti da essa stessa generati [en toùtois ghennethèntois]»23? Dal IV secolo in poi – ed in modo partico-lare nella funzione moderna della geometria come proiezione metrica degli enti fisici24 – la geometria non è solo scienza pura della gran-dezza, ma anche la dottrina che si ascrive il compito generalissimo di stabilire il medesimo carattere scientifico della misura, assumendo essa stessa il ruolo di ipotesi metrica della pensabilità dell’essere fisico. La geometria, in quanto meghetica, avrebbe dovuto definire non tanto la posizione di un punto di riferimento nello spazio, a partire dal quale misurare lunghezza, ampiezza e profondità di gran-dezze sensibili, quanto piuttosto il medesimo statuto dell’estensione,

22 Ivi, p. 55; cfr., ivi, p. 51, ove l’insieme delle scienze fisiche viene defi-nito come l’intera cinetica della materia.

23 Ivi, p. 34. Cfr., ivi, p. 66.24 G. Galilei, Discorso intorno a due nuove scienze (1638), in id., Opere, a cura

di F. Brunetti, Torino 1996, pp. 741 e sgg.

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metricamente determinabile. In ragione della definizione geometrica di grandezza, che nella tarda-antichità acquista il suo compiuto sta-tuto meta-teoretico, si rende possibile una fondazione ipotetica della metrologia classica, in cui alla comparazione ricorsiva tra materie, una delle quali assunta a metro25, si sostituisce una dottrina pura della corrispondenza (e quindi della misura), che supera per genera-lità anche la teoria delle proporzioni, che ne diventa un modo.

Nonostante l’introduzione procliana della nozione di spazio sia ancora una determinazione quasi-intuitiva della formalità geome-trica, che dovrà conquistarsi nei secoli una purezza aneidetica26, in essa può essere rintracciata una risposta metodologica e teorica agli interrogativi eleatici ed al loro procedimento per assurdo, così come la medesima funzione era stata assunta dalla topologia aristotelica e dalla sua fondazione di una scienza del movimento, allora si può asserire che la geometria procliana dello spazio segni l’inizio del con-tromovimento moderno all’impensabilità dell’essere dell’essente fisi-co, come grandezza essente, come essente che è in quanto grandezza continua, in quanto estensione27. Si può cioè pensare allo spazio come il capitolo principale della metafisica moderna in quanto onto-logia metrica, in primo luogo nell’accezione di dottrina dei “primi principi metafisici delle scienze naturali”. Ed una tale proposizione storico-ideale può giustificarsi proprio perché, dalla prospettiva che abbiamo dichiarato di assumere sin dapprincipio, “l’indagine circa la natura e la costituzione dello spazio”, la “logica dello spazio”, realizza la medesima pensabilità dell’essere sotto la specie dell’ordi-ne28, rendendo così conoscibile il senso d’essere ontico della massima contiguità dei luoghi mediante quello ontologico della coesistenza degli enti geometrici. Pertanto è giusto nell’assunzione dello spazio, come principio ed ambito di differenziazione – dell’idea di spazio come

25 Sulla metrologia antica, cfr. L. Russo, La rivoluzione dimenticata. Il pen-siero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 2008, pp. 90-95 e 312-317.

26 Su questo O. Becker, Mathematische Existenz, cit., p. 264. Cfr. E. Hus-serl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 54.

27 Cfr. A. Szabò, Anfänge der griechischen Mathematik, München-Wien 1969.

28 Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche (1929), III/1, ed. it. a cura di E. Arnauld, Firenze 2002, in part., pp. 189-215.

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struttura noematica secondo cui si dispongono e si distendono i sin-goli noemata, in quanto punti oggettuali, nell’identificazione, cioè, tra l’essere dell’ente fisico e quello spazio inesauribile, nonostante risulti esaurito e riempito nelle sue zone parziali29 – che la metafisica proto-moderna si presenta già come dottrina pura della fisica.

Se convalidiamo infatti l’ipotesi che la formazione dell’idea di spazio nella tarda antichità sia avvenuta superando le nozioni ari-stoteliche di limite e di contenuto, ma assumendo al tempo stesso la cornice teorica in cui erano poste, ovvero la formulazione della domanda logico-ontologica sullo spazio come principio di ragione (della differenza) degli enti fisici, ovvero come causa (materiale-)noematica30, allora possiamo intendere che l’intero sviluppo moder-no, come quello di un’ontologia metrica, di una scienza dell’essere dell’essente fisico come quantum, si compie, e si frange, nella storia del trascendentale moderno31. Ebbene, se così possiamo sostenere che stiano le cose, se il concetto di spazio è l’indice dei concetti fondamentali logici della metafisica moderna, introdotta proprio dal

29 Riprendo qui criticamente la posizione che Emanuele Severino espo-se in Ritornare a Parmenide (1964), in Id., Essenza del nichilismo (1972), Milano 1995, p. 25, asserendo che «attraverso l’irruzione delle differenze del molte-plice nell’area dell’essere», dopo Parmenide, «tutta la metafisica occidentale è una fisica».

30 È rilevante l’introduzione dell’ipotesi della spazialità come quinto ge-nere di causalità in G. Bruno, Acrotismus Camoeracensis (1586), in G. Bruno., Opera Latine conscripta, I, a cura di F. Fiorentino, Napoli 1879, pp. 106-107. Inoltre, perché sia correttamente interpretata l’assunzione di una causalità noematica, come principio di ragione, si tenga sullo sfondo l’interpretazione di M. Heidegger, Il principio di ragione (1955-56), ed. it. a cura di G. Gurisatti e F. Volpi, Milano 1991, che, seppur implicitamente, ha accompagnato la scrittura di questo paragrafo.

31 I. Kant, Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaften, cit., pp. 479 e sgg.; Id., Opus potumum, cit., in part. pp. 249 e sgg. A riguardo, cfr. M. Friedman, Kant’s Theory of Geometry, «The Philosophical Review», 44, 4, 1985, pp. 455-506, in part. pp. 467 e sgg. Sulla storia delle Grössenlehren dopo Kant, si vedano B. Bolzano, Einleitung zur “Grössenlehre” in Id., Gesamtausgabe, hrsg. von E. Winter et alii, Stuttgart 1969, II, pp. 23–216; S. Kröner- R. M. Chisholm, Einleitung in F. Brentano, Raum, Zeit, Kontinuum, Hamburg 1976, p. XXXIV; A. Marty, Raum und Zeit, hrsg. von J. Eisenmeier et alii, Halle 1916. Cfr. M. Barale, Immaginazione geometrica, in Id., Immagini della ragione. Logos e Ratio all’alba della scienza moderna, Napoli 1983, pp. 23-73.

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modo in cui Aristotele ha fatto presente la domanda sullo spazio, che pur non ancora nominato tematicamente si affacciava nell’aporia di non poter rendere ragione degli enti estesi mediante il riferimento ad un luogo dei luoghi, e dalla riformulazione procliana di una pre-estensività puramente geo-metrica, allora il compito che possiamo assegnare ad una fenomenologia dello spazio è quello di una scompo-sizione di tali primi principi, al fine di restituirne (archeologicamen-te) la traccia evolutiva sino alla contemporanea immagine scientifica del mondo naturale e di presentare (genealogicamente) la costituzione dell’esperienza di fatto dello spazio del mondo.

2. Ontologia della fisica.

Essendo evidente il tributo che un sottotitolo come Prolegomeni alla storia del concetto di tempo paga nei confronti dell’interpretazione che Heidegger diede, alla metà degli anni Venti dello scorso secolo, della filosofia fenomenologica, non possiamo sottrarci dal comincia-re proprio con una ripresa del suo pensiero circa i molti significati del concetto di spazio tra analitica esistenziale e storia della metafisi-ca32. Ancora nei Beiträge – che costituiranno il termine esterno della nostra indagine – Heidegger prova una comprensione dello spazio-tempo all’interno di una storia dell’essere, in cui lo sviluppo delle rappresentazioni scientifiche avrebbe dovuto svolgere un ruolo deci-sivo, introducendo al «domandare e pensare veramente iniziali»33. Rimontando alle origini greche, all’esperienza fondamentale dell’ou-sia, come essentità, sarebbe dovuto divenire possibile comprendere come spazio e tempo si fossero resi rappresentabili, «in quanto ciò che è così pre-disponibile nella physis»34, e come di seguito avessero potuto invece assumere i caratteri moderni dei concetti di ordine e di forme dell’intuizione35, in virtù della medesima “estensione immediata-mente pre-disposta“, presa però quale quantitatività e numerabilità36. La necessità, quindi, di condurre una interpretazione di “Aristotele,

32 Cfr. E. Mazzarella, Tecnica e Metafisica, Napoli 1981, in part. 100 e sgg. 33 M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie, cit., p. 373.34 Ivi, p. 375.35 Ivi, p. 373.36 Ivi, p. 375.

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Fisica IV, su topos e kronos” si può realizzare soltanto restituendo «l’intera impostazione fondamentale della ‘fisica’»; ma ciò implica un’analisi dei testi dello Stagirita che distingua la topologia della presentità, ove giocano il peras, il periechon, dalla dottrina delle cate-gorie, secondo cui pou e potè restano «determinazioni dell’essentità – ousia»37. Si tratta quindi di un’analisi che retrodati la divaricazione tra la presentazione e le rappresentazioni spazio-temporali nel seno stesso del primo compiuto tentativo di risposta alle aporie sussistenti nel nesso tra essere e continuità come condizione preliminare di un’ontologia della fisica. È proprio nell’ambivalenza delle definizioni aristoteliche di luogo e dove, come condizione o stato e come modo d’essere38 che cova il tormento della determinazione di spazio culmi-nante nelle scienze moderne e nelle loro rappresentazioni “abituali ed attuali”. Se la misurabilità è il calco teorico del nome parmenideo della “continuità dell’essere”, se essa si esprime ancora come un interesse specifico dell’ontologia generale kantiana di dare «alla fisica come scienza dell’essente in generale un fondamento ontologico»39, allora sulla riuscita di una “storia del concetto di spazio” (quale variante della “storia della verità dell’Essere”) pende la domanda circa la geometria come scienza metrica dell’essente fisico. E sarebbe impaniante invertire il corso dal linguaggio delle generalità spaziali a quello delle varietà topologiche, dalle rappresentazioni dello spazio a «prossimità e distanza, vuoto e donazione, slancio ed esitazione»40.

Ma questo, che è il limite estremo di un tentativo, di cui va verificata la cogenza a fronte delle sue stesse pretese, riconduce sui primi passi della riflessione heideggeriana sulla spazialità, compiu-ti già all’interno di un’interpretazione della cinési e della fatticità come concetti fondamentali della filosofia aristotelica41. Dai primi

37 Ivi, p. 376. Cfr. ivi, pp. 372-373.38 A. Trendelenburg, La dottrina delle categorie in Aristotele (1846), ed. it. a

cura di G. Reale, Milano 1994, pp. 231 e sgg.39 M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von

Leibniz (1928), GA, Bd. 26, hrsg. von K. Held, Frankfurt am Main 1978, p. 228.

40 Id., Beiträge zur Philosophie, cit., p. 372.41 Id., Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fe-

nomenologica (1921-22), ed. it. a cura di E. Mazzarella, Napoli 1990, pp. 147 e sgg.

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corsi friburghesi fino almeno al saggio sull’essenza ed il concetto di Physis, la Fisica aristotelica resta «il libro fondamentale, dimenticato e perciò mai pensato con sufficiente profondità, della metafisica occidentale»42, quello in cui la filosofia prima finisce per dipendere dalla secondarietà di un’ontologia della fisica, da una dottrina dei modi d’essere (-pensato) dell’ente fisico, proprio in ragione della relazione tra movimento-modificazione e la pre-condizione della sua misurabilità spaziale.

Nella scoperta della motilità come matrice aristotelica del «pro-blema dell’essente e del senso d’essere (on - ousia - kinesis - physis)»43, Heidegger rintraccia i principi di una categorizzazione che ha i caratteri cinematico-spaziali dell’inclinazione, della gravità e della distanza, che in quanto distanziamento determinerà la medesima ambientalità dell’Esserci. Quell’autentica motilità della vita si imbat-te sin da subito nelle figure grammaticali-geometriche dell’iperbole e dell’ellissi, della cancellazione della distanza e della chiusura, non solo come assicurazioni o facilitazioni del rovinio, della temporalità propria dell’incontro «del mondo in quanto tale»44. Ambedue defi-niscono un ambito della significatività linguistica, mediante l’inten-sificazione o la sottrazione del riferimento, ambedue rappresentano una teriomorfosi della rimandatività; ambedue, però, iperbole ed ellissi, definiscono curve la cui differenza consta nel trattamento matematico della distanza tra due punti di un piano. Mediante que-sti due luoghi, in cui retorica e geometria giungono ad una peculiare sovrapposizione, si descrivono come quantità continue altrettante dimensioni dell’originaria cinèsi vitale: grandezze cioè definite dal movimento continuo di un punto45. A partire da un tale indizio, ovvero dalla complicazione di movimento, grandezza e continuità nella comprensione dell’Um-charakter dell’Esserci, può derivarsi una

42 Id., Vom Wesen und Begriff der Physis. Aristoteles Physik B 1 (1939), in Wegmarken (1967), GA, Bd. 8, hrsg. von F-W. von Herrmann, Frankfurt am Main 1976, p. 242.

43 Id., Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, cit., p. 143. Cfr., ivi, pp. 147-160.

44 Id., Ontologia. Ermeneutica dell’effettività (1923), ed. it. a cura di E. Maz-zarella, Napoli 1988, p. 97.

45 Cfr. C. Jordan, Cours d’analyse, III, Paris 1887, pp. 587-594.

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traccia dell’analitica heideggeriana della spazialità, che implica una processione inversa da Kant ad Aristotele a Euclide ed oltre.

Quando nel 1926, professa le lezioni sui Concetti fondamentali della filosofia antica, Heidegger dedica una specifica elaborazione alla risoluzione euclidea ed aristotelica delle aporie zenoniane, muovendo dal problema della grandezza spaziale, nei termini della domanda su «come dall’accumulo di ciò che non è spaziale possa nascere ciò che è spaziale»46, ovvero dall’equivoca definizione di ònkos, di ciò che dipende dal ripetuto deposito dell’uno sull’altro, dall’aver portato una cosa sull’altra. Nella derivazione quindi dall’atto dell’enenkeîn, dell’emphèrō, del portare-dentro, ossia del trasformare qualcosa in contenuto di un insieme che ne definisce allo stesso tempo il criterio di appartenenza e di somiglianza interna, ciò che sembra decisivo non è l’inizio arbitrario, la prima pietra, ma la peculiare regolarità foronomica. Pertanto «ciò che costituisce una difficoltà non è il tempo, né lo spazio, ma il continuo. Continuo=l’essere»47; e, propria-mente, l’essere dell’essente fisico. A partire da una tale questione, ovvero dalla pregnanza logico-ontologica del continuo all’interno della filosofia greco-classica ed in particolare dalla coimplicazione tra la nozione platonica di koinonia ed i destini della matematica e della geometria – tema che sarà per altro esplorato nel corso del semestre invernale 1926-27 sul Sofista platonico48 – Heidegger può elabo-rare una triangolazione tra ontologia, dialettica ed idea di scienza. Seguendo l’itinerario del Teeteto, Heidegger esamina la connessione tra doxa e kinesis insistente all’interno della definizione di episteme ed individua due dirimenti significati di percezione: il primo, in cui il percepito è inteso come modo d’essere dell’Esserci, il secondo, invece, in cui è inteso come corso tra gli essenti-presenti (Vorhanden), ambe-due passibili di una duplice traduzione nello schema esplicativo delle scienze naturali e nel dato di fatto fenomenologico49. È evidente che ambedue i casi (percezione e movimento) rappresentino una specie

46 M. Heidegger, Grundbegriffe der antiken Philosophie (1926), GA, Bd. 22, hrsg. von F.-K. Blust, Frankfurt am Main 1993, p. 72.

47 Ivi, p. 76.48 Id., Platon: Sophistes (1924-25), GA, Bd.19, hrsg. von I. Schlüßer,

Frankfurt am Main 1992; in part., pp. 100-121 e pp. 500-522. 49 Id., Grundbegriffe der antiken Philosophie, cit., p. 115

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di relazione. «Relazionalità e relatività come problema ontologico. Essere riferito di qualcosa a qualcosa. Problema della relazione in generale. Relazione e Essere, Essere e Essere altrimenti, non-essere-così»50: in questo modo, Heidegger cerca di rendere la questione che diverrà matura solo nel Sofista, e che nel dialogo in esame compare attraverso la sentenza protagorea, secondo cui ciò che “è”, si muove, ovvero che tutto si muove, Essere è movimento51. Si specificano così due specie di divenire, l’una mediante il cambiamento, l’altra mediante il confronto, l’essere-in-relazione-a, raccolte insieme da quello «sguardo intenzionale che si tiene attraverso (durchhalten) il cambiamento reale»52. Nonostante sia ben differente il contesto di questa lettura heideggeriana, si risente chiaramente l’eco dell’interpretazione della dottrina aristotelica della motilità ontologico-fisica, così come era già emersa due anni prima, nel corso del semestre estivo del 1924, dedi-cato al libro Γ della Fisica, ove si legge che «se qualcosa si muove, si può dire che sia un fenomeno (das phänomenal): esso si spinge da se stesso a ciò che può essere»53. L’ontologia dell’essere fisico, derivante dal confronto con la soluzione platonica alla pensabilità dell’essere come molteplice (e quindi all’essere dell’ente come relazione) e la determinazione aristotelica di un’ontologia della dynamis54, si deli-nea mediante una nozione propria del Tra, dell’ambito relazionale del movimento e della percezione, in quanto grandezza continua innumerabile, in quanto non immediatamente traducibile in succes-sione di enti. Ma ciò dipende appunto dalla tenuta di uno sguardo fenomenologico che sia capace di cogliere, in una peculiare nozione di spazialità, il carattere proprio della cinesi vitale ed, in quella di continuum, la sua misura logica. Si possono giungere a determinare

50 Ivi, p. 117; cfr. ivi, p. 269.51 Ivi, p. 116 e p. 118.52 Ivi, p. 118.53 Id. Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (1924), GA, Bd. 18, hrsg.

von M. Michalski, Frankfurt am Main 2002, p. 323. Cfr. R. Bernet, Die Leh-re von der Bewegung bei Aristoteles und Heideggers Verständnis von der Bewegtheit menschlichen Lebens, in Aa. Vv., Heidegger und die Griechen, Frankfurt am Main, 2007, pp. 95-122.

54 Cfr. in part. M. Heidegger, Aristotele: Metafisica Θ 1-3 (1931), ed. it. a cura di U. Ugazio, Milano 1992; Id., Grundbegriffe der antiken Philosophie, cit., pp. 170-179.

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le forme esistenziali dell’allontanamento o del disallontanamento, ma anche della collocazione e dispersione come possibilità proprie di ciò che ci-è, solo muovendo da una ricomprensione dell’ontologia dell’essere-fisico quale problematizzazione radicale dell’unità molte-plice dell’essere e della sua diciblità logico-linguistica. «Il fenomeno della dispersione dell’esserci nello spazio si dimostra ad esempio nel fatto che tutte le lingue sono determinate originariamente da significati spaziali»55. Orbene un tale assunto non consente solo di avviare una genealogia avverbiale-locale del linguaggio, di cui già dava atto il corso sul La logica come problema della verità56, ma devia l’attenzione su un «fenomeno [che] può essere spiegato solo se viene posto il problema metafisico dello spazio, che diviene visibile solo dopo aver attraversato quello della temporalità (in senso radicale: meta-ontologia della spazialità)»57. Sul limite della sua opera mag-giore, Heidegger indica aforisticamente un tema che sembra perduto nello sviluppo del suo pensiero e che tuttavia la nostra analisi non può evitare di affrontare: quello della meta-ontologicità dello spazio.

Proviamo a capire cosa intenda questa espressione e cosa signifi-chi il suo rapporto di diversità-successione rispetto al problema meta-fisico del tempo, attraverso un confronto tra i Prolegomeni ed Essere e Tempo, quanto al tema della spazialità del mondo, nel tentativo di comprendere come l’introduzione della continuità accanto all’esten-sione costituisca una differenza tutt’altro che marginale tra i due testi. Mentre nell’opus magnum i due interlocutori storico-filosofici, riguardo ad una dottrina pura dello spazio, sono Descartes e Kant, rispettivamente principio e compimento di una parabola che avrebbe risolto la mondità nella sua spazializzazione e questa in variante di

55 Id., Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz (1928), GA, Bd. 26, hrsg. von K. Held, Frankfurt am Main 1978, p. 173.

56 Id., Logica. Il problema della verità (1925-26), ed. it. a cura di U. Ugazio, Milano, 1986.

57 Id., Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, cit., p. 174. Cfr. ivi, pp. 199-200. Riguardo alle interpretazioni che si sono succe-dute nella letteratura critica si vedano S. G. Crowell, Metaphysics, Metaontology and the end of Being and Time, in «Philosophy and Phenomenological Rese-arch», LX, 2, 2000; F.-W. von Herrmann, Ontologia fondamentale – Temporalità- Metaontologia, in E. Mazzarella (a cura di), Heidegger a Marburgo (1923-1928), Genova 2006, pp. 11-22.

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un’intuizione pura assolutamente demondificata, che avrebbe cioè fatto dell’extensio, in cui il mondo-circostante sarebbe stato sussunto, un cogitatum58, nel corso di lezioni di due anni precedente si intro-ducono le definizioni leibnizeane di spatium, extensio (ed extensum) e di continuum59. La possibilità di non confondere lo spazio con la semplice estensione, e questa con la sostanza estesa (o, semplicemen-te, con ciò che è esteso) è assicurata giusto dal ricorso all’ipotesi – formulata negli Initia mathematica – di “una diminuzione continua ed uniforme” dell’estensione fino al limite della trasformazione in punto, “la cui grandezza (magnitudo) è nulla”. E ciò non rileva solo per la valenza temporale della continuità o della simultaneità, ma soprattutto per quella analitica di ordine. Potremmo infatti com-prendere la portata di un’arte analitica più ampia della matematica, solo intendendo, come sua questione essenziale, quella dell’esistenza pensabile del molteplice, ovvero della mancanza di contraddittorietà tra i molteplici perché possano essere pensati come esistenti. Orbene un tale principio coincide con una nozione allargata di coesistenza, che non corrisponda cioè alla simultaneità e non si distingua così dall’anteriorità o posteriorità: una coesistenza che sia predicabile non solo di «quelle cose che si percepiscono insieme, ma anche [di] quelle che percepiamo successivamente, purché nel passaggio dalla percezione dell’una alla percezione dell’altra, non sia perita quella antecedente o non sia sorta quella successiva»60. Se quindi la contraddittorietà risedeva nella determinazione di due stati opposti della medesima cosa, la sua assenza dovrebbe essere assicurata da una nozione di continuità, che precede la demarcazione delle quantità o dei continui possibili. La legge di continuità è il principio logico-fisico di conversione del genere in una quasi-specie opposta: «questo è il privilegio del continuo»61. Se quindi si può definire lo spazio come ordine delle situazioni62, è proprio perché ad esso attribuiamo

58 M. Heidegger, Essere e Tempo (1927), cit., pp. 182-198.59 Id., Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, (1925), ed. it. a cura di R.

Cristin e A. Marini, Genova 1991, pp. 290 e sgg.60 G. W. Leibniz, Inizi metafisici della matematica (1714), in Id., Scritti filoso-

fici, III, ed. it. a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Torino 2000, p. 478.61 Ibid.62 Id., Carteggio Leibniz-Clarke, Quinto scritto di Leibniz (1716), ivi, p. 551.

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la definizione più generale di continuità, così da intendere la geo-metria come «scienza dei limiti e della grandezza del continuo»63 e con ciò stesso anche analitica pura dell’essente-fisico. Da una tale considerazione logico-metafisica deriva sia la possibilità di descrivere come gli uomini giungano a formarsi la nozione dello spazio, sia quella di legare insieme la genealogia percettiva della continuità e la sua definizione dinamica, sia ancora la determinazione della posizione come «una relazione di coesistenza tra molteplici, [che può essere] conosciuta attraverso altri coesistenti intermedi, tali cioè che hanno con i primi una più semplice relazione di coesistenza»64. Si badi infine che la riflessione leibnizeana sullo spazio, come concetto di ordinalità continua, non solo, come è ovvio, non rimuove la questio-ne della misurazione delle grandezze spaziali, ovvero la magnitudo, ma nemmeno quella della quantità dello spazio o dello spazio come quantum. Piuttosto la meghetologia spaziale deriva ancora una volta dal suo statuto synechologico.

Orbene dovrebbe essere finalmente chiaro perché l’espunzione del riferimento a Leibniz in Essere e Tempo, all’interno di una tratta-zione che conserva il medesimo registro argomentativo delle lezioni del 1925, non è affatto solo il frutto di una risistemazione editoriale: il rimando agli Initia mathematica, infatti, avrebbe aperto nel capito-lo della scienza pura dello spazio un ulteriore fronte, accanto a quello dell’extensio cartesiana, avrebbe costretto l’indagine heideggeriana, mediante l’introduzione del concetto di continuità, a misurarsi intempestivamente con l’ontologia dell’essere fisico e con l’antica questione della pensabilità del molteplice. Infatti, come si riconosce nel corso su I principi metafisici della logica del 1928, «se l’extensio, l’estensione dovesse costituire l’essenza delle cose di natura, allora l’originario di questa essenza, il punto matematico, non potrebbe mai e poi mai rendere comprensibile né fondare l’unità ontologica di un essente per sé»65, non potrebbe cioè garantire carattere di unità all’ente fisico. Citando così il Leibniz del Nuovo Sistema della Natura,

63 Id., Lettera a Varignon sul principio di continuità, in Id., Scritti filosofici, II, ed. it. a cura di D. O. Bianca, Torino 1988, p. 764.

64 Id., Inizi metafisici della matematica, cit., p. 478.65 M. Heidegger, Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von

Leibniz, cit., p. 92.

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Heidegger giunge a riconoscere che l’unica possibilità moderna di attribuire realtà alla moltitudine consiste nel ricorso a vere unità, ad unità reali, ad atomi formali o monadi, che differiscono dai punti matematici, i quali «non sono che estremità dell’estensione e modi-ficazioni, di cui è noto che il continuo non può essere composto»66. Pur non avendo ancora conseguito la chiarezza della lettura, di più di un decennio successiva, de Le ventiquattro tesi, è già qui tuttavia evidente come Heidegger possa comprendere proprio nella continu-ità l’esistentificante dell’ente fisico e possa ricondurre così la filosofia leibniziana alla domanda greca della pensabilità-esistibilità del mol-teplice, oramai nella forma della coappartenenza tra realtà effettiva e rappresentare67.

Non è peregrino quindi sostenere che giusto da una tale deri-vazione logica del continuo si renda possibile anche il corretto intendimento del percorso interpretativo che Heidegger ha dedicato alla filosofia trascendentale, almeno dal Kant-buch del 1928 sino al corso del semestre invernale del 1935-36, ove proprio la nozione di estensività e lo statuto matematico della scienza (e della costituzione scientifico-naturale della cosalità) svolgono un ruolo decisivo68. Il legame tra questi due caratteri consente di comprendere il genere di pre-disponibilità accordato al concetto di spazio, così come viene presentato dalla precedenza riconosciuta agli assiomi dell’intuizione nella costituzione della cosalità; essi, infatti, determinando la pre-datità dell’essente-intuito o dato, non possono non corrispondere alla matematicità dell’estensione e della sua continuità, alla quantità della distanza e dell’intervallo: non quindi l’intermezzo tra i corpi, né semplicemente i loro limiti, ma la dottrina della loro grandezza, la meghetologia. Attraverso la ripresa del pensiero kantiano (in quan-to autoriflessione filosofica sulla scienza moderna) diviene possibile comprendere come quelle che divengono le rationes, le relazioni

66 G. W. Leibniz, Nuovo Sistema della Natura (1695), in Id., Il Nuovo Si-stema, in Id., Scritti filosofici, I, ed. it. a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Torino 2000, p. 448.

67 M. Heidegger, La metafisica come storia dell’essere (1941), in Id., Nietzsche, ed. it. a cura di F. Volpi, Milano 1994, pp. 893-910.

68 Id., La questione della Cosa (1935-36), ed. it. a cura di V. Vitiello, Napoli pp. 211 e sgg.

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razionali nella meccanica newtoniana, siano già grandezze, propor-zioni, analogie soltanto nella dinamica aristotelica. All’impossibile realtà dello spazio si sostituisce l’assoluta precedenza della sua gran-dezza continua, che non esige ancora di essere numero (come invece accade nella definizione di tempo) perché è una relazione irrelativa, una relazione che non si può assicurare alle figure topologiche da connettere, perché essa stessa sola può indirle. Così il vicino ed il distante non possono assolvere la medesima funzione del prima e del dopo che la cronometria enumera, perché se la numeralità realizza il già-noto, e di già noto nello spazio vi è che l’ente abbia luogo, ma non dove esso sia, non si potrà assumere come originariamente matematica la coimplicazione logico-ontologico-fisica delle categorie locali, della legge di continuità e dell’unità metrica, che si esprime nel concetto di spazio. Anzi, se all’essere dell’ente inerisce un dove-essere, ciò è piuttosto un carattere della sua dicibilità, della sua logica ontica. Ma questo ci riconduce ancora una volta ad affron-tare quanto Heidegger aveva posto come limite all’interrogazione filosofica circa la spazialità: il suo titolo meta-ontologico. Se per ontologia fondamentale intendiamo la fondazione (Grundlegung) dell’ontologia in generale, divisa nei tre capitoli di «1) fondazione presentante dell’interna possibilità della domanda sull’essere come problema fondamentale della metafisica – l’interpretazione dell’Es-serci come temporalità; 2) esposizione del problema fondamentale racchiuso nella domanda sull’essere – esposizione temporale del problema dell’essere; 3) sviluppo dell’autocomprensione di questa problematica, il suo compito e i suoi limiti»69, in che cosa consisterà una meta-ontologia, intesa come suo rovesciamento, laddove pure questo sia assunto come sua parte integrante? Nell’ontologia fonda-mentale è, cioè, latente una tendenza a ricadere lì da dove era sorta: «una tale nuova problematizzazione cova nell’essenza dell’ontologia stessa e deriva dal suo ribaltamento, dalla sua metabolè. Io chiamo questa problematica Metaontologia. E qui nell’ambito del doman-dare metaontologico-esistenziale vi è anche l’ambito della metafisica

69 Id., Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, cit., p. 196.

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dell’esistenza (qui solo si può porre la questione dell’etica)»70. Per metaontologia si dovrebbe quindi intendere una conversione ontica, una ricomprensione dell’essente che si distinguerebbe dalle scienze positive perché non rappresenta «un’ontica sommaria nel senso di una scienza generale che raccoglie empiricamente i risultati delle singole scienze in una cosiddetta immagine del mondo per dedurne una visione del mondo e della vita»71, perché essa non aspira ad una sommatoria delle conoscenze ontiche in vista di una “metafisica induttiva”. Essa cioè non può essere una dottrina pura linguistico-matematica, la redazione di una sintassi per l’ontologia o ancora la metafisica positiva rappresentata dalla metodologia delle scienze par-ticolari; la metaontologia dovrebbe piuttosto costituire la Kehre, «in cui la medesima ontologia ritorna espressamente nell’ontica metafi-sica, in cui inespressamente è sempre stata. E ciò significa portare, attraverso il movimento della radicalizzazione e dell’universalizzazio-ne, l’ontologia al rovesciamento in essa latente. Qui si compirebbe la svolta, rovesciandosi in metaontologia»72.

Nelle righe di questa appendice sul carattere dell’idea e la fun-zione dell’ontologia fondamentale, che piuttosto tematizza l’unità di Fundamentalontologie und Metaontologie, nell’idea di una filosofia come centrale e totale concrezione dell’essenza metafisica dell’esistenza73, il primo annuncio della Kehre si lega ancora ambiguamente alla questione dello spazio. La strada poi percorsa da Heidegger verso un ripensamento delle nozioni di località e di aperto, di spazio-tempo e di vuoto – che «non è il posto vacante nelle forme di ordine o negli ambiti per la presenza calcolabile di spazio e tempo, né è l’assenza di ciò che è in questi presente, ma è il vuoto spazio-temporale, l’ori-ginario spalancamento nell’esitante venir meno»74 – chiarisce quale fosse il limite che sul finire degli anni Venti sarebbe dovuto essere valicato. Pur restando così un hapax, il lemma della metaontologicità dello spazio richiama la riflessione su quale significato avesse potuto esprimere. Se infatti le riflessioni heideggeriane più tarde possono

70 Ivi, p. 199.71 Ivi, pp. 199-200.72 Ivi, p. 201.73 Ivi, p. 202.74 Id., Beiträge zur Philosophie, cit., pp. 580-581. Cfr., ivi, p. 579-580.

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offrire al nostro interrogativo un tipo di risposta, una variante, che, anche se solo in apparenza rinuncia alla ricomposizione della meta-fisica occidentale della continuità, presentandone il ribaltamento, quanto è azzardato seguire il filo di un altro tipo di risposta lungo una strada – che, in quella stessa epoca, il filosofo di Messkirch aveva dichiarato sbarrata, e sbarrata proprio dall’incapacità a fare questione al di là dell’essere dell’ente, a partire dall’essere intenzionale – ovvero quella della fenomenologia husserliana75? Quanto è azzardato conti-nuare il disegno di una fenomenologia dello spazio, avendo assunto proprio la sua conversione ontica, così come sarebbe stata indicata da Heidegger, ma attraverso quell’interrogazione filosofica che non sarebbe riuscita ad saltare oltre l’onticità? In altri termini, che cosa potrebbe significare riprendere la domanda sullo spazio a partire dalle analisi onto-fenomenologiche di primo grado che Husserl aveva cominciato con il corso del semestre invernale del 1907 su Ding und Raum? Sia chiaro che nell’inversione proposta non vi è alcuna inten-zione di intraprendere un esame filogenetico – per conoscere quanto dell’uno vi sarebbe nell’altro o quanto nel passaggio di generazione o di lettura si sarebbe disperso –; e a rigore non vi è nemmeno quella del rigoroso confronto: si tratta piuttosto davvero di una inversione, la cui giustificazione dovrà essere interamente a carico dell’argomen-tazione e la cui concludenza dovrà essere provata sulla sua capacità di definire la fenomenologia della spazialità come introduzione ad una ontologia dell’essente-fisico.

3. Fenomenologia generale della continuità.

Per comprendere come le riflessioni husserliane sulla definizione fenomenologica dello spazio possano situarsi all’interno degli svi-luppi delle dottrine geometriche tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, sembra utile rammentare quanto scriveva Felix Klein nelle sue lezioni sulla storia della matematica nel Diciannovesimo Secolo, laddove notava come «la visione generale che sta a fondamen-to della dottrina dell’estensione è quella che ritorna sempre in tutte le

75 Id., Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 114 e sgg.

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nature geometricamente accertate, cioè la grandezza continua»76. Una tale permanenza dovrebbe essere radicata nell’assunto secondo cui lo spazio sarebbe «una concezione originaria dello spirito umano, come del resto il numero con cui è posta solo in un secondo momen-to in relazione mediante la misura»77. Da ciò deriva, così prosegue Klein, che è «innaturale e non necessario includere, come fa Euclide, la “misura” tra i fondamenti geometrici e quindi fondare ad esem-pio la teoria della proporzione, in cui, mediante l’introduzione del numero irrazionale, bisogna trarre a fatica il continuo dal discreto. L’idea che questo percorso inaugurato da Euclide sia la strada più lunga per la costruzione della geometria e che non conduca mai effettivamente allo scopo – cioè alla comprensione ed al dominio del continuo – è una tendenza sempre ritornante, che contrasta con quell’aritmetizzazione della matematica attualmente preponderante. Così anche Hilbert nei suoi Fondamenti della geometria introduce il concetto di limite solo alla fine della sua trattazione, dopo aver fondato un puro calcolo della distanza, senza fare ricorso a ciò. Allo stesso modo Grassmann si oppone a che la geometria sia solo un’ap-plicazione dell’aritmetica e pretende per la sua dottrina dell’estensione il carattere di una scienza autonoma. Da ciò egli distingue, in quanto disciplina altrettanto autonoma, la metrica»78.

Tali annotazioni, giusto indicando nella dottrina della grandezza continua e dell’estensione e nella metrica i punti cardinali mediante cui orientare l’edificio della geometria, consentono una presentazio-ne allo stesso tempo corretta ed ampia della teoria fenomenologica dello spazio, costituita com’è almeno su tre piani: a) la fenomeno-logia generale della continuità, b) la costituzione sistematica dello spazio, e c) una genealogia della misura. La sovrapposizione di tali

76 F. Klein, Vorlesungen über die Entwicklung der Mathematik im 19. Jahrundert, Berlin 1926, pp. 177-178.

77 Ibid.78 Ibid. Cfr. D. Hilbert, Fondamenti della geometria (1903), ed. it. a cura di C.

F. Manara, Milano 1970; H. Grassmann, Die Ausdehnugslehre, Leipzig 1844. Su Grassmann, oltre a E. Husserl, Prolegomeni a una logica pura, in Id., Ricerche logiche, I, cit., pp. 254-255, si veda E. Cassirer, Sostanza e funzione (1910), ed. it. a cura di G. Preti, in Id., Sostanza e funzione – Sulla teoria della relatività di Einstein, Firenze 1973, pp. 118 e sgg.

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livelli consentirà la descrizione puntuale di un’idea di spazio a partire dalla diffusione, ovvero da quella disomogeneità, che costituirebbe la condizione ancora pre-spaziale di un insieme di momenti cosali-locali; questi, a loro volta, diverranno posizioni o posti nello spazio fenomenico e luoghi o parti di spazio in quello oggettivo. Solo tutti e tre questi strati formeranno l’esperienza dello spazio, e la forme-ranno proprio nell’intersezione specifica di diversi campi sensoriali, di quello tattile, di quello visivo e di quelli loro subordinati. Tutti e tre questi strati formeranno l’esperienza dello spazio, in quanto ad ognuno è connesso il movimento (nel primo, movimento dello spa-zio, nel secondo, nello e dello spazio, nel terzo, negli e tra gli spazi); in ciascuno, si porrà, così, differentemente il problema della finitezza e della continuità: lo spazio pre-fenomenale non è ancora né conti-nuo né discreto, né finito né infinito; quello fenomenico è costante (Stetigkeit) ed infinito (legame al tempo); quello oggettivo è continuo (Kontinuum) ed illimitato. L’introduzione del concetto proprio di continuità sarà possibile solo in quest’ultimo strato, quello dello spa-zio oggettivo, geometrico e fisico. Ne deriva pertanto una peculiare posizione della questione circa geometria ed esperienza, o geometria e fisica, consentendo una radicale elaborazione critica non solo della tradizione moderna, ma dell’intera storia ideale dello spazio.

Ma andiamo per gradi ed iniziamo a distinguere – conseguen-temente ai presupposti fino ad ora indicati – tra una onto-fenome-nologia di primo grado, che ha a tema la costituzione dello spazio, ed una metafisica scientifica, ovvero una scienza dell’essere dato di fatto, mediante cui lo spazio naturale del mondo intero in quanto «tema universale delle scienze positive, ottiene un’interpretazione “metafisica”»79. Al disegno di una onto-fenomenologia elementare Husserl attribuisce la funzione di riformulare il lascito della filoso-fia trascendentale, in quanto espressione principale della nozione moderna di metrica: se infatti la storia del trascendentale è la storia dei modi in cui il carattere metrico delle forme conoscitive – ovvero l’assunto secondo cui conoscere qualcosa significa prenderne le misu-re, ed in primo luogo misurarne la distanza e quindi la dimensione

79 E. Husserl, Storia critica delle idee (1923-24), ed. it. di G. Piana, Milano 1989, p. 202, nota.

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– ha attraversato il pensiero filosofico e scientifico almeno da Galileo a Planck, dalle esperienze misurabili agli oggetti fisici misurati, allora la fenomenologia, che di questa storia esige di far parte, intende pro-cedere ad un’elaborazione compiuta della relazione metrica o della conoscenza come relazione di misura. Assunto cioè che il trascenden-tale non è la misura della conoscenza, ma la conoscenza come misura e che in un tale assetto metrico ne va della costituzione medesima della cosa, allora per onto-fenomenologia di primo grado si può intendere, semplicemente, la fenomenologia trascendentale come dottrina costitutiva degli oggetti nel decorso dell’esperienza di fatto del nostro mondo80. In tal modo si può scongiurare la confusione tra una onto-fenomenologia ed un’ontologia che «prende le unità nella loro identità e per la loro identità come se fossero un che di saldo e definito. La considerazione fenomenologico-costitutiva prende le unità nel loro flusso, come unità di un flusso costitutivo […] Questa considerazione è in certo modo cinetica o “genetica”: una genesi che fa parte di un mondo “trascendentale” totalmente diverso da quello della genesi naturale e naturalistica»81. Il disegno fenomenologico consiste, quindi, nell’indicazione di «una strada che discende dal for-male analitico al formale cosale, dalle condizioni legali di possibilità della semplice non-contraddizione a nuove condizioni legali della possibile verità cosale: dall’apriori matematico-analitico a quello cosale-sintetico. La strada conduce al versante sintetico dell’a priori generalissimo ed ancora indifferenziato della possibile realtà ad uno che va sempre differenziandosi. Si ottiene… l’intero a priori di un mondo possibile in quanto tale ed in quanto conoscibile da una soggettività»82.

Ebbene vi sono almeno tre ragioni che definiscono come il centro

80 Id., Ding und Raum. Vorlesungen 1907, cit., pp. 139-140. Al riguardo si vedano V. Costa, L’estetica trascendentale fenomenologia, cit., in part. pp. 235-279, e P. Natorp, Forma e materia dello spazio. Dialogo con E. Husserl, ed. it. a cura di N. Argentieri, Napoli 2008.

81 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro terzo (1953), II, cit., p. 496. Cfr. Id., Ms. F I 24 (1909), pp. 33-34. Cfr. I. Kern, Husserl und Kant, cit., p. 165.

82 Ivi, p. 153 (Ms. F I 32, p. 128b). Cfr. E. Husserl, Natur und Geist. Vorlesungen Sommersemester 1927, Hua, Bd. XXXII, hrsg. von M. Weiler, 2001.

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di un tale progetto debba essere designato in una fenomenologia dello spazio, così come siamo andati definendola sino ad ora: la prima è storico-ideale e riguarda la centralità che l’epistemologia della geometria ha nella filosofia trascendentale e nella definizione del suo apparato logico-conoscitivo; la seconda pertiene invece al ruolo decisivo del quantum e dell’estensione all’interno dell’on-tologia metrica moderna; la terza infine consiste nella elementare connotazione spaziale della cosalità, in quanto unità determinata o determinabile. È necessario quindi che il primo grado di una onto-fenomenologia sia occupato dal vaglio delle modalizzazioni e della predicabilità di una unità intenzionale identica. Si intenda, però, che con questa formula non ci si riferisce solo all’uguaglianza dell’oggetto intenzionale in assenza di cambiamenti, ottenuta comparando ele-menti assunti nell’analisi statica; né alla medesimezza pre-categoriale propria del tempo originario, ove non ci si può affidare ad una linea temporale della ricorsività: del riempimento o dell’elusione. Unità intenzionale identica significa piuttosto l’identificazione di un’unità attraverso modificazioni intenzionali. «All’essenza della cosalità in generale – scrive Husserl – appartiene di essere un’unità intenzio-nale identica, che si “costituisce” in una certa molteplicità, reale o possibile, di manifestazioni, di mostrarsi legittimamente quanto al suo essere ed al suo essere di volta in volta così in una connessione di manifestazioni regolata e volta per volta motivata. Tuttavia la connessione è una connessione di manifestazioni concordanti, che si riempiono vicendevolmente; queste sono condotte da una coscienza di credenza che le attraversa o, se si preferisce, da una coscienza tetica, da una coscienza d’essere»83.

L’unità intenzionale identica, in cui una cosa si costituisce – quel phänomenologische Ansicht cui Heidegger assegnava la capacità di tenersi attraverso il fenomeno reale – è una corrente dossica, un tracciato dinamico descritto da una forza, che garantisce l’esistenza del mondo; e l’esperienza è quella forza, «che produce continuamente da sé una nuova forza, integrandosi sempre con essa. Ogni percezione, già mentre dura, integra la sua forza, e nella connessione percettiva ognuna si corrobora con l’altra, corrispondendo a tutte le serie di

83 Id., Ding und Raum, cit., § 84, p. 285.

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quei riempimenti, che intrecciano in un legame multiplo i diversi lati e raggi della percezione, in un legame concorde ed unitario››84. L’unità intenzionale identica è cioè già una dynamis, una metabolè, attraverso la quale si mostra come ogni individuo abbia in sé ‹‹la sua essenza concreta o un concreto contenuto (chiamato anche essenza individuale), che è la singolarizzazione di un generale. Pur essendo quest’essenza individuale, tuttavia questa si differenzia da ogni altra, che chiamiamo sua ripetizione: l’individuo è essenza individuale in una differenza individuale (il tòde tì), che è differente per ogni individuo, [avendo] una determinazione, che non è ripetibile, né specificabile››85.

Possiamo dire che il percorso di costituzione di una cosa è segna-to dalle seguenti tappe che presumono l’ingiustificabile inizio della esperienza di fatto del mondo: 1) la riflessione è inaugurata da una neutralizzazione, da una modificazione dello statuto contenutistico di questa originaria esperienza; 2) la datità propria dell’intuito, in quanto intuizione individuale, comincia a costituirsi proiettandosi sul posto vuoto lasciato dalla riflessione; 3) l’oggettualità si notifi-ca, si presenta come prova di se stessa, si presenta in se stessa come documento di sé, sich beurkundet86 (tale documento è però solo l’indicizzazione delle variazioni modali di questo oggetto); 4) nell’in-dicizzazione un qualcosa viene identificato come questo oggetto inalterato nella durata di una percezione inalterata ovvero identico in una percezione modificata; 5) l’identificazione dell’oggetto si compie nella sua modificazione; la forma della sua identificazione, e quindi anche della sua modificazione, è la forma della differenza, ovvero la forma che fa la differenza.

Consideriamo l’esempio classico della percezione inalterata di una sfera uniformemente gialla, vale a dire di una sfera il cui colore “pro-priamente” visto (quello del lato anteriore) sia uniforme. Se però esa-miniamo il contenuto immanente di una tale percezione, scopriremo che all’identità delle note distintive obiettive (la sfera uniformemente

84 Ivi, p. 290. 85 Id., Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der anschau-

lichen Vergegenwärtigungen (1898-1925), Hua, Bd. XXIII, hrsg. von E. Mar-bach, Dordrecht 1980, p. 499.

86 Id., Ding und Raum, cit., p. 8.

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gialla) non corrisponde in nessun modo l’identità delle sensazioni corrispondenti; anzi «troveremo un adombramento continuo di gial-lo, ed è chiaro che qui c’è una connessione necessaria: solo quando tale adombramento è sentito, si presenta una sfera uniformemente gialla. E di nuovo occorre qui notare che l’identità di determinazioni oggettuali non solo è compatibile, nella sfera della percezione pro-pria, con una sostituzione o un cambiamento continuo dei contenuti di sensazione, ma che riguardo a molte determinazioni, ciò è richie-sto necessariamente. Avvicinando o allontanando la sfera noi abbia-mo costantemente percezioni sempre nuove. Il momento della dif-fusione all’interno della sensazione richiede un’alterazione continua, se le percezioni molteplici devono ottenere unità nella coscienza: che questa sia la stessa sfera inalterata nella sua estensione e nella sua forma»87. La percezione di una cosa, infatti, nonostante sia unità non frammentabile, in quanto presentazione dell’interezza di una cosa, in quanto presentazione in cui una cosa si fa intera, è, però, «un’unità continua di porzioni di percezione, di fasi di percezione, che hanno esse stesse il carattere di percezione»88. Fenomenologicamente, il contenuto della cosa si determina in ognuna di queste porzioni, in ognuna di queste fasi; ciascun taglio trasversale, che può essere com-piuto, contiene i momenti sensazione ed apprensione, manifestazio-ne propria ed impropria. In ciascuna e nella continuità delle fasi, si definisce l’estensione pre-fenomenale intera della cosa; ora l’essenza della percezione concreta consiste nel portare una tale estensione alla manifestazione: essa ha un’estensione pre-empirica e pre-spaziale che costituiscono l’estensione spazio-temporale della cosalità. La spazia-lità pre-fenomenale – definita da alcune determinatezze primarie (come quelle cromatiche, dell’esempio precedente) – quando viene frazionata comporta un frazionamento corrispondente dell’estensio-ne obbiettivamente riempita, «cioè un frazionamento spaziale della cosa: il suo spazio viene frazionato, e con esso anche il suo pieno spaziale»89. Le regole di una tale divisibilità sono però complesse: non solo posso suddividere insieme sia l’estensione di adombramen-

87 Ivi, pp. 44-45.88 Ivi, p. 62.89 Ivi, p. 69.

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to dei dati sensibili che la manifestazione propria che le appartiene, mettendo in evidenza una parte del lato della cosa che è rivolto verso di me, facendole corrispondere una parte della cosa, ma posso isolare anche soltanto il contenuto della manifestazione impropria (rilevando la parte costituita dalla porzione che mi è nascosta). La spazialità è infatti un’estensione tridimensionale che «offre molteplici e molto complicate possibilità di frammentazione. Certamente, noi non dobbiamo semplicemente sostituire i paralleli fenomenologici alle rappresentazioni geometriche, ma, in grossa approssimazione, possiamo vedere che qui le complicazioni sono ben più grandi»90. La difficoltà nella descrizione delle possibilità di suddivisione dell’e-stensione (pre-fenomenale) dello spazio consiste nel fatto che ad essa corrisponde il livello più basso di costituzione della cosa (ovvero della cosa come fantòma e quindi non ancora propriamente come fenomeno), all’interno del quale si possono dare determinatezze che si diffondono «in modo continuo o discreto, parlando più precisa-mente, in modo dappertutto continuo o non dappertutto continuo, e dunque discreto in singoli limiti spaziali, in singoli “punti”, linee, superfici»91. E questo obbliga ad una distinzione rigorosa di due specie di continuità: quella, 1) «dell’estensione [Extension] spaziale in quanto tale che giunge, nel modo più chiaro possibile, alla coscienza come momento immanente, quando noi facciamo trasformare il non cambiamento in cambiamento; per esempio, spostando continua-mente una discontinuità qualitativa su un’estensione unitariamente riempita in questo e quel modo. Passiamo continuamente da punto a punto, da linea a linea; [e quella] 2) delle determinatezze riempienti esse stesse, ad esempio, il passaggio di qualità in qualità, come nel passaggio dal rosso, attraverso il porpora, al violetto. Le determina-tezze riempienti hanno, è da dire di passaggio, diversi lati che sono capaci di una continuazione: il lato della qualità in senso stretto, il lato dell’intensità, o, anche nelle determinatezze di colore, il lato della saturazione, della chiarezza e simili»92. Distinguiamo, cioè, tra una continuità dell’estensione ed una del plenum esteso: queste però

90 Ibid.91 Ivi, p. 70.92 Ibid.

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non possono essere fatte corrispondere ad una grandezza estensiva e ad una intensiva, ad una coesistenza e ad una gradualità, o ancora, semplicemente, ad una continuità (spaziale) e ad una costanza (tem-porale), proprio perché queste dimensioni non possono presumersi come già costituite nell’estensione pre-fenomenale dei campi sensi-bili. Ma la fallacia maggiore consiste nell’intendere i due tipi di con-tinuità non come due livelli di un concetto che sta andando costi-tuendosi e che giungerà a comporsi solo all’interno della compiuta formalizzazione dello spazio geometrico, ma come due modalità distinte di una forma relazionale già pronta in questo stadio dell’in-dagine: e questo sarebbe possibile solo se la continuità fosse un dato originario, se fosse una qualche entità fisica, se potessimo ritrovarla da qualche parte nella nostra esperienza di fatto (o ancor prima di essa). Se cioè la continuità fosse, e non valesse invece – come i brani della sua storia raccolti fino ad ora dovrebbero mostrare – come misura (e ragione) dell’essere spaziale. Cos’altro si potrebbe chiedere oltre la definizione di continuità? «Che ogni punto – avrebbe risposto Bolzano, ribaltando un verso del poema parmenideo in un’esclama-zione paradossale – ne abbia uno che gli sia a contatto diretto! Questa richiesta, però, è ovviamente impossibile da soddisfare, e racchiude in sé una contraddizione»93.

L’unico modo per intendere il rapporto insistente tra il continuum dei dati fisici e quello della apprensione è di considerare anche questi come parti, come peculiari frazioni di un interno che si costituisce mediante l’attivazione della loro parallelità. Tra di essi sussiste la medesima relazione che Husserl, nel § 114 di Idee I ritiene vigere tra “atto reale”, cogito “reale”, realmente posizionale, e l’ombra di un atto, un cogito improprio, non “realmente” posizionale94: in ambedue le circostanze, le due parti, possono distinguersi e funzionare come un intero proprio riflettendosi l’una sull’altra, proiettando l’una il profilo dell’altra. Nel caso banale della percezione visiva di una sfera colorata, l’uniformità (o la multiformità) della colorazione e la sua forma estensiva (la sfericità, appunto), non solo non costituiscono

93 B. Bolzano, I paradossi dell’infinito (1851), ed. it. a cura di A. Conte, Torino 2003, p. 92.

94 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro Primo, cit. p. 281.

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due contenuti distinti, se non ad un successivo atto tetico, ma solo corrispondendosi possono concorrere a costituire l’unità della cosa “sfera colorata”, a cui stiamo facendo riferimento. Così, cioè, non solo si conferma la coappartenenza tra colore ed estensione, già sostenuta nella Terza Ricerca Logica, ma si sostiene che la medesima costituzione dello spazio, ovvero dell’estensione come Ausdehnung, non può risolversi nell’isolamento di uno dei due caratteri, quello dell’Extension prefenomenale, ma contempla la sovrapposizione di entrambi. In questo modo, non solo progredisce la rielaborazione della coppia moderna qualità primarie (estensione e movimento) e qualità secondarie (colore), ma si procede piuttosto alla definizione di una nozione di quantum cosale, che le annovera solo come suoi livelli elementari95.

Se analizziamo la percezione di qualcosa – sia che esso sia in quie-te o in movimento, sia che l’osservatore sia in quiete o in movimen-to, ed ancora sia che questi si muova o sia mosso – essa risulta essere un complesso composto dall’oggetto rilevato (la cosa percepita, la sfera) e dalle circostanze, in cui tale percezione si svolge. Le circostan-ze, a loro volta, raggruppano tanto il contesto cosale, l’Umgebung, l’ambiente circostante alla cosa ed all’osservatore, quanto la sequenza motivazionale che dirige la percezione, ovvero il flusso temporale pre-oggettivo in cui si fondono rimemorazione, prememorazione (o aspettazione) e presenza. Si tratta quindi di un complesso Kb, in cui la componente-b fornisce l’intenzione-verso (il percepito) e la componente-K la motivazione di questa intenzione. Qualora si tratti, come nel nostro esempio di prima, di una percezione visiva – cui corrisponderebbe ovviamente la costituzione di cosa e spazio nel campo visivo – potremmo disegnare una sequenza o linea percettiva, risultante come una molteplicità bidimensionale. Poniamo che in un tempo t1, t2, … tλ , le circostanze (K1, K2, ...Kσ ) si convertano con-tinuamente l’una nell’altra, e che in una medesima circostanza, e in tempi diversi, la figura cosale (b) resti la stessa, ma ne muti il colore (F), come illustra il seguente diagramma:

95 Sulla molteplicità delle estensioni pre-‹empiriche›, si veda Id., Ding und Raum, cit., § 54, p. 199.

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«Se K1 passa continuamente in Kσ, allora le F della diagonale pas-sano continuamente l’una nell’altra, mentre le figure attraverseranno i mutamenti della molteplicità in quiete, cosa che non compare nel diagramma. Le serie verticali appartengono al medesimo punto temporale. [...] Se il colore obbiettivo a partire dal punto temporale corrispondente invece di mutare, resta immutato, allora per questo come per ogni punto temporale, la serie verticale indica i colori per ogni K: cioè nel diagramma ripeteremo sempre ancora di nuovo soltanto la serie verticale. Se la modificazione procede solo per il tempo t1…t2, allora nel corrispondente mutamento della situazione cinestetica K1 … K2 i mutamenti cromatici seguiranno lungo la diagonale F1

1–F22, proseguendo quindi nel senso della serie verticale,

poiché proprio la serie verticale si mantiene da ora innanzi parallela ed immutata»96.

Tale formalizzazione husserliana dimostra chiaramente come la continuità figurale – che costituisce l’unità della cosalità pre-spaziale nel campo visivo – può essere considerata una molteplicità lineare solo se la si assume come «estratta da una molteplicità multidimen-sionale d’immagini possibili, la quale comporta ancora molte altre molteplicità lineari d’immagini, in un numero infinito; ognuna, secondo il suo tipo determinato, inglobata nel determinato tipo comune della molteplicità complessiva»97. La descrizione però si complica quando, pur restando nel campo visivo, studiamo il fran-

96 Ivi, p. 269-270. Per un confronto con i diagrammi temporali, si veda id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., pp. 351 e sgg.

97 Id., Ding und Raum, p. 200.

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tumarsi di una figura in una figura doppia, o ancora la confluenza confluire di due figure in una sola. Le due figure sono così simili che l’uno sembra la ripetizione dell’altra e risulta ardua l’individuazione di una qualche differenza, nonostante presentino distanza, orienta-mento e localizzazioni differenti o talora anche differente contenu-to, ovvero o diverso grado di chiarezza (dovuto ad un privilegio di accomodazione dell’una sull’altra) o diverso colore. Ora cosa si può notare quando si unificano figure doppie (l’una diviene trasparente all’altra, l’una concorre e ricopre l’altra) o una figura unitaria si scompone in una doppia? Si può dire che esse «formino un siste-ma unidimensionale, che deve l’unità continua della sua copertura [Überdeckung] alla fusione con il sistema unitariamente continuo della molteplicità di diffusione; e la riempie o continuamente, con lo stesso valore, o con valori mutevoli. Come per tutti i continua doppi, anche qui una soluzione di continuità, dunque l’entrata in gioco di profonde discontinuità, non può effettuarsi che in limiti legati ad una mediazione continua»98.

Ciascun livello di variazioni corrisponde, infatti, alla determina-zione di una linea assiale, ovvero di un continuum unidimensionale (sopra-sotto, alto-basso, avanti-dietro, ma anche bianco-nero, rosso-viola), e quindi anche ad un tipo modificazione dell’orientamento percettivo; ciascuno di questi livelli vale come un intero, o come una parte intera, chiusa, a può sussistere solo afferendo all’intero di cui è parte, ovvero al tipo comune della molteplicità degli orientamenti e delle serie dimensionali. Queste linee dimensionali coincidono con altrettanti livelli della costituzione spaziale. Il primo livello è occupato dallo spazio oculomotorio, limitato e chiuso, definito dal semplice movimento degli occhi, che a partire da un punto zero (la posizione degli occhi) definisce un sistema di coordinate formato dall’incrocio di due assi: quello verticale (sopra-sotto) e quello oriz-zontale (destra-sinistra). La forma di un tale spazio è doppiamente unidimensionale, definisce cioè un continuo circolare di qualità di orientamento. Il secondo livello, derivante dal movimento della testa attorno al suo asse, mentre il resto del corpo resta fermo, può essere definito come un differente spazio oculomotorio (in cui però

98 Ivi, p. 170.

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gli oggetti non sono in quiete), oppure come un primordiale spazio cefalomotorio statico. Stante il vincolo della normale posizione della testa e del sistema cinestetico oculare, «questo nuovo spazio non ha più limiti “destra-sinitra”, ma resta chiuso. L’incrocio di assi non funge come sistema fondamentale di orientamento, ma viene sosti-tuito da una linea chiusa di coordinate destra-sinitra, come ascissa, e da una linea linea aperta sopra-sotto. […] A partire da una posizione fondamentale, possiamo registrare un rivolgimento verso destra, che potrebbe continuare idealmente fino a raggiungere lo stesso spazio oculomotorio e [lo stesso] sistema di corpi, di un ideale rivolgimento verso sinistra (+a, –a)99. La forma di questo spazio sarebbe cilindrico, definito come è da una linea-zero, da un asse delle ascisse chiuso e da due linee parallele y = +b, y’ = – b. Il terzo livello è quello dello spazio propriamente cefalomotorio, quello in cui si considerano idealmente i movimenti del capo, in assenza però ancora di profondità, quindi di cambiamento, sovrapposizione o traslazione. «Il sistema fonda-mentale di orientamento di questo spazio sono due linee-zero, che definiscono altrettanti “cerchi” chiusi, ovvero la linea chiusa destra-sinistra (che già è stata costituita prima) e la linea chiusa sopra-sotto. Il punto di intersezione è lo zero e ha per così dire un’ombra, un contro-zero»100. Uno spazio siffatto è una calotta sferica, in cui si dispongono i corpi come enti di superficie: la sua forma è determina-ta da un incurvamento dell’ordinata e non da un’effettiva rotazione del sistema di orientamento. Nella fattispecie spaziali analizzate fino ad ora non vi è a rigore profondità, né i caratteri di vicino e lon-tano, se non nel senso ampio di “portarsi qualcosa vicino”. Solo al quarto livello intervengono i fenomeni di copertura, di allargamento prospettico, di contrazione o fusione, così da costituire, nel cambia-mento di grandezza e di figura della cosalità, allontanamento, avvi-cinamento e spostamento in un senso completamente differente: ciò è reso possibile dall’introduzione di un’appercezione duplice e non più univoca come quando invece un determinato corpo nel campo visivo corrispondeva ad una sola figura101. Adesso infatti possiamo

99 Ivi, p. 310.100 Ibid.101 Ivi, p. 314. Da qui emerge come sia possibile convertire ciascun

livello di continuità in una varietà n-estesa seguendo il metodo indicato da

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intendere pienamente l’accenno compiuto precedentemente ai conti-nua doppi, che nel caso dello spazio oculomotorio rappresentavano solo un esempio marginale o patologico e che invece nel continuo complessivo delle direzioni, ovvero nell’interezza dello spazio visivo, costituisce la legge costitutiva della cosalità. I livelli precedenti defi-nivano lo spazio come una superficie sferica che si muoveva in se stessa e poteva dividersi in parti, considerabili a sé stanti e di per sé mobili: mediante quest’ultimo livello si riconoscono quelli antece-denti come effettivamente solo porzioni di una “superficie sferica del mondo”, intesa come sistema del mondo profondo tridimensionalmen-te102, ovvero come complesso di enti corporei e superficie terreste. Ma questo non vale per lo spazio del mondo, ove la possibilità ideale dell’essere-mossi svolge un significato costitutivo103, né per il mondo esistente nell’idealità infinita»104. Ma proprio solo per quella rappre-sentazione della Terra, a cui ancora nel 1934 Husserl si riferiva quale «unità sintetica che si va attuando analogamente a come, in un’e-sperienza progressiva coerente, i campi dell’esperienza delle singole persone pervengono all’unità di un unico campo di esperienza»105.

Dovrebbe finalmente risultare chiaro come una fenomenologia generale della continuità106 rappresenti la condizione preliminare per una costituzione sistematica dello spazio, in quanto analisi delle modalità in cui la cosalità spaziale si compone attraverso le modi-ficazioni continue – e potenzialmente infinite – della sua quasi-

Riemann in Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen (mitgeth-eilt durch R. Dedekind), in «Abhandlungen der Königlichen Gesellschaft der Wissenschaften in Göttingen», 1843, pp. 136 e sgg. È significativa la differenza tra una tale conversione di una modalità presentativa (la determi-nazione dei continua) nei termini della geometria riemmaniana, e quella ma-chiana di un piano meramente entitativo (la pelle). Cfr. E. Mach, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychischen, Jena, 19002; M. Jammer, Storia del concetto di spazio (1969), ed. it., Milano 1979.

102 E. Husserl, Ding und Raum, cit., p. 316.103 Ivi, pp. 316-317.104 Id., Rovesciamento della dottrina copernicana nell’interpretazione della corrente

visione del mondo (1934), ed. it. a cura di G. D. Neri, in «Aut-Aut», 245, 1991, p. 3.

105 Ivi, pp. 3-4. Sulla questione di una scienza universale, puramente fisica, della “natura”, cfr. ivi, p. 14.

106 Id., Ding und Raum, cit., p. 99.

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estensione. E ciò tanto più rileva se ad una dottrina di grandezze pluriestese (come appunto sarebbe lo spazio), deve essere premessa la distinzione sostenuta dal Riemann delle Hypothesen – testo che rappresenta il più autentico interlocutore di queste analisi husserlia-ne – secondo cui «per le grandezze discrete il confronto quantitativo avviene attraverso la numerazione, mentre per quelle discrete avviene mediante misurazione»107. Pertanto se gli enti reali che sono alla base di uno spazio – come varietà n-estesa, in cui è possibile esaminare i quanta indipendentemente dalla loro posizione – non costitui-scono una molteplicità discreta, ma continua, «il fondamento delle relazioni metriche deve essere cercato nelle forze che agiscono su di essi tenendoli insieme»108. Tuttavia nella vita quotidiana, nell’espe-rienza comune, nell’ambito cioè del cosiddetto concetto naturale di mondo, «vi sono pochissime occasioni di formulare concetti i cui modi di determinazione formino una varietà continua, tanto che probabilmente i soli concetti semplici i cui modi di determinazione formino una varietà pluriestesa sono le posizioni degli oggetti sen-sibili ed i colori»109. Attorno alla costituzione del continuo metrico si possono, così, isolare almeno tre questioni: 1) la distinzione tra numerazione e misurazione; 2) l’impossibilità di radicare nel comune uso linguistico la nozione di continuità, se non nei casi dei luoghi degli oggetti sensibili e dei colori; 3) il rimando ad una fondazione dinamica. In che senso queste tre asserzioni si legano e specificano il valore di eccezione proprio di quegli esempi su cui le descrizioni fenomenologiche si sono soffermate? Ed ancora in che modo posso-no essere determinati i rapporti tra esperienza comune ed esperienza scientifica proprio mediante un esame della misurazione (geometri-ca) e delle sue condizioni?

Queste domande impongono un richiamo alle considerazioni che Husserl stese, negli anni Trenta, riguardo alla distinzione tra misu-razione ed esattezza, nell’ambito di una genealogia delle modalità e degli strumenti metrici. Ciò che nella prassi matematica, a differenza che in quella empirica, chiamiamo esattezza, corrisponde alla possi-

107 B. Riemann, Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen, cit., pp. 135.

108 Ivi, p. 149.109 Ivi, p. 135.

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bilità di determinare e conoscere le figure ideali, in assoluta identità, ovvero come sostrati assolutamente identici e metodicamente uni-voci di caratteristiche determinabili110. In un tale processo – lungo il quale si compirebbe l’invenzione della geometria – svolgono un ruolo peculiare alcune forme come la linea, il triangolo ed il cerchio, che fungono da figure elementari mediante cui costruire tutte le altre figure111. Un tale procedimento geometrico – che esige di valere intersoggettivamente - «rimanda ad una metodica già in esercizio nel mondo-ambiente intuitivo-preteoretico, a quella metodica pri-mitiva e quindi artificiale della determinazione commisurante ed in generale metrica. La sua funzione ha origine proprio nella forma essenziale del mondo-ambiente. Le figure sensibilmente esperibili o immaginabili in maniera intuitivo-sensibile e tutti i tipi ad ogni livello di generalità passano gli uni negli altri continuamente: in questa continuità riempiono la spazialità (sensibile-intuitiva) come loro forma. Ogni figura di quest’infinità aperta, anche se essa in realtà è data intuitivamente come un fatto, non ha ancora alcuna “obbiettività”, essa non è intersoggettivamente determinabile, né partecipabile nella sua determinatezza per ciascuno – per ogni altro che non la veda effettivamente. A questo serve chiaramente l’arte della misura (Messkunst)»112. Siffatta metrica arcaica, come testi-monia l’agrimensura, procede attraverso il confronto approssimato tra le figure corporee dei fiumi, dei monti, degli edifici e le forme loro corrispondenti; il vincolo di somiglianza figurale, che in essa si impone, verrà poi elaborato dalla metrica universale della geometria nel suo mondo di pure figure-limite113. Dovrebbe però essere chiaro che la continuità, cui Husserl fa riferimento, è quella della forma fisica dell’esperienza, ovvero dello stile del mondo, «di una comunità di stile od un’unità strutturale [che] si mantiene nei diversi presenti concreti e da questi si proietta presuntivamente l’orizzonte esterno che appartiene costantemente all’esperienza»114. È la struttura onto-

110 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., p. 56.

111 Ibid.112 Ivi, p. 57.113 Ibid.114 I. Kern, Husserl und Kant, cit., pp. 161-162.

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logica del mondo, ovvero l’unità ontologica dello spazio del mondo, il quale non si riferisce solo a coloro che qui ed ora esperiscono, ma a tutti i soggetti dell’esperienza oggettiva possibile in generale. In tal guisa, la questione circa le condizioni di possibilità dell’essere vero di un mondo siffatto che deve essere esperito sempre e solo presunti-vamente in quanto essente, è equivalente a quella circa le condizioni di possibilità della sua conoscibilità teoretica o circa le condizioni di possibilità di una scienza. Si ottiene così quindi che il mondo presunto, «se esso in generale è in verità, deve avere una struttura formale secondo una necessità incondizionata, deve avere una deter-minata struttura omogenea, quindi una struttura universale della natura fisica con lo spazio, il tempo e la casualità, una universale struttura di leggi fisiche sotto il titolo di causalità, etc. L’essere di un mondo non è in sé, come se fosse indifferente rispetto alla possibilità di una conoscenza della verità, ma ambedue – mondo e conoscenza – si trovano in una correlazione necessaria, prescrivendo all’essere del mondo stesso una struttura necessaria, una struttura d’essere»115.

Eppure un tale stato di cose è esposto al suo ribaltamento, quando l’unità metrica dell’ente viene assunta come unità ontico-effettuale dell’essente-misurato. Laddove infatti si determini la cosa della fisica come reale, distinta quindi dalla sua mera manifestazione, individuale o intersoggettiva, che solo può dirsi in relazione con la normalità umana dell’esperienza e delle sue condizioni, laddove si possa cioè separare con nettezza reale e metrico come due diversi stati dell’enunciato, sembrano disperdersi le tracce della costituzione a partire dall’esperienza, da quel vissuto in cui «vengono esperiti degli stati i quali, in quanto stati del reale, rientrano nel tema della scienza ed esigono una descrizione scientifica»116. Così la cosa della fisica smette di essere “quella nuova dimensione di relatività” a par-tire dalla quale si costruisce attraverso «il pensiero, la pura cosa della fisica, a cui ineriscono allora multiformi “spazi riempiti” che sono in riferimento con diverse facoltà sensibili e con diverse deviazioni

115 E. Husserl, Ms. F I 32, p. 124b, cit. in I. Kern, Husserl und Kant, cit., pp. 165-166.

116 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro terzo (1953), II, cit., p. 441.

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sensibili individuali»117. Essa – lungo la lenta depurazione dalle qua-lità secondarie, che le scienze naturali moderne compiono sull’enti-cità – diviene regola di indipendenza, segno soltanto della semplice manifestazione118. Lo statuto simbolico, segnico-indicativo, della cosa fisica rappresenterebbe così l’ipotesi fondamentale di una realtà spazio-causale (geometrico-meccanica) nascosta nei decorsi dei vissu-ti fenomenici, ma allo stesso tempo una norma od un criterio della loro medesima praticabilità. In questa trascendenza interna della cosa fisica rispetto all’interezza dell’esperienza consiste quel “diffuso realismo segnico” che trasforma «la determinazione logico-empirica della natura immediatamente ed intuitivamente data [...] in mondo sconosciuto di realtà che sarebbero delle cose in sé e che verrebbero introdotte a titolo di ipotesi allo scopo di fornire la spiegazione cau-sale delle manifestazioni»119.

La costituzione sistematica dello spazio – di cui abbiamo esami-nato solo il piano elementare coincidente con una fenomenologia generale della continuità – permette così di comporre l’indagine genealogica sull’esperienza di fatto del mondo ai lineamenti fon-damentali di una epistemologia fenomenologica, non in virtù di un’analogia formale o modellistica o ancora di un mitico legame tra l’essere fisico “oggettivo” e quello “soggettivo”, ma a partire dalla nozione moderna di quantum, inteso, però, invece che come grandezza divisibile e quindi misurabile, come entità metrica. È in una tale prospettiva che si può reclamare per la costituzione della spazialità il carattere della prova di esistenza, della definizione legit-tima di un’entità proto-fisica120. Se pertanto è vero che fu giusto la nozione di spazialità a provocare – nel pensiero heideggeriano della seconda metà degli anni Venti – non solo l’impasse, denunciato dalla locuzione poi abbandonata di metaontologia, ma a decidere anche

117 Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro Secondo, II, cit., p. 88.

118 Ivi, p. 89. Cfr. Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia feno-menologica, Libro Primo, cit., pp. 95-96.

119 Ivi., p. 132. 120 Cfr. O. Becker, Beiträge zur phänomenologischen Begründung der Geometrie

und ihrer physikalischen Anwendungen (1923), Tübingen 1973, p. 8; Id., Mathe-matische Existenz, cit., p. 148.

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l’impercorribilità di un’analisi «della morfologia pura delle forme spaziali, dell’analysis situs e della scienza metrica pura dello spazio»121, allora bisogna rintracciare in queste ricerche sulla fenomenologia generale della continuità la ragione delle annotazioni critiche che Husserl andò scrivendo proprio a margine delle righe di Essere e tempo dedicate al progetto scientifico dell’ente naturale122. Nella bre-vità quasi aforistica della nota «un progetto scientifico noi dobbiamo prima averlo e fondarlo, non però mediante quelle vaghe generalità di Heidegger»123 – al di là di ingenerosità e fraintendimenti – Husserl sembra richiamare ad un impegno più ampio, di cui è parte decisiva la costituzione di cosa e spazio e l’analisi della legge di continuità come principio di identità dell’ente geometrico-fisico.

Esula altresì dai nostri compiti e dai nostri intenti definire i termini di un confronto e tanto meno di un arbitrato: quello che importa è restituire la fenomenologia dello spazio al suo proprio ambito storico-ideale, che dall’artificio aristotelico dello pseudo-Zenone almeno fino a Riemann e Hilbert si raccoglie attorno al quesito circa la relazione tra entità e spazialità. A quella vicenda cioè che ripensando l’antica diade mèghethos-lògos riconosce il mèghethos come lògos dell’ente, come inessente modo del suo essere.

121 M. Heidegger, Essere e Tempo, cit., p. 197.122 Ivi, p. 524.123 E. Husserl, Glosse a Heidegger, ed. it. a cura di C. Senigaglia, Milano

1997, p. 96.

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IV.

Metrica e Profezia. Sulla conoscibilità della natura

1. Ontometria e fenomenotecnica.

Nonostante non si riferisca ad oggetti fisici né a processi biologici (nonostante non abbia dinanzi oramai vallate o lampi, né sopra di sé astri a geometria variabile o soltanto il buio, ma piazze gremite di uomini e giornali), non vi è forse migliore esposizione delle asperità nascoste in quella domanda circa la conoscibilità della natura – che ancora assillava l’età della fine degli imperi – delle scarne confessioni di Tunda dopo l’ingresso a Mosca. «Gli scrittori – scrive Roth narran-do dell’immobilità che aveva colto il suo protagonista dopo le marce a Vienna e le trincee siberiane – vivono ogni vicenda attraverso il linguaggio, non hanno esperienze senza una formulazione. Tunda però cercava formulazioni già esistenti, ben provate e sicure, per non naufragare nell’esperienza»1. Come per il tenente austriaco, così per la conoscibilità della natura la formulazione linguistica o simbolica pare fornire una soglia di indiscutibilità, di correttezza condivisa, conquistata attraverso la paziente neutralizzazione del già-stato. Si potrebbe dire che, in tal guisa, l’essente-stato – che per la tradizione filosofica e scientifica designa il significato principale di ente, più ancora della presenza – riesca ad essere neutralizzato in ciò che pro-prio così è già-stato anche per altri, in ciò che è semplicemente noto. Da questo momento in poi, dacché la formulazione finalmente riesce

1 J. Roth, Fuga senza fine (1927), ed. it. di M. G. Paci Manucci, Milano 2011, p. 31.

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a salvarci dall’esperienza, essa farà da metro e dichiarerà valide le rotte che non rischiano il naufragio.

Ogni volta in cui ricorre un metro, balena il desiderio di una lingua che sani l’esperienza. Cos’altro cerca, esemplarmente, Rickert quando, dopo aver salutato la morte dell’illusione di un accordo con l’ordine in sé dato delle cose, richiama ad arte un ulteriore regolo funzionale, un Masstab, nach dem man sich mit seinen Vorstellungen richten kann2? Un metro, un regolo trascendentale, certo, che regoli, però, il Trieb, la pulsione conoscitiva, sulla sua proiezione teleologica, il conseguimento compiuto della conoscenza3. Né aveva un’intonazione differente lo Schlick che, dinanzi ai limiti imposti alla conoscibilità della natura dalla meccanica quantistica, descriveva il progresso della conoscenza come caratterizzato dalle tinte della speranza e della gioia dell’aver conosciuto, ma anche da quelle della liberazione dal dovere di poter conoscere tutto4. Tuttavia il metro è, così, metro del compito, ma anche metro che disciplina la condotta del compito, criterio che discrimina il desiderio compiuto da quello fallito, ma anche la regola che impedisce al desiderio di barare nella gara con il suo desiderato.

Le ambiguità del metro – grazie a cui potrebbe realizzarsi, o sopravvivere, la Erkennbarkeit der Natur – sono anche quelle, però, che condannano le ultime, pur bellissime, rovine della Philosophia naturalis, così come si ritrovano nella Enquiry concerning the Principles of Natural Knowledge scritta da Whitehead nel 1919 o nella Philosophie der Natur di Hartmann, edita nel 1950. Né fortuna migliore sembra arridere a quella Scienza della Scienza che Ernst Mayr propone in coda alla sua Storia del Pensiero biologico, avendo essa piuttosto i caratteri di una epistemologia comparata, la quale mira ad un confronto tra «le generalizzazioni tratte dalle scienze fisiche con quelle biologiche e sociali»5. Eppure tutti questi tentativi

2 H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, cit., p. 75.3 Ivi, p. 188.4 M. Schlick, Quantentheorie und Erkennbarkeit der Natur, in «Erkenntnis»,

6, 1936, p. 317.5 E. Mayr, Storia del Pensiero Biologico, II, ed. it. a cura di P. Corsi, Torino

2011, p. 805.

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paiono condividere l’argomento di quella scientia scientiae che ancora nel tardo Rinascimento occupava il Prologhi moderni alle edizioni delle opere capitali della scienza ellenistica, lungo una storia che va dal Proclo del Commentario a Euclide a Clavio a John Dee. In cia-scuno di questi casi, quella scientia scientiae era storia della scienza ed introduzione, introduzione metrica, anticipazione del metro che nel corso dell’esposizione sarebbe stato utilizzato. La stessa Apologia Tychonis di Keplero era, ad un tempo, storia delle ipotesi cosmologi-che e loro determinazione teorica.

Cosa accade al metro, però, quando è la realizzazione razionale del suo oggetto? Quando cioè il misurato è già sul regolo? Se si prende a modello la tavola periodica mendeleeviana, che Bachelard considera, a ragione, una delle pagine più filosofiche della scienza6, si apprezza come il criterio d’ordine, la Charateritica chimica universale, ne realizzi gli oggetti. In ragione della transizione dal peso al numero atomico, dall’ordinalità alla cardinalità, si perviene a quella sorta di «sinonimia tra l’organizzazione materiale e il principio d’individua-zione quantica degli elementi costitutivi»7 che sancisce il passaggio compiuto «dal corpo chimico al corpo aritmetico, prendendo quest’ul-timo termine nel suo significato matematico tecnico»8. La più realista delle proto-scienze avrebbe così patito la metamorfosi della sostanza in possibilità di reazione, della sostanza chimica nell’ombra di un numero9, divenendo l’antonomasia della grafia fenomenotecnica10.

Sarebbero state proprio queste riflessioni a motivare, per Bachelard, la necessità di abbandonare la fenomenologia husser-liana, incapace come è di intendere il portato teorico del nuovo spirito scientifico. Da allora in avanti sarebbe stato almeno sospetto

6 G. Bachelard, Epistemologia (1971), ed. it., Bologna 1978, p. 81. Per le considerazioni bachelardiane di epistemologia della chimica, si vedano inoltre Id., Le pluralisme cohérent de la Chimie moderne, Paris 1932 e Id., Il Mate-rialismo Razionale, Bari 1975.

7 Id., Il nuovo spirito scientifico (1934), ed. it. a cura di L. Geymonat e P. Redondi, Roma-Bari 1978, p. 72.

8 Ivi, p. 73.9 Ivi, p. 75.10 Ivi, p. 13.

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accostare fenomenologia e scienze della natura, o anche solo feno-menologia e conoscenza naturale, se non per far rivivere i cascami del fondazionalismo, in versione intuizionistica (per la geometria e l’aritmetica) o strumentalista (per le scienze fisiche). Sarebbe stato, pertanto, un colpevole rimosso di questi contributi – che proprio a quegli argomenti si dedicano, dichiarandolo sin dal titolo – se non avessero cercato un’ultima, disperata difesa. Viepiù, perché di metri-ca si tratta e della metrica ci si è, per lo più, occupati sin qui. Ma ciò non basta, giacché in gioco non vi è una contesa di scuola, ma la medesima possibilità di una Naturphänomenologie, almeno come fenomenologia della conoscenza naturale.

Orbene, fenomenotecnica scientifica e fenomenologia sarebbero in contraddizione perché quest’ultima sosterrebbe ancora un’episte-mologia cartesiana della semplicità ed un primato dell’esperienza, di cui non sarebbe stato affatto compreso lo statuto di ostacolo epistemologico. L’unico percorso che ci sembra possibile seguire per provare a dare una presentazione per lo meno diversa dei rap-porti che sussistono tra fenomenologia e fenomenotecnica è quello che riprende i passi della coppia esperienza e misura: quello stesso percorso che ci ha consentito di intravvedere nella fenomenologia gottinghese i caratteri di un’ontologia metrica impegnata a doman-darsi dell’essere dell’ente fisico, attraverso le declinazioni dell’unità, della grandezza e della continuità. Questa volta però quel percorso dovrà essere ambientato nello scenario dell’epistemologia dell’inizio del secolo scorso.

Sarebbe innanzitutto alquanto grossolano riconsegnare la feno-menotecnica all’atmosfera fabbrile dell’alchimia, intendendola cioè come fenomenodemiurgia, come creazione dei fenomeni e quindi degli oggetti scientifici. Eppure quest’equivoco cova già nella pur corretta identificazione tra fenomenotecnica e fenomenometria: se è infatti indiscutibile che la metrica è una tecnica e che la scienza, per così dire, post-classica, è fenomenotecnica, proprio perché si propo-ne come una metrologia universale, che tipo di tecnica è la metrica?

La sua più antica definizione potrebbe essere fatta risalire al Politico platonico e nello specifico al tentativo di distinguere l’arte regia da quella del calcolo. Mentre l’arte del calcolo – sostiene Platone – consiste nel «conoscere la differenza fra i numeri ed esprimere un

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giudizio su ciò che conosce»11, laddove però il riconoscimento della norma sia disgiunto dalla sua imposizione12; quella regia implica un’identificazione della misura che permane nella commisurazione normativa in grazia della medesima opera imperativa. La misura del calcolo è regolativa, quella dell’imperio è meta- o auto-regolativa. Se è vero che si può misurare o «ponendo in reciproci rapporti di gran-dezza e piccolezza», oppure seguendo «l’essenza necessaria della loro genesi»13, le due possibilità sono immediatamente congiunte nel cal-colo e di difficile accordamento nell’arte regia. Non essendo possibile che «quel che resta sempre semplice vada bene per ciò che non è mai semplice»14, allora «la legge non può mai prescrivere, e con esattezza, per tutti ciò che è meglio e il più giusto, aggiungendovi anche ciò che è più conveniente»15. La legge – ovvero la misura trascelta ed impo-sta – non può risolversi in alcuna semplicità o purezza, la legge non può essere il più vago e vuoto dei principi, il più formale (e si tenga a mente questo interdetto platonico per quanto diremo in seguito), perché la materia a cui essa si applica è tutt’altro che semplice. La legge sembra così costretta ad essere complessa ed inesatta; e solo così può essere legittima contemperando complessità ed inesattezza con la ragionevolezza della sua applicazione. La misura della sua istituzio-ne deve cioè essere corretta di volta in volta da quella della sua stessa applicazione. Ancora una volta doppia è la misura della legge proprio perché è riportata su quella della sua prassi.

La possibilità di individuare un concetto di misura e di misura-zione, slegato da quello di esattezza, e, ancora di più, un concetto di misurazione che, stante la complicatezza del suo materiale, non può che rinunciare alla puntualità del particolare, cercando un risarcimento nella ragionevolezza del metro, nasce certo nel recinto della scienza regia, ma mostra una validità più ampia. Si può ipotizzare allora che l’idea di misura, comparsa nel Politico, non rimandi alla regolarità del singolare (alla costante ripetibilità metrica nelle misurazioni dei singoli casi); ovvero che non trovi la propria regola nella permanenza del metro

11 Platone, Politico, 259e 5-6.12 Ivi, 260a 4-6.13 Id., Cratilo, 283d 7-9.14 Id., Politico, 294c 7-815 Ivi, 294a 10-b 2.

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e quindi nella misurabilità di ciascun caso dal medesimo metro. O ancora, che non rimonti alla stabilità della regola per neutralizzare l’in-stabilità di ciò che deve essere misurato. Una misura (o misurazione), e quindi una legge di questo tipo, definirebbe una modalità specifica di meta-normatività nel ricorso a se stessa, alla propria immanente regolarità. Una tale misura non rinuncia ad una propria meta-norma-tività (che è propriamente sua, è propriamente della sua messa in atto, della sua pragmatica): ma questa diversa meta-normatività implica un’ulteriore commisurazione tra i casi (o i materiali singoli) e la sua stessa forma direttiva (che, nell’arte regia, è la phronesis). Una siffatta meta-normatività – legata sin da sempre all’analogia tra misura di legge e definizione, così che una definizione di nomos è una definizione doppia – è auto-normativa perché cerca per sé una misura che non coincide con la sua attualità, con la sua metricità.

Che un’arte della misura sia autepitaktikè, o più semplicemente autodirettiva – come in Platone, il Politico, o nella nostra epoca la Scienza naturale – significa che deriva la propria misura da un retro-riferimento alla stessa misura. È qui che risorge l’ambiguità della misura: o essa è, di volta in volta, l’unità della stessa misura oppure è, ogni volta, l’identità del medesimo metro. O è puntuale o è esatta. E non: o è approssimata o è precisa, ché questa alternativa riguarda il metro e non già la misura. Ma tra metro e misura vi è la differenza, più volte ribadita, tra unità divisa, o, meglio, unità dei molti, ed unità divisibile, ovvero unità nei molti.

Ora però se è vero che le Scienze della Natura, per lo meno da Hamilton, o anche da Mendeleev in poi, si propongono come metri-che universali, come Theorien des Meßvorgangs, teorie dei processi di misurazione, di che metriche si tratta? Non si domanda qui, inge-nuamente, che cosa misurino, giacché si accetta come valida, nelle sue varie accezioni possibili, la definizione secondo cui «la “metrica” non significa semplicemente una misurazione matematica del reale fisico, ma è essa stessa a esprimerne la presenza»16; si domanda piut-

16 M. Schlick, Interpretazione criticistica o empiristica della nuova fisica? (1921), in Id., Forma e contenuto, ed. it. a cura di P. Parrini, Torino 2008, p. 160. Della necessità di una teoria generale della misurazione parla anche Karl Popper in La scienza: congetture e confutazioni (1957), in Id., Congetture e confutazioni, cit., I, p. 111.

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tosto quale nozione di misura, o di metro, adottino.Poniamo che il metro o la misura delle scienze della natura

siano quelli previsionali, ovvero le misurazioni della dipendenza tra eventi. Traiamo questa definizione da un saggio di Moritz Schlick, pubblicato nel 193117 e dedicato ad un primo esame del difficile accordo tra causalità e fisica contemporanea. Conoscere la natura è imporre leggi di natura giacché «per l’applicazione della scienza, per la tecnica, riveste un’importanza fondamentale la circostanza che le leggi di natura consentano di prevedere il futuro, ossia ciò che non è ancora stato osservato da nessuno. Così filosofi come Bacone, Hume e Comte, compresero per tempo che la conoscenza della realtà coin-cide con la possibilità di prevedere»18.

E non è un incidente il richiamo all’autore che condusse una delle più aspre polemiche con Husserl e la fenomenologia, dall’Allge-meine Erkenntnislehre a Form and Content ed a Gibt es ein materiales Apriori?. Schlick infatti riesce a mostrare – soprattutto negli anni Trenta, dopo la pubblicazione dell’Aufbau di Carnap e la polemica sui protocolli – le aporie di una “metafisica dell’esperienza”, «del vero ed insopprimibile problema, che nemmeno il neopositivismo ha saputo evitare», quello dell’esaurimento della realtà nella regolarità dell’esperienza19.

2. Linguaggio profetico.

Nonostante la distanza tra le rispettive teorie della conoscenza e dell’esperienza – che dal lato schlickiano sono ampiamente esplici-tate, mentre su quello husserliano si riducono all’aspra e, per certi versi, apologetica denuncia delle distorsioni operate soprattutto ai danni della teoria dell’intuizione, proposta in Idee I20 – i due “filosofi

17 Id., Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik (1931), in Id., Die Wiener Zeit. Aufsätze, Beiträge, Rezenzionen (1926-1936), Gesamtausgabe, I, 6, hrsg. von J. Friedl-H. Rutte, Wien-New York 2007, p. 239.

18 Ivi, p. 251-252.19 E. Severino, Commento a M. Schlick, Il fondamento della conoscenza,

Brescia 1963, p. 73, nota 98.20 Quella rivolta a Schlick, ed alla sua Allgemeine Erkenntnislehre, è pro-

babilmente la polemica più recisa che Husserl conduca tra le pur numerose

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scienziati” (fisico di formazione, il primo, matematico, il secondo) concordano almeno sull’utilizzo di un termine, e sul suo contesto semantico: das Prophetisches. E non è una concordanza marginale – soprattutto per la nostra indagine – poiché designa, nello Husserl della Fenomenologia della coscienza interna del tempo21, la rappre-sentazione intuitiva di un evento futuro, e nello Schlick maturo, le anticipazioni scientifiche sottoposte al controllo dell’esperienza ed il medesimo criterio della causalità22. Ambedue rintracciano in das Prophetisches un ambito di espressioni ancora conoscitive, più o meno credibili, ma che costituiscono una chiara eccezione alla verificabilità23.

risposte ai suoi critici; cfr. E. Husserl, Prefazione alla “Sesta Ricerca Logica”, in Id., Ricerche Logiche, cit., pp. 17-18. Come ricorda Paolo Parrini nel recente Fenomenologia ed Empirismo logico, in A. Cimmino-V. Costa, La storia della feno-menologia, Roma 2012, pp. 95 e sg., a lungo la letteratura critica sul confronto tra Husserl e Schlick si è arrestata allo stato della polemica sulla conoscenza intuitiva. Grazie, invece, ad una nuova stagione di studi, propiziata dalla Mo-ritz-Schlick-Forschungsstelle di Rostock, a partire da J. Alberto Coffa, The semantic Tradition. From Kant to Carnap. To the Vienna Station, Cambridge 1991, e M. Friedmann, Reconsidering Logical Positivism, Cambridge 1999, e che an-novera, riguardo alla questione che stiamo affrontando, il pregevole saggio di R. Lanfredini, Schlick and Husserl on the Essence of Knowledge, in P. Parrini, M. Salmon, W. Salmon (eds.), Logical Empiricism. Historical and Contemporary Perspectives, Pittsburgh 2003, pp. 43-57, si apre finalmente davvero la possi-bilità di intendere quali e quante fossero le poste in gioco nel confronto tra i due filosofi. Il tema della verificabilità degli asserti previsionali viene, ad esempio, indicato proprio da Parrini – Fenomenologia ed Empirismo logico, cit., p. 97 – come uno dei terreni su cui pare continuare una tacita discussione tra Husserl e Schlick, nonostante quella esplicita fosse stata prematuramente abbandonata.

21 E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 86, p. 305.

22 M. Schlick, Kausalität in der gegenwärtigen Physik, cit., p. 249; Id., Über das Fundament der Erkenntnis (1934) ivi, p. 506; Id., Quantentheorie und Erkenn-barkeit der Natur, cit., p. 317. Oltre che in questi due saggi ed in Sind die Na-turgesetze Konventionen? (1935), in Id., Gesamtausgabe, I, 6, cit., pp. 753-772, Schlick utilizza frequentemente il termine Prophezeiung, per indicare previ-sione, in Erkenntnistheorie und moderne Physik (1929), ivi, p. 164, in riferimento alla relatività einsteiniana, e nella recensione all’Aufbau carnapiana (1929), ivi, p. 202.

23 Siamo alle spalle della pubblicazione della Logica della scoperta scientifica

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2.1. Gültige Prophezeiungen. Lasciando, per il momento, di canto le considerazioni husserliane sulla possibilità di una coscienza pro-fetica e sul suo legame con una peculiare nozione di probabilità, ci rivolgeremo ora all’analisi delle occorrenze schlickiane.

Il tentativo di rinvenire un fondamento della conoscenza, a fronte dell’equivoca deriva del convenzionalismo carnapiano24, comporta la stesura da parte di Schlick di un complesso ordinamento di livelli proposizionali, che segnerà un allontanamento progressivo dalla nozione di una conoscenza espressiva e segnica, proposta nell’opus magnum del 1919. Se infatti nella Allgemeine Erkenntnislehre la cono-scenza era definita come espressione, rappresentazione [Darstellung] di un fatto conosciuto, mentre il concetto scientifico corrispondeva ad «un segno per tutti quegli oggetti fra le cui proprietà si trovano tutte le note caratteristiche di quel concetto»25, dopo la lettura del Tractatus wittgensteiniano ed il confronto con gli estensori della Wissenschaftliche Weltauffassung, si imporrà una concezione figurativa o pittoriale del linguaggio ed una adeguativa della conoscenza. Che cosa può costituire «la base di ogni giustificazione empirica ed allo stesso tempo la chiave d volta del legame tra credenza e realtà»26, laddove non si ritengano affidabili né i dati elementari della sensa-zione, come sostenuto dall’empirismo machiano, né quegli asserti, altrettanto elementari, contenuti nei Protokollsätzen, che si propone-

(1935) di Popper e se Schlick è ovviamente menzionato nelle sue pagine talvolta come interlocutore polemico talaltra come anticipatore, non vi è alcuna traccia delle riflessioni che al riguardo andava conducendo Husserl nelle sue lezioni. La permanenza di das Prophetisches nell’opera popperiana è ancora documentabile da Previsione e profezia nelle scienze sociali, in K. R. Pop-per, Congetture e confutazioni, cit., II, pp. 571-588.

24 «Quando Carnap spiega nella sua Logische Syntax der Sprache (Wien, 1934; ed. it., Milano 1961) – scrive Schlick in una nota al saggio di Sind die Naturgesentze Konventionen?, cit., p. 770 – che si potrebbe costruire un linguaggio con leggi di trasformazione extralogiche, assumendo quali prin-cipi, per esempio, delle “leggi di natura” (considerate, pertanto, come regole grammaticali), il suo modo di esprimersi mi sembra pericolosamente equi-voco, nello stesso modo in cui lo è la tesi del convenzionalismo».

25 Id., Allgemeine Erkenntnislehre, Berlin 19252, p. 19. Si veda anche Id., L’essenza della verità nella logica moderna (1911), ed. it. a cura di M. Cambula, Soveria Mannelli 2001, pp. 141-162.

26 J. A. Coffa, The sematic Tradition from Kant to Carnap, cit., p. 354.

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vano come una sorta di inizio interno del sistema delle scienze, come invece rivendicavano Carnap e Neurath27? L’origine più remota del nostro sapere – scrive Schlick nel 1934 – è costituita non già da pro-posizioni osservative [Beobachtungssätze], ovvero da proposizioni che esprimono i fatti nella loro semplicità28, ma da chiarificazioni osten-sive o deittiche, da indicazioni o ostensioni gestuali, che, laddove venissero trasposte in formule linguistiche, anche le più elementari come i deittici “qui”, “ora” e simili perderebbero il proprio stato di immediatezza, disidentificando l’asserto dalla constatazione in esso inclusa29. «La conoscenza comincia sempre in qualche modo con la constatazione dei fatti»30, da constatazioni del tipo: “qui ed ora, le cose stanno così e così”. Se si cerca il fondamento ultimo della conoscenza della realtà «non può essere affatto sufficiente trattare gli enunciati come “costruzioni ideali” (secondo quanto si diceva una volta con espressione platonica), ma bisogna piuttosto considerare le circostanze reali, gli eventi che si verificano nello spazio e nel tempo, che costruiscono i giudizi, ovvero gli atti psichici del “pen-sare”, o gli atti fisici del “parlare” e dello “scrivere”»31. Ed a questo stato iniziale è allora più prossimo un Bedaeker di un protocollo: se rileggo le note di viaggio in cui ho trascritto i caratteri di una città, di una strada, di una basilica, il numero delle sue volte, la sua forma o il suo campanile, non posso che riconoscerne l’esattezza rispetto a ciò che effettivamente ho visto. «Domandare a proposito di una constatazione, se non ci stiamo sbagliando sulla sua verità, avrebbe tanto poco senso, quanto se tale domanda fosse fatta a proposito di una tautologia»32. Una Konstatierung ha infatti uno statuto anfibio: è una proposizione sintetica a posteriori, ma «mentre per tutti gli altri asserti sintetici la comprensione del senso e l’accertamento della veri-tà sono processi separati e pienamente distinguibili, nelle proposizio-

27 R. Carnap, Über Protokollsätze, in «Erkenntnis», 1932, 3, pp. 215-228; O. Neurath, Protokollsätze, ivi, pp. 204-214.

28 M. Schlick, Über das Fundament der Erkenntnis, cit., p. 506.29 Ivi, pp. 511-512.30 Ivi, p. 506.31 Ivi, p. 512.32 Ibid. cfr. Id., Facts and Propositions (1935), ivi, pp. 567 e sgg.

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ni osservative, come in quelle analitiche, essi vengono a coincidere»33. Coincidono cioè Frase [Satz], come sequenza di segni o di parole, la struttura puramente grammaticale o simbolica, e Proposizione [Aussage], ovvero la frase dotata di significato, in quanto assolve ad un vero e proprio ruolo comunicativo34; se però nelle proposizioni analitiche, come nelle definizioni implicite della geometria, la regola, che costituisce la frase, è il suo significato, nelle constatazioni, ciò che è significato è la regola della significazione. La constatazione è un quasi-deittico, è un nome e come tale non implicherebbe la temporalità della verifica, ma solo l’immediatezza della nominazione, dell’appello. Le constatazioni sarebbero così empiriche, e quindi a posteriori, ma tautologiche, e quindi analitiche35. A questo riguardo

33 Id., Über das Fundament der Erkenntnis, cit., p. 512.34 Id., Sind die Naturgesentze Konventionen?, cit., p. 766. «Il significato non

va concepito come una specie di entità misteriosa, riposta dentro o associata alla frase stessa, ma come l’insieme delle regole stabilite per la sua applica-zione» (ibid.)

35 Sulla necessità aposteriori del nome si veda, S. Kripke, Naming and Necessity, Cambridge 1980. Riguardo alla posizione logica del nome e della nominazione, come ostensione – su cui torneremo in seguito, prendendo in esame la Prima Ricerca Logica husserliana – si noti un rilevante cambio di prospettiva dal Wittgenstein del Tractatus a quello delle Philosophische Unter-suchungen. Se nel primo, infatti, alla proposizione 3.3. (ed. it. a cura di A. G. Conte, Torino 1995, p. 36) si legge che «solo nella connessione delle pro-posizioni il nome assume significato [nur im Zusammenhang des Satzes hat ein Name Bedeutung]», nelle Philosophische Untersuchungen, riflettendo, nel §. 6, della prima parte (ed. it. a cura di M. Trinchero, Torino 1995, p. 12), sull’istruzio-ne al linguaggio nei bambini – come esemplificazione di quella genealogia del linguaggio, mostrata già dagli studi di Piaget – Wittgenstein scrive: «l’in-segnante indica al bambino determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di essi e pronuncia, al tempo stesso, una parola: ad esempio pronuncia la parola “lastra”, e intanto gli mostra un oggetto di questa forma. (Non chia-merò questo procedimento “spiegazione” o “definizione ostensiva“ [hinwei-sende Erklärung oder Definition], perché il bambino non può ancora chiedere il nome degli oggetti. Lo chiamerò “insegnamento ostensivo”. Lo chiamerò “insegnamento ostensivo delle parole” [hinweisendes Leheren des Wörter])». Al-trove, nel §. 29 (ed. it., cit., p. 24), esaminando l’assegnazione del nome “due” al numero 2, ammetterà, infine, una sorta di genetica dei nomi. Cfr. A. Riska, Wittgenstein and the Problem of Naming, in H. Berghel, A. Hübner, y E. Köhler (eds.), Wittgenstein, the Vienna Circle and Critical Rationalism. Procee-dings of the 3rd International Wittgenstein Symposium, Wien 1979.

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Carnap scrisse in una lettera a Schlick, rimasta senza risposta, che gli restava in particolare poco chiaro come le constatazioni, designate da “qui” e “ora” ed «a cui appartengono essenzialmente i gesti indi-cativi, possano assumere l’aspetto di ipotesi da provare»36, come cioè possano fungere da inizio per la conoscenza scientifica. E si potrebbe ancora domandare come possano farne da conclusione, giacché, se lo scopo della scienza dovrebbe essere la rappresentazione vera dei fatti, allora dovrebbero essere ancora una volta le constatazioni a verificare le rappresentazioni o gli asserti scientifici37.

È tuttavia proprio tra i due estremi intemporali contrassegnati dalle constatazioni – quelle che spingono alla conoscenza e quelle che la soddisfano – che scorre il tempo della conoscenza scientifica. «La conoscenza è, in origine – scrive Schlick, ripetendo quasi alla lettera Nietzsche, o piuttosto formulando una versione empirista della giustificazione dell’ideale ascetico della verità – uno strumento al servi-zio della vita. Per orientarsi nel mondo che lo circonda e adattare le sue azioni agli eventi, l’uomo dev’essere capace il prevedere, in una certa misura, gli eventi. A tale fine, egli ha bisogno di conoscenze, di proposizioni generali da utilizzare nella misura in cui le prognosi ricavatene si avverino effettivamente»38. Gli enunciati scientifici sono così essenzialmente previsioni, le cui regole di enunciabilità e di formazione sono dettate dalle leggi di natura. Queste ultime «non hanno la struttura logica di un “enunciato”, bensì sono solo “istruzioni per la formazione di enunciati” (mutuo il concetto e il termine da L. Wittgenstein). [...] L’asserto “il principio dell’energia è valido” non dice né più né meno di quanto dica il principio stesso. Solo gli asserti singolari sono, come si sa, suscettibili di verifica; essi si possono derivare da una legge naturale e hanno sempre la forma seguente: “in determinate circostanze, questo indice toccherà quella tacca della scala” […] e simili. Di tale tipo sono gli enunciati veri-ficabili: di questa specie è ogni verifica»39. La legge naturale sarebbe così un postulato tecnico – né una convenzione, né un enunciato

36 Lettera del 17 maggio 1934, in M. Schlick, Gesamtausgabe, I, 6, cit., p. 652.

37 Id., Meaning and Verification (1936), cit., p. 712.38 Id., Über das Fundament der Erkenntnis, cit., p. 508.39 Id., Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik, cit., p. 256.

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empirico – di cui non si può dire che sia vero o falso, ma solo che sia utile o inutile. Essa è verificabile, nella misura in cui possiamo disporre solo «della conferma e giudicare solo dell’utilità delle sue indicazioni, ma non possiamo parlare della sua “verità” e attribuirle il carattere di proposizione genuina»40. Se però vale una pragmatica della verificazione per le leggi di natura, non si può dire lo stesso dei principi, che attraverso quelle leggi si esprimono. Anche dinanzi alla questione dell’ammissibilità della causalità nella meccanica quan-tistica, sarebbe possibile, infatti, per Schlick, distinguere l’applica-bilità della legge e la sostenibilità del principio41. Laddove pure la formulazione acquisita della legge fosse inapplicabile, o inutile, non si potrebbe dire lo stesso del corrispondente principio. Questo non è una determinata regola della sintassi scientifica – come invece è la legge – ma una determinazione nomica, la dichiarazione preliminare ad ogni scienza secondo cui vi sarebbe una sola esperienza ed una sola natura. L’insieme dei principi rappresenterebbe così la necessità dell’unificazione della conoscenza naturale, mentre i diversi principi tradurrebbero l’unificazione in ordinamento: se la natura è una, e

40 Ivi, p. 270.41 A questo riguardo Schlick menziona due opposte definizioni di cau-

salità non in Heisenberg e Bohr (come forse sarebbe stato più opportuno), ma in Heisenberg e Born, del quale cita un passo da un saggio, Über den Sinn der physikalischen Theorien, pubblicato in «Naturwissenschaften», XVII, 1929, pp. 109-118; a p. 117, si legge: «l’impossibilità di misurare tutti i dati di uno stato impedisce la predeterminazione dello svolgimento successivo» (cit. in M. Schlick, Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik, cit., p. 260). Nello stesso numero della rivista, N. Bohr pubblica un articolo dal titolo, Wirkungsquan-tum und Naturbeschreibung, ivi, pp. 483-486. Sulle interpretazioni filosofiche della meccanica quantistica si vedano almeno: N. Bohr, The quantum postulate and the recent development of atomic theory, in «Nature», 121, 3050, 14/04/1928, pp. 580-590; Id., Atomic Physics and Human Knowledge, New York-London 1963; W. Heisenberg, The Physical Principles of the Quantum Theory, New York 1949; e per una ricognizione puntuale e complessiva M. Jammer, The Phi-losophy of Quantum Mechanics, New York 1974. Più in generale sul tema della causalità nell’epistemologia contemporanea si vedano M. Bunge, Causality: the Place of the Causal Principle in Modern Science, Harvard 1959; D. Davidson, Causal Relation, in «The Journal of Philosophy», 64, 21, 1967, p. 702; B. C. van Fraassen, Laws and Simmetry, Oxford 1990; G. Strawson, The Secret Con-nexion. Causation, Realism and D. Hume, Oxford 1989 (2003).

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così l’esperienza, è perché ambedue si presentano come un’unità ordinata, o meglio come un ordine, da cui si può desumere un’uni-tà. «La vera scienza, il sistema della conoscenza, può solo diventare, nel suo sviluppo, sempre più unitaria, ed è anche diventata, effet-tivamente, sempre più un’unità»42. Tale unificazione è unificazione dell’intendimento del significato, significazione a sua volta passibile di una verificazione logica o empirica43.

Unità della natura e della conoscenza naturale, significazione e verificazione si implicano reciprocamente. «Il mondo è tanto cono-scibile o concepibile, quanto è possibile fare sul suo comportamento profezie valide»44. Si intende cioè tanto il significato della nostra esperienza del mondo, si giunge tanto ad unificare il mondo nella nostra esperienza, per quanto è possibile esprimere “profezie valide”, ossia profezie significanti e quindi verificabili. L’unità della natura – quella almeno correlata significativamente alla scienza – dipende dal destino delle profezie. Un destino che segue, però, un disegno sintattico. La semantica delle profezie dipende infatti da una tra-sformazione della differenza tra passato e futuro in quella tra ciò che precede e ciò che segue, tra ciò che è meno probabile a ciò che è più probabile45.

Quell’unità della natura – che Laplace aveva ridotto alle capacità di «un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono»46 – si traduce ora in una simmetria stazionaria. La for-mula del mondo scavalca il limite del determinismo e diventa ciò che essenzialmente già si proponeva d’essere: un sistema complesso di

42 M. Schlick, Philosophie und Naturwissenschaft, in «Erkenntnis», 4, 1934, p. 381.

43 Id., Meaning and Verification, cit., p. 720.44 Id., Quantentheorie und Erkennbarkeit der Natur, cit., p. 317.45 Id., Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik, cit., p. 240. Cfr. L. Boltz-

mann, Zu Hrn. Zermelo’s Abhandlung “über die mechanische Erklärung irreversibler Vorgänge”, in «Annalen der Physik», 1897, 60, pp. 392-398; poi in Id., Wissen-schaftliche Abhandlungen, III, hrsg. von F. Hasenöhrl, New York 1968, p. 583.

46 P.-S. de Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità (1814), ed. it. a cura di O. Pesenti Cambursano, in Id., Opere, Torino 1967, p. 243. Cfr. E. Cassirer, Determinismo e in determinismo nella fisica moderna (1937), ed. it. a cura di G. Preti, Firenze 1970, pp. 11-sgg.

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funzioni a variabili multiple47; essa potrebbe allora intendersi come la rappresentazione grammaticale dello schema elementare della coesistenza, ovvero della regola matematica della sua costituzione in quanto misura ed ordine di dipendenza.

2.2. Prophetisches Bewußtsein. Una tale formula del mondo è quella di una totalità, di una Allheit,

di una molteplicità definita; sappiamo già come questa locuzione possa designare per Husserl sia il mondo naturale sia una qualsiasi teoria scientifica. Sappiamo altresì che per poter designare una mol-teplicità definita è necessario determinare la sua legalità essenziale, la norma di compossibilità – quanto all’Allnatur – e di correttezza e di deducibilità – quanto all’Alltheorie. Questo significa che nel caso di un giudizio matematico si possa sempre stabilire in anticipo che esso è o valido o non valido, o verificabile positivamente o negativamente, ovvero che non si dà l’evenienza di una non-verificabilità48. In manie-ra analoga, «alla costituzione del mondo-ambiente spazio-materiale è propria una sovrabbondanza di prefigurazioni degli orizzonti interni di tutte le cose che sono attualmente esperite – che sono reciproca-mente correlati ed infine tutte le cose dell’esperienza sono connesse nell’unità del mondo-ambiente con un unitario orizzonte esterno»49.

In alcuni manoscritti stesi tra il 1918 ed il 1921 – quindi pres-soché contemporanei alla prima versione delle lezioni sulla Logica trascendentale – Husserl affronta la questione dell’unità del mondo dal suo versante più impervio: quello del limite di possibilità di varia-zioni finzionali, salva unitate. «L’Io attuale ha come correlato della sua esperienza attuale e dell’orizzonte tracciato da tutte le esperienze possibili un mondo di fatto [faktische], che in parte è dato nell’intu-izione, in parte non è ancora determinato, ma resta da determinare nel procedere motivato dell’esperienza. Questo mondo è un mondo, ed è l’unico e lo stesso mondo per ciascuno che faccia esperienza»50.

47 Cfr. E. Cassirer, Sulla teoria della relatività di Einstein, cit., p. 556.48 E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis, Hua, Bd. XII, hrsg. von M.

Fleischer, Den Haag 1966, p. 259.49 Ivi, p. 261.50 Id., Sulla dottrina delle intuizioni e dei loro modi (1918), in Id., Sulla fanta-

sia. Manoscritti 1918-1924, tr. it. di F. Masi, Napoli 2009, p. 91.

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Se all’interno di tale mondo unico inserisco le quasi-esperienze della finzione, queste possono configurarsi o come una serie del tutto incoerente, giustapposta senza alcun terreno comune, oppure come una serie concordante, ma indeterminata quanto al proprio orizzonte aperto. A differenza della molteplicità definita del mondo dell’espe-rienza di fatto, quella della fantasia sarebbe una molteplicità non completamente ordinata né completamente disordinata, quindi in definitiva non ordinata. Ciononostante, essa avrebbe «la sua cornice [Rahmen] formale, ma le mancherebbe la determinatezza del disegno [Vorzeichnung], composto aggiungendo finzioni a finzioni all’interno di questa cornice ([all’interno] dell’idea di una natura in generale)»51. Quindi, al di qua della compatibilità tra le variazioni finzionali e tra queste e le esperienze percettive che vanno emendando, vige un nesso tra la modificazione di qualcosa ed il suo orizzonte oscuro: «la pura possibilità di ogni riconfigurazione del fenomeno implica un vincolo alle pretese di orizzonte: senza una trasformazione finzionale dell’orizzonte corrispondente non si può affatto attuare una trasfor-mazione fittizia. Se si conserva identico l’orizzonte, si sviluppa un contrasto nascosto, che deve essere esplicitato»52. Ed esplicitarlo vuol dire mostrare il margine oltre il quale l’intero ordine percettivo del mondo, il mondo come unità dell’esperienza non permarrebbe più: ne sarebbe distrutto53.

Un limite analogo dovrebbe esser fatto valere anche per le rap-presentazioni intuitive di un evento futuro, per quella che, ancora tra il 1907 ed il 1909, Husserl chiamava coscienza profetica. Una tale intuizione aspettativa rappresenta il rovescio di quella memorativa ed intrattiene con essa una parentela essenziale: nella prima, all’in-verso che nella seconda, «le intenzioni d’“ora” non sono prima del processo ma lo seguono. Esse si collocano come colorazioni di con-torno “nella direzione opposta”»54. Il ricordo può essere un’intuizione

51 Ivi, p. 92.52 Id., La trasformazione finzionale del mio flusso di coscienza e la possibilità di

una pluralità di Io (1921), in Id., Sulla fantasia. Manoscritti 1918-1924, cit., pp. 102-103.

53 Id., Analysen zur passiven Synthesis, cit., p. 261.54 Id., Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, cit., p. 304; cfr.,

ivi, pp. 86-87.

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memorativa in quanto è coscienza di qualcosa di passato, ma non coscienza dell’essere passata di una precedente sensazione originaria; è piuttosto ritenzione della sensazione originaria a cui corrisponde una coscienza di qualcosa di passato: non intuisce un’intuizione già-stata, ma intuisce ritentivamente ciò che in precedenza è stato intuito percettivamente55. Così, l’intuizione aspettativa dovrebbe intuire protenzionalmente ciò che potrebbe essere intuito percettiva-mente, assunto come tale – e cioè potenzialmente percepibile come in seguito presente – in quanto è analogo a quanto è già stato intuito percettivamente e che ora è intuito ritentivamente. Perché però si possa avere intuitivamente un’immagine riproduttiva di un evento futuro, come «“dopo scenderò le scale ed entrerò in salotto…”, “dopo consumerò la cena”», è necessario che si annodino intenzioni indeterminate di passato e di futuro, cioè «intenzioni che dall’inizio del processo riguardano il contorno temporale che termina nel-l’“ora” presente»56. In ragione di un tale legame, Husserl utilizza per definire proprio l’intuizione memorativa il termine Vor-erinnerung, pre-memorazione, il quale pur gravato da un, per altro esplicito, sapore mantico, mira ad individuare giusto un verso presentativo non solo capovolto rispetto alla Erinnerung, ma che soprattutto implica la messa a tema del suo capovolgimento. In altri termini: senza Erinnerung nessuna possibilità di Vor-erinnerung. Sia chiaro che qui non si tratta della semplice protenzione, così come viene analizzata quanto alla sua coappartenenza alla costituzione dell’“ora”, dapprima nei Manoscritti di Bernau e poi nelle Lezioni degli anni Venti, ma del darsi protenzionalmente in un’intuizione aspettativa. «L’individuale – scrive Husserl nel 1918 – può essere cosciente nel modo dello stare semplicemente nell’orizzonte percettivo originario, dello stare in esso “anche ora” oppure “soltanto ora”: cioè esso è dato ritenzionalmente come qualcosa che sia stato proprio ora percepito, come qualcosa che sia immediatamente proprio ora fluente nel [suo] decrescere, oppure è dato protenzionalmente come qualcosa che flu-isce in quanto proprio ora sta sul punto di giungere, [come qualcosa]

55 Ivi, p. 361.56 Ivi, p. 304.

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che immediatamente proprio ora sta per essere»57. Assunta allora la Beiderseitigkeit des “soeben”, la bilateralità del “proprio ora”, sia nella direzione ritenzionale – proprio ora, appena, percepito – che in quella protenzionale – proprio ora, or ora sul punto di essere perce-pito – si può caratterizzare la pre-memorazione (distinta dall’aspet-tazione per il suo carattere intuitivo) non come «lo stato vivente del venire proprio ora, del divenire, concepito nel [suo] sopraggiungere, ma di ciò che diviene in quanto futuro»58. Se cioè la rimemorazione è una riproduzione che conferisce a ciò che è riprodotto il carattere della datità-di-nuovo [Wiedergegebenheit], ovvero quello dell’essere-stato effettivamente reale, la pre-memorazione riproduce, a sua volta, qualcosa che, però, designa come Vor-wiedergegebenheit, come l’anti-cipazione di qualcosa che si darà di-nuovo, di qualcosa che sarà-stato effettivamente reale.

Tuttavia queste specificazioni ancora non bastano, qualora si cerchi di intendere propriamente in che cosa consista un’intuizione aspettativa. Laddove, infatti, una prememorazione, in tutta la sua estensione, comprende i due lati del “proprio ora” prolungando il contorno, ancora non determinato, delle intenzioni del non-ancora, ad un’intuizione aspettativa – che pretenda davvero la rappresen-tazione intuitiva del progettato – appartiene, invece, solo il tratto terminale. L’oggetto di questa pretesa intuitiva non si esprime come: dato come è-stato ed ancora-è, allora sarà o potrà essere così e così; ma come: in analogia di come è-stato ed ancora-è, sarà o potrà esse-re così e così. Nell’intuizione aspettativa è cioè, per così dire, solo implicita l’induzione immediata dell’intera datità protenzionale; ed è implicita come la sua legge essenziale. La legalità essenziale della Welt-Naturgeschichte, della storia naturale del mondo e dello stesso mondo come la sua storia naturale.

In un manoscritto dell’ottobre del 1929, dedicato, singolarmente, alla relazione tra Storia naturale e passato del ricordo nella sfera primor-diale, Husserl annota che «l’induttivo è la concreta tipica del mondo empirico, completamente induttiva, quanto alla sua formazione di

57 Id., Sulla dottrina delle intuizioni e dei loro modi, in Id., Sulla fantasia. Ma-noscritti 1918-1924, cit., pp. 67-68.

58 Ivi, pp. 68-69.

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senso completamente originaria. Nello stile induttivo vi è eo ipso un Generale-Storico [Allgemein-Historisches]. Ogni flusso nell’esperienza è storico. Vedendolo, lo colgo come fluente da un essere fluito da qualche dove – ed infine sono rimandato ad una fonte e da essa sono reindirizzato ancora una volta. Nel piccolo come nel grande vi è una concreta “Storia naturale”, e, nell’accadere del mondo empirico, ogni fase è retta da una tipica induttivo-causale delle particolari circostan-ze che possono essere seguite»59. Questa generalità tipico-storico-naturale prescrive la regola di ogni intuizione aspettativa, e di ogni giudizio percettivo ad essa riferito, il quale, una volta assunta nor-mativamente una tale induttività storico-naturale, si giustifica come una deduzione, come un’implicazione per analogia dall’essente-stato. Un’intuizione aspettativa non è, quindi, impropria o indeterminata, perché è induttiva, e così al giudizio percettivo, che la esprime, non conviene il modo della problematicità, perché è un’induzione; esso è piuttosto una particolare forma di deduzione, un entimema, che però non muove da un segno o da un’opinione notevole60, ma semplice-mente dall’opinione originaria, dall’Urdoxa che è la storia naturale del mondo empirico. Orbene, giacché qualsiasi modalità dossica è una forma di posizione, una forma tetica, si può certo riconoscere nell’Urdoxa, nella forma originaria non-modalizzata della credenza, un porre originariamente, un’Archi-thesis, ma per nulla una Hypo-thesis, una posizione a fondamento, una supposizione iniziale. Ed è proprio lo scarto tra Archithesis e Hypothesis a fornire una porta d’ac-cesso alla comprensione della differenza che sussiste tra la molteplicità definita del mondo naturale, così come può essere intesa dalla feno-menologia della conoscenza naturale, e quella che invece viene messa in forma dalle scienze della natura. Una differenza, però, che – solo se esposta e conservata come tale – può consentire una correlazione ed un confronto più fecondi tra fenomenologia e scienze naturali. Ed il difficile nesso tra conoscenza previsionale ed esperienza induttiva, oltre che la questione circa la loro verificabilità, ne forniscono, forse, la migliore delle opportunità.

59 Id., Späte Texte über Zeitkonstitution (1929-1934). Die C- Manuskripte, Hua, Materialen Bd. VIII, hrsg. von D. Lohmar, Dordrecht 2006, p. 162.

60 Cfr. Aristotele, Analitici Primi, II, 27, 70a 10 e sgg.

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Proprio perché la tipica storico-naturale rappresenta una pre-messa implicita, quantunque costituisca la cornice legale per ogni intenzione del non-ancora, essa non consente affatto la sua veri-ficazione, ma rende solo «essenzialmente possibile la coscienza di corroborazione»61. Almeno dieci anni prima, quindi, che divampi a Vienna la disputa sulla possibilità della verificazione empirica per le scienze – e sulla sua necessità – ed a quasi venti dalla pubblicazione della Logica popperiana, che ne sancirà in qualche modo l’esito, nelle sue Lezioni di Logica, Husserl affronta il tema della differenza tra verificazione e corroborazione, nel quadro di una più comples-sa definizione di supposizione e pretesa, possibilità e probabilità. Bisognerà però tenere a mente che – durante il corso friburghese – Husserl modifica profondamente quello che sarà il lessico viennese: egli utilizza, infatti, Bewährung, per indicare la verificazione attiva, ed, invece, Bewarheitung, Verstärkung e Bestätigung per designare la serie passiva di corroborazione, rafforzamento e ratificazione62. Ciò che ad ogni modo rileva è che le possibilità di una più accurata determinazione di un’intuizione aspettativa e di un maggiore livello di credibilità per un giudizio percettivo ad essa riferita, sono delimi-tate controfattualmente dalla tipica dell’unità del mondo (storico-)naturale. Questa è infatti l’unica legge essenziale che, derivando dalla medesima struttura intenzionale dell’esperienza, consente di decidere in anticipo sulla non-verificabilità o non-refutabilità di un asserzione previsionale. Una presentazione che si dà da se stessa inin-terrottamente e che si connette, in maniera concordante, con altre presentazioni, può rafforzarsi e può fornire un ulteriore indizium per una prontezione consimile; tuttavia per quanto possa aumentare il grado della sua corroborazione, «questa non può essere confusa o identificata con la verificazione. Un’intenzione riguardo al futuro può subire una rottura ed una modalizzazione in ragione dell’ambito della conoscenza acquisita – una credenza empirica motivata che, in virtù di una parziale armonia, per un verso, coincide con la credenza già data, per un altro, vi confligge»63.

61 E. Husserl, Analyse zur passiven Syntesis, cit., p. 258.62 Ivi, pp. 69 e sgg. 63 Ivi, p. 258.

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Da qui allora possiamo ricavare due risultati teorici: la giustifi-cazione dei giudizi generali dell’esperienza e quella della fondatezza delle asserzioni sul futuro mediante le esperienze fatte: nonostante quella che compare come l’Appendice II ad Erfahrung und Urteil sembra sovrapporre le due Berechtigungen, si tratta di due capitoli evidentemente differenti. Da un lato, abbiamo la questione circa l’ammissibilità in generale di «una certa relazione di esperienza, di questa o quella legge naturale ed anzi della legge delle leggi, ossia del principio che ogni essere ed accadere sia racchiuso da un’unica connessione di leggi estesa per tutta la natura e per tutto il tempo»64. Dall’altro, invece si trova invece la sostenibilità di un’affermazione relativa al realizzarsi di un certo effetto, non ancora presente, in relazione ad una certa condizione, già presente o presentificata come livello elementare dell’espressione. Da un lato – come sostiene lo Hume, con cui qui Husserl conduce un serrato confronto – l’asserto generale, dall’altro, quello singolare. E, a dire il vero, potremmo aggiungere tra queste due modalità, anche quella tipica, che pur essendo generale, non implica la formulazione di un giudizio in gene-rale. La giustificazione razionale di una relazione ideale – come quel-la che insiste in generale tra le condizioni C ed il subentrare [Eintritt] dell’evento E – consiste «nel fatto che noi possiamo assumere le leggi della relazione nella coscienza adeguata della generalità e che por-tiamo alla sua chiarezza il senso di una tale evidenza in generale e, quindi sappiamo che il valore oggettivo delle leggi sta proprio nella possibilità ideale di una siffatta coscienza generale adeguata»65. E pos-siamo avere una tale coscienza di generalità in virtù di quelle forme di unità essenziali che dall’unità della percezione, all’unità tipica all’unità eidetica presentano ogni volta, in modo diverso, la relazio-ne dell’uno nei molti. La legge d’essenza che ne deriva è la legge di una einzige gesetzliche Zusammenhang, di un’unitaria connessione di leggi, che prescrive le norme di credibilità e, quindi, di probabilità agli asserti singolari. La giustificazione di una tale legge è quella di una proposizione in sé, di una proposizione necessaria e verificata già nella legalità delle esperienze compiute (e compibili), ma non

64 Id., Esperienza e Giudizio, cit., p. 955.65 Ivi, p. 961.

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rimandata alla verificazione delle esperienze da compiere; quella che invece riguarda gli asserti singolari è la giustificazione di proposizioni probabili ovvero della loro ammissibilità in quanto probabili, e non semplicemente possibili. Dato quindi il principio delle probabilità, «ogni affermazione di probabilità, sia pure simbolica o parzialmente intuitiva, è allora giustificata ed è una giusta affermazione quand’essa si può commisurare [anmessen] all’empiria originaria e autentica»66. La commisurabilità è, pertanto, la prescrizione del principio, mentre la commisurazione è la relazione di volta in volta rafforzata o infiacchita con l’Empirie: la commisurabilità è semplicemente vera, ma non verificabile, la commisurazione, invece, è corroborabile. Dal princi-pio si deduce la possibilità ideale della verificazione [Verifizierung] di un’affermazione empirica, ovvero che sia possibile che essa in rela-zione alle precedenti esperienze, all’essente-stato, incrementi il suo grado di corroborazione. Una tale regola di verificazione, però, non prescrive alcuna norma di verificabilità. Un’affermazione empirica è verificabile se non è impossibile che sia probabile, se è decidibile quanto alla sua probabilità. Laddove trovasse conferma ne sarebbe corroborata e non verificata, nonostante, in quanto corroborata, verifichi la propria verificabilità.

3. Testimonianza e notizia.

Alla duplicità della misura che ricorre nella commisurabilità di un’affermazione empirica – rispetto al giudizio generale circa la mol-teplicità definita del mondo naturale e rispetto al peso dell’esperienza pregressa – dovremmo ancora affiancare, nel caso di affermazioni logico-empiriche, quelle cioè proprie delle scienze naturali, l’ulteriore livello della commisurazione rispetto alla molteplicità definita della teoria scientifica. In ragione, allora, della centralità e della polisemia dell’Anmessenbarkeit, dovrebbe essere del tutto agevole comprendere come una fenomenologia della conoscenza naturale sfugga a ciascuna delle tre differenti concezioni della conoscenza umana, elencate da Popper. Non ricade infatti nell’essenzialismo – che dietro le apparen-

66 Ivi, p. 967.

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ze cercherebbe la natura delle cose – né nello strumentalismo – che, in qualche modo, condividendo con il precedente la convinzione della inaccessibilità dell’essenza vera, assegnerebbe alle scienze il compito di escogitare strumenti e finzioni previsionali; ma, a ben vedere, non coincide affatto neanche con un realismo critico, che assuma l’indiscusso presupposto di una verità = accordo con la realtà (esterna)67. Mentre però la distinzione da quest’ultimo percorre il filo sottile di una diversa nozione dell’esperienza e della suddivisione tra le regioni ontologiche68, la distanza rispetto ai primi due indirizzi potrebbe essere riassunta nei termini della critica husserliana al rea-lismo segnico, a quell’atteggiamento teorico che consiste nell’ipotiz-zare una realtà nascosta, inapparente, di cui quella apparente sarebbe soltanto un segno, la prova cioè che la vera causa ha prodotto sotto i nostri occhi un effetto verificabile.

Si può, del resto, trovare in Husserl – come del resto si è già visto69 – l’anticipazione letterale del principio di Duhem-Quine, che sostiene l’impossibilità di controllare un singolo asserto scientifico mediante una singola esperienza e quindi la necessità di mettere a confronto, invece, il sistema della teoria fisica e quello dell’esperien-za. Questo però potrebbe fornire una motivazione solo superficiale per iscriverlo di diritto al circolo degli strumentalisti: da Osiander, in poi, lo strumentalismo implica una versione sin troppo semplifi-cata del concetto di ipotesi e quindi uno scadimento da una metrica archi-tetica – di cui abbiamo cercato di mostrare, in precedenza, i primi tratti attraverso le riflessioni husserliane – ad una metrica ipo-tetica70. Si riaffaccerebbe così l’antico fantasma dello hiatus irrationa-

67 K. R. Popper, Tre punti di vista a proposito della conoscenza umana, in Id., Scienza e filosofia. Problemi e scopi della scienza, ed. it. a cura di R. Lanfredini, Torino 2000, p. 41. Cfr. Nota introduttiva, ivi, pp. XIV-XV. Cfr. A. Tarski, The Concept of Truth in formalized Languages (1933), in Id., Logic, semantics and metamathematics (1923-1938), Indianapolis 19832, pp. 152-278.

68 Cfr. K. R. Popper, Objective Knowledge. An evolutionary Approach, Ox-ford 1972; Id. (with J. C. Eccles), The Self and the Brain. An Argument for Interactionism, New York 1977.

69 Cfr. supra, Cap. I, riguardo a E. Husserl, Wahrnehmung und Aufmerk-samkeit, cit., p. 252.

70 Per un’interpretazione strumentalistica dell’epistemologia fenome-nologica si veda invece F. Lurçat, Understanding Quantum Mechanics with Bohr

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lis, questa volta, tra rappresentazioni astratte ed esperienza fisica, tra linguaggio simbolico e fattualità naturale, la cui chiusura può avveni-re solo attraverso l’appello al buon senso – ad una sorta di fondazione mistica dell’autorità scientifica (come in Duhem71) – oppure in gra-zia dell’indissociabilità tra stimolo fisico e risposta linguistica (come in Quine72). Ma questi sono due esiti semplicemente contraddittori per una fenomenologia della conoscenza naturale, come quella a cui fino ad ora ci siamo dedicati.

Tuttavia, anche dall’operazione della misura può sorgere un altro aspetto del realismo segnico, come dimostra l’epistemologia whitehe-adiana Dopo aver inaugurato una nuova filosofia della percezione, capace di far acquisire una più piena intelligenza della conoscenza naturale, a partire dal riconoscimento che la significanza empirica [Significance] consista nella correlatività [Relatedness] delle cose73, Withehead approda ad una peculiare differenziazione della natura tra caratteri apparenti e caratteri causali74. «Bisogna distinguere – scrive nella sua Enquiry – tra una goccia d’acqua così come appare, l’evento che è questa situazione, ed il carattere dell’evento che causa l’evento a presentare quell’apparenza. […] Il primo è il carattere apparente ed è un oggetto materiale; il secondo è il carattere causale e, secondo la

and Husserl, in L. Boi, P. Kerszberg, F. Patras (eds.), Rediscovering Phenomenolo-gy. Phenomenological Essays on Mathematical Being, Physical Reality, Perception and Consciousness, Dordrecht 2007, pp. 229-258.

71 P. Duhem, La Théorie physique. Son objecte e sa structure, Paris 1906, in part. p. 328.

72 W. O. Quine, in The two Dogmas of Emiricism (1951), in Id., From a Lo-gical Point of View, Cambridge, 1953, pp. 20-46, sostiene che l’insieme delle nostre conoscenze, dalla geografia alla storia alla fisica, fabbricato per mano dell’uomo, tocca solo le rive dell’esperienza; esso è un campo di forze le cui condizioni limite sono date dall’esperienza. Per comprendere come il saggio qui-neano si ponga all’interno della profonda revisione a cui la filosofia analitica ha sottoposto la tradizione empirista negli ultimi cinquant’anni, si vedano almeno W. Sellars, Empiricism and Philosophy of Mind, Minneapolis 1956; P. K. Feyerabend, Science without experience in «The Journal of Philosophy», 66, 22, 1969, pp. 791-794, e D. Davidson, Inquiries into Truth and Interpretation, New York 1984.

73 A. N. Whitehead, Enquiry concerning the Principles of Natural Knowledge, Cambridge 1919, pp. 12 e sgg.

74 Ivi, p. 182.

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dottrina della scienza, non è un oggetto materiale»75. L’oggetto fisico è quell’oggetto materiale, percepibile, apparente e quindi potenzial-mente deludente [delusive] o ingannevole, da cui sia stata sottratta ogni delusiveness e che sia così correlabile ad un carattere causale. Il passaggio che consente l’individuazione piena dell’oggetto fisico, ovvero il risalimento dall’apparenza alla causa, sebbene la conoscenza della natura sia confinata alla coscienza dell’apparenza, è la misu-razione. «Ogni misurazione è misurazione dell’apparenza. Perciò evidentemente i caratteri causali possono essere conosciuti diretta-mente solo come funzioni di caratteri apparenti. Sono caratteri di caratteri. Per esempio, una quantità che assegniamo ad un oggetto fisico come risultato di alcune misurazioni è un carattere del suo carattere apparente»76. Così, guadagnando in semplicità, permanenza ed autosufficienza, dai dati sensibili si risale al percepito, da questo all’oggetto scientifico e dagli oggetti scientifici complessi agli ultimi oggetti scientifici, che tuttavia dovranno risultare adeguati a definire i caratteri apparenti. Tale adeguatezza non potrà che essere dimostra-ta da una serie di esperimenti concordanti che testimonieranno del legame tra il carattere causale e quello apparente, della causazione, cioè, che il primo attua sul secondo. «Il carattere causale della situa-zione di un oggetto fisico è il fatto che questa situazione contiene un certo assemblaggio di oggetti scientifici ultimi»77. E questo fatto è in carico alla testimonianza dell’esperienza.

La testimonianza parla lo stesso linguaggio teologico della coscienza profetica, così come la storia naturale baconiana ripeteva i passi della Historia de prophetia. Tanto questa si divide tra profe-zie ed avveramenti78, quanto quella riesce ad interpretare la natura attraverso quell’induzione vera e legittima che giunge ad individuare l’istanza della propria verifica79. Ambedue assicurano non di antici-pare, ma di indovinare il futuro80, seguendo, con rigore, gli ammae-

75 Ivi, p. 183.76 Ivi, p. 185.77 Ivi, p. 189.78 F. Bacone, De Dignitate et Augmentis Scientiarum (1623), in Id., Scritti

filosofici, ed. it. a cura di P. Rossi, Torino 1975, p. 214. 79 Id., Instauratio magna (1620), II, 8, ivi, p. 650.80 Cfr. Id., Temporis Partus Masculus (1653), ivi, pp. 115-117.

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stramenti dell’Agostino dell’Enarratio in Psalmos: «non crediate che narriamo di cose passate, noi prediciamo il futuro […], affinché ciò che si sarebbe dovuto rivelare soltanto alla fine dei secoli, venga annunciato in figure di eventi e di parole a coloro che precorsero gli eventi»81. E la veridicità della profezia – segnalata da quel si sarebbe dovuto rivelare – si conquista giusto nell’interpretazione delle figure o delle tavole delle forme.

Ancora Kant avrà a scrivere, nella La religione nei limiti della semplice ragione, che «[la scienza della Sacra Scrittura] non è richie-sta solo per dimostrare l’autenticità (Beurkundung) divina della Scrittura, ma anche per la sua interpretazione (Auslegung)»82. Ma cosa accade quando la Beurkundung non rimanda più all’integrazione di un’Auslegung? Cosa ne è della coscienza profetica? Questa sarebbe la formulazione corretta della domanda che Husserl poneva sul finire della prima decade del secolo scorso. E cosa ne è della coscienza profetica in una Naturkunde fenomenologica, in una fenomenolo-gia della conoscenza naturale, che muove dal Sich-Berurkunden von Erfahrungsgegenständlichkeit83?

Perché possano anche solo essere correttamente sollevati i proble-mi della costituzione della realtà scientifico-naturale – che sorgono «nel contesto di una conoscenza multiforme e nelle connessioni conoscitive della scienza della natura – è necessaria la soluzione dei problemi posti dal pensiero logico-matematico e, dal lato della conoscenza empirica, la chiarificazione non solo dei livelli inferiori dell’esperienza che precedono ogni deduzione ed induzione – in breve, di quell’esperienza che precede ogni conoscenza che sia logi-camente mediata, nel senso abituale del termine – ma, a maggior ragione, anche la chiarificazione dei livelli superiori»84. Questa è l’aspirazione malinconica, sehnsuchtvoll, che Husserl mette in capo alle sue indagini gottinghesi e che, in qualche modo, continuerà a seguirlo, come attesta il richiamo, compiuto in Idee I, alla cosalità

81 Agostino d’Ippona, Enarratio in Psalmos, 113, 1; cfr. E. Auerbach, Studi su Dante, Milano 2005, p. 201.

82 I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, in Id., Scritti morali, a cura di P. Chiodi, Torino 1995, p. 439.

83 E. Husserl, Ding und Raum, cit., p. 8. 84 Ivi, p. 4.

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che, come un phänomenologischer Leitfaden, lega l’unità di qualcosa che si manifesta alla cosa fisica, al qualcosa logico-sperimentale85. Ed è infatti ancora sehnsuchtvoll l’ammissione che «non venne mai afferrato il profondissimo senso fenomenologico della “origine della rappresentazione dello spazio”»86, che avrebbe dovuto avviare alla chiarificazione dei differenti livelli di esperienza che compongono la conoscenza naturale.

Il filo conduttore sarebbe dovuto essere proprio quel darsi come prima notizia di sé degli oggetti empirici a cui fa cenno il Sich-Beurkunden. Ma questo filo è quello dei costrutti di Kund che Husserl aveva iniziato a tessere già nella prima delle Ricerche Logiche. Kund non è semplicemente bekannt, ciò che si assume semplice-mente come noto, ma che, come avrebbe notato Schlick, non è conosciuto, erkennt; è piuttosto il farsi notizia del noto, il divenire-noto. Kund non è però nemmeno Beweis, prova o testimonianza che la notizia esibisce a favore di ciò che è divenuto noto87. La prima formazione che si riscontra, in Husserl, è quella della Kundgabe, del dare notizia e della sua differenza dall’Ausdruck, dall’espressione, e che essa sia tutt’altro che piana o marginale lo dimostrano le riprese che Husserl ne farà nel tentativo di riscrivere, nei primi anni Dieci, la Sesta Ricerca88. «Possiamo intendere – scrive Husserl – questo essere reso noto in un senso più ristretto ed in uno più ampio. Nel senso più ristretto, ci limitiamo agli atti di conferimento di senso, mentre nell’accezione più estesa comprendiamo tutti gli atti di colui che parla, atti che l’ascoltatore gli attribuisce sulla base del suo discorso

85 Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, cit., pp. 372-375.

86 Ivi, p. 374.87 Per una differenziazione tra Kund e Beweis si vedano le pagine che

Lask dedica proprio alla lettura della Prima Ricerca Logica; cfr. E. Lask, Zum System der Logik, in Id., Gesammelte Schriften, cit., III, p. 81.

88 Si vedano il Beilage LIV, Das Ausdrücken in theoretischer und in kundge-bender Absicht (1910) ed il testo n. 36, Gehören Glauben, Urteilen und Erkennen zum Wesen des Ausdrückens (1912-13), in E. Husserl, Logische Untersuchungen. Ergänzungsband – Zweiter Teil Texte für die Neufassung der VI. Untersuchung. Zur Phänomenologie des Ausdrucks und der Erkenntnis (1893/94–1921), Hua, Bd. XX/2, hrsg. von U. Melle, Den Haag 2005, rispettivamente pp. 426-428 e pp. 453 e sgg.

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(eventualmente perché in questo si parla di essi)»89. È lecito, dun-que, intendere qui nell’accezione più ampia della notificazione, del rendere noto qualcosa, una gamma di atti linguistici, ove il carat-tere di rimando segnico, o di segnalazione, comprende modalità performative che talora sostengono soltanto il discorso, talaltra lo fortificano, talaltra ancora ne assolvono completamente il compito. Nell’esempio, cui di seguito fa cenno Husserl, quello del pronunciarsi su un desiderio, la possibilità che l’ascoltatore percepisca attualmente il vissuto, che l’enunciato reca in sé, è senza dubbio riconsegnato all’icasticità del gesto, dell’intensità non solo linguistica, vale a dire del tono, della selezione terminologica, del peso figurativo, in cui si assolve la comunicazione. «Per ogni nome – nota Husserl – si distingue tra ciò che esso “rende noto” [“kundgibt”] e ciò che signi-fica. Ed inoltre tra ciò che significa (il senso, il “contenuto” della rappresentazione nominale) e ciò che esso denomina (l’oggetto della rappresentazione)»90.

La possibilità di questa distinzione diventa più difficile quando contenuto ed oggetto si risolvono nella medesima Kundgabe e ciò accade quando le espressioni si trovano in una relazione nominativa con il contenuto del dare-notizia. Queste possono definirsi espressio-ni essenzialmente occasionali, in quanto ad esse «inerisce un gruppo concettuale unitario di significati possibili in modo tale che sia per essa essenziale orientare il suo significato attuale secondo l’occasione, la persona che parla e la sua situazione»91. Di una tale classe fanno parte i nomi propri, i pronomi personali, i dimostrativi, i deittici e tutti i costrutti in cui l’articolo determinativo riferisce una denomi-nazione generale a qualcosa di individuale, come quando «se di sera chiediamo il lume, ognuno intenderà il proprio»92. Nell’occasionalità del dare notizia si rivela la radice avverbiale-locale dei pronomi per-sonali – come bene intese Heidegger facendo delle espressioni occa-sionali una leva per la riforma della fenomenologia in cui a lungo si sarebbe impegnato93 – ma anche l’originaria radice spaziale di ogni

89 Id., Ricerche Logiche, I, cit., p. 300.90 Ivi, p. 299. 91 Ivi, pp. 349-350.92 E. Husserl, Ricerche logiche, I, cit., p. 354.93 M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 308 e sgg.

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grammatica pura. Nei deittici la di volta in volta diversa rappresen-tazione [jeweilige Vorstellung] di questo luogo assume la funzione generale di nominare la räumliche Umgebung der redenden Person, il contorno spaziale della persona che parla94. E questo costituisce il massimo grado di equivocità, o di vaghezza, delle espressioni occa-sionali, ma anche il loro massimo grado di univocità: qui è sempre lo stesso per tutti i luoghi che ciascuno può effettivamente indicare; qui può essere però anche l’unico nome in cui il luogo diviene proprio lo stesso luogo. In esso, l’unità dello Stesso è la sua unicità, il suo farsi-uno proprio qui95.

Tuttavia occasionali possono essere anche le espressioni «con le quali lo scienziato accompagna le proprie attività mentali o rende noto [Kunde gibt] ad altri le proprie riflessioni ed i propri sforzi, i suoi apparati metodologici e le sue convinzioni provvisorie»96. Da qui, dal rendere noto scientifico, dalla lessicografia dell’esperimento e della misurazione – o della Konstatierung, per utilizzare la fraseo-logia viennese – deriva l’uso che invarrà successivamente nell’opera husserliana.

Può darsi notizia, può rendersi noto qualcosa che si è dato come prima notizia di sé – il qualificarsi di qualcosa nell’esperienza. Della Beurkundung dello schema sensibile, in cui viene percepita una cosa, Kunde gibt, si dà notizia nell’espressione logico-simbolica, e, Kunde hat, se ne ha conoscenza come di una Bekundung, di un essere-notizia dei caratteri fisici in quelli sensibili. La prima attestazione della notizia (Kunde) di qualcosa può esibirsi nella dimostrazione scientifico-naturale (di quella notizia) solo dopo, e perché, tra la ori-ginäre Bekundung e la physiche Bekundung si interpongono i termini e la grammatica del dare notizia97.

Nel significato di Bekundung resta ancora l’ambiguità improprio-

94 E. Husserl, Ricerche logiche, I, cit., p. 351.95 Cfr. Th. Kiesel, Der Zeitbegriff beim früheren Heidegger - um 1925, in

AA.VV., Zeit und Zeitlichkeit bei Husserl und Heidegger, Phänomenologischen Forschungen, Bande 14, Freiburg/München 1983, p. 199.

96 E. Husserl, Ricerche logiche, I, cit., p. 350.97 Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, II, cit.,

pp. 47 e sgg. Cfr. Ch. Ferencz-Flatz, Der Begriff der “Bekundung” bei Husserl und Heidegger, in «Husserl Studies», 26, 3, 2010, pp. 189-203.

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simbolica che gravava sulla Kundgabe: anche un’immagine o un segno annunciano, «ma non “annunciano” nello Stesso, che sono, lo Stesso, che è indicato (o raffigurato) [“bekundet” in seinem Selbst nicht das bezeichnete (bzw. abgebildete) Selbst]98. La cosa dei fisici, invece, non rende estranei questi due Stesso (che altro non sono se non misurazione e misurato), perché «in essa e solo in essa – a priori e per insopprimibili ragioni essenziali – ciò che appare sen-sibilmente e in carne ed ossa si annuncia originariamente [originär Bekundendes]»99.

La misura di quello Stesso – che è la Bekundung del soggetto delle determinazioni sensibili e di quelle della scienza fisica – è però a sua volta una Kundgabe, un annuncio, il linguaggio dell’essente-stato. La situazione di grandezza del peso di una cosa rispetto ad un’altra, sui due piatti di questa bilancia qui, dovrà poter essere espressa come lo stato di cose di una grandezza metrica, in cui resta il rapporto dell’una all’altra100. La notizia della loro misura. La notizia di uno (essente-)stato.

Ma allora la profezia si inverte: non ha testimonianze, ma solo notizie. E se è possibile una coscienza profetica della conoscenza naturale, lo è nella misura della memoria, nell’analogia metrica tra essente- e sarà-stato. Quello che a Benjamin riuscì di vedere nella sto-ria della salvezza101, Husserl lo mostra nella storia della natura. Unità, grandezza, continuità, ma anche induzione, sono forme dell’essente-stato e lettere dell’alfabeto della Naturkunde, della conoscenza della natura.

Ed allora l’unico contributo ad una fenomenologia della cono-scenza naturale – che ancora non è della natura né già della scien-za – sarebbe stato di aver rintracciato i lineamenti di un’ontologia metrica, di una scienza dell’essere dell’ente fisico, che finisce per essere la grandezza del suo essente-stato.

98 Id., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, p. 131 (tr. it. leggermente modificata).

99 Ibid.100 Cfr., B. Rang, op. cit., p. 376, in particolare la trattazione delle gran-

dezze metriche della fisica. 101 W. Benjamin, Sul concetto di storia, ed. it. a cura di G. Bonola e M.

Ranchetti, Torino 1997, p. 57.

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Finito di stampare a Napolinel mese di ottobre 2012

nelle Officine Grafiche Francesco Giannini & Figli SpA

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Felice Masi

l’arte della Misuracontributi su FenoMenologia

e conoscenza naturale

La storia della misura e dei suoi strumenti è ben più ampia di quella della scienza: è storia materiale e delle idee, degli strumenti e delle macchine, delle arti e della medicina, dei commerci e delle navigazioni. L’arte della misura, la metrica, è infatti quel tentativo di misura in cui la conoscenza del mondo naturale è ogni volta impegnata. Tentativo inevitabilmente ambiguo ed oscillante che attraversa l’intera vicenda del pensiero occidentale.

I contributi che compongono questo volume muovono dallo Husserl di Gottinga, in cui i primi abbozzi di una teoria dell’esperienza e del pensiero sono connessi alle domande della conoscenza naturale, alla determinazione del suo linguaggio ed alla formazione dei suoi concetti. Uno Husserl che – nella malinconica ricerca dell’unità di quei problemi, e di se stesso con quei problemi – trova il proprio centro nella stessa nozione di misura e nell’esperienza che di essa si fa, la Meßkunst, l’arte della misura, appunto. Attraverso un insistito confronto con la tradizione filosofica moderna di Hume e Kant, e con quella antica di Platone e Aristotele, ma anche con l’epistemologia contemporanea di Schlick e Carnap, Whitehead e Popper, si tenta così non certo di ricomporre una fenomenologia della natura, ma almeno di fare luce su una relazione – quella con la cosa naturale – a cui è appeso il Göttingen-Projekt e la formazione della fenomenologia come filosofia trascendentale. Come filosofia della misura.

Felice Masi è Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi di Napoli Federico II. Tra le sue ultime pubblicazioni: Emil Lask. Il Pathos della Forma, Macerata 2010, ed I modi della figura. Tre studi per un’estetica eidologia, Napoli 2011. Per questi stessi tipi, ha curato l’edizione italiana di Edmund Husserl, Sulla fantasia. Manoscritti 1918-1924, Napoli 2009 e ha pubblicato, con Maria Teresa Catena, Fenomenologia e Critica della Ragione, Napoli 2008.