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Page 1: Elif Shafak “La mia patria si chiama Storilandia” · la innamorata?”. Ma dove non c’è democrazia, quelli che si ubriaca-no cominciano a frignare: “Cos’è successo al

laRepubblica VENERDÌ 11 NOVEMBRE 2016

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Vengo da un paese in cui le parole sono pesanti come ta-

vole di pietra. In Turchia qualunque scrittore, poeta e

giornalista sa di poter passare dei guai per via delle pa-

role: può essere stigmatizzato e demonizzato nel giro

di un giorno o di una settimana a causa di una poesia, di

un articolo, di un romanzo, di un’intervista, di un tweet o anche solo

un retweet; può venire linciato sui social e aggredito dai media filo-

governativi. Da un momento all’altro può es-sere definito “traditore”. Può essere querela-to, processato, fermato, arrestato e persino incarcerato, oppure esiliato. E tutto per via delle parole. Di conseguenza, tra gli intellet-tuali e artisti turchi è diffusissima l’autocen-sura: inclinazione, però, molto difficile da af-frontare, e ancor più da ammettere, nonché vagamente imbarazzante. Pochissimi la rico-noscono apertamente. Ma la verità è che nel-la Turchia odierna c’è troppa tensione, trop-pa persecuzione, troppa pressione, troppa paura, e ovunque convivano simultaneamen-te questi quattro elementi — tensione, perse-cuzione, pressione e paura — non può non es-serci autocensura.

Questo clima di paura colpisce particolarmente le giornaliste, le intellettuali e le scrittrici, perché le aggressioni verbali che subia-mo sono quasi sempre venate di sessismo, misoginia, turpiloquio. Un romanziere maschio è conside-rato un romanziere e basta; nessu-no si sofferma sul fatto che sia un uomo. Non ce n’è bisogno. Per una romanziera in genere è il con-trario: è vista in primo luogo co-me “donna”, e solo dopo come in-tellettuale o scrittrice. La Turchia è una nazione profondamente conservatrice, patriarcale, domi-nata dai maschi e omofoba, e il suo ambiente letterario non è da meno. Sì, nella mia patria le paro-le sono pesanti. Che fare, però, se si è scrittori e fin dall’infanzia le parole sono le nostre migliori ami-che? Che fare, se l’immaginazio-ne è la nostra casa, il nostro rifu-gio, il nostro paradiso, ma anche la causa del nostro esilio senza fi-ne? Che fare, se non continuare a scrivere?

Essere turchi significa preoccuparsi co-stantemente per la propria patria. È una sen-sazione che sa di solitudine benché, tecnica-mente, siamo più di 80 milioni. Come nazio-ne siamo abituati a dosi altissime di ansia, at-tacchi di panico, stress continuo e profonda malinconia, ma la depressione non è mai sta-ta grave come oggi: temo davvero che siamo diventati un paese clinicamente depresso. Non ridiamo più come una volta, in televisio-ne non si trovano programmi comici in cui si prendono in giro i politici, non più. Abbiamo

perso il senso dell’umorismo. Quando in una nazione comincia a indebolirsi la democra-zia, forse il senso dell’umorismo è la prima co-sa che si perde.

Mi è capitato di leggere un’intervista in cui una scrittrice statunitense diceva che scri-ve d’amore e di sofferenza perché queste so-no le cose di cui parla la gente a tavola. L’affer-mazione mi ha fatto riflettere. In Turchia, a tavola, il nostro argomento preferito è un al-tro: la politica! Certo, anche noi turchi e curdi, quando ci vediamo, parliamo d’amore e di sof-ferenza, ma passiamo altrettanto tempo, se non di più, a incattivirci sulla politica. In Tur-chia la politica di tutti i giorni è aggressiva,

maschilista, pervasiva e divisiva. E carica di emotività. A guidarla so-no le emozioni, non la ragione e non la logica. E i sogni, i sogni di una rinascita ottomana. Al con-tempo, noi turchi siamo costante-mente preoccupati per il futuro, non necessariamente remoto; ci preoccupiamo per l’indomani, per l’istante successivo. La politica di-vide le persone, crea problemi in famiglia e rovina amicizie. I miei amici scrittori pachistani, egizia-ni, colombiani, mi dicono che an-che da loro è all’incirca lo stesso, e per questo motivo chi fa lo scritto-re in uno di quei paesi non può con-cedersi il lusso di essere apolitico.

Un personaggio del mio nuovo romanzo Tre figlie di Eva, un im-piegato in pensione di nome Men-sur, dice: «In democrazia, quelli che si ubriacano cominciano a fri-gnare: “Cos’è successo alla mia bel-la innamorata?”. Ma dove non c’è democrazia, quelli che si ubriaca-no cominciano a frignare: “Cos’è

successo al mio bel paese?”». Questa è la tri-ste domanda che oggi si pongono migliaia di cittadini turchi: «Cos’è successo al nostro bel paese?».

Quando la politica è troppo oscura e depri-mente, troppo spenta e limitata, la letteratu-ra ci spalanca porte nuove nell’anima, ci aiu-ta a respirare libertà. A ricordare che l’umani-tà è più grande delle persone prese singolar-mente, e che l’infinito è più grande di questo particolare momento. Quando la cosiddetta “vita vera” è esasperante, la letteratura è l’u-nico mezzo che abbiamo per conservare la sa-

lute mentale.Faccio la pendolare fra Istanbul e Londra,

e anche fra la lingua turca e quella inglese. Ogni nuovo romanzo lo scrivo in inglese, poi un traduttore professionista lo volge in tur-co, dopo di che io riprendo la traduzione e la ri-scrivo con il mio ritmo personale. Creare un romanzo in due diverse lingue è molto fatico-

so, ma è una fatica che amo. Le parole mi os-sessionano. Nel profondo, sono ipnotizzata dall’alfabeto. Le lettere: non è forse magica, l’idea che con un numero limitato di lettere si possa creare un infinito numero di significati e interpretazioni?

Ogni lingua ha i suoi punti di forza, la sua musica. Non siamo gli stessi, quando parlia-mo in un’altra lingua. Cambiamo voce, cam-bia persino il nostro linguaggio del corpo. Quando scrivo in inglese riesco a vedere la Turchia più da vicino; a volte, per vedere qual-cosa in maggior dettaglio, occorre fare un passo indietro. I libri che ho scritto, nei quali ho messo in discussione i tabù sociali, politici, sessuali della Turchia, quegli stessi libri non li avrei potuti scrivere se mi fossi espressa in turco. Col passare del tempo mi sono accorta che se scrivo di satira, di sarcasmo, di umori-smo, mi riesce più facile in inglese. Se scrivo di malinconia, di perdita, di desiderio, mi rie-sce più facile in turco.

Quando mi chiedono: «Dove stai di casa?», vorrei sempre rettificare: «Di case, per piace-re. Perché non al plurale?». Non potremmo avere più di una casa, più di una patria, più di un amore? Non potremmo essere multipli? Contro la solidità della politica identitaria, di-fendo la fluidità delle appartenenze culturali. Questo nuovo secolo è il secolo delle migrazio-ni, dei trasferimenti, dei movimenti. È il seco-lo delle persone che sognano in più di una lin-gua. Ebbene sì, il nostro cervello non ricono-sce alcuna frontiera nazionale, religiosa, etni-ca. Il nostro cervello è perfettamente in gra-do di sognare in più di una lingua.

Possiedo una patria portatile. E so bene che, per quanto io possa essere stata nomade per tutta la vita, questa mia travagliata pa-tria mi segue come un’ombra. I molti proble-mi della Turchia mi occupano la mente, mi op-primono il petto, mi gravano sull’anima, mi invadono il sonno. Ma so anche che per gli scrittori, per chi in tutto il mondo racconta storie, c’è una sola vera terra.

Si chiama Storilandia. Traduzione di Daniele A. Gewurz e Isa-

bella Zani.

IL LIBRO

Tre figlie di Eva di Elif Shafak (Rizzolitraduzionedi Daniele A. Gewurz e Isabella Zani pagg. 448euro 20)

CONTATTI

[email protected]

Elif Shafak“La mia patriasi chiamaStorilandia”

©RIPRODUZIONE RISERVATA

ELIF SHAFAK

L’INCONTRO

A BOOKCITY

Elif Shafak inaugura a Milano BookCity, il 17 novembre alle 19 al Teatro Dal Verme

La scrittrice turca ci racconta

come si vive tra due culture