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EDGAR ALLAN POE Scritti Ritrovati a cura di Francesco Mei

traduzione e cura di Francesco Mei Prima edizione mondiale Scritti Ritrovati Shakespeare and Company, ottobre l984

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IntroduzioneLa figura inquietante e misteriosa di Edgar Allan Poe è così strettamente legata a tante esperienze della mia vita, e la mia ultima lettura delle sue opere risale a un periodo così lontano nel tempo, che a volte mi riesce difficile stabilire quando fu esattamente che l'interesse suscitato in un primo tempo, dal piacere innocente della frequentazione delle sue pagine si sia trasformato, da occasione casuale di svago, in assorbente e quasi ossessiva attrazione, prima ancora che in oggetto deliberato e appassionato di studio. Credo che sia difficile un po' per tutti coloro che lo hanno letto anche una sola volta dire quando abbiano « scoperto » Poe: Poe, non si sa come, sembra che sia stato sempre là, come una presenza familiare anche se sconfortante, nella vita. Lo si può aver letto da adulti, ma era già tra le prime letture dell'adolescenza, e forse faceva parte addirittura di quella zona anche più nebulosa e remota, in cui sono immersi gli stessi ricordi dell'infanzia. Almeno nella nostra cultura. Poe, sembra fare tutt'uno con quei terrori primitivi, che coesistono con gli archetipi stessi della nostra psiche, e con le speranze, i sogni e i desideri non meno elementari e radicati, anche se impossibili ed assurdi, che li accompagnano. Ma per ciò che mi riguarda, ho a volte la sensazione di avere incontrato Poe più volte, se non come una persona reale, certo come una specie di doppio, simile all'alter ego che egli descrive così magistralmente in William Wilson, in vari momenti della mia esistenza, tanto è stato il potere di identificazione quasi ossessiva che egli sembra avere esercitato su di me con il fascino della sua personalità inquieta e inafferrabile, percossa da un brivido vagamente demoniaco. Devo confessare tuttavia che se è stato in qualche modo piuttosto arduo per me approfondire la conoscenza di Poe nel senso di una fredda ricerca accademica, in compenso la lettura dei suoi scritti mi è stata sempre di ineguagliabile conforto proprio nei momenti più drammatici e disperati dell'esistenza, contrassegnati dalla malattia, dalla perdita di una persona cara, dalla presenza di un incombente pericolo o dalla stretta di una malinconia senza rimedio, quasi che la sua vivida rappresentazione di stati morbosi di sgomento e di angoscia immaginaria operasse per me come una specie di esorcismo sulle angosce reali della vita. Tutto questo non toglie che forse è stato proprio il bisogno, più ancora del desiderio, di leggere ancora qualcosa di quest'autore, che ad un certo punto sentivo come una parte di me, come una medicina, quasi una droga, a spingermi, con la luce istintiva e un po' cieca della passione, prima ancora che con quella chiara della ragione cosciente, alla ricerca dei suoi scritti perduti e dispersi, nella speranza di trovare forse un giorno, come il protagonista del suo racconto Lo scarabeo d'oro, dietro l'indicazione di qualche logora mappa abbandonata, il tesoro nascosto dai pirati nell'isola, con qualche altra sua storia straordinaria sfuggita alle innumerevoli stampe e ristampe delle sue raccolte di racconti, di saggi e di poesie. Era solo il desiderio legittimo di leggere qualcos'altro di Poe, dopo aver esaurito tutte le edizioni disponibili delle sue opere, che mi spingeva in questa ricerca quasi morbosa dei

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suoi racconti del terrore, dell'impossibile e dell'assurdo, quasi volessi inoltrarmi in un'altra delle sue dimensioni fantastiche ancora inesplorata? o era un impulso più oscuro, leggermente perverso, che affrettava anche me, come il protagonista di un'altra sua storia famosa, « verso qualche eccitante conoscenza, qualche incomunicabile segreto », che era forse meglio ignorare? Non so. Posso soltanto dire che la mia ricerca degli scritti perduti di Poe, lungi dal seguire il sentiero tranquillo di una paziente in-dagine erudita, è stata contrassegnata da momenti di acceso entusiasmo e da lunghi periodi di disinteresse e di oblio, percorrendo un cammino tortuoso ed obliquo nello spazio e nel tempo. Come era forse prevedibile, in questa indagine avventurosa, trattandosi di un classico del racconto del terrore e di un maestro del romanzo poliziesco, ci sono stati ostacoli e trabocchetti, false piste ed abbagli; né sono mancati sul cammino, in un certo senso, gli spettri ed i vampiri. Mi è venuto spesso da pensare che uno scrittore come Poe, così amante di criptogrammi ed enigmi, che tendeva a camuffare la sua vera identità, con un gusto un po' istrionico ereditato forse dai genitori teatranti, sotto vari travestimenti e leggende, nascondendosi con diversi pseudonimi (a cominciare da quello di Edgar A. Perry con cui si arruolò a vent'anni nell'esercito degli Stati Uniti, fino a quello di Littletone Barry con cui firmò alcuni dei racconti per cui oggi è più giustamente famoso) avesse voluto deliberatamente far perdere le tracce a chiunque cercasse di trovare « i manoscritti nella bottiglia », che egli stesso aveva affidato alle acque infide dell'oceano. Ma non poteva essere piuttosto, come nella Lettera rubata, che invece quegli scritti fossero là, dove dovevano essere, talmente in vista agli occhi di tutti da sfuggire all'attenzione, e che tuttavia restassero in qualche modo invisibili, per una specie di magico sortilegio, e quasi sottile vendetta postuma, operata da uno scrittore che, come dice Baudelaire, era stato in vita esule nella sua stessa patria, « Byron égaré dans un mauvais monde », e artista perseguitato da una società ostile. Accenni all'esistenza di scritti dispersi di Poe, rimasti inediti dopo la sua morte, o mai pubblicati in volume dopo la loro prima apparizione in riviste, mi vennero fin dall'epoca del mio primo soggiorno in America come studente con una borsa di studio all'Università di Harvard. Ne parlai con Renato Poggioli e Perry Miller, autore del noto studio « Il corvo e la balena » sui rapporti tra Melville e Poe. Ricordo che Miller rimase piacevolmente sorpreso quando gli portai i primi risultati di una ricerca, del resto piuttosto esplorativa, sui rapporti tra il romanticismo americano e quello europeo, specie sull'analogia tra la poesia di Baudelaire e alcuni passi di Moby Dick; e che mi incoraggiò a proseguire nella ricerca dei testi perduti di Poe. In seguito, proseguii le indagini durante il periodo estivo a varie riprese, nelle biblioteche di università e di collezioni private americane, a Boston, Filadelfia, Chicago, New York, senza tuttavia approdare a risultati di rilievo anche per il carattere intermittente di questi sondaggi, a cui potevo dedicare solo degli sforzi saltuari, strappati al lavoro necessario per sopravvivere.

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Questa ricerca degli scritti scomparsi di Poe stava già per diventare per me, allora, una specie di fissazione, quando decisi di abbandonarla: o meglio fui costretto a farlo dalla semplice circostanza che, trascorso il mio soggiorno negli Stati Uniti, dovetti ritornare in Italia. Ricordo che, prima di partire, andai a salutare un'attrice famosa, Ruth Draper, che mi era stata di grande aiuto nel proseguimento delle mie ricerche, con le sue lettere di raccomandazione ed i suoi consigli: « Non si scoraggi - mi disse - per questa cosa ci vuole tempo. A volte bisogna sapere accettare una temporanea sconfitta. Tutto viene a chi ha la pazienza di cercare. » Era una donna straordinaria, aveva calcato le scene di New York e di Londra, aveva recitato davanti alla Regina d’Inghilterra; e a vederla là, in quella penthouse di Manhattan, che faceva quasi pensare a un castello, dubitai per un attimo che fosse una reincarnazione stessa della madre di Poe, e forse una personificazione di Ligeia o di Eleonora. Tornato in Italia, fui preso da altre necessità, altri interessi. Entrai nel giornalismo, e per forza di cose potei occuparmi solo parzialmente di letteratura americana. L’ombra di Poe sembrava seguirmi tuttavia come un vago rimprovero, o forse una ambigua promessa; di tanto in tanto riprendevo le ricerche interrotte. Ebbi occasione di parlare una volta dei modesti risultati raggiunti – o dovrei dire piuttosto dei vaghi indizi, dei deboli barlumi che avavo intravisto? – con Elemire Zolla, che mi diede in proposito preziosi lumi e consigli. Tornai, ancora una volta in America, cercai ancora, esplorai più a fondo, e quasi con maggior accanimento per la brevità del tempo che mi era concesso, nei meandri delle biblioteche, nei segreti accessi delle raccolte specialistiche e rare, con l’impressione quasi di seguire un fantasma che mi eludeva tra le foreste di scaffali e le pile dei microfilm. A volte mi sembrava di essere il protagonista di quel racconto di Henry James, Le carte Aspern, che in una Venezia maliosa, subdola e fatiscente, cerca di strappare le lettere di amore di Byron che una sua vecchia fiamma ormai ottuagenaria teneva sigillate in un cofanetto segreto. Raccolsi comunque del materiale, presi molti quaderni di appunti, tornai. Cercai ancora per un po’ alla luce di ciò che avevo raccolto la chiave dell’enigma, ma non ci riuscii. Passarono sei anni. Tralasciai di nuovo quella ricerca, scoraggiato, finché un giorno, entrando per caso in una libreria di Roma (il cui nome, Shakespeare and Co., mi faceva pensare alla leggenda parigina degli americani esiliati, come Sylvia Beach James Joyce, Hemingway e Fitzgerald, con la sua atmosfera satura di «…profumi intellettuali soavi e un poco svaniti ») per chiedere se ci fosse qualche libro di Poe o su Poe, mi imbattei in un’opera che si mostrava decisiva per la mia ricerca, la raccolta in tre volumi The collected works of E.A. Poe, pubblicata dall’Università di Harvard, a cura di un insigne specialista, Thomas Olive Mabbott. L’opera per la prima volta riuniva in modo sistematico il frutto delle ricerche di un equipe di studiosi, raccogliendo tutti gli scritti e manoscritti reperibili del grande scrittore americano. Il libro voleva essere il testo critico definitivo di tutta l’opera di Poe, comprese le poesie e gli scritti critici, ed era basato sulla più agguerrita critica del testo, con la collezione delle diverse varianti, e il rigoroso controllo delle fonti. Finalmente c’era qualcosa di solido a cui agganciare le mie

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particolari scoperte, per avere un punto di confronto e di controllo. In una lettura di importanza capitale, mi rimisi alacremente al lavoro. Confrontando il materiale che avevo raccolto, e vagliandolo in base ai criteri di verifica dell’autenticità dei testi stabiliti dal Mabbott, cominciai ad intravedere con una certa chiarezza la chiave dell’enigma. L’edizione di Harvard non poteva offrire un esempio più superbo di erudizione, acume e rigore, ma a ben vedere mi resi conto che, nonostante tutto, anch’essa era ben lungi dall’essere completa – e che nonostante il lavoro enorme di ricerca, - non conteneva che una raccolta parziale degli scritti perduti di Poe, forse appena la punta di un iceberg sommerso, rispetto alla massa dei testi smarriti. Ciò che era venuto in mio possesso, attraverso una ricerca saltuaria, e intermittente, condotta empiricamente quasi per istinto, seguendo canali eccentrici ed inconsueti, non era a sua volta che un insieme di schegge e di frammenti rispetto al cumulo degli scritti perduti, abbastanza consistente, tuttavia, per costituire un piccolo corpus di « scritti ritrovati » sorprendente per la sua novità e varietà. Un romanzo d’avventure, diversi racconti, di vena più o meno comica o seria, e infine una certa quantità di saggi, elzeviri, divagazioni, capricci, pastiches, commenti di attualità e di costume. Adottai, per quanto mi era possibile, nella scelta definitiva, i criteri stabiliti dal Mabbott e dagli altri studiosi americani che per anni si erano chinati nello studio e nella ricerca degli scritti di Poe. Nella sua dota e lucida introduzione, il Mabbott chiariva alcuni punti fondamentali, di cui qui possiamo solo spiegare il nucleo essenziale. L’illustre studioso spiegava anzitutto che all’origine della confusione nella raccolta degli scritti autentici di Poe c’era il fatto che lo scrittore stesso « considerava come racconti ciò che altri avrebbero chiamato « saggi » e che pertanto, dato che non si poteva sempre stabilire un criterio drastico di distinzione tra gli scritti di narrativa vera e propria di Poe e i bozzetti, le fantasie, riuniva tutto l’insieme dei suoi « grotteschi » ed « arabeschi » sotto l’etichetta di « racconti e schizzi ». Mabbott stabiliza inoltre di catalogare tra questi « racconti e schizzi » anche quegli « articoli più brevi di prosa in cui c’era un elemento di narrazione originale ». I racconti inediti scoperti dal Mabbott, erano nove nel complesso, anche se solo tre di essi erano di una certa lunghezza. Fra questi, la perla della raccolta poteva essere considerata il racconto incompiuto Il faro, il cui manoscritto originale era stato recuperato dagli eredi di Griswold. Per ciò che riguarda i criteri di attribuzione, il Mabbott si basava, per i testi di Poe non pubblicati in volume con l'autorizzazione dell'autore: 1) sugli elenchi manoscritti dei titoli dei racconti vergati di pugno da Poe; 2) sugli pseudonimi già noti di cui Poe si serviva per non far apparire più volte la sua firma sullo stesso numero della rivista; 3) sull'« evidenza interna » dei testi stessi, quando per l'argomento, il taglio, lo stile, l'analogia con altri suoi scritti, non lasciavano dubbi sulla loro origine, anche se non erano firmati, erano solo siglati, o figuravano addirittura con un altro nome. Significativa a questo proposito è l'attribuzione che il Mabbott fa a Poe del racconto saggio Un recensore recensito, firmato con lo pseudonimo Walter G. Bowen, e che consiste in un elogio sostanziale dell'opera stessa di Poe, che mentre avanza insignificanti riserve su alcune mende e difetti di

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nessuna importanza, in realtà leva un inno al genio e all'originalità dello scrittore. In questo caso - a parte il fatto che non è mai esistito nessun Walter G. Bowen, anche se un editore della Pensylvania e un giornalista della North-American Review rispettivamente Eli e Francis Bowen, rispondevano a quel cognome - è evidente che Poe aveva usato lo pseudonimo a scopo autopubblicitario. Il pezzo in sé è un piccolo capolavoro di sottilissimo humour in una vena satirica che, sotto il divertissement risparmia l'allusione sarcastica e la battuta velenosa. Per di più la « pseudo-recensione » rientrava nel gruppo dei racconti di Poe in cui faceva la caricatura del mondo giornalistico e editoriale del suo tempo e quindi a buon diritto poteva esser considerato frutto della sua penna. Un altro elemento prezioso di cui il Mabbott si serviva per stabilire l'attribuzione di un testo già stampato, ma non firmato, soltanto siglato, da Poe, era la raccolta del Broadway Journal lasciata da Poe stesso a Mrs. Helena Whitman, con numerosi segni a matita per indicare gli articoli, schizzi o resoconti non firmati che erano stati scritti da lui. A parte questi accenni, non è il caso qui di addentrarci nei dettagli tecnici del criterio seguito da Mabbott per stabilire il testo delle varianti in base alle diverse revisioni dei racconti e dei saggi fatte dallo stesso Poe, che spesso equivalevano a rifacimenti veri e propri, o a seguire il tortuoso iter delle pubblicazioni postume dell'opera dello scrittore americano, che a parte l'edizione fondamentale dello Harrison in dieci volumi apparsa a New York nel 1902, non hanno fatto che ricalcare per più di mezzo secolo l'edizione decisamente incompleta apparsa postuma poco dopo la morte dello scrittore a cura di Griswold. (Works of the late E .A. Poe, voll. 2, 1850-1856). Basterà, per dare un'idea della complessità del problema, legati al testo definitivo dell'opera di Poe, osservare qui che l'edizione postuma curata dal Griswold non teneva alcun conto delle varianti apportate dallo scrittore di suo pugno sulla famosa collezione Duane del Southern Literary Messenger e sulla non meno celebre raccolta del Broadway Journal di Mrs. Whitman, del quale finora è stato ritrovato in un baule, dopo la morte di Poe, solo il primo volume di una nuova edizione dei Tales of Grotesque and arabesque progettata dallo scrittore stesso, e mai pubblicata, con cambiamenti significativi nei titoli e nella scelta dei pezzi. Sembra anche che alcuni dei manoscritti originali delle sue opere siano ancora nascosti in diverse collezioni private. A complicare l'iter già tortuoso ed eccentrico dell'opera di Poe, c'è infine il fatto che nelle varie raccolte dei suoi racconti non si è tenuto nessun conto dell'ordine cronologico in cui sono stati scritti, né è stato fatto nulla per distinguere i racconti seri da quelli di carattere umoristico. Non solo; ma si è spesso confuso tra i racconti di pura fantasia e le divagazioni saggistiche, si sono addirittura pubblicati dei doppioni dello stesso racconto come se fosse un racconto diverso, o gli si sono attribuiti titoli differenti, anche nell'originale inglese. E non parliamo delle traduzioni. Quanti sono i racconti di Poe? Quanti, anche tra i racconti pubblicati e tradotti, sono veri racconti, o sono piuttosto delle operette morali, delle prose d'arte, o dei trattati estetico-filosofici? Il giocatore di scacchi per esempio, va visto come un racconto, o catalogato come un articolo? L'Alce (che in alcune edizioni si intitola Mattino sul Wissahicon) è un racconto o

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una pura descrizione? Il Paesaggio del giardino è una novella o non piuttosto un trattato di giardinaggio? E Il dominio di Arnheim è la sua versione ampliata, o un'altra variazione originale sul tema? Bon Bon si può considerare una storia originale, o è solo la rielaborazione di Un affare mancato? Tutte queste domande aspettano forse ancora una risposta, ma non c'è dubbio che l'opera fondamentale del Mabbott, anche se non a risolverla definitivamente, ha contribuito molto a chiarirla, come ha chiarito in modo esemplare la cronologia dei testi stessi di Poe, ordinandoli secondo il periodo di composizione e la data della prima apparizione a stampa. Quanto al materiale che avevo io stesso raccolto in varie fasi e da varie fonti, con la passione un po' irrazionale del collezionista più che con la oculata lente dell'erudito, mi sono attenuto nella cernita e nel vaglio di attribuzione dei testi raccolti in questo volume, per quanto mi era possibile, ai criteri stessi fissati dal Mabbott: l'attento confronto con le opere già pubblicate, la scrupolosa verifica dei dati biografici, l'analogia della tematica, l'analisi del linguaggio e dello stile. Per la maggior parte, si tratta in questo caso di testi di Poe apparsi soprattutto per la prima volta, sui periodici di cui per un certo periodo, di volta in volta, fu redattore capo, direttore e addirittura proprietario. La testimonianza della maggior parte dei biografi, concorda nel riconoscere che Poe, come direttore di questi periodici, non solo svolgeva il lavoro redazionale di scelta degli articoli altrui, ma scriveva egli stesso, il più delle volte senza firmarli, la maggior parte dei pezzi. Né si trattava soltanto, come generalmente si crede (e come, apparentemente, anche molti tra i più agguerriti studiosi di Poe, continuano a credere) delle recensioni più propriamente letterarie di poesia e di narrativa, che egli stesso si preoccupò in parte di raccogliere e che, almeno per ciò che riguarda i testi più significativi, in seguito sono stati deliberatamente raccolti in volume. L'edizione dello Harrison del 1903, che sotto questo aspetto è tuttora la più completa, contiene almeno tre volumi di scritti di estetica e di critica letteraria di Poe. A parte Eureka, Il principio della composizione, Marginalia, I literati, è stato pubblicato tutto (o quasi tutto) ciò che Poe ha scritto in questo campo, compresi i suoi saggi estremamente acuti su Longfellow, Bryant, Cooper, Simms, Hawthorne e Dickens. Ma se è stato pubblicato tutto o quasi tutto quello che ha scritto Poe come critico letterario e recensore di libri, poco o nulla è stato pubblicato di ciò che Poe ha scritto come critico teatrale e critico d'arte, osservatore della vita e del costume, esperto di architettura e di interior decorating, commentatore dei fatti di cronaca e delle questioni di attualità, si tratta di un Poe giornalista che molto spesso sconfina nel saggio, nel trattato filosofico, nell'operetta morale e nella narrativa tout court. Un Poe che finora è stato deliberatamente ignorato, non si capisce bene se per una sorta di deformazione professionale che ha impedito agli storici della letteratura di considerare questo aspetto eccentrico e « deteriore » della sua produzione, o per il semplice fatto che mai nessuno ha avanzato la più lontana ipotesi che potesse aver scritto di cose che non riguardavano direttamente la letteratura. Ma anche se non riguardano la letteratura, questi scritti di Poe riguardano la vita, che forse è anche più importante, e ci presentano un aspetto

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sostanzialmente inedito della sua personalità, come caustico, pimpante, onnivoro e delizioso causeur dei più vari argomenti, sempre affascinante sia che sia veramente esperto dei temi che tratta, sia che finga soltanto di esserlo, oseremmo dire che in questi casi lo è anche di più, perché non si limita a esporre, ma inventa, associa, combina, abbandonandosi liberamente agli umori del suo temperamento e agli estri della sua fantasia. Gli oscuri poeti e i narratori dozzinali della provincia americana di cui Poe si occupa nelle sue recensioni, il più delle volte per distruggerli con la punta acuminata del suo stilo, oggi non interessano più nessuno, e nella maggior parte dei casi il loro merito maggiore resta quello di aver offerto a Poe lo spunto per la elaborazione di una nuova teoria estetica o l'intuizione di una nuova corrente della cultura dell'epoca. Ma ciò che Poe dice sull'America del suo tempo, sul puritanesimo e sul provincialismo americano del primo ottocento, sul fervore di scoperte scientifiche e tecnologiche, che attraversava allora il Paese, sulle tendenze del gusto e del costume, sulle leggi e le riforme, interessa ancora perché coglie in profondità, al di là dell'effimero, contenuti più profondi dell'anima americana e le linee di fondo della struttura sociale. Ho parlato soprattutto di articoli di Poe, ma il termine è improprio: dovrei dire piuttosto saggi a tutto fondo, che rivelano la profondità di pensiero del filosofo, del sociologo, del poeta anche quando trattano apparentemente i temi più frivoli. Baudelaire, scrivendo all'indomani della mostra di Poe, e avendo sott'occhio la collezione completa delle riviste su cui egli aveva scritto, che allora erano ancora facilmente reperibili, parla dei « brillantes articles » di Poe, della sua « prose remarquablement vigoureuse, directe et neanmoins abondante » e scrive testualmente: « Ho qui, davanti a me, la collezione dei numeri di questa annata di riviste: la parte editoriale è considerevole; gli articoli sono molto lunghi. Spesso, nello stesso numero, si trova il resoconto di un romanzo, di un libro di poesie, di un testo di medicina, di fisica o di storia. Tutti sono fatti con la massima cura, e denotano nel loro autore la conoscenza di diverse letterature e una conoscenza scientifica che ricorda gli scrittori francesi del XVIII secolo. ...Se Poe attirò fortemente gli occhi su di sé, si fece anche molti nemici. Profondamente imbevuto delle sue convinzioni, fece una guerra instancabile ai falsi ragionamenti, ai pregiudizi, ai solecismi e ai barbarismi... » Oltre agli articoli perduti di Poe, questo libro di Scritti ritrovati comprende anche II corsaro, un romanzo giovanile di Poe, scritto in un primo tempo in collaborazione con il fratello William Henri e pubblicato a proprie spese a Baltimora, che egli in seguito ampliò e rielaborò in forma definitiva presentandolo a puntate sul Burton Gentleman's Magazine nel luglio-dicembre 1839. Gabriele Baldini, a proposito di questo romanzo, afferma nella sua biografia critica di Poe - che è la migliore finora esistente in italiano -, che Poe adombra in questo romanzo, « romanticamente trasformate e sublimate, le sue disavventure amorose con la Royster ». In realtà il romanzo, che è un po' il diretto precedente del Gordon Pym, ha un sapore squisitamente autobiografico in quanto lo scrittore sembra proiettare le sue stesse vicende giovanili nella figura del protagonista, una specie di eroe inquieto e ribelle, quando descrive oltre al suo tempestoso rapporto

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con la donna amata, la sua brusca rottura con il padre adottivo. L'eco delle esperienze di vita di Poe si ritrova anche nell'appassionata liaison che il cugino del protagonista (che è poi una specie di alter ego) stringe con la figlia-bambina di un ricco piantatore dopo una disavventura di duello. L'impianto convenzionale della trama con le sue agnizioni e il lieto fine non toglie che il romanzo riveli l'inconfondibile segno di Poe nello splendore talvolta abbacinante dei paesaggi marini, nelle descrizioni non prive di macabro orrore delle carneficine compiute sulla tolda della nave tra l'infuriare della tempesta, e soprattutto nelle scene d'amore, che risentono dell'atmosfera liricheggiante delle poesie, ma non mancano di tocchi di sottile realismo psicologico specie nel tratteggiare le due figure di donna principali: la donna matura e la ragazza adolescente, che poi erano state e saranno sempre i poli d'attrazione dominanti nel mondo affettivo di Poe. Romanzo variegato e corrusco, dove l'aspirazione dell'amore si scontra con l'ambizione e l'orgoglio del protagonista, aduggiato da un fosco destino. Il corsaro, pur aderendo alla tematica poetica di Poe, ci presenta un aspetto insolito, più idillico, sensuale e sognante, della sua narrativa, dove la nota macabra viene messa in sordina per far posto alla tenerezza struggente del « sogno americano ». A questo romanzo si attagliano i versi di una delle sue prime poesie: « Ah come la mia vita giovane / era un continuo sogno / ma anche sull'ala del giorno / dell'ora più felice / cade una oscura impurità ». Quanto ai racconti di Poe inclusi in questi Racconti ritrovati, il più significativo è forse Uno spettro a New York, che adombra l'incubo della figura paterna e, come Berenice, sembra essere ispirato da un sogno, forse prodotto dall'oppio di cui descrive le tipiche allucinazioni. Ma anche Vampiri a Manhattan, che rientra nel genere comico-satirico, è importante nella produzione di Poe perché si ricollega direttamente alla sua polemica col mondo editoriale, cui si ispirano anche racconti come Celebrità e La vita letteraria di Thingum Tub. Le scimmie mannaie rivela il tocco di Poe nell'episodio sinistro dello scimpanzè che adesca la sua compagna per gettarla in mare e della scimmia che guarda nell'occhio dell'orso per « spiare che sogno fa ». La nota autobiografica appare più evidente in Un sortilegio di nome Hannah, legato ai suoi ricordi d'infanzia in casa di Allan e II contestatore contestato, che adombra William Wilson e rievoca esperienze dell'Università. I poveri capricciosi è poco più di un bozzetto: ma rivela una grazia rara nella sua satira leggermente feroce dell'egoismo della gente ricca e rispettabile. Si può azzardare l'opinione che questi Scritti ritrovati, oltre a portare un qualche contributo all'apprezzamento dell'arte e del genio di Poe, in qualche modo gettino qualche luce anche sul mistero della sua vita e della sua personalità. La dispersione, se non il deliberato occultamento, dell'opera di Poe, di cui ancora non esiste un'edizione veramente comprensiva a parte quella in corso di pubblicazione della Harvard University, è in qualche modo legato alle tempestose vicende autobiografiche dello scrittore, e alla lotta che sostenne per essere accettato nella società americana. Doppiamente orfano per il padre naturale che l'aveva abbandonato al momento della nascita, e quello adottivo che l'aveva diseredato all'inizio della maggiore età, costretto a

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farsi strada nel campo letterario attraverso una lotta continua e sostanzialmente impari con la povertà, la malattia e la fame, l'incomprensione dei proprietari di giornali, l'ostracismo degli editori, la malevolenza preconcetta dei clan culturali stabiliti, stroncato dalla morte prima dei quaranta anni in circostanze tragiche e misteriose, Poe non fu certo nelle condizioni migliori di provvedere in vita alla pubblicazione della sua opera omnia, né si assicurò tantomeno le migliori possibilità di una fama postuma, affidando le sorti dei suoi scritti in balia del Rev. Rufus Griswold, che aveva nominato come suo esecutore testamentario, non si sa bene se per un oscuro ricatto o per un gusto perverso di autodistruzione. Una cosa è certa: Poe non avrebbe potuto occultare meglio i suoi scritti, che non erano riusciti ancora a vedere la luce, almeno in forma di libro, se non incaricando della loro raccolta quest'uomo. Il Griswold era infatti il più mortale nemico di Poe, in quanto nella sua grigia e strisciante mediocrità, non gli aveva mai perdonato la stroncatura senza mezzi termini che Poe aveva fatto giustamente della sua antologia Poets and poetry of America, vero e proprio museo della stupidità e del velleitarismo letterario dell'epoca. Nel necrologio che Griswold tracciava di Poe, all'indomani della morte del poeta, esprimeva la sua personale opinione che la sua scomparsa sarebbe stata accettata con un senso di soddisfazione dalle persone rispettabili. Né la perfidia di Griswold, che già in vita aveva cercato di togliere a Poe il suo posto quand'era direttore del Southern Literary Messenger, si fermava qui. In un memoriale scritto poco dopo la sua scomparsa, per gettare discredito sulla figura di Poe, arrivò a citare il passo di un romanzo di Bulwer, in cui era descritto uno scellerato di dubbi costumi, affetto da una luciferina arroganza e da una morbosa presunzione, insinuando che questo abbietto personaggio fosse stato modellato su Poe. Altro che pubblicare i manoscritti inediti di Poe o raccogliere i suoi numerosi racconti ed articoli non ancora pubblicati in volume per curare l'edizione definitiva delle Collected Works: fu già molto che Griswold non cercò di gettare al rogo le opere già stampate di Poe. La sensazione che suscita leggere per la prima volta, gli scritti di un autore famoso, recuperati quasi per caso, dopo che erano stati dati per dispersi, o completamente ignorati a quasi un secolo e mezzo dalla sua morte, è di gioia e di sorpresa, ma al tempo stesso, di un leggero smarrimento e quasi di tremore. Non la gioia allo stato puro quale forse dovevano provarla i primi umanisti, nello scoprire un codice di Platone o un frammento di Saffo, ma il brivido leggermente funereo di chi riporta alla luce un segreto a lungo sepolto nella tomba; quasi che quegli scritti, sottratti per una ragione misteriosa da una mano ostile alla vista degli uomini, fossero destinati a restare chiusi per sempre nei segreti labirinti del tempo non meno dei geroglifici che gli antichi scribi egiziani fissarono nei papiri egiziani consegnati al sonno millenario delle mummie all'interno delle piramidi. Ultimo umorista che difende i diritti non solo della letteratura e dell'arte ma del buon gusto nella società tecnologica, Poe come giornalista sorprende per la lucidità,

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l'equilibrio, il rigore razionale. Questo scrittore, catalogato tra i poeti Maudits si rivela dotato di eccezionale buon senso, combatte il fanatismo e il provincialismo americano. Come gentiluomo che si sente esponente della cultura della vecchia aristocrazia del Sud, si schiera contro la strisciante dittatura della massa, combatte i clan e le cricche dell'establishment culturale bostoniano, auspica l'avvento di un'arte e una letteratura americana originale, contro le sbiadite imitazioni dei modelli europei, denuncia la goffaggine intrinseca ai primi tentativi di letteratura autoctona, anche se poi pagò la sua dura battaglia contro i mostri sacri dell'epoca con l'ostracismo, la miseria e la morte. Poe come giornalista rivela una gamma di interessi estremamente varia: si occupa non solo di teatro e di critica d'arte, ma anche d'architettura e d'arredamento, di cronaca rosa e di cronaca nera. Inventa l'elzeviro e precorre la prosa d'arte. Riprende da Swift la vena paradossale e satirica, da Sterne la notazione incongrua e bizzarra, adattandola in modo originale all'osservazione della scena americana. Questi Scritti ritrovati contribuiscono a rivelare il segreto « laboratorio » dell'arte stessa di Poe. Per uno scrittore che non ha lasciato « taccuini » il giornale e la rivista erano il vero « notebook ». Oggi come ha mostrato Arbasino in Certi Romanzi, l'interesse critico si appunta, più che sull'opera compiuta di uno scrittore, sulla sua gestazione segreta, sul fermento creativo, il lavoro di sperimentazione e di ricerca che lo ha preceduto: ciò che vogliamo oggi non è il romanzo nella sua artificiale struttura finita, ma « i germi » di Henry James, « i cahiers » di Proust, « gli appunti » di Musil, le « epifanie » di Joyce. Poe giornalista sta in un rapporto che è in un certo senso speculare con Poe scrittore, il suo alter ego e il suo doppio. Tutta l'arte di Poe oscilla tra questi due poli estremi e complementari. Da una parte c'è l'arte come pura « fiction », cioè come invenzione assoluta, capace di evocare dal nulla visioni più vere del vero, che esistono come gli archetipi stessi dell'inconscio, in una dimensione che diventa credibile in virtù della geometria infallibile che la regge e dell'atmosfera che l'artista ha creato. Dall'altra c'è la narrativa come operazione combinatoria, prolungamento della cronaca, e quasi efflorescenza che nasce dai fatti e dai fatti si nutre, che non disdegna il commercio con l'effimero ma fa dell'effimero stesso l'incubo quotidiano. Le grandi opere assolute della narrativa di Poe - Berenice, Morella, Eleonora, La casa Usher, William Wilson, La botte d'Amontillado, Il gatto nero, Il pozzo e il pendolo -, stanno là con la perfezione assoluta dell'arte classica; ma accanto a questi racconti-visione, racconti-atmosfera, racconti-incubo, racconti-sogno - l'opera di Poe accetta la presenza dei racconti che partono dalla cronaca e che lievitano per forza di humor- satirico e di ossessione raziocinante della materia deperibile e contingente del quotidiano. Se Poe come critico letterario, almeno nei paesi anglosassoni (e più ancora in Francia e in Germania) è già abbastanza noto, meno noto, per non dire sconosciuto, è il Poe giornalista. Dire che Poe è un giornalista di altissimo livello, che se da un lato si rifà alla tradizione di polemisti satirici illustri che risente della saggistica di un Hazzlit e De Quincey, d'altro canto anticipa le forme più audaci di giornalismo moderno, dalla

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notizia sensazionale al commento d'attualità, dall'invenzione del « serpente di mare » alla montatura della « cronaca nera ». Poe è forse il primo giornalista moderno, che abbia il coraggio, nell'America puritana e pudibonda della rispettabilità quacquera e della reticenza moralistica, a « sbattere il mostro in prima pagina ». E non solo perché quei mostri che affioravano dalle prime pagine avevano una singolare affinità con i mostri evocati dalla sua immaginazione; ma perché sapeva che il pubblico voleva così. Non è l'ultimo paradosso, di una personalità complessa e multiforme come quella di Poe, che sia stato questo gentiluomo del profondo Sud vestito di nero, questo esponente dell'aristocrazia terriera dei piantatori della Virginia, questo dandy, che in gioventù, quando poteva permetterselo, aveva amato il gioco, i cavalli, i bicchieri di brandy bevuti tutti d'un sorso nelle allegre serate conviviali, questo erede dei cavalieri elisabettiani che diffidava della cultura di massa legata alla nuova società mercantile e tecnologica: che sia stato lui il primo ad intuire le grandi linee verso cui si andava orientando il gusto popolare, anticipando nel campo letterario, il romanzo poliziesco e la fantascienza, il feuilleton e la cronaca nera, il western e il racconto d'avventura, e soprattutto il thrilling a sfondo sado-masochistico, la « confessione confidenziale » e la cronaca nera. Tutti generi, questi, che l'industria culturale contemporanea del rotocalco e del settimanale a vasta diffusione doveva portare nel nostro secolo alla vera massima superfetazione e quasi recensione inflazionistica, senza peraltro migliorare - diciamo pure - deteriorandone spesso la qualità che in Poe non mancava mai. Poe aveva previsto, sia pure non senza riluttanza, quella decadenza della musica che Adorno in seguito teorizzerà come un processo inarrestabile dell'involuzione della cultura di massa, dalla sinfonia all'opera, dall'operetta al vaudeville e alla canzone urlata, meccanizzata. Ma pur concedendosi, fino al suo massimo limite di espansione, alle richieste del nascente Mid-Cult, fino alla più bassa richiesta della letteratura Low Brow, Poe aveva cercato di riscattare tutto questo allo « spazio letterario » e di fissarlo quasi nell'assolutezza del sogno neo-classico, ma glielo aveva restituito, depurato nella sublimazione dell'arte. Poe aveva restituito all'uomo contemporaneo il suo specchio più profondo, in cui aveva letto l'angoscia, la solitudine, il terrore di un mondo già dissacrato dall'Einklarung, in cui la fredda luce della ragione raziocinante non poteva che illuminare al termine del suo viaggio verso la notte un mondo di revenants e di spettri. L'irrazionale, che la civiltà dei lumi aveva escluso, che la cultura puritana aveva selvaggiamente represso, e la sorgente società industriale nel suo utilitarismo gelidamente funzionale aveva ipocritamente emarginato, veniva recuperato da Poe come incubo quotidiano e inferno senza redenzione, groviglio di mostri, in quel limbo della condizione umana post-moderna che non ammetteva il sollievo del sentimentalismo romantico più di quanto non accettasse la consolazione delle religioni positive.

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E pur tuttavia la grandezza di Poe - questo scrittore che qualcuno ha voluto presentare come un nevrotico, anzi uno psicopatico, dedito alla schizomania e all'uso degli stupefacenti, affetto dalle tare sessuali dell'impotenza e della necrofilia, che affonda con compiacimento patologico nei complessi sado-masochistici e che corteggia assiduamente ciò che Baudelaire chiama « le carnage et la mort » prima ancora che un poeta maledetto, un antesignano della rivolta decadente e dell'esternazione estetizzante, era semplicemente e essenzialmente un poeta. La fissità quasi allucinata con cui Poe riesce ad evocare atmosfere di terrore allo stato puro, il terrore del soffocamento e della perdita, della tortura e della morte, prima ancora che dei traumi personali sofferti per venire dalla sua genialità d'artista capace di rappresentare in modo vivido, avvolgente e quasi spietato con la concretezza dei particolari, quei terrori « immaginari » che il romanzo gotico e nero avevano proiettato in trame macchinose ed improbabili. Ma le visioni « infernali » di Poe sono solo il corrispettivo delle sue visioni « paradisiache », non meno appassionatamente evocate. Se il demoniaco finisce per avere la prevalenza nel mondo di Poe, non è per un morboso compiacimento, ma solo perché la presenza del demoniaco, del male e del dolore, è oggettivamente più incombente e pervasiva nel mondo contemporaneo, nel mondo nato dalla rivoluzione industriale e dalla società capitalistica di massa, di quanto non lo sia il mondo angelico della gioia, dell'amore, della felicità. A chi lo rimproverava perché i suoi racconti del terrore erano troppo angosciosi, e risentivano dei modelli tedeschi, Poe rispondeva che « il terrore non è né tedesco né americano: il terrore è dell'anima ». Dell'anima, certo - ancor più lo è dell'anima moderna (o dobbiamo dire post-moderna?) perché nel mondo moderno il terrore non ha più nemmeno quel fragile schermo che nella tragedia greca era rappresentato dalla volontà dei numi e del fato o, nella sacra rappresentazione, dalla volontà di Dio. È un terrore a cui non c'è rifugio né riparo - un terrore che nasce dalla violenza della natura primitiva non meno che dalla violenza della macchina sociale organizzata: il Maelstròm che ingoia l'uomo nel suo vortice non è solo un mulinello ai confini del polo, è anche e soprattutto l'ingranaggio sociale e storico che si è costruito. Forse mai come oggi - in un mondo aduggiato dal duplice spettro del diluvio atomico e dell'apocalisse ecologica - Poe è stato d'attualità, mai i suoi terrori « immaginari », dopo le esperienze dei campi di concentramento e dei lager, erano stati così palpabili e reali. E pur tuttavia forse nessun altro scrittore d'oltre oceano come Poe restituisce, insieme all'incubo, tutto il sapore del « sogno americano » con il suo lancinante bisogno di utopia. Whitman immagina Poe che, a bordo di un vascello scosso dalla tempesta, s'inebria della forza distruttrice dell'oceano che sta per travolgerlo. Dopo Poe, non sono mancati certo gli scritti, da Dreiser a Faulkner, che come lui e più di lui hanno messo a nudo gli orrori dell'incubo americano. Eppure la grandezza di Poe, la sua permanenza come classico (o vogliamo dire la sua pregnanza nel presente, la sua incidenza sulla nostra esperienza storica e esistenziale?) consiste forse nel fatto che in quanto squisitamente simbolici, assolutamente immaginati, i suoi terrori in ultima analisi

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restano fantastici, cioè psicologici e metafisici: vale a dire esistono come archetipi dell'inconscio collettivo e come tali vengono evocati non per acuire, ma per esorcizzare l'angoscia. L'universo di Poe non condivide ancora la disperazione nichilista, anche se non esclude la catastrofe e quasi l'invoca: è ancora un universo, malgrado i suoi mostri, squisitamente « umano », che ammette la pietà verso i morti, il culto della bellezza e il desiderio dell'amore come assoluto. È un universo che, malgrado tutto non disdegna il sollievo temporaneo del riso e l'albore lunare della speranza. Crediamo di aver fatto cosa utile riscoprendo degli aspetti insoliti e poco noti di Poe, oltre che nella sua dimensione di romanziere più propriamente al « romance », soprattutto in quegli scritti giornalistici in cui il vivo interesse per i commerci e gli usi degli uomini prevale sulla macabra ossessione del disfacimento e della fine. In questi elzeviri una intelligenza superiore si dispiega, in tutta la varietà dei suoi umori e la mol-teplicità delle sue corde, nel tracciare delle labili orme dell'effimero, i segni del permanente e dell'eterno. Da questi Scritti emerge un nuovo Poe. Un Poe grande saggista, filosofo, sociologo, accanto al Poe grande poeta e narratore puro, che non lo contraddice, ma lo integra e ne rivela l'appassionata partecipazione ai problemi del suo tempo.

1. ROMANZO

Il corsaro

Un racconto della guerra d’indipendenza americana

Era una dolce sera del maggio 1812, quando Catherine Harman, una signora di nobile portamento, e di imperiale bellezza, stava passeggiando in un boschetto di querci, che adornava il parco di una villa sulle rive del fiume Chesapeake. La bellezza della signora era di gran lunga superiore anche a quella delle donne più avvenenti, e anche la più seducente creatura del suo sesso si sarebbe stupita di fronte alla sua affascinante presenza, per la evidente parzialità della natura in suo favore. A prima vista, poteva sembrare che le piogge di diciotto primavere soltanto avessero rinfrescato il fiore della sua bellezza; ma in realtà proprio per il giorno dopo era previsto il festeggiamento del suo ventesimo compleanno, nel palazzo della sua famiglia gentilizia. Più bella di tutti i sogni che un amante si può fare del Paradiso, era la squisita simmetria della sua

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persona. Il profilo del suo corpo si incurvava tutto intorno a lei, con una dolce ondulazione, come se fosse stato rifinito dagli angeli, in base ai più rari modelli del cielo. Nello stato di riposo, le sue proporzioni senza pari erano l'essenza stessa della salute e della bellezza deificate; ma quando era in moto, la loro meravigliosa amabilità era anche più pronunciata. E il suo passo aveva l'imponente dignità di un personaggio del dramma più elevato, come veniva coltivato nelle antiche corti di amore cortese al tempo dei trovatori, ma questa dignità si combinava naturalmente con la semplicità elegante e disinvolta di un'Ebe. Essa si fermò; e ondeggiò, gioiosa e ispirata, come per intonarsi al suono della voluttuosa melodia di un'opera italiana. La sua elegante figura, disegnata in modo così delicato, ma al tempo stesso in modo così armoniosamente rotondo, da una ricca e aderente veste dell'epoca, scivolava sull'erba alta, senza far rumore, come l'albatros dal grido lamentoso, che sfreccia silenzioso nell'aria, e passava tra gli alberi mormoranti come una vergine nube, che venisse dalla corte della luna: tanto che un pittore avrebbe potuto prenderla a modello per schizzare il ritratto della cacciatrice celeste, che scivolava tra gli aspri cespugli. La sua caviglia e il suo piede - perché, sì, c'è una pericolosa civetteria in un piede grazioso - piccolo, e modellato in modo affascinante, cosa indispensabile alla bellezza femminile - si vedevano appena prima di svanire nel loro misterioso nascondiglio, come se uno sguardo solo fosse abbastanza per restarne incantati. E il suo volto! Il più fine tocco dell'artista, fosse pure quello di Apollo, non poteva rendere il respiro della sua passione, la sua natura quasi divina: guardarlo significava far impietrire il cuore, e renderne inestinguibile la memoria. La sua espressione non rifletteva la grazia allegra da cherubino della ragazza giocosa, ma la matura, superba, e affascinante amabilità della donna in pieno fiore. La sua carnagione era la più felice combinazione di colore, che sia mai stata vista sulle guance di una donna o nella perfezione della pittura; la più soave mescolanza del giglio e della rosa: tuttavia rivaleggiava col più bel giglio e con la rosa più sgargiante. La sua testa era splendidamente modellata, e la sua fronte era alta e regale. Pochi corti riccioli circondavano come fiori di robinia la sua sconvolgente bellezza e ondeggianti masse di capelli di color castano scuro, che scendevano in boccoli da un fermaglio di alta gioielleria, spandevano la loro profusione selvaggia su un collo di neve, e su un petto i cui contorni senza macchia rivaleggiavano con le più orgogliose creazioni del cesello greco, in cui non c'è bellezza o grazia che non sia rifinita. La capigliatura lucente e voluttuosa era come l'alga lussureggiante nella grotta della sirena, che ondeggiava intorno al suo volto, mostrando tuttavia in modo schivo le sue vergini perle. Il marcato sopracciglio era schizzato con la curva dell'arcobaleno; le sue ciglia erano lunghe, nere, e squisite; e c'era nei suoi scuri occhi lucenti quella impressionante e mistica profondità dell'anima, che appartiene solo al fiore della nobiltà della natura. Di volta in volta questi occhi erano soffici come lo sguardo delle Uri; o dardeggiavano come il riflesso del raggio di luna, o brillavano con il tranquillo brillio delle stelle. Erano davvero gli occhi, come appaiono nello specchio conturbante della donna, perché il suo riflesso è mistero: anche nel sonno sprigiona un incanto, di cui non osiamo fidarci.

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Il naso era di una perfezione greca, l'eredità classica di tanti bei profili. La guancia ovale, colore del sole, era deliziosamente colorita dei rossori che l'imporporavano; e il rotondo labbro superiore, quando si levava orgogliosamente in su, era leggermente sollevato; ma il suo turgido labbro inferiore, che sembrava emanare il profumo di un frutto maturo - ah, c'era là una magia che sfida il potere della penna. Neppure l'ira può privare il labbro di una donna del suo incantesimo, perché nel suo movimento sta nascosta la morte per il giovane cuore. Nell'amore felice, quel labbro è una culla di sorrisi che attirano audaci carezze, una fonte di nettare delizioso intossicante a delibare - o piuttosto è l'altare cosparso di miele dell'amore appassionato. Ma nell'orgoglio offeso e nella bellezza adirata, come era affascinante il suo modo di scuotere la testa, e il fremito che le agitava le membra! Le labbra della pericolosa Catherine Harman erano capaci del più soave sorriso, ma al tempo stesso si prestavano ad arcuarsi nella più orgogliosa espressione, e nella loro ombra vermiglia si intravedeva una dentatura più bianca della schiuma del mare. L'espressione della sua fisionomia era difficile da definire. Quando aveva un atteggiamento pensoso, era la poesia nel suo più sfarzoso abbigliamento; quando invece era animata di allegria, imitava le onde di un lago ridente; e in più, aveva quel non so che di maestoso, e quella fierezza, un po' altera che proviene da un intelletto nobile e coltivato. Ma a volte la meravigliosa piega della sua fisionomia era mutevole e variegata come il gioco multicolore delle nubi nella primavera increspata dal vento, e il suo volto era un gaio gioco di espressioni sempre diverse. Una figlia del dolore era tuttavia questa bella creatura - amabile quanto era graziosa, e tuttavia insondabile a una conoscenza superficiale. Esteriormente vivace e piena di slancio, era uno di quei rari esseri enigmatici che, quando ascoltano, possono restare calmi, oscuri e misteriosi sotto lo scrutinio attento del mondo. Si dice che la sventura eserciti un'influenza moderatrice sul carattere, ma a volte nutre predisposizioni pericolose - ma di questo riparleremo poi. All'età di quindici anni, Catherine Harman aveva perduto una madre che poteva definirsi una santa. Due anni dopo, il suo unico fratello, spinto da quella febbre del viaggio e dell'avventura, che è così seducente per la gioventù, aveva lasciato la casa paterna, ed era stato ucciso nel corso di un duello in un Paese lontano. La sua fiorente sorella era stata lasciata con solo due congiunti sulla terra: un vecchio padre appassionatamente indulgente, e un cugino maschio senza beni di fortuna, di due anni più giovane, che allora si trovava lontano da casa per seguire i suoi studi in un college. La bella Kate Harman era stata allevata come una figlia prediletta, il che significa che non era priva, come molti figli prediletti, di un certo amor proprio, anche se il suo cuore era al posto giusto. La rosa che fiorisce in un giardino tra le erbacce è più dolce, per il contrasto con le piante selvatiche, perché ciò mette meglio in risalto la sua intrinseca eccellenza, che ha sfidato la negligenza dei giardinieri. Lo stesso avviene con il rampollo prediletto, la cui innata bontà non può essere viziata dalla indulgenza eccessiva dei genitori.

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Per una conseguenza naturale del modo in cui era stata allevata, Catherine tuttavia era in qualche modo un po' civetta. Non stupirti, né adombrarti, lettore, perché sei generoso; e sai benissimo che la civetteria nella donna è una caratteristica piuttosto diffusa. Quale brillante mondo di canzoni e di amabili galanterie, di sospiri e di sorrisi, di lacrime e di emozionanti toni di aspro rimprovero, di dolce pentimento, e di eloquente dolore, sono connessi con questo solo nome di civetta! Subito, al solo sentirla pronunciare, la fantasia leggiadra dipinge l'immagine di una donna superba, nella pienezza della sua femminilità, che sfoggia la sua lussureggiante bellezza nella «luce purpurea dell'amore ».Il termine stesso di « civetteria » implica bellezza, talento e amabilità: poiché solo queste qualità conquistano l'ammirazione, e solo grazie ad esse i gentiluomini ammettono di essere conquistati dalle donne. La nefasta ambizione, che spinge spesso a sfoggiare pubblicamente le penne del pavone, non esercita i suoi effetti intossicanti nel cuore di una donna bella e ben educata. L'ambizione è il giocattolo della vanità, la civetteria è solo il desiderio innocente di essere amati - un desiderio d'amore, che rivela al tempo stesso una sovrabbondanza di gentilezza. Questa è la differenza tra la seduzione basata su un esibizionismo artificioso e il fascino di una superba creatura, in cui lo sfoggio della civetteria non è che la naturale manifestazione della coscienza della sua nobiltà - che invoca l'omaggio, come la prerogativa stessa che spetta ad una natura celeste. Se il suo sorriso implica una seduzione (e non c'è dubbio che in un certo senso il suo sorriso sia una pietosa frode dei sensi, rivolta a condurre gli esseri mortali verso il cielo), mostra anche onestamente il suo aculeo dorato, e l'uomo che cade in adorazione della sua bellezza lo fa con un rapimento, che si spiega col detto del poeta: « È delizioso cedere alla tentazione, quando gli angeli ci tentano ». Niente al mondo è così innocuo e poco pretenzioso come l'amore; una emozione così gentile e spontanea non può fare a meno di risvegliare una risposta nel suo oggetto di attenzione, mettendo in moto un gioco di elevati sentimenti. Le donne si compiacciono quando si volge loro la gentile accusa di indulgere alla civetteria. Il fatto che la civetteria si trovi anche in una povera ragazza di campagna, dimostra che si tratta di un fatto naturale; e chi in quest'era cristiana, può dire che la donna debba essere privata di quello che è il suo diritto di nascita? La rivalità è l'anima dell'amore, come la gelosia è il suo alimento; e chi si innamora di una donna per la sua civetteria prova un sentimento di deliziosa incertezza, che gli insegna ad apprezzarla nel suo vero valore. È davvero un uomo felice, colui che è amato da una di queste accattivanti creature; ci deve essere infatti, anzi c'è, un'intensità di devozione nell'amore, che porta una di queste donne a preferire quest'uomo tra tutti gli altri nella sua scelta. Solo la vanità - questo sentimento che tra tutti è in fondo il più disinteressato - partecipa di questo trionfo dell'amore. Pensare che questa donna sia la regina dei cuori, ed egli, il fortunato uomo prescelto, il re della regina! Molti hanno forse sentito raccontare la storia del principe arabo Oran Al Beckar, che tra le donne faceva il diavolo a quattro - un vero principe di tutte le civette del suo tempo - ma che amava soprattutto Zelira, la

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sua regina. Quando Oran e Zelira finirono per adagiarsi in un'alcova nuziale, Oran sussurrò: « Tu sei bella, Zelira, e mi ami; io sono felice, perché tutti mi invidiano » e così dicendo baciò la sua sposa diletta. « Tu mi ami, Oran » essa mormorò « ed io sono felice, perché tutte le donne invidiano me ». Può una prospettiva di felicità domestica esser fondata su basi più incoraggianti? Per la bella donna in una società raffinata, o diciamo addirittura artificiale, come una società civile non può fare a meno di essere, la civetteria rappresenta una corazza di difesa; uno dei lussi acquisiti della società. Le lacrime sono l'arma della donna nei confronti del marito; i sospiri la sua arma nei confronti dell'amante; ma la donna deve combattere anche con il mondo esterno, spesso così crudele con lei, e può farlo solo con l'arma della civetteria. Se in alcune donne questa amabile debolezza si manifesta di meno, è solo perché manca loro il potere di esercitarla, perché in realtà tutte le donne sarebbero civette, se avessero le doti per poterlo essere; e tutte fanno comunque quel che possono con i mezzi che hanno. Dov'è, allora, la base di buoni motivi da parte di gentiluomini per condannare la civetteria femminile? Quanto alle donne, di solito si rivolgono questa accusa l'una con l'altra. I meteorologi hanno notato talvolta come un'allegra nube, dall'aspetto innocente, improvvisamente si oscuri e sprizzi fuori improssivamente un fulmine, che nessuno avrebbe mai pensato che potesse nascondere nel suo seno. Così succedeva talvolta con Catherine Harman. Guardando il suo volto senza ombre, non si sarebbe mai sospettato che fosse il trono della passione, eppure essa aveva quella caratteristica, che spesso aggiunge un tocco alla bellezza, e che si dice « temperamento ». Il temperamento rappresenta qualcosa di « interessante » davvero nella donna, la cui disposizione d'animo è improntata di solito a una sorta di santa placidità, - la donna, il cui spirito, come una pacifica nave, scivola per lo più senza turbamento alcuno lungo la corrente calma del corso della vita, e danza leggera nel porto senza fare esibizioni di moschetti e di bandiere. Come è dolce, come è celestiale una donna così; e tuttavia questa natura angelica forse è un po' troppo per questo mondo. Dire che una donna dotata di temperamento è « interessante », significa in realtà farle un complimento un po' equivoco, a dir poco. Ma datemi una donna, che risente del peso della nostra natura mortale, una ragazza dotata di spirito, che si inalbera e discute: ciò può renderla spesso anche più affascinante, perché niente è così bello come comporre una disputa tra due amanti, calmando una donna temporaneamente adirata. Un lago, protetto dalle montagne, è molto grazioso, non c'è che dire, nel suo dolce riposo; ma chi non trova più bella la vista del mare - il selvaggio, maestoso, splendente e ridente mare - che pure ha le sue ore di riposo stregato! Oh, la spezia della varietà, che cosa sarebbe il mondo senza di essa? La varietà è il sale della vita. Dicevamo dunque che Catherine, oltre al difetto della civetteria, era dotata di un certo « temperamento ». Tuttavia c'era in lei fondamentalmente solo una corda, che tendeva verso un solo tono, che rispondeva ad un unico tocco. La fine precoce e misteriosa del fratello aveva operato un effetto

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traumatico sulla sua natura sensibile. Pochi sentimenti sono così belli come l'amore di una sorella - questa soave creatura, che si fida di noi come la colomba che risponde immediatamente alla gentilezza e che, come la colomba, non si lamenta per la negligenza. La sua influenza è santa e durevole e pochi fratelli che hanno amabili sorelle sono mai scortesi verso il gentil sesso. Catherine Harman aveva amato il fratello Charles con un'intensità eguagliata solo dall'affetto con cui egli l'aveva contraccambiata. All'inquieta età di diciotto anni, Charles aveva lasciato il tetto paterno, dopo aver estorto il consenso con molta difficoltà dal vecchio genitore, e la prima notizia che giunse dei suoi vagabondaggi fu che era caduto nel corso di un duello a New Orleans. Amara è la pena per il vagabondo i cui occhi sono chiusi da mani straniere, perché non ha nemmeno il conforto di essere pianto dai suoi familiari. È così duro essere privati dell'ultimo sguardo e del messaggio di congedo di coloro che ci sono cari. Se Catherine avesse raccolto l'ultimo sospiro del fratello, e piantato un salice piangente sulla sua tomba precoce, le lacrime per lei sarebbero state una consolazione; ma così come stavano le cose, la memoria non aveva sguardi o parole, per alleviare la sua cupa melanconia. La corrente, che nel suo corso felice è stata sbarrata da una diga, scorre lenta e silenziosa nel suo cammino deviato; ma a un certo punto finirà per rompere la barriera che l'ha ostacolata. Man mano che Catherine meditava sulla morte del fratello, una nuova e potente passione si insinuò nel suo giovane cuore - un odio invincibile contro il duello e chi lo praticava. Questo sentimento forte e assorbente suscitava un lampo di sdegno nel suo sguardo e prestava alla sua lingua accenti di sferzante condanna di fronte al nome e alla vista di chi praticava il duello. Le sue espressioni di aspro sarcasmo verso il duello rappresentavano per lei una specie di espiazione, di fronte all'ombra implicata del fratello ucciso. In tali momenti, come era diversa Catherine dall'avvincente ragazza di sempre, la gentildonna così cortese e vivace! Dotata di talento, di educazione e di ricchezza; esperta nel grazioso ritmo della danza come nel risvegliare sull'arpa le melodie di Euterpe; altrettanto a suo agio nella luce dell'allegra festa mondana e nell'applauso più intimo della cerchia privata; non c'era da meravigliarsi che quelli creatura così brillante, favorita dalla natura, fosse portata ad esercitare il pericoloso privilegio del suo rango su chi la corteggiava. Molti giovani, conquistati dal suo fascino, si erano inginocchiati ardenti di passione di fronte al sacrario della sua bellezza e si erano ritenuti benedetti solo per aver strappato da lei, se non uno sguardo d'attenzione, almeno una lacrima di pietà. I ricchi e i potenti avevano cercato di ottenere i suoi favori con un assiduo corteggiamento, ma con l'aria altera di un'imperatrice essa aveva sempre risposto: « La mia libertà mi è più cara della vostra offerta d'amore ». La bella Catherine in quel momento stava passeggiando da sola nel parco. Si era avvicinata verso la fine del vasto giardino, che degradava verso un banco erboso, e rifletteva la sua immagine nella corrente. Piegandosi sul tronco di una grossa quercia,

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mentre le foglie di un ramo pendulo le sfioravano le labbra e i capelli, assunse un'espressione poetica e guardò con atteggiamento meditabondo nell'acqua. La scena era brillante e bella. È misteriosamente affascinante seguire l'ombra del paesaggio, che disegna lucidamente la sua copia esatta nello specchio della corrente, quando non è increspata dalle onde. Di fronte a questo spettacolo vien fatto di pensare che questa bella terra è una sgualdrina vanitosa, che a volte si compiace di dare uno sguardo a se stessa, come una graziosa scolaretta, che porta uno specchio in seno per aggiustarsi i riccioli. Là, curiosamente rovesciata in quella baia gloriosa, stava l'immagine riflessa degli alberi tranquilli e delle colline tinte di giallo, del sole al tramonto, delle nubi ancorate nel cielo, e del perfido falco pescatore, che guardava immobile dal suo nido vuoto. Era la natura che schizzava il suo ritratto dal suo specchio stesso. Lontano dalla spiaggia, sospesa indolente tra due cieli, stava un goletta di prova, che riposava inclinata di fianco sul suo profilo riflesso nell'acqua, simile a una ragnatela, su cui riposava chiglia a chiglia. Qua e là un robusto naviglio della baia sonnecchiava sulla superficie rossastra del mare, e una sottile colonna di fumo levava in alto le sue volute in mezzo alle navi. A distanza di un miglio, una nave dall'aspetto festoso, dominante come una regina fra gli altri vascelli, appariva tutta punteggiata di oblò dipinti e le sue vele e i suoi colori pendevano sonnolenti pur nel loro fiero splendore. La ballata favorita del marinaio « La ragazza che ho lasciato a casa » vagava dal sartiame delle navi fino alla costa, sospirosa come un romantico addio non udito. Più lontano, in basso, si scorgeva un lungo promontorio che scivolava nel canale, con il suo faro di guardia che stava fermo alla fine e, al di là, l'azzurro fiume Chesapeake scorreva con la sua onda funerea, finché il cielo e il mare si confondevano nell'incante-simo della distanza. Intorno alla villa gentilizia riparata dal parco, una profusione di alberi protendeva le ombre commiste del classico olmo, del pioppo a colonna, del mormorante carrubo, e della maestosa quercia. File di bianche tettoie sbucavano in mezzo al fogliame; e intorno alle ben tenute zone d'abitazione dei negri, folti gruppi di rumorosi ragazzi di colore giocavano con cani di tutte le razze. Nelle vicinanze, un orto di frutti scelti e variati mandava un tributo profumato verso il cielo: e uno spazioso parco, nell'ala meridionale, con sue fontane a grossi getti, il suo ruscello d'argento, e il suo pergolato rivestito di viti, i suoi sentieri serpeggianti, e il delizioso boschetto, rivelava nei suoi proprietari una cultura di gusto raffinato. Da un prato fiorito fino alla baia, si stendeva un bel bosco di querce, terreno preferito di gioco di un paio di cerbiatti e passeggiata favorita della loro amabile padrona. Era un'immagine sorprendente ed animata di agiatezza e eleganza del Sud. Su tutta la scena, il sole al tramonto stendeva il suo manto; perché il sole è un artista raro ed esperto. La squisita mescolanza di luce ed ombra, con la luce in allegro rilievo, e le romantiche tinte delle colline azzurrognole sullo sfondo lontano, erano la prova della sua incomparabile capacità artistica, sia nel quadro d'insieme che nei particolari della scena.

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Quel flusso di dolce diletto, che un amabile paesaggio risveglia nella mente capace di apprezzarlo, si posò sulla gentildonna come l'ondeggiante serenata del liuto, ed essa mormorò: « Come è bello! » Ma a questa esclamazione una voce bassa e melodiosa inaspettatamente rispose: « No, in sé questo scenario è insipido, perché la bellezza esiste solo in base a un paragone. Un angelo è un angelo solo sulla terra, nel cielo non è altro che una donna. Questo scenario è insignificante, perché i suoi incanti maggiori se ne sono andati, per adornare un santuario più bello. La natura è gelosa di voi, o incomparabile Catherine, come il vostro maestro di musica lo era quando la sua affascinante alunna lo superava in bravura ». La figura di un giovane diciottenne si inchinò davanti alla gentildonna stupita, ed un volto bello e melanconico le apparve davanti. Essa non riconobbe il giovane forestiero, che non poté fare a meno di sentirsi solleticato nella sua vanità dall'imbarazzo di lei - perché c'è uno strano piacere nell'incognito di chi ritorna tra i suoi amici dopo un'assenza di anni. Nessun giovane, specialmente a quell'età, può sopportare di essere salutato con un semplice segno di riconoscimento familiare. Il disinvolto « Come stai? » « Beh, non sei molto cambiato » suona raggelante a chi si illude di non essere riconosciuto. Uno sguardo di meraviglia e un inchino a distanza rappresentano l'adulazione più sottile, perché la vanità porta a interpretare questo atteggiamento come una conferma del cambiamento del suo aspetto personale: - naturalmente, un cambiamento per il meglio. Così avvenne in questo caso. E quando il giovane guardò Catherine come se la conoscesse, essa non poté fare a meno di restare sorpresa di fronte alla sua impudenza provocatoria - ma d'altra parte egli era così bello! « E dire che io » disse allora il forestiero, incrociando le braccia e inchinando la testa in un gesto di eloquente melanconia « ho meditato per anni sull'unico balsamo che possa lenire l'assenza, il ricordo dell'amata; per constatare poi, al momento del mio arrivo, che sono stato dimenticato del tutto. Che per la pace della sua anima Walter De Berrian accolga l'oblio della cugina come una benedizione... ». « Walter! Mio caro cugino! Come ho fatto a non riconoscerti subito? » esclamò Catherine colta da piacevole sorpresa, mentre protendeva le mani e quasi se stessa verso di lui, come se volesse abbracciarlo. Ma appena un momento dopo si ritirava, dolcemente confusa, di fronte allo sguardo tremante e riconoscente del giovane. La nobile gentildonna era imbarazzata, e c'era una certa malizia nella sua dolce confusione. Il giovane che stava adesso al suo fianco, per quanto suo cugino, era un orfano sotto la tutela del padre. Quando, quattro anni prima, Walter De Berrian era andato via di casa per entrare in un collegio, era ancora un timido adolescente, che la sua intraprendente e esuberante cugina aveva spesso baciato, solo per il gusto di vederlo arrossire. Essa aveva letto poi le sue lettere, intrise di una poesia di sentimento, di cui fino a allora non avrebbe sospettato l'esistenza di un ragazzo schivo come lui. Ma Catherine, dopo la sua partenza, era andata diritta nella sua carriera di bellezza trionfale e aveva pensato di rado al suo cugino assente, pur provando verso di lui, di tanto in tanto, uno slancio di ideale simpatia. Egli stava adesso di nuovo al suo fianco, dopo quattro anni di assenza,

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nelle vesti di un elegante gentiluomo, con la fronte pensierosa e con l'anima inquieta che trapelava nei suoi neri occhi malinconici, pari a lei in conoscenza e sviluppo mentale. Per un momento, il suo inaspettato cambiamento la mise in imbarazzo. « Lasciatemi stringere solo la vostra mano » esclamò il giovane De Berrian, in uno strano suono musicale, mentre la gentildonna, col volto cosparso di rossore, si tirava indietro. « Questo è un freddo incontro - è un'offesa per il nostro cuore. Perché, cugina mia, se siamo davvero felici di rivederci, la nostra gioia dovrebbe essere soffocata in questa insignificante stretta di mano? Perché non seguire l'impulso dei nostri sentimenti? » « Lo seguo » essa rispose con formale cortesia. « Non era questo il modo in cui ci incontravamo una volta, Catherine » - esclamò allora il giovane - « né questo è il saluto di spiriti affini. Scusatemi per la mia intraprendenza nel complimentarmi con voi ». « Signore, dato che siete così disinteressato » - riprese Catherine sempre con un certo sussiego - « siete il benvenuto nel ricevere la mia parte di complimenti, ma che cosa volete dire alludendo ai nostri incontri di una volta? Non me ne ricordo affatto. Sapete, quando salivo su quella collina là, per cogliere i fiori sulla cima e voi mi pregavate di scendere, non mi guardavo mai indietro; mi faceva sentire imbarazzata ». « Si può dire di tutti i conquistatori, che soffocano i lamenti nella musica trionfale della vittoria. Ma ciò che volevo dirvi, cara cugina, era che una volta le nostre mani si incontravano dopo le nostre labbra, senza attribuire nessuna malizia a un gesto così innocente », rispose Walter con tono dubbioso. « Ma allora » - rispose ridendo la gentildonna - « tu eri un ragazzo grazioso e timido, ed io una giovane donna, che aveva già spezzato una dozzina di cuori e portato indosso altrettante miniature. Ma adesso sei diventato così alto e così bello, con tale espressione nei tuoi occhi - e certo non pretenderai che tua cugina baci un uomo fatto? » « No, o più bella tra tutte le ragazze! Dio ne guardi che un tale mostro di barba e brutalità, come un uomo fatto, ferisca mai le labbra di ciliegia della mia cugina. Risparmia la loro rugiada e il loro soave respiro per le carezze del tuo sesso più gentile, e per il caldo tocco dell'adolescente che cade in adorazione ai tuoi piedi. Ho appena diciotto anni » e mentre l'avvenente Walter diceva così, il suo braccio circondò cautamente il florido petto di Catherine semi-riluttante al suo amplesso, e tra gesti di resistenza e grida soffocate, cercò le sue labbra sfuggenti. Dopo una caccia esasperante, egli riuscì a strappare la mano di giglio della donna, che cercava di sfuggirgli col volto cosparso di rossore, e stampò su di essa un lungo delizioso bacio. « Come osate, signore » chiese Catherine, alzando in su il suo mento grazioso con aria di rimprovero. « Sto morendo. Nella mia vita pago la pena della mia sfrenatezza ». « Guardate che cosa avete fatto dei miei capelli, ragazzo impudente » essa disse, con uno sguardo fatale, mentre scuoteva la capigliatura in disordine.

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Il giovane stette in piedi, come se si fosse risvegliato nell'ombrosa dimora di una ninfa. E non c'è da stupirsi, se la squisita creatura davanti a lui gli aveva fatto perdere il senso della realtà. Il generoso sangue di lei stava effondendo rose sulle sue superbe guance e attraverso gli splendidi riccioli che le ricadevano sul volto egli vide un labbro e un occhio stregato. « Maria santa » sussurrò De Berrian, come se temesse di dissipare la meravigliosa visione. « Dimmi, o tu che sei il più bello degli angeli, che delitto hai mai commesso in cielo per essere stato esiliato sulla terra? » « Il furto è stata la mia sola colpa, signore » - essa rispose, con sguardo penitente - « ho rubato le frecce di Cupido ». « Allora si capisce perché queste frecce non feriscano mai voi » disse Walter, riprendendo coscienza della sua condizione di povero mortale. Ed aggiunse: « Fatale cacciatrice! Adesso che la faretra rubata è quasi vuota, in quanto avete più corteggiatori che frecce, forse pensi di far altre vittime con l'arma dei tuoi occhi, che è anche più mortale. Tale è il vantato progresso della raffinatezza. Ma risparmiatevi un trionfo così misero come quello che potete riportare così facilmente su di me! Non fate ancora fuoco da quell'agguato mortale! Tra poco saprete da me il segreto che per anni ho tenuto chiuso come un tesoro nel mio cuore ». Così dicendo, la testa gli ricadde tristemente sul petto. « Oh, c'è mai un cofano che può tenere un segreto così a lungo? Datelo a me, mio caro cugino: o altrimenti, non vi guarderò più in faccia », e così dicendo Catherine si piegò con tono implorante sul suo braccio. « Il segreto è vostro, mia adorata Catherine » egli mormorò con voce bassa e appassionata. « Vi amo! » « Mi amate! Spero di sì. Non vorrei avere un cugino che non mi amasse ». Essa rivelò la più dolce sorpresa e rivolse un volto pensoso verso il giovane perplesso. « Che simulazione meschina! Come mi sento ridicolo - pensò egli -. Devo fingere anche di essere innocente. Proprio vero che ciò che attrae di più una farfalla è una rosa dipinta». De Berrian aveva letto molto, visto molto, e pensato ancora di più. La sua fantasia era ricca e le sue capacità di conversazione erano di prim'ordine. Egli si volse al bel paesaggio che era intorno a loro, e insensibilmente Catherine fu distratta dalla sua maschera di semplicità. Il suo cugino, ricco di talento e di immaginazione, le stava apparecchiando una rara mensa intellettuale con mano esperta ed essa vi partecipava con altrettanto entusiasmo. Essi disquisirono a lungo sulla bellezza della natura, sulla pittura, sulla musica; e versarono lacrime sulla poesia e sul senso del « patetico ». I due cugini brillavano adesso in una luce nuova e abbagliante, erano sorpresi di fronte all'ampiezza dei loro poteri, felici di se stessi e l'uno dell'altro. L'amore, nell'ordine naturale degli eventi, era il prossimo argomento della loro conversazione, e ambedue sembravano coscienti di questa legge, perchè Walter tremava e, senza rendersene conto, usava con lei una mano

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eccezionalmente delicata, mentre Catherine scuoteva la testa da un lato, e appariva deliziosamente semplice. « Per me - disse Walter con aria meditabonda - è incomprensibile che l'azione e il sentimento debbano contraddirsi l’un l'altro. In questo sono sfortunato, perché la mia lingua è la confidente del mio cuore. Il che, per ciò che riguarda il vostro sesso, significa che la mia lingua mantiene i segreti ma al tempo stesso chiede aiuto per farlo. Adesso, cugina mia, io vi amo: vedete come la mia lingua tradisce il mio amore fedele. E voi, mi amate? » « E per chi mi prendete, Walter? Forse che le leggi della terra e del cielo non ci impongono di amare i nostri congiunti? » « Perché non volete capirmi? » egli chiese con appassionata veemenza. « Il mio amore, o mia bella donna, non è quell'affetto calmo e privo di ansia che lega i congiunti. No, è la più fresca rugiada dell'anima che cade sulla sua rosa favorita. Catherine, abbiamo trascorso insieme l'infanzia... E il più tenero viticchio della vite abbraccia il fiore più vicino, e non scioglie mai la sua stretta per abbracciarne un altro ». « Bello - essa interruppe con entusiasmo - ma la vite cresce, getta altri viticchi e il più giovane è il primo a decadere, mentre il povero fiore è appassito da tempo nella sua stretta soffocante. Che il cielo salvi il fragile fiore da tale abbraccio! » « Il viticchio e il fiore muoiono fedelmente insieme, simbolo di ciò che avviene nell'amore... » « Ma io non voglio morire, mio caro. Vi dirò, che, nonostante il vostro scetticismo, ho dato a una ghirlanda di fiori il nome di "amore", e l'ho gettata nella corrente di isole del nostro giardino. È andata galleggiando allegramente, civettando con ogni onda e con ogni ramo, oscillando per un po' sulle sabbie dorate di una isoletta fiorita, e scivolando via con la promessa di tornare. Un punto più bello era sempre in vista - qualche dolce isola, lontana nella maestà della distanza, incantava nel frattempo il viaggiatore indolente, finché quella povera cosa rinsecchita che è la vanità fu ridotta a una bolla d'aria inconsistente. Il primo amore può essere sincero, finché dura, ma in virtù dello stesso impulso, che ha portato a innamorarsi la prima volta, le stesse bellezze della persona e della mente, si finisce per incontrarle in un'altra persona. L'assenza sconfigge l'amore con le sue stesse armi ». « Grazie, cara cugina, per la lezione che insegni, poiché, dato che il mio idolo è il più bello e migliore di tutti, la mia fedeltà non sarà mai scossa dalle tentazioni ». « Il mio idolo invece non è custodito con la stessa fermezza » essa soggiunse ridendo «o piuttosto io non mi sono mai innamorata; non ho mai creduto in questa sussurrante fiaba infantile. Sono piuttosto fragile ». « Fragile! » disse pronto De Berrian. « Non posso capire quella insensata affettazione che può definire fragilità la passione più nobile tra tutti i doni elargiti dal cielo. Sì, ascoltate, Catherine » disse egli addolcendo il tono della voce, come per temperare il suo orgoglio « so che siete gentile e affettuosa come i vostri cerbiatti, perché non si dimentica il compagno di gioco della propria culla. Il vostro petto batte di simpatia al

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racconto del dolore e i vostri liquidi occhi si illuminano di luce celeste quando la virtù trionfa. Certo l'amore anela riposare in un cuore come il vostro. Ah, c'è un ricordo, soave per la fragranza degli anni andati, che mi spinge a parlare. Qui, sotto questi alberi, abbiamo tessuto i convolvoli insieme, e per gioco voi mi avete baciato. Oh allora sì, avrei potuto premere le vostre soffici labbra sulle mie, ed essermi augurato che quel momento durasse un'eternità. Allora ho imparato ad adorarvi. Se c'è un sentimento privo di egoismo, qualcosa che sfida la fragilità delle emozioni umane, è il delizioso amore dei primi anni, che fiorisce e sorride nel ricordo anche quando la testa è bianca, e l'occhio senza raggi. Dalla nascita, la mia natura vi ha chiamato col nome della felicità; il mio onore è stato intessuto col vostro come in un serto glorioso, e la mia giovane ambizione ha visto in voi il suo cielo. Il mio amore è l'amore che ama una volta sola, e il mio amore vi offro ». « Grazie » - rispose Catherine, con grande modestia - « come sono orgogliosa del mio cugino, così eloquente, così tenero! Sono tormentata dal desiderio di mostrare il mio trionfo ». « È questa la vostra risposta » replicò Walter ansante. « Qual’ è il problema, signore? » « Mi amate o no? » « Non è giusto che mi facciate questa domanda » rispose dolcemente lei « senza prima rispondere alla mia: e voi mi amate? » « Oh, con una devozione infinita, Catherine, mio primo e meraviglioso amore » e così dicendo le prese le mani. « Non correte troppo » esclamò lei fingendo sorpresa. « I primi fiori della primavera sono i più belli, e anche i più fragili. La vostra offerta è inaspettata e mi fa soffrire; non parlatemene più ». Tuttavia Catherine si sentì fiera e soddisfatta per il suo affetto lungo e appassionato, che quando era ancora una ragazza intraprendente e maliziosa aveva già ravvisato in lui attraverso un migliaio di sguardi adoranti e di silenziosi vaneggiamenti. Pur essendo una donna di straordinaria bellezza, al centro di una miriade di ammiratori, essa provava, pur in mezzo a tutti i suoi trionfi, un tenero interesse particolare per il suo meditabondo cugino. L'amore di lui, essa sentiva, era un tributo offerto al valore stesso di lei. D'altra parte egli era un orfano orgoglioso, ma senza beni di fortuna. Non poteva succedere che una donna così corteggiata potesse essere conquistata così facilmente. Catherine non voleva ammettere a se stessa che l'amava, ma mentre dava uno sguardo furtivo alla figura elegante, e al bel volto del cugino, su cui erano impresse le traversie e le delusioni - qualcosa sussurrò - « Se mai dovessi amare, il mio nobile cugino sarà quell'uomo felice! »

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La frettolosa promessa. La separazione

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Per qualche momento i cugini restarono in silenzio. A una terza persona la scena sarebbe apparsa molto romantica. Il giovane De Berrian restava in disparte in un atteggiamento cupo. Quanto agli anni era ancora un ragazzo, ma il suo aspetto pensoso e rattristato indicava una maturità di spirito superiore alla sua età: sotto la sua posa impeccabile egli nascondeva il fuoco e l'alterigia di un aristocratico del Sud. In amore non è piacevole ricevere un netto rifiuto, perché non c'è umiliazione così scottante come quella che colpisce la vanità personale. L'orgoglio umiliato ha il suo balsamo nell'anima - ma la vanità ferita, come una farfalla sbattuta da una scarica di pioggia, non fa che infangarsi le ali quando cerca di volare. Catherine appariva serena come Ebe, nel suo olimpico sorriso, perché in un primo tempo si compiacque, non senza una certa cattiveria, del dolore che col suo rifiuto aveva provocato al suo innamorato. Tuttavia provava un sincero affetto per lui, anche se il suo orgoglio (e ne aveva da vendere!) le suggeriva di affettare uno sprezzante rifiuto. E pur avendogli detto altezzosamente di no, non avrebbe perdonato a un'altra donna di respingere le profferte del nobile cugino. Il messaggero alato dei sospiri, l'arciere Cupido, era nell'aria, e il suo dardo fu fatale anche per lei. Uno splendido occhio languiva dietro le sue ciglia, colmo di lacrime che stavano per sgorgare. Sulle sue guance si alternavano di volta in volta il pallore e il rossore, segni di un'intensa emozione, e tutta la sua persona era percorsa da un fremito di trepidante commozione, mentre pensava: « Come sarebbe bello scacciare i pensieri dalla sua fronte aggrondata! Gli offrirò il più dolce sorriso, perché questo deve essere davvero amore! » Purtroppo, le nostre migliori decisioni vengono prese spesso un momento troppo tardi. C'è una fatalità in ogni minuto che passa, e spesso succede che il viaggiatore si affretti verso la riva, solo per vedere la sua barca che è già salpata. In effetti Catherine sfoggiò il suo sorriso migliore, perché il suo sguardo rifletteva la più tenera compassione di un angelo celeste. « Ditemi, Cavaliere dalla triste figura » chiese in un tono di consolazione celeste « perché state là in un atteggiamento così disperato! Avete forse abbandonato vilmente il campo del torneo nel vostro college per rifugiarvi nell'alcova della donna amata? » « Sono felice, estremamente felice, di avere da darvi qualcosa che vi farà certamente piacere - rispose Walter, con un'espressione di amaro piacere - sono stato espulso dal college ». « Espulso dal college! Walter De Berrian espulso! Per che cosa, mio caro cugino? » esclamò essa con intensa emozione, mentre gli prendeva la mano ardente, e lo guardava in volto con le lacrime agli occhi. « Per aver combattuto un duello » fu l'inflessibile e calcolata risposta.

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La visione di donna che gli stava davanti avrebbe ossessionato per anni De Berrian, dopo il suo arruolamento in marina, mentre ascoltava il mormorio continuo delle onde nella profonda tranquillità delle ore di guardia notturna. Lentamente le bianche mani di lei scossero dal suo volto di cenere i boccoli di capelli che nascondevano la sua ira. Si levò in piedi, e scrutò il giovane attonito come se stesse meditando fino a che punto valesse la pena di maledirlo. In quel momento egli avrebbe dato qualsiasi cosa, per rimangiarsi le parole avventate che aveva pronunciato, perché lo sguardo con cui lo fulminò la imperiosa e indignata Catherine fece raggelare il suo giovane cuore. « E voi avete osato » - essa parlò a lungo con un accento di estremo disprezzo - «deporre ai miei piedi l'amore offensivo di uno che pratica il duello! Avreste preteso di condurmi all'altare con la mano grondante di sangue e coronare la fronte di Catherine Harman coi fiori di un serto nuziale, che nascondeva la lama dell'assassino! Andatevene per sempre! »Il primo soave tocco della luna che stava sorgendo cadde sul volto di lei, che prima era così bello nella sua ritrosa civetteria; ma adesso era pallido e duro, come se avesse incontrato il dardo della morte, mentre pronunciava la sua maledizione. Essa si volse con un gesto di separazione definitiva e un senso di desolazione colse il suo infelice cugino, come quando le foglie del mandorlo si inaridiscono e muoiono al soffio del vento del deserto. Non c'è nessuna emozione più intensamente agghiacciante dell’angoscia, che stringe un giovane cuore fino a soffocarlo, di fronte alla cupa prospettiva di un futuro senza speranza. Levandosi sconvolto, come un supplicante a cui viene negata la grazia alla porta della prigione, il giovane prese per il braccio la sua maestosa cugina, e l’implorò disperatamente con queste parole: « Ascoltatemi per un momento solo e non siate ingiusta verso di me Catherine, e io, ve lo giuro, me ne andrò via come mi avete ordinato. Quando vostro fratello fu ucciso in un duello, voi foste folgorata dal dolore per la promessa infranta che gettò sulla vostra bellezza l’ombra di un lutto inconsolabile. Ora, proprio in nome di questo ricordo, vi supplico di ascoltarmi per un momento. Adesso l’erba è cresciuta alta sulla tomba di mia madre, che ha amato voi non meno di me – io sono solo; perché la vostra maledizione – sì, la vostra – risuona ancora nell’aria. Perché l’amore che si fonda nella più appassionata devozione dovrebbe essere un delitto? Perché io, che non ho mai pronunciato il vostro nome, se non come un fedele di fronte al santuario stesso della sua fede, adesso vengo respinto con parole troppo ingiuriose persino per la condanna di un nemico? È già abbastanza duro, che i nostri sentimenti e le nostre debolezze siano oggetto di irrisione da parte delle persone che ci sono indifferenti; ma quando le nostre più care speranze sono un bersaglio di disprezzo da parte di coloro che amiamo, ciò è più amaro di una tomba disonorata. Catherine, mia cugina e compagna di giochi, perdonatemi, perché me ne vado per sempre ». « Andatevene e che i miei occhi non possano posarsi mai più su un uomo, che fa parte di quella odiosa masnada, che ha assassinato mio fratello ». « Eppure anche vostro fratello praticava il duello…».

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« Lasciatemi, non rivolgetemi più la parola! » esclamò Catherine con voce alterata. « Mai » ripeté lentamente De Berrian, incrociando le braccia più nel dolore che nell’ira, di fronte alla pericolosa perversità della sua adorata cugina. Essa non lo degnò di uno sguardo, ma si mosse altezzosamente per andare. E allora il fiero orgoglio della sua natura lampeggiò nello sguardo severo e profondo di Walter, mentre il sangue di un’anima altera, offesa da un torto senza ragione, che disdegna di chiedere spiegazioni, pulsava e vibrava sulle sue guance. « La vostra lezione è amara ma è ben impartita, miss Harman. Potrei essere altrettanto orgoglioso e inflessibile come voi perché il sangue degli Harman scorre qui in un cuore, a cui è stato insegnato ad odiare, con la stessa facilità con cui è stato insegnato al vostro. Tuttavia le mie mani sono senza macchia, era mio vanto di amarvi in modo onorevole. Voi mi avete conquistato, ma non avete mai trionfato su di me, perché Bruto non va a Roma in catene come prigioniero. Sono giovane » - continuò De Berrian, ancora sotto l’eccitazione dell’ingiuria ricevuta - « e il mondo era bello davanti a me. Ho provato intense emozioni con un’anima ispirata al senso dell’onore e dell’amore, e una donna era il mio idolo. Datemi affetto e felicità, dissi, e non sarò più ossessionato dal desiderio della fama, perché anche nei voli più selvaggi dell’ambizione ci sono pause, in cui anche il sogno più affascinante della musa della fantasia si configura in forma di un cuore e una capanna. Spesso, quando ho visto due cuori, che avevano fiducia l’uno nell’altro, intrecciarso tra loro nella deliziosa confidenza della felicità coniugale, in cui gli occhi innamorati leggono il desiderio reciproco l’uno nello sguardo dell’altro, e calde labbra si incontrano per stamparlo in un rossore, ho esclamato, con il rapimento della speranza che non è stata ancora delusa: “Anch’io un giorno starò come uno di questi”. Avrei potuto vivere e morire come un gentiluomo e un benefattore, ma quel sogno è passato, e la mano di Catherine ha sollevato il velo ». Il discorso del giovane non ricevette risposta. Non ci fu, da parte di Catherine, nessuno sguardo carezzevole né ombra di lacrima, che gli facesse capire di essere stato perdonato. In orgoglioso silenzio, i due cugini avanzarono nel boschetto illuminato dal chiaro di luna e mossero verso la casa, mentre le loro lunghe ombre si stagliavano davanti a loro, oscure come le prospettive del loro futuro. Il vecchio padre di Catherine, affetto dalla gotta, era di pessimo umore. Si era seduto con una pipa nella veranda, e il suo piede malato, che odorava di canfora e di unguenti, avvolto in una caterva di bende, riposava su una pila di cuscini in una seggiola a dondolo dall’alto schienale. Il soave profumo dei fiori rampicanti, che Catherine aveva fatto crescere intorno allo steccato e ai pilastri si diffondeva intorno con la rugiada e il chiaro di luna, alleviando il disagio dell’inferno e addolcendo il suo stato d’animo, malgrado i dolori della gotta. L’anziano gentiluomo stava in certo modo per passare un’ora di relativa serenità, senza pronunciare un’imprecazione e non aveva bisogno di altro se non di un bacio da parte della figlia per raggiungere la massima beatitudine. Il vecchio Harman era un famoso cacciatore di volpi e manteneva una muta di cani. Era anche un amante di gatti - cosa che sembra insolita con le persone del suo sesso e

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particolarmente sorprendente, se si tiene presente la sua antipatia per le zitelle di una volta, che nutrivano un debole per i felini. Si sa che cani e gatti sono mortali nemici; essi riflettono una caratteristica tipicamente americana, in quanto litigano giorno e notte, come una zia zitella e una ragazza innamorata quando c'è di mezzo un fidanzato. All'improvviso, nel boschetto vicino vi fu a questo punto uno scoppio di latrati e di movimenti furiosi, tanto che il vecchio gentiluomo fu sbalzato su dalla sedia in cui stava adagiato, sonnecchiando in uno stato di torpore. Era l'avvisaglia dell'attacco da parte del suo cane favorito, che in un momento si era scatenato, abbaiando a squarciagola. Al vecchio cacciatore sembrò di essere tornato ai bei tempi delle sue battute di caccia, quando caracollava a rotta di collo tra siepi e fossati, nel gelo del chiaro mattino. Agitando la pipa come se fosse la frusta di un cavallo, si mise la mano sulla bocca e fece risuonare un gagliardo grido di guerra, quando la sua gatta preferita, inseguita dal suo cane favorito in piena caccia sulla sua scia, doppiò l'angolo con un elegante balzo felino e arrivò alla veranda tra i canovacci e gli stracci che avvolgevano la gamba del vecchio gentiluomo. La gatta Grimalkin, con un'agile mossa, dato che il fiato non le reggeva più, virò nella corsa e per sfuggire all'assalto del cane si rifugiò sotto la sedia che sosteneva l'arto infermo. Immediatamente il felino fissò la lunga coda ritta a mo’ di stendardo, e aprì a forza di soffi una fitta sparatoria contro il nemico che stava oltre gli Chevaux- de-Frise. La sfida fu reciproca: e nello sforzo disperato dei due animali di aprirsi un varco, la sedia a dondolo fu capovolta, e il disgraziatissimo piede del vecchio Harman cadde dall'alto nel bel mezzo della lotta furibonda. La feroce Grimalkin, come un sulfureo pirata per il quale ogni vela estranea rappresenta un nemico, gettò le sue unghie sulla preda impotente e tra cane e gatto si scatenò una mischia furiosa per il suo possesso. Morsi, strilli, colpi e graffi, nel cordiale scambio di cortesie feline e canine, si riversarono sul povero piede: una lezione per tutti i mediatori. Il vecchio gentiluomo, che non faceva mai le cose a metà, emise ululati di dolore e cominciò a lanciare tremende imprecazioni, scagliandosi contro i belligeranti che non esitarono a mandare al diavolo il loro onore nazionale, e ripiegarono in ritirata precipitosa con le vele ammainate e gli stendardi abbassati. A questo punto, i due cugini stavano risalendo lentamente lungo il viale. Vedendo un forestiero con la figlia, l'irascibile vecchio gentiluomo smise di imprecare, finendo di scagliare i suoi ultimi improperi mentre la coppia si avvicinava verso di lui. Catherine si ritirò in casa senza dire una parola, e Walter si fece riconoscere dallo zio. Nessuno dei due era nello stato d'animo più cordiale e l'incontro si limitò alla pura formalità. « Sei tornato in modo un po' inaspettato » brontolò lo zio, dando uno sguardo piuttosto torvo al suo piede tormentato. « Ho lasciato il college » rispose il nipote con un inchino che avrebbe fatto onore a un ambasciatore. « Lasciato il college! » esclamò il vecchio gentiluomo, incrociando le braccia e stringendo le labbra con atteggiamento irritato e severo. « Lasciato il college! proprio

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quando mancavano solo pochi mesi per avere la laurea! Non ricordo che ti sia degnato di consultarti con me in questa occasione! » « No, signore, non l'ho fatto. Non si è ritenuta necessaria la formalità della vostra approvazione per questo. In realtà sono stato espulso » fu la cortese risposta. « Espulso! per tutti i diavoli! » sbottò lo zio, aggrappandosi alla sua gruccia. « Come hai osato farlo? voglio dire, come è successo? Perché? » « Quando mi rivolgerete le domande in modo più adatto a un gentiluomo vi risponderò » soggiunse il nipote con tono affettuoso, mentre lo zio quasi saltava su dalla sedia per la rabbia. « Per favore controllate il vostro umore. Arrabbiarvi così non servirà ad altro che a farvi sentire peggio. Mi dispiace di avervi dato questa notizia sconcertante in modo così brusco; non mi sembra che ne siate all'altezza ». « Era tempo, per Giove! brutto mascalzone senza un soldo! che ti sei intrufolato nella mia casa! a che cosa siamo arrivati! » tuonò il vecchio gentiluomo, pestando a terra il piede sbagliato con l'impulso della sua rabbia scatenata. « Mascalzone senza un soldo! » gridò De Berrian, mentre un terribile cipiglio gli si aggrottava cupo sulla fronte, oscurata dall'ira. « Ah, allora questa è la ragione della gentile accoglienza che ho appena ricevuto altrove ». E così dicendo, guardò Catherine, che tutta agitata si stava affrettando verso la porta. Il giovane stette eretto e altero di fronte al suo attonito tutore. « Quando, signore, mia madre morente affidò il figlio orfano alla tutela del suo unico fratello, la sua anima immacolata era felice nella sua dipartita, perché le vostre lacrime le assicuravano una garanzia di protezione per la sua creatura. Ringrazio Dio che essa non assiste adesso a questa umiliazione. Addio per sempre! » Il giovane se ne andò via, lasciando lo zio stupefatto con la testa in fiamme. Quando Walter raggiunse il boschetto, Catherine tese le braccia verso di lui in atto di implorazione, e con voce resa rauca dai singhiozzi sospirò il suo nome. Il suo richiamo non fu mai udito, ed essa premette le mani sulla sua fronte che scoppiava, in una terribile lotta tra l'orgoglio e il rimpianto; la sua lunga, magnifica capigliatura cadde oscuramente sulle sue guance, e calde lacrime scivolarono tra le sue dita tremanti. Walter stava in piedi accanto all'albero dove, un'ora prima, nel sogno della speranza e nel brivido dell'amore, aveva incontrato la sua bella cugina dopo un'assenza di anni. I cerbiatti di Catherine vennero saltellando a cercarlo, e fuggirono spaventati quando si accorsero di essersi sbagliati. De Berrian rise di un riso amaro, e si avviò rapidamente verso la banchina del porto nella baia. Le vele della nave lontana brillavano al chiaro di luna come un alto banco di neve alla deriva. Una grande bandiera, che ondeggiava su e giù alla carezza della brezza marina, apparendo e svanendo alla vista come una figura aerea, sembrava richiamarlo col suo sventolio. La nave avanzava verso la sua direzione, e balzando rapidamente su un leggero battello, egli afferrò i remi coi bracci muscolosi per andare a raggiungerla. Improvvisamente la bella casa bianca, il terreno di giochi ricoperto di un prato d'erba

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verde, la spiaggia, le colline, e ogni luogo impresso nei suoi ricordi, si mescolavano, si fondevano, si addolcivano e si perdevano nella vasta onda della luce lunare, che si increspava in un migliaio di sorrisi mentre si sposava con la gentile brezza del mare. Una rude voce salutò De Berrian dalla prua della nave, e spingendo il battello sul fianco, egli salì agilmente a bordo. E quel giovane di talento - quel ragazzo orfano - nel breve giro di un'ora fu derubato di tutto ciò che possedeva nella vita, eccetto la sua amarezza! La sera seguente casa Harman fu allegra e festosa, quale si addiceva alla stagione di maggio, e a dei cuori giovanili. Il ballo di mezzanotte fu un grande avvenimento mondano. I viali illuminati e coperti di festoni di fiori, il giardino intrecciato di viti e di rose, le verande, le sale e i saloni del palazzo Harman riecheggiavano al suono delle mascherate e dei divertimenti. La gioventù e la bellezza fiorivano in tutta la loro freschezza e la regale Catherine, acconciata in tutto il suo splendore, era la stella della festa, su cui ogni occhio non poteva fare a meno di posarsi. Essa suonava e cantava, e le labbra di tutti tacevano i loro vivaci conversari, per ascoltare la melodia di un Serafino. Essa balzava in mezzo agli intimi tète à tète e dinanzi a lei si zittivano le lingue, che altrove lasciavano cadere le più brillanti gemme del pensiero. E quando si muoveva nella magica eleganza della danza, aerea e graziosa come una di quelle forme squisite che ondeggiano in un sogno semi-ricordato, ogni occhio la guardava con adorazione, e non c'era un cuore che non sospirasse quando la musica cessava. Più tardi, prima di coricarsi, Catherine Harman stava davanti allo specchio quella notte, e una amabile amica le slacciava i gioielli dalla superba capigliatura, che nella sua inquieta bellezza scuoteva qua e là con splendida negligenza. Quella sera era stata una sera di eccitante trionfo e Catherine sembrava nel suo stato d'animo più felice. Tuttavia c'era qualcosa di selvaggio nella sua allegria, un brivido innaturale nel riso frequente che la scuoteva. L'occhio era troppo eccitato e anormale nel suo scintillio; anche la guancia s'arrossava, o piuttosto, su tutta la faccia si spandeva quella tinta di rosso profondo, che rivela l'eccitazione febbrile. Come è strano che il cuore sanguinante possa irridere a se stesso, simulando uno stato d'animo opposto a quello che prova! Sebbene la luce del sole giochi sulla nube d'estate, spesso la tempesta cova nel suo seno, e dietro si profila un'ombra che minaccia la bufera. Le due amabili amiche avevano riso a lungo sugli incidenti del ballo. Terminarono il loro gradevole compito di togliere gli ornamenti da una bellezza che non ne aveva bisogno. Catherine chiese all'improvviso: « Isabella, conosci il segreto del potere che la donna riesce a esercitare su questi orgogliosi signori della creazione, che sono gli uomini? » « Debbo chiederlo a te » essa rispose. « L'esperienza insegna ». « Non voglio altri complimenti, stanotte, dolce creatura innocente. La tua Kate non è ambiziosa, ed è stata già esilarata abbastanza dal loro suono leggiadro - ma a pensarci bene accetterò il tuo; perché, venendo da una del tuo sesso, certamente è una preziosa curiosità ».

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« Allora sii generosa come me, e dimmi il segreto ». « Se mi prometti di non rivaleggiare con me, cara » disse accondiscendente Catherine, premendo dolcemente le mani su ambedue le guance di Isabella, e baciando un paio di labbra quasi altrettanto tentatrici quanto le sue. « Come la forza di Sansone, l'incanto della bellezza di una donna consiste nella sua capigliatura, nella sua ricca, ondulata, magnifica capigliatura. Che cosa sono i tuoi occhi ruotanti, senza le brune sopracciglia, vellutate come pelle di talpa e senza le ciglia, soffici come pelo di cammello? Immagina solo come apparirebbe il tuo volto incantevole e la tua testa elegante, se fossero privati del loro ornamento di boccoli dorati... Ah, Isabella, questo è il mezzo supremo con cui Cupido tende il suo agguato » - essa aggiunse, sciogliendo i lunghi boccoli ricciuti sul bianco e bel petto dell'amica e volgendola verso lo specchio. « Ecco il più amabile spettacolo della natura, la bellezza senza orpelli. Se i nostri mariti non ci amassero per noi stesse, allora l'amore non è che un fantasma ». « Sì, Catherine, - disse Isabella ridendo divertita e lusingata - oltre ad offrire un agguato fatale a Cupido, il potente dio fanciullo che ispira l'amore, la capigliatura femminile gli fornisce le sue catene d'oro tanto decantate. Quando noi avevamo sedici anni e ci giuravamo amicizia, penso di aver visto una catena del genere sul polso del tuo timido cugino - quando ritornerà a casa? » Fu un bene a questo punto che le trecce sciolte di Catherine nascondessero l'improvviso pallore della sua carnagione, altrimenti la ragazza avrebbe tradito l'intensa emozione che quella domanda le suscitava. « Pensavo che sarebbe venuto qua questa notte » essa rispose con un tono tremante. Un'ora dopo, quando non si sentiva altro rumore che il gentile respiro di Isabella addormentata, Catherine si era sottratta alle braccia di lei, e aveva mescolato le sue lacrime con la rugiada dei fiori, che pendevano alla finestra carichi del loro dolce peso. Lunga e amara era quella fantasticheria. I fitti avvenimenti e il vertiginoso splendore del giorno trascorso le avevano impedito di riflettere, o meglio, essa stessa aveva cercato di stordirsi con l'eccitazione esterna per paura di pensare. Ma in quella ora tranquilla in cui la luna invitava al languore, e le stelle riportavano la memoria alla coscienza, essa pensò al cugino che era stato così duramente offeso dal suo diniego. Era l'ora in cui il cuore diventa consapevole della sua verità. La verità, come l'eco, ha la sua dimora nella solitudine, cogliendo di sorpresa con il suo vagante sussurro l'anima oppressa, che cerca di entrare in comunione con essa. Egli se ne era andato per sempre! « Ritornerà? Mi perdonerà? » essa fu quasi sul punto di gridare; « Oh, pregherò le stelle di piangere per me - e la colomba di chiedere perdono col suo sguardo implorante; e allora egli sarà per sempre il signore di questo cuore. Egli ha detto che mi amava\ Amore! Misterioso potere. Non ti avevo conosciuto veramente prima di adesso! » Essa cessò la sua rèverie, perché la luna stava affondando sotto la linea cupa della spiaggia lontana; la sua ombra cadeva come un lungo immobile pilastro di luce attraverso la baia addormentata, e quindi tutto fu oscuro, silenzioso, e avvolto di un mistico alone.

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Chi gioca con i sentimenti è come il curioso osservatore che spia lo scintillio che trapela dalla caverna, cogliendone solo un leggero spiraglio. L'amore non è che il fragile, splendido fiore cresciuto nel boudoir di una donna. Tenero come la mano che carezza le sue foglie, fa sbocciare il carattere della sua amabile sacerdotessa. I sospiri sono la sua rugiada e i suoi venti d'estate. Un fiore così fragile, e purtuttavia di un prezzo così squisitamente inestimabile, muore sotto la raffica della bufera che soffia all'esterno.

Il fortino. La partenza del Gabbiano

3

Era un mattino d'autunno del 1812 e le cupole, le torri e le guglie della città monumentale apparivano chiari e scintillanti sopra un mare di vapore, come navi distanti alla fonda. Qua e là gruppi di tetti e comignoli, avvolti di fumo, e finestre simili a scali sembravano ancorati, come batterie d'artiglieria fluttuanti, nella bianca vastità dell'orizzonte. La bacchetta fatata del Mago Sole toccò il pesante baldacchino che si srotolò in modo grandioso, e tutta la città si svegliò. Un rumore errabondo di ruote e di campane lontane si fece sempre più intenso e distinto, finché l'eterno ruggito del molo affollato fluttuò nella gelida aria del mattino. Tuttavia non tutto il rumore era dovuto al trambusto commerciale. L'acuta musica della zampogna, e i toni rombanti del tamburo prestavano un'eco all'aria che passava. Centinaia di bandiere pendevano tutt'intorno fino alla distanza più lontana dall'alto dei pinnacoli e delle alberature delle navi; e non si trattava dei pacifici emblemi della marina mercantile, perché quando la brezza, che soffiava in pieno, spiegò le loro tele blasonate, la bandiera delle stelle e delle strisce sventolò orgogliosamente nell'aria. Era stata dichiarata la guerra tra la Gran Bretagna e l'America. Un lembo di quella tremenda tempesta, che aveva sferzato con i suoi marosi l'Europa, era sfuggito attraverso l'Atlantico, e aveva spento le luci della pace sulla costa. Lo spirito di un popolo coraggioso era emersa dalla vana rabbia impotente per un'ag-gressione non provocata a una nobile coscienza di eguaglianza. Un entusiasmo cavalleresco per la contesa pervase all'improvviso tutte le classi del popolo americano; perché già il ferreo tuono della Costituzione aveva rimbombato attraverso le pro-fondità dell'Oceano per annunciare alla orgogliosa Corte di San Giacomo che una stella rivale brillava ormai sui mari. Gli affari subivano una battuta d'arresto, ma tutti erano affaccendati, e migliaia di cittadini stavano affollando le strade. Dietro le grandi bandiere che sventolavano su di loro, l'osservatore distante avrebbe potuto notare i solidi ranghi e persino il trambusto delle truppe militari. Il porto pullulava di barche che passavano e salutavano. C'erano intorno anche alcuni battelli, a bordo dei quali si trovavano gruppi di oziosi e di curiosi, che una volta tanto erano decisi a stare all'erta per il bene del Paese. Ogni nuovo arrivo di navi sembrava portare a bordo con sé il destino della Nazione, e una grossa folla, avida di notizie, sostava sulle fila del molo. Di tanto in tanto si udiva uno scoppio di

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artiglieria, che suscitava un vasto clamore di entusiasmo patriottico. La splendida vittoria della Costituzione aveva esaltato « un popolo non abituato alla conquista e incerto sulla sua stessa potenza ». Tutti erano pronti a combattere - non importava chi, fosse il diavolo o qualunque altra cosa - comunque tutti avevano una voglia matta di ributtare la gagliarda consorteria del vecchio John Bull oltre Oceano a casa sua. Né si trattava di parole senza costrutto, perché gli abitanti della città monumentale avevano guadagnato allori su aspri campi di battaglia, e gli incrociatori della loro flotta, su mari lontani, avevano più volte fatto ammainare molte bandiere del nemico. La gente coraggiosa, come quella di Boston, onorerà e ricompenserà sempre il valore, altrimenti da dove le viene quel fiero titolo di « città monumentale »? A breve distanza dal molo, nella parte più bassa della città, stava alla fonda un vascello che sembrava metà brigantino, metà goletta, e che al primo sguardo attirava l'attenzione per la incomparabile bellezza del suo modello. L'imbarcazione ap-parteneva a quella classe particolare e singolarmente elegante di velieri ben nota nei porti americani come un brigantino « ermafrodito ». Gli alberi erano alti e a forma di barchetta, con vele strette, e una bella inclinazione, i pennoni affusolati erano chiari e lucenti, e l'attrezzatura nel suo complesso era di stile elegante e di buon gusto. Il veliero si stendeva lungo e basso nell'acqua, e ondeggiava alla brezza allegra e leggera come una piuma fluttuante. Una sola striscia di pittura bianca, chiara e netta come se fosse stata intagliata da una perla, correva, con una curva appena percettibile, lungo l'oscuro scafo di piombo, e un piccolo gabbiano color neve, col collo ripiegato e le ali semispalancate, sembrava pronto a spiccare il volo dalla prua adorna di fregi. C'era un arabesco di alghe dorate sul suo bel dorso, che era sfiorato dalle lunghe strisce della bandiera degli Stati Uniti, mentre ondeggiava sopra la ringhiera di poppa. Quattro boccaporti da ogni lato rivelavano le nere bocche di altrettanti cannoni; un mortaio lungo diciotto centimetri era poggiato su un perno girevole davanti all'albero di trinchetto, e due boccaporti per la fuoruscita di spietati battelli da caccia si aprivano su ogni fianco della ruota del timone. L'aspetto del vascello era quello di una nave corsara, e il trambusto e gli hurrà della manovra d'ingaggio, che l'occhio esperto di un uomo di mare non tarda a scoprire, lo assegnava a quella audace e in certo modo equivoca classe d'imbarcazioni. I suoi ufficiali erano coraggiosi ed esperti, e la nave era manovrata da un equipaggio scelto di circa un centinaio di uomini, che erano stati messi insieme dallo spirito patriottico e dall'ancor più allettante spirito di guadagno e d'avventura. Navigare a bordo di questo tipo di navi corsare è stato pittorescamente definito « una scuola di pirateria », probabilmente non senza un pizzico di verità. Ma non è pregiudizio affermare che arruolarsi su una nave corsara americana durante l'ultima guerra con la Gran Bretagna rappresentava una nobile eccezione a questa regola. La marina militare americana a quell'epoca era altrettanto piccola quanto cavalleresca, e le navi corsare armate si potevano considerare alleate nella difesa nazionale più che vascelli di filibustieri che praticavano la pirateria per il proprio profitto. È ben noto che

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queste navi corsare salutavano con tutti gli onori le imbarcazioni dei nemici, senza fare odiose distinzioni fra quelle armate e quelle non armate. Molti uomini, animati da puro spirito cavalleresco, partecipavano a queste brillanti imprese marinare per puro sentimento nazionale; e quale americano, nel leggere la storia delle loro audaci vittorie, rifiuterebbe loro l'omaggio dell'applauso e della gratitudine? Ma adesso ci fu un'improvvisa agitazione a bordo del Gabbiano. Il fischio del timoniere lacerò l'aria e al grido stentoreo « Staccate l'ancora » si verificò un pittoresco sfoggio di giacche azzurre sul ponte, mentre i marinai correvano ai loro posti. I numerosi canotti che si erano affollati intorno al brigantino si allontanarono, e nube dopo nube l'orizzonte si schiarì lasciando intravvedere il sereno in mezzo alla maretta. Inchinando graziosamente la carena a babordo, il brigantino scivolò via come per incanto. Le zampogne e i tamburi intonarono una marcia e un lungo grido d'entusiasmo si levò dalla folla ammirata, che sostava sulla banchina del molo. Il Gabbiano virò con eleganza oltre il fortino, con la sua bella bandiera che faceva segno di riconoscimento alla grande insegna che presiedeva aggrottata sulle batterie. Un altro grido, uno sbuffo di fumo dal ponte - un solo cannone - e il Gabbiano era già al largo sulle onde.

Scene sul mare

4

Era l'alba sul mare e un'imbarcazione solitaria con due uomini a bordo andava alla deriva molte leghe dalla terraferma ad est di Capo St. Roque. L'alba era bella e serena. Il vento riposava ancora sugli ampi, calmi vestigi di un recente temporale, e tutto all'intorno, per quanto l'occhio potesse arrivare, non un solo flusso di burrasca in arrivo sfiorava le onde affaticate. Si poteva scorgere, da una parte, il festoso manto verde delle alghe marine che ondulavano sulla superficie, mentre dall'altra il veloce guizzo di un banco di pesciolini d'argento increspava la cresta dell'acqua, e talvolta un'ondata improvvisa e uno spruzzo spingevano l'occhio a cogliere la pinna scintillante di uno squalo, che affondava in un vortice. Guardando dolcemente verso l'orizzonte ad oriente, si profilavano i primi rosei contorni dei diti dell'Aurora. Tra pochi istanti la splendida luce di questi climi sarebbe saettata attraverso la fantastica cupola e avrebbe inondato il pavimento scintillante del mare. Il mare era un immenso copriletto, fresco e abbagliante, che sorgeva dal telaio stesso della natura. Le sue tinte soavi e il suo intenso scintillio, che si muoveva e danzava continuamente col rotolio veloce delle onde, dava all'occhio abbagliato l'illusione di un incantesimo. Il quadro più squisito non avrebbe potuto rendere neppure il brillio delle sue ombre. Come se la superba scena fosse illuminata per l'arrivo di un mago, il sole balzò vivido sulla scena, e un gruppo di nuvole grandiose fluttuò in un'onda scintillante come una flotta maestosa con la scorta. E adesso, coi sensi più all'erta che mai, i due marinai che erano a bordo del battello esplorarono subito curiosamente con lo sguardo intorno a sé; alzandosi rapidamente

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dai sedili senza osare guardarsi l'un l'altro, scrutarono di nuovo il rosso orizzonte, più lentamente, più attentamente, facendosi ombra sugli occhi con le mani. Colui che stava a poppa dell'imbarcazione era un giovane dal personale elegante e dalla fisionomia di nobile lignaggio, e purtuttavia era pallido in volto e quasi spettrale, e i suoi baffi neri come il carbone, con i soffici mustacchi che pendevano a lato, erano diventati informi, e si confondevano con una barba troppo cresciuta. Non portava né cappello né berretto, e la sua capigliatura abbondante e trascurata era tutta arruffata intorno a una ferita rigonfia, che correva dalla cima della testa fino alla tempia. Un fazzoletto di seta nera gli fasciava tutto intorno la gola, stretto in modo noncurante, con un nodo da marinaio. Indossava una giacca azzurra di taglio elegante, ma sporca, e un paio di calzoni bianchi stretti con una cinghia intorno alla vita, che ricadevano sciolti sulle sue membra, mantenendo appena al suo aspetto sfigurato la sua naturale simmetria muscolare. C'era uno sguardo selvaggio e in certi momenti addirittura diabolico nel suo vivace occhio scuro, che sembrava leggere nell'animo degli altri attraverso la sua stessa luce, come la torcia del cacciatore, quando coglie lo sguardo del cervo tremante di terrore. L'altro era un negro di robusta corporatura, e dalla fisionomia intelligente e fanciullesca; fatta eccezione per un berretto logoro della marina francese, era vestito come un marinaio in servizio nella marina mercantile americana, e un tipico coltello da marinaio gli pendeva da un cordoncino infilato nell'asola di un bottone. C'erano due remi nella barca, con le maniglie e le pale coperte di brina, come se non fossero stati usati per ore. Sulla barca non si vedevano vele, armi, bussole o provvigioni di sorta. A lungo e intensamente i due naufraghi scrutarono l'oceano. Talvolta un delfino, guizzando lontano, gettava una gran quantità di schiuma in aria o un bianco uccello marino volava attraverso una lontana increspatura, e i loro cuori battevano forte e il loro respiro si faceva più affrettato, nella speranza di scorgere il segno di un veliero, ma ahimè l'eco era solo un lamento. Niente, non videro un solo scoglio all'orizzonte finché, tracciando con lo sguardo il cerchio vuoto dello sfondo marino, i loro occhi si incontrarono e lessero la disperazione nelle pupille l'uno dell'altro. Il giovane si buttò sul sedile con una imprecazione di impazienza, e il negro si azzardò ad esprimere una parola di speranza. « Non gettate mai la spugna, signor Walter » - perché era a Walter De Berrian che il marinaio di colore rivolgeva la parola - « finora abbiamo avuto abbastanza fortuna, siamo riusciti a sfuggire a quelle maledette canaglie, e la notte scorsa siamo sopravvissuti a una brutta bufera - e non sarà stato per nulla - così piaccia al Signore Onnipotente ». « No, per cento diavoli » - brontolò De Berrian, con un sobbalzo. « Non ho più nessuna ragione per vivere - il mio solo amico è un negro che non ne ha alcuna da parte sua. I parenti! la sola parola mi fa venire un nodo alla gola - e io, gentiluomo per nascita e per educazione, sono qua, un fuorilegge morto di fame, messo sotto i piedi dalla peggior feccia del mondo! Baratterei l'eternità per una spada e sarei pronto a cavalcare sul dorso di una tigre ».

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Il buon negro fu turbato dalle aspre parole e dallo sguardo corrucciato del suo giovane compagno, e ancora lacrime scorsero sulle sue guance scure, quando De Berrian guardò con odio anche verso di lui. Il terribile pensiero che De Berrian fosse impazzito angosciava il negro fedele. Egli piangeva per il timore, pensando che la febbre, dovuta alla ferita alla testa e il tormento della sete che li angustiava da giorni avessero scosso il cervello del suo giovane padrone. De Berrian si piegò a metà dalla poppa, e tuffò in acqua le mani che gli scottavano. Spruzzò l'acqua sulla testa dolorante e l'acqua ricadde con lo stesso freddo mormorio di una fresca cascata. Che cos'era mai il supplizio di Tantalo rispetto alla minaccia della morte per sete sull'oceano? Un pensiero improvviso illuminò allora l'occhio del negro, riempiendolo di gioia. Strappando la stoffa di lana del suo giubbotto, raccolse con cura la densa rugiada gelata che si era raccolta sui remi e sui sedili, e applicò lo straccio madido di acqua dolce alla bocca assetata di De Berrian. « Succhiate su, padron Walter, succhiate quest'acqua; e quando è finita, ecco il coltello, ed ecco il mio dito. Peter deve morire per primo ». « Mai, mio devoto amico » rispose il giovane, scagliando con rabbia la pezza nel mare « se dobbiamo morire, moriremo insieme ». Il negro voltò la faccia per nascondere le lacrime. Bagnandosi la ferita, che sanguinava di nuovo, De Berrian vide sul polso un filo sottile della capigliatura di Catherine Harman. che correva in cerchio sulla cicatrice ancora infiammata di una manetta. Molti anni prima la bella giovinetta aveva intrecciato là un filo dei suoi capelli, e ridendo lo aveva chiamato il suo schiavo. « Sono ancora il suo schiavo? » egli pensò, mentre si scansava una lacrima. « Oh, se adesso essa potesse vedermi, come le dispiacerebbe! » E all'improvviso ricordò vivamente quell'ora deliziosa, in cui le belle dita della cugina gli avevano intrecciato là quel fragile braccialetto intorno al polso. Era un mattino, il più bello tra i più belli d'estate, quando la imperiosa reginetta, con il suo corteggio di cerbiatti e di pappagalli era salita a bordo di una barca, graziosamente dipinta, e aveva remato al largo nella baia tranquilla al fianco del fratello e del cugino. Quando tornarono a riva, la allegra reginetta aveva tessuto per ciascuno di loro un ciuffo dei suoi boccoli splendendi e, piegando il ginocchio, e baciandole la mano, erano stati insigniti « Cavalieri degli Alberi del Corpo ». L'incanto del sogno della memoria riempiva la mente del giovane e poggiando la testa sul duro calcio del fucile si addormentò con una mano che penzolava sul mare. Il negro ripiegò accuratamente la stoffa della sua giacca sulla ferita di De Berrian, per proteggerlo dal sole; e riprese la sua ansiosa guardia sul mare. Un'ora dopo, spiò il ramo di un albero tropicale che galleggiava vicino, e raggiuntolo con un remo, si accorse che era coperto di alcune bacche rossastre; forse qualche mano incurante l'aveva gettato nel mare, perché aveva molti sottili steli da cui i frutti in parte erano stati colti. Il rumore svegliò De Berrian, che aveva il sonno agitato e il negro,

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dopo aver raccolto in fretta la maggior parte delle bacche nel suo cappello, le presentò con gioia a Walter. « Grazie, Peter, ma dobbiamo dividerle in parti uguali ». « No, padrone, non vi disturbate. Queste che sono rimaste sono abbastanza per me ». Walter gustò avidamente il frutto acerbo, e dopo aver raccolto l'ultima bacca dal berretto, notò non senza sorpresa che il marchio annerito di fabbrica del copricapo del negro portava la scritta « Charles Harman, goletta La Belle Janthe ». « Peter, dove hai preso questo berretto? » chiese ansioso De Berrian. « Un inglese, quando fui fatto prigioniero, mi levò il mio berretto nuovo di zecca e mi diede in cambio questo. Disse che apparteneva ad uno dei prigionieri, e che ormai, vecchio e consunto com'era, era adatto solo per un povero negro ». « Non può essere - ma è così » - esclamò con un grido selvaggio di gioia il giovane mentre si gettava ai suoi piedi. « Peter, per amor del cielo, dimmi! » ma il negro restò muto e sordo a quell'implorazione, perché il suo occhio d'aquila proprio in quel momento aveva scorto a distanza il segno di una vela! Lontano, verso il sud, una larga striscia azzurra, sulla scia di un vento glorioso, veniva carezzevole verso di loro, e i due naufraghi sentirono che il punto debolissimo che si intrav- vedeva sul fondo estremo dell'orizzonte e su cui tremava la luce del sole, doveva essere una vela. Restando immobile come la cascata che nel suo balzo sembra diventare di ghiaccio, Walter per un attimo fu paralizzato in un'intensa e snervante attesa. La macchiolina lontana ondeggiò come un raggio, nel riflesso della rugiada, scosso dal vento del mattino. Poi svanì, brillò di nuovo; e De Berrian si riscosse dal suo stato di trance al selvaggio e prolungato grido di « una vela! una vela! » Quale ondata di vividi pensieri arriva fluttuando nell'anima del naufrago, a quel grido di esultanza! Le mani giunte, i ginocchi piegati, e le rapide e eloquenti preghiere pronunciate da lingue che non hanno mai pregato prima! Il mondo - quel tanto denigrato, ma pur sempre delizioso mondo, a cui i cuori intrepidi avevano già dato eterno addio con orgoglioso disdegno, allora, come per miracolo balza di nuovo davanti in tutta la sua gioia e il suo splendore. I miraggi della ricchezza, della fama, e il cielo stesso con le sue infinite promesse tornano a danzare nel brillante corteggio della fantasia; o altrimenti, più umilmente, qualche dolce cottage si presenta all'immaginazione del marinaio, che sogna già di rivedere la moglie e i bambini. E come è rapida e cupa la reazione quando quell'illusione di salvezza all'improvviso si dilegua! Come la morte che faccia la sua agghiacciante apparizione in una sala di festa, un mi-nuto dopo tutto diventa tetro e spettrale. La vela lontana può scivolare sull'orlo dell'oceano e sparisce; e chi può esprimere la disperazione di un simile timore? Il gelido sgomento, che soffoca il respiro di un fanciullo quando vede una bella scena popolata dalle fate che sparisce all'improvviso per il perfido incantesimo di un demone, non è altrettanto angoscioso quanto quel terribile dubbio. Con queste speranze e timori, illuminandosi e rabbuiandosi in volto come il cielo sotto l'effetto di un lampo di fulmine a mezzanotte, De Berrian e Peter issarono un

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fazzoletto sopra un remo. Non dissero una parola, e il loro occhio non lasciò neppure per un momento quel punto al limite dell'orizzonte che indicava la vela lontana. Per ore la vela, o il suo miraggio, sembrava ferma come la schiuma fluttuante sul fare dell'alba, ma a poco a poco la macchiolina indistinta alla fine cominciò a sollevarsi dalla foschia avvicinandosi di molte leghe, finché il sottile fuscello diventò un punto oscuro sotto l'argenteo tremolio della superficie marina. I due naufraghi aguzzarono di nuovo gli occhi - e sì, hurrà! a un certo punto non ci furono dubbi, il corso dell'imbarcazione si dirigeva verso di loro. In un delirio di gioia, il negro prese De Berrian nelle sue braccia scure e subito i due compagni cominciarono a piangere insieme di gioia. L'imbarcazione veniva avanti sfiorando le onde come un uccello marino e Peter al prossimo sguardo batté un furioso colpo di piede, che fece quasi capovolgere la barca, perché vide le stelle e le strisce della bandiera americana posate come una farfalla sul fianco dell'imbarcazione. In mezz'ora un bel vascello, armato di tutto punto, balzava al loro fianco e Walter e il suo rumoroso compagno salivano sulla tolda del brigantino americano II Gabbiano. Walter fu riconosciuto da uno degli ufficiali, e poté raccontare la sua storia straordinaria, che fu ascoltata con molto interesse. « Noi appartenevamo - disse - alla nave Atlanta di Baltimora. Durante il suo viaggio di ritorno dai mari del Sud, stavamo attraversando le linee, quando fu avvistato uno strano veliero che sembrava seguirci. Verso l'imbrunire potemmo individuarlo: si trattava di una grossa goletta, con vele di gabbia, che affondava bassa e nera nell'acqua, con lunghe bome e grossa alberatura. Essa si diresse subito verso di noi per tagliarci la strada. Sospettando che si trattasse di una nave pirata, il capitano dell'Atlanta spiegò tutte le vele e si allontanò di due nodi. All'alba, tuttavia, la goletta ci raggiunse, rivelando la bandiera inglese, e tirò un colpo di cannone contro la nostra prua. Il capitano li sfidò; l'equipaggio applaudì; i pirati ci dettero una bordata di fianco e si gettarono all'arrembaggio. Seguì una battaglia sanguinosa; ma essi si buttarono addosso a noi in sovrannumero, e fummo sopraffatti. Inferociti per la strenua resistenza che avevamo opposto al loro assalto, e per la perdita di alcuni dei loro uomini migliori, i pirati ci misero ai ferri e ci trattarono con la massima barbarie. Io ricevetti questo colpo alla testa da un luogotenente d'origine spagnola dalla pelle di rame, che voleva farci marcire tutti nella plancia. Era un vero e proprio diavolo, che non faceva altro che torturarci a sangue. La goletta era la nave pirata inglese La Tigre, comandata da un delinquente che era stato licenziato dalla Marina Reale. Era stata equipaggiata nelle Indie Occidentali ». « Ma come siete riusciti a fuggire? »

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« Quest'uomo » riassunse De Berrian, guardando con riconoscenza Peter, « era il cuoco della Atlanta. Quando la nostra nave fu presa dai pirati, egli finse di essere pazzo di gioia, per la sua liberazione dalla schiavitù, sebbene in realtà egli sia un uomo libero. Peter ha concepito una amicizia eterna per me; lo vedevo spesso, per quanto mi era possibile osservando una certa cautela, ed egli giurò di aiutarmi alla prima opportunità. Il ribaldo ufficiale spagnolo, Juan De Alva, era nostromo dell'Atlanta, sebbene la Tigre ci tenesse sempre compagnia. La mia ferita, che non era mai stata medicata, cominciò a farmi terribilmente male e in certi momenti cadevo in delirio. Per intercessione di un ufficiale inglese, dai sentimenti umanitari, mi furono tolti i ceppi e mi fu permesso per un'ora circa di venire sulla tolda. Il maledetto luogotenente spagnolo approfittava però di queste occasioni per trattarmi nel modo più indegno. Non mi aveva mai perdonato per uno schiaffo che gli avevo dato nella mischia sanguinosa al momento della nostra cattura, che rovinò per sempre il suo mustacchio favorito. Spesso mi veniva voglia di afferrare una picca e infilzarlo sul ponte, ma un attimo di riflessione, o uno sguardo di Peter, mi frenava dal farlo. Due notti fa eravamo arrivati vicini alla terraferma. La notte era oscura e una leggera brezza veniva dalla riva. Ero stato sul ponte per un po', guardando alcune luci che si discernevano appena sulla costa. La guardia era mezza addormentata e Juan De Alva era sotto coperta ubriaco e di cattivo umore. Peter venne verso di me fischiettando in modo noncurante; mentre passava, mi sussurrò nell'orecchio di accostarmi sulla fiancata della nave, scavalcarla e arrampicarmi su, se volevo fuggire con lui; disse che potevamo partire col canotto e raggiungere la riva prima del mattino, dato che conosceva perfettamente la costa. Tremante di speranza, feci come m'aveva detto, senza esser notato da nessuno. Avevo raggiunto il bordo del canotto, quando udii un grido soffocato, come di qualcuno che veniva preso alla gola; era l'uomo al timone, che Peter aveva abbattuto e legato. Egli assicurò rapidamente il timone e fece calare il canotto senza rumore, finché la chiglia toccò quasi l'acqua. "Chi va là" gridò nostromo spagnolo insospettito. "Tutto va bene" rispose Peter camuffando la voce. Pensai che fossimo perduti. Fu un momento terribile. Subito dopo si udì venire una imprecazione di stupore dalla stessa parte del nostromo: "Gesù e Maria!": poi ci fu un colpo assordante e il cigolio del boccaporto, che veniva chiuso col catenaccio. Peter si gettò oltre la ringhiera di poppa, e tutti e due saltammo sul battello. Agganciando i piedi sotto le vele di poppa, Peter afferrò da solo il paranco e sollevò la poppa in modo che potesse essere sciolto. Con un potente sforzo di tutti i muscoli il negro tenne duro ed io tagliai il cavo davanti del paranco, finché non fummo trattenuti che da pochi trefoli di fune. "Lasciamo cadere" sussurrai, mentre li tagliavo con un colpo solo; e subito, con un urto sul fondo che quasi ci capovolse, ci trovammo sul battello a un centinaio di metri dalla nave. In meno di un quarto d'ora, udimmo un grido d'allarme venire dall'Atlanta. Si accesero le luci, e venne subito la risposta al segnale da parte della Tigre, che stava navigando prigioniera al suo fianco. Udimmo distintamente delle grida da alcuni canotti che remavano rapidamente in diverse

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direzioni e sembravano alla fine convergere verso un punto solo - e quel punto, eravamo noi. I canotti si separarono di nuovo, e noi remammo come Turchi, perché le possibilità di salvezza erano a nostro favore. Ci affrettammo per un momento - solo un canotto era a distanza d'ascolto, e il lungo battito dei suoi remi si poteva sentire in modo chiaro e distinto, perché stava venendo proprio sopra di noi. A questo punto pensai che il gioco fosse fatto, ma Peter con molto sangue freddo ritirò i remi e li depose davanti e dietro sui sedili. Dopo avermi raccomandato di stare di guardia, sommerse il parapetto superiore del canotto sotto un'onda e il canotto si riempì d'acqua. Noi resistemmo con le teste che affioravano appena dall'acqua. Il rapido e vivace rumore del canotto che ci inseguiva divenne intanto terribilmente vicino. Il canotto ci passò accanto a un tiro di pistola; e gli uomini restarono fermi sui remi ad ascoltare; e dallo sprazzo di una lanterna oscura, che veniva proiettata spesso attraverso l'acqua, scorsi la feroce fisionomia di Juan De Alva. Per un attimo restai paralizzato dal terrore. Lo spagnolo lanciò una selvaggia imprecazione, che fu ripetuta in coro da tutti i marinai - per fortuna la barca filò via in un'altra direzione e non li vedemmo più. Peter, ridacchiando tra sé, rimise in libertà il canotto con l'albero fuor d'acqua e di nuovo ci dirigemmo verso la riva. Intanto però si alzò di nuovo il vento e fummo obbligati ad affrontarlo. Per tutto il giorno né nave né riva apparvero in vista. La notte scorsa abbiamo incontrato una violenta burrasca, e a un certo punto abbiamo creduto davvero di essere perduti per sempre. Grazie a Dio, adesso siamo qui ». « La Tigre, avete detto, una goletta proveniente dalle Indie Occidentali? » chiese meditabondo il capitano Parole. « Sì » rispose De Berrian « ma questo disertore - aggiunse alludendo scherzosamente a Peter - vi può dare più informazioni di me ». « Quella maledetta nave si chiama proprio così » disse Peter, « ha catturato molti vascelli, e ha un carico di parecchi soldi, signore. L'ultima nave a cui ha dato l'arrembaggio prima di noi è stata una goletta francese - sì, ha parecchi prigionieri a bordo - e li tratta molto male ». « E di che armi dispone, e di quanti uomini è composta la ciurma, traditore negro? » chiese con aria burbera il capitano. « In tutto dispone di undici cannoni, e un centinaio di uomini circa - spiegò Peter -. Ma voi mi chiamate traditore, signore? Eppure questo "traditore" non cerca altro se non di tornare indietro con voi... ». « Va bene, hai ragione, mia bella puzzola di mare » - disse ridendo il capitano - « ti faremo un bell'interrogatorio e poi ti reintegreremo nel tuo onore e nella tua bandiera ».

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L'interrogatorio

5

Samuel Parole, il coraggioso comandante del Gabbiano, era un uomo di bell'aspetto dal colorito bruno, con un fiero mustacchio, una corta barbetta nera, e uno sguardo capace di sfidare persino il diavolo. Quell'occhio scrutò l'azzurro oceano con uno sguardo, e, rimasto deluso, nascose la sua impazienza in un aggrottamento delle ciglia. Ma quando dopo un po' scorse una vela che avanzava verso di lui, lo scintillio di gioia che brillò nei suoi occhi di falco fu cupo e furtivo, come quello della tigre accovacciata nell'agguato. La sua corporatura era strutturata sul virile modello di una statua e sul nervoso dinamismo di un purosangue arabo. Il capitan Parole era un tattico audace, un comandante severo; e non c'era miglior spadaccino di lui nel maneggiare la lama. Amato, o piuttosto adorato, sia dagli ufficiali, che dall'equipaggio, dominava il brigantino con ferrea unità di mente e d'obiettivo. Nessun comandante più coraggioso aveva mai battuto quei mari. Parole era un uomo dotato per natura di talenti eccezionali. Avrebbe potuto brillare come il sole in un'aula di consiglio e ottenere come politico il consenso entusiasta del popolo. Gentile ed estremamente suadente nelle maniere, avrebbe potuto aver successo negli ambienti mondani dell'alta società, ed essere facilmente oggetto di nobile devozione da parte di una donna. Tuttavia l'amore della donna non aveva mai conquistato il suo cuore, né la gloria lo aveva abbagliato coi suoi miraggi; perché la passione dominante della sua anima era la vendetta. Una volta, in realtà, il suo giovane cuore aveva vibrato all'impulso dell'amore e dell'ambizione; ma in un'ora sola era cambiato in modo radicale; da ragazzo felice pieno di sogni, era diventato un uomo cupo e assetato di vendetta. La storia di questa metamorfosi è legata a uno di quei tanti vergognosi episodi di efferata brutalità e di violenza che macchiano le pagine della storia. Su uno dei tranquilli ed ameni corsi d'acqua che defluiscono dal seno del fiume Chesapeake, innamorato di valli e di fiori, c'era un umile ma grazioso cottage, il luogo di nascita di Samuel Parole. Il ragazzo aveva sedici anni, quando il padre fu ucciso in una azione navale nella guerra d'indipendenza. Piangendo nelle braccia di sua madre e stringendo al petto una cara e amabile sorella, che aveva condiviso la sua culla ed era cresciuta con lui, il giovane Parole vide un soldato in uniforme inglese apparire un giorno all'improvviso alla sua porta, e udì le ingiurie e le insolenze dei saccheggiatori. Seguì una scena ripugnante di violenza e di vergognosa ingiuria. La madre fu stesa a terra e il suo sangue scorse a fiotti sul sacro focolare, mentre il figlio impazzito di rabbia e di dolore veniva piegato a terra dal piede di un soldato inchiodato sulle spalle. Un altro soldato di statura gigantesca strappò l'orologio di famiglia dal seno della sorella, e la strinse in un abbraccio brutale. La povera ragazza, in un gesto di disperazione selvaggia, afferrò un coltello, ma il mascalzone le fece perdere i sensi, dandole uno

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schiaffo sulla guancia, e la trascinò di peso fuori della stanza. Il fratello infuriato riuscì alla fine a liberarsi dai suoi inseguitori e volò nella camera della sorella. Era troppo tardi - l'atto infernale era stato compiuto, e il delinquente se ne era andato via. Il grido e l'abbraccio del ragazzo angosciato fecero riprendere i sensi alla sorella, richiamandola alla vita e alla amara coscienza del suo disonore. In un istante, la coraggiosa ragazza prese la sua incrollabile risoluzione, prima che egli potesse intervenire per impedirglielo. Spinse nel petto un coltello, che la sua presa non aveva mai abbandonato e il sangue del suo cuore immacolato inondò il petto del fratello. Per ore il giovane Parole andò in giro cercando tracce della banda di saccheggiatori. Alla fine, dopo aver percorso un circuito di alcune miglia, si nascose in un boschetto vicino alla strada. E mentre la soldatesca passava accanto a lui, prese di mira il delinquente dall'alta statura che con il suo atto di brutale violenza aveva provocato la morte della sorella e lo colpì al cuore. Rapido come il cervo, fuggì e si arruolò subito nelle truppe continentali. Entrato in un corpo di fucilieri, diventò un moschettiere dal tiro infallibile, tanto che non premette mai il grilletto senza abbattere un soldato nemico. Quando fu conclusa la pace, per conto suo giurò guerra agli inglesi finché la morte non lo avesse troncato. Quel cupo giuramento fu mantenuto in modo terribile. Il giovane Parole andò in mare, e divenne capitano della marina mercantile americana. Quando gli inglesi presero parte alla sfolgorante avventura della Rivoluzione francese, Parole scomparve e per molti lunghi anni la madre desolata lo pianse per morto. Alla dichiarazione di guerra del 1812, tornò a casa, col volto cotto dal sole, l'aspetto straniero e un forte accento francese. Aveva militato sotto la bandiera francese, ed era passato illeso attraverso le tremende battaglie del Nilo e di Trafalgar. Il suo terribile giuramento era ancora irrealizzato. Il tempo era splendido e il Gabbiano volava al soffio del vento, filando leggero sulla allegra superficie azzurra del mare. Il mattino dopo il salvataggio di De Berrian, aveva scambiato segnalazione con un veliero americano rivestito di ferro, dagli alberi di color scuro, che per tutta la notte aveva dato la caccia a una grossa goletta d'aspetto piratesco, che veleggiava come una strega nell'occhio del vento. La goletta trainava con sé un altro veliero e, a giudizio dei marinai americani si trattava senz'altro di « un maledetto brigantino pirata, senza offesa per nessuno ». L'avventuroso figlio del cidro e del pane di segala mantenne il suo corso senza tradire alcun timore, mentre il Gabbiano faceva rotta verso il Sud, e tagliava la spuma delle onde a vele spiegate. Di solito c'è un'aspra battaglia quando due brigantini corsari, che battono bandiera diversa, si incrociano. Spesso questi velieri hanno una immensa quantità di merci, e le più rare spoglie di ogni clima. Per questa ragione, a parte l'animo-sità marinara, uno scontro fra di loro ha di solito un carattere molto sanguinoso. Molti di questi terribili scontri hanno tinto di rosso intere leghe dell'oceano, senza che sulla terraferma se ne sapesse mai nulla. Nell'eccitazione di eventi più importanti, lo storico non ne viene a conoscenza, e non bada a registrarli, ed essi dormono così nelle tombe dei loro protagonisti.

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Il mezzogiorno sfumava nei purpurei colori della sera. Era il 25 novembre 1812. Il Gabbiano stava correndo a tutti i nodi a dodici leghe dalla costa del Brasile, a 10° di latitudine sud. Il sole alla fine si nascose con un aggrottar di ciglia, dietro la punta lanosa di un banco di nuvole. Il marinaio di vedetta credette di distinguere lo sventolio di una vela, mentre l'ultimo raggio del sole si inabissava ad occidente, ma non riuscì a individuare la nave. Il capitan Parole guardò intorno un momento, misurò a lunghi passi la tolda con aria meditabonda, e andò quindi sotto coperta, avvertendo l'ufficiale di guardia di chiamarlo ad ogni cambiamento di tempo. Passò un'ora e il buio si faceva sempre più fitto, preparando una notte d'inferno. Il lamentoso vento dell'Est era ancora levato, le nubi lontane in agguato a nordovest spuntavano minacciose sulla cresta del mare, e quindi giungevano rovesciandosi in un oscuramento improvviso, come il funereo corteggio di qualche spirito delle tenebre. Ad una ad una le stelle tremolanti furono rabbiosamente spazzate via dai nembi accavallati, finché in cielo rimase sgombro uno spazio non più grande di una minuscola vela, lontano, in basso, a sud e ad est. Il mare era tutto nero e ruggiva in modo spaventoso; un silenzio oppres-sivo regnava sul brigantino. Il solito rumore di canti e di risa dei marinai si era spento. Di tanto in tanto un'onda grossa e scura si sollevava sul fianco, e s'infrangeva lontano in una miriade di spruzzi e a vederla qualcuno avrebbe potuto scambiarla per lo spettro dello scheletro di un naufrago, che sorgeva avvolto in un sudario di fuoco. Il vento intermittente adesso soffiava vorticosamente con un suono simile al lamento sempre più intenso di un'arpa Eolia, quindi cadeva di colpo con un fremito che sembrava il fruscio di ali che passavano; e il silenzio era rotto solo dal rintocco dell'orologio, dal cigolio del timone, o da un colpo violento e improvviso, che veniva dall'alto come se un alato messaggero di sventura si fosse scatenato sulla nave. Era verso mezzanotte, e la luce della chiesuola indicava col suo fioco luccichio che un gruppo di marinai sul castello di prua stava ascoltando nel più assoluto silenzio una storia di grande interesse. Al tragico dénouement della narrazione il superstizioso Peter balzò dal cerchio, incapace di restare ancora in piedi, e si appoggiò verso il barometro nella parte centrale della nave. Qualcosa tra il grugnito e il riso gli sfuggì di bocca, e quale fu la sua sorpresa, quando il suo brontolio ricevette misteriosamente una risposta. Egli ascoltò dubbioso per un momento, quando udì distintamente l'esclamazione « A tutta forza sottovento » sussurrata in modo furtivo al suo orecchio dalla parte di babordo, e al tempo stesso sentì un improvviso scrosciare di onde e il pesante rimbombo di vele che si gonfiavano. « Naviga contro vento » egli cantò allegramente, ma in quello stesso momento gli si prospettò davanti all'improvviso una massa spettrale di alberi e di sartiame, che si profilava confusamente di traverso dall'oscurità. Subito dopo ci fu un grido d'allarme e un gran trambusto sul ponte del Gabbiano, ma tutto fu soffocato da un tremendo scontro, mentre lo scafo del vascello sconosciuto sfondava il giardinetto tra il castello di prua e il cassero di poppa e la sua asta del fiocco rimaneva impigliata nella sartia di trinchetto.

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Rapida come il fulmine, una banda di uomini armati stava saltando a bordo per darsi all'arrembaggio, quando improvvisamente un'ondata si sollevò tra i due vascelli, dividendoli come le braccia di un uomo vigoroso, e lasciando il rottame dell'asta del fiocco che pendeva fuori bordo. Un tuffo o due, e un urlo gorgogliante rivelarono che qualcuno degli assalitori era balzato su troppo tardi e aveva mancato il bersaglio. Quelli che erano andati all'abbordaggio rimasero sgomenti a quell'urlo spaventoso. La vittoria era ancora a portata di mano per loro - chiudere i boccaporti e impadronirsi del posto di guardia, sarebbe stato l'affare di un minuto - ma quel momento prezioso fu perduto nell'esitazione. Essi stavano là - pochi e impauriti - su quel ponte stretto, mentre il loro vascello era andato avanti, e l'urlo disperato dei loro compagni che affogavano risuonava sinistro nelle loro orecchie. Ma l'incertezza durò solo per un istante. L'equipaggio attonito del Gabbiano si radunò subito sovra- coperta al fiero comando del suo capitano, per affrontare l'attacco di un nemico, che non consisteva in più di venti persone. La lotta sanguinosa finì in un momento. Rifiutando l'invito di arrendersi, gli assalitori, confusi e storditi, furono fatti a pezzi fino all'ultimo uomo, senza sapere neppure se erano massacrati da amici o da nemici. « Rapida e dolce vendetta » disse ridendo in modo sarcastico il cupo capitano « vedo che sono inglesi, questi cani; ma di dove sono scappati fuori? » « Dalla Tigre » rispose esultante De Berrian, dal ponte, mentre si liberava dalla stretta mortale di un nemico caduto, e si rimetteva in piedi. « Ah » gridò Parole « e come lo sai? » « Qui è il mio caro amico, Juan De Alva » rispose De Berrian, sollevando l'enorme cadavere inerte per un lembo della camicia, e mostrando il volto selvaggio, coperto dai mustacchi, del pirata spagnolo. « È stata davvero una fruttuosa crociera a Port Brimstone » aggiunse mentre buttava il morto fuori bordo con uno spintone. A questo punto si sentì un urlo, ma non ci fu risposta; e l'oscurità era così intensa, che non si poteva scorgere il misterioso assalitore. « Presto, al posto di combattimento sul quartiere di poppa » ordinò il capitano. «Cominciate a dar fuoco ai mortai là! Liberate il cannone principale! » Non aveva fatto in tempo a parlare, che una bordata da parte del nemico in agguato arrivò a infrangersi contro la ringhiera. Il lampo dei suoi cannoni illuminò per un momento in modo sinistro l'alta struttura balenante della Tigre, che batteva bandiera inglese. Essa stava mettendo all'orza la coffa a tribordo. Il Gabbiano andò alla deriva, rispondendo con un rapido fuoco a ventaglio. Di nuovo la Tigre aprì il fuoco, e il cannoneggiamento fu rapido e furioso da ambedue le parti. Il fuoco fiammeggiò per un po' dai loro cannoni, ma il danno provocato fu poco. Il capitan Parole era infuriato; dette ordine di andare sottovento, e di seguire la rotta sottobordo. Il Gabbiano non seguì il timone; perché all'improvviso ci fu una terribile calma. Il brigantino galleggiò e dondolò inerte sull'acqua morta, e le vele senz'aria sbattevano inerti sui pennoni scricchiolanti. Il segnale di quella calma non poteva fare a meno di essere accolto. Per mutuo consenso, i due vascelli nemici abbandonarono i cannoni. Il capitan Parole guardò

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intorno il cielo per un momento, ordinò di ammainare ogni vela, e di sistemare gli alberi maestri e i pennoni leggeri. Molti giovani marinai sobbalzarono a questi ordini, perché previdero una lotta con un nemico più feroce dell'uomo. « Datemi una mano, ragazzi » ordinò il freddo e inflessibile capitano. « Abbiamo molto spazio per il mare, e il Gabbiano è abituato agli uragani. Quando sarà finito, voleremo sulla carcassa della Tigre ». « Bene » disse Peter, quando raggiunse l'uomo addetto allo scalo. « Non posso veder nulla. La Tigre non fa brillare i suoi occhi stanotte. Ho visto parecchie notti buie prima di questa, ma questa è la più scura di tutte ». « Stai in guardia, testa di stoppa » gridò un marinaio rivolgendosi a Peter. « Il vecchio ammiraglio del porto di Stige ha riunito una Corte marziale per sottoporti a giudizio per quella tua diserzione. Non vedi quel diavolo d'una nuvola là? Ebbene, quello è il capo della polizia con tutta la sua squadra, che ti sta alle calcagna. Guarda, là c'è una luce azzurra ». Era il lampo di un fulmine che disegnava debolmente l'attrezzatura della nave intorno a loro; lontano, un lampo lugubre come polvere da sparo bagnata si trascinò sull'orlo del torvo oceano, poi un altro lampo, più vicino e più brillante, scintillò attraverso una coltre minacciosa di nembi gravidi di tempesta. Il segnale ricevette subito risposta su tutta la linea dell'orizzonte, finché il cielo fu completamente ricoperto, come durante l'incendio di una città, da un sudario di fumo funereo. Lo spaventoso esercito dei nembi si mise in moto nel suo cammino di morte; il tuono venne rintronando con un martellare lontano, come una pesante mitraglia di artiglieria. Il capitano Parole si mise al timone, e ordinò che il fiocco ancora restante fosse issato a mezz'asta, e che un uomo stesse accanto con la corda per tirarlo giù. Fu fatto, e a un certo punto i due vascelli nemici si trovarono a un tiro di moschetto l'uno dall'altro: i loro ponti affollati, i cannoni minacciosi, gli alberi dipinti e le chiglie di rame si guardavano l'un l'altro nella vivida luce del fulmine. Un gruppo di nubi stracciate si rovesciò su di loro, e seguì quindi la vasta massa opaca, sollevandosi in tremendi pilastri e turbinando in vorticose trombe d'aria tutt'intorno. L'agghiacciante ululato della bufera era terribilmente distinto. Tutto era scintillio e scoppio assordante - il mare era livellato in una pianura spumeggiante, perché l'occhio del ciclone era distante un quarto di miglio. « Sottocoperta » tuonò il capitano americano quando il primo folle colpo dei marosi fece girare su se stesso il brigantino davanti alla bufera. Lo scoppio che seguì fu più terrificante della furia scatenata di un terremoto. Il Gabbiano tremò dall'albero maestro alla chiglia, e scivolò via come il cerbiatto che retrocede dall'orlo del precipizio. Il vento urlava la sua nota più stridula e lo scintillio a zig-zag del fulmine correva lungo le vele raggrinzite, e fischiava sui marosi spumeggianti. Immensi lenzuoli di schiuma girarono a mulinello, correndo in gara con le nuvole che spazzavano il cielo, e caddero esausti sul vascello sepolto sotto le onde. Torrenti di pioggia si rovesciarono sui ponti, e pinnacoli torreggianti di schiuma balzarono non

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visti dalla parte di prua e irruppero improvvisamente sulla nave, ma il Gabbiano si risollevò di nuovo e si scuoté ancora illeso sui pennoni gocciolanti. Con una mano di ferro, il capitano si teneva alla barra del timone; il suo berretto era volato via, e la sua folta capigliatura, divisa sulla fronte, gli ricadeva piatta sulle guance. Il suo occhio era illuminato da quella strana eccitazione, che si accompagna col terribile. Intrepido e esultante il comandante si diresse verso il quartiere di poppa, al posto di combattimento, e là, a distanza di una cabina, la Tigre stava emergendo fuori da un sudario di schiuma, con uno scoppio improvviso, come se vi si fosse raccolta l'intera massa dei morti, che si levava dall'oceano nell'ultimo giorno. La sua grande vela maestra color bianco era squarciata in strisce e stracci e, staccata dai pennoni, fluttuava in balia del vento alla luce del fulmine. La nave si comportò tuttavia in modo coraggioso, e avanzò in atteggiamento di sfida. Più rapidi dell'onda più veloce, i due vascelli nemici scivolarono fianco a fianco. Fu un momento terribile; eppure, strano a dirsi, la violenza della bufera non mitigò la ferocia del loro odio reciproco. Da una delle terribili pause dell'uragano, i due brigantini si scambiarono segni di saluto. Il diluvio di pioggia era cessato altrettanto improvvisamente, quanto era cominciato e per un'ora i due velieri ripresero a sparare l'uno contro l'altro a ogni occasione, con i fulmini che mostravano il bersaglio. Il furioso vento alla fine si calmò e i due vascelli nemici, assetati di sangue erano impazienti di arrivare a una conclusione, terminando la battaglia con il sanguinoso sistema dell'abbordaggio. Le onde erano corte e spaventose, e non si potevano azionare i cannoni. Sembrava un tentativo temerario restare fianco a fianco nel cuore della tempesta; ma il solo timore di ambedue adesso era che l'altro potesse fuggire. Il capitan Parole chiamò intorno a sé i suoi uomini già pronti allo sbaraglio. Stette in piedi accanto al timone, con il suo berretto scintillante di pioggia, mocassini leggeri, una camicia aderente, e i calzoni stretti in basso alla vita con una cinghia in cui erano sistemate due paia di lunghe pistole scintillanti. Egli estrasse una lunga sciabola con una splendida impugnatura, che conficcò tremante nel ponte dietro di lui; la sua mano destra cadde sull'elsa in un gesto involontario, e il suo petto si gonfiò d'orgoglio, quando gettò uno sguardo fuggevole su quel fosco equipaggiamento. « Uomini » disse con una voce ad alto volume « per alcuni di noi ci sono tombe sulla sabbia; i nostri nemici sono furiosi quanto noi; io guido la squadra di abbordaggio, ho bisogno di dieci o quindici uomini per un posto d'onore ». Con una vibrante ovazione di entusiasmo, il numero richiesto fu subito raggiunto, e il secondo tenente, un giovane col fuoco nelle vene, si mise alla loro testa. « Avanti a poppa » continuò orgogliosamente il capitano « e balzate dentro le loro ringhiere quando li agganciamo. Quando lancio il grido "Ironsides", balzate sul ponte e ricevete l'abbraccio dei prigionieri oppure seppellitemi in fondo all'oceano ». Gli uomini si mossero per compiere il loro compito rischioso. Gli assalitori, armati di tutto punto, stettero vicini e impazienti di battersi. I due vascelli nemici stavano arrivando rapidamente alla conclusione. Era una scena sublime e terribile.

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« Pronti là, cannonieri! » fu il grido di guerra mentre le estremità dei loro pennoni si scontravano e ciascuno lanciò un'ultima e mortale imprecazione. Alla prossima ondata, il Gabbiano e la Tigre erano impegnati in una mischia corpo a corpo. Con una balzo e un grido, il capitano Parole salì sul ponte della Tigre tra le due navi, seguito da circa una quarantina di uomini del suo equipaggio. I marinai del Gabbiano stettero fermi per un momento sul ponte principale tra due scuri gruppi di uomini, che a loro volta stavano per gettarsi all'arrembaggio della loro nave da poppa e da prua. Una fila di moschetteria si fece avanti dal Tigre e sparò con le canne scintillanti puntate contro le facce degli assalitori; la scarica criminale gettò molti uomini esanimi sul ponte, e il lampo degli spari rivelò un forte corpo di uomini dietro, che stavano uniti insieme, con le sciabole minacciosamente sguainate. Il capitan Parole lanciò un clamoroso grido di benvenuto, e sparò un colpo, quando vide la massa degli assalitori della Tigre, che irrompeva attraverso i ranghi aperti dalla squadra di moschettieri, con la sciabola in mano. I pirati erano guidati da un gigante fornito di baffi, che indossava l'uniforme di un capitano. I nemici si scontrarono come due mulinelli di vento allo stesso feroce schiocco di frusta. Ciascun marinaio del Gabbiano incrociava l'acciaio con il suo avversario, gli puntava la pistola alla gola e sparava. Dopo un po', gli uomini del capitan Parole si stavano scontrando con la seconda fila degli avversari. « Via di là, ragazzi » - gridò il comandante inglese al gruppo di pirati che era sul cassero - « all'abbordaggio, all'abbordaggio e il gioco è fatto! Lasciate a noi il compito di fare gli onori del caso a questi delinquenti ». Ma la manovra fu anticipata. I marinai urlanti della Tigre stavano accovacciati per sferrare il loro assalto mortale, quando i marinai del Gabbiano piombarono loro addosso a dozzine, finché ci fu appena lo spazio per far ruotare una sciabola sul ponte scivoloso. In un attimo il brigantino affollato dei combattenti era diventato un'arena della più disperata battaglia - circa centocinquanta uomini si muovevano su e giù impegnati nel massacro. Quando la sinistra luce del fulmine brillò di nuovo, densi fiotti di sangue si spargevano gorgogliando dagli ombrinali. « Miei prodi! » tuonò allora il capitan Parole, con voce più rombante del ruggito della tempesta. « Miei prodi! stiamo arrivando! Hurrà! » echeggiò il giovane ed entusiasta De Berrian dal cassero, mentre, con il fedele Peter al suo fianco, combatteva agitando il braccio potente e nervoso. Il grido di incitamento risuonò di nuovo intorno ed in alto, ricevendo subito come terribile risposta l'urlo selvaggio di sfida del nemico. La battaglia andò avanti. Ma il gruppo del Gabbiano, che si trovava nel reparto sartiame, non riuscì ad arrivare al centro della mischia, perché a un certo punto venne intercettato da una cricca di marinai della Tigre. Si sentivano dovunque feroci imprecazioni e tintinnii aspri di sciabole, inframmezzati dal rumore saltuario degli spari; e spesso il corpo di un morto cadeva con un mulinello in mezzo alla mischia feroce che si svolgeva di sotto, o veniva scagliato fuoribordo, con violenza disumana. Per molto tempo l'esito dello scontro, che aveva assunto un carattere selvaggio, rimase indeciso. Le grida di rabbia e di dolore che risuonavano al disopra del frastuono della

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tempesta, il buio dominante sul cielo e sul mare, e di tanto in tantò l'azzurro scintillio del fulmine, o il bianco lampo delle armi da fuoco, che illuminava bruscamente la scena, rivelando minacciose sciabole alzate, volti anneriti e feroci, e uomini in-sanguinati, paralizzati in una stretta mortale, barcollanti, o già irrigiditi negli strazi dell'agonia: tutto faceva pensare a un'orgia di demoni piuttosto che a una battaglia di esseri umani. Il comandante americano, che alla testa della sua squadra cercava di aprirsi un varco a fatica attraverso la linea di fronte, combatteva inutilmente con un nemico numericamente superiore. Il ponte era tutto coperto di cadaveri, ma nella furia della battaglia nessuno ci badava. Tuttavia, nessun grido di vittoria risuonava ancora in mezzo all'assordante frastuono. Il capitan Parole si trovava nel suo elemento; e ad ogni colpo della sua terribile sciabola, urlava il cupo giuramento di vendetta, pronunciato al momento della sua gioventù offesa. « Il cuneo - il cuneo - spaccate le linee con un cuneo » egli urlò, balzando davanti ai suoi uomini, mentre essi si allineavano in un corpo triangolare dietro di lui. « Benissimo, ragazzi - andate avanti! » e, facendosi strada quasi da solo, si aprì un terribile cammino attraverso i ranghi esterrefatti. Pochi uomini furono in grado di seguirlo in quell'atto disperato. Il capitano furioso si volse solo quando nessun nemico stava più davanti a lui, e alla fine vide l'errore fatale che era legato al suo successo temerario. Parte dei suoi uomini erano stati tagliati fuori e circondati dai nemici, e quelli che si erano raccolti attorno a lui erano pochi, ansanti, e stremati per lo sforzo. Per la prima volta quello strano uomo ebbe paura; tuttavia, quando, con la sua tremenda voce, urlò di nuovo: «tenetevi insieme, miei prodi; dategli sotto a quei bastardi e falciateli via! » non c'era l'ombra di un tremito. La cosa era impossibile per tutti, eccetto che per lui. Gli inglesi erano furiosi, e ancora ben saldi e risoluti a strappare la vittoria; in un momento tutto poteva esser perduto. A quel pensiero angoscioso, il capitano americano fu sul punto di perdere d'un tratto il controllo di sé. Le grida dei suoi amati uomini agonizzanti gli fecero perdere la ragione. Fu colto da una specie di pazzia: il tempo per mostrare il prodigio del suo valore era finalmente arrivato. Improvvisamente, come se il fulmine sfrenato avesse concentrato tutta la sua forza nel suo solo braccio, egli si buttò allo sbaraglio, e combatté con la furia scatenata di un maniaco. « Andatevene dal ponte, e affondate quei cani nel loro canale » egli tuonò, buttando a terra un inglese di grossa statura, che cercava di battersi con lui. La prova fu altrettanto dura per gli amici e per i nemici, perché all'improvviso, da tutte e due le parti, il grido « All'ultimo sangue! » squarciò l'aria. L'alto comandante inglese, nella battaglia infernale che seguì, prese di mira il capitano americano, e il fuoco sprizzò dalla lama delle loro sciabole. « Siamo davvero dei cani » brontolò il comandante inglese con i denti serrati « se andiamo così allo sbaraglio, a caccia di ladri di mezzanotte ».

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« Siete proprio dei cani » tuonò l'infuriato Parole, scagliando una pistola scarica in faccia all'altro. E prima che questi potesse riprendersi, spazzò via con un colpo di sciabola il teschio schiumante dell'avversario e calcò il suo corpo prostrato. Come un diavolo scatenato, allora Parole si gettò più che mai nella mischia. Mentre combatteva con tutta la sua furiosa energia, una potenza invisibile sembrava proteggerlo. Le pistole nemiche lampeggiavano davanti al suo volto, e sciabole sguainate volteggiavano sulla sua testa: tuttavia egli continuava a battersi senza ricevere una sola scalfittura. L'ultimo momento critico si verificò quando un gruppo residuo di marinai della Tigre mosse correndo all'assalto, mentre al tempo stesso un grido esultante di vittoria risuonava dal ponte del cassero. Nel coro selvaggio, si mescolava la voce tonante di De Berrian, che inneggiava al salvataggio del capitano e di quelli che erano con lui. Era appena in tempo, perché Parole era impegnato a singolar tenzone con un nemico, mentre il resto del suo gruppo era circondato, battuto e decimato ad ogni colpo. I vincitori del Gabbiano si gettarono allora con impeto sulla retroguardia inglese per farla a pezzi, e si verificò allora la più terribile battaglia di tutta la guerra. La crisi raggiunse il suo apice e tutto finì. Gli inglesi, vinti e sanguinanti, gettarono le sciabole all'offerta di una tregua, ma solo quando non furono più in grado di levare un solo braccio, che non fosse ferito. E di nuovo quel selvaggio, lacerante, disumano urlo di vittoria echeggiò sull'oceano sconvolto. Una debole risposta venne dalla parte delle vele, e sette marinai del Gabbiano, con gli arti mutilati, barcollarono sul ponte, cadendo nelle braccia dei loro compagni. Erano gli unici sopravvissuti dell'intrepido drappello che si era piazzato sulla coffa di trinchetto. I marinai superstiti vennero soli, a raccontare la storia della loro sanguinosa vittoria - il loro giovane luogotenente non era più con loro.

La liberazione

6

Una mattina tranquilla e splendida albeggiò sul Gabbiano e sulla Tigre, mentre i due brigantini stretti forte insieme, si piegavano sull'ampia e irregolare scia dell'uragano. I colori americani pendevano in silenziosa fratellanza da ciascuno dei due brigantini, come se fossero inorriditi alla terribile vista che si stendeva sotto di loro. Gli orrori della battaglia non sono nel trambusto frenetico della melée; la sua sconcertante realtà di sangue e di morte ci appare in tutta la sua nauseante ripugnanza nel macabro spettacolo che segue la battaglia. Non c'era un solo punto del ponte su cui si era svolto lo scontro che non fosse macchiato di sangue; e molti giovani cuori di marinai, che si erano appena staccati dalle ginocchia delle madri, rabbrividivano di fronte ai risultati della battaglia a cui avevano partecipato. I marinai uccisi giacevano tra pozze stagnanti di sangue, che scolavano in lenti rivoli attraverso gli ombrinali sul ponte, arrossando il mare tutto intorno, e

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strisciando sulla cresta della schiuma fluttuante, che aveva il lugubre aspetto di tanti teschi, che ridevano di un riso sinistro sul sudario delle onde. Talvolta un gemito o un sussulto che si levava da una pila di corpi ammonticchiati, indicava che qualcuno era ancora vivo o agonizzante: in un certo senso la furiosa mischia non era finita all'alba, perché c'era ancora qualcuno sulla tolda che lottava con la morte. Era uno studio di strano e terribile interesse osservare le facce dei morti, e cercare di indovinare dalla loro torva espressione quale fosse l'ultimo pensiero che aveva attraversato la loro mente, se di inimicizia, di sospiro per la casa lontana, o di odio mortale. Lì era l'arma, la sciabola conficcata a metà nel petto, là erano i nemici, uniti insieme in un orribile abbraccio, che sembravano l'aspetto irato anche nella morte. Il selvaggio disordine del reparto attrezzatura, specie sulla Tigre, raccontava una storia terribile. I pennoni disalberati e le corde del sartiame sul ponte della nave, all'indomani della furiosa battaglia notturna, adesso scintillavano al sole di sangue umano. Ciuffi di capigliatura e brani di vestito erano incollati sul ponte e sulle vele, e più di un morto era appiccato in cima a un albero o sbattuto con la sua rigida carcassa da un'altra parte. E quando le vele irrigidite furono spiegate all'aria, chiazze irregolari di sangue macchiavano la bianca tela. I vivi furono chiamati a raccolta, e molti nomi non risposero all'appello. I morti erano raccolti insieme, ammucchiati sul ponte principale della Tigre; un breve cerimoniale di servizio funebre fu celebrato per tutti; il loro requiem era stato il rombo del cannone, e il lamento dell'oceano; e la stessa onda spietata e mortale aveva spazzato via amici e nemici. Tremante e pallido di un'emozione segreta, che nessuno poteva indovinare, De Berrian stava passeggiando sul ponte. Un ordine di rilasciare i prigionieri a bordo della Tigre lo spinse verso il boccaporto. Allora, ascoltando col fiato sospeso, egli udì lo scricchiolio dei martelli per liberarli dai ceppi e poté distinguere molte voci in francese. De Berrian allora ebbe un moto di ansia e si alzò; contrariamente a quanto aveva sperato, non c'era nessuna voce inglese fra i prigionieri. Alcuni francesi dall'aspetto devastato, in uniformi navali ridotte a stracci, furono portati sul ponte. Appena la libera aria del mare sfiorò i loro corpi indeboliti, essi espressero la loro riconoscenza a gran voce ai loro liberatori, e resero grazie alla ancor più potente misericordia del cielo. Uno dei francesi, alto e di nobile aspetto, guardò allora con simpatia i colori della bandiera americana, che sventolavano a poppa, ed esclamò in inglese: « Viva l'America! Viva la libertà, prima, diletta creatura del mio Paese! » Le parole familiari e il tono e l'aspetto appassionato suscitarono un forte hurrà. Walter lesse allora con esultanza, sul volto ardente del nobile ufficiale liberato, i lineamenti di Charles Harman. Ma il riconoscimento non fu reciproco. Molto tempo dopo che il sole sfolgorante era già tramontato, De Berrian stava passeggiando animatamente sul ponte del Gabbiano. Era una di quelle deliziose notti dolcemente indolenti, quando spiriti invisibili suscitano nel cuore del viaggiatore errabondo la romantica nostalgia della casa, dell'amore, delle donne. L'oceano aveva lo smalto del vetro soffiato, le stelle erano voluttuose nel loro sguardo tremante, e la luna piangeva lacrime così melanconiche e soavi, che un poeta avrebbe potuto scorgervi il

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volto di un amabile innamorato in sospiri, perso in una meditabonda réverie attraverso il velo che i suoi sospiri avevano inumidito. Tutti sentivano il rapimento di quell'ora. I suoi comandi « vira il timone » e « avanti così» erano dati con un tono più gentile di quanto non ci fosse bisogno; lo scherzo rude e la canzone ribalda erano messi sotto silenzio. A un certo punto, una nota, bassa e fluttuante, risuonò ad est, struggente come una serenata celeste; era la melodia « Casa, dolce casa ». Quella canzone, si sa, suona soave anche sotto i verdi rami della propria dimora, ma quanto è emozionante sentirla quando si è lontani! La brezza carezzevole del vento sostava sul seno della vela principale, e i marosi d'argento facevano tacere il loro mormorio per ascoltare quel motivo. Selvaggio e profondo si gonfiava al fervido rapimento della passione - ma all'ultimo verso appassionato « non c'è nessun posto come la propria casa », la lingua del menestrello si arrestò per la commozione e la canzone finì in un sospiro. Il sospiro giunse agli orecchi di Walter, come se sussurrasse il gentile nome di Catherine unito al suo. Egli rimase colpito, guardò il marinaio che cantava, e scorse Charles Herman che sedeva all'ombra della vela principale, mentre contemplava il mare con gli occhi velati di lacrime. Walter tremò mentre gli si avvicinava. « Come mai piangete, amico mio, mentre la notte è così bella? » « È proprio in momenti come questi » - rispose Charles - « che si vede meglio il nulla della vita, quando è privata della speranza. Solo un giorno fa, ero prigioniero e non piangevo; perché la speranza mi dipingeva un futuro di gioia. Adesso che sono libero, e in mezzo ai miei compatrioti, mi dolgo per l'abisso eterno che mi divide dalla felicità ». « Siete americano? » « Sì. Ho lasciato l'America alcuni anni prima della guerra. Sono sbarcato come straniero nelle Indie Occidentali, e ho avuto la buona fortuna di rendere un servizio importante all'Ammiraglio francese del luogo, e grazie al suo appoggio ho avuto l'onore di svolgere una missione nella Marina americana ». « Ma Charles, e il duello? come è andato a finire? » « Santo cielo! Chi siete voi? » « Walter De Berrian ». I cugini si gettarono nelle braccia l'uno dell'altro e come fu appassionato il loro incontro! Non c'è un destino che per realizzare i suoi disegni si serve a volte di una parola o di un nonnulla? Quanto spesso l'eterno fiat della gioia o del dolore, per il mondo intero, o per il suo più oscuro abitante, è affidato a un cenno del capo o alla pronuncia di una sillaba? Per molti momenti colmi di intensa emozione, nessuno dei due giovani parlò, finché Harman per primo ruppe il silenzio. Le sue domande furono rapide e nel farle non poté nascondere la sua commozione. « Come mai ti trovi qui, Walter, mio cugino e mio amico? » « Come e perché tu invece ti trovi qui? » chiese a sua volta ansiosamente De Berrian, «o piuttosto, ti trovi davvero qui? Anni fa sei stato annoverato tra i morti e come tale ti piangono ancora tuo padre e tua sorella Catherine ».

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« Dio mio! Come è possibile? E loro, che tu sappia, sono vivi e stanno bene? » domandò con tono appassionato Charles. « Lo erano, almeno quando li ho visti per l'ultima volta. Ma parlami della tua strana scomparsa ». Con domande spezzate, Charles Harman apprese da Walter il momento la maniera in cui si era verificata la sua partenza dalla loro casa. Ci volle del tempo, prima che Harman a sua volta potesse riprendersi dalla sua agitazione e spiegare il mistero della sua sopravvivenza. Il racconto delle sue traversie fu di vivo interesse, una chiave all'impulso vagabondo della vita avventurosa: una foglia tratta dalle visioni accese della giovinezza, sognante, irrequieta e irresponsabile. « E quanto a quel duello - disse Charles Harman - un'oscura rissa con un truffatore ribaldo è stata la chiave di volta del mio destino e del tuo, la freccia avvelenata che adesso tormenta ancora il mio vecchio padre e la mia giovane sorella! La notte del mio arrivo a New Orleans, mi trovavo in un café in compagnia di alcune persone con cui avevo fatto conoscenza durante il viaggio, e con cui avevo stretto una specie di amicizia casuale, senza indagare sul loro carattere. Uno di questi mascalzoni si offese per una parola che avevo detto non volendo, e domandò immediata soddisfazione. Gli altri sembrarono considerare la cosa una questione ovvia, e uno di loro si offerse di farmi da padrino. Lo confesso, straniero e senza amici come ero, lontano da una casa amata, che avrei potuto non rivedere mai più, l'idea di far da bersaglio a dei colpi da fuoco non era molto accattivante per me. Ci battemmo immediatamente, in una località deserta, alla luce delle stelle. Il mio onorevole oppositore sparò prima del tempo e la sua pallottola mi fischiò vicino all'orecchio. Allora mi resi conto della verità: ero stato intrappolato da una banda di quei delinquenti che infestano la città. Sparai subito: il mascalzone cadde con un urlo, ed io fui colpito alle spalle, pugnalato, derubato e lasciato per morto. Due giorni dopo, nella casa appartata di un gentiluomo della Virginia dall'animo onesto e generoso, ebbi il primo lampo di ritorno alla coscienza, e passandomi una mano sulla faccia accaldata sentii il tocco di seta di un ventaglio di piume che sembrava mosso da una creatura celeste. Udii un mormorio che mi ricordava la primavera e l'infanzia, e i toni erano soffici, chiari e melodiosi, come l'eco di una campana nella notte tranquilla. Affascinato, aprii gli occhi su una rosea fanciulla di undici anni, che stava in piedi tra le pieghe di una cortina di damasco e che stava sventagliando, mentre cantava, un mazzo di piume sulla mia faccia. La fanciulla era bella, di una bellezza pura come le prime stelle della sera. Le sue labbra ridenti erano segnate dalle strisce di rubino della ciliegia che matura - le sue guance, di un ovale carnoso, avevano la tinta dei bocci in fiore - e i suoi occhi fluttuanti, sembravano rispecchiare il delizioso azzurro dell'oceano, quando la sera d'autunno sonnecchia indolente nelle sue onde lontane. Ma furono soprattutto i suoi boccoli selvaggi, soffici e color biondo rame, come se fossero stati tessuti da una miniera d'oro, a darmi la vivida percezione di tutto ciò che è più puro e squisito nel cielo. Tremante, col volto coperto di rossore, intimidita di fronte al mio sguardo divorante, la leggiadra

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creatura scivolò via senza rumore, leggera e misteriosa come una silfide, non senza tuttavia che prima riuscissi a dare uno sguardo - uno sguardo solo - alla sua fisionomia. Era una fisionomia di bellezza più che umana: le fate l'avrebbero adorata; gli angeli avrebbero rubato il suo scintillio per il cielo, come un modello per correggere il loro stesso aspetto, che in paragone al suo avrebbe potuto considerarsi quasi deforme. Ma intanto la meravigliosa fanciulla se ne era andata - ed io guardai con un nuovo senso di meraviglia allo spettacolo della vita, della verità, della creazione. Fui soggiogato. L'irrequieta, divorante sete di viaggiare, che fino allora aveva dominato la mia vita avventurosa, mi lasciò apparentemente per sempre. L'ambizione divenne per me un fantasma, lo spirito d'avventura m'apparve come una beffa della realtà e la variegata tela della storia umana, mi sembrò solo un'urna di ceneri che i venti spargevano via. Mi ricordai della mia casa, e qualcosa dentro di me mi sussurrò un senso di rimorso per averla abbandonata senza scopo. Che ragione - che diritto avevo di gettar via dalle mie labbra il calice della gioia, quando la felicità degli altri era mescolata nel suo sorso! Lunga e accusatrice fu quella fantasticheria - molte e piene di pentimento furono le risoluzioni che feci! Il mio benefattore era un gentiluomo di nome Woodville. Egli mi aveva trovato sulla scena del duello, mentre stava tornando a casa dalla città, a un'ora più tarda del solito. La moglie era una donna di belle maniere, con tutta l'autentica gentilezza del Sud. Avevano una figlia sola - la amabile Agnese - che era al centro di ogni mio pensiero. Il cuore mi balzò nel petto con frenetica esultanza, quando, appena mi svegliai il mattino dopo, essa scivolò nella mia stanza, e maliziosamente mi gettò sulla guancia un mazzo di fiori bagnato di rugiada. Le ore e i giorni passavano senza che me ne accorgessi. Avevo diciotto anni, ero ardente e pieno di gratitudine. Amavo e adoravo la mia bella regina. A poco a poco, con sicurezza sempre maggiore, in modo incantevole, potei leggere nel suo candido cuore e sentire che il mio amore era ricambiato. Essa offriva il soffio della sua purezza infantile come un dono davanti a un unico idolo - e quell'idolo ero io. Là, su un letto di affanni deliziosi, giocando coi fiori e coi riccioli, tra canzoni e baci, ottenni dalla semplice Agnese una mezza promessa di diventare la mia piccola moglie. Da allora sono passati degli anni, tuttavia per me è ancora una gioia che va al di là delle parole, stando qui, sul vasto mare, in mezzo alle tempeste e al trambusto di una vita di pericoli, pensare che c'è una lacrima e una preghiera per me sul guanciale di quel cherubino ». Una lacrima furtiva che brillò nell'occhio di De Berrian tradì la simpatia. Con suo cugino condivideva i suoi sentimenti. Harman continuò: « Che documento dell'umana debolezza può essere tratto dai sogni e dai mutamenti di un'ora! Mi ero ristabilito, e uscii fuori per una passeggiata in un fresco e brillante mattino d'estate. Era il 4 di luglio. Mi ero incontrato con l'onda dell'esistenza nel mondo, e quell'onda mi portò via con sé. Le nubi avanzavano in un maestoso corteo attraverso la volta del cielo; la brezza carezzevole spirava olezzante del profumo delle praterie, e risonante nel tintinnio stesso della vita. La natura e l'uomo condividevano la

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mia indicibile felicità. Quella grande città era tutta una festa - io osservavo l'orgogliosa fila dei ranghi scintillanti della marina americana e aspiravo il vento che portava il rombo del tamburo e del cannone. Stando all'ombra delle bandiere ornate di stelle, ascoltai il profondo appello dell'oratore, che esaltava il destino della giovane nazione americana, e mi unii al grido di entusiasmo con cui fu accolto dal popolo. In quell'ora esaltante, sentii che il mondo non bastava a contenere la mia anima; il potente impulso a viaggiare mi aveva ripreso. Decisi così di riprendere il mare; ma prima della partenza, strinsi al petto la mia dolce Agnese e asciugai con un bacio le lacrime che le irroravano il volto. La separazione fu appassionata e colma di angoscia. Il giorno dopo stavo attraversando le acque torbide del Golfo del Messico a bordo di un veloce naviglio mercantile delle Indie Occidentali. E fu a bordo della nave che vidi per la prima volta una notizia casuale su quel fatale duello. Il giornale parlava di "un affare d'onore tra un meticcio e un giovane forestiero, il cui nome, era stato appurato come quello di Charles Harman" e aggiungeva che ambedue i duellanti erano stati uccisi al primo sparo. Preoccupato che la notizia causasse un terribile errore, scrissi a casa appena mi fu possibile ». « Non arrivò nessuna lettera » interruppe Walter. « Terribile » disse Charles « il mio povero padre! E la mia cara sorella! » « Una vela in vista » gridò la vedetta, e a quell'annuncio i due cugini si riscossero. Lontano, sottovento, brillava un punto. Il capitan Parole si fece portare il cannocchiale, e il Gabbiano abbassò le vele. In poco tempo il punto distante si ingrandì fino a mostrare l'incerto profilo di un vascello. Il capitano guardò per un momento e passò poi il cannocchiale a De Berrian. Al primo esame, egli si tolse il cannocchiale ed esclamò con sicurezza: « L’Atlanta! » La nave avanzava maestosamente, come una regina del mare, finché all'improvviso virò così vicina al vento come se stesse per barcollare. Un cannone piazzato a prua della nave fu guardato con facile disprezzo sia dalla ciurma della Tigre che da quella del Gabbiano. « Non può sfuggire » osservò il capitan Parole « anche se è un vero peccato buttare all'aria quel suo vestito da festa ». Il brigantino e la goletta correvano il più possibile sottovento, e in circa due ore il Gabbiano sparò una bordata contro la nave. La bandiera venne immediatamente issata sul ponte, e la massiccia Atlanta cadde dal lato sottovento alla mercé del suo piccolo conquistatore. Grande fu lo stupore dei marinai di guardia sulla nave depredata, quando videro che la Tigre batteva bandiera americana. Più grande ancora fu la loro meraviglia, quando videro che i primi a saltare sul ponte erano il loro ex-compagno Peter e i due prigionieri De Berrian ed Harman. Ma quale fu la gioiosa sorpresa del comandante e dell'equipaggio dell'Atlanta, quando De Berrian, insieme al loro vecchio cuoco Peter, tolse loro i ceppi e li rimise in libertà! Cinque giorni dopo, il Gabbiano e la sua preda gettarono l'ancora nel porto di St. Salvador.

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In tre giorni il valoroso Gabbiano era pronto a riprendere il mare. Il suo irrequieto capitano ardeva dal desiderio di rientrare nel grande e selvaggio oceano. Il segnale sventolava già a prua, quando un calesse manovrato da marinai americani si avvicinò al vascello e Charles Harman saltò a bordo. Walter De Berrian stava seduto in silenzio sull'affusto di un cannone. « Sono tornato di nuovo » disse Charles, prendendogli ansiosamente la mano. « Col tuo consenso, vorrei rinunciare all'incarico che ho preso per te. Ci ho pensato meglio, Walter, tu verrai a casa con me, devi farlo... ». « Il Gabbiano è la mia casa! » « Walter » lo implorò di nuovo il cugino, finché le loro guance non si toccarono, « puoi essere così poco gentile con mia sorella? Adesso sei tu che ti dimostri sprezzante verso di lei. Vieni con me e mia sorella, con la mia intercessione, ti perdonerà ». « Perdonarmi? Ma essa non ha niente da perdonarmi, che io sappia ». « Essa sarà vostra, o io lascerò quella casa per sempre ». « Mai! » rispose fermamente De Berrian « lo ha detto lei! Nessuna mano macchiata di sangue intreccerà fiori nuziali intorno alla sua fronte altera. Il suo orgoglioso padre non la concederà mai in sposa a un morto di fame squattrinato! Questo io posso perdonarlo, ma non lo potrò mai dimenticare! » In quel momento, Peter li raggiunse, e porse un pacco a Walter. Egli lo aprì in silenzio, e ne cavò fuori una divisa da luogotenente. « Il nostro bravo luogotenente in seconda » disse Walter « fu ucciso nello scontro con la Tigre. Io adesso prendo il mio posto, il Gabbiano è la mia casa ». « Allora non c'è speranza » sospirò il giovane Harman, « dovrò andare a casa da solo. Quale dolore sarà per tua cugina! Non hai nulla - una parola - una lettera da scriverle? » « Di' a Catherine » disse De Berrian con un sforzo « che il fratello da lei pianto per morto era prigioniero sul mare, e che il cugino che essa maledì corse col cuore sanguinante per conquistare la sua libertà. Dille che abbiamo parlato di tempi migliori, nel silenzio della guardia di mezzanotte, e che il suo nome fu sempre pronunciato con una benedizione. Sia che la mia ultima preghiera sarà pronunciata sul mare o sulla terraferma, il suo nome chiuderà comunque le mie labbra. Dalle questa ciocca di capelli - sì, tu sai quando me l'ha data - e una lacrima brillò nei suoi occhi - può ricordarle il tempo in cui pensava in modo più gentile a chi la portava. È l'ultimo ricordo di Walter De Berrian ». Charles nascose la ciocca di capelli in petto, perché non poteva parlare. « Peter » chiese Walter, poiché il negro aveva ascoltato con intenso interesse, « non vorresti tornare a casa a rivedere i tuoi amici? » « No, signore », - rispose il negro fedele, con uno sguardo di rimprovero, - « voi tutti siete i miei amici, non vi lascerò mai, visi pallidi - sono un viso pallido anch'io ». Ma un vivido cambiamento aveva illuminato i nobili e bei lineamenti del giovane Harman; egli stava in piedi fiero e alto con le labbra serrate e le narici dilatate; il suo

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occhio stava fisso su una piccola flotta, che si dirigeva verso il porto sotto la gloriosa bandiera degli Stati Uniti. « Walter, non sarò io a portare il tuo messaggio e assumerne la colpa. Guarda là » - ed egli indicò un veliero di incantevole bellezza, tra la flotta, « c'è la bella Ianthe - essa è stata ripresa agli inglesi - vado a rapporto dal comandante. Servo sotto una bandiera straniera, ma contro i nemici del mio Paese ». Lo sguardo di De Berrian si levò con la soddisfazione dell'uomo di mare a guardare l'elegante struttura dell'imbarcazione, che scivolava sull'acqua con la noncurante civetteria di una bella donna - e si volse al cugino, dicendogli: « Pensa a tuo padre e a tua sorella ». « Penserò al mio onore » fu la orgogliosa risposta. De Berrian gli strinse felice la mano, ed esclamò: « L'onore prima di tutto! Che Dio ti benedica! » Il tamburo cominciò a suonare il suo rombante preludio, e Peter si alzò di scatto. Charles Harman scese dal brigantino, e Walter sentì che l'ultimo legame era spezzato. Il Gabbiano stava salpando verso la sua gloria o la sua tomba.

New Orleans dopo la battaglia

7 Era notte, e la più bella città del Sud scintillava di milioni di luci. La splendida illuminazione ondeggiava in pilastri scintillanti fino al cielo, e gettava un fascio di vivida luce sullo sfarzoso labirinto di piazze, sobborghi, navi imbandierate, e l'onda sonnolenta del Mississipi. Era tutto un festoso pullulare di stelle; le strade affollate, le grida della popolazione entusiasta, il tintinnio di campane, gli scoppi di musica marziale, mescolati trionfalmente col tuono del cannone, e con il perenne frastuono dei veicoli, annunciavano un avvenimento importante. Era la notte dopo l'indimenticabile 8 gennaio 1813, e la città, che era appena uscita salva dall'attacco nemico, era una sola grande parata festiva. I conquistatori erano salutati dagli applausi di gratitudine dei loro compatrioti, e belle mani di donna gettavano corone di lauro sul volto valoroso dei soldati, sia veterani che giovani, l'audace cacciatore e il fiero cittadino. Una luce abbagliante veniva a fiotti dal portico di marmo e dalle finestre adorne di ricchi tendaggi di una magione aristocratica, nella passeggiata più alla moda della città. Illuminava una folla di carrozze scintillanti con servitori in livrea, che andavano e venivano continuamente, mentre facevano scendere i loro passeggeri lussuosamente vestiti. All'interno, il brillante salone dei ricevimenti, e le stanze adorne di colonne scintillavano nello sfoggio dell'eleganza e della ricchezza: sontuose tavole erano imbandite con le più scelte specialità di quel clima da giardino. Là i suoni della festa eccitavano l'anima nell'appassionato rapimento del piacere; la musica faceva sentire il

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suo più divino potere, e voci soavi e rapite tessevano la magia del canto. Le più belle ereditiere del Sud erano raccolte là per arrossire alla loro stessa bellezza. Là la bellezza andava di pari passo con la pompa dell'abbigliamento e lo splendore della gioielleria. Era una festa di gemme. Là ondeggiava la scura, magnifica creola, la « donna » maestosa, degna di una corte regale, la ridente belle francese, e là c'era anche il giglio del Nord dalla pelle di seta. Il fior fiore dell'esercito e della marina era là - e più di un'uniforme stella straniera brillava nella folla. Altre piume ondeggiavano nei meandri della danza, e spallette frangiate d'oro e d'argento brillavano accanto alle collane orientali delle belle donne. Passò un'ora: un allegro gruppo di militari si era raccolto intorno al vano di una finestra: e uno dei più eleganti, nella brillante divisa di un ufficiale navale francese, stava raccontando qualche episodio di guerra, quando la sua voce colpì un giovane guardiamarina americano che passava di lì. « Charles Harman », egli esclamò. « Per tutto ciò che è sacro, sei risorto dai morti? » « Jenkins! Credo di sì, mio caro amico » - disse il luogotenente Harman, stendendogli calorosamente la mano - « non sono uno spettro ». « È impossibile! Figuravi nell'elenco dei morti sei anni fa all'incirca. Dove sei stato? » « In mare, come te, ma sotto diversa bandiera » rispose Charles ridendo. Jenkins attonito prese a braccetto Harman e i due ufficiali cominciarono a ballare allegramente nella sala. Charles raccontò in breve la sua storia, e chiese ansiosamente all'amico notizie sui suoi familiari. « Che sorpresa sarà per loro rivederti », esclamò Jenkins ancora stupito della sua presenza - « ho visto tuo padre e tua sorella dieci mesi fa, e allora stavano benone. Ma, vivaddio, non hanno la più pallida idea che tu sia ancora vivo. Da allora sono stato impegnato in servizio. Quel tuo cugino dalla testa calda, Walter De Berrian, che a scuola era un ragazzo così cavalleresco, se n'è andato prima della guerra, e da allora non se ne è saputo più niente ». « Niente! » - disse Harman, con angoscia - « Jenkins, hai mai sentito parlare di un brigantino chiamato il Gabbiano nel corso delle tue navigazioni? » « Spesso, certo, nel '12 e nel '13, era considerato un vascello molto audace. Salpò da Baltimora, credo. Quel suo fiero capitano, Parole, era soprannominato il "Nostromo nero" tra i vecchi lupi di mare. La carriera del Gabbiano è stata breve e gloriosa. Ma tu hai conosciuto bene quel veliero! » Charles non osò chiedere il resto; ma ascoltò con un interesse pieno d'ansia mentre il suo amico continuava; la storia fu breve e terribile. La notte del 13 febbraio il Gabbiano era penetrato all'interno di una flotta di navi mercantili inglesi al largo di Cadice, e aveva affondato una splendida nave. Era stato dato l'allarme, e una goletta molto veloce armata di undici cannoni era partita al suo inseguimento. Il Gabbiano aveva abbassato la vela finché la goletta non l'aveva raggiunto e i due vascelli avevano combattuto per un'ora tremenda da un'estremità del pennone all'altra, in una mischia corpo a corpo. Alcuni degli ufficiali del Gabbiano erano

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caduti sul posto di combattimento e lo stesso intrepido Capitan Parole era stato ucciso nelle braccia della vittoria. I conquistatori erano balzati a bordo della loro preda, e avevano visto il valoroso Gabbiano affondare davanti ai loro occhi nel momento stesso in cui si impossessavano della goletta nemica: un sepolcro adatto per le eroiche gesta che aveva compiuto. La goletta catturata dall'equipaggio del Gabbiano, essendo stata gravemente danneggiata nello scafo e nel sartiame, fu rilevata all'alba da una fregata, e gli inglesi prigionieri furono portati a Gibilterra. « I nomi degli ufficiali uccisi? », chiese subito Charles con un tremito d'angoscia. « Non li ho mai saputi » disse l'altro. « Jenkins » soggiunse allora affannosamente Charles « Walter De Berrian era là. Walter, ti ricordi, il tuo vecchio compagno di scuola, era a bordo del Gabbiano ». Per diversi minuti, Charles Harman rimase impietrito con lo sguardo assente fisso su una elegante colonna, mentre la frangia rossa della tappezzeria di damasco nascondeva a metà i suoi lineamenti. Molti occhi scuri e luccicanti di donna si volsero con dolce e curioso interesse verso il bello straniero dall'aspetto pensoso e melanconico - per quella naturale simpatia con coloro che soffrono che è innata nel cuore femminile. Harman non sentì la musica, lo scoppio di risa, e il battito dei piedi durante il ballo, perché era immerso come in una specie di trance nel sogno della memoria. Il passato, il vivido passato, aveva sollevato il suo sipario ed egli si rivedeva ragazzo, quando nella valle fiorita della giovinezza giocava con Catherine, quella sua sorella così capricciosa, così dotata e così amata. Adesso, la sua mente turbata ritraeva l'immagine della cara sorella immersa nella solitudine del dolore. Crudele era stata la mano, che aveva osato schermare il sole da un fiore così bello; e la coscienza, con una fitta di amaro rimorso, gli sussurrò: « È stata la tua ». Di nuovo Charles Harman si rivide prigioniero nella tempesta dell'oceano, tra le fiamme e il tuono di una battaglia navale, mentre il suo cavalleresco cugino, sciogliendolo dai ceppi nemici, gli porgeva la garanzia della sua libertà, scritta nel suo proprio sangue. Dove era adesso quel cugino? Stava battendo indomito le distese dell'oceano, oppure languiva in una cella come prigioniero? Passando a un altro ricordo, si rivedeva costretto in un letto di malattia e di dolore, mentre uno spirito gentile vegliava sul suo sogno inquieto, rivelando le fattezze di una dolce bambina, Agnese. Gli parve di sentire di nuovo il fremito del suo bacio appassionato sulle labbra, - le calde lacrime di lei che scorrevano sulle sue guance, la sua voce dai toni argentini come l'acqua di una fontana -... A un certo punto ebbe un sobbalzo: era la stessa dolce voce, liquida e lenta come l'eco di un liuto, che ora rompeva l'incanto della sua fantasticheria? Il giovane Harman si riscosse e guardò davanti a sé, con un senso di rapita ammirazione. Una ragazza di straordinaria avvenenza, vestita del più puro bianco, si piegava vicino a lui fra le braccia di un ufficiale navale, che la portava a ballare. La sua meravigliosa bellezza era una deliziosa adulazione alla razza dei mortali. Davanti a lui c'era una figura, dal modello così leggiadro e squisito, che se delle silfidi l'avessero veduta, sarebbero arrossite dinanzi al giudizio imparziale del loro specchio, che le

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faceva apparire meno avvenenti di lei. Era così giovane, così pura, così brillante che una sirena nelle verdi acque dell'oceano si sarebbe inchinata davanti a lei come davanti alla più giovane Principessa delle Perle. La sua capigliatura, con i boccoli che ricadevano abbondanti intorno al suo volto - dov'è la parola che può dipingere il loro colore? La gente grossolana l'avrebbe definito color biondo rame - ma non era così - non aveva nome - il linguaggio è troppo povero per darne un'idea. Il pennello, in mani bramose di assicurarsi un seggio tra le stelle, ha osato talvolta copiare il raggiante splendore di quella capigliatura - ma quell'artista più raffinato, che è la natura, non può fare a meno di sorridere alla presunzione del pittore e guardare con pietà al suo fallimento. E i suoi occhi di tremulo azzurro, simili a quelli di una colomba! L'amore li avrebbe scelti per il suo trono scintillante - ma, ahimè, quale misera descrizione! Chi ha visto la luna sorgere su un mare silenzioso, può soltanto sorridere quando legge la descrizione di questo spettacolo sulla pagina: quella amabile ragazza era la regina della festa. La musica cominciò - la danza riprese - la ragazza fluttuò come una stella di prima grandezza in mezzo alla galassia di luci minori, bella come le sue sorelle nel cielo. Improvvisamente la stella fu arrestata nella sua graziosa sfera; essa aveva colto la luce adorante dell'occhio di Charles Harman. Gioia, sorpresa, timore e la più ansiosa interrogazione: tutto ciò era scritto nei suoi occhi; ma all'improvviso la bella creatura arrossì e i suoi occhi si nascosero sotto un paio di ciglia squisite. Harman rimase avvinto sul posto; per più di una volta, nel vorticoso labirinto del cotillon, egli si incontrò con quegli stessi timidi occhi, cogliendo uno sguardo rivelatore. « Mio nobile straniero » disse Jenkins, avvicinandosi al giovane incantato e battendogli una mano sulla spalla « vedo che anche tu rendi omaggio alla bellissima Agnese! Non mi stupisco - essa è la rosa più bella pur in mezzo a tante rose ». « Agnese, hai detto? » « Sì, Agnese Woodville - suo padre è un vecchio curioso piantatore della Virginia, che è venuto in città una diecina di anni fa, e adesso è immensamente ricco. Sua figlia ha debuttato proprio ora, e già è il Giglio di New Orleans ». « Cielo! dici davvero? » « Perché ti stupisci tanto? Forse la conosci? » « Mi pare di averla già vista prima » rispose Charles imbarazzato, arrossendo come uno scolaretto. « Perbacco! davvero deve averti già conosciuto, a giudicare da come arrossisci ». « Sì, ci siamo incontrati in mezzo a molta gente ». L'allegro marinaio guardò un po' incredulo l'amico e se ne andò mormorando. Il ballo era appena finito, e Agnese, ancora più bella dopo la sua esibizione, si lasciò guidare a una sedia tra un mormorio spontaneo di applauso. Una folla di ammiratori le si fece intorno, e tra i giovani non mancò neppure qualche veterano dai capelli grigi che le porse l'omaggio di complimenti, che sarebbero stati adatti per la più superba donna di corte. Il suo cavaliere si era affrettato a prendere dei rinfreschi, quando il

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luogotenente Harman, che lo conosceva, lo prese per il braccio e gli chiese gentilmente di presentarlo alla sua dama. « Sì, Harman, anzi no - tu sei troppo... sì, troppo bello... Sono geloso di te... ». « Sei un grande egoista, non dire sciocchezze. Piuttosto, se vuoi la mia eterna gratitudine, ricordati che il mio nome non è Harman e che sono francese. Non fare domande - presentami come Brown, Smith, Jones, quello che vuoi... ». « Vieni allora! Mi immolerò per farti piacere; ma i nomi che mi hai detto suonano un po' strani per un francese ». « De Melville, allora, presentami come De Melville » - disse Charles ridendo. Il preteso signor De Melville fu presentato ad Agnese. Sentendo quel nome, Agnese sollevò lo sguardo; c'era un po' di disappunto nei suoi occhi, come se si chiedesse se si era davvero sbagliata. Erano sei anni che non rivedeva colui che l'aveva amata nella sua fanciullezza, e sei anni portano molti cambiamenti. Charles Harman adesso era più alto, vestito en militaire e, secondo la moda prevalente sotto le armi, portava un superbo paio di baffi con relativi mustacchi. La sua carnagione aveva la tinta di uno che viene dal Sud, la sua espressione si era fatta un po' più melanconica, e le sue maniere rivelavano lo spirito altero di uno che ha visto e osservato il mondo. Imbarazzata tra una profusione di complimenti, la ingenua Agnese diede all'inizio risposte confuse. Harman, con aristocratica galanteria, le chiese di concedergli il prossimo ballo, e avuto subito il suo assenso, provò un intenso brivido di emozione quando la guidò trionfalmente nella sala. C'era sulle labbra di lei un'espressione che tradiva un interno diletto, perché udendo la sua voce aveva creduto di riconoscerlo. Quale camuffamento può ingannare gli occhi dell'amore, specie quando questi occhi appartengono a una donna? Agnese Woodville adesso aveva quasi diciassette anni: era una rosa semisbocciata, ancora schiva nel rivolgere il suo primo sguardo sulla bellezza del mondo, e tuttavia sorridente nel suo stesso rossore. Solo con lei, nella danza voluttuosa, dove le loro mani si incontravano così spesso, ed egli sentiva di condividere ogni sorriso e ogni parola di lei, Harman si sentiva così felice che era come ispirato nel parlare. La sua spontanea e brillante conversazione stupiva lui stesso e teneva incantata la sua partner. L'esitazione femminile di lei svaniva di fronte alla magia del suo raffinato approccio galante, e il suo riso dolce e sommesso era frenato meno spesso da una vampa di rossore. Tutta l'anima della giovinetta sembrava gioire nel primo felice gusto di un nuovo piacere. Inconsciamente, il tono della sua voce era leggermente eccitato, e nel suo aspetto c'era la tenerezza felice, che sgorga da un vergine cuore. Le ore volavano sulle loro ali più leggere, mentre Charles e Agnese stavano passeggiando negli spaziosi giardini della villa in festa. Molti altri erano usciti dalle stanze troppo accaldate, e allegre voci risuonavano in puro inglese, mescolandosi ad al-tre in francese e in spagnolo. Era inverno - se tale nome può esser dato all'indolente sonno delle stagioni in quel clima assolato - l'aria era mite, e la luna, che stava allora

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sorgendo, brillava altrettanto soave sulle trecce rigonfie delle belle dame, come sui fregi dei militari, come quando imperlava coi suoi raggi i fiori d'arancio. Harman e la sua amabile compagna erano tutti presi nella corrente stregata della conversazione. Essi raccoglievano i fiori che spuntavano dalle sponde della loro felicità e ne facevano ghirlande per le loro fronti. Gustarono il frutto tentatore che pendeva su di loro, e raccolsero le più rare gemme sul pavimento della fontana. Era la « festa della ragione »: ma non quella fredda, ristretta ragione, quella esatta questione di regola e di misura, di causa ed effetto con cui troppo spesso viene identificata in modo unilaterale la ragione - era la festa della passione e del libero flusso dell'anima. Oh, c'è un incantesimo di profonda delizia, nella conversazione di due anime affini, più potente della musica celeste! Finora non era stata fatta nessuna allusione, né da parte del giovane né dalla ragazza, alla loro deliziosa intimità precedente. Adesso che, parlando liberamente, avevano tratto alla luce le potenzialità più nascoste di ciascuno di loro, nel brillante gioco della mente, ciascuno temette che l'altro avesse dimenticato l'esperienza del passato. « È ora di andare » pensò Charles e rabbrividì al timore che la sua preziosa preda potesse fuggir via. « Come è strana l'armonia tra i nomi e la natura delle cose! » - disse con aria piena di sentimento - « È stata una bella idea dare linguaggio e poesia ai fiori, chiamandoli coi nomi che essi avevano già! Chi sente pronunciare il nome "giglio", sempre che questo nome non evochi subito un'impressione di grazia e di amabilità? Agnese Woodville! C'è una melodia in queste sillabe, che mi è rimasta negli orecchi per sei lunghi anni, ha fluttuato nei miei sogni e durante le ore di guardia notturna ho colto la sua armonia nel mormorio delle onde, tanto che pronunciandolo, mi è sembrato, mi è sembrato che accanto a me cantasse una sirena. Non era forse quel nome come una ballata di gioia, cantata alla sua anima dal menestrello, per ritrovre la speranza, quando era turbato dall'idea di un oscuro avvenire? Una creatura con questo nome adorato un tempo mi assisté quando ero malato; allora era una bambina; ma come deve esser diventata amabile, e come deve essere bella ora! Noi ci amavamo ed essa mi promise allora che sarebbe stata un giorno la mia piccola sposa ». La ragazza lo guardò. « La riconoscereste ora? » « Sì, tra mille ». Un riso malizioso risuonò nell'aria. « Allora » - disse Agnese - « devo presumere che voi avete rotto la mia conoscenza ». « Cielo! Allora tu sei la mia piccola sposa! » « Come è stato tutto ben congegnato! » esclamò la ragazza, non senza una punta di malizia. « E quando mai avete assunto il nome di De Melville, signore? Oh, se anch'io avessi cambiato il mio! » « Perdonami, giglio mio; è l'amore che mi ha suggerito questo inganno. Tu non mi hai dimenticato... ». « No, ma tu non lo meritavi ».

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« Agnese, mia dolcissima amata » - egli rispose con tono appassionato - « la nostra promessa sarà mantenuta ». La soffice mano di lei rispose leggermente alla pressione di quella di lui, e Harman mormorò « mia piccola sposa » mentre stampava il sigillo dell'amore consacrato sulle sue labbra. « Andiamo » disse arrossendo la ragazza. E i due amanti, silenziosi e felici nel reciproco amore, cercarono di nuovo le sale illuminate. « Agnese, mia cara, è tardi, e ti stavo cercando » disse un vecchio signore dall'aspetto signorile, facendo un leggero inchino a Charles in segno di saluto. « Babbo » disse la ragazza « non riconosci Mr. Harman? » « Che Dio ti benedica! È proprio così! Hurrah, mio giovane avventuriero, sono felice di vedervi ». Il giovane Harman salutò cordialmente il suo generoso amico, e il vecchio gentiluomo, che lo champagne aveva reso piuttosto loquace, cominciò a parlare e a fare un migliaio di domande. « Su, venite a casa con noi questa stessa notte » disse, mentre Charles stava aiutando Agnese, non senza qualche riluttanza, a salire sulla carrozza. « No... Non potete... Allora venite domani! Al n... di... Street. Non vedo l'ora di sentire la vostra storia ». « Anch'io » disse la figlia, gettandogli un ultimo sguardo.

La casa del vagabondo

8 Oh, non piangere per i morti. Non più per loro il gelo che uccide, e le mille ombre del male terreno le migliaia di rovi che abbiamo attraversato. Piangi per l'incanto della vita troppo presto svanito nel nulla, lo spirito infranto, sanguinante, solo. Piangi per gli affanni mortali del cuore, primo che stia per dividersi dalla persona amata. Ma non spargere una sola lacrima per quelli che riposano in quella tomba azzurra.

Miss Mary E. Brooks

Erano passati quasi tre mesi dopo gli avvenimenti descritti nell'ultimo capitolo, quando Marzo, con la sua aria da gradasso, come uno stravagante ribaldo che decide di pentirsi all'ultimo momento delle sue malefatte, si svegliò allegro un mattino, e riversò il suo più

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dolce sorriso sull'elegante palazzo di famiglia degli Harman. Era un mattino di promessa e di gioia. La natura riposava voluttuosamente nella sua brillante veste mattutina di leggera foschia, irradiata dai primi raggi del sole. Il cielo, il mare, e le colline erano bagnate in un flusso di luce misteriosa, che potrebbe esser chiamata l'atmosfera stessa della poesia, il soave contagio di amore e sentimento, l'aerea culla dei sogni, che non mantengono mai la loro promessa, dei cambiamenti che non avvengono mai. Era una stagione in cui il futuro è bello come la distanza incantata, e l'uomo nel suo entusiasmo sorride sull'amara lezione del passato. La villa gentilizia era sempre nello stesso luogo delizioso, tuttavia sembrava diventata in qualche modo più piccola rispetto a tre anni prima. I tappeti erbosi, i boschetti ben tagliati, i viali e le graziose rimesse si erano raccolti, sembrava, in uno spazio più ristretto. Le azzurre colline sullo sfondo si erano avvicinate alla baia, che dal canto suo appariva più simile all'ansa di un fiume di quanto non sembrasse in passato, e la indistinta linea fluttuante all'orizzonte non rappresentava più il confine assoluto del mondo. Ogni cosa intorno, tuttavia, rideva nella pace e nel sole, come se non temesse più la visita brutale della guerra. C'era qualcosa di allegro persino nel fumo che mandava al cielo così solennemente le sue volute nel calmo mattino di primavera, dando l'idea del funereo strascico del fuoco; perché da adesso in poi il mirto e il fragrante lillà avrebbero preso il suo posto nel focolare domestico. L'allegro pettirosso faceva risuonare una nota di gratitudine, trovando il nido della sua ultima estate salvo sul ramo biforcuto; e il passero solitario, che aveva passato un inverno difficile, nascosto, da buon filosofo, sotto un biancospino coperto di neve, adesso usciva fuori sgranchendosi le gambe intirizzite e saltellava danzando al ritmo della sua stessa musica tra i nudi cespugli. Le allodole cantavano nei campi, stormi di uccelli neri cinguettavano tra gli alberi, e spesso il fischio della pernice risuonava dalla siepe distante. La vasta e tranquilla baia era cosparsa di frammenti di ghiaccio, su molti dei quali i gabbiani stavano appollaiati per divorare la loro preda. Diverse vele stavano silenziose sull'ampia distesa marina; e lontano dalla riva, sulla lunga linea azzurra dell'acqua profonda, interi stormi di uccelli acquatici stavano raccolti, preparandosi alla loro migrazione stagionale. Più vicino, numerosi merli acquatici giocavano intorno alla riva; i bei cigni se ne erano andati da tempo, e adesso le anatre selvatiche erano pronte a volare, e le loro note selvagge di tromba si levavano alte nel cielo. In quel balsamico mattino, Catherine Harman, ultima erede della famiglia, e sola padrona di una splendida tenuta, bella e intelligente, ma ormai orfana di tutti i suoi cari, in quella dimora gentilizia, che al tempo stesso era stata lo specchio dei più allettanti sorrisi della fortuna e dei suoi più oscuri rabbuffi, era andata passeggiando da sola verso il suo boschetto favorito, e stava seduta su un sedile coperto di viticchi ram-picanti nei pressi della spiaggia. Era vestita a lutto profondo, e c'era una specie di sacra armonia nel contrasto tra il suo abito scuro e la sua celeste bellezza. Poco prima della guerra, il padre era morto di gotta, da vero gentiluomo qual era; il suo ultimo respiro era stato una preghiera di invocazione per il ritorno del nipote e per la felicità della figlia.

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Catherine, divenuta orfana, si aggrappò alla tomba del padre, e si sentì desolata. Alla vigilia dell'inverno essa indugiava là, su quella tomba desolata, e mormorava ai venti gelidi i suoi sospiri: « Sono sola ». Allora le tornava il ricordo del cugino, così orgoglioso, così ingiustamente offeso, e adesso così appassionatamente amato! Spesso nelle fredde notti illuminate dalla luna, si spingeva fino alla spiaggia solitaria, per pregare per il suo amato assente, chiedendosi quale fosse stata la sua sorte. Ah, se egli avesse potuto vedere quel volto in lacrime per lui, e avesse udito le melanconiche e appassionate benedizioni che inviava sul suo nome, che cosa sarebbero state allora per lui le lotte dell'orgoglio, e le speranze della fama, di fronte all'omaggio senza prezzo di un tale cuore - la preghiera su un labbro così puro? Catherine era cambiata, non era più la ragazza un po' frivola e civettuola di una volta. Ah, quando il cuore ha provato l'amarezza di un'anima infelice, le angoscie degli altri non sono più oggetto di scherzo e di scherno. Da quella sera fatale, quando la bella Catherine, in un moto impulsivo di orgoglio, aveva allontanato per sempre da sé la presenza del cugino, un cambiamento avvenne sullo spirito del suo sogno. Fu la prima ed amara lezione in quel libro non letto, pieno di misteri, che è il cuore umano. La bacchetta magica fu strappata dalla mano dell'incantatore, ed essa cominciò a scrutare attentamente i distici segreti nascosti nel profondo della sua anima. Essa lesse il loro messaggio - parlava dell'amore per il suo cugino; profondo, eterno, e colmo di adorazione era quell'amore. Catherine era cambiata; perché la sua straordinaria amabilità fu liberata, dopo l'esperienza della sventura, dall'atteggiamento altero e sprezzante che la aduggiava. C'era una solitaria e tenera tristezza nei suoi lineamenti impeccabili, più fatale al cuore delle più amabili linee della bellezza troppo cosciente di sé. Tre anni di rimpianti e di auto-accuse avevano estinto nei suoi occhi il fresco lampo del sole mattutino, ma avevano lasciato al suo posto il melanconico incanto di una stella. Il dolore forse aveva tolto dalle sue guance qualche tinta di rosa, ma il pallido giglio che aveva preso il suo posto la rendeva anche più affascinante. Prima, essa era come l'onda ridente dell'oceano, che canta col vento d'estate, splendida nel suo allegro scintillio; adesso, era quella stessa onda, sempre squisita nel suo piangente rollio, quando è privata delle brezze che le davano vita. Catherine sedette a lungo meditabonda presso la spiaggia. La dolce influenza della stagione agì come un balsamo ristoratore sulla sua anima afflitta. Adesso sorrideva in modo talmente simile a quello con cui sorrideva nei giorni felici, e c'era un pensiero così profondo ed eloquente in quel sorriso, da attirare giù i cherubini dai loro palazzi di nuvole. « Certo » disse Catherine tra sé, mentre si scuoteva i boccoli dalle guance, e il suo oscuro occhio dardeggiava in un risveglio di speranza, e il suo labbro maturo si piegava in un'espressione che era molto simile a quella di una volta, « certo, quel Potere, che ha dato la vita a questo bel mondo, non mi condannerà a un pellegrinaggio senza gioia attraverso le sue valli risuonanti di canti. Non ho io forse sofferto abbastanza -

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perdendo una madre, un fratello, un padre e un cugino che mi ha sempre amato? Il mio peccato inconsapevole è stato amaramente pagato, e se egli sapesse tutto, mi perdonerebbe; forse mi ha già perdonato, fin da quando ho lanciato la mia maledizione! Oh, sì, egli ritornerà e mi dirà: "Amore mio, dedicherò tutta la mia vita a un solo scopo, quello di farti felice! " Oh, eterna speranza, come il faro che brilla sulla costa tempe-stosa, tu splendi tanto più luminosa quanto più oscura è la prospettiva del futuro. Non ha dunque quel futuro nessun punto brillante per me? » E gli occhi di lei si posarono in quel preciso momento su un punto lattiginoso, che tremolava sul seno nebbioso della baia. Catherine guardò quella macchia indistinta con occhio semi-distratto; e quando, dopo un'ora, essa apparve più chiara con la brezza del mattino, emergendo dalla distanza, e rivelando la sagoma di un alto e splendido brigantino in miniatura, un desiderio, selvaggio, vibrante e tremulo trovò espressione sulle sue labbra. « Quel vascello - essa sussurrò - porta con sé il destino di molti cuori, forse del mio! » Scostandosi i capelli dalla fronte per vedere meglio, guardò di nuovo: e il brigantino, come un cigno maestoso che plani sulla riva, all'improvviso serrò le sue ali di neve, e gettò l'ancora a mezzo miglio di distanza, proprio di fronte al boschetto dove lei si trovava. Fu calato un battello - essa lo vide - remò verso di lei - vide i remi d'argento che brillavano nel sole, i berretti lucidi dei marinai, e il gruppo di oscure forme che si muovevano a prua, intravvide qualcosa di simile a un vestito femminile, e stranamente le sembrò di provare un improvviso colpo al cuore - un timore non sapeva di che cosa! Il battello si avvicinò - qualcuno, dalla figura alta e slanciata, stava in piedi a poppa, come se fosse ansioso di balzare a terra, ed essa vide lo scintillio di una divisa da marinaio; ma, improvvisamente, il battello era virato intorno a un bel declivio cercando l'approdo in una baia più piccola, sul lato nord della villa. Tremante e agitata senza saperne il perché, Catherine Harman si affrettò verso la casa. Alla porta del giardino, incontrò la sua domestica favorita. La ragazza era quasi senza respiro. « Che cosa sta succedendo, Sarah? » chiese Catherine. « Oh, miss Catherine, sono così agitata. Non so chi sono. C'è una ragazza molto carina, quasi altrettanto bella quanto la mia signora, e un gentiluomo che assomiglia al povero signor Charles, è così bello - ah, il mio povero padrone! » « Taci! » Pallida e debole, sul punto dì svenire, Catherine si appoggiò al braccio della cameriera, e ambedue corsero verso casa. « Li ho fatti accomodare nel salotto di fronte » - disse la ragazza - « ma non entrate adesso, mia cara padrona. Voi avete l'aspetto di chi non sta bene ». « Lasciami » disse Catherine, in un soffio « sto bene ». La sua fredda mano si posò sulla maniglia, si fermò, poi aprì con un brivido. Una ragazza, la cui grazia quasi infantile avrebbe fatto impallidire il più felice disegno di un pittore, si levò con le braccia tese da una poltrona, e stette in piedi come la vivente, appassionata e affascinante statua dell'impulso. La luttuosa, e pur tuttavia splendida

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bellezza della donna che le stava dinanzi - con le sue forme modellate in modo così elegante, e i suoi lineamenti così finemente cesellati - senza alcun difetto, e al tempo stesso così somiglianti a quelli di lui - sembrava aver sopraffatto l'innocente creatura nel suo gesto impulsivo. Catherine restava immobile, quasi paralizzata, al suo posto - e la ragazza si gettò ai suoi piedi sul pavimento come un fiore morente, e mormorò gentilmente « Sorella! ». « Sorella » esclamò allora con passione Charles Harman, mentre spingeva da un lato una porta girevole, e balzava al suo fianco. Catherine stava in piedi bianca e silenziosa come una statua che fosse appena uscita dal cesello di uno scultore. « Parlami, Catherine, mia cara sorella, dimmi qualcosa » e la donna si volse in modo convulso verso il petto del fratello. « Sorella? » essa ripeté lentamente, come se parlasse agli spiriti dell'aria. « Non sono sorella di nessuno ormai ». « Catherine! Catherine! Sono tuo fratello Charles! Parlami, dimmi che mi riconosci! » Annaspando come una statua di straordinaria bellezza scossa dalle sue fondamenta, Catherine venne meno tra le braccia del fratello. Per molti minuti di drammatica intensità, Catherine restò distesa sul divano, nell'abbraccio del fratello commosso; la sua capigliatura si era rovesciata tutt'intorno in masse ondeggianti, in vivido contrasto con l'impressionante pallore dei suoi lineamenti. L'amabile ragazza al suo fianco stava cercando con le carezze di riportarla alla vita. « Ecco, Agnese - disse Charles - sta riprendendo coscienza ». « Era un dolce sogno » disse Catherine. « Oh, torna ancora indietro! » « Sorella, non è un sogno ». « Quella voce - Charles! » « Catherine! » Uno sguardo indagatore, un grido di gioia delirante, e la donna, in preda a un'emozione spasmodica, versò un fiume di deliziose lacrime sul collo del fratello, che aveva così a lungo pianto per morto. Quando si guardò di nuovo intorno, un braccio dolce e bello come il suo le circondava il collo, Agnese commossa la spingeva a unire le sue labbra a quelle del fratello. Charles Harman a sua volta pose la mano, simile a un giglio, di Agnese in quella di Catherine ancora sconcertata e le disse con passione: « È mia moglie ». Fu un giorno felice. La strana notizia che il giovane Harman era ancora vivo e che era tornato a casa volò per tutta la tenuta, con la rapidità di un fuoco della prateria. I negri stupiti accorsero a frotte nella « Casa grande » per vedere il morto che era tornato in vita. Solo coloro che hanno assistito al ritorno di un giovane padrone nella magione avita dopo lunghi viaggi sul mare, si possono fare un'idea dell'emozione che suscitò nella tenuta la riapparizione di Charles. Tutti i negri della piantagione, giovani e vecchi, uomini, donne e bambini, cominciarono una danza di festeggiamento, come se quel ritorno avesse segnato il ritorno stesso della vita. Per un negro, danzare è l'espressione

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stessa dell'anima; è la sua religione e la sua poesia. Non c'era mai stata una scena di tale tripudio dai giorni lontani in cui il vecchio padrone organizzava le sue battute di caccia alla volpe. Un mese passò tra lo stupore e le congratulazioni degli amici.

Il menestrello alla fine

9 Ancora stai piangendo, o viaggiatore vagabondo? Pensi forse a qualche sguardo materno colmo d'affetto dei tuoi primi anni O pensi a colei il cui occhio gentile bagnò i tuoi capelli ormai scoloriti di lacrime al momento dell'addio? Parla, perché le tue lacrime mi disturbano, che cos'hai? Perché nascondi il tuo volto e tuttavia continui a piangere ancora? Guarda! Oh, quelle guance, quel labbro esangue Ma ecco!... Oh gioia, mio figlio, mio figlio! Hemaus La preghiera dell'orfana era stata ascoltata ed essa non fu condannata a compiere un pellegrinaggio senza gioia attraverso la valle deliziosa della vita. Un amore, come quello delle sorelle che si incontrano in cielo, sbocciò tra Catherine e Agnese. Era uno spettacolo insolito e commovente vedere quelle due donne di rara bellezza insieme, degno di essere registrato dal pittore più dotato. Ognuna di loro era uno squisito esem-pio dei due più elevati generi di bellezza femminile. Agnese era la ragazza - scherzosa, timida, gentile, e piena di entusiasmo - e Catherine, la donna matura e magnifica; l'una, una silfide, che viveva dell'aria delle rose - l'altra, un angelo con la lira. Tuttavia come è imperfetta la gioia umana! La muta devozione che il fratello e la sua gentile sposa avevano l'uno per l'altra, che aveva in sé tanto della passione romantica, la loro dolce e santa confidenza, e l'eloquente adorazione reciproca che si leggeva nei loro occhi, capaci di comprendersi al volo con un brivido di felicità, - tutto questo suscitava inconsciamente un sospiro da parte di Catherine, e le faceva affiorare una lacrima; in quanto le veniva fatto di pensare, con una fitta di amarezza, quanta fosse in fondo la sua felicità, e si rendeva conto che era ben poca. « Parlaci di nuovo delle tue avventure sul mare » disse un giorno Catherine al fratello, mentre stavano reclini su un'ottomana, con un braccio di Agnese che le circondava il collo, e le loro guance che si sfioravano dolcemente. « A volte invidio quasi l'oceano per l'attrazione che ha esercitato su di te, tanto da sottrarti alla tua casa e a me stessa ». « Ti ho già detto tutto, cara, eccetto... » - e Charles esitò.

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« Eccetto, che cosa? » « Riconosci questo? » egli le chiese allora improvvisamente, mostrandole una ciocca di capelli che estrasse dal seno. Catherine impallidì mentre prese quella ciocca di capelli; la paragonò con i suoi riccioli, e guardò il fratello con aria supplichevole. « Te l'ha mandata Walter, con la sua benedizione » spiegò Charles. « È mia » esclamò la donna con un grido d'angoscia « e il mio povero cugino è morto. Morto! » I suoi singhiozzi soffocati e melanconici avevano qualcosa di squisitamente straziante. Agnese la strinse piangendo al seno, e Harman, agitato oltre ogni dire, prese la mano inerte della sorella. « No, no, non è morto - mia cara sorella - ascoltami, e ti dirò tutto. Ero prigioniero sul mare, su un vascello inglese; una notte terribile, nella furia di uno spaventoso temporale, fummo svegliati dai colpi di cannone e dai gridi di battaglia. Subito dopo venne il crepitio dei moschetti, e il furioso trambusto di uomini in lotta; ma più alto di tutti era il grido di guerra del nome della mia patria. Per più di un'ora, la rabbiosa battaglia infuriò, finché non scoppiò un hurrah assordante di vittoria; e tutto tacque. Eravamo liberi, e Walter De Berrian era tra i conquistatori ». « Allora è vivo? Oh, ma dov'è? » « Ci siamo separati in un porto straniero, due anni fa. Avrei sacrificato il mio posto, per indurlo a tornare, ma egli scosse la testa, e mi disse che il Gabbiano era la sua casa ». « Il Gabbiano! Allora egli se ne è andato per sempre! » ripeté lentamente Catherine nei toni assenti della disperazione, mentre rapide e cocenti lacrime scorrevano sulle sue guance. Essa ricordava di aver letto un misterioso resoconto sull'ultima battaglia del Gabbiano. « E non ha mai parlato male di me? » chiese la donna col cuore ferito, facendo un grande sforzo per ridiventare padrona di sé. Essa ascoltò con intensa angustia, mentre Charles le riferiva il loro ultimo colloquio, e le esponeva il toccante messaggio che De Berrian lo aveva incaricato di trasmetterle, prima di separarsi definitivamente da lui. « Allora egli mi ha sempre amato - caro Walter, così devoto, e trattato così ingiustamente! Quella mia ultima, triste preghiera è salita al cielo, ed egli sa adesso quanto amaramente mi pento e quanto lo amo! Mio gentile fratello, e tu, dolce Agnese, che mi sei di gran lunga più cara di una sorella, non cercate più di consolarmi con false speranze, non cercate di distogliermi dalla mia comunione solitaria con la memoria dei morti. Sono calma adesso, e per sempre! » x A questo punto ci fu qualcosa di così melanconico, e al tempo stesso di così supplichevole nella calma che da allora in poi dominò le ore solitarie della bella Catherine, che il suo incanto aveva assunto qualcosa di sacro. Passarono i mesi, e il mondo, ancora stordito dalla stanchezza per la lotta immane che aveva appena sostenuto all'inizio del secolo, fu scosso di nuovo dal suo momentaneo riposo dalla ventata sconvolgente della guerra. I tuoni della battaglia di Waterloo

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risuonarono da un polo all'altro, e morirono nell'eco del mare. Il mondo fu di nuovo in pace, e non c'era più niente che trattenesse via da casa i vagabondi assetati d'avventure. Non c'era adesso alcun conflitto a raccogliere intorno a sé coloro a cui il destino aveva concesso una vita senza gioia, colma di affanni, e tuttavia Walter De Berrian non si rivide. Harman, alla fine, rinunciò alla speranza di rivederlo: e il suo nome fu pronunciato solo tra sussurri semi-smorzati nella casa della sua fanciullezza. Venne l'autunno - la regale Cleopatra delle stagioni stava avviandosi verso il suo sfarzoso declino di morte. Era il tempo delle passeggiate meditabonde e dei pensieri solitari, quando in ogni fronda è scritta una storia, e in ogni brezza sussurra un avvertimento e un presagio. Era una sera poetica e malinconica dell'estate indiana. Harman e la moglie erano usciti fuori in carrozza, e Catherine decise di fare due passi per recarsi nel boschetto sul declivio della baia, che le era così caro. Sedette sul sedile rustico consacrato ai melanconici pensieri, perché le ricordava il tempo in cui Walter lo aveva aiutato a forgiarlo. Era coperto da un pergolato di viti, e protetto dal sole e dalle burrasche da una grossa quercia che lo sovrastava, mentre la fredda, liscia superficie della baia scorreva ai suoi piedi, tanto che le onde dell'alta marea lambivano talvolta l'azzurra uva matura che pendeva sul ramo più basso. La baia era bella, tranquilla, e la splendida quercia che si estendeva sopra di essa vi rifletteva la sua immagine, e lasciava cadere una gentile foglia per unirsi alla sua ombra. Il fragile messaggio ondeggiò ai piedi di Catherine e si arenò sulla sabbia. « Emblema delle mie speranze », pensò la donna fermandosi a raccoglierlo, mentre la sua lunga capigliatura cadeva dalle sue spalle e pendeva sulle sue guance con chiome di corvo, gettando sul suo volto la luce tenue del crepuscolo. Catherine colse allora involontariamente la sua immagine riflessa nell'acqua, e le si può forse perdonare se indugiò per un momento a contemplarla. Un lampo di orgoglio femminile le brillava negli occhi, mentre lo splendore di quella bellezza ineguagliabile, capace di dettare una specie di sortilegio sull'anima, scorreva in un'abbagliante visione davanti a lei. Riandando indietro con la memoria, Catherine fu presa di nuovo nel vortice della danza del ballo del suo compleanno, quando era stata l'indiscussa regina della festa, a cui era poi seguita quella solitaria fantasticheria di mezzanotte, quando gli altri partecipanti al ricevimento erano immersi nel sonno. Ma chi era quel misterioso personaggio, con l'aspetto un un po' di menestrello, un po' di mendicante girovago che la guardava adesso con l'occhio di una lince? Vestito con l'abito di un nomade straniero, un mendicante polveroso e abbronzato, con lunghi mustacchi e una massa abbondante di capelli ricci color castano, tenendo in mano una vecchia chitarra, lo sconosciuto stava seminascosto nell'albero più vicino, guardando con un'aria stralunata e semisgomenta Catherine, che non si era ancora accorta di lui. Egli si avvicinò in un modo furtivo e ad un certo punto barcollò. Avanzò ancora col piede nella sabbia, sollevando la mano malferma sulle corde della chitarra, come se il braccio fosse trattenuto dalla bacchetta di uno spirito invisibile, mentre Catherine aveva cominciato a gorgheggiare sommessamente un'aria semidimenticata di quand'era ragazza. Era una canzone d'intimazione sognante e melanconica, che a suo tempo

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aveva spesso cantato in presenza di Walter, sotto la muta adulazione del suo sguardo. La sua voce dapprima così lenta e squisitamente dolce sembrava fluttuare e confondersi nel mistero, come per lasciare l'ascoltatore incerto sull'enigma della sua origine. Dato che la cantante era nascosta dai pergolati e dalle viti, si sarebbe potuto scambiare quel canto col lamento di qualche sirena solitaria, che l'aveva strappato al cupo azzurro del mare per morire. La canzone si levava a lenti gradi, come il mormorio delle onde in una conchiglia, finché si ampliava nel più ricco volume della melodia. Il menestrello stette per un momento nell'atteggiamento dell'ascoltatore incantato. Poi, come se all'improvviso riprendesse coscienza, si avvicinò a passi leggeri verso il suo albero, si scostò la massa di capelli polverosi dalla fronte, si mise a posto il cappello scomposto, e ascoltò attentamente di nuovo. Catherine non aveva mai cantato così divinamente, anche nel più delirante rapimento dell'epoca, in cui era solita sfoggiare tutte le sue arti di seduzione. Adesso tutta la poesia del suo primo amore deluso, della giovinezza derubata del suo incanto solare e la memoria, consacrata da gioie che non c'erano più, sembrava respirare nei suoi toni di passione. E quando l'ultima chiara nota si esternò nel pathos del suono, la donna che cantava piegò la sua nobile testa e pianse. A un certo punto essa sobbalzò come uno spirito celeste risvegliato dal santuario del suo culto. Dapprima essa colse il lento ed incerto tintinnio di una chitarra dal suono ricco e profondo, quindi udì distintamente l'accordo tremante di una voce soave. Muta, senza fiato, esterrefatta, bevve l'armonia più robusta di una canzone triste e commovente come la sua. Parlava di un amore giovanile respinto da una donna orgogliosa e crudele. Quindi, levandosi altezzosamente su una nota più alta, quella ballata cantava di battaglie sul mare e del fiero grido del conquistatore. Ricadendo quindi sulla nota più bassa di un gemito, piangeva su un destino di dura prigionia, di miseria, di casa desolata e di amici dimenticati. C'era qualcosa, tuttavia, nell'ultima stanca melanconia romantica della ballata, che parlava della fede ideale di un cuore infranto. « Ma se su una landa deserta di ghiaccio, / con le membra affrante, traccerò sulla sabbia / il nome di lei e lo bacerò mentre muoio ». Il povero menestrello aveva finito, e sembrava perduto in una ridda di pensieri. Catherine si trovò al suo fianco senza sapere come c'era arrivata. « Guarda » essa mormorò con la voce rauca. Il menestrello stupito scattò in piedi e rivolse alla donna un volto sconosciuto. Povera Catherine - lo guardò: non era il volto di lui. « Signora! » disse il menestrello con tono implorante (e anche nella sua voce c'era qualcosa di strano). « Signora, ho viaggiato molto oggi e mi sono fermato in questo amabile luogo per una breve sosta di un'ora. Me ne sarei già andato, ma la vostra canzone, signora, è stata una musica per il cuore di un ramingo senza casa ». « Il vostro vestito: ma da dove venite? » « Da oltre l'oceano ». « Allora forse avete sentito parlare di lui,... Walter ».

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Catherine si fermò e tremò imbarazzata per essersi tradita pronunciando quel nome, quasi senza pudore. Un leggero brivido scosse il menestrello da capo a piedi. « Perdonatemi, signora » egli disse. « Potrei piangere sul fatto che una donna così giovane e bella debba conoscere il dolore. Le vostre lacrime - perdonatemi di nuovo, signora - queste lacrime, sebbene non siano per me, tradiscono un cuore gentile, e spero che non volgerete via la faccia da una storia di sventura. Ascoltate, signora: una volta io avevo un nome e una casa, forse altrettanto bella come questa; ma in un solo giorno sono rimasto senza amici, senza casa e senza nome. E qui adesso sono ritornato, perché questa è la mia terra. Per un tempo interminabile sono stato prigioniero in un carcere straniero; ma alla fine è venuta la pace e ho potuto respirare la libera aria del cielo. Una donna del vostro stesso gentile sesso mi ha insegnato a suonare questa chitarra sulle rive dello Xenil, e con una casa, la casa della mia fanciullezza, davanti ai miei occhi, ho intrapreso un vagabondaggio solitario. Alle porte di Grenoble, ho visto per la prima volta il grande Napoleone. Preso dal folle entusiasmo che quell'uomo meraviglioso poteva ispirare con un sorriso, marciavo sotto la sua aquila imperiale. Signora, sono stato a Waterloo. La cortina di sabbia della storia cadde travolgendo tutto nella polvere, e di nuovo mi sono trovato un vagabondo senza casa, un cantante girovago, costretto a mendicare il pane. Adesso sono sulla riva della mia terra natale, straniero nella mia stessa casa. Il mio nome è scolpito sulla tomba, e il mio sangue è freddo sotto la pietra ». « Venite, signore, con me » disse Catherine, nel calore dei suoi sentimenti, « e accettate l'assistenza che si deve allo straniero; almeno andrete via con un sorriso ». « Accettate i fervidi ringraziamenti di un cuore riconoscente » disse il menestrello, con uno sguardo eloquente. « Anche voi, signora, sorriderete di nuovo! » mormorò. Catherine non ebbe tempo di indagare sul significato misterioso di quelle ultime parole, perché un rumore distante e il battito crescente delle ruote di una carrozza giunse improvvisamente da una strada erbosa in mezzo ai boschi, che il veicolo attraversava serpeggiando con una traiettoria capricciosa non lontano dalla riva. Dirigendosi rapidamente verso la riva, seguita dal menestrello, Catherine sobbalzò vedendo la carrozza del fratello che, coi cavalli imbizzarriti, si dirigeva a galoppo furioso verso di loro. Il veicolo balzò improvvisamente dalla strada, come se si avventasse direttamente verso il punto in cui essi si trovavano, con gli animali inferociti che si gettavano ai lati ad ogni svolta, evidentemente senza il controllo del conducente, tanto che le ruote, senza che essi le vedessero, strusciarono contro l'albero scalfendone la corteccia. « Nessun potere terreno potrà mai salvarli! » esclamò atterrita Catherine, rivolgendosi al menestrello. Egli era pallido, eretto, senza un muscolo che si muovesse. « Chi sono, cara Catherine, cioè... dolce signora? » « Come fate a conoscere il mio nome... Walter!... Sei tu... Salvali, è mio fratello... e mia sorella... ».

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Il menestrello era già andato. Con un balzo raggiunse il riparo di una quercia, e un momento dopo era riuscito ad afferrare le redini. I cavalli imbizzarriti lo fecero sbalzare dai piedi, mentre si sollevavano e si slanciavano freneticamente in avanti. Con la stretta di un Ercole, il menestrello riuscì a trattenerli, ma i cavalli si impennarono di nuovo, e saltarono a pochi passi da Catherine impotente, ormai sul punto di svenire per il terrore. Sbuffando col più folle terrore, i cavalli si gettarono di nuovo in avanti con un movimento convulso, e un momento dopo Catherine sarebbe stata schiacciata sotto i loro zoccoli, se non fosse stata tirata via di peso, con mossa fulminea, da un negro dall'aspetto di marinaio, che la portò subito in salvo. Il negro accorse quindi in aiuto del menestrello, e grazie alle loro forze congiunte, i cavalli, che schiumavano ancora bava dalla bocca, si fermarono tremando sotto la salda stretta delle loro mani. « Ah, ah, Padron Walter » - borbottò il negro - « adesso che se n'è andata la parrucca che vi copriva la faccia vi riconosceranno tutti ». Il cocchiere intanto aveva spalancato la porta della carrozza ed Harman, con Agnese tremante tra le sue braccia, saltò subito a terra. Al primo sguardo che diede al menestrello, Harman esclamò: « Walter De Berrian » e si gettò nelle sue braccia. De Berrian si liberò dal suo abbraccio e si inchinò al fianco di Catherine. « Coraggio, cara cugina, sei salva » e così dicendo la strinse teneramente al petto. « Ma loro, sono salvi? » ansimò Catherine con un filo di voce. « Sì, mia adorata Catherine ». « E voi siete... ». « Walter De Berrian! » « Il mio Walter » mormorò Catherine, in un impeto confuso di gioia, mentre nascondeva la sua amabile faccia sul suo petto palpitante di singhiozzi. « Finalmente » esclamò ridendo Peter, quasi piangendo per la gioia, mentre contemplava il felice gruppo di famiglia. « Che Dio li benedica tutti quanti! ».

2. Racconti

Uno spettro a New York

Le idee incarnate in forma di allucinazioni che si presentano spontaneamente davanti alle persone nervose o timide, sono talvolta il prodotto di tali cause insospettabili, che non c'è da meravigliarsi che queste persone giurino senza ombra di dubbio sulla veridicità oggettiva delle loro visioni nella loro testimonianza su ciò che credono di aver veduto, tanto che sono pronte a scommettere sulla loro reputazione di persone

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attendibili e veritiere, basandosi esclusivamente sull'impressione che queste visioni fanno sulle loro menti. Vi sono persone che restano impressionate dalle visioni di fantasmi che hanno veduto, e che sono disposte a scommettere la loro reputazione sulla veridicità delle impressioni riportate. Ma altre persone, senza la disposizione mentale atta a interpretare un'apparizione insolita come uno spettro, o come un oggetto d'orrore, trovandosi di fronte alle stesse circostanze, mancherebbero spesso di ravvisare qualcosa d'eccezionale nei medesimi oggetti che nell'altro caso suscitano tanta paura. Vedere un fantasma e non vederlo rientra in due psicologie differenti. Ed è altrettanto assurdo pretendere che ogni persona sia in possesso di ambedue i doni, come aspettarsi che ogni uomo abbia al tempo stesso la capacità di scoprire una stella e quella di riparare un paio di stivali. Credo quasi nelle ombre, sussulti di vita da un'altra esistenza, che alitano intorno ai partecipanti di questa. Impalpabili certo, ma percepibili alla vista, che assumono forme che suscitano in noi di volta in volta piacere o disagio, e capaci di sintonizzarsi e accordarsi con la nostra mente nel momento in cui noi le scorgiamo. Tuttavia ognuno la pensi come crede, e fondi pure la sua opinione sulle proprie convinzioni, prima di proclamarsi uno scettico oppure di dire di essere uno che ci crede. Era stata una giornata rovente di luglio. Totalmente incapace per questa snervante influenza a svolgere la mia normale attività, mi ero languidamente abbandonato a lasciar correre oziosamente il tempo, finché le ombre non avevano cominciato ad allungarsi, quando decisi di fare uno sforzo vigoroso per procurarmi un po' d'aria. Ma come fare? Nella mia condizione passeggiare non avrebbe fatto altro che accrescere il disagio. Andare a cavallo sarebbe stato meglio. Andare a cavallo ma come? Cavalcare in groppa? L'esercizio sarebbe stato troppo violento. Salire su un ronzino? Ma avrei dovuto combattere con questa bestia piuttosto bisbetica. Oppure prendere un om-nibus? Il vapore puzzolente di una dozzina di fornai affollati nello spazio di quattro persone - che cosa tremenda! Una carrozza? Sì una carrozza proprio una carrozza! Ecco cosa ci voleva. In questo caso non ci sarebbero state difficoltà. Con tutte le finestre aperte, e con me solo come occupante, qui avrei potuto respirare e rinfrescarmi. Senza por tempo in mezzo, salii perciò subito su una carrozza e ordinai al conducente di andare secondo il vento. Buttai la giacca dietro di me, e mi misi in con-dizione di afferrare il primo soffio sollevato dalla carrozza in corsa. Il cavallo era veloce e la brezza cresceva sempre più. Fui sopraffatto da una voluttuosa sonnolenza, e stavo sprofondando in una deliziosa frescura, incosciente del caldo e del freddo, quando all'improvviso fui sospinto con tale violenza all'indietro, che per un attimo restai stordito e insensibile. Quando mi ripresi, mi accorsi che giacevo sulla strada. La car-rozza si era scontrata con l'omnibus ed era stata rovesciata, scaraventandomi con violenza attraverso la porta di dietro, che non era chiusa bene. Ferito e contuso, cercai la mia abitazione e nella disperazione, il mio letto. Nella mia stanza fui come folgorato

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dal sole al tramonto: uno sprazzo d'oro mi avvolse, mentre sulla strada che si oscurava sempre più mi avviavo a gran passi nei regni del sonno. Stavo camminando attraverso uno stretto sentiero nella foresta, sull'orlo di un profondo baratro frastagliato di rocce e sovrastato da boschetti e da rovi intrecciati, che mi graffiavano e mi strappavano brandelli di carne ad ogni passo, mentre miriadi di serpenti strisciavano fischiando sul mio cammino. In fondo al precipizio correva un torrente scintillante che s'insinuava nel bosco fino a lambire le rocce e i tronchi marciti degli alberi, e faceva spruzzi e spume e mulinelli, con un gorgoglio debole e malato. Mi tuffai nell'acqua per bagnare le mie membra sanguinanti, ma l'acqua era calda, di un caldo bollente. Una spuma soffocante mi salì al volto, e quasi mi soffocò. Ed io mi precipitai indietro nella mia strada piena di rovi, e tirai faticosamente avanti. La vallata boscosa diventava « più profonda, sempre più profonda », con rocce scoscese che spuntavano da ambedue i lati. Alla fine le rocce si congiunsero sopra la mia testa, e tutto divenne improvvisamente nero. I rovi mi ferivano i piedi più furiosamente che mai, e i rettili sfrecciavano verso di me i loro occhi pestilenziali con una temerarietà assai crudele nei miei riguardi. Squamavano attorno ai miei piedi le loro fangose spire, strisciavano viscidi sulle mie spalle, e mi fissavano in faccia. Fredde lucertole o forse gechi e labrene saltavano contro i miei piedi, tanto che per il ribrezzo avvertii un brivido percorrere ogni fibra del mio essere. Il fischio stridulo di uccelli sconosciuti si mescolava con l'ululato d'innumerevoli bestie ripugnanti, echeggiato attraverso la ca-verna come la voce d'un temporale al suo apice. Un urlo lacerante di terribile chiarezza mi rintronò nell'orecchio, e squassò il cuore dentro di me. Inciampai e caddi disteso su un mucchio di ossa scricchiolanti. Un migliaio di occhi lividi lampeggiarono dall'interno, e col loro raggio intenso mi abbagliarono - mi accecarono addirittura. Strisciai lungo il terreno, afferrando i serpenti che mi attanagliavano senza rumore tra le mie dita. La mia corporatura parve espandersi, e un incomprensibile senso di vastità sorse in me. Non so come divenni a poco a poco un gigante - anzi un mostro. Mi alzai sui piedi e la terra ondeggiò sotto di me, mentre passavo oltre. Il tetto della caverna divenne più basso, ed io continuai a camminare finché il tetto si fece così basso, che non potevo restare più eretto. Mentre andavo avanti a un certo punto mi fermai, e sentii che le pareti si chiudevano inesorabilmente su di me. Di momento in momento il passaggio diventava sempre più angusto, finché non mi potei muovere più. Provai un senso di soffocamento angoscioso. Il mio collo era tutto contorto, e la mia testa pen-deva ai miei piedi, come se si fosse disarticolato dal resto del corpo. A un certo punto mi sembrò quasi di essere trasformato in una statua, ed ebbi l'impressione che i miei piedi pietrificati fossero radicati nel terreno. Un pensiero orribile quello di essere paralizzato per sempre in questa perpetua condanna mi gelò il sangue, e tutto il mio essere rabbrividì di convulsioni terrificanti. Improvvisamente una corrente di luce pura e argentea si riversò dall'alto e si diffuse attraverso il cielo, illuminando una volta sopra di me che non riuscivo a vedere. Su un piedistallo di roccia sfavillante stava una figura pallida e grinzosa, di aspetto molto terrificante, la quale mi faceva segno di andare

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avanti. Il raggio che si spandeva attorno era di così varia e indistinta natura, che non potevo distinguere le linee della visione. L'apparizione sembrava un essere umano, anche se era assolutamente extraterrestre nella sua foggia. Un occhio solo, di vivida lucentezza, uscì dal centro della sua testa, mentre un altro occhio spiccava da ciascuna delle sue mani. L'arcana visione ondeggiava su e giù sul suo piedistallo fiammeggiante, e mi faceva cenno con le sue mani veggenti. Ma l'unico occhio che aveva nella testa era fissato immobile sopra di me. Come il lampo del fulmine quello sguardo sembrava bruciare i miei occhi e consumare la mia anima. In tutta la mia agonia non ebbi tempo di pensare né alla morte né a qualsiasi lenimento di sorta. Non mi aspettavo altro che sofferenza e pena, e mi chiedevo solo quale nuova disgrazia mi attendesse. Allungando una mano in modo che il suo occhio scintillante cadesse diritto sulla mia faccia, la misteriosa figura restò in piedi e con una voce, simile all'ululato del vento notturno sopra le tombe, mi parlò: « Mortale, stai attento! « Non restartene inerte tutto il santo giorno sperando che al tuo risveglio per te domani sia meglio! E se a casa vuoi far ritorno « Non viaggiare mai in una carrozza a due ruote puoi andare a piedi per le passeggiate magari appoggiandoti a delle stampelle! Non cedere al tuo spirito imbelle, un po' di sforzo, e si vince il torpore! « Non andare a letto prima del tramonto e mai soprattutto senza cenare! « Per una ferita, un buon bagno ristoratore, è meglio del sonno, in certe ore! « Non dormire con la luna che brilla sul tuo letto la sera « Non portare addosso niente che scintilla: bottoni d'oro sul collo né gemelli sulle camicie! « Osserva questi miei consigli, e sarai felice! ». Mentre terminava di parlare, la figura si piegò verso di me dal suo piedistallo, e scosse con furia le sue mani scintillanti sulla mia faccia. Di fronte al suo atteggiamento di minaccia provai un senso di orrore e cercai di riscuotermi. Puntando indietro, sollevai il piede sul terreno, il mio corpo ebbe come una convulsione e riassunse la sua forma naturale. La figura svanì, la caverna disparve, ed io caddi - fuori dal lettol Era un sogno. La circostanza di aver saltato la cena e le ferite che avevo riportato nella caduta dal letto mi avevano reso delirante. Mentre dormivo, fuori, da una palestra vicina, giungevano i

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forti rumori degli esercizi di ginnastica compiuti al suono di un gong, e la luna piena brillava attraverso la finestra aperta sulla mia camicia, che pendeva sulla ringhiera del letto, e da cui avevo dimenticato di togliere i gemelli. È così che lo Spettro, sospinto dal vento, era entrato nel mio sogno.

Le due scimmie marinaie

La prima di queste scimmie era uno scimpanzè maschio, che viaggiava a bordo di una fregata, e sebbene si cacciasse sempre nei guai, era il beniamino tanto dei guardiani delle cabine, quanto di quelli delle macchine, e in fondo anche di quelli delle mense. Gli unici a cui era antipatico erano i marinai comuni, che non lo vedevano di buon occhio forse per la stessa ragione per cui i cugini poveri - come osserva uno scrittore francese - sono malvisti da noi, cioè per il fatto che lo scimpanzè si avvicinava troppo alla loro natura bestiale. Tutte le sue buffonate, per quanto in sé non avessero alcun intento di accattivarsi simpatie, sembravano renderla più favorita che mai agli occhi della parte più elevata dell'equipaggio. Lo stesso capitano, che come gli altri si preoccupava della felicità di questo povero scimpanzè, pensando che forse in qualche modo col matrimo-nio si sarebbe calmato, si interessò per procurargli una moglie. Per qualche tempo la felicità della coppia sembrava completa, e la fregata salpò per una crociera estiva, proprio durante la loro luna di miele. Ma a un certo punto il marito cominciò a diventare indifferente nei confronti della sua graziosa consorte. L'indifferenza fu seguita presto dal disgusto del maschio verso la sua compagna. Questa marcata antipatia si manifestò con sguardi truci, con brontolii, ed anche con colpi assestati sulla povera femmina, che invece non si stancava di andargli sempre dietro. Tutti i bravi marinai restarono delusi e indignati dall'infelice risultato di un'unione apparentemente così felice. Alla fine sembrò però che nel comportamento poco galante dello scimpanzè avvenisse un cambiamento positivo, che fu salutato subito con gioia da tutto l'equipaggio. Ma i marinai non ebbero molto tempo per rallegrarsi. Infatti l'apparente ritorno di fiamma del marito verso la sua legittima consorte si rivelò nient'altro che un perfido inganno. Il mascalzone non esitò infatti un bel giorno ad attirare con false moine la sua povera compagna sulla cima del ponte di velaccio, come se volesse mostrarle qualcosa in mare, e dopo essersi affettuosamente seduto con lei sulla ringhiera, con mossa repentina le mise la zampa sotto il sedere, e senza un attimo di esitazione, la scaraventò in mare. Non dimenticherò mai il senso di orrore con cui la ciurma allibita assistette a questo spettacolo di inaudita malvagità coniugale. L'unico che non si scompose fu un capitano francese, che si trovava allora a bordo in qualità di prigioniero, il quale volgendosi al secondo luogotenente, esclamò non senza un certo cinismo: « Perbacco, signore, dopotutto questa canaglia ha del carattere! ».

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Un'altra scimmia marinaia di cui mi accadde di fare conoscenza, pur non mostrando tanta intelligenza come la prima, era tuttavia una bestia dotata di un umorismo straordinario. Un mio parente, capitano di una piccola nave da guerra, l'aveva fatta salire a bordo insieme a un orso, con l'intenzione di tenere allegri i suoi uomini con la loro presenza. Questa almeno era la sua intenzione dichiarata, ma ho ragione di credere che si fosse portato dietro le sue bestie, più che altro, per divertirsi lui: comunque sia, forse ambedue gli obiettivi furono raggiunti. In sostanza era la scimmia che si divertita a stuzzicare e tormentare l'orso. La povera bestia, ch'era di temperamento piuttosto malinconico, si appisolava di solito nella parte assolata del ponte. In queste circostanze la scimmia, approfittando del suo torpore, si divertiva a sollevare le zampe dell'orso, e a strapparne via tutti i peli che ci trovava, come se a suo parere non potesse sopportare che restasse un solo filo di quella peluria. Altre volte invece prendeva gusto a sollevare le sopracciglia dell'orso, e a guardare nei suoi occhi, come per verificare che cosa stesse sognando. L'orso, irritato per queste libertà che la scimmia osava prendersi con la sua rispettabile persona, faceva dei goffi tentativi per difendersi, ma alla minima reazione il suo astuto persecutore spariva in un baleno. Il rifugio preferito della scimmia in queste occasioni era il reparto attrezzature, ed era là che il suo nemico cercava di seguirla. Ma il povero orso non era molto bravo ad arrampicarsi, e riusciva appena ad andare oltre un piccolo pertugio. La scimmia invece era nota per la sua agilità e il suo dinamismo, tanto che per qualche tempo fu soprannominata « vice-capitano di avvistamento ». Questa qualifica le fu attribuita per una pratica molto singolare. Avendo osservato l'eccitamento che si verificava a bordo quando veniva annunciato l'avvistamento di un veliero, e trovando assai piacevole anche la caccia frenetica che seguiva immediatamente il segnale di allarme, si divertiva un mondo a dare essa stessa per prima l'annuncio di imbarcazioni in vista. Il posto di avvistamento divenne il suo luogo preferito, e di là faceva segnali con grande vigore, emettendo un grido particolare quando un vascello era in vista, e indicando coi gesti in quale direzione appariva. La brava scimmietta continuò così per un certo tempo a prestare la sua opera di se-gnalazione volontaria, per cui otteneva sempre una ricompensa adeguata. Ma con l'andar del tempo, dato che a un certo punto la nave era entrata in una zona dove non si incrociavano mai altri vascelli, cominciò ad annoiarsi, e per animare un po' la situazione, si divertiva a dare falsi allarmi. Il nostromo non mancò di rimproverarla per questo suo modo di comportarsi tutt'altro che degno d'encomio, ed alla fine perse il posto di « vicecapitano d'avvistamento », che le era stato assegnato, e al posto di questo nome di battaglia fu ribattezzata col soprannome di « scimmia marinaia »; una qualifica che apparentemente colei che ne era stata insignita trovava piuttosto obbrobriosa, poiché rispondeva a questo nomignolo con smorfie, con grugniti, e addirittura, quando ne aveva il coraggio, con delle zampate. Nonostante fosse così smaniosa dell'eccitamento suscitato dalle battaglie in mare, dimostrò poi in pratica di avere i nervi tutt'altro che saldi, tanto che chi aveva avuto modo di osservare il suo comportamento durante le operazioni di arrembaggio, testimoniò in modo tutt'altro che lusinghiero

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sulla sua capacità effettiva di sopportare la prova del fuoco, in plancia, tanto che dopo la sua prima esibizione fu mandata di sotto nella stiva. La povera scimmia finì in modo triste. Aveva visto un luogotenente ferito che faceva la prima colazione coi resti della mensa, e che si preparava il tè; ed essendo stata lasciata per caso sola nella stanza dei cannoni, decise d'imitarlo. Ma non gli riuscì bene la mistura, poiché mise, per l'infusione nella teiera, una bustina di tabacco ch'era sulla tavola al posto del tè, trangugiando poi il beveraggio con la debita aggiunta di latte e zucchero. Questo intruglio mal assortito le provocò un terribile stravolgimento di stomaco, cui seguì un lungo e fastidioso vomito, e alla fine la povera scimmia morì fra atroci dolori. Il dottore, che oltre ad essere un materialista e un ateo, era una persona piuttosto attaccabrighe (aveva ucciso due colleghi ufficiali in duello, e uno di questi solo perché aveva osato chiamarlo col termine da lui ritenuto offensivo di dottor Gallipot), non di meno curò la scimmia con più cura di quanto ci si sarebbe aspettato da una persona come lui. Ma la povera bestia era destinata a morire, e non poté essere salvata. Il medico nella sua diagnosi affermò che la scimmietta era morta per una specie di « ebbrezza intestinale »: un'altra buona ragione per credere che l'uomo in fondo non è che una specie solo un po' più nobile di scimmia.

Un sortilegio di nome Hannah

Il bardo di Avon ha cantato in tono soave e noi, cercando di fare nostra la sua opinione vorremmo sussurrare come lui: « Che cos'è un nome? » Un nome forse in realtà non significa niente, ma l'esperienza ci porta ad una convinzione opposta; a sostenere cioè l'argomento, che un nome invece in effetti significa molto, ed ognuno di noi può portare l'esempio di molti casi di cui si ricorda a conferma di questa affermazione. Con quanto interesse chiediamo il nome specie quello di battesimo di una persona, che non abbiamo ancora vista, e come ci affrettiamo a definire il suo aspetto nel senso di raffigurarcelo piacevole o ripugnante, in base all'associazione col nome che porta. Così è; noi siamo creature affette da strani pregiudizi; anche se poi pregiudizi di questo genere non sono completamente spiegabili sulla base razionale. A volte rintracciamo l'origine di questi pregiudizi molto indietro nella memoria, addirittura rifacendosi all'esperienza di quando eravamo ancora nella culla. La prima nenia, di cui abbiamo qualche memoria, è legata con un nome, che è amato, non per se stesso, ma per la persona che ci calmò nel riposo con il ritmo soave e rassicurante di quella ninna-nanna; mentre un altro nome ci riaffiora nel ricordo in modo spiacevole, perché ci rammenta qualche aspro rimprovero, rivoltoci durante i nostri giochi infantili quando eravamo svegli. Il dolce suono di « Viola » suscita immediatamente un fantasma di amabilità; e quale nome più appropriato per una bella bambina, dal volto radioso come il « sole » che rivela una bellezza ancora in boccio, dell'appellativo « Rosa »? E che dire di « Maria »,

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questo nome prediletto da tanti in tutte le condizioni della vita? È un nome che rende graziosa la capanna solitaria e tempera l'orgoglioso splendore del palazzo signorile. L'occhio modesto e schivo, e la bella fronte da Madonna si presentano alla nostra mente con l'alone pieno di grazia della pietà e dell'amore, associati per tanti secoli a questo suono gentile. Con quanta cura uno scrittore sceglie il titolo per il suo romanzo! Egli sa bene quanto dipende da questa scelta. E spesso abbiamo sentito dire: « Leggerò questo romanzo, perché mi piace il titolo », « Il pirata », che titolo affascinante: siamo certi che si tratta certamente di un avvincente romanzo d'amore e d'avventura, e ancor prima di leggerlo sentiamo interesse per il protagonista, anche se

una sola virtù egli possegga e mille delitti pesino su di lui.

Non c'è bisogno per me di enumerare altri esempi della tenacia con cui i nostri pregiudizi ci restano attaccati (perché tutti possono ricordare antipatie e simpatie legati a certi luoghi e a certe persone per via del loro nome) ma mi affretterò a riferire il caso di un pregiudizio che mi ha seguito per molti anni nella vita come un sinistro fantasma. Il primo orrore in forma di creatura vivente, che mi si presentò alla soglia della esistenza cosciente, durante l'infanzia, di cui riesco ad afferrare il ricordo, è stata la donna che sovrintendeva al reparto dei commestibili nella casa di mio padre. Sotto un certo aspetto questa donna era una governante par excellence, e tutto il vicinato ce la invidiava per la sua abilità culinaria. Ogni volta che veniva dato un pranzo o una cena (anche nella casa più lontana dell'isolato) essa veniva debitamente consultata come un oracolo sulle pietanze più adatte per l'occasione. La sua opinione su che cosa era più opportuno presentare come primo piatto davanti agli invitati, faceva testo nella gente del vicinato, e tanto più in casa nostra, dove, se per caso si voleva fare qualche piccolo cambiamento nel menù che essa aveva stabilito, il suggerimento veniva fatto in modo molto cortese, perché nessuno in famiglia si azzardava ad avanzare la minima critica sulle disposizioni che essa aveva dato per il pranzo. Immediatamente la governante si affrettava a precisare, a scanso di ogni responsabilità, che se accondiscendeva a preparare quel piatto insolito, lo faceva perché le era stato espressamente ordinato e che quel « piatto era preparato esattamente nella maniera in cui il mio signore vuole che gli sia servito, e certamente egli sa bene quale buon manicaretto sia ». La questione era risolta così una volta per tutte. Il piatto veniva assaggiato e accettato da tutti, dopo che il « mio signore » aveva impresso il suo immortale sigillo di approvazione nel cervello della sua buona cuoca. Grazie a questa governante, intuii per la prima volta i vantaggi offerti da una società democratica rispetto a una rigida società autoritaria in quanto la mia fantasia infantile era portata a raffigurarsi in modo quanto mai terrificante il dominio tirannico dei « signori », in una terra dove la gente non aveva il diritto di mangiare ciò che più gli

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piaceva, ma doveva accettare il cibo che gli era imposto con un atto di imperio dall'alto. Quanto poi all'ambito vero e proprio del reame in cui si estendeva la sua incontrastata egemonia, cioè la dispensa e la cucina, posso dire che nessuna sultana ha mai signoreggiato le sue schiave in modo più dispotico di quello con cui questa governante dominava sulle cameriere e sugli altri domestici della casa. Ogni oggetto doveva stare esattamente al suo posto. Le casseruole pendevano bene ordinate in fila e rivelavano col loro scintillio lo snervante lavoro che era stato dedicato per pulirle. La cucina raggiava con lo splendore incandescente del metallo accuratamente lucidato. Se uno passava, e per caso spostava uno spiedo dall'uncino in cui era appeso in cucina, ne derivava un tumulto tale, da far pensare che tutto il locale stesse crollando, e che la distruzione fosse assolutamente inevitabile, a meno che la zona non fosse rapidamente evacuata. Il nome di questa meraviglia, che tanto peso ebbe nei giorni lontani della mia infanzia e della prima adolescenza era Hannah Johnson. Era originaria dell'Inghilterra, ed era venuta in America per vivere con il figlio che si chiamava Samuel Johnson. Non so se quest'ultimo, come faceva pensare il suo nome, vantasse di discendere dal suo illustre predecessore omonimo, il famoso scrittore inglese, noto per la sua enciclopedica dot-trina, ma era certamente un giovane intelligente, e svolgeva bene il compito che gli era stato affidato. Era un impiegato aggiunto nella amministrazione di mio padre, che sbrigava qualche piccola pratica del suo giro d'affari e eseguiva tutti i lavori servili. Questo Samuel era l'unico sopravvissuto sui cinque figli che Hannah aveva messo al mondo. Solo per pochi mesi la madre e il figlio ebbero il piacere di stare insieme; infatti anche Samuel ad un certo punto morì come erano morti i suoi fratelli e la madre fu lasciata senza nessuno. Mio padre, tenendo conto della sua condizione di madre orbata di tutta la sua prole, dette disposizioni per assumerla in casa come governante. Una volta entrata in casa, Hannah si consolò ben presto della perdita dei figli, grazie alle mansioni che essa stessa si era attribuita. Nell'aspetto Hannah aveva qualcosa che faceva pensare a un tempo immemorabile, quasi una cupa divinità arcaica emersa da un mitico passato. Era unica nel suo genere. Era alta, di gran lunga al di sopra della normale altezza delle donne, e possedeva una robusta struttura muscolare, come se avesse praticato per tutta la sua vita nudi esercizi di ginnastica. Non c'è dubbio che, come donna, apparteneva al « genere locomotiva ». Aveva occhi grandi di color azzurro pallido e un po' sporgenti. Quanto ai capelli, avevano quel color grigio pezzato, che nella mia fantasia ho sempre associato, chissà perché con la capigliatura delle streghe. Questa capigliatura era divisa con una scriminatura liscia sulla fronte gialla e segnata di rughe, ed era adornata bizzarramente da una cuffia di lino bianco come la neve, con un orlo di circa quattro pollici, che si ergeva rigido intorno alla sua faccia, conferendole un atteggiamento audace di comando e quasi di sfida. Questa acconciatura era disposta in modo tale, da far pensare che l'uso delle trine dell'epoca della Regina Bess fosse tornato di moda, tanto più che la cuffia si alzava con pieghe ribelli a circondare la sua faccia, anziché esser piegata modestamente, come di solito, per la protezione del collo. La

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gonna che portava era fatta di quella stoffa azzurra d'uso domestico, punteggiata di bianco, che allora costituiva la tenuta normale di lavoro della gente della sua condizione, ma che adesso è completamente passata di moda ed è sparita persino dal ricordo della gente. Nelle grandi occasioni, questa buffa acconciatura veniva messa da parte e sostituita con un camicione di lana, che aveva comprato, come diceva lei, quando « il suo caro George era ancora un bambino, e se avesse vissuto, avrebbe avuto nove anni il giorno in cui lei era venuta in America ». Questo tipo di vestiario mi è rimasto fìsso nella memoria, perché per diciassette anni Hannah fu come un mobile insostituibile nella nostra casa, e per tutto questo tempo il suo frusciante e complicato abbigliamento per quanto frusto e fuori moda, era ancora presentabile. Il vestito in se stesso, per quanto antiquato e quasi grottesco, lo potevo anche accettare, ma l'apparecchio di cuffia e di merletti che le circondava il collo come una specie di soppolo era per me oggetto di un fitto mistero, un enigma all'origine di molte strane congetture. D'inverno e d'estate Hannah era avvolta in una sciarpa di flanella rossa, che non si toglieva mai, a meno di non rimpiazzarla immediatamente con un simile capo di abbigliamento, mentre quello messo temporaneamente da parte veniva lavato e steso su una tavoletta per farlo asciugare al sole di mezzogiorno. Se questa sciarpa avesse un compito di prevenzione contro le affezioni della gola o rappresentasse una specie di lenta terapia o fosse una specie di talismano, non lo ho mai potuto accertare; tuttavia anno dopo anno, questa strana fascia color rubino simile a una bizzarra collana, è stata davanti agli occhi come un'ossessione. Da allora in poi, non ho mai incontrato nessuna persona che fosse così impermeabile come Hannah, a qualsiasi tentativo di guadagnare i favori: usai per conquistare le sue simpatie tutti gli strumenti di seduzione, di cui può disporre un bambino, regalandole spille, aghi, cofanetti per tenere rocchetti di filo, e persino grembiuli che io compravo di tasca mia sottraendoli ai risparmi sui soldi per le piccole spese nella speranza di ottenere da lei in cambio qualche gentilezza od attenzione. Le dedicavo parte delle serate domenicali abbandonando il cerchio familiare per andarle a leggere nella sua stanza dei passi del « Libro di preghiere ». Non terminavo mai questa edificante lettura, senza recitarle il suo brano preferito, « Le preghiere per la sepoltura dei morti », dall'inizio, « Io sono la resurrezione e la vita », fino alla fine, quando essa esclamava a voce alta il suo appassionato « Amen ». Hannah non provava affetto per nessuno, eccetto che per una vecchia gatta nera, che la notte dormiva ai suoi piedi e le miagolava attorno per tutto il giorno. Nella creazione animale questo era l'unico essere vivente, che suscitava la sua ammirazione. Era una gatta nera e lucente, senza un solo pelo bianco che ai miei occhi la riscattasse dalla sua assoluta negritudine di furetto color ebano, ma non era questo il soprannome che le era stato dato; in realtà la gatta era stata stranamente soprannominata Bianche, secondo l'appellativo di una delle figlie ben educate del « mio signore ». La soprannominata gatta, insieme a un logoro pacco di stracci e di rammendi comprendevano tutto il tesoro terreno di Hannah. Spesso essa guardava con reverenza questo pacco prezioso e indicava: « questo era del caro John, questo di quel benedetto ragazzo, Sammy », ecc.,

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finché non aveva fatto vedere ad uno ad uno gli esemplari di tutti i vestiti che erano stati portati a suo tempo dai figli scomparsi. La gratitudine era ritenuta da Hannah come la suprema virtù, sebbene in lei questa virtù non si manifestasse mai in parole o in atti d'amore, ma si esplicasse solo in forma di fredda e rigida giustizia. L'ingratitudine, essa soleva dire, è il peggiore di tutti i delitti. «E sì, Hannah » rispondeva scherzando mio fratello Henry, « chi è ingrato, cioè in graticola, ha una sola colpa: tutti gli altri difetti, rispetto a questo, possono passare come virtù ». « O questo genere di poesia Mr. Henry, va bene per i salotti, e per la gente a cui piacciono solo le spiritosaggini e le cose artificiali, ma da parte mia, lo dico con tutta semplicità, creda a me, Mr. Henry, essere ingrati non è meglio che rubare ». Tuttavia, nonostante questo lodevole sentimento, Hannah in realtà era la persona più sgradevole che abbia mai conosciuto; il suo stesso nome Hannah mi era odioso. Se qualcuna delle mie compagne di scuola si chiamava così, non avevo nessuna indulgenza per lei. Mi guardavo bene dal darle suggerimenti sulle lezioni, né la assistevo in qualsiasi esercizio, e preferivo persino essere sola che essere accompagnata da compagne che portassero il nome di Hannah. Quando studiavo la mitologia, mi chiedevo se Proserpina non portasse anche lei una benda rossa attorno al collo, come sinistro segno distintivo per designarla regina dell'inferno. A volte pensavo che Hannah poteva essere una reincarnazione della moglie di Lot, tornata sulla terra per espiare la sua colpa, tanto era rocciosa, coriacea e poco femminile. Quando avevo appena quattordici anni, mia madre mi mise davanti alcuni libri che desiderava in particolare che io leggessi. La cosa in sé non mi costava fatica, perché mi piaceva leggere, finché l'occhio non mi cadde sul titolo delle opere che mia madre mi aveva dato. Quando lessi « La vita e gli scritti di Hannah More », provai una specie di scossa elettrica, e rimisi tranquillamente i volumi nella loro custodia, esclamando: « Per favore, ne ho abbastanza di Hannah ». Invano cercai di fare allontanare dalla casa come causa di disturbo questa odiosa governante, che per me era diventata una specie di incubo. Mia madre disse che Hannah era una creatura impareggiabile; mio padre aveva compassione per lei, per il fatto che era rimasta sola al mondo, e quanto ad Harry, il mio caro fratello, che condivideva le mie gioie ed i miei dolori, era attaccato ad Hannah perché si divertiva a tormentarla e a prendersi gioco di lei. Una volta, ma solo una volta, Hannah si mostrò teneramente commossa per uno di noi. Ricordo che io mi ero am-malato, e che una lacrima brillava nei suoi occhi, quando disse non senza un'ansia sincera: « Spero che non muoia, altrimenti chi mi leggerà i passi dal libro di preghiera? ». Così il tempo passò. Mio fratello, che si era arruolato in marina e che per tre anni era stato trattenuto in basi di operazione nel Sud, ci scrisse dicendo che « alla fine aveva deciso di porre termine alla tristezza della vita e di prendere moglie ». Egli descrisse la sua futura moglie come una ragazza molto intelligente e abbastanza carina. Perciò mi legai alla prospettiva di felicità della vita di Harry e accarezzai con piacere l'idea di avere come stretta congiunta una persona così simpatica. Ma la prossima lettera di Henry mi

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inferse il colpo mortale: la sua fidanzata si chiamava Hannah Fairfax. Fairfax mi stava anche bene: ma Hannah, oh orrore! Come avrei potuto accogliere una persona che portava un nome così odioso senza trattarla male? Impossibile! Non avrei mai potuto avere simpatia per lei. Trattarla come una sorella? No, no, qualcun altro della famiglia sarebbe andato a darle il benvenuto, perché io mi sarei tenuto davvero alla larga, quando fosse arrivata un'altra Hannah in casa. Pensieri come questi mi frullarono allor stupidamente nella testa. Avevo parlato poco in casa delle nozze di mio fratello e dell'ospite che stavamo aspettando, ma mia madre in qualche modo intuì il mio pregiudizio, ormai radicato verso tutte le donne che portavano l'abominevole nome di Hannah, anche se non fece nulla per dissuadermi, ma preferì lasciare che il tempo e la ragione si incaricassero di eliminare la mia fissazione. Comunque eravamo tutti in grande aspettativa per l'arrivo della sposa di Harry; persino io. Anche se la mia ansia, naturalmente era dovuta a ragioni diverse, da quelle dei miei familiari, in quanto mi dispiaceva soprattutto di dare un dolore a mio fratello, con l'atteggiamento ostile, che non potevo fare a meno di avere a causa del nome aborrito verso la donna che aveva scelto per moglie. Era notte, una notte invernale, ricordo: eravamo tutti raccolti intorno allo scoppiettante e pacifico focolare domestico. Mio padre stava leggendo a voce alta, mentre mia madre stava lavorando all'uncinetto su una sciarpa di fantasia, che intendeva offrire tra gli altri doni, in segno di affetto e di benvenuto, alla sposa sconosciuta. Io apparentemente stavo senza far niente, ma in realtà ero impegnato intensamente in una contraddittoria fantasticheria, in cui piacere e delusione si mescolavano in modo strano e confuso, quando fui interrotto dal rumore delle ruote di una carrozza che si fermava, ed una voce ben nota nella sala d'ingresso mi disse che Harry era arrivato con la sua bella sorpresa. Chiusi gli occhi, quando egli entrò nel salone e per un po' non ebbi la forza di riaprirli per il terrore di vedere confermati i miei timori. Avevo i nervi a pezzi quando assorto ancora in una specie di trance, lo sentii dire: «Caro babbo e cara mamma, eccovi qui vostra figlia Hannah ». Alla fine aprii gli occhi. Provai una specie di capogiro, perché era successa una cosa strabiliante. Pensai di aver sentito dire « celestiale » e non Hannah; senza volerlo esclamai «Angelica!» perché tale era la creatura che davanti al mio sguardo esterefatto, mia madre stava stringendo tra le braccia. Hannah era una delle ragazze più amabili che io abbia mai visto. I suoi occhi color nocciola e lo sguardo implorante, chiedevano amore; la sua fronte era bassa, ma di un bianco immacolato, e incorniciata da chiome di un nero splendente. Le sue forme erano quelle di una Uri del paradiso musulmano. Giorno per giorno, questa gentile creatura conquistò il mio affetto. Essa era come un raggio di luna nella nostra residenza estiva. Tutti le volevano bene, in realtà era impossibile non volergliene. La felicità del marito sembrava assoluta, e io tremavo per paura che fosse troppa per questa terra, e che prima o poi sarebbe stata bruscamente troncata. Non potevo fare a meno di Hannah. Dovunque andassi, volevo che Hannah fosse sempre con me. Un ricevimento non aveva il suo degno ornamento di bellezza se

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non c'era lei. Leggevo un libro senza entusiasmo, se Hannah non accettava di rileggerlo con me. In realtà essa era diventata un elemento essenziale nella mia coppa di felicità. Tuttavia il suo nome, per l'oscuro sortilegio a cui l'avevo associato, non era tale che, nonostante tutto, potessi sopportarlo a lungo, per cui la chiamavo Annie. Alla fine successe però un fatto che segnò per sempre la fine del mio assurdo pregiudizio: la nascita di una figlia. Fu deciso anche questa volta che la piccola neovenuta fosse chiamata col nome di Hannah, che oltre ad essere il nome di mia cognata, era anche il nome di sua madre morta, di cui essa venerava la memoria con la reverenza di una figlia affezionata e di una donna sensibile. C'erano davvero molte Hannah nel mio destino; ma come mi affezionai a questa esile creatura, che per ultima entrava nella mia vita con quel nome fatale. Non c'era cuffietta che fosse considerata abbastanza bella per la sua faccia di velluto, o calzini soffici abbastanza per i piedi di seta delicata a cui erano destinati. Questa deliziosa creatura fu un altro gioiello aggiunto al nostro diadema di felicità domestica, e nessun altro era più carico di gioia. Persino la vecchia Hannah sembrava molto soddisfatta per la nascita della bambina. Quando venne zoppicando al battesimo della piccola che portava il suo nome, l'anziana governante era molto contenta, ed aveva diverse ragioni per esserlo. Diceva Hannah: « Il signor Harry è stato sempre gentile con me, come il mio signore e sono contenta che sia felice » ed aggiungeva: « La mia signora ha visto battezzare tutti i suoi figli e anche questo mi fa piacere » (assistere al battesimo di un nipotino era allora motivo di piacere e di complimento). Ma alla fine confessava la sua soddisfazione maggiore: « poi devo dire la verità, il nome di questa bambina Hannah, è proprio quello che mi piace ». Per più di un anno la vecchia governante non era stata in grado di lavorare, ma non si rassegnava all'idea che il suo egemonico controllo sulla casa stesse per finire. Tuttavia, era proprio lei che in un certo modo affrettava il declino degli anni, e quindi il crollo del suo incontrastato impero casalingo, lamentandosi continuamente dello sfacelo che si sarebbe verificato immancabilmente dopo la sua scomparsa. Ricordo che trattenne il respiro per dire solo il suo finale « amen » quando mi chiamò per l'ultima volta al suo capezzale e mi fece un cenno per indicare il suo libro di preghiere, perché prima di esalare l'estremo respiro le leggessi il brano preferito sulla sepoltura dei morti. Povera Hannah! Che avesse un carattere difficile nessuno lo può negare, ma è anche vero, devo darle atto, che a suo modo ha praticato virtù che molti non comprendono nemmeno, la giustizia e la gratitudine.

Vampiri a Manhattan « Il sindacato degli scrittori associati »

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Le osservazioni di Areanus sulla rapacità degli editori, che si ingrassano sul sangue del cuore degli scrittori, ha incontrato l'opinione favorevole degli scrittori della città, che desiderano conferire con lui allo scopo di concordare le misure atte a mettere immediatamente in esecuzione le sue opinioni. Chi voglia partecipare all'iniziativa si rivolga ad O.K. per concordare il tempo e il luogo di eventuale incontro. « Il sindacato degli scrittori associati » Nota pubblicitaria su The Sun

Confesserò all'inizio della mia narrazione di essere uno scrittore americano, ma non di essere un membro del « Sindacato degli scrittori americani », che non è affatto il pluribus unum. Il mio obbligo di segretezza riguardo i membri del sindacato non mi permette di rivelare i loro nomi, sebbene non ci siano altri motivi per non farlo. Sarà abbastanza per i miei lettori sapere che gli editori si ingrassano sul sangue del mio cuore e dei miei colleghi, per capire le ragioni che mi impediscono di rivelare i nostri nomi. Il messaggio indirizzato ad O.K. (che sta per tutti gli interessati), fu prelevato dalla redazione di The Sun da uno degli « scrittori associati » debitamente protetto da una maschera. Appena l'intrepido membro del sindacato, che si era assunto il rischioso compito di ritirare il messaggio di Areanus, girò l'angolo di Fulton Street con la misteriosa missiva in mano, egli riuscì appena a sfuggire alle grinfie di un emissario di Clif Street. E non basta. Giunto presso Ann Street, mentre correva affannosamente attraverso la folla per eludere il suo primo inseguitore, fu sul punto di cadere nella spietata stretta di un gentiluomo dal volto pallido come uno spettro con perfidi occhi neri, che altri non era se non un editore assetato di sangue, che lo aveva fiutato da Broadway e gli stava alle calcagna per carpirgli il suo manoscritto. Ma la maschera sotto cui Areanus celava la sua identità, la sua fretta, la folla nelle strade, un furgone di noccioline sul marciapiede, un caricaturista con la solita folla di curiosi intorno, un banco di mele, un getto d'acqua che veniva da un idrante, un mucchio di fango sul crocevia, e una bambina a piedi nudi che chiedeva l'elemosina: tutte queste fortunate circostanze permisero all'inviato in incognito degli scrittori associati di far perdere le sue tracce all'editore che come un vampiro lo pedinava in mezzo al traffico caotico della città. Alla fine il povero scrittore, tutto ansante e impaurito, si rifugiò in un ristorante, non perché avesse la minima intenzione di mangiare, - dato che aveva già consumato la sua lauta porzione giornaliera di tre noccioline abbrustolite e aveva già bevuto il suo bicchier d'acqua, datogli per carità in una panetteria popolare a Gold Street - ma perché sapeva bene che nessun editore si sarebbe mai sognato di dare la caccia a uno scrittore in un ristorante. Mentre si gettava sfinito su una panca e si to-glieva la maschera dalla faccia, il cuore dello scrittore in incognito batteva terribilmente, e il suo volto era più pallido della morte, per l'affanno dello scampato pericolo. Ciononostante un'improvvisa vampata corse sulle sue guance smunte e la sua fronte non priva di orgoglio mentre esclamava con esultanza (abbiamo detto « esclamare », ma in realtà il povero scrittore aveva l'organo della cautela troppo sviluppato per tradirsi

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con una vera esclamazione); mentre, dicevamo, sussurrava sottovoce: « Nessun editore rapace si ingrasserà mai sul sangue di questo cuore! ». Spinto sull'orlo della disperazione dall'odore stimolante di una appetitosa bistecca, che un cameriere aveva appena servito, con un gesto disumano, sul tavolo accanto a lui, come un vero e proprio insulto alla fame e alla miseria, e divorato peraltro dall'ansia che qualche editore rapace gli stesse dando la caccia nella strada, lo scrittore in incognito afferrò il suo soprabito con mano ferma e decisa e assunto uno sguardo di fiero disprezzo per i clienti del ristorante che gozzovigliavano intorno a lui, schizzò di nuovo fuori, gettandosi allo sbaraglio nella strada principale, così gravida di pericoli per lui. Guardò con circospezione nella direzione di Avon Street; esplorò attentamente dal lato opposto, si assicurò alle spalle che non lo seguisse nessuno, e alla fine passò con aria sospettosa attraverso la folla di Nassau Street, finché raggiunse... E qui si fermò alla porta di un edificio dall'aspetto strano e fantastico al n…e, dopo aver gettato intorno un rapido sguardo di perlustrazione in men che non si dica all'improvviso scomparve. Io, che l'avevo tenuto sempre d'occhio da vicino, stando alle sue calcagna senza che se ne accorgesse, mi infilai attraverso la porta da cui era entrato, tallonandolo su un'alta fila di scale finché arrivai in cima davanti ad un'altra porta. Appena questa si aprì, mi ritrovai alla presenza degli scrittori associati. Appena lo scrittore in incognito entrò tutti esclamarono: « Finalmente! Areanus! ». Dopo aver deposto il cappello e il soprabito con aria sovrana sulla panca, Areanus trasse la lettera misteriosa dalla tasca e lesse quanto segue... Ma prima di dare il contenuto della lettera, sarà meglio fare un resoconto del dibattito che si svolse tra gli scrittori presenti. Mr. Dennis Deccus, un giovane scrittore americano, di talento piuttosto comune, di cui molti avevano sentito parlare, ma di cui nessuno aveva letto un rigo, si era scagliato con toni di vibrata indignazione contro gli editori, sottolineando il fatto assolutamente inaudito e agghiacciante che essi « si ingrassavano come vampiri sul sangue del cuore » degli scrittori. « Non parlo a titolo personale, signori, nessuno che mi conosce potrebbe accusarmi di albergare in petto la minima ombra d'egoismo. Ma la causa della letteratura americana mi chiama all'appello con squilli di tromba, che non possono essere ignorati; io non sono egoista, signori, non sono vanitoso, non sono presuntuoso. Desidero soltanto che venga stampata e venduta una grossa tiratura di tutte le mie opere, per il bene del mio Paese. Walter Scott ha venduto grosse edizioni delle sue opere mosso da intenti di puro egoismo, e lo stesso ha fatto Dickens, e così tanti altri; tuttavia per quanto mi riguarda, signori, io, il cui solo e ardente desiderio è quello di elevare la qualità della vita del mio Paese, non riesco a vendere nemmeno una sola irrisoria edizione delle mie opere, per colpa degli editori, che si ingrassano come vampiri succhiando il sangue del cuore degli scrittori americani ». A questo punto un altro membro del sindacato saltò su bruscamente a parlare e dichiarò senza mezzi termini che dissentiva con il signore che aveva appena finito di parlare e con tutto quello che aveva detto:

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« Scommetto la mia vita che sono in grado di dimostrare, con perfetta soddisfazione di questo signore stesso, che egli non è altro se non un asino ed uno sciocco. Ciò non toglie che io abbia la più alta opinione dell'abilità, del talento, direi addirittura del genio di questo gentiluomo; ma ritengo che gli interessi della letteratura americana in quanto tale siano superiori ad una questione così meschina come "la qualità della vita"; e vanno anche al di là del mio rispetto per questo egregio signore, che come uomo, come poeta, come gentiluomo, come uomo di mondo, e soprattutto come scrittore americano e come membro del nostro sindacato, tengo nella più alta stima e reverenza. Ma per essere estremamente breve, conciso, chiaro ed essenziale, insisto, per l'onore della letteratura americana, nel dire come ho detto prima, cioè dico adesso e intendo dire dopo, che Dennis Deccus è nient'altro che un asino patentato e un benemerito idiota. Mi limiterò ad osservare che fin dalla prima frase del suo discorso, questo signore, ha usato un'enfasi falsa; ha sbagliato due pronunce; ha mescolato tre metafore insieme; ha usato quattro espressioni volgari, e asserito con sfrontata sicumera cinque fatti falsi, e per sovrappiù ha commesso anche un grosso errore, che non rientra in nessuno di quelli che ho già menzionato, ma è uno sbaglio che riguarda l'impostazione del discorso nel suo insieme, cioè... ». « Vorrei fare una sola osservazione, signori lo interruppe a questo punto Mr. Janson Mintstich (bastoncino di menta), alzandosi con grazia tranquilla e signorile nonchalance. E proseguì con tono mellifluo e accattivante: « Io ho avuto l'onore di appartenere a molte associazioni, ai miei tempi, senza falsa modestia posso dire in verità diverse associazioni, ma devo confessare, e lo faccio con molta riluttanza, che non ho mai sentito prima d'ora un attacco più sleale e meno giustificato di quello che uno di questi egregi signori ha fatto all'altro ». « Intendete dire me? » disse Mr. Deccus con uno sguardo irato. « No signore ». « Intendete me? » chiese l'altro signore. « No, signore. Siete contenti, signori? » « Soddisfattissimo » disse Mr. Deccus. « Soddisfattissimo » disse l'altro signore. « Io non intendevo, parlando dell'attacco in parola, riferirmi a nessuno di voi personalmente egregi signori, ma piuttosto volevo riferirmi a me, scrittore americano del sindacato degli scrittori. Ritengo di non aver offeso nessun gentiluomo qui presente, e non intendo fare nessuna insinuazione a proposito di nessuno scrittore in linea di principio, ma mi sembra piuttosto strano che, in una discussione che verte sulla letteratura americana e sugli scrittori americani, non sia mai stato fatto una volta, dico una sola volta, il mio nome, perché, come tutti sanno sono stato io, sì è stato proprio questo signore davanti a voi, che ha gettato la pietra d'angolo della letteratura nazionale». Si levò allora a parlare un altro scrittore magro e allampanato, dal volto pallido, in eclatante contrasto con l'ultimo oratore che era invece basso, grasso, sorridente,

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paffuto e lucente, insomma tale che sprezzava benessere da tutto il suo aspetto e da tutti i pori. Tutti nella sala sembrarono provare una agghiacciante sensazione di gelo, quando lo scrittore dal volto pallido e smunto si era alzato a parlare: ed io notai, prima che si mettesse a sedere, che effettivamente egli teneva in mano un ghiacciolo acuminato, e appresi da una persona che mi stava vicino che questo insolito oggetto era il suo « silo », cioè la penna affilata nel ghiaccio polare di cui si serviva per esprimere i suoi sentimenti. « I suoi versi » sussurrò la stessa persona « sono lisci, chiari e scintillanti, ma freddi come il ghiaccio ». Lo scrittore dal volto pallido e smunto guardò freddamente tutto l'uditorio, ma non disse una parola. « Qual è il significato del suo strano comportamento? » domandai « appartiene forse al genius irritabile? ». « Proprio così » rispose il mio amico « ma pur avendo tutta la petulanza di questa razza particolare di scrittori e la gelosia pazza di un turco, gli manca poi il coraggio per attaccare direttamente chicchessia; così egli si serve delle facoltà distruttive, che la natura gli ha dato, e paralizza, col gelo del suo mortale silenzio quelli che non può colpire a viso aperto e a chiare note. Ma di tanto in tanto tuttavia colpisce anche lui, sebbene lo faccia sempre con quel ghiacciolo che ha in mano, e vi assicuro che non è affatto piacevole ». « Preferirei essere punto da una vespa » dissi io « piuttosto che essere pugnalato da un ghiacciolo ». Appena il poeta di ghiaccio sedette con la faccia rivolta al Polo Nord, forse per trarne ispirazione, un altro membro del sindacato si levò in piedi con un salto di gioia, e guardando intorno l'uditorio, caloroso ed allegro come il sole, mise subito tutti a loro agio, comunicando il suo umore ridanciano, cosicché anche lo scrittore con lo stilo di ghiaccio sorrise, sia pure in modo torvo e di traverso senza rendersi conto di farlo. « Quanto a me, io non mi lamento » disse lo scrittore dall'aria allegra, che era un poeta « ma ho il diritto, che spero non mi negherete, di protestare a nome di una categoria, come poche sofferente e tartassata; quanto a me, se il sangue che il mio cuore fornisce è nutrimento sufficiente per ingrassare qualsiasi essere umano, sono contento, anche se si tratta di un editore, perché un editore è pur sempre un essere umano ». « Questo è un fatto su cui non sono affatto d'accordo » esclamarono in coro una dozzina di voci, fra cui dominava quella di Mr. Deccus, che era la più alta di tutte. « Vi concedo la libertà di non essere d'accordo » continuò il poeta « ma io non sono d'accordo sul fatto che voi non siate d'accordo ». « Un momento, signore - disse allora un altro scrittore, che non avevo notato prima, « un momento, per favore, io vedo il caso in modo diverso. Senza per questo voler usare nessuna scortesia verso nessuno degli egregi signori qui presenti, mi limito a dire che, e voi vedete bene che lo dico io stesso, che la mia opinione diverge nettamente da quella di tutti voi. Il mio amico Dripel, l'Hogg Americano, e il mio amico Deccus, il Boz

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Americano, e il mio amico, di cui adesso non mi ricordo il nome, il Mackenzie americano, vedete bene, questi illustri signori, sono tutti convinti che l'idea grande, dominante, persuasiva e assorbente che domina tra noi scrittori del Sud è che la categoria a cui il signore allude è... ». « Forse il signore sarà così cortese da aspettare ad esprimere la sua opinione, finché non gli preciso esattamente a quale categoria intendevo riferirmi... » disse il poeta dall'aria allegra. Sono sicuro di risparmiargli altri allarmi, dichiarando semplicemente che alludevo alla categoria degli scrittori! » « Questa è un'altra questione » replicò lo scrittore che aveva parlato per ultimo in tono sommesso « notate che sono uno scrittore io stesso, uno scrittore americano, appartenente al sindacato degli scrittori associati e come voi noterete, mi faccio un punto, voglio dire ritengo mio diritto e mio dovere di ingrassarmi io sul sangue del cuore degli editori, invece di permettere ai signori editori di ingrassarvi sul sangue del cuore del mio. È un principio fondamentale per me, quello di esigere che gli editori mi paghino sempre qualcosa, sia pure un misero scellino, per qualunque prestazione scritta possa fare per loro altrimenti non tocco penna. Noterete che... ». A questo punto la porta si aperse e apparve uno scrittore con un pacco enorme di carte sotto il braccio, tanto che al suo ingresso creò un visibile panico fra gli scrittori adunati in assemblea. « Non voglio spaventarvi, signori » disse il nuovo venuto « ma ho incontrato proprio adesso, un editore, mentre venivo qui, e ho il fondato sospetto che stia dando la caccia ad uno di noi ». A questo annuncio, tutti diventarono pallidi come la morte, eccetto il poeta dal volto pallido, che era già così pallido e freddo che non avrebbe potuto esserlo di più. Lo scrittore che era entrato per ultimo, sembrava in ansia non tanto per sé quanto per l'illustre scrittore che presenziava la seduta, Mr. Deccus, che egli strinse tra le sue braccia per salvarlo dalla minaccia incombente, impegnandosi a proteggerlo a costo della sua vita finché aveva una goccia di sangue nelle vene. Gli scrittori del sindacato cominciavano ad andarsene, atterriti dall'annuncio dell'amico di Mr. Deccus, quando questi chiese loro di restare ancora un momento, per permettergli di leggere una recensione delle opere di Mr. Deccus stesso, che egli aveva preparato per la Hong Kong Gazette, in quanto c'era una grande curiosità in Cina di sapere qualcosa su quest'astio nascente della letteratura americana. Dato che l'intento principale dei membri del sindacato degli scrittori era quello di recensirsi l'un l'altro, gli astanti non poterono rifiutarsi di ascoltare e si fermarono tutti senza altre sollecitazioni (« il sangue del cuore» a cui alludeva la lettera di Areanus per loro non era altro che un sinonimo della sospirata « recensione »). Fu letta così la recensione (il cui pregevole testo viene dato qui di seguito), insieme alla lettera stessa di Areanus che l'accompagnava e poiché ormai il sindacato degli scrittori in pratica era diventato una specie di succursale della benemerita società per la promozione della mutua ammirazione, la maggior parte degli ascoltatori, dopo le prime battute del testo, pensarono bene di svignarsela alla

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chetichella, per preservare « il sangue del loro cuore » dal vampirismo degli editori rapaci in agguato, alla caccia dei loro preziosi manoscritti. « Deccus » disse solennemente il recensore delle opere di questo illustre signore, di cui tanto deve la letteratura americana, quando aprì il manoscritto, « come voi sapete benissimo, egregi signori, è uno dei nostri scrittori più geniali, più indipendenti e più autoctoni; egli è in realtà un Boswell americano. Ho scritto la recensione delle sue opere, non per meschino interesse personale o per vano sfoggio della mia erudizione, ma per l'avanzamento e il bene stesso della letteratura americana. Comincerò con l'opera maggiore di Deccus, intitolata Le elucubrazioni di Cristoforo Scarafaggio. Ebbene, cittadini, non credo davvero di esagerare, signori, quando dico che Deccus, soprattutto a giudicare da quest'opera, che è indubbiamente il suo capolavoro, può essere considerato il più originale e straordinario scrittore che... ». « In realtà signori lo interruppe Mr. Deccus, alzandosi con la faccia paonazza dall'ira «mi colpisce il fatto che qualcuno osi prendersi certe libertà con le opere di uno scrittore come me, ed io, in nome della letteratura americana, mi sento in dovere di protestare fermamente contro quell'arbitrio cioè contro il fatto che qualcuno, sia pure con le migliori intenzioni, si permetta di dire che una delle mie opere è il mio capolavoro in assoluto. Non faccio nomi signori, non indico nessun individuo particolare come colpevole; ma colui che si prende una libertà di questo genere nei miei confronti non può essere classificato certo fra gli amici della letteratura americana. Mi sento offeso, signori. Non accuso nessuno, non faccio i nomi di nessuno, ma un certo individuo qui presente, mi ha fatto una gravissima offesa. Se una delle mie opere può essere classificata come la maggiore della mia produzione, ciò significa inevitabilmente che le altre mie opere devono essere considerate minori. Attenzione signori, così facendo voi scherzate col fuoco, voi gettate sotto i piedi gli interessi superiori della letteratura americana: una pianta ricca di grandi promesse, ma ancora esile e delicata, che richiede tutta la calda luce solare del vostro favore per crescere e fiorire, e che le raffiche gelide e distruttive di una critica malevola potrebbero arrestare nel suo sviluppo, anzi sradicare, distruggere ed essiccare per sempre ». Questo discorso, così risentito ed offeso, da parte di Deccus, sconcertò talmente il recensore che questi profondamente amareggiato per l'effetto controproducente delle sue lodi, si rimise in tasca il manoscritto e sedette senza dire un'altra parola. Ma il suo silenzio sembrava dire in modo fin troppo eloquente che, per quanto un critico sia animato dalla miglior buona volontà di tessere le lodi di uno scrittore recensendo i suoi libri, la possibilità che questi ne rimanga soddisfatto è un'impresa davvero disperata. E per ciò che mi riguarda, dopo aver assistito a quest'episodio ho giurato a me stesso che, facendo una recensione, non farò mai un tentativo del genere. A questo punto fu chiesta a gran voce la lettura della lettera di Areanus. La lettera, quando fu estratta, rivelò contenere una tragedia in 6 atti, scritta da Mayor Laurei, il famoso scrittore considerato come lo Sheridan Knowles americano. La tragedia fu letta da Mr. Ostensible Watkins, anch'egli un celeberrimo scrittore detto il John Philip

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Kemble americano. Da quel fine dicitore che era, Mr. Watkins pronunciò il titolo, già abbastanza commovente in se stesso, in modo tale da suscitare un brivido di intensa emozione tra tutti gli scrittori del sindacato presenti.

LA TRAGEDIA DELLO SCRITTORE VAMPIRIZZATO Ovvero IL PERFIDO EDITORE SUCCHIASANGUE Un dramma in 6 atti

atto I

Scena Una stanza senza mobili, eccetto una moglie che piange e due bambini che strillano.

Entra Writefort, uno scrittore americano, con un grosso rotolo di carta sotto il braccio; guarda la moglie e i bambini; scuote la testa, sfodera tutte e due le tasche per mostrare che non ha il becco di un quattrino, indica il suo manoscritto e scappa via dal palcoscenico.

atto II

Scena 1° Una stanza d'ufficio con diversi impiegati ad una scrivania. Un editore, munito di occhiali, dall'aspetto florido e soddisfatto, seduto comodamente in una poltrona, che legge il giornale. Entra un altro editore, snello, elegante e ben vestito.

I EDITORE: Buongiorno, collega. II EDITORE: Buongiorno, carissimo. I EDITORE: Hai letto il manoscritto? II EDITORE: Ah, ah, ah, questa è bella! Mi chiedi se l'ho letto? Che sciocchi patentati che sono, questi scrittori esordienti, a pensare che noi perdiamo tempo a leggere i loro insulti manoscritti! I EDITORE: Mi stupisco del tono frivolo e leggero, con cui parli di un soggetto così serio ed importante; sai benissimo che io catalogo accuratamente tutti i manoscritti che mi arrivano cioè li attacco ben bene alla stecca in modo che anche se mi guardo bene dal leggerli, posso sempre dire con la coscienza a posto, perché come sai bene, se c'è una cosa che odio è mentire: « Signore, ho catalogato attentamente il vostro manoscritto » quando uno scrittore me ne chiede notizia. II EDITORE: Sei proprio un burlone, collega; ma che cosa dirai adesso a Mr. Writefort? So che verrà qui questa mattina per avere una risposta sul manoscritto che ti ha lasciato in visione.

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I EDITORE: È una fortuna che me lo hai ricordato; provvederò subito. Usciere, portatemi subito qui quell'ultima immondezza... Che seccatura, però. (L'usciere porta un pacco di manoscritti. Il I EDITORE infila accuratamente il pacco in una stecca e scoppia in una grossa risata. Poi dice all'altro editore): Ecco, sono pronto a riceverlo. Arriva proprio ora.

(Entra Writefort, si leva il cappello e fa un inchino in segno di rispetto.)

SCRITTORE: Avete esaminato la mia opera, signore? I EDITORE: (strizza l'occhio al suo collega) Proprio in questo momento ho finito di leggerlo (ligarlo). Sì. SCRITTORE: Santo cielo, l'avete letto? Non me lo sarei mai aspettato. Signore, accettate i più sentiti ringraziamenti di uno scrittore riconoscente. Se lo avete letto il manoscritto, non posso dubitare allora, che senz'altro lo comprerete per pubblicarlo. Questo scritto mi è costato anni di studio, fatiche, speranze. Sarò parziale, signore, lo so, nel giudicare me stesso ma so che l'opera vale. II EDITORE: (rivolgendosi sottovoce al collega) Mi voglio proprio divertire. (Rivolgendosi all'autore.) Vale? Ma certo che sì. Vale, altro se vale. In tutto il corso della mia carriera di editore e lo dico con tutta sincerità non mi sono mai imbattuto in niente di più impressionante (a parte, sottovoce, riferendosi allo stato miserando in cui appare vestito lo scrittore) più impressionante... come miseria nera. SCRITTORE: Oh signore, che cosa direbbe la mia povera moglie se sentisse questo. Mi permettete, signore, di ripeterglielo? È una notizia meravigliosa per me, questa che voi mi date... I EDITORE: Naturalmente. Ditemi, Mr. Writefort, che valore attribuite alla vostra opera? SCRITTORE: A dire il vero, signore, ho paura di dirlo. Nessun prezzo mi sembra troppo alto per il suo valore, e nessuno è troppo piccolo per i miei bisogni. I EDITORE: Rifiutereste un'offerta di diecimila dollari? SCRITTORE: Diecimila dollari? Ma signore, voi state scherzando o io sto sognando? Volevate dire veramente ciò che avete detto? Avete detto davvero diecimila dollari? I EDITORE: Proprio cosi. SCRITTORE: Signore, mi accontenterò di meno, mi bastano 9.500 dollari. Scusate il fatto che sto tremando, ma la vostra offerta mi ha fatto saltare i nervi. Tornerò domani per concludere l'affare. (Stringe le mani ai due editori e fugge via in una selvaggia corsa di gioia.) I EDITORE: Ah, ah, ah. II EDITORE: Oh, oh, oh. TUTTI GLI IMPIEGATI: Eh, eh, eh. II EDITORE: Usciere, metti da parte quella schifezza, e prepara la spedizione della cassa delle Bibbie per le librerie.

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atto III

Scena - Stanza senza mobili.

Lo scrittore, la moglie e due bambini, con le mani giunte, danzano intorno alla tavola al centro della quale c'è una bottiglia d'inchiostro vuota, che fa bella mostra di sé accanto a una penna d'acciaio. Dopo aver ballato finché non hanno più un briciolo di forza lo scrittore e i suoi familiari cadono esausti in ginocchio, formando una specie di « tableau vivant » davanti alla tavola, e il sipario cala.

atto IV

Scena - L'editore, come prima.

I EDITORE: Ecco che arriva di nuovo quel povero diavolo di scrittore. Ci faremo ancora quattro risate. (Entra Writefort.)

WRITEFORT: Signore, sono venuto di nuovo per l'ultima volta, è la decima volta che vengo qui. Se non intendete pagarmi niente per la mia opera, ve la darò per niente, purché siate disposto a pubblicarla. I EDITORE: Non posso accettare un'opera di tanto valore, signore, per niente: e quanto a stamparla adesso, la cosa è praticamente impossibile; noi intendiamo installare una nuova stampatrice a vapore espressamente a questo scopo, e ciò, naturalmente, richiede del tempo... AUTORE: Ma mentre le vostre stampatrici sono in preparazione, signore, non mi vergogno a confessarvi che mi trovo così duramente assediato dalle mie necessità, che non posso aspettare neppure un giorno, solo. Devo rivolgermi altrove per quanto ciò mi rincresca. Ma poiché voi avete letto la mia opera, naturalmente, spero che sarete disposto a scrivere due righe per garantire il suo valore, raccomandandola ad un altro editore... I EDITORE: Questo proprio non posso farlo; è assolutamente contro i miei principi, raccomandare un'opera che non pubblico. (Con aria offesa.) Peter, restituisci a Mr. Writefort il suo manoscritto. SCRITTORE: Signore, ma come è possibile? Voi dite di aver letto il mio manoscritto, ma vedo qui che il sigillo dell'involucro non è stato toccato. Non mi avete mica preso in giro?

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I EDITORE: (ancora più seccato, in tono brusco, che non ammette replica) Usciere, accompagnate alla porta questo signore; gli scrittori stanno diventando davvero impudenti. Bei tempi davvero, questi in cui un pezzente di scrittore morto di fame ha la sfacciataggine di usare un linguaggio del genere con un rispettabile operatore del mondo libraio. L'ho preso in giro, davvero! Ma che cosa dobbiamo sentire... (Lo scrittore esce disfatto e tremante con il suo manoscritto sotto il braccio, e l'atto si chiude con un gran coro di risate da parte degli editori e dei loro impiegati.)

atto V

Scena - Nella strada, davanti a una stamperia economica.

WRITEFORT: (solo) Alla fine, la mia opera è pubblicata - pubblicata in questa misera edizione popolare, tutto il mio duro lavoro, tutte le mie belle speranze, tutti i miei sogni più cari, alla fine si sono risolti in questo. La mia opera preziosa, pubblicata su carta di infima qualità, rilegata con una copertina di colore sporco, e venduta al dettaglio per non più di un misero quarto di dollaro. Bene, bene, dopotutto ho avuto anche il mio quarto d'ora di gloria e di felicità, quando ho sognato che io e mia moglie e i miei piccoli eravamo tutti diventati ricchi, grazie a quella magnifica somma! che l'editore mi aveva promesso! Diecimila dollari! È stato solo un sogno è vero, niente più che un fuggevole sogno, ma aver avuto una tale sensazione di indicibile felicità è stata una cosa per cui valeva la pena di faticare, preoccuparsi, e spremersi la mente, e sudare le sette camicie, come ho dovuto fare con la mia opera. Chi non vorrebbe essere uno scrittore, dopo-tutto?

atto VI

Scena - Una soffitta, con una bara circondata dalla vedova dello scrittore e da due bambini. La vedova ha in mano una copia del "Times" di Londra. Si asciuga gli occhi e legge un annuncio del giornale: «Mr. Bentley pubblicherà il mese prossimo la Storia di Pavonia di Mr. Writefort, in tre volumi in octavo; prezzo, due ghinee ».

LA VEDOVA: Troppo tardi, troppo tardi! Questo annuncio pubblicitario avrebbe salvato la vita di mio marito. Ma è possibile che io e i miei bambini non possiamo ricavare qualche benefìcio dall'opera, per cui mio marito si è sacrificato tutta la vita e che lo ha portato a una morte prematura? È giusto, che quest'editore di Londra, come si chiama, Mr. Bentley si ingrassi sul sudore del mio povero marito, e che io non ci

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guadagni proprio nulla? Oh, strano mondo pieno di ingiustizie questo in cui viviamo, che assicura ai più bassi lavoratori manuali, al meccanico, al negoziante, al contadino, i frutti del loro lavoro e garantisce loro il pieno diritto su ciò che è di loro proprietà e lascia invece lo scrittore, privo di qualsiasi protezione legale, preda di ogni furfante mercenario, di ogni speculatore senza scrupoli, che voglia appropriarsi, per guadagnarci sopra, dell'opera che ha scritto col sudore e col sangue. O mondo strano, incoerente, irresponsabile, senza cuore!

(Il coperchio della bara si alza all'improvviso, e lo scrittore si leva ritto sulla cassa; la vedova e i bambini stanno per scappar via terrorizzati dall'inaspettata apparizione, ma Writefort li rassicura, li richiama indietro e li abbraccia.)

SCRITTORE: Un annuncio come questo, un falso così grossolano, un furto così mostruoso, una dichiarazione così spudorata, come quella di questo editore di Londra che si è appropriato dei proventi delle mie fatiche, non può fare a meno di resuscitare anche i morti. Mi sono rivoltato nella tomba a sentirlo, e grazie a Dio sono vivo di nuovo. Eccomi qui cara moglie, e cari bambini, lasciate che chi vuol scrivere libri li scriva, pure, ormai ho capito che il mestiere di scrittore non fa per me. Mi metterò a confezionare scarpe, almeno così godrò i frutti del mio lavoro, e voi non soffrirete più le privazioni e le angustie a cui la società di oggi condanna chi ha la colpa imperdonabile di voler scrivere libri. FINE

Mendicanti capricciosi

Mr. Bundle, sagrestano di Oliver Twist, era un povero molto indigente, che di proposito si lasciava morire di fame, allo scopo di suscitare odio verso i parrocchiani che lo vedevano in quelle condizioni disperate; e Mrs. Corney, la benefattrice della Casa dei Poveri, nello stesso romanzo di Dickens, non faceva che lamentarsi del fatto che a qualche vecchia di tanto in tanto saltava in testa il grillo di morire, quasi per farle di-spetto, proprio quando lei, Mrs. Corney, stava per prendere comodamente una bella tazza di tè. I poveri sono i terribili spauracchi dei ricchi; miseri fanciulli emaciati e smunti e pallide creature senescenti, con gli stracci che svolazzano al vento invernale, sembra non cerchino altro se non di cacciarsi sempre, come spiacevoli intrusi, nella tranquillità elegante della gente agiata per turbarne il riposo con seccanti richieste. Un ecclesiastico, che ha pubblicato le sue lamentele in proposito, poco tempo fa, ha espresso in modo molto toccante le sue angustie, per il fatto che non riusciva mai a fare in pace la sua colazione, per l'invadenza insopportabile dei mendicanti di strada, che lo

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disturbavano continuamente, chiedendogli insistentemente qualcosa da mangiare. Probabilmente questi mendicanti non conoscevano la sua professione, altrimenti si sarebbero tenuti lontani. Personalmente non credo affatto che un uomo, una donna, o un bambino abbia mai chiesto l'elemosina se non spinto dal puro bisogno di avere qualcosa da mangiare. È invece un'opinione piuttosto prevalente tra le persone di agia-ta condizione, che i mendicanti vadano in giro per puro divertimento e capriccio, spinti quasi dal gusto perverso di dar noia alla gente per bene, ostentando tra le braccia mocciosi che piangono, o presentandosi con le membra rinsecchite e cadenti, al solo scopo di disturbare con il loro aspetto sgradevole le classi superiori, e di sollecitare a tutti i costi la loro compassione. Un giorno, la scorsa settimana, abbiamo visto un grasso avvocato, la cui rispettabile persona era confortevolmente avvolta in un bel cappotto di stoffa azzurra, con ampi risvolti di velluto, che se la prendeva piuttosto duramente con un ragazzino, con alcuni almanacchi in mano, che se ne stava a piedi nudi, tremando di freddo, sul ghiaccio che incrostava il marciapiedi. « Guardate questo piccolo mascalzone - disse il signor legale - se ne va in giro senza scarpe e senza calze, al solo scopo di indurre la gente a comprare i suoi almanacchi, speculando sui loro sentimenti umanitari ». Il colpevole era un bel ragazzo di circa dieci anni, con una abbondante e lucente capigliatura, e con un'aria intelligente ed educata, da cui si poteva dedurre che lui o i suoi genitori avevano conosciuto tempi migliori. Aveva i piedi del colore del mogano, come se fossero gonfiati dal gelo; e indossava un vestito piuttosto succinto, ma nonostante ciò aveva un aspetto molto sano. In realtà di rado ho visto un ragazzo più carino. Nonostante i suoi stracci, e la sua condizione di miseria, aveva un aspetto di felice innocenza, non dubito che John Jacob Astor, il famoso miliardario, avrebbe volentieri fatto a cambio con lui, e avrebbe dato via i suoi venti miliardi pur di avere le sue floride guance, i suoi occhi lucenti, e persino i suoi piedi gelati. « È vero - chiesi, rivolgendomi al ragazzino - che vai in giro a piedi nudi per indurre la gente a comprare i tuoi almanacchi? ». Il ragazzo arrossì a questa domanda, e guardò i miei stivali; al che io non potei fare a meno a mia volta di arrossire. « A dire il vero, io sarei ben lieto di portare delle scarpe, se le potessi avere - egli disse - ma è più di un mese che non ne ho. Forse il signore allude a qualche altro ragazzo, non a me ». « No, sei tu il bricconcello » proseguì implacabile l'avvocato. « C'è un ragazzo che vive con mia madre, potrebbe essere lui » continuò il giovincello. « Tua madre tiene a casa dei pensionati? » domandai io. « Tiene in casa questo ragazzino, perché è orfano di madre, e quando guadagna uno scellino vendendo almanacchi, glielo dà. Volete comprare uno dei miei almanacchi? ». « Non vi fidate di lui - disse l'avvocato - è un imbroglione ».

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« Spero davvero che lo sia - risposi - c'è del buono in un ragazzo che sopporta le intemperie e le umiliazioni come fa lui, al solo scopo di guadagnare due o tre centesimi dalla vendita di un almanacco. Guardate un momento al lato opposto della strada, e osservate quel negro snello, con un cappello a tricorno, e un soprabito guarnito di merletti, all'entrata di quel bazaar. Per quale ragione pensate che si sia abbigliato in quel modo? Non è per attirare i clienti nel negozio del suo padrone? E guardate un po' più in là, quegli immensi pannelli di cristallo nella vetrina del cappellaio, che cosa pensate che ci stiano a fare? Solo per far passare la luce, o non piuttosto per indurre i clienti ad entrare? E a quale scopo voi portate quel pacco di carte, legate con un nastro, sotto il braccio, se non per guadagnare dei clienti, facendo credere a tutti che ne avete a bizzeffe, dato che sapete bene che il mondo tende ad aiutare proprio chi gode di una maggior prosperità? E voi avete il coraggio di criticare questo ragazzino, che si industria a praticare le sole arti che può, per attirare clienti, togliendosi le scarpe e le calze, in un mattino freddo come questo? ». « Bene, c'è qualcosa di vero in quello che dite, dopo tutto credo che comprerò un almanacco, perché in realtà me ne serve uno; ma non voglio incoraggiare la mascalzonaggine » disse l'avvocato. « È possibile » pensai io « visto che ci vivete sopra ».

Episodi di vita di college: il contestatore contestato

L'entrata di un nuovo alunno nella classe di un college è sempre una vivace fonte di speculazione e congetture fra gli altri studenti. Ognuno vuole sapere di dove viene il nuovo alunno, chi sono i suoi amici, in quale circolo di società finirà per entrare, e cerca di raccogliere ogni informazione possibile sulle sue abitudini e sul suo carattere, da coloro che hanno sentito parlare di lui o dei suoi parenti. Era un giorno della sessione di primavera del nostro secondo anno di università, quando si seppe che un tale della cittadina A... del Sud Carolina, di nome Burtram, era stato ammesso nella nostra classe, e come al solito si manifestò subito una gran curiosità di vederlo e di sapere che tipo fosse. La prima apparizione del nuovo venuto avvenne nel corso delle preghiere in cappella. La prima impressione fu tale da predisporre gli animi in suo favore, tanto che gli assicurò subito un caloroso benvenuto: e coloro che pretendevano di saperla più lunga degli altri in proposito, non esitarono a esprimere pubblicamente sul suo conto la loro opinione entusiasta, come se ne sapessero morte e miracoli; cominciarono a sussurrare su di lui le cose più brillanti e a parlarne in termini quasi di incondizionata ammirazione. Altri alunni, tuttavia, oltre a non mostrare un particolare interesse a stringere subito conoscenza con il nuovo compagno di classe, credettero di individuare invece in lui una specie di doppiezza e insincerità, in base al suo stesso aspetto. Tuttavia gli studenti che diffidavano di Burtram non erano così sicuri della esattezza della loro opinione da esprimerla

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apertamente, e preferivano aspettare che il suo carattere si rivelasse attraverso le sue azioni, prima di pronunciare un giudizio su di lui. Il tempo passava, e Burtram a un certo punto non si poteva più considerare un estraneo, in quanto ormai era diventato uno di noi, e anche il fatto che fosse entrato nella nostra classe di recente venne dimenticato. In realtà, Burtram in breve divenne estremamente popolare tra noi; in quanto dimostrò di essere un uomo di maniere accattivanti e di principi liberali, ingegnoso nei suoi progetti, e in possesso di una notevole conoscenza della natura umana. Sembrava esser dotato di una specie di fiuto particolare, o addirittura di una seconda vista, che gli permetteva di prevedere l'aspetto di ogni questione che riscuoteva maggiore popolarità e in questo caso era sempre tra i primi a sostenerla a spada tratta, per guadagnarsi il favore dei compagni. Per ragioni che qui non è il caso di specificare, il nostro professore di latino a un certo punto divenne piuttosto impopolare con gran parte della classe. Uno dei modi in cui si manifestava tale avversione della scolaresca verso di lui era questo: nel momento in cui terminava l'ora dedicata alla lezione, in base agli orari stabiliti dagli stessi studenti, si verificava un indescrivibile pestare di piedi, che si accresceva fino al punto da rendere decisamente sgradevole qualsiasi tentativo di proseguire la lezione stessa, nel caso in cui, per mancanza di tempo, qualche passo della lettura prevista non era stato ancora letto. Il baccano degli studenti contestatori continuava, con grande disagio di altri alunni della classe, che ci tenevano di più ad acquisire una maggior conoscenza del latino che non a tormentare il professore, mostrando in modo così villano quella irritazione che provavano nei suoi confronti, mentre gli altri invece credevano di avere il diritto di indulgere, alla più sfrenata gazzarra, senza tener conto dei loro compagni più seri, anche se non avevano il coraggio di manifestarlo in modo aperto e virile. Come si poteva supporre, Burtram, seguendo l'andazzo della maggioranza, era spietato nei confronti del professore, che era caduto in disgrazia presso la scolaresca; e nessuno come lui, parlando con i suoi compagni, per guadagnare la loro simpatia, ostentava un atteggiamento più contestatorio di sfida, né usava epiteti più denigratori quando parlava di lui. Si mormorava però d'altro canto, che quando si trovava davanti al professore stesso, nessun altro studente si mostrava più sincero ed amichevole di Burtram verso di lui, né recitava la parte dell'ipocrita con maggiore successo. Burtram teneva i piedi assolutamente fermi quando il professore sembrava albergare il minimo sospetto nei suoi riguardi, se gli altri facevano rumore; ma quando era sicuro di esser bene nascosto alla sua vista, martellava a tutto spiano i piedi sul pavimento con un'energia degna di miglior causa. Il mio amico Cheever, che stava seduto di banco direttamente alle spalle di Burtram, non si sentiva tanto disturbato dal suo rumore, quanto disgustato dalla sua doppiezza; e alla fine fu così esasperato dall'indegno comportamento dei suoi compagni, che mi confessò la sua ferma decisione (nel caso in cui lui fosse stato chiamato a recitare il brano di latino, e fosse stato interrotto nel corso della recitazione dalla gazzarra della scolaresca) di denunciare il primo compagno, che vedesse comportarsi in modo

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incivile, contro le regole della buona creanza. Sapeva bene che agendo così avrebbe attirato su di sé la decisa antipatia di quella parte della classe, che aveva in uggia il professore; ma non ammetteva il diritto dei suoi compagni di privarlo dei vantaggi che poteva derivare dalla recita del brano latino, solo perché la lezione si protraeva per qualche minuto in più rispetto all'ora stabilita, che del resto spesso veniva abbreviata nella sua durata effettiva dalla loro impazienza. Cheever era un ragazzo tranquillo, che non si dava affatto arie, ed era così entusiasta dello studio, che eccelleva in tutte le materie; ma nessuno avrebbe mai supposto che fosse capace di agire con tanta decisione nel reagire a un'offesa che gli era stata fatta. Fu proprio nella prossima recita del brano latino che venne chiamato a leggere l'ultimo passo della lezione, ma prima che fosse stato in grado di portare a termine la recitazione del brano di latino cominciò la solita confusione indiavolata. Cheever sopportò per un po', alzando la voce man mano che il rumore aumentava per farsi sentire: ma a un tratto, fissando gli occhi sul compagno più vicino, che si dava da fare nel battere i piedi col solito zelo mal riposto, esclamò spazientito: « Burtram, smettila di far rumore, o lo dirò al professore! ». In un attimo si fece un silenzio di tomba. Tutti rimasero esterrefatti a questa improvvisa esclamazione di Cheever, dato che veniva da una fonte così inaspettata. Nel frattempo Cheever poté completare la recita del brano a suo agio. Non solo: ma, dopo questo suo brusco intervento, almeno per un po' di tempo, nessuno degli alunni chiamati a recitare venne più disturbato dalla solita gazzarra. Come era facile prevedere, Burtram definì il gesto di Cheever un basso insulto verso tutta la classe, e verso se stesso in particolare; e giurò di vendicarsi. Sorvoliamo adesso la storia per più di un anno, durante il quale le cose procedettero più o meno come al solito. L'episodio che abbiamo descritto era stato dimenticato, come spesso succede nel college, dove cose del genere sono oggetto di commento solo per qualche giorno, e quindi lasciano il posto a qualche altra materia di interesse, magari di natura completamente diversa. Nel frattempo Burtram non riuscì a trovare nessun pretesto per attaccar briga con Cheever, che continuò a mantenere la calma e a studiare con diligente applicazione, facendosi ogni giorno degli amici man mano che frequentava la compagnia degli altri studenti. Tuttavia, dato l'evolversi evidente della situazione, non c'erano molte possibilità che Cheever riscuotesse i favori di Burtram, perché adesso egli appariva ai suoi occhi come un diretto rivale. Per Burtram, vedere uno del carattere e delle abitudini di Cheever levarsi al di sopra di lui era più di quello a cui era disposto a sottomettersi. A un certo punto si verificò per un po' di tempo un gran rumore in ore insolite, in una stanza del college che si trovava direttamente sopra quella di Cheever, e la cosa non mancò di provocare un notevole disturbo sia a lui che ai suoi compagni vicini. Cheever sopportò, finché a un certo punto perse la pazienza, perché era la vittima principale di questi rumori, e affrontò di petto gli studenti malintenzionati che disturbavano la sua tranquillità. Avendo scoperto che Burtram era l'istigatore di quella gazzarra, gli chiese esplicitamente di smetterla: e per l'occasione, lo

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invitò anche a cessare di boicottare i suoi studi, facendo il diavolo a quattro durante la lezione di latino. Pur dichiarandosi spiacente di dovergli fare una richiesta del genere, lo avvertì che si riteneva obbligato ad agire così, per il rispetto che a suo parere era dovuto a uno come lui, che aveva serie intenzioni di studiare. La sua richiesta non fu degnata di nessuna attenzione, per quanto fosse stata fatta con cortesia, secondo le regole di un vero gentiluomo; e l'offesa, che oltretutto rappresentava una diretta violazione delle leggi del college, continuò più frequente che mai. Cheever alla fine non ne poté più e dopo aver perduto diverse ore di studio per colpa di queste azioni di disturbo, fermò una sera i più discoli dei suoi compagni, avvertendoli a chiare note che, se non avessero smesso di disturbare la lezione e di fare chiasso la notte, non avrebbe esitato a denunciarli alle autorità del collegio, appena si fosse verificata un'altra occasione del genere, in quanto non era affatto disposto a sciupare il suo tempo e il suo denaro per il divertimento degli altri, specie quando questo divertimento arrivava a delle forme così irragionevoli e assurde. Cheever, sfidando l'impopolarità della classe, preferì dichiarare con chiarezza la propria intenzione di denunciare i responsabili delle gazzarre, perché poi non si potesse dire che aveva fatto la spia di nascosto, se la situazione si fosse messa in modo tale, che fosse stato davvero obbligato a denunciare i suoi compagni. Non passò molto tempo che una notte scura e tempestosa, dopo che tutto era rimasto tranquillo per un certo periodo, ricominciò il solito rumore sopra la sua stanza, con discorsi a voce alta, canti, risate sguaiate, e tutti gli accompagnamenti di un tipico «tafferuglio di college ». Cheever si sentì abbastanza provocato da questo pandemonio per mettere in atto la denuncia che aveva minacciato di fare, e che decise di fare senz'altro. Gettandosi addosso il mantello, lasciò in silenzio l'edificio, e si fece strada nell'oscurità verso lo studio di un rappresentante del college, dichiarandogli francamente che si richiedeva la sua presenza al N° .... - della Hall - per riportare l'ordine. Ritornò così presto nella sua stanza, che la sua assenza non fu notata da nessuno, eccetto gli studenti a cui era debitamente assegnata, quando il funzionario arrivò, perché gli altri se l'erano svignata rapidamente, appena avevano sentito i suoi passi nel corridoio. Il mattino dopo Cheever fu mandato a chiamare dal prof. H., che gli chiese di favorire nel suo studio. Essendo già al corrente della faccenda, Cheever decise di cogliere quell'occasione per scoprire ciò che il professore sapeva effettivamente sulla questione, prima che gli fosse rivolta qualsiasi domanda. E quando arrivò al dunque, appurò da un'osservazione casuale sfuggitagli nel corso della conversazione, che il professore sapeva già i nomi dei responsabili della gazzarra: non solo, ma non senza suo grande stupore, venne a sapere che Burtram aveva fatto volontariamente la spia di tutto, facendo nomi e cognomi dei compagni responsabili. Fu abbastanza! Cheever disse al professore di essere in possesso di più informazioni di quante non ne avesse comunicate, e gli fu permesso di ritirarsi. Cheever si accorse che, dal momento in cui aveva comunicato pubblicamente la sua decisione di denunciare i responsabili, e di farlo apertamente, Burtram, per

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salvaguardare se stesso e per soddisfare un desiderio di vendetta a lungo agognata, aveva denunciato per conto suo tutta la storia dei tafferugli che riguardava i suoi compagni, confidando nel fatto che non sarebbe mai stato fatto il suo nome come spia, e che sarebbe stato facilissimo gettare poi la colpa della denuncia su Cheever, ac-cusandolo di fronte ai compagni di aver compiuto un gesto così meschino e codardo. Intanto Cheever, che adesso aveva la chiave di tutta la faccenda, decise, dato che era arrivato fino a quel punto, di mantenere il segreto sul doppio gioco di Burtram, finché non fosse obbligato a rivelarlo. Dopo l'intervento di Burtram presso le autorità, gli studenti incriminati vennero temporaneamente sospesi dal college e ciò non mancò di fare naturalmente una grande impressione. Gli studenti sospesi avevano molti amici tra i compagni di classe e sorse quindi subito una vivace controversia, perché parecchi si chiesero se essi avessero agito veramente in modo da giustificare una punizione tanto severa. Ci fu persino chi insinuò che le accuse fatte a loro carico non avessero un vero fondamento, e fossero solo il risultato di false informazioni, fornite da qualche male intenzionato alle autorità del College. Tra i difensori più accesi degli studenti incriminati c'era Burtram, che non mancò, d'accordo con altri, di far circolare subdolamente il nome di Cheever, insinuando che fosse il responsabile di tutto il guaio che era successo, e cercando di provare la sua accusa con ogni circostanza che potesse favorire il sospetto. Grazie a queste manovre, Burtram e i suoi amici riuscirono a dimostrare la relativa innocenza degli studenti che erano stati sospesi, e al tempo stesso a mettere in risalto la perfidia di chi aveva denunciato la loro lieve infrazione in modo tale da provocare un provvedimento punitivo sostanzialmente ingiusto contro di loro. In conclusione, veniva gettata la responsabilità di tutta la faccenda sulle spalle di Cheever, tanto che si diffuse l'opinione generale che egli si era comportato da vero mascalzone. Non c'è via di mezzo, negli episodi che eccitano l'interesse degli studenti di un college; essi si svolgono come una tempesta selvaggia, anche se poi generalmente finiscono subito. Gli amici di Cheever non sapevano che cosa dire, e pensavano che a questo punto c'era ben poco da fare in sua difesa. Così forte era la « simpatia » per gli studenti sospesi, tra gli altri compagni di classe, che fu convocato un incontro collettivo, per stendere una petizione in favore degli alunni puniti alle autorità del College. Pronti all'appello, tutti gli alunni della classe erano presenti alla riunione, quasi fino all'ultimo uomo, anche se alcuni arrivarono un po' dopo. Cheever era tra questi. Io temetti per lui quando lo vidi entrare, perché molti lo guardavano con l'aria di imputargli amare accuse; ma egli era calmo e imperturbabile, come se nulla fosse successo. Burtram, che si faceva sempre avanti in queste faccende, parlò per primo. Egli formulò la difesa dei compagni sospesi con grande passione, mettendo nel debito risalto le circostanze attenuanti che dovevano essere sostenute nella petizione, e concluse dicendo: « I seminatori di zizzania sono ancora fra noi; ce ne sono alcuni del nostro stesso gruppo - speriamo che siano pochi, e ci aspettiamo che siano anche meno - i

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quali, con l'abietto calcolo di farsi belli di fronte ai professori, non solo hanno fatto la spia sugli innocenti passatempi dei nostri amici, ma l'hanno fatta in modo da dare una nozione falsa e esagerata della maniera stessa in cui si è verificata l'infrazione alle norme, se di infrazione si può parlare; e così hanno provocato questa ingiusta sentenza! Dico che c'è tra noi gente capace di questo, cioè di fare la spia, mi correggo, abbiamo tra di noi uno in particolare che è stato capace di fare una simile bassezza, e mi appello pertanto ai gentiluomini di questa classe per chiedere: come dobbiamo giudicare noi una persona simile? ». L'opinione comune della classe, basata sulle voci tendenziose che erano state messe in circolazione, e sulla sfrontata sicurezza con cui erano state mosse le calunniose imputazioni, fecero sì che tutti finirono per appuntare i sospetti su Cheever e per fissare gli occhi accusatori su di lui. Cheever si rese subito conto di essere il bersaglio della generale condanna, e si alzò per rispondere, tra i fischi semi-soffocati dei suoi nemici, mantenendo un'aria fredda e impassibile, come se fosse perfettamente sicuro della giustizia della sua causa. Riepilogò la storia di tutta la questione fin dall'inizio in modo piano e semplice, e aggiunse: « Se rivendicare il diritto di non essere disturbato nel mio tempo di studio, che è garantito dalle norme del college - se informare le autorità sulla violazione di questi diritti, dopo aver usato tutti gli altri mezzi in mio possesso per prevenire la loro infrazione, è sbagliato, allora mi riconosco colpevole; perché, sebbene io non abbia poi fatto la denuncia, in realtà avevo ferma intenzione di farla. Ma la verità è che la denuncia è stata invece fatta da un altro ». La rivelazione di Cheever suscitò grande agitazione, cogliendo tutti di sorpresa, e in particolare i suoi amici, a cui non ne aveva mai parlato prima. Burtram, che adesso veniva a trovarsi lui stesso sul banco degli imputati, divenne mortalmente pallido quando Cheever, gettando su di lui uno sguardo di fuoco, come se volesse incenerirlo, esclamò: « Brutta mascherina! Ti accuso della meschinità di essere la spia volontaria e non provocata delle infrazioni compiute dai tuoi stessi amici - infrazioni, del resto, di cui tu puoi dire veramente pars magna fui - e questo lo hai fatto per proteggere te stesso, in modo da sfuggire illeso alla frusta della giustizia. Ti accuso di aver tentato, finora, evidentemente con successo, di gettare addosso a me la colpa di cui ti sei macchiato, pensando che non saresti mai stato scoperto. Ti accuso di tutto questo - e lo faccio pubblicamente, senza timore - e adesso negalo, se puoi! ». Lo scoppio di un tuono a ciel sereno non sarebbe stato meno sorprendente di questa precisa denuncia. Noi ci guardammo l’un l'altro, e quindi guardammo Burtram, per vedere se avesse il coraggio di difendersi, ma egli restò con la bocca ermeticamente serrata. La verità l'aveva colto del tutto di sorpresa, e quando si vide smascherato, con le spalle al muro, la sua umiliazione fu completa e non ebbe nessuna possibilità di reagire.

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La riunione fu conclusa, ma da allora in poi Burtram non fu più in grado di guardare in faccia nessuno di noi e in pochi giorni il suo posto restò vuoto, perché se ne andò volontariamente dal College e non fu più considerato « uno di noi ».

Il vescovo e la sua governante

In una città della Francia meridionale, che adesso non nomineremo, viveva negli anni a cui risale il nostro racconto un vescovo - un gentile e amabile vecchio, severo verso se stesso e indulgente verso gli altri, così buono e caritatevole che ognuno lo amava. La sua casa, che era un modello di privacy e di ospitalità insieme, era tenuta da un'anziana governante, Madame Pichard. Nell'appartamento di un uomo solo infatti la suprema autorità è sempre esercitata da una donna. Madame Pichard era il prototipo della governante, e tutto filava in modo perfetto sotto la sua amministrazione. I guai però le venivano da un marito, vecchio rissoso e ubriacone, che finì per ammalarsi di idropisia a causa dei suoi eccessi nel bere. Pochi giorni dopo la morte del vecchio, il vescovo andò in casa della sua governante, per una visita di condoglianze. « Bene, cara signora », esordì il vescovo, « vengo a portarvi un po' di conforto nel vostro dolore. Non dovete affliggervi troppo. Noi siamo mortali, sapete, e prima o poi arriviamo alla fine della nostra peregrinazione terrena: quella di vostro marito ormai è finita - sarebbe stato meglio se egli non avesse speso poi tanto tempo nel bere, tuttavia la misericordia del cielo non ha confini ». « Eccellenza, ella mi dimostra pietà; ma non piangevo affatto mio marito. Non voglio ingannarla fino a questo punto ». Questa specie di elogio funebre trovò impreparato il vescovo, il quale non senza sorpresa rispose: « Temo che tutto questo non rientri in un modo cristiano di concepire la vita. Ma non aveva dell'affetto per suo marito? ». « Non mi faccia questa domanda. Non conosceva la storia del mio matrimonio? » « Deve dirmi tutto », disse il vescovo, con la curiosità tipica dell'età anziana. « Lei non sa proprio nulla del mio Augusto », proseguì la governante con un tono mesto. « Il suo Augusto? Augusto..., vuole dire Madame Pichard? La prego, si spieghi meglio ». « Sono nata a Boulogne, e già a quindici anni mi chiamavano la bella del villaggio, né potevo essere molto cambiata a diciotto anni... Mi scusi, signore - proseguì la vecchia, facendosi indietro con la sedia -, sto per raccontarle una storia d'amore, e finirei solo col provocare la sua noia ». « Prosegua - intimò il vescovo - noi ormai siamo vecchi, e possiamo parlare di queste sciocchezze senza correre alcun pericolo ».

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« Nel villaggio c'era un giovane, alto, ben formato, con gli occhi azzurri, con i capelli ricci e vaporosi; mi pare ancora oggi di vederlo; tutte le ragazze andavano pazze per lui; ma era proprio il tipo che i nostri genitori chiamavano uno scapestrato. Si chiamava Augusto, anche se per noi ragazze era « il bel Gussy ». Augusto scelse me tra tutte, e quando mio padre andava a Parigi, e mia madre era in giro nella regione, egli passava ore intere con me. Ma quando si diventa anziani, e si deve aver cura di una ragazza che cresce, ci si scaglia con furia immotivata contro i suoi amanti. Tuttavia furono quelli gli anni più felici della mia vita. Distinguo ancora oggi quel che allora vedevo coi miei occhi di ragazza. Ero fiera del mio Gussy, che era il bello del nostro villaggio. Come pronta risposta il ragazzo aveva lasciato le altre compagne per seguire solo me. Ma questo racconto suona davvero strano per lei, signor vescovo, non ho alcun dubbio. « Mio padre e mia madre non avrebbero mai acconsentito a farmi sposare un giovane scapestrato: gli proibirono espressamente di mettere piede nella nostra casa, per cui noi due eravamo costretti a vederci di nascosto. Augusto in tutte le ore del giorno mi aspettava, nei paraggi della casa, per vedermi solo un istante. Né potrei descrivere la felicità e l'orgoglio che provavo. « Un bel giorno mio padre era partito con un carico per la città. Da quindici giorni non vedevo Augusto. Uscii di casa per cercare d'incontrarlo per un momento. Lo vidi sulla strada maestra mentre mi veniva incontro. « Come potrei descriverle la felicità che si prova nell'incontrare il proprio amante, quando si hanno appena diciotto anni, dopo una separazione durata oltre quindici giorni? Potrebbe forse comprendere quell'attenzione, così tenera e forte. Dimenticavo mio padre, mia madre, tutto... « Ci rifugiammo sotto gli alberi lungo la strada, gli occhi negli occhi; così felici che non trovammo neppure un istante per parlare. Un carro avanzò. Era proprio il veicolo di mio padre. Egli ci vide, saltò fuori, e cominciò a battermi, perché avevo incontrato Augusto contravvenendo ai suoi ordini. Sono certa che se mio padre avesse percosso Augusto, il ragazzo non avrebbe opposto resistenza. Ma il povero giovane non poteva sopportare che io soffrissi. Augusto quindi con un balzo si scagliò contro mio padre: si batterono quasi con disperazione. Nella frenesia della colluttazione mio padre afferrò una pietra e la spaccò sulla testa di Augusto; a sua volta il ragazzo assestò a mio padre un colpo tale ch'egli cadde a terra privo di sensi. « "Corri, corri, Augusto!" dissi, "se la polizia ti prende, sei perduto! ". Il ragazzo mi obbedì, si dileguò, e da allora non l'ho veduto più. Mio padre si riprese subito, e mi percosse a sangue. Decise di darmi in moglie, e trovò facilmente un uomo che mi prendesse, anche senza affetto, in cambio però di una buona dote. Stanca di essere battuta da mio padre dalla mattina alla sera, optai per il matrimonio col nome di Madame Pichard. Ma non ho mai amato mio marito: egli sapeva che mio padre aveva l'abitudine di percuotermi, per cui si sentiva in diritto di seguirne l'esempio. Vagammo per tutte le regioni della Francia, in grande miseria e in concreto bisognosi di tutto, finché lei non mi ha offerto un appoggio ».

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« E che cosa è accaduto al bel Gussy? » « Il giovane era sicuro di aver ucciso mio padre. Abbandonò subito il paese. Era un ragazzo che aveva del coraggio. Senz'altro si sarà arruolato; forse oggi è un colonnello, un generale, oppure il titolare di una contea, chissà? A meno che non sia stato ucciso in battaglia. Ma non posso credere che sia morto. Per oltre quarant’anni l'ho cercato senza sosta. Attendo ogni istante ch'egli bussi alla mia porta, per guardarlo ancora mentre mi viene incontro, con la sua andatura piacevole, il suo sguardo mite acceso d'azzurro, i capelli ondulati... ». « Così, signora, il vostro caro Gussy avrebbe oggi più o meno l'età che aveva allora? ». « Sì, immagino ». « Ma questa è follia. Il suo Augusto ormai è cresciuto, è diventato vecchio, come accade a tutti gli altri uomini. La sua faccia è devastata dalle rughe, la sua testa priva di capelli, la sua stessa figura è curva. Il tempo ha cancellato ogni cosa. Se lo vedeste adesso, non lo riconoscereste ». « È impossibile! Non posso credere che sia cambiato. Lo riconoscerei ancora tra mille. Lo scorgerei anche tra i soldati di un esercito. Scommetterei la vita che lo riconoscerei all'istante ». « È un grave errore, signora! Lei si lascia trascinare dalla fantasia su un giovane di vent'anni, semmai dovrebbe pensare a un uomo di sessantacinque; e lo stesso Augusto, se la vedesse, stenterebbe a riconoscerla. Vorrei provare questa mia affermazione, dimostrandole che avete vissuto ambedue per mesi interi nella mia casa, senza dimostrare affatto di riconoscervi l'un l'altro ». « Che cosa dice? Che cosa intende dire, signore? », chiese la donna con un'espressione d'ansia. « Margaret, debbo deluderti - Sono io Augusto ». Madame Pichard saltò dalla sedia. Gli prese le mani. Stentava a credere. « Ma come, signore, lei è il bel Gussy? ». « Certo ». « Il bel giovane del mio paese? ». « Sì, Margaret, ma quarantacinque anni fa ». « Proprio con lei andavo felice nel giardino? ». « Con me, Margaret ». « E mio padre colpì con una pietra, appunto lei - voglio dire mio Augusto - ma no, vostra eccellenza...? ». Il vescovo si tolse il copricapo, e mostrò una cicatrice assai visibile sulla testa calva. « Posso riassumere la storia in poche parole. Temendo di aver ucciso suo padre, raggiunsi la frontiera con l'idea di chiudermi in un convento. Dei buoni padri mi hanno dato un'educazione. Provai a tornare in Francia deciso a sposarla. Ma informato del suo matrimonio mi sono rifugiato negli ordini sacri. Ho abbandonato gli scopi futili della mia giovinezza, e mi sono dedicato allo studio e alla preghiera. Sono tornato in

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Francia, ho predicato per trent'anni, e alla fine sono stato chiamato alla carica che occupo tutt'ora. « Lei deve stare con me, Margaret; noi siamo anziani, e così cambiati, al momento attuale, che il ricordo o il fantasma del passato non rappresenta per entrambi un pericolo. Vede bene come la sua fantasia era alimentata come da una pura illusione. L'oggetto del suo primo amore adolescenziale era davanti ai suoi occhi, e lei mostrava di non conoscerlo, come anche lui non accennava a riconoscerla. Niente dura, a questo mondo, tutto è apparenza, tutto è angustia dello spirito ». Madame Pichard continuò a sembrare inappuntabile come governante. Tutti le portavano rispetto, ma la credevano demente, perché la sentivano spesso mormorare, lontana da tutti, chiusa in se stessa: « Caro! lei è il bel Gussy - caro!, caro! ».

3. Miscellanea

Il logorio della letteratura

Gentile lettore (intendendo per gentile qualunque cosa faccia piacere, ma comunque non « docile »), a cosa possono servire le prefazioni apologetiche? Non servono forse ad altro, se non ad orientare una particolare attenzione sulla parte terminale delle parole, spesso col solo risultato di esasperare il critico a crocifiggere l'autore? Non c'è dubbio in proposito. Vorremmo dire prima qualcosa sulla banalità degli argomenti letterari in quanto tali e poi entreremo subito nel bel mezzo dell'argomento. « Trito »: l'espressione deriva dal latino Tero, terere, trivi, tritum; che significa: « battere, piantare con il martello ecc. », o talvolta, nel nostro significato più moderno corrisponde all'accezione di « consumare ». Queste definizioni sono abbastanza esatte. Tutte le cose oggi soffrono di consunzione. Tutti gli usi di questo mondo sono logori e consunti (e di conseguenza il mondo stesso è diventato frusto) durante il pellegrinaggio terrestre di Amleto. Ma, strano a dirsi, la questione sembra sia stata risolta, anziché accettando questa saturazione, proseguendo all'infinito il logorio stesso delle cose (come sostengono i difensori del Sistema). Perciò questi usi, per quanto ripetuti a sazietà, triti e ritriti come sono, vengono riciclati nelle nostre attuali rappresentazioni teatrali, nel corso di quel pellegrinaggio terrestre di Amleto di cui parlavamo, specie per ciò che riguarda quel periodo di tempo in cui siamo costretti ad immaginare sulla scena sua madre che va a distendersi sulle lenzuola incestuose del re usurpatore suo amante; mentre l'illustre progenitore del Principe di

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Danimarca si esibisce nelle sue fantomatiche apparizioni infernali sotto il palcoscenico, borbottando qualcosa. In quella epoca remota gli uomini erano stanchi, vecchi, prostrati, e specie sotto l'aspetto pecuniario, ma anche sotto altri riguardi, avrebbero potuto essere classificati in modo appropriato, insieme agli avvocati e agli « uomini di tre lettere », tra gli individui « improduttivi » di cui parla Adamo Smith nel suo saggio sulla « Ricchezza delle Nazioni ». (Per quanto poi riguarda la Genesi, ci si può chiedere quale ragionevole obiezione si potrebbe sollevare contro l'ipotesi che, dato che il nome proprio di questo Smith era Adamo, così, di converso, il cognome di Adamo era probabilmente Smith?) La teoria sembrerebbe apparentemente nuova, e non possiamo permetterci il lusso, oggi, di disapprovare nulla che sia apparentemente nuovo od originale, anche se appare un tantino ridicolo. Così sembra che Macbeth abbia pensato, quando tutte le ambizioni della sua vita crollarono tra le maledette foglie del bosco in movimento: infatti nel corso dei suoi progressi e delle sue alterne fortune, si può notare, in modo estremamente distinto, secondo Schlegel, la presenza stessa del Fato, che tesse la sua oscura tela nel cuore del Tempo. Seneca dice da qualche parte che un uomo potrebbe quasi guardare la morte con indifferenza, data la monotonia delle umane cose - il fatto cioè che ognuno di noi sia costretto, nel corso dell'esistenza, a vedere e sentire e sperimentare e provare, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, lo stesso noioso, invariabile corso di eventi. Oggi noi vediamo le stesse cose che hanno visto i nostri padri, e i nostri figli vedranno le stesse cose che abbiamo visto noi, ecc. ecc. E quando alla fine arriveremo a citare la massima autorità per affermare che « non c'è nulla di nuovo sotto il sole » (« sotto il sole » in questo caso non vuole essere affatto un termine limitativo o contrattile, ma un'espressione piena di precisione e di forza, e quindi applicabile anche alla luna), avremo rafforzato decisamente la nostra posizione filosofica, a tal punto, che se ci capita di incontrare qualcuno che ci fa qualche cavillosa obiezione, quando si enuncia questo concetto in dettaglio, possiamo far macchina indietro e proporgli, con un sillogismo che non fa una grinza, la medesima sfida in questi termini: « Tutte le cose sono logore »; gli argomenti letterari (se volete) sono cose; ergo, & c. la conclusione è irrefutabile: gli argomenti letterari sono tutti logori senza rimedio. Bene, abbiamo assodato così che gli argomenti letterari sono in uno stato logoro e consunto. Abbiamo libri e documenti a iosa su ogni tema possibile ed immaginabile; dall'universo eterno fino all'Atomo di Smollet e alla Monade di Leibnitz; dall'alte vette dell'Olimpo fino alla volgare segatura, usata come prodotto commestibile. In letteratura abbiamo tutto, non ci manca niente, compresi i mendicanti, i pazzi, i vecchi carri ed i fiori, che abbondano nella poesia di Wordsworth; dall'Oceano rombante di Ossian fino alle fontane del Parco con le loro divinità tutelari, alla « lacrima di gratitudine », sempre del povero Wordsworth; da tutte le antiche generazioni degli Dei fino alle Amadriadi ed ai denti cariati, che sono stati messi in rima - preclaro esempio dell'efficacia del Bathos! - da un certo autore di oggi in vena di originalità ad ogni costo, da padre Saturno fino a padre

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Enea suo diretto discendente, e dal « più vecchio abitante » della Terra, fino ai lontani pronipoti dei « milioni di ancora non nati ». Ed anche gli scrittori, su tutti questi argomenti consunti, che ibrida congrega non formano mai! Mettendo insieme quelli che appartengono alle classi più disparate, l'elenco si estende da Re Salomone fino a Giacomo detto « Ikon basiliske » e da «Salomone secondo », alle ragazze operaie di oggi e ai fabbri ferrai non privi di istruzione descritti da Lowell. Né è improbabile che uno di questi fabbri ferrai, combinando gli attributi, non insoliti dell'epoca classica, di un dottore peripatetico, a conoscenza di una trentina o una quarantina di lingue, con quelli più moderni di fabbricanti di pale, zappe e simili oggetti ferruginosi, con molta probabilità sarebbe in grado di risolvere i problemi, che hanno dato filo da torcere a Duns Scoto e a Tommaso d'Aquino, il suo santo patrono, con la stessa facilità con cui Marte fece uscire Minerva dal cranio di Giove - con il maglio (o l'ascia, a seconda dei casi). Ma lasciamo andare queste quisquilie e passiamo agli autori del presente. Non esistono eroi, o campioni notevoli di umanità, dei tempi antichi e moderni, i cui nomi e le cui qualità non siano stati usati per formare nuclei di storie iterative e prolisse o cavar fuori una sfilza di diecimila versi. Eschilo cercò di fare una variazione sul tema, ma non riuscì a migliorare il classico personaggio dell'eroe; Euripide, che aveva un debole per gli stracci, portò poi questo eroe classico al suo estremo logorio. A un certo punto i poeti evocarono le Eumenidi, per evitare guai nel futuro grazie al terrore delle Furie. Il vecchio Mr. Prynne ha abusato degli eroi drammatici e del Dramma, almeno fino a quando il suo udito non era ancora definitivamente compromesso dalla sordità. Lord Clarendon, Ormond e alcuni altri, hanno finito per compromettere la fama di un « certo meccanico di nome Oliver Goldsmith », danneggiando la sua buona reputazione a forza di imitarlo, e pare che alla fine il poveretto sia stato « consumato » del tutto a Westminster, da una sorta di « Oblio » in forma di statua. Du Bose ha liquidato per sempre il « buon Duca » ed il Principe Eugenio, in una certa misura, e Southey in seguito gli ha dato una mano (informandoci al tempo stesso, se per caso non lo sapessimo, dell'indubbia innocenza dei bambini, e del fatto che certi teschi erano stati riesumati su un campo di battaglia) in alcuni versi su Peterkin, o altrove. A suo tempo, Cicerone distrusse effettivamente Catilina agli occhi dei posteri, in una famosa serie di orazioni, la maggior parte delle quali in realtà però non pronunciò mai; e certamente Sallustio da parte sua credette di aver liquidato Catilina per tutta la posterità, quando si preoccupò di informare i suoi lettori sul fatto, in sé notevolmente interessante, che il suo passo era talvolta rapido, altre volte lento. Giulio Cesare di Roma cominciò per primo a battere la gran cassa in suo favore nei suoi mendaci Com-mentari - un lavoro nel quale, da allora in poi, è stato sempre indefessamente assistito. E il suo remoto omonimo inglese, Sir Julius Caesar, Knt... Giudice ecc. d'Inghilterra, è stato a sua volta pompato sulle ali della fama non senza successo da suo nipote, un certo Mr. Lodge e da diversi altri filantropi suoi ammiratori.

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Sir Giulio Cesare - Cielo! che nome appropriato per riempire la tromba parlante della Fama futura! Il motivo del « personaggio » in generale nel campo letterario è stato usato e abusato fino alla nausea da scrittori come Bulwer, Bunyan & co., sia pure non senza qualche variante: Bulwer infatti ha descritto come sfondo del suo pellegrinaggio un fiume olandese, mentre Bunyan ha preferito collocare il suo viaggio simbolico in una strada diretta verso il cielo. Sant'Ambrogio esaurì definitivamente l'argomento delle Vergini in un formidabile trattato in tre volumi: ciononostante, da allora in poi, fino al giorno d'oggi, le Vergini hanno continuato a rappresentare un argomento preferito. Walter Scott, da buon quacquero batté sugli effetti pittoreschi del mondo militare in generale, suonando la grancassa del suo vecchio tamburo, in una ode intrisa del suo spirito di bardo. Cervantes, Hudibras, Butler e il cosiddetto Dr. Grande Sconosciuto trattarono fino al completo esaurimento il tema dei Cavalieri erranti e della Cavalleria, scandalizzando la suscettibilità dei Puritani che consideravano i Cavalieri come i loro peggiori nemici. Bloomfield il calzolaio usò il cuoio, di cui si era impegnato a rispettare i limiti, nello stesso modo piuttosto elastico con cui Didone ed i suoi sudditi poco scrupolosi si servirono della pelle di bue per delimitare i confini del territorio che gli era stato assegnato, cioè senza usare questa pelle nella sua interezza, ma tagliandola in lunghe strisce sottili e quindi appropriandosi di un vasto territorio. Così fece di tanto in tanto scorribande a suo piacere e cantò gli eroi dei Farmer Boys ed altri argomenti simili. E comunque (divagando dalla nostra schiera di eroi, la cui enumerazione completa risulterebbe interminabile) è certo che un illustre poeta come Bloomfield, insieme ai suoi predecessori Teocrito, Thompson, Virgilio, Pope (di cui è rimasta famosa la personificazione del Tamigi) e pochi altri meritevoli cultori della lira, ha ormai consumato letteralmente l'argomento paesaggio, natura, campagna, e simili, senza lasciare nulla in proposito che non sia di già detto e risaputo. Alberi e foglie e prati e boschetti e montagne ecc., sono diventati comuni ormai quanto il volgarissimo fango. Provarsi, quanto all'argomento, con la città, grosso modo, è la stessa cosa. Ad esempio, Omero ha trattato l'argomento Troia abbastanza bene e Virgilio ha ripreso e rielaborato lo stesso tema in un secondo tempo in modo definitivamente esauriente. Perciò la domanda piuttosto patetica che si pone l'irlandese Phillips, in uno dei suoi discorsi universali sulla condizione attuale del mondo, potrebbe ricevere risposte pronte e categoriche perché tutto è stato detto e ridetto in proposito. Gli esempi del genere potrebbero essere moltiplicati, ma sarebbe superfluo. Se c'è un altro argomento trito e ritrito è quello del Tempo, dall'epoca anti-diluviana fino agli effetti che ha avuto sulla Londra di oggi, come viene espressamente rilevato nel poema Trivia del Gay, e fino alle prospettive future, così come sono già state enunciate nei sonetti delle Riviste letterarie, ancora in embrione, che attendono ancora pazientemente l'avvento dell'estate prossima per venire allo scoperto, come le trappole a molla o le gloriose Guardie del Duca di Wellington, che stavano in agguato per sferrare l'attacco di

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sorpresa sulla cavalleria francese. E quanto alle Passioni - in modo particolare quella dell'Amore - sono state trattate in tutte le salse: ma basta, per il momento eviteremo di sfiorare questo argomento delicato. Ci sarebbe materiale sufficiente per un'altra Biblioteca Bodleiana. In breve, nel campo della Letteratura disponiamo di Saggi e Trattati e Storie e Poemi e Romanzi e diversi scritti di ogni genere in rima e in prosa su ogni tema possibile e immaginabile, e chi cerca il soffio dal clarinetto d'oro della Fama, in questo tardo giorno, deve rassegnarsi a rimanere tristemente deluso, quando riflette sui mezzi ancora disponibili per farle un'offerta adeguata ad attirare la sua attenzione. Quando lo scrittore di oggi arriva, in un accesso di disperazione, a scomporre pezzo per pezzo gli elementi delle opere già esistenti, e tenta la loro ricomposizione in una combinazione diversa, si accorge non senza stupore che altri si sono già impegnati precedentemente in questa stessa piacevole occupazione, per una lunga serie di anni; e che l'azienda commerciale della letteratura è stata gestita in modo tanto prospero (anche se in realtà si è badato più a scomporre che a ricomporre) che se la buona Madre Natura assumesse per un attimo la configurazione tanto generosamente attribuitale in alcuni libri dai suoi predecessori, essa diventerebbe in verità una massa eterogenea ed inconsistente - alla vista apparirebbe cioè in forma di Caos primordiale e all'udito si presenterebbe come un Pandemonio. Il nostro scrittore esordiente scoprirà che oggi le funzioni proprie dell'Immaginazione sono venute meno e potrebbero essere cancellate per sempre, come il giuramento di Zio Tobia. Egli potrà chiedere: che vantaggio c'è a possedere una facoltà che non serve più a nulla? E guardandosi intorno, troverà una analoga sterilità in ogni altro campo della conoscenza e dell'azione umana. Ma poniamo, per gioco, che il nostro sfortunato aspirante scrittore sia deciso a scrivere su qualcosa, malgrado il comune trattamento; che avendo dedicato lunghi, lunghi anni a coltivarsi intellettualmente, sia sollecitato, sia per orgoglio letterario che per la disperazione di ottenere successo in altri campi della vita, di cui non ha relativa conoscenza, a fare questo tentativo. Benissimo. Ammettiamo che allora scelga un argo-mento, dopo una infinità di fastidi, e lo inizi, non farà in tempo a cominciare che si renderà subito conto che non può trattarlo in modo nuovo né al principio né nel seguito. Poniamo il caso, se si tratta di un poeta, che cominci a scrivere un poema epico. Naturalmente, come prima cosa, desidera attaccare con un esordio originale: ma a questo punto si imbatte in una nota-chiave obbligata, con tutta una serie di variazioni che sono diventate monotone, tanto sono state reiterate fino alla nausea. C'è l'attacco di Omero, quello di Virgilio, quello del Tasso, quello di Milton - del vecchio Joel Barlow (che nome tragico!), ed infine di una schiera infinita di autori che hanno già trattato lo stesso argomento, dai quali egli può certamente scegliere qualcuno decisamente adatto alle sue effusioni liriche, come la Prefazione di Sallustio è adatta per chi voglia scrivere libri di storia e di saggistica. Dieci probabilità su una, il nostro Autore fallirà fin dall'inizio.

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Se il mangiatore di oppio, nonostante l'accresciuto acume delle sue facoltà intellettuali fornito dalla droga, si sente colpito da un senso di smarrimento e d'angoscia quando si trova in una grande biblioteca, pensando all'estrema futilità di qualsiasi tentativo rivolto ad acquisire la conoscenza della metà dei volumi che sono sistemati in innumerevoli scaffali attorno a lui, che cosa mai non proverà quando considerasse la remota possibilità di acquisire qualche distinzione diventando egli stesso scrittore? Alzando gli occhi in su, tra le file dei libri, ha visto i risultati del lavoro di innumerevoli menti, che, anche se non sono più vigorose, o più complete, o più poeticamente dotate della sua, indubbiamente sono state più tempestive, giacché lo hanno anticipato. Allora parla amaramente, compiangendo la sua situazione disperata, mentre in un'altra epoca non avrebbe probabilmente avuto ragione di lamentarsi. Avrebbe potuto condividere l'opinione di Voltaire, secondo il quale solo nelle prime fasi della società, quando una larga parte dell'umanità è sprofondata nell'ignoranza, i grandi intelletti si distinguono nettamente sugli altri. Così la quercia gigantesca, che innalza i suoi pesanti rami solitari sulla pianura, colpisce l'osservatore che ne resta ammirato; ma la stessa quercia, quando si trova in una grande foresta, circondata da altri alberi altrettanto possenti e maestosi (anche se non sono esattamente uguali ad essa per molti aspetti), difficilmente attirerebbe qualsiasi attenzione. Non che l'intelletto oggi sia in qualche modo limitato od impotente - ma il fatto è che non gode del privilegio di emergere in una solitaria grandezza. Non che la quercia in se stessa sia più piccola se si trova in mezzo a una foresta, ma diventa una pianta piuttosto comune, in paragone a tante altre di analoga statura. Lo scrittore di oggi, quando è venuto al mondo, lo ha trovato già pieno di grandi menti e di lingue fluenti e di penne veloci; e per far fronte a tutta questa concorrenza, è stato costretto per attingere l'originalità a ricorrere ad un estenuante lavoro che, se solo fosse stato intrapreso un paio di secoli prima, con uguali vantaggi, lo avrebbe reso famoso per sempre. È stato sfortunato - ma solo per un decreto capriccioso del Destino. Eppure, anche dopo aver tenuto debito conto del gran numero di concorrenti meritevoli, resterebbe sempre, al nostro aspirante scrittore, fra gli avversari contro cui lottare, una certa classe particolare che per quanto spregevole quanto al merito intrinseco non è affatto sprovvista di mezzi disponibili per mettere gli altri sotto i piedi - intendo dire quella gloriosa, eterna schiera di scribacchini - quella « massa di gentiluomini che scrivono con facilità » (senza dubbio per loro stessi) e di cui abbiamo fin troppa abbondanza, in questa nostra epoca di erudizione universale. Nessuno può essere così severo da mettere in dubbio che qualcuno dei membri di queste rispettabilissime falangi di pennaioli, arrivi a formulare una qualche idea originale; ma ogni cittadino onesto non può fare a meno di dubitare (o almeno dovrebbe farlo) se valga davvero la pena di diluire quella modesta idea originale in un volume in quarto di mille pagine annacquando nella mortale prolissità di volumi interminabili quello che potrebbe essere convenientemente, e molto più intelligibilmente, espresso in due o tre frasi brevi e concise.

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Se Cicerone ha detto la verità, quando parlava di un autore prolifico e voluminoso del suo tempo, che avrebbe potuto essere bruciato con tutti i suoi scritti, senza arrecare alcun danno, quanto alla produzione di alcuni di questi falsi letterati di oggi, quali magnifiche pire funerarie uscirebbero dall'incendio dell'opera omnia di questa gente e a quale perfetta combustione sarebbero ridotti loro e i parti della loro penna. Eppure questa gente insiste nel partorire le sue vomitevoli imbecillità, e partorirle con parti prematuri. Si dice del vecchio Abate Du Marolle che la sua grafomania era giunta a un tale parossismo, che dopo aver stampato tutti i suoi manoscritti, alla fine si ridusse a stampare i cataloghi degli amici e co., a proprie spese, e che fu portato alla più estrema rovina dai suoi inesorabili editori. C'è da augurarsi che alcuni esponenti di questa schiera di pennaioli siano spinti a questo eccesso, così almeno impazzirebbero e renderebbero « un servizio allo Stato ». Libri e carte sembrano appagare il loro urgente dovere di stampare, e libri e carte essi stampano: contribuiscono con zelo degno di miglior causa a consumare le cose, ognuno secondo le proprie capacità (sebbene ci sia da rallegrarsi che almeno un settore - quello della Letteratura classica - sia per sua stessa natura esente dalla contaminazione delle grinfie di queste arpie). E libri e carte sono libri e carte: e migliaia di persone bene intenzionate prestano attenzione a queste pubblicazioni indegne, per il solo fatto che, usurpando il posto dei libri migliori, questi libri di nessun valore vengono sbattuti loro in faccia. Kant ed i suoi seguaci, con un sistema intelligente e discriminante, sono riusciti a creare una specie di scuola esoterica. Anche se nelle loro dottrine non c'è nessun merito straordinario, almeno la difficoltà del loro linguaggio fa sì che, grazie all'oscurità dei concetti, non possono facilmente fuorviare un gran numero di persone. Se si dovesse ricorrere a qualcosa del genere, a qualche splendido sistema ideografico, se... Ma siamo andati fuori tema. Perciò, così come abbiamo cominciato, terminiamo: «tero, terere, trivi, tritum ».

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Gli obbiettivi del « Broadway Journal »

Perché un nuovo settimanale?

C'è un solo modo di venire al mondo, dice Jonathan Swift, sebbene ce ne siano molti per andarsene; e noi vorremmo che ci fosse solo un modo di apparire per la prima volta al pubblico con un giornale; onde evitare la possibilità di commettere un errore nel fare la prima nostra comparsa, vorremmo poter seguire la linea di precedenti sicuri e inoppugnabili. Ma poiché siamo lasciati alla nostra discrezione, e non abbiamo nessun amico gentile, che ci prenda per mano e ci presenti al nostro caro amico, il Pubblico, racconteremo la nostra storia il più brevemente possibile. Non è impossibile che qualcuno possa obiettare al titolo del nostro nuovo periodico, Broadway Journal, e che come il lettore di Milton in edizione economica, vedendo un titolo come Il Paradiso Perduto, esclami: « Ma che parola da mettere come titolo di una pagina! » Noi abbiamo scelto questo titolo, Broadway Journal, che si ispira a una strada di New York, per ragioni di originalità, perché è un nome tipicamente americano, e inoltre perché è indicativo dello spirito stesso con cui intendiamo caratterizzare la nostra rivista. È riconosciuto da tutti che Broadway è la strada più bella nella prima città del Nuovo Mondo. È la grande arteria attraverso la quale scorre il miglior sangue del nostro sistema. Tutta l'eleganza del nostro continente passa per questa strada. Se qualcuno mette su una bella carrozza con cavalli e servitori, la sua prima apparizione avviene in Broadway. I più eleganti negozi della città fiancheggiano i suoi lati; i più bei palazzi si trovano qui, e tutti gli ateliers di moda sfoggiano i loro primi modelli sui suoi marciapiedi. Sebbene Broadway abbia un carattere tutto suo, il viaggiatore, quando la percorre, spesso si dimentica di passeggiare in una strada di New York, e immagina di trovarsi a Londra o a Parigi. Wall Street riversa la sua ricchezza nel suo ampio canale, e tutti coloro che si occupano di attività intellettuali sono concentrati qui; ogni mostra d'arte si trova qui, e i più grandi caravanserragli del mondo approdano qui. Il pavimento di Broadway è stato battuto da ogni uomo d'una certa importanza che ha visitato questo continente; e coloro che passano di qui sono colpiti dalla vista di quelle che, osiamo dirlo, sono le più magnifiche fontane del mondo. Broadway ha anche un lato solare, ed è dove noi abbiamo aperto i nostri uffici di distribuzione. Broadway finisce alla fine nella piazza più bella della città, anzi di tutti gli Stati Uniti, mentre dall'altra parte sfocia nella Battery, la zona del porto, che non ha rivali, quanto alla bellezza della sua impressionante parata di flotta mercantile, in nessuna parte del mondo. Così almeno dicono i viaggiatori. Da parte nostra, abbiamo visto molte strade nel vecchio mondo e nel nuovo, ma nessuna che stia alla pari di Broadway. Come Parigi in Francia, e Londra in Inghilterra, così è Broadway, è New York per l'America: infatti

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New York sta diventando rapidamente, se già non lo è, l'America - a dispetto del Sud Carolina e di Boston. Abbiamo poche speranze di far sì che la nostra rivista occupi tra gli altri periodici il posto che Broadway ha tra le altre strade, ma faremo ciò che possiamo fare, per renderla degna del nome che le abbiamo dato. Ci rendiamo benissimo conto che dobbiamo fare i conti con una notevole quantità di giganti nella nostra impresa, e che dobbiamo affidarci più alle buone intenzioni che alle armi adatte per sopraffarli, ma non crediamo di peccare di presunzione se diciamo che deve essere un gigante davvero molto alto quello che alla fine riuscirà ad aver ragione della nostra perseveranza. Nell'impostazione della nostra rivista seguiremo il consiglio che Socrate dava ai suoi alunni, di « studiare la gente »: ma lo faremo piuttosto con l'obiettivo di essere utili ai nostri lettori, che non di trarne profitto noi stessi. Noi abbiamo il massimo rispetto per la gente, un rispetto temperato da una non indifferente quantità di amore. Ma d'altro canto condividiamo l'opinione di Falstaff: « Sia il portamento corretto, che quello trasandato, è il frutto di una specie di contagio, come quello delle malattie che la gente prende frequentandosi l'un l'altra; perciò bisogna stare attenti alle compagnie che coltiviamo ». Perciò preferiamo piuttosto parlare alla gente, anziché stare con loro. Con ciò non ci arroghiamo il compito del riformatore; anche se speriamo in qualche modo di correggere quegli abusi, di cui spesso si sente dire che esistono tra noi. L'agricoltore che non strappa mai un'erbaccia dal suo giardino, non potrà mai sperare che la gramigna e le altre piante parassitarie siano eliminate dalla sua proprietà. Cercheremo di fare, nell'ambito delle nostre forze, della nostra rivista qualcosa di interamente originale, e, invece delle fumose e estenuate elucubrazioni dei periodici inglesi, che finora sono stati il principale riempitivo delle nostre riviste, faremo di tutto per enucleare pensieri autentici, quali possono nascere tra noi in base alla nostra esperienza. E se le nostre colonne non avranno sempre un sapore spiccatamente domestico, se non saranno al cento per cento ispirate a temi e idee tipicamente americani, ciò avverrà solo perché « i nostri spiriti sono così strettamente legati da una inconscia partecipazione con la cultura della società cosiddetta straniera », che non possiamo operare un divorzio senza recidere le stesse radici storiche del nostro passato e pregiudicare le prospettive del nostro futuro. Poiché noi non abbiamo nessun legame d'interesse con i commercianti della letteratura e non abbiamo amici personali tra i gestori della produzione culturale corrente - eccetto un nome illustre o due, immortalato nel Pantheon di Griswold - non abbiamo nessun incentivo a indulgere nel vizio così comune del « soffietto » e della « sviolinata », ma siamo animati da sentimenti di tale simpatia verso quella categoria disgraziata, che va sotto il nome di « scrittori americani », presa nel suo complesso, che non troveremo mai nei nostri cuori una sola cattiva parola da pronunciare contro di loro, e li tratteremo comunque con il più onesto candore. Sebbene la nostra stampa quotidiana e settimanale contenga spesso ammirevoli critiche sulla letteratura e sull'arte, che riescono a sintetizzare in modo brillante e piacevole lo

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spirito di una rivista quadrimestrale nei limiti di mezza colonna, tuttavia queste critiche rappresentano piuttosto l'eccezione che la regola. Ed il pubblico, in molti casi, è costretto nel nostro Paese, data la scarsità di recensioni oneste ed attendibili, a comprare e leggere un libro a scatola chiusa, senza la possibilità di avere prima un'idea della sua qualità. Ci sono troppe buone cose che si possono avere col tempo e col danaro, per sciupare questi beni preziosi con prodotti librari di valore incerto. Sei centesimi spesi per avere un'onesta recensione di un libro spesso possono farci risparmiare un dollaro o un'ora spesa male. Dedicheremo una buona parte delle nostre colonne agli interessi dell'Arte americana; specie della Cultura e dell'Architettura; e daremo esempi dei progetti in corso in America in ambedue questi settori, quando siano di valore sufficiente da meritare di esser portati all'attenzione del pubblico. La Sala di Conferenza, il Concerto e il Teatro, saranno anch'essi argomento della nostra rivista; e sebbene noi non seguiamo la bandiera di nessun partito politico, tratteremo anche di politica, quando c'è qualcosa nell'aria, qualche argomento degno di attenzione particolare. Poiché la raffinatezza dei tempi moderni ha dato nascita alla letteratura delle donne, che, al di là di qualsiasi complimento al gentil sesso, viene spesso trascurata, noi faremo di tutto per adeguarci alla tendenza dei tempi, dedicando a questo argomento una rubrica intitolata Foglio delle Signore, dove faremo di tutto per adeguarci senza pregiudizi ai gusti e agli interessi femminili. Possiamo promettere a tutti, signore e signori, che non arrossiremo per falsa modestia, perché le persone modeste raramente si mettono in condizioni di trovarsi in imbarazzo; sono le persone sfacciate e male intenzionate, che spesso cambiano colore per la vergogna, quando vengono smascherate. La nostra penna ha due estremità, e se a volte non riusciamo a fare impressione con la punta, la rovesceremo e faremo il solletico con la piuma. Speriamo di ricevere l'aiuto della gente di animo onesto e sincero, nella nostra impresa, non solo come sottoscrittori, ma anche come collaboratori; ai primi daremo l'equivalente del loro danaro, agli altri, il giusto prezzo degli articoli. Dato che non abbiamo intenzione di usurpare le riserve di caccia di nessuno, speriamo che ci sia riservato il privilegio di seminare in pace i nostri denti del dragone; ma se veniamo attaccati, il nemico si può aspettare un esercito di frasi armate che cadranno come scudisciate ben assestate sui suoi fianchi o sul suo didietro, senza riguardo per nessuno. Ma come l'occhio può vedere tutto eccetto se stesso, il direttore di una rivista è portato a vedere i difetti di tutti, eccetto i suoi, e certo non litigheremo con gli amici sinceri, che onestamente ci faranno notare le nostre pecche.

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Regole di critica letteraria

Regola 1 - Per ciò che riguarda la prima pubblicazione di un autore

Sarà sempre la cosa più conveniente condannare un autore alla sua prima pubblicazione, senza darsi la briga di esaminare la sua produzione. Poiché tutto questo può essere fatto in termini molto concisi e mordaci, darà a un giovane critico praticante all'inizio del mestiere il modo di farsi la mano; e con ogni probabilità, il risultato sarà positivo. Dato che nessuno di solito legge il primo libro di un autore, che è stato condannato senza riserve, il critico otterrà credito di persona intelligente senza che nessuno sospetti che la sua condanna non è meritata. C'è poco rischio a seguire questa linea di condotta, perché gli autori sconosciuti sono generalmente la gente più oscura e di umili origini che si possa immaginare; e poiché non hanno amici che difendono le loro ragioni, saranno troppo intimiditi per osare di farlo essi stessi. Sarà anche, in genere, il modo più giusto di procedere con un giovane autore, sebbene la giustizia non sia una cosa di molta importanza in questo campo, dato che i primi tentativi di diventare scrittore, come i primi tentativi in qualsiasi altra cosa, generalmente sono im-maturi e male eseguiti. È un fatto storico ben noto, che Roma non fu costruita in un giorno e che ci vuole il suo tempo per diventare scrittore. Ma se dovesse risultare - che la vostra critica è stata ingiusta, e invece di schiacciare un piccolo genio, ne aveste fatto sorgere uno veramente grande, il mondo penserà bene di voi per aver stimolato con il vostro sano rigore talenti che altrimenti avrebbero potuto essere stati intorpiditi e spinti a riposare sugli allori dal canto di sirena dell'adulazione.

Regola 2 - Riguardo agli Editori

Se un libro è pubblicato da un giovane editore, la regola di cui sopra andrà applicata con una piccola modifica. Non ci si deve mai dimenticare che di un editore, una volta o l'altra, potreste avere bisogno; perciò sarà buona politica trattarlo con più considerazione di quanto fareste con un autore, a meno che non vi risulti da informazioni personali che si tratta di un editore privo di capitali e di amici potenti. Per ciò che riguarda un editore ricco e florido, non ci sembra necessario di dare alcun consiglio, perché non si può nemmeno immaginare che un critico sia così ignorante sui principi fondamentali della sua professione, da non rendersi conto dell'importanza di conciliare la buona volontà di coloro che si trovano in una posizione di potergli essere utili, sia mandandogli copie di opere di valore, sia pubblicando qualcosa di suo, se un giorno desidera diventare un autore egli stesso. Ma il critico non si deve sentire in

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obbligo di leggere nemmeno le pubblicazioni di una grossa e ricca casa editrice. Sarà sufficiente dire di un libro, che il nome dell'editore è una garanzia del suo merito, e che nessuna Biblioteca può considerarsi completa senza di esso - cose che voi potete fare senza preoccupazioni, perché le biblioteche si ridurrebbero a ben piccole dimensioni se non contenessero altro che libri buoni. Regola 3 - Quando un libro differisce da tutti gli altri che avete letto, e non avete nessun punto di riferimento a cui paragonarlo, non riuscite a formarvi un'opinione, ma nonostante ciò, siete deciso a pronunciare un giudizio Per il puro neofita questa può essere una situazione sconcertante, ma un critico con una certa esperienza. Le poche difficoltà come qualsiasi altro. Lasciate che lo spirito del libro in se stesso prenda cura di sé, o che sia oggetto d'attenzione di qualche mano più competente, e per parte vostra procedete ad enumerare gli errori verbali: ogni libro ne contiene abbastanza per farlo condannare, se dovesse essere giudicato solo in base ad essi. Sarà veramente un caso raro se non troverete una dozzina di proposizioni e anche più usate in modo poco corretto, o se non riuscirete a pizzicare una congiunzione a due piuttosto superflua. Quando avrete finito lo spoglio da questa svista grammaticale; ci saranno errori tipografici in abbondanza su cui appuntare l'attenzione; dopodiché se la vostra recensione è ancora difettosa per lunghezza o non è ancora abbastanza cattiva, avete la casta, il titolo, il tipo dei caratteri, il taglio del volume, la rilegatura e l'editore a cui fare ricorso. Ogni errore scoperto in un libro aiuta a ostacolare la sua vendita e risponde al fine precipuo della critica letteraria, che è quello di mettere il critico, e non l'autore recensito, in una posizione di vantaggio. Regola 4 - Quando un autore ci fa sentire il suo merito, ma vuoi per invidia, vuoi per antipatia personale, e per desiderio di danneggiare il suo editore, siete deciso a metterlo allo spiedo La gente maliziosa ha generalmente delle buone facoltà di inventiva e trova sempre il modo di infliggere una puntura velenosa. In qualsiasi altro caso, eccetto quello di un critico letterario, riterremmo impertinente dare dei consigli; ma i nostri critici letterari sono così poco abituati a pensare con la propria testa, che abbiamo l'impressione che anche qui siano necessarie le nostre istruzioni. Ci sono difficoltà in questo caso, lo si deve ammettere, perché un allevatore di cavalli che cercasse di provare che un cavallo è un mulo, rischierebbe di farsi ridere dietro, e di esser preso egli stesso per un asino. Perciò la miglior linea di condotta è di giudicare un libro non per quello che è effettivamente e che vuol essere, ma per quello che non è e che l'autore non ha mai inteso che fosse, in base a questo, pronunciare una condanna irrevocabile. Con questo sistema costringete l'autore stesso a riconoscere la verità della vostra critica; e di fronte a coloro che si affidano a voi per farsi la loro opinione, sarete considerato un recensore profondo, splendido e brillante. Di tutti i vari modi di recensire un libro, questo offre il più ampio margine di estro, perché non vi costringe a limitarvi all'opera in esame, ma vi permette di citare liberamente dall'ultimo libro che avete letto. Se il libro da cui citate, dovesse trattare un argomento

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diverso da quello che state recensendo, vi servirà a far apparire l'autore molto ridicolo, mostrando quanto egli sia diverso da qualcun altro. Se, per esempio, state recensendo Un racconto di una botte, paragonandolo ai Racconti del mio Signore, o ai Racconti di Crabbe, o ai Racconti di Canterbury o ai Racconti di Hogg, provereste anche alla persona più sprovveduta che non solo il libro è privo di ogni merito, ma che il titolo è sbagliato, e che sotto ogni aspetto si tratta di un'opera ridicola. Niente è più facile che far apparire ridicola un'altra persona, ma non è sempre facile al tempo stesso riuscire a non apparire tali. Perciò, si deve esser sempre molto cauti, nel fare a pezzi un autore, di non infliggere delle ferite a se stesso. In una recensione, lo scopo principale è di far sì che il recensore, non il recensito, appaia in una posizione di vantaggio. Il critico perciò deve spulciare tutte le notizie e le idee brillanti che può, dal libro che sta recensendo, e sporgerle qua e là nel suo articolo, senza rivelare la fonte della loro origine. Il più grande sforzo che deve prefiggersi un recensore è di mettere se stesso tra il pubblico e l'autore, cosicché l'autore viene perso completamente di vista quando l'articolo arriva alla fine.

Una nota su Stonehenge La danza dei giganti. Rovine druidiche in Inghilterra

Il complesso chiamato Stonehenge è un insieme di pietre diritte e distese che si trovano nella pianura di Salisbury in Inghilterra, e in genere si suppone che sia quel che rimane di un vecchio tempio dei Druidi. Per la sua stranezza e per il mistero che circonda la sua origine e la funzione cui era destinato, questo complesso di massi ha destato più sorpresa e curiosità di qualsiasi altro rudere arcaico in Gran Bretagna. È situato a circa due miglia ad ovest di Amesbury, e sette miglia a nord di Salisbury, nel Witshire. Quando appare in distanza sembra un oggetto piccolo e di poca importanza, perché la sua massa e i suoi segni distintivi si perdono in quel vasto spazio che lo circonda, ed anche in seguito a un attento esame più ravvicinato Stonehenge non riesce a soddisfare le aspettative del visitatore, che lo esamina con idee preconcette e un po' esagerate sulla sua reale importanza. Per apprezzare nel suo vero valore questa « meraviglia della Bretagna », la si dovrebbe guardare con occhio d'artista, e la si dovrebbe contemplare con un intelletto dotato di conoscenza storica ed antiquaria. Stonehenge, malgrado i pareri contrari di alcuni specialisti, differisce completamente da qualunque altro monumento arcaico rimasto in Europa. Molte sue pietre sono state squadrate o tagliate con arte, e sulla cima del cerchio esterno è stata elevata una serie continua di pietre squadrate, unite a quelle verticali con un tipo di giunture o buchi regolari nei blocchi orizzontali, con spunzoni che si proiettano su quelle perpendicolari. Quasi tutti gli altri esempi di cerchi, che chiamiamo druidici, sono composti da pietre rozze e non squadrate e sono privi di giunture.

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La nostra illustrazione rappresenta Stonehenge quale è oggi - un mucchio confuso di pietre in piedi e riverse. La disposizione originale di queste pietre però si può indovinare facilmente. Perché dalla posizione e dall'ordine di quelle che ancora rimangono in piedi e da quelle riverse, si può facilmente accertare il numero e la disposizione di quelle che sono state portate via. L'intero complesso consiste in due file circolari di pietre e in altre due curve, o altrimenti disposte, di cui si può accertare facilmente l'ubicazione. Le pietre orizzontali, o sovrapposte, erano disposte tutt'attorno in un ordine continuativo, sul cerchio esterno, e cinque simili che poggiavano su dieci pietre verticali nella terza fila. L'intero complesso è circondato da un fosso e da un « valium » di terra, con cui sono connesse altre tre file di pietre. Il valium non è alto più di quindici piedi in altezza, ed è esterno alla fossa. Pare che di lato, in questa linea di circonvallazione, c'era una grande entrata verso nordovest, che era segnata da due fossati che si chiamavano « il viale ». Avvicinandosi a Stonehenge da questa direzione, l'attenzione del visitatore si ferma su un'enorme pietra non lavorata che si chiama Friar's Heel, ossia « Il tallone del prete », che ancora oggi è in posizione d'appoggio, e misura più o meno sedici piedi in altezza. Immediatamente dietro a questo « vallum » c'è un'altra pietra che giace in terra, ed è lunga ventun piedi e due pollici, ed è a cento piedi dalla pietra di cui è stato appena detto, che si trova più o meno alla stessa distanza dall'esterno del cerchio perimetrale. Ognuna delle pietre orizzontali di questo cerchio ha due incastri, che corrispondono ai due timoni in cima ad ogni pietra verticale. Queste pietre orizzontali erano così congiunte e si saldavano quasi a formare una serie continua di archi murali. Le pietre del cerchio interno sono molto più piccole e irregolari di quelle del cerchio esterno. Dentro questi due cerchi ci sono due file interne di pietre, una delle quali costituisce il complesso più vasto di Stonehenge. Ogni fila interna era formata da cinque distinti « trilithon »: un trilithon è una grande pietra orizzontale incastrata su due pietre verticali. La costruzione qui sembra fatta meglio. La fila interna di pietre, che immediatamente dopo attira la nostra attenzione, consisteva in dodici pietre verticali senza agganci, e tendeva a una forma piramidale. La più perfetta tra queste è alta sette piedi e mezzo. La pietra dell'altare o dell'« ara », come di solito si chiama, in genere di forma piatta, è posta in terra, ed occupa l'atrio del tempio. Il numero totale delle pietre, di cui Stonehenge era composta, è, secondo il piano e il calcolo del dr. Smith, di circa centoventinove. Alcune di queste erano di una pietra arenaria compatta, e alcune di una pietra finemente intagliata, frammista con un campione di orne- blenda nera, quarzo, clorite, alcune con scisti silicosi, altre con scisti argillosi, altre con selce cornea. La pietra dell'altare è di pietra grigia. Se si dà uno sguardo alla storia di questi monumenti straordinari, c'è poco di sicuro e definito; l'accenno più antico in proposito è in Nennio, che visse qui nell'VIII sec. a.C. Egli dice che i monumenti furono eretti dai Britanni per commemorare un massacro che ha avuto luogo in questa regione. Le « Triadi Storiche » dei Gallesi raccontano la stessa origine. Camden la chiama la struttura « insana », ma non aggiunge niente che valga la pena di registrare. Gli autori moderni si sono abbandonati a molte congetture,

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ma non hanno aggiunto molto di più. L'opinione generale sembra essere a favore di un Tempio Druidico. Il rev. James Ingram suppone che sia stato un cimitero pagano. Borlase dice che il monumento di Stonehenge deve essere stato eretto da una nazione grande e potente, non da una ristretta cerchia di sacerdoti. La grandiosità del disegno, la disposizione spaziosa dei materiali, la monotonia stessa con cui erano disposte queste opere massicce, tutto sta lì a dimostrare che queste costruzioni erano i frutti della pace e della religione. Bryant, la cui autorità al riguardo è superiore a quella di qualsiasi altro, discredita la teoria del tempio druidico. Vorremmo concludere questo articolo somma-rio con un estratto dallo storico greco Diodoro Siculo, lasciando l'interpretazione di questo brano al giudizio e all'immaginazione dei nostri lettori. « Tra gli autori dell'antichità Hecatoeus ed altri raccontano che c'è un'isola nell'oceano, davanti alla Gallia Celtica, non inferiore in grandezza alla Sicilia, che si trova più a nord, ed è abitata dagli Iperborei, detti così perché vivono ancora più su del remoto vento del nord. Il loro suolo è eccellente e fertile, e il loro raccolto viene fatto due volte nello stesso anno. La tradizione dice che Latona era nata qui, quindi Apollo è venerato in questo luogo più di qualunque altro dio. A lui è anche dedicato un tempio imponente di forma rotonda ». Le vecchie superstizioni davano credito ai giganti per la costruzione di Stonehenge, dal momento che si credeva che queste pile massicce si potessero muovere solo con la forza dei giganti. Onde il nome di « Choir-gaur », che letteralmente significa « Il ballo dei Giganti ». Il numero tale delle pietre attualmente visibili arriva a centonove.

Architettura rurale

« La dimora personale e la Casa di ognuno, il teatro della sua ospitalità, il luogo dove si trova a tu per tu con se stesso, la parte confortevole della sua vita, la più nobile parte dell'eredità di suo figlio, una specie di principato privato per chi lo possiede, in effetti, un epitoma del mondo intero: merita, per tutte queste ragioni, di essere decentemente e piacevolmente ornata secondo la condizione di chi la abita ». Così dice il vecchio Sir Henry Watton. E sono pochi coloro che non riecheggiano i suoi sentimenti, sebbene succeda disgraziatamente che siano pochi tra coloro che costruiscono le case, coloro che si rendono conto della loro posizione effettiva nella società, nel senso che adornano le loro dimore in modo decente e piacevole, secondo la loro condizione reale. Perciò sono spesso obbligati a ricorrere all'aiuto di esperti, che li istruiscono nella scelta del luogo e dello stile della loro abitazione. Per ciò che ci riguarda, saremmo disposti piuttosto a rivolgerci a un agente di borsa per sceglierci una moglie, che non a ricorrere all'aiuto di un esperto nella scelta dello stile per costruire una casa, o degli alberi con cui adornarne il giardino.

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Se uno non è capace di decidere se si adatta meglio alle sue esigenze e a quelle del clima in cui vive, un tempio greco o un cottage svizzero, non è degno affatto di una casa, e dovrebbe rivolgersi alle autorità comunali per chiedere di essere ammesso nell'Ospizio dei Poveri. Una persona che bada così poco al fatto di spendere le sue ore preziose in un palazzo costruito secondo lo stile del Rinascimento, o nello stile di un muratore o di un imbianchino, o che è così indifferente al genere di alberi che lo difendono dal sole o dal vento, da pagare un esperto perché faccia la scelta per lui, non dovrebbe mai avere il diritto di vivere in una casa di sua proprietà, ma dovrebbe occupare una stanza qualsiasi in una pensione, e mangiare il cibo che la sua padrona di casa sceglie per lui, nelle ore che piacciono a lei. Ma ci sono degli uomini che possono costruirsi una casa, o permettersi di vivere in signorili ville di campagna, senza che possiedano neppure in minimo grado l'amore per l'arte o la natura, e si riconoscono incompetenti a decidere se sia preferibile lo stile italiano o lo stile a pan di zenzero o se sia più adatta una fila di alberi di tasso o un boschetto di pioppi a conferire un bell'aspetto al paesaggio di un parco. C'è gente con la testa vuota e le tasche piene che ha fatto la fortuna di molti lestofanti, e faranno la fortuna di molti altri. Per tutti questi, libri come quello di A.J. Downing, Trattato sulla teoria e la pratica del paesaggio per giardino, adattato al Nord America, rappresentano una vera benedizione. La casa e il terreno di un uomo dovrebbero possedere qualcosa delle sue idiosincrasie di carattere, ma com'è possibile questo quando sia la sua abitazione che il suo giardino sono il prodotto di un esperto mercenario del gusto? Ci sono dieci probabilità contro una che un « esperto » nel paesaggio trascurerebbe di piantare sul vostro terreno un albero di gomma nel vostro terreno che lo incaricate di decorarlo, o che dimentichi di circondare la vostra piantagione di aceri rossi con una fila di cedri nani, o che ritenga di scarsa importanza che due o tre alberi di sassofrasso siano intramezzati tra i pini e gli abeti, per attenuare il fogliame scuro di questi sempreverdi con la loro verzura leggera e gioiosa d'estate, e le loro foglie gommose d'autunno. Ma senza questi alberi frondosi finireste con il non avere più terreno per voi; e quanto a vivere in un cottage stile pan di zenzero, con guglie, torrette e altri ornamenti floreali, preferiremmo vivere come Diogene in una botte, con qualche Alessandro che ci faccia ombra al sole. Per le normadiche tribù delle nostre città, che cambiano residenza ad ogni calendimaggio, può essere una questione di poca importanza qual genere di cose esistano come loro temporanee dimore; ed è forse fortunato per loro che le case che abitano siano costruite e arredate in modo da non favorire nessun attaccamento al luogo dove si trovano, ma per l'agricoltore e il gentiluomo di campagna le cui cose sono destinate ad essere il teatro della loro ospitalità, la parte più confortevole della loro vita, in verità, per essi, l'epitome del mondo intero, è questione invece di grande importanza quale genere di casa essi abitino. Perciò, consiglieremmo ogni gentiluomo, prima di dare a un architetto l'incarico di costruirgli la casa, o a un esperto di parchi di decorare i suoi terreni, di assicurarsi prima per conto suo quali siano le sue effettive esigenze e di

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farle capire in qualche modo ai costruttori e ai giardinieri. Si troverà molto più a suo agio in una casa fatta, secondo le sue idee, che non abitare in una casa che un estraneo ha modellato per lui. Nel primo caso la sua casa sarà parte di lui, i suoi pensieri e le sue abitudini si assimileranno ad essa, e i suoi figli in seguito ci troveranno qualcosa che ricorderà loro il padre; non farà alcuna differenza sostanziale se sarà grottesca, o bizzarra, o sproporzionata; sarà autentica; e non c'è da aver paura che per colpa di essa si riscuotano meno simpatie; come dice St. Lucius « Quando l'affetto guida la mano, sarebbe un bruto chi volesse trovare difetti nello stile »; e nell'altro caso, non vi sentireste mai a vostro agio nella vostra stessa casa, vi sentireste un estraneo, nel posto dove dovreste essere il padrone e signore; perché abiterete sempre la casa di un altro; e il fatto di pagare per poterla costruire non la renderebbe vostra, anche se si dà il diritto legale di possederla. I vecchi castelli baronali e le magioni aristocratiche in Inghilterra che a noi piace tanto di riprodurre in questo paese, derivano il loro maggiore incanto dalla autenticità del loro stile, che rispecchia una precisa realtà storica e ambientale; esse furono costruite per i loro proprietari, che non impiegarono degli artisti dilettanti per fare un progetto astrattamente concepito per loro, ma nella loro genuina onestà, non adulterata da velleità pseudo-culturali, dettero ordine di costruire palazzi o castelli fatti in modo da corrispondere ai loro bisogni reali. Perciò, queste costruzioni architettoniche hanno un carattere originale, che appare piacevole ai nostri occhi, perché sembra naturale e appropriato; ma nel momento in cui tentiamo di adottarli per i nostri usi, la loro bellezza svanisce ed esse appaiono incongrue e fuori posto. Un'età primitiva di relativa ignoranza e di barbarie, è molto più favorevole allo sviluppo del buon gusto di una di altra cultura, a meno che la cultura sia di altissimo livello, perché allora gli uomini danno espressione ai loro autentici sentimenti senza nessun riguardo ai precedenti. Perciò a nostro parere le forme più pittoresche e affascinanti di espressione artistica nell'abbigliamento e nell'architettura furono fatte nei bei tempi primitivi, quando la cultura era al suo più basso livello, o meglio non c'era affatto cultura eccetto quella che l'uomo derivava direttamente dalla natura, come Mosè ricevette direttamente da Dio le tavole delle leggi. La gente che viaggia molto intorno al mondo, ha molta familiarità con i libri, ma è spesso la meno affidabile nei suoi criteri in materia di gusto, perché una grande varietà di esempi e di precetti deve avere avuto l'effetto di distruggere la sua istintiva percezione di ciò che è adatto per sé, e ha così il più delle volte la mente piena di immagini contraddittorie e confuse. Non è un caso che il più geniale degli architetti inglesi, Sir Christopher Wren, fruì dei vantaggi offerti dai viaggi e dallo studio di modelli stranieri in misura molto minore degli architetti molto più inconsistenti che lo hanno seguito; eppure nessuno lo eguagliava in originalità di invenzione; egli costruì la cattedrale di St. Paul a Londra senza aver mai visto quella di San Pietro a Roma, o avere

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il vantaggio di studiare sul posto l'architettura di Atene, come fecero poi Stuart e Trevell. Le piramidi furono erette senza avere nessun esempio di costruzioni precedenti dello stesso tipo; e lo stesso è accaduto per le cattedrali e i castelli del III secolo. Ictinus di Atene non aveva mai visto un tempio perfetto, finché non lo costruì egli stesso, e i Romani inventarono i loro archi senza prenderne il modello da nessuno. Perciò, se vogliamo attingere a uno stile genuino, dobbiamo cercarlo nel periodo incontaminato della esistenza di una nazione e se noi alberghiamo la speranza di produrre un grande architetto sul nostro continente dobbiamo cercarlo nelle nostre foreste da dove è venuto il nostro grande scultore. L'arte non produce arte. La natura rozza e primitiva ha sempre prodotto gli artisti migliori. Lo chalet svizzero, il cottage di campagna inglese, la villa italiana, il castello francese, la capanna indiana, la pagoda cinese, il tempio indù, il tempio greco, l'alcazar moresco, il serraglio turco, il castello baronale, l'abbazia dei monaci, sono tutte forme genuine di espressione che non hanno modelli nella natura o nell'arte: sono nati dalle necessità della gente che le ha costruite; sono, perciò, tutte belle da contemplare, perché, pur differendo così ampiamente tra loro, appaiono adatte e congeniali all'uso per cui sono state concepite e all'ambiente in cui sono sorte. Ma noi dovremmo contentarci di contemplarle nel loro luogo d'origine, perché non possiamo mai adattarle ai nostri bisogni, o alle necessità del nostro clima o alle leggi del nostro paese. Disgraziatamente però spesso un parvenu ha l'ambizione di apparire diverso da quello che è, e poiché non si può negare che noi siamo, per la maggior parte, una nazione di parvenu, venuti dal nulla, ciò spiega il mistero altrimenti incomprensibile, che si vedano sparse nel nostro paese sulla cima delle colline, sulle rive dei torrenti, e persino nei crocevia sovraffollati delle nostre città, tanti castelli baronali, pagode cinesi, chalet svizzeri, chiese gotiche, monasteri posticci e falsi cottage inglesi, come se il miracolo della casa di Loreto si fosse ripetuto migliaia di volte sul nostro continente. Un uomo barbaro e ignorante, veramente primitivo, bada solo alle sue effettive esigenze, e con la stessa noncuranza per i precetti e gli esempi che il castoro e il rigogolo manifestano nel costruire la loro tana e il loro nido, adatta la sua abitazione alle sue necessità; ma il villano semicivilizzato, che è nato in una capanna di tronchi, e ha fatto la sua fortuna in una piccola bottega murata a secco, nella pacifica occupazione di vendere spezie o aghi da due soldi, viene roso dall'ambiziosa velleità di costruirsi una casa sul tipo di quella che andava bene per un cavaliere predone vissuto ai tempi dell'autentica ignoranza e barbarie; oppure è stato affascinato dalle storie dei monaci di una volta, e manda a chiamare un architetto perché gli costruisca un castello sul tipo di quello di Front de Boeuf, o un monastero con il tetto munito di merli, e una torretta in cui può rigirarsi appena, con feritoie per gli arcieri da cui scagliare delle frecce; un altro che ha invece un gusto romantico, e ha letto storie ispirate a un cuore e una capanna, di amori in un cottage e delle delizie della vita rurale; e si mette in testa che ad ogni costo deve avere un cottage inglese; un altro invece non può stare se non ha una villa di tipo

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italiano; e un altro ancora sogna di vivere in una casa costruita secondo il modello di un serraglio turco. Così finisce che qui in America, ad uno stesso grado di latitudine che ammette solo uno stile di costruzioni, si vedono i tetti piatti dei tropici, e il cottage dal tetto spiovente delle tranquille valli inglesi. Ma in mezzo a tutta questa confusione e affettazione si può trovare qua e là autentica espressione della onesta ignoranza e della cultura veramente raffinata, che finiscono per essere generalmente simili nelle cose essenziali, e differiscono solo nella esecuzione. Downing presenta dieci disegni di « residenze tipo cottage » nella seconda edizione del libro che porta questo titolo, e nel suo volume più ampio sui modelli di parchi, e di giardini, intonati al paesaggio, ha dato moltissimi esempi di abitazioni rurali, in tutte le maniere di stili da ogni parte del mondo, ma non ha dato un solo esempio di case di campagna americane. Abbiamo uno stile americano di architettura rurale, altrettanto espressivo e bello quanto quello dell'Inghilterra e dell'Italia. Infatti, sebbene noi americani possiamo andare giustamente orgogliosi della nostra intelligenza nazionale, abbiamo tuttavia delle classi ignoranti tra noi, che si sono sviluppate e arricchite e sono andate ad abitare nei distretti rurali degli Stati più antichi, senza montarsi la testa con i libri sui modelli di architettura stranieri, o con viaggi in paesi d'oltremare, e che hanno lasciato dietro di sé nelle loro dimore vestigia interes-santi della loro esistenza, libera da qualsiasi affettazione, come il nido di un uccello o l'alveare di un'ape. Queste sono le vecchie case di campagna costruite dagli Olandesi, gli Ugonotti e gli immigrati di origine inglese a Long Island, a Staten Island, e nel Jersey, e sulle rive dell'Hudson. Molti di questi edifici coloniali restano ancora, come i più singolari esempi di architettura consona all'ambiente naturale, che si trovino in qualsiasi paese. Esse mostrano nei loro dettagli una profonda ignoranza dell'arte in quanto tale, ma nelle loro forme e modi di espressione rivelano ciò che solo la grande arte può mostrare, un semplice adattamento dei mezzi ai fini. Gran parte di esse, specie nel New Jersey, ha il tetto a mansarda, una forma che è più adatta per il nostro clima di qualsiasi altro, e che, dopo essere stata di moda per molti anni, alla fine è scomparsa sotto l'influsso della London's Encyclopedia. I tetti di queste vecchie case, in nove casi su dieci, si sporgono di circa cinque piedi sul lato che guarda verso il Sud, e forma una piazza naturale, di una bellezza pura come quella di un portico greco. Suscita non poca sorpresa che un artista, nel dare esempi di case rustiche, chiuda gli occhi sull'unico tipo esistente di casa di campagna americano, e raccomandi al suo posto modelli stranieri che erano stati disegnati per un altro suolo, un altro clima, un'altra condizione sociale... Noi non possiamo affatto condividere l'opinione di Downing, secondo il quale la vecchia magione signorile inglese, il cottage di campagna di stile gotico e la villa italiana esprimono il linguaggio della vita quotidiana in America. Non è affatto vero. Questi tipi di architettura sono estranei al nostro linguaggio come i dialetti di Boccaccio e di Chaucer. Essi non potranno mai esprimere il nostro sentimento - primo perché sono stranieri, e secondo perché sono vecchi...

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Forse la maggior parte di falsa architettura in America si trova nel cerchio di cinque miglia, a partire dal centro di Boston. Lo stesso cerchio comprende alcuni dei più begli esempi di case di campagna degli Stati Uniti, ma sono tutti vecchi di mezzo secolo. Uno dei migliori esempi di questo tipo di case vecchia America è occupato dal poeta Longfellow, che con questo gusto degno d'encomio ha preservato la bella magione antica di cui è proprietario nella sua originale integrità. Una volta era la residenza di Washington. Le ville di stile gotico e greco che sono sparse intorno come castelli su una scacchiera, danno alla zona l'aspetto di un grande negozio di giocattoli. Il Principe Massimiliano osserva che, quando arrivò a Boston, cercò invano qualche esempio di pianta tipicamente americana della specie che era più coltivata in Europa, ma trovò solo delle piante importate; e solo con grande difficoltà alla fine scoprì qualche esemplare dei Catalpa. Se avesse cercato una casa tipicamente americana, avrebbe avuto anche più difficoltà a trovarne una. Gli Americani nel campo dell'edilizia, sembrano essersi messi risolutamente al lavoro, con l'intenzione di copiare ogni esempio dei modelli della London's Encyclopedia, e quando avranno i modelli e gli esempi forniti dal libro di Downing, ricominceranno da capo a copiare modelli stranieri, rifacendosi a qualche trattato francese o tedesco sull'argomento.

Barba e barbarie Dopo che Mr. Bancroft ha preso possesso del suo ministero al governo del nostro Paese di ventitré milioni di abitanti, ha emanato un'ordinanza a quelli che sono soggetti al suo comando, ordinando loro di radersi la parte inferiore della faccia. Non è permesso adesso in Marina di lasciarsi crescere la barba sotto l'angolo della bocca. Dato che Mr. Bancroft è un uomo di fede cristiana, di idee liberali, un uomo di mondo e un discendente del gruppo dei Padri Pellegrini, è l'ultima persona negli Stati Uniti da cui ci saremmo aspettato un gesto di « barbarie » di questo genere. Tra tutti gli uomini del mondo i marinai hanno bisogno della barba soprattutto per proteggersi la gola dal freddo e dall'umidità a cui sono esposti, e tra tutti gli uomini di questo mondo sono quelli che hanno meno comodità per radersi. La necessità della barba non è mai stata messa in discussione dalle persone intelligenti, e che privare la faccia e la gola della loro naturale copertura causa gran parte delle malattie della faringe e del torace, che indeboliscono e distruggono la salute, è una cosa riconosciuta da tutti i medici. Ma se non ci fossero altre ragioni per tenere la barba se non il fatto che abbellisce la faccia, e dà a chi la porta un aspetto di gravità e di dignità, questo solo dovrebbe essere sufficiente per salvarla dalla lama del rasoio. Marinai e soldati hanno bisogno di tutti gli attributi naturali che conferiscono loro un'aria di mascolinità e invece di farli vestire come monaci, con pezzetti di stoffa rossa e gialla, piume e altri orpelli, si facessero

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indossare loro dei vestiti comuni, e fosse loro permesso di portare la barba come è naturale, la dignità del loro aspetto li aiuterebbe di più ad acquistare coraggio, e rispetto tra loro, e a incutere timore nei loro nemici, che tutti gli accessori artificiali che la follia militare abbia mai concepito. È di moda tra alcuni dei nostri corpi di volontari, quando marciano per le strade nei loro pittoreschi costumi, di apparire come la troupe di un coro di cantanti davanti alle luci della ribalta di un'opera, preceduti da due o tre alfieri, che per darsi un'aria di gravità e di determinazione, si appiccicano alle guance delle barbe false, con l'effetto inevitabile di far apparire gli uomini con la barba accuratamente rasata che li seguono come uno dei corpi militari femminili di Miss Margaret Fuller. In Sud America ci è successo di vedere una volta l'equipaggio di una fregata inglese coi marinai che portavano tutti la barba, dal capitano in giù, e fummo colpiti nel vedere una adunata di uomini dall'aspetto così magnifico. Probabilmente questi marinai non erano più belli in sé dei membri di qualsiasi altro equipaggio inglese, ma la barba dava loro un aspetto molto nobile e pieno di dignità. Non ci stupiamo che i capitani delle nostre navi militari si arrogassero il diritto di costringere gli uomini sotto il loro comando a tagliarsi i baffi secondo un modello particolare, perché i piccoli tiranni cercavano avidamente le minime occasioni per far sfoggio del loro potere. Ma che il Ministro della Marina, in questa epoca illuminata, quando anche i dandy e i commessi cominciano ad affermare la loro mascolinità lasciandosi crescere la barba, debba essere colpevole di questa irsuta tirannia, è davvero mostruoso. I vantaggi di portare la barba secondo la legge naturale sono così evidenti che non c'è bisogno di enumerarli, mentre nessun beneficio di alcun genere può deri-vare dal fatto di radersi. L'uso di radersi la barba è nato dai più bassi motivi tra gente di costumi effeminati. Degradati, ed è continuato fino al giorno d'oggi per quello spirito di conservatorismo che è all'origine di due terzi delle miserie che gli uomini devono sopportare. Gli antichi popoli germanici si lasciavano la barba eccetto quella dei labbri superiori. Gli antichi Goti, Franchi, Galli e Britanni portavano pure lunghe barbe, ma con l'avvento del Cristianesimo, i laici cominciarono a poco a poco ad imitare gli ecclesiastici che se la radevano. I Danesi come si vede portavano sempre la barba. I Normanni si radevano completamente, e guardavano alla barba con estremo disgusto, come un indice di miseria e di disgrazia tanto che erano i grandi apostoli della rasatura dovunque andavano. Essi cercarono di convincere gli Inglesi a radersi quando approdarono sulle isole britanniche, persino i baffi. La grande maggioranza degli In-glesi cedettero alla necessità del caso, non ci furono tra loro degli spiriti anticonformisti, che preferirono prendere la via dell'esilio piuttosto che rinunciare ai loro baffi. Tuttavia, anche le barbe a un certo punto tornarono di moda. Nel XIV secolo, in concomitanza col Rinascimento delle lettere e delle arti, ci fu un rinascimento delle barbe, che continuò fino all'inizio del XVII secolo. A quest'epoca le barbe erano molto ridotte di dimensioni e poco dopo scomparvero del tutto, lasciando

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solo il mustacchio come simbolo di virilità. All'inizio del secolo scorso l'uso di radersi tutta la faccia era diventato universale. Negli ultimi cambiamenti un posto principale occupa l'esempio della Francia. In questo paese, Carlo IV fu l'ultimo sovrano che portava la barba, e ne aveva una abbastanza bella. Gli successe un figlio sbarbatello, che era invece sempre accuratamente rasato e in omaggio all'esempio reale anche i corti-giani si rasarono la barba, lasciandosi però i mustacchi, finché anche i mustacchi alla fine scomparvero. Gli Spagnoli, che solo in tempi molto recenti furono influenzati dall'esempio francese, portavano la barba, anche quando già i francesi e gli inglesi cominciavano a tagliarsi persino i baffi. E forse avrebbero continuato a tenere la loro cara, fluente appendice fino a oggi, se a un certo punto un principe d'origine francese, Filippo V, non fosse salito al trono di Spagna col mento sbarbato. I cortigiani, col pianto nel cuore, si adeguarono al modello del principe, e il popolo col cuore anche più straziato, si conformò all'esempio dei cortigiani. Il sentimento popolare in materia, tuttavia, resta documentato dal proverbio: « Da quando abbiamo perso le nostre barbe, abbiamo perso le nostre anime ». Ci sono stati dei momenti nella storia della Chiesa d'Occidente in cui fu ingiunto al clero di portare la barba, in base all'idea che radersi fosse indice di costumi effeminati, e che una barba ben si addiceva alla gravità dell'ufficio ecclesiastico; ma ci sono stati altri periodi, sempre nella storia della Chiesa, in cui invece fu imposto ai preti l'obbligo di radersi, in base all'idea che potesse covare in modo spropositato sotto una barba venerabile il peccato dell'orgoglio. Si dice che Guillaume Deprat, Vescovo di Clermont, che prese parte al Concilio di Trento, e fondò il Collegio dei Gesuiti a Parigi, aveva la più bella barba che si fosse mai vista. In realtà, era una barba troppo bella per un vescovo; e i canonici della cattedrale, riuniti in assembla plenaria, giunsero alla barbara risoluzione di togliergliela. Di conseguenza la volta successiva che egli si presentò in coro, il Decano, il provost e il chambre, gli si avvicinarono con forbici e rasoi, sapone, bacinella e acqua calda. A quella vista, il degno vescovo se la diede a gambe, e si rifugiò nel suo ben munito castello di Beauregard, a circa due miglia da Clermont, dove, affranto dalla grave umiliazione e per l'affronto subito, rese l'anima a Dio. Non possiamo non simpatizzare con questo vescovo, così originale e anticonformista; e vorremmo che l'alto dignitario laico che attualmente guida le sorti della Marina Americana avesse altrettanto coraggio di questo degno prelato. Ma se tutti gli ufficiali della Marina americana la pensassero come noi, continuerebbero a tenere la barba e a scuoterla quasi in atto di sfida, in barba appunto a tutte le ordinanze che il Ministero possa emanare. Ci piacerebbe vedere un ufficiale condannato dalla Corte Marziale per aver disobbedito a un'ordinanza del genere, testimoniare il diritto di un cittadino a portare la barba che la natura gli ha dato. Se Mr. Bancroft può imporre, con un atto di arbitrio, agli ufficiali in servizio a radersi la faccia, allora può costringerli ad attentare alla loro virilità, in

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qualche altro modo; e la prossima volta può saltargli in testa, per un lampo di genio, il grillo di ordinar loro di tagliarsi gli orecchi o di estirparsi i denti molari. Lo scrittore inglese Walker, nel suo trattato sulla bellezza, afferma che « l'uso di radersi la barba è invalso specialmente in tempi di effeminatezza e corruzione dei costumi, e che è stato talvolta accompagnato da conseguenze disastrose ». « Una delle più grandi disgrazie che si siano mai abbattute sulla Francia, - dice uno scrittore francese - fu il divorzio di Luigi il Giovane da Elinor de Guyenne, fu dovuto alla moda che il principe voleva introdurre, di tagliarsi la barba e di farsi rapare a zero i capelli: la regina, sua moglie, che a quanto pare era dotata, oltre che di una bellezza di tipo maschile, di un notevole acume di intelligenza, osservò, senza cercar scuse, che credeva di aver sposato un monarca, non un monaco. L'ostinazione di Luigi il giovane a radersi, e l'orrore che suscitava nella regina Eleonora la vista di un mento maschile senza barba, causarono alla Francia la perdita di quelle belle Provincie che costituivano la dote di questa principessa; dato che Eleonora si risposò in seconde nozze con il re d'Inghilterra, quelle provincie passarono quindi alla Gran Bretagna, causando la serie di guerre che portarono la desolazione in Francia per quattrocento anni. « L'uso di portare la barba è molto virile e nobile. La natura ha fatto sì che la barba fosse il segno di distinzione tra il maschio e la femmina; e il taglio della barba da parte degli uomini è spesso stato accompagnato non solo da periodi di generale effeminatezza, ma persino dal declino e dalla caduta degli Stati. Furono i Goti barbuti che conquistarono i Romani, quando smisero di portare la barba; e anche adesso, sono dei Tartari barbuti che minacciano ancora una volta dalle regioni slave di invadere le regioni una volta occupate dal Papa. A nostro parere si sbagliano quindi di grosso coloro che mettono in ridicolo l'uso di portare la barba. Uno sciocco spirito di affettazione, al contrario, può essere invece imputato a coloro che, togliendosi la barba, finiscono per privarsi di un attributo fondamentale della loro virilità. Credono forse di essere belli, per il loro innaturale tentativo di imitare l'aspetto liscio della faccia, che è proprio delle donne? ». Forse la prossima ordinanza di Mr. Bancroft sarà che ogni uomo in servizio si procuri una dozzina di scatole della Poudre subtile di Monsieur Souraud, e non ci meraviglieremo se gli agenti della Marina Militare facessero pubblicità per l'acquisto di pinze per arricciare i capelli ad uso delle nostre corazzate, e specchietti tascabili per permettere ai marinai di aggiustare i loro sopraccigli in conformità con gli ordini di Washington. Sembra che ci sia una grande opposizione a qualsiasi cosa che esprima o rafforzi lo spirito virile sia nel sentimento che nell'aspetto tra gli altri funzionari del nostro servizio navale. Tra le altre curiosità di cui parla il Capitano Wilkins nel suo resoconto della esplorazione polare, si trovano delle osservazioni relative appunto a questi gingilli da toilette femminile: « solo di recente mi sono reso conto della tendenza predominante tra gli equipaggi della Marina a portare i mustacchi. Portare i baffi, nella maggior parte

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dei casi, indica una forma di esibizionismo sgradevole e una incuria della propria puli-zia, che sono contrarie alle regole interne e alla disciplina degli squadroni militari, ecc. ecc. ». Nota - Dopo che avevamo scritto questa nota, abbiamo saputo che l'ordinanza di Mr. Bancroft non era stata ancora ufficialmente emanata ma dato che ci risulta che lo sarà tra breve, le nostre osservazioni cadranno opportune quando quest'ordinanza apparirà.

Disastri pubblici La stampa e l'opinione pubblica durante gli ultimi quindici giorni sono state occupate a discutere i particolari dei due grandi disastri che si sono verificati a così breve distanza di tempo: il naufragio di Swallow, il battello a vapore, e l'incendio di Pittsburgh. Nel frattempo sono circolate anche voci sul probabile scoppio di una guerra messicana. Ma per quanto, se queste voci di guerra fossero vere, ci troveremmo alla vigilia del più grande disastro che il Paese abbia mai sperimentato in trent'anni, tali fosche prospettive non hanno avuto il potere di distrarre l'attenzione della gente dalle calamità già effettivamente avvenute. Ogni « meraviglia », deve vivere i suoi nove giorni ed è motivo di dispiacere che alcune « meraviglie », non vivono un po' più a lungo. Sembra che ci sia una disposizione generale della pubblica opinione nel gettare la colpa di un disastro come quello del Swallow un battello a vapore che è affondato nelle acque dell'Hudson su un individuo in particolare, e a quanto sembra il pilota di quella disgraziata imbarcazione è stato salvato a stento dal linciaggio grazie all'intervento della magistratura. Ma noi non crediamo che nessuno possa pensare seriamente di sostenere un tale capo di accusa. È possibile, nel caso particolare del Swallow, che non ci sia nessuno da biasimare se non la collettività nel suo insieme. Se il battello fosse stato costruito secondo le regole non ci sarebbe stata una sola vittima mortale. Ma è di moda adesso costruire battelli a vapore come canoe di betulla per soddisfare la smania diffusa di viaggiare rapidamente, e dovrebbe essere evidente, che una barca della lunghezza di 1/16 di un miglio e di solo trenta piedi di larghezza, si spacca in due ogni volta che una sua estremità rimane sospesa fuori dall'acqua. È vero che le possibilità che si verifichi una cosa del genere sul fiume Hudson sono poche, ma da questa eventualità anche poco probabile ci si dovrebbe premunire. I battelli sul fiume o dovrebbero essere costruiti in modo diverso, o la roccia su cui si è infranto il Swallow dovrebbe avere avuto un segnale installato su di essa; e se c'è qualche altro porto nel fiume che presenta un simile pericolo, ci dovrebbero essere apposti dei segnali senza nessun indugio. Ci sono state molte gravi noncuranze da parte del pilota del Swallow, ma ci saranno sempre delle noncuranze da parte di altri piloti; è

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praticamente impossibile guardarsi completamente da queste possibilità imponderabili e la cosa più sicura è da sottrarre all'incuria e alla inefficienza il potere di distruggere vite umane e beni preziosi, provvedendo a tutte le misure di salvaguardia opportune prima di esporsi al pericolo. La gente chiede mezzi di trasporto rapidi quando viaggia; la gente allora deve accettare di buon grado di mettere questi incidenti e calamità come conseguenze inevitabili del loro modo rapido di viaggiare. Se uno dei battelli a lenta andatura del vecchio tipo fuori moda si fosse trovato al posto del Swallow, si sarebbe arrestato molto confortevolmente, senza produrre una sola ammaccatura o bagnare minimamente nessun passeggero. Noi non condanniamo il modo rapido di viaggiare, condanniamo la pretesa della gente a non accettare di buon grado le conseguenze inevitabili del sistema di vita che hanno scelto. Il grande incendio di Pittsburgh, in cui sono stati distrutti merci e proprietà del valore di miliardi, è stato dovuto completamente ad una idea meschina di economia, che ha portato la gente di quella città a costruire le loro case in modo tale da favorire l'incenerimento generale e la distruzione di tutta la città. Una piccola spesa in più avrebbe salvato gli abitanti di Pittsburgh dalla terribile calamità che li ha quasi annientati. Ci stupiamo della gente che, come a Napoli, costruisce le case nelle vicinanze di un vulcano, che in qualsiasi momento può seppellirli sotto una pioggia incandescente di lava; eppure noi costruiamo le nostre città col materiale più infiammabile come per dar esca alla violenza del fuoco, trascuriamo di provvedere ai mezzi adatti per estinguere un incendio collettivo, e quando la distruzione piomba su di noi, restiamo esterrefatti per un momento, e poi ci affrettiamo ad andare al lavoro, ricostruendo le nostre case con lo stesso materiale infiammabile e riempiendole con le nostre merci più costose. Poche migliaia di dollari avrebbero salvato New York nel 1835 dall'incendio disastroso da cui non si è più ripresa. Un incendio di tali proporzioni probabilmente non si verificherà più in questa città; adesso costruiamo le nostre case con materiale migliore e in modo migliore; e abbiamo aumentato molto i nostri mezzi per estinguere gli incendi, introducendo gli estintori nelle nostre strade, ma per la nostra città più vicina, Brooklin, basta solo una torcia applicata a una delle sue case di legno mentre tira un freddo vento di nord-ovest, per ridurla in rovina in poche ore come un pugno di ceneri. A Brooklin ci sono intere strade fiancheggiate da leggere case di legno, che potrebbero essere salvate dall'incendio solo buttandole giù, dato che tra l'altro le loro riserve di acqua sono estremamente limitate. È dovuto più a buona fortuna che a buona amministrazione se gli abitanti di Brooklin non sono già stati ridotti in cenere. Invece di affettare stupore di fronte allo scoppio di un incendio di vaste proporzioni in una qualsiasi delle nostre città, ci dovremmo meravigliare che una calamità del genere non accada e non lamentarci quando succede, perché noi stessi l'abbiamo procurata.

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Gioco d'azzardo

Sui mali del gioco d'azzardo non c'è bisogno di dire una parola. Tutti sono d'accordo che questo è uno dei tipi più disastrosi superato, forse, nel deplorevole carattere dei suoi risultati, solo dalla ubriachezza. La crociata che viene bandita contro la dipsomania ha trovato la sua arma più efficace non nelle astratte dissertazioni sulla sua iniquità, ma nella denuncia dei danni fisici che provoca. La gente che ascoltava i sermoni sull'intemperanza come argomenti che potevano o non potevano esser degni di riflessione in qualche giorno indefinito, furono riscossi all'improvviso e spinti a prendere risoluzioni di emendamento immediato, dalla semplice ispezione delle membrane interne dello stomaco di un ubriacone. Il libro e le conferenze di Mr. Green il giocatore pentito, sono, in base allo stesso principio, il rimedio più efficace per il vizio che cerca di sconfiggere. Va benissimo che si tuoni dai nostri pulpiti contro il vizio del gioco d'azzardo, che si vociferi « Non giocate d'azzardo, perché è un odioso peccato » ma è molto meglio dimostrare, per la soddisfazione del pubblico, che l'uomo che gioca d'azzardo, che non sia egli stesso un imbroglione, è alla assoluta mercé di quelli che lo sono. È bene che si mostri chiaramente una volta per sempre che non c'è possibilità di vincere per chi gioca d'azzardo per pura passione, e che tutto sta a favore, con certezza assoluta, del truffatore di professione, e metteremo fine al gioco d'azzardo in generale, rimuovendo l'incentivo stesso a giocare. Mr. Green prova tutto questo in una maniera che deve soddisfare i più increduli. Nei suoi libri, dà una piena esposizione dei diversi imbrogli praticati dalla cricca dei giocatori di professione, e chi legge questi libri, e poi gioca d'azzardo in qualsiasi maniera, è poco più che un idiota. Ma diciamo di più: Mr. Green non ha alcuna obiezione a convincere chiunque lo voglia, con dimostrazione oculare, dell'assoluto dominio esercitato come una sorta di plagio o di ipnosi, dal giocatore di professione sulla sua vittima. Mr. Green dimostra infatti chiaramente che, come ex-giocatore di professione, egli è in grado di riconoscere qualsiasi carta in base ai segni ordinari sul dorso; che ha il potere di fare in modo di ottenere una mano che serva ai suoi scopi, e in breve, che in tutti i giochi di carte, che il suo avversario vinca o perda, è qualcosa che dipende interamente dal suo esclusivo beneplacito. Mostrerà anche il falso meccanismo del gioco del faraone e delle tavole di roulettes, e spiegherà nella maniera più chiara e irrefutabile che l'attuale sistema di lotteria è solo un sistema più generalizzato e programmatico per estorcere in modo truffaldino il denaro della gente. Personalmente siamo convinti che la Stampa, se volesse, avrebbe in mano la possibilità di sconfiggere questo vizio. Se Mr. Green fallisce nel suo intento di mettere in guardia i patiti del gioco d'azzardo sulla frode di cui sono sistematicamente le vittime, solo la stampa ne è responsabile. Egli ha fatto la sua parte con coraggio - con una risoluzione

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imperterrita, che può essere apprezzata in pieno da coloro che per diretta esperienza conoscono la disperata animosità della categoria di truffatori che egli cerca di combattere e di eliminare. Se la stampa viene in suo aiuto, e dà ampia pubblicità ai suoi sforzi, ci sono molte più probabilità che il gioco d'azzardo venga soppresso di quante non ne abbia anche il vizio dell'intemperanza da parte dei suoi oppositori. Invitiamo perciò i colleghi della stampa ad aiutare Mr. Green nei suoi sforzi. I suoi libri sull'argomento sono « Il gioco d'azzardo smascherato », « Le arti e le miserie del gioco d'azzardo » e « Lo specchio del giocatore d'azzardo » (una pubblicazione in serie di cui è uscito solo il primo numero)... A parte il loro valore per il fatto di offrire non solo una completa denuncia delle arti della truffa nel gioco d'azzardo queste pubblicazioni hanno il merito di presentare numerosi vividi quadri della disgraziata conseguenza dovuta al vizio in questione. Questi quadri di disperazione e di rovina sono ripresi evidentemente dalla natura e dalla vita. Essi hanno in sé una chiara « evidenza interna » della loro verità. C'è tuttavia un principio del gioco d'azzardo che va molto più in profondità di quanto lo scandaglio della esperienza di Mr. Green non abbia sondato, e che richieda di esser denunciato da una mano più forte. Ci sono altri giocatori d'azzardo di professione che imbrogliano la gente, oltre a quelli che falsano le carte o truccano i dadi. Nove su dieci dei nostri principali uomini politici sono dei giocatori d'azzardo di professione, il cui mestiere consiste nel calcolare le possibilità di successo che hanno nel nominare certe persone per una certa carica, e poi puntano e speculano in base a questa scommessa - non sempre per amore del denaro o del potere, o della carica in sé, ma anche per amore dell'eccitazione che ne deriva: mai tuttavia per amore di un buon principio. Gran parte dei nostri politici giocano d'azzardo in molti altri modi oltre che nella politica stessa. Gli operatori di Wall Street sono quasi tutti dei giocatori d'azzardo. Quest'argomento è così notorio da non richiedere più di un accenno, ma se qualcuno vuole vedere il principio del gioco d'azzardo inteso come truffa in pieno svolgimento, può trovarne un perfetto esempio negli agenti di cambio di Wall Street, che si affollano intorno alla porta della Borsa subito dopo l'aggiornamento del « Castello » come si può ben vedere in uno qualsiasi degli « Interni » finanziari di Londra e di Parigi. I mercanti di solito sono fortemente inclini a praticare il gioco d'azzardo come truffa di professione; ci sono poche avventure mercantili che si sono intraprese nello spirito del gioco d'azzardo inteso come truffa. Una delle ragioni principali che hanno influenzato la legislatura nell'abolire le lotterie, fu il frequente fenomeno di frodi perpetrate da agenti fiduciari per coprire le spese sostenute nel gioco d'azzardo truffaldino della lotteria. Ma queste frodi non furono affatto diminuite dalla abolizione delle lotterie. Il gioco d'azzardo come truffa sistematica non fu mai portato a una così vasta proporzione Come nel 1836, quando l'intera nazione americana dal prete sul pulpito al Presidente di Washington, giocò d'azzardo speculando sulla terra. C'è molta candida gente a New York, che legge con orrore resoconti di giochi d'azzardo truffaldini a Parigi, New Orleans e Londra, e sanno tutto su Crockford e altre case da gioco St.

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James, che non si sognano mai di camminare tutti i giorni all'ombra di Inferni, altret-tanto brillanti e altrettanto neri, di qualsiasi di queste città. Dei giovani gentiluomini sono spesso adescati in questi posti per la prima volta da una cena gratuita, in cui tutte le eleganze della tavola sono sparse in fastosa profusione, e sono quindi attirate nel mallstrom seducente da una speranza di guadagno, un desiderio di eccitamento, o da qualche motivo del genere. Tutti gli uomini, eccetto pochi fannulloni, hanno bisogno di qualche forma di eccitazione; e la cercheranno sempre come cercano il cibo; senza preoccuparsi affatto delle conseguenze. Lo scopo principale di qualsiasi tentativo di riforma in materia, consiste nell'indirizzare questo bisogno di eccitamento innato nell'uomo verso la sua giusta direzione. I libri di Mr. Green sono la migliore illustrazione di tale principio. Se il motivo che lo ha spinto a scrivere e pubblicare i suoi libri sulle frodi legate al gioco d'azzardo potesse essere analizzato a fondo, non c'è dubbio che si scoprirebbe che sia la sua passione di un tempo per il gioco d'azzardo che la sua attuale denuncia provengono da un'unica causa. Dai più grandi peccatori come dimostra San Paolo sono venuti i Santi più grandi.

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Costume

Riforme e riformatori

Una di quelle persone che credono di esser state inviate nel mondo, come Mr. Muddle, con una missione, si è messa in testa di recente di dir male della nostra rivista in un giornale dell'Est, in base al presupposto piuttosto arbitrario che noi siamo opposti alle crociate di riforma morale. Questa ipotesi si basa su alcune nostre osservazioni, relative al libro di Margaret Fuller Woman in the Nineteenth Century. I nostri occhi non sono affatto chiusi ai mali della società, né noi siamo in alcun modo indifferenti alla loro esistenza, perché ci accade di sperimentare tutti i giorni disagi personali di ogni genere, che sono dovuti a qualche arbitrio della legge o abuso del costume, che sarebbe meglio eliminare, abolendo la legge o emanandone una nuova. Ma abbiamo imparato ad assumere un atteggiamento piuttosto freddo e distaccato di fronte ai nostri inconvenienti giornalieri (convinti come siamo che non sempre l'intervento della legge avviene per il meglio), e perciò possiamo guardare alle insofferenze degli altri con la stessa compostezza, con cui riusciamo a sopportare i nostri guai. Non abbiamo molta fiducia nell'atteggiamento, che i nostri moderni riformatori della pubblica moralità tendono spesso ad assumere, rimproverando il mondo per il suo cattivo comportamento, e spronandolo ad emendarsi; e abbiamo anche meno fiducia nell'efficacia delle associazioni riformatrici a correggere gli abusi, specie quando si tratti di abusi commessi da governi stranieri, su cui abbiamo scarsa facoltà di influire. I nostri vociferanti assertori di riforme nel campo morale e sociale tendono troppo spesso a dimenticare che dopotutto, « la terra è nelle mani del Signore »: si affidano troppo poco alla sua provvidenza nel gestire la felicità dei suoi figli, e presumono troppo in se stessi. Ogni uomo ha la possibilità di riformare se stesso, e quando ha fatto questo veramente bene, ma solo allora, è in una condizione adatta a riformare il mondo, non prima. Ci sono degli eccellenti accenni in proposito nella Bibbia, che farebbero molto bene ai nostri cari riformatori nostrani, se si fermassero un momento a meditare su questa divina fonte di saggezza, ogni volta che si sentono presi dall'uzzolo di scagliare frecciate de-nigratorie contro coloro che, come noi, a loro parere, sarebbero contrari alle riforme. Noi non crediamo nell'esistenza dei vizi individuali o isolati nella società; è perciò un compito ozioso cercare di tentare di sanarla di questo o quel difetto particolare, senza intervenire sulla struttura stessa del sistema. È il sistema nel suo complesso che deve essere purgato dei suoi cattivi umori. Se concentriamo tutte le nostre energie nel tentativo di rimuovere un male particolare del corpo sociale, tutti gli altri si svilupperanno in modo tanto più vigoroso, per il fatto stesso di essere stati trascurati; mentre, ad esempio, cerchiamo di curare il mondo del vizio del gioco d'azzardo, si rafforzeranno e prolifereranno la licenza e l'avidità, la

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menzogna e l'oppressione, e il furto e l'ubriachezza. Tutto il corpo deve essere sottoposto alla cura del medico, e non solo uno dei suoi organi, per rimetterlo in salute. È un peccato che quelle persone infelici, che si arrogano il divino titolo di riformatori, di solito dimentichino poi di riformare se stesse, e perciò finiscono per fare nel mondo una figura ridicola, come l'uomo grosso in mezzo alla folla, di cui parla Swift, che continuava a lamentarsi dell'ingombro e dell'ostruzione causata dal viavai della folla, finché un passante non gli fece notare che la sua enorme carcassa era la causa prima di tutto il disturbo, e che ci sarebbe stato spazio abbastanza, se solo egli si fosse tolto di mezzo. I veri riformatori del mondo sono quelli che diffondono la verità; non importa chi siano. Chiunque fa una scoperta in ciò che si chiamano le scienze fisiche, contribuisce a cancellare qualche male dalla terra. L'uomo che possiede il massimo di conoscenza è il più grande riformatore. Ma è opinione corrente che sia vero il contrario, e il nostro Paese pullula di presuntuosi e di saccenti, che si mettono in testa di riformare la società, prima di conoscere persino l'alfabeto. In tutti i Paesi, eccetto il nostro, la legge riflette l'intelligenza della gente; perciò è meglio mirare a illuminare e istruire la gente, che non lanciare una crociata contro la legge stessa. I codici dell'Inghilterra e degli Stati Uniti sono pieni di leggi morte, poste in disuso dalla intelligenza della gente, ma non abolite. La legge sulla pena capitale sta morendo giorno per giorno; il modo come si è svolto un certo processo la scorsa settimana, dimostra che è quasi morta. È bene per una legge cattiva che venga abolita, nel momento in cui si avverte il suo carattere ingiusto: ma il filantropo non ha bisogno di preoccuparsi per essa; che si preoccupi invece di istruire la gente, e la legge iniqua cadrà da sé. L'ignoranza è all'origine delle leggi ingiuste, e quando una legge è troppo avanzata rispetto alla mentalità della gente, la gente non la rispetta e segue una legge per conto suo, come avviene per il linciaggio nel West. Se diamo uno sguardo alla storia del mondo, troveremo che tutti i riformatori sono stati dei poeti o degli uomini che hanno scoperto verità della scienza, mentre i sollecitatori di riforma hanno lasciato il mondo pieno di errori, tale e quale, l'avevano trovato. La poesia Comus di Milton, scritta senza fini didattici, ha fatto molto per la riforma del mondo, ma il suo Tetrachordon e altri trattati, che erano stati scritti espressamente per riformarlo, non hanno fatto niente. Il nostro amico che ci critica è indubbiamente sincero nella sua convinzione che il mondo possa essere riformato grazie ai paragrafi dei giornali e noi gli auguriamo di tutto cuore che egli possa vivere abbastanza per vedere realizzata questa convinzione.

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Buoni consigli

Il mercato è sempre sovraccarico di buoni consigli; ma nessuno sa come questa merce sia abbondante così bene come il direttore di un giornale. A tutti i nostri amici che hanno esteso generosamente il loro aiuto in forma di consiglio, porgiamo i nostri sentiti ringraziamenti, e cercheremo di approfittare delle loro innumerevoli e contrastanti opinioni. Alcuni signori che non sono abbastanza importanti da fare un compromesso con se stessi, ci raccomandano di essere molto massacranti, e di non risparmiare né sesso né condizione sociale nella nostra critica; altri sono invece dell'opinione che la sola vera regola per un editore è di essere calmo, tranquillo e dignitoso; di studiare come tira il vento del favore popolare, e cercare di orientarci sempre secondo il vento. Un signore ci scrive una breve nota affrettata, con una calligrafia che fa pensare al pepe rosso, dicendo così: « Caro signore - Mi piace molto il vostro progetto; andate avanti. Tagliate via tutto; date scudisciate a destra e a sinistra; non lasciate che un solo errore resti in piedi ». C.G. P.S. C'è un solo autore di cui voi non dovete dir male – Mr…- perché è un amico mio». Un altro gentile amico ci ha mandato una lunga lettera, che contiene una serie di regole da osservare nello svolgere la nostra funzione di critici; ma se queste regole ci vengono suggerite per scherzo o sul serio, non possiamo determinarlo. Ma le stamperemo a vantaggio degli altri, che non possono, come noi, avere dei principi già stabiliti nel campo della critica letteraria. « Signore - Vedo che avete fondato una rivista di critica letteraria, e sicuro che abbiate bisogno di assistenza nella vostra impresa, vi mando le regole seguenti: che ho stilato io stesso insieme a un mio collega in un periodico quadrimestrale, che era stato progettato ma che non è mai stato pubblicato. Queste regole sono a vostra disposizione, e spero che vi possano essere utili ».

Moda Un abito da dandy

Abbiamo notato recentemente a Brooklin alcuni signori che indossavano una specie di soprabito corto, decorato ampiamente di cordoncini e di fermagli; e con delle maniche assurdamente lunghe, aperte fino all'altezza del gomito. È un vestito molto singolare, e sembra essere stato copiato pari pari dalla moda che prevalse in Inghilterra durante il regno di Enrico VII. I dandies a quell'epoca si rasavano accuratamente e portavano i capelli lunghi; i loro cappelli erano enormemente larghi e ornati di penne di vario colore, e la punta di ciascuna era ampiamente decorata di perle e di gioielli. I nostri dandies hanno lasciato cadere tutti questi ornamenti vistosi, e cominciano a farsi crescere la barba, che è indice di una grande raffinatezza. Ma le lunghe maniche

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pendenti suscitano il sospetto di qualche enormità anche maggiore che debba essersi introdotta.

La moda che uccide

Mr. Willis, nella sua conferenza sulla moda, parla delle assurdità della moda, sebbene la moda in sé sia tutt'altro che un'assurdità. Egli osserva il fatto curioso che solo la parte meno civile dell'umanità adotta una moda conveniente per i suoi bisogni, e la mantiene senza cambiarla. Ma egli non avanza nessuna congettura sulla causa di questo fatto singolare, il che davvero ci dispiace, perché non abbiamo il tempo di studiare a fondo la questione, e nessuna buona ragione si presenta a prima vista per spiegare la cosa. Forse la moda è solo la forma mutevole del Progresso che tende verso la perfezione, e se guardiamo ai figurini di moda negli ultimi cinque secoli, non possiamo arrivare a nessun'altra conclusione. Tuttavia i modelli dei vestiti per signora oggi non sono poi tanto meno stravaganti di quanto lo fossero cinquant'anni fa, quando Giorgio III fu costretto ad emanare un'ordinanza per frenare la loro crescente ridondanza, allo scopo di evitare la spesa di ingrandire il suo Palazzo; perché a quell'epoca, le donne di corte portavano gonne così larghe, che in una sala non ce ne entravano più di una dozzina senza creare disagio. Abbiamo l'esempio di una signora alla moda dell'epoca, ripresa dal volume « Galleria della Moda » pubblicato nel 1796. Tutto questo è abbastanza mostruoso; tuttavia solo 50 anni fa, le donne erano abbigliate in un modo tale, che sembrava più adatto a una burlesca mascherata, che non a seria occasione sociale; eppure questa era la moda prevalente alla fine del Settecento nelle più raffinate e nelle più modeste corti d'Europa. In paragone con quella moda d'allora non è poi così grottesca ed assurda come sembra. La parte peggiore resta sempre il vitino di vespa, e lo spreco mostruoso di stoffa nella confezione del vestito. Diamo un disegno di gonna a cupola come esempio del gusto di oggi, e come ognuno può constatare il disegno non è affatto esagerato, rispetto alla realtà, come di solito avviene nei dagherrotipi che riproducono i figurini di moda delle riviste per signora. In effetti, il disegno è stato ripreso dal vero, anche se la signora che ha fatto da modella non volendo essere riconosciuta dagli amici, nell'illustrazione gira le spalle al pubblico. Ben Johnson ha dato la più corretta definizione della moda che abbiamo mai vista nel suo saggio Discoverses: « Niente è di moda se non presenta qualche deformazione ». Questo non mi lascia niente da dire. Ma se qualcuno dovesse chiedersi che cosa sia effettivamente la moda, risponderemo che essa è essenzialmente deformazione. Non ci stanchiamo mai di qualsiasi cosa che è pura, o bella, o buona. Ma la gentilezza, l'altruismo, la nobiltà d'animo, la gioventù e l'amabilità non sono mai state « di moda ». Alzarsi presto, industriarsi, sopportare le avversità, seguire una semplice dieta, vestirsi in modo naturale e confortevole, non sono mai stati « di moda ». Ma la gente cosiddetta

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« alla moda », è bensì proprio l'opposto di tutto questo. Il duello è stato sempre considerato per esempio, ed è ancora, il « non plus ultra dello chic », E così è bere vino, andare a letto tardi, mangiare cibo malsano, e indossare vestiti che uccidono.

Dignità dei sarti

Il direttore del Mirror of Fashions cita il bizzarro saggio sull'estetica del vestito dal Blakwood's Magazine con grande emozione, e aggiunge questa osservazione: « Ci compiaciamo di notare il crescente favore con cui viene vista la nostra professione di sarti da scrittori importanti in ambedue gli emisferi ». Questo va benissimo. Suscita un ragionevole esprit de corps. Chi non è pronto a battersi per la sua professione, non andrà mai avanti nel suo lavoro. La ragione per cui un fabbricante di giacche e di calzoni debba esser considerato meno rispettabile di chi fa qualsiasi altra cosa per la comodità e la convenienza dell'umanità, è una cosa che non siamo mai riusciti a spiegare, né abbiamo mai avuto in proposito una risposta sod-disfacente. Non solo gli altri artigiani affettano di solito un certo disprezzo verso i sarti, ma anche gli uomini che non fanno niente tutto il giorno e vivono vergognosamente sul prodotto delle fatiche degli altri, parlano con sufficienza dei sarti, mentre devono tanto a loro per il loro stesso comfort. Se Mr. Scott, il direttore del Mirror of Fashions, usa le forbici con la stessa grazia e precisione con cui usa la penna, non dovremmo avere nessuna esitazione ad affidarci a lui per l'importante questione di un abbigliamento completo. Riportiamo il resto delle osservazioni di Mr. Scott, senza la minima ombra di risentimento per l'energia con cui egli fa pressioni sulla stampa. La sua difesa del direttore di un altro Mirror è fatta con molta bravura, e conferisce al suo articolo un fine tocco cavalleresco. Ma come disse una volta il povero Nick Biddle, quando aveva la banca al suo comando, è il privilegio della forza non aver paura di fare giustizia. Tuttavia Mr. Scott non dovrebbe prendersela tanto con i poveri scrittori; non tutti possono permettersi il lusso di vestir bene, e non si dovrebbe dimenticare che sotto il vestito logoro e trasandato di uno scrittore povero, batte spesso un cuore nobile e generoso. Scrive Mr. Scott: « È davvero un peccato che, a causa delle attuali condizioni del mercato, gli scrittori in genere siano così affetti dalla povertà, che non sono in grado di indossare dei vestiti di taglia; ma come è puerile da parte loro addossare la colpa di questa loro debolezza ai sarti, invece di utilizzare la loro capacità di associare idee per parlarne invece dei sarti come si deve... I giornalisti di solito hanno una mentalità utilitaria, nel senso che scrivono perché devono farlo, e gli argomenti su cui si documentano sono quelli che pagano, e il più delle volte è solo a questi argomenti che fanno giustizia; il che spiega per-ché il campo della moda di solito non venga trattato affatto dalla maggior parte degli scrittori, che essendo arrivati alla notorietà da origini povere e oscure, preferiscono

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lasciare questo argomento di cui non si intendono a coloro che sono stati allevati con più agiatezza ed eleganza di loro durante gli anni di scuola, o a quelli che hanno talenti del genere più brillante e originale. Per questi fatti, non c'è da stupirsi se gli scrittori in genere, per pura invidia di chi è vestito meglio di loro, contribuiscono per parte loro a confermare il pregiudizio diffuso sulla posizione sociale della nostra categoria. Tuttavia è verità irrefutabile, che la scoperta di una nuova tendenza del gusto nel campo dei sentimenti, e il lancio di un nuovo tipo di abbigliamento outré, sono dettati dallo stesso genere di impulso, sia che si tratti di una ingegnosa invenzione o di una passione dettata dall'entusiasmo. Non c'è nessun campo d'attività, che richieda sentimenti così affini, allo spirito poetico, come il nostro mestiere. Non meno dei pittori e degli scultori, noi sarti non imitiamo la natura, ma creiamo ex novo o modifichiamo il suo aspetto. Concludiamo così che il gusto nella scelta delle idee e nel modo di vestire richiede un esercizio della mente, simile a quello di chi inventa un nuovo stile di abbigliamento grazie a un cambiamento originale nel taglio e nella rifinitura del vestito ». Il paragone di Mr. Scott del sarto col poeta e il pittore rientra nel più alto stile artistico. Non è esattamente il parallelo tra la poesia e la pittura suggerito da Dryden, ma è qualcosa di simile. Quando poi Mr. Scott spiega la mancanza di competenza della « maggior parte degli scrittori » nel campo della moda col fatto che « essi provengono da origini povere e oscure » rivela un indubbio tocco di alata fantasia. Tuttavia non possiamo fare a meno di osservare, che la maggior parte degli scrittori, a veder bene, piuttosto che provenire dalla povertà e dalla oscurità, ci sono precipitati.

L'uomo alla moda Guardando questo volume con un forte sentimento di pregiudizio, dovuto ad una certa aria di imbonimento del pubblico, insita nel titolo stesso (Consigli a un giovane gentiluomo prima di entrare in società, dell? Autore delle « Regole dell'Etichetta» Lea and Blanchard, Philadelphia) la nostra attenzione è stata captata dalle stesse frasi iniziali, e prima di aver letto la seconda pagina abbiamo riconosciuto la mano di un maestro. Il libro è pieno di saggezza mondana, spesso profonda; è il prodotto di una mente vigorosa e colta, con una eccezionale padronanza dell'argomento e la capacità di discuterla con amore. Le verità principali che qui sono inculcate, sono a nostro giudizio tanto più importanti, in quanto, essendo per la loro stessa natura limitate (almeno in apparenza) a cose frivole e superficiali, il mondo in generale tende a condividere in proposito la severa opinione negativa, espressa così spesso dalle persone gravi ed istruite, che le definiscono « non essenziali ». Ma in questo caso sfidiamo l'opinione del tribunale e non avalleremo nessun giudizio che venga dalle cosiddette persone « gravi e istruite ». Pour savoir ce qu'il est (Dieu) il faut étre Dieu mème, dice il Barone di Bielfild, parlando di un più augusto soggetto; ma lo spirito della sua osservazione si può applicare ampiamente

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alla questione in esame. Per farsi un'idea giusta dell'importanza che ha il nostro rapporto abituale con la gente nell'economia della vita e per sviluppare un atteggiamento di attenta considerazione per tutto ciò che riguarda la formazione e il raffinamento delle nostre abitudini di comportamento in società, dobbiamo già essere stati degli uomini di mondo, aver già sentito tutte le miserie di una mauvaise honte, e aver gustato tutta la rara ebbrezza, che deriva dalla liberazione dei suoi legami. Sui mali di un'esistenza assolutamente asociale è inutile fare commenti. Chi, in qualsiasi periodo della sua vita è entrato nel giusto spirito di un ambiente sociale elevato, si accorgerà che anche un distacco temporaneo dalle sue convenzioni (dovuto, per esempio, a una necessità urgente, o derivato dal disgusto, o cercato per severi propositi di studio) è seguito da seri inconvenienti e disagi, spesso da pungenti umiliazioni. Succede a volte, che un uomo di studi, uso a frequentare la vita mondana dell'alta società, arrivi a convincersi seriamente che la sua natura non è adatta per una esistenza del genere, e che praticare l'alta società ha un'influenza snervante e degradante sulle sue facoltà intellettuali, se non sulla intera organizzazione del suo essere morale. Dopo essersi raccolto nella concentrazione del lavoro mentale, accumulando nel suo ritiro una forza immaginaria, questo studioso solitario, alla fine, con uno sforzo lungo e deliberato, si decide a fare un passo per rientrare nella vita attiva e per riprendere contatti col mondo: ma questo passo, dopo il lungo ostracismo volontario, è debole e fatto in modo irresoluto. Solo quando riesce a compiere finalmente qualche passo in avanti in questa direzione mondana, lo studioso solitario si rende conto della sua debolezza e della sua follia, e riconosce l'errore commesso con la sua pretesa di isolarsi dalla vita sociale. La volontà che dovrebbe vivificare le sue forze e dargli la fermezza per decidere, è abbattuta e depressa. Allora, ma solo allora si accorge del suo sbaglio, e cerca di rimediarvi, ma ormai è per lo più troppo tardi. Non possiamo nominare nessun libro esistente, in cui sia meglio esemplificata la verità di opinioni come questa, di quest'opera senza pretese che è di fronte a noi. Sotto ogni aspetto è un trattato di valore, e molto ben scritto. Tra i precetti particolari, che formano il corpo principale del trattato, si può trovare ben poco che non ci fosse già nelle Lettere di Lord Chesterfield, ma senza affettare il cinismo spietato e offensivo di quegli scritti dell'aristocratico inglese, molto discutibili sotto il profilo morale, quest'opera americana eguaglia il modello straniero in tutti i punti importanti - per vigore di pensiero e di dizione, per acume, per praticità, e per la evidente dimostrazione di una vasta e profonda conoscenza mondana.

I canoni della Buona Educazione, - o il Manuale dell'Uomo alla moda - (Lea and Blanchard, Philadelphia)

Questo piccolo libro è una vera curiosità, nel suo genere, anzi possiamo dire senz'altro che c'è qualcosa di così singolare in quest'opera, che siamo stati spinti a leggerlo tutto

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molto attentamente, con l'idea di risolvere il mistero che lo avvolge. L'autore è lo stesso che ha scritto le Regole dell'etichetta, e il pregevole trattato Consigli a un giovane gentiluomo, un volume che abbiamo già lodato con un certo calore in un numero precedente di questa rivista. Riguardo ai Canoni della Buona Educazione, il lettore colto e schizzinoso a cui capitasse tra le mani, sarebbe portato a buttarlo da parte con disprezzo, appena visto il titolo. Questo, diciamo, sarebbe il suo primo impulso: ma se ha la pazienza di dare una scorsa alla prefazione, il suo occhio sarà colpito da una certa aria di letterarietà (ci si permette di coniare un neologismo bizzarro per una bizzarra creazione) che pervade e rinvigorisce le pagine. Pur notando non senza sorpresa questa discrepanza tra la prefazione e il titolo (cioè tra l'apparente raffinatezza dell'una e il carattere orribilmente commerciale dell'altro, concepito ad captandum, cioè ad attirare l'attenzione del grande pubblico) il lettore sarà indotto a finire fino in fondo il libro, non solo, ma - possiamo garantirlo con sicurezza -, resterà completamente affascinato e ammirato prima di arrivare alla fine. Ciò non toglie che, a lettura ultimata, il critico non resti piuttosto sconcertato, quanto ad esprimere un giudizio equanime sui meriti o demeriti del libro. Ma alla fine, non c'è dubbio che il critico stesso terminerà il suo esame, specie se deve decidere in fretta, con una approvazione cordiale e persino entusiasta. La verità è che il volume abbonda di cose buone. Possiamo dire con certezza che, in uno spazio così piccolo, non abbiamo mai trovato altrettanto scintillio di autentica arguzia e intelligenza, così ben fusa con l'acume d'osservazione e la profondità di pensiero dello studioso di razza; un pensiero, per di più, che a volte viene espresso in modo luminoso e logico, e persino con squisita eleganza di stile. Tuttavia la prima obiezione che sorge nella mente del critico è che c'è una sovrabbondanza eccessiva di cose di prima qualità, che non può fare a meno di suscitare qualche sospetto. Un'altra riserva può essere fatta a proposito del modo, non sempre accurato, con cui certe battute ed idee, derivate da altre fonti, sono state adattate nel testo. Si possono notare inoltre certe Niaseries di sentimento, che mal si intonano con il timbro generale del libro, e alla fine, anche una certa alterazione e ricucitura del linguaggio; vogliamo dire le tracce, cioè, di un eccessivo Limae? Labor. Tutte queste mende fanno sì che si è portati, in base ad una attenta rilettura, a ridimensionare l'applauso incondizionato sul libro, fatto in base alla prima impressione, e a sentirsi persino un po' ingannati dall'abilità che l'autore spaccia per bravura. Perciò mentre in un certo senso non si può negare che l'opera, a conti fatti, così come si presenta, ha un certo valore, si può dire tuttavia, senza esitazione, questo: il libro è la produzione un po' troppo elaborata di una persona di mezza cultura, divorata da una ambizione sfrenata di apparire come un uomo di spirito, un wit e un savant, e che, senza badare molto per il sottile, quanto al modo di ottenere una reputazione del genere, non si è fatto scrupolo di ritagliare, appuntare, e lardellare sistematicamente il suo scritto, facendo una specie di collage, con gli scritti di altri; spacciando per farina del suo sacco l'arguzia, l'intelligenza, la saggezza e la cultura, di Horace Walpole, Bolingbroke, Chesterfield,

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Bacone, Burton e Burdon, persino a Bulwer e D'Ismeu, - magari con passi presi di tanto in tanto (forse attraverso citazioni di seconda mano) dai ricchi forzieri di Seneca, Machiavelli, Montaigne, La Rochefoucault, dell'autore delle Manières de bien penser, e di Biefield, il tedesco che scrisse in francese Le premier traité de l'erudition universelle. Ci si perdoni anche per qualche altra citazione e poi basta: il libro, oltre che da questi autori già nominati, ha attinto a piene mani da quella miniera inesauribile che sono le Lettres edifiantes et curieuses, dalle Memorie letterarie di Sellengré, dai Melanges litteraires di Suard e André, e dalle Pieces interessantes et peu communes di La Place. L'interpretazione che abbiamo data è la più ovvia, anzi la sola possibile, che si possa dare del volume, che è adesso davanti a noi, e degli altri sforzi compiuti dalla stessa penna. Tutte le opere di questo autore tradiscono il diligente adattamento dei frutti dell'ingegno degli altri, piuttosto che rivelare il talento originale del gentiluomo di alta cultura, e dell'autentico letterato. La vera erudizione - un termine con cui qui vogliamo semplicemente indicare molte letture di argomenti e di autori diversi - si rivela in modo indubitabile - e acquista una connotazione positiva - solo nei suoi risultati ultimi e globali, cioè quando porta a dire qualcosa di originale. Il semplice fatto di raggruppare un insieme eterogeneo di cose fini e intelligenti, tratte da una serie molteplice di opere rare, o anche la capacità, apparentemente naturale, di intessere tante citazioni diverse in una composizione, che in qualche modo riecheggia i sentimenti e gli stili di queste opere stesse - è qualcosa che può essere effettuato da qualsiasi persona, anche di modeste cognizioni, purché sia dotata di una certa abilità e non sia troppo indolente - e che abbia accesso a qualsiasi collezione, neppure troppo specializzata di buoni libri. La sola obiezione che può essere fatta alla severità del nostro giudizio si fonda sulla pulizia esteriore dello stile. Ma abbiamo già accennato alle tracce del Limae Labor; e possiamo dire soltanto che questo lavoro di lima è stato fatto con notevole abilità. Senza dubbio, il volume è stato sottoposto a una minuta supervisione e correzione da parte di qualche persona, che l'abitudine e l'educazione hanno reso molto competente per questo compito. Ci siamo dilungati sulla effettiva originalità del testo I Canoni della Buona Educazione e sulle sue fonti, perché delle compilazioni così ingegnose non sono affatto comuni. Abbiamo detto, poco, tuttavia, per ciò che riguarda il libro, così com'è, e questo poco è stato in suo favore. La pubblicazione sarà letta con interesse, e si può dire anche, in generale, con profitto. Alcune delle niaseries a cui abbiamo accennato sono abbastanza curiose - tanto più che sono stranamente dissonanti rispetto allo spirito che l'opera nel suo complesso pretende di avere. Ci si viene a dire, per esempio, che l'autore ha usato nel libro le parole « signora » e « signore » invece dei termini « donna » e « uomo », che, a suo dire, « sono espressioni più corrette, e d'uso più comune nei migliori ambienti sociali ». Oppure ci vengono esibite queste altre perle: « Quando si depone il proprio cappello in una stanza, o in una panchina in un luogo pubblico, si dovrebbe aver cura di mettere giù la parte scoperta, in modo da non far vedere quella parte del cuoio che può esser

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stata insudiciata dall'unto dei capelli ». ... « Non ci si dovrebbe mai presentare a un grande ricevimento di sera senza pettinarsi bene e arricciarsi i capelli » ... « Mentre le classi inferiori, come si può vedere se ci si prende la briga di notarlo, quando parlano alle donne di loro conoscenza, si limitano, in segno di deferenza, a premere appena l'orlo del cappello senza toglierlo, invece il vero gentiluomo dovrebbe aver l'attenzione, quando saluta una signora di rango o un gentiluomo distinto, di togliersi completamente il cappello, e fargli descrivere una giravolta di almeno venti gradi, in segno di omaggio e cortesia ». L'effetto a così fini consigli può essere facilmente immaginato. Possiamo star sicuri che saranno applicati dai Dandies e dagli elegantoni della città, nel senso di fare esattamente il contrario, come è sicuro che questi damerini hanno del sale in zucca e non si lasciano certo abbindolare. Data la sua aspirazione a distinguersi sempre dalla massa nell'abbigliamento e nelle maniere, il dandy (una categoria di bellimbusti e di spiriti originali troppo spesso denigrata) si guarderà bene d'or'innanzi dall'apostrofare qualcuno coi termini desueti e perentori di « signora » o « signore », o di farsi arricciare i capelli, o di mettere il cappello sulla tavola con l'orlo in basso, o dal fare qualsiasi altro atto di questo genere, che rientra nelle norme della convenzionale cortesia, perché non sorga il sospetto che abbia derivato le sue buone maniere da una fonte piuttosto cor-rente come il Canone di Buone Maniere. Avremo una rivoluzione in questo campo - una rivoluzione delle buone maniere, a cui si potrà rimediare soltanto con un altro volume del genere. Quanto all'autore, se dovesse scriverlo - non gli auguriamo un fato peggiore di quello, di essere condannato alla lettura e rilettura del libro stesso, finché non sarà in grado di far fare al suo cappello una delle buffe giravolte che consiglia, facendogli descrivere cioè un cerchio esat-tamente di novanta gradi.

Notiziari scientifici Esperimenti aerostatici Si annuncia sui giornali parigini che un certo Garnerin sta mettendo a punto un pallone aerostatico alla École Militaire, che dovrebbe realizzare l'obiettivo di compiere la navigazione aerea in ogni direzione sotto il controllo del pilota. Da ciascun lato di una navicella (che serve da carrozza) sono piazzati 4 assi, qualcosa di simile alle pale di un mulino a vento, che il signor Garnerin muove con l'aiuto di una macchina all'interno, « il segreto della quale è noto solo a lui ». La resistenza fatta dall'aria quando è colpita da uno degli assi « agisce sul pallone e lo porta avanti come un uccello in volo - scrive uno dei giornali -. Garnerin ha già fatto diversi esperimenti che sono andati tutti bene ». Questa affermazione non è niente di più che puro buonsenso. È stato dimostrato più di una volta a priori che il controllo di un pallone nella maniera qui descritta è impossibile. Fra gli uomini di scienza, quest'idea viene catalogata alla stregua di progetti come la quadratura del cerchio o la dottrina del moto perpetuo. È più che possibile che l'ordigno, di cui si parla nei giornali di Parigi, sia lo stesso di Mr. Green, l'aeronauta di

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Londra, per mezzo del quale quel generoso gentiluomo si propone, non già di dirigere il corso orizzontale del pallone, ma soltanto di regolare la sua ascesa. Il congegno di Mr. Green è composto di due ventagli o pale di legno a mo' di eliche, attaccate a un perno che passa attraverso il fondo della navicella. I ventagli sono di fattura longitudinale, e sono fìssati su un asse al centro del quale è fissato il perno, alla maniera di un mulino a vento, munito solo di due ali o braccia, con le pale che presentano orizzontalmente un certo angolo nella direzione di movimento. Un giornale londinese lo descrive così: « un pallone in miniatura del diametro di circa tre metri è stato riempito di gas da carbone: a questo sono stati attaccati il cerchione, le reti e la navicella, e nella navicella è stato inserito un pezzo di meccanismo a molla per muovere i ventagli. Il pallone così fu tenuto in equilibrio: grazie a uno strumento apposito fissato nella navicella, per tenerlo sospeso in aria, senza permettergli di ascendere o di tendere ad affondare. Mr. Green quindi premette un bottone nel meccanismo, che impresse un moto rotatorio ai ventagli, dopo di che l'ordigno cominciò a salire a poco a poco verso il soffitto, da cui continuò a rimbalzare finché il meccanismo ad orologeria non finì la carica. Privato di questo aiuto, il pallone cadde immediatamente a terra. Quindi fu fatto l'esperimento opposto a questo. Il pallone prima fu sollevato nell'aria e messo in equilibrio. Un moto simile fu impartito ai ventagli, l'azione dei quali in questo caso tuttavia era rovesciata, e il pallone fu immediatamente spinto a terra dalle loro forze. Un effetto anche più interessante venne quindi mostrato. Il pallone, con la fune guida attaccata, fu messo in equilibrio come prima, ma dopo avere fissato un piccolo peso d'ottone al termine della fune stessa. I ventagli quindi furono tolti dal fondo della navicella e messi accanto ad essa, per cui la loro azione divenne verticale. Appena venne comunicato il moto, il pallone cominciò ad oscillare orizzontalmente, trascinandosi dietro la fune guida con il peso che strisciava sul pavimento, e continuò a fare così finché il meccanismo si fermò, quando divenne stazionario. Questi esperimenti furono compiuti spesso con pieno successo ». La fune guida di cui si parla qui è una invenzione descritta molto bene dallo stesso Mr. Green nel numero di marzo del « Polithecnichal Magazine ». È un altro passo in avanti nel tentativo di regolare l'ascensione, un punto molto importante. Ci sono molte cause che contribuiscono continuamente nel corso dell'operazione a esaurire la scorta di gas, ma nessuna di queste cause è più potente della variazione di distanza dalla Terra. Quando il pallone sale molto in altezza, in uno strato rarefatto dell'atmosfera, il gas si espande in modo eccessivo e deve essere lasciato uscire per impedire un'esplosione. Quando poi si incontrano con una nuvola, la seta e il cordone diventano saturi di umidità, e l'intero macchinario cade rapidamente a terra. Allora bisogna buttar via la zavorra, e quando questo si ripete una volta o due, rende impossibile per l'aeronauta di proseguire il viaggio. La fune guida per rimediare a questo inconveniente deve essere costituita da una corda molto lunga, avvolta intorno ad un argano, e diversi piccoli buglioli sistemati all'estremità più bassa, congegnati in modo da agire sia come galleggianti, capaci di

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diminuire il peso del pallone, quando il pallone ripara sul mare, o come una zavorra in più per prendere e per tenere l'acqua. Mr. Green parla anche di una draga, con cui il movimento del pallone può essere ritardato quando è in aria. L'inventore afferma anche con assoluta sicurezza che esiste la possibilità di attraversare l'Atlantico in pallone e noi non abbiamo alcun dubbio che egli riuscirà in breve a realizzare il suo progetto. Egli sostiene che una corrente d'aria soffia immancabilmente da Nord Ovest a un'altezza che supera i 10.000 piedi, e che in centinaia di esperimenti non gli è mai successo una sola volta di osservare che accadesse diversamente.

La lastra di specchi In una fabbrica di Saint Gobain, vicino Parigi, è stata ultimamente fabbricata una lamina di vetro di un solo pezzo che misura 16 piedi e 3 pollici di altezza, e 11 piedi e 6 pollici di larghezza. Gli specchi di larghezza ridicolmente eccessiva che piacciono tanto a noi americani sono stati importati e soprattutto dall'Inghilterra. La ditta Chance and Co. ne esporta ogni anno una grande quantità e trova in questo il suo tornaconto, nonostante i pesanti dazi imposti dal governo britannico. La ditta Chance and Co. paga ogni settimana non meno di 5.000 sterline di dogana.

Passaggi a livello Un certo T. Lambert di Storkron presso Toss in Inghilterra ha inventato un ingegnoso passaggio a livello da usare agli incroci delle linee ferroviarie. Questo passaggio a livello gira su un asse centrale ed è manovrato facilmente da una sola persona. Quando è aperto, impedisce a qualsiasi persona di passare sulla strada. È fornito di un alto semaforo circolare che contiene una lampada che annuncia pericolo di notte. Il suo effetto generale tende alla protezione della vita e della proprietà nei passaggi a livello, permettendo nello stesso tempo una maggiore possibilità di attraversare la strada.

Nuovi tipi di cannone Recentemente sono stati fatti degli esperimenti con il cannone a bomba di Mr. Coachran nell'arsenale di Washington e l'efficacia dell'invenzione è stata provata con successo. Le prime 32 scariche sono state fatte in quattro minuti. In un altro esperimento sono state effettuate 17 scariche in due minuti e venti secondi. In un terzo ne sono state fatte 8 in un minuto. In un quarto esperimento 3 in un terzo di minuto. Questo cannone può essere manovrato prontamente da sei uomini, mentre per i cannoni ordinari se ne richiedono undici. La carica viene introdotta senza radazza. Può

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essere sparata almeno otto volte più rapidamente dei cannoni comuni. Non c'è contraccolpo, e naturalmente non c'è necessità di mettere la retrocarica, e 100 colpi in rapida successione non causano un riscaldamento eccessivo. Questi sono i principali vantaggi di questo nuovo tipo di cannone, ma ce ne sono molti altri che qui non possiamo specificare.

Velocità delle palle di cannone È stato scoperto, in seguito ad un recente esperimento, che un cannone che spara pezzi da 13 libbre con una carica ordinaria, imprime alla palla una spinta di 506 yard nel primo secondo, e che aumentando il peso, imprimerà una spinta di 817 yard nello stesso intervallo.

Riproduzione di medaglie con mezzi galvanici Si è già parlato del processo di riproduzione di medaglie e di stampe per mezzo del galvanismo, del professor Iacobi. « The American Repertory of Arts, Sciences and Manifacturers » (un eccellentissimo periodico la cui pubblicazione è stata iniziata ultimamente a New York dal prof. G.C. Mopen), osserva che alcuni scienziati di quella città hanno ripetuto con successo gli esperimenti di Iacobi. L'apparato galvanico è molto semplice e con il suo aiuto il rame viene precipitato con la sua soluzione come solfato, in una forma metallica sulla superficie che deve essere copiata, facendo un perfetto stampo o impressione. Questa scoperta è di grande importanza.

Miglioramenti nel dagherrotipo Mr. A.S. Volcott di New York ha quasi rivoluzionato il processo del dagherrotipo e portato l'arte fotogenica alla sua perfezione. L'inventore, come si sa, non era riuscito a ottenere una riproduzione esatta della vita, e di fatto pochi oggetti venivano rappresentati in modo perfetto, a meno che non fossero in bianco assoluto e in piena luce solare. Adesso, grazie ad uno specchio concavo al posto delle lenti ordinarie, Mr. Volcott è riuscito a riprodurre miniature dal soggetto vivente con assoluta esattezza e in un brevissimo spazio di tempo.

Nuove cartiere Questa è forse la macchina più straordinaria che sia stata mai inventata. Grazie a questo macchinario i comuni stracci di strada possono essere trasformati con un solo processo in un volume stampato tagliato in fogli e pronto per il rilegatore. Il dottor Quin, in una conferenza sulle arti meccaniche al New York Mechanics Institute, ha osservato giustamente, riguardo a questa invenzione che è opera di Mr. Trench, che una persona potrebbe « gettare dentro il macchinario la sua camicia e vederla venir fuori all'altro capo nella forma del libro stampato di Robinson Crusoe ». Mr. Trench ha depositato,

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nelle stanze del Mechanics Institute, un solo foglio di carta di grande ampiezza che contiene in sé sei copie del dizionario della pronuncia di Town. Egli sostiene che se è necessario può fabbricare un foglio di carta della lunghezza di un miglio.

Tuono È opinione di Mr. Araco che il tuono non si sente mai in alto mare o nelle isole che vanno al di là di 75 gradi di latitudine Nord, e ritiene che questa osservazione sia applicabile ai continenti. Nessuna ragione viene data per spiegare il fenomeno. L'opinione in se stessa tuttavia si basa su una grande varietà di interessanti ricerche.

Il motore ad aria compressa Si è già accennato alla supposta invenzione di un certo Mr. Biner, del New Jersey, che sosteneva di poter utilizzare l'aria compressa come energia motoria, e abbiamo parlato con molte riserve del tentativo. Appariva ovvio che dall'aria compressa non poteva essere sprigionata maggior energia di quanta era impiegata nella sua compressione, senza la frizione della macchina stessa. Sebbene Mr. Biner pensi di superare questa difficoltà radicale (che coinvolge un principio fondamentale di fìsica), tuttavia non vuole essere considerato un inventore, perché troviamo che la stessa cosa è stata tentata tempo fa da M. Oudin, che ha ottenuto per questa invenzione un brevetto d'importazione nel Belgio.

Annuari Nella rivista Art Union or Journal of Five Arts si afferma che nei 197 anni in cui sono stati pubblicati annuari in Inghilterra, sette milioni di dollari sono stati spesi per questo. La rivista offre un prontuario da cui appare che gli autori delle stampe hanno riscosso la maggior parte dei compensi. Le somme pagate agli incisori sono esattamente il doppio di quelle pagate ai poveri autori di articoli. I rilegatori, che vengono subito dopo gli scrittori, sono stati pagati anche meno.

L'aerostatica Qualche tempo fa Mr. Charles Green, uno scienziato inglese, ha pubblicato una dichiarazione sulle ragioni per cui ritiene fondata la sua asserzione sulla possibilità di attraversare l'Atlantico da New York all'Europa. Ci si può certamente fidare dei fatti di cui si parla; perché essi sono il risultato di osservazioni fatte nel corso di 275 ascensioni in pallone. Da parte nostra, lungi dal contraddire una sola parola di quanto asserisce l'aeronauta, dobbiamo aggiungere che già da molto tempo ci siamo chiesti perché l'aeronauta americano Wise, non abbia ancora fatto la traversata dell'Atlantico fino all'Europa,

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un'impresa che non presenta ormai nessuna difficoltà. L'idrogeno puro deve essere scartato, in quanto è troppo sottile per poter essere trattenuto, dati i nostri attuali mezzi a disposizione. I palloni gonfiati con idrogeno carburato (con comune gas da carbone) possono trattenere il pallone gonfio abbastanza bene per un lungo periodo. Mr. Green sostiene che egli ha fatto trasportare del gas di questo genere in piccoli palloni di rifornimento per quello grande, per una distanza di 5 o 6 miglia; e noi osserviamo (cosa che Mr. Green non ha fatto), che a Vienna, secondo un semplice metodo inventato da M.F. Dechionet, il gas viene trasportato ogni giorno in bombole ermeticamente sigillate, su dei carri costruiti appositamente a questo scopo, dalla fabbrica a tutte le parti della città. Perché le nostre compagnie del gas non si servono di questo sistema? Quale incalcolabile risparmio sarebbe l'instaurazione di tubature ecc.? Quanto a fare un viaggio aerostatico dall'America all'Europa i dati presentati dall'aeronauta sono chiari e basati su un solido fondamento. Anzitutto egli ha viaggiato per 2900 miglia con la stessa scorta di gas e avrebbe potuto continuare ad usarla per altri quattro mesi, se fosse stato necessario. In secondo luogo, è stato dimostrato che una corrente d'aria passa continuamente intorno alla Terra a una distanza stabilita dalla superfìcie in una direzione Ovest-Nord-Ovest. In terzo luogo, un pallone come il famoso aerostato Nassau può trasportare facilmente tre persone con le provviste e l'equipaggiamento necessario per quattro mesi.

Congetture sulla scoperta di nuovi pianeti Per mezzo di cannocchiali appena inventati dal Conte de Cuppis, un osservatore può guardare al sole, senza soffrire di alcun inconveniente per i suoi raggi. Il disco appare di un bianco perfetto e tutti gli oggetti del firmamento hanno uguale trasparenza. Con l'aiuto di questo nuovo telescopio, il Conte ha osservato sulla faccia del sole una piccola macchia nera, completamente libera dalla penombra, di forma sferica, che era avanzata sopra il disco per sette minuti. Ripetute osservazioni lo hanno convinto che la macchia nera nel frattempo era avanzata verso l'orlo esteriore del sole di due minuti e trenta secondi. Quindi scomparve. Sembra che tutti gli astronomi siano d'accordo che l'oggetto è un piccolo pianeta finora non scoperto, che passava sul disco del sole nel momento dell'osservazione. La sua figura perfettamente rotonda, il suo colore nero, la piccolezza del suo diametro, il suo moto e l'assenza di penombra giustificano questa congettura. L'avvenimento ò della più grande importanza nel mondo astronomico e a dire il vero lo è da qualsiasi punto di vista. Un dodicesimo pianeta è stato aggiunto al nostro sistema solare. Non c'è dubbio che avrà il nome del suo scopritore, de Cuppis.

Le Piramidi È stata fatta una scoperta, nelle vicinanze di questi monumenti, di un gran numero di appartamenti e cavità che comunicano l'una con l'altra. Anche a una distanza di molte miglia nel deserto sono stati scoperti fondamenti di piramidi decadute i cui stessi

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baluardi di granito si sono trasformati in polvere. Chi potrà dire la vasta antichità di questi arcaici relitti! Si ammette generalmente che le piramidi che stanno solide in piedi attorno al Cairo risalgano a 4 o 5 mila anni fa. Ci deve essere qualche errore nella loro cronologia.

Miglioramenti nei dagherrotipi Numerosi miglioramenti sono stati fatti recentemente nella bella arte della fotogenia. Il barone Seguierre ha mostrato uno strumento costruito da lui stesso, con molte ingegnose modifiche che hanno come obiettivo la riduzione dell'intero apparato in volume e peso e una semplificazione sotto altri aspetti del macchinario in se stesso. Si può fare a meno qui di citare alcune condizioni che sono state dichiarate necessarie al successo dell'operazione. È probabile adesso che le operazioni di fotogenia possano essere rese praticabili in aperta campagna, anche quelle di carattere particolarmente sofisticato che attualmente sembrano richiedere la protezione contro una luce troppo forte. M. Came ha costruito una lente obiettiva allo scopo di realizzare l'immagine ottenuta nel dagherrotipo. Quest'immagine si presenta ora rovesciata, che distrugge ogni resemblance.

Progressi della fotografia L'Abbé Maigret ha cercato, in collaborazione con Le Soleil (un nome veramente a propos), di introdurre la luce del gas a ossigeno e idrogeno come il principio di illuminazione per gli oggetti che si vogliono rappresentare in fotografia. M. Bayor sembra essere riuscito perfettamente a riprendere le impressioni sulla carta. M. Fox Talbot in Inghilterra, ha fatto la stessa cosa. In America noi non siamo rimasti da parte nostra con le mani in mano. È stato accertato che, al posto di costose combinazioni di lenti di Daguere (l'inventore del dagherrotipo), basta una sola lente speciale per produrre un risultato esatto e brillante. Noi americani abbiamo scoperto che si può fare a meno dell'acido nitrico nella fotogenia e nella litografia. Il processo è facilitato, perché l'uso dell'acido era necessario nei punti più delicati della lastra. Quando non è applicato in moda uguale il colore d'oro non è uniforme.

Raggi rossi Nella vita di Peyrac di Gossendi il fenomeno dei raggi rossi che così spesso ha suscitato l'attenzione delle persone viene spiegato in modo molto plausibile. All'inizio di luglio 1608 caddero grandi gocce di liquido, allora chiamata la pioggia di sangue. Il fenomeno fu osservato nella vicinanza di……in Francia sulle pareti di ville e città. M. Peirese trovò una crisalide di notevole volume e forma rinchiusa in una scatola. Poi non ci pensò più finché sentendo un ronzio dentro la scatola scoprì che la crisalide si

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era trasformata in farfalla lasciando sulla scatola una macchia rossa delle dimensioni di un accendino. Tutto questo si suppone sia accaduto nello stesso periodo in cui cadde la pioggia di sangue, quando un gran numero di farfalle volarono in ogni direzione. Egli concluse che « le gocce di sangue » non erano che materia escrementizia secreta dagli insetti. Guardando più attentamente le gocce non si trovavano sulle superfici esterne degli oggetti, ma generalmente erano nascoste in cavità dove gli insetti potevano nidifi-care. Egli notò anche che le gocce si potevano trovare sulle pareti di quelle case che erano vicine ai campi e non sulle parti più elevate di esse, ma all'altezza a cui le farfalle erano abituate a volare. La comune farfalla in Inghilterra deposita un fluido rosso che è sostanzialmente uguale a quello descritto da Peyrac.

Ingegnosa invenzione Un paio di pattini, inventati da William Wallace, di Northern Arbour, orologiaio, rivelano l'abilità scientifica e la pazienza di questo gentiluomo. Il congegno di questa piccola locomotiva è costituito in modo che è ugualmente utile per pattinare sulla pista o su un marciapiede (un marciapiede imbandierato, per esempio). Consiste di due lastre perpendicolari di ferro, con dei pezzi inseriti tra loro, per permettere un libero moto rotatorio per tre ruote, nella traiettoria aperta dal piede. Queste ruote girano nell'atto di pattinare e con l'aggiunta di una striscia orizzontale di legno, solleva la suola del piede sopra la superficie. C'è anche una grande ruota alla fine del dito del piede, con attaccata una ruota a scatto, o dente di arresto all'esterno di una delle piastre perpendicolari, allo scopo di impedire a un piede di tornare indietro, mentre l'altro va avanti. Non c'è nulla in sé di molto nuovo nella invenzione di Mr. Wallace; quand'ero ragazzo ho usato un paio di pattini fatti come quelli descritti qui sopra. Un certo Mr. Perrine per scommessa provò a pattinare attraverso i giardini delle Tuileries, a Parigi, nel mese di agosto 1829, applicandosi un tipo di pattini fatti in maniera simile a quella di Mr. Wallace. La famiglia Rovel, negli ultimi venni anni, ha usato lo stesso tipo di pattini in uno dei suoi ingegnosi drammi, I pattini di Wilma.

Scienza Se l'astronomo Arago dovesse mai vedere una copia di quest'opera, susciterebbe in lui altrettanta sorpresa quanto l'ultima cometa, che lo colse mentre disegnava una mappa celeste. Non c'è dubbio che si tratti di un libro eccellente di divulgazione popolare, in quanto farà conoscere, a coloro che non sanno molto di astronomia, molte grandi verità che sarà loro utile conoscere. Circa metà dell'opera è frutta della penna di Lardner, mentre l'autore principale figura Arago. Dato però che i pretesi scritti di Arago sono tratti da appunti, presi senza che il famoso astronomo li approvasse, non è corretto farli passare come opera sua. Gli

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editori danno una spiegazione perfettamente soddisfacente del modo in cui il materiale è stato ottenuto, e si giustificano di averlo pubblicato, con una scusa molto comune, dicendo cioè: « se non l'avessimo pubblicato noi, l'avrebbe fatto qualcun altro ». Forse siamo un po' troppo severi nel fare obiezione al malcostume diffuso di pubblicare le opere di un autore senza il suo permesso, ma sono così pochi quelli che in questo Paese condividono la nostra severità, che ci si può perdonare se eccediamo un po' in questo senso. Arago pone due domande nella sua conferenza sulle comete, ad una delle quali risponde soltanto. « Se la luna è una vecchia cometa, dove è andata a finire la sua coda? » « Che cosa succederebbe se la terra diventasse il satellite di una cometa? ». In risposta a quest'ultima supposizione, Arago dissipa i timori dei Terrestri, con una teoria molto ingegnosa, secondo cui (contrariamente all'ipotesi che la terra di volta in volta sia stata vetrificata, liquefatta e congelata, nel suo moto alterno di avvicinamento e di allontanamento dal sole), la sua condizione non sarebbe molto cambiata sotto l'aspetto materiale rispetto al suo stato originario, e che al suo apelio e al suo perifelio, la sua temperatura non sarebbe variata molto rispetto a quella di adesso. « Non c'è niente, perciò, da provare (così Lardner sostiene che Arago abbia detto, e forse l'ha detto davvero), per ciò che riguarda la mia ipotesi che, se la terra dovesse diventare il satellite di una cometa, la razza umana deve necessariamente perire per i cambiamenti di temperatura ». Una teoria veramente consolante; perché sebbene noi terrestri possiamo non restare soddisfatti di una posizione così secondaria, quale il nostro pianeta verrebbe ad occupare nell'universo, in quanto misero satellite di una cometa vagabonda, non dobbiamo avere angosciosi timori di pericolo per la nostra vita e la nostra proprietà, nel caso che tale evento si verifichi. Ma noi abbiamo fiducia che ci vorrà molto tempo, prima che qualsiasi cometa possa accampare mire di annessione sul nostro pianeta; e non abbiamo dubbio che anche i nostri amici del Sud, così avidi come sono di annessioni di un altro genere, si opporrebbero energicamente alla pretesa di tale egemonia.

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Critica d'arte

La nuova Galleria d'arte di New York Quadri buoni e cattivi non dovrebbero essere mai messi in mostra insieme nella stessa galleria, perché un'opera d'arte di scarso valore, che di per se stessa potrebbe attirare l'attenzione, apparirebbe disgustosa, quando venisse appesa accanto a un'opera di merito autentico. Per questa ragione, se non per altre, i direttori di questa eccellente istituzione, che è la Nuova Galleria d'Arte di New York, nelle note allegate al Catalogo dei quadri avrebbero dovuto fare qualche cenno sui principi, dai quali i responsabili saranno guidati nella loro scelta di opere d'arte da aggiungere alla Galleria. Consideriamo questa omissione come una grossa svista, dato che lascia la porta aperta ad ammettere qualunque crosta, o almeno qualunque opera, buona o cattiva, che il capriccio o l'incapacità di qualsiasi amministratore o sovrintendente futuro possa spingere a comprare, o accettare come dono; e secondo la Costituzione, nessuna opera può essere mai alienata dalla Galleria, una volta che è diventata di sua proprietà o per dono o per acquisto. Nel fondare la Galleria, si offriva la possibilità di renderla unica e tale da conferire prestigio al Paese, dedicandola esclusivamente alla raccolta delle migliori opere degli artisti, e di quelli americani soltanto, ma questo non è stato fatto. A nostro parere, era una questione di scarsa importanza, se contenesse dieci o cento quadri, purché questi fossero tutti di alta qualità. Una rigida imparzialità nell'escludere dipinti di second'ordine avrebbe giovato fin dall'inizio al prestigio della Galleria. Siamo sicuri infatti che la Galleria avrebbe attirato più visitatori con pochi quadri di indiscusso valore, che non con un migliaio di opere di fattura ordinaria. Soprattutto, avrebbero dovuto essere escluse le copie di qualsiasi genere. E dovrebbe essere stato uno degli obbiettivi della Galleria avere almeno un quadro di tutti gli artisti americani di qualche valore esistenti. Ma noi troviamo nella collezione undici quadri di G.W. Flaggs, e non uno solo di Inman Page. Degli undici quadri di Flaggs, non più di uno merita un posto nella Galleria. Ma i mediocri quadri di Flaggs sono tutti ammassati là per l'eternità; e a meno che un incendio non li travolga una di queste notti ventose, sono destinati a pendere dalle pareti finché non cadranno dalle loro cornici, Falstaff, Lady Jane Grey e tutto il resto. Ci sono altri quadri, che appartengono alla Galleria (e perciò sono destinati per legge a restare sempre nella sua collezione), quadri, che dovrebbero essere appesi in un angolo oscuro in modo da non essere visti: per esempio una Maddalena, copia del Correggio; un'Allegoria, scuola italiana; una Vista di Roster, di Richardson; un Paesaggio, di scuola olandese; un Ragazzo che è caduto addormentato sulla tavola, di Philip; un Interno, di scuola fiamminga; Pan e Mida, di Goltzius; l'Assunzione della Vergine, di Annibale Carracci, e il Vecchio violinista, una copia di Teniers. Cole e Ingham hanno presentato ciascuno un quadro di valore alla Galleria, e altri artisti hanno promesso di fare lo stesso. Il dono di Ingham è un ritratto

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originale di Lafayette, dipinto da lui stesso, e quello di Cole è un panorama della Sicilia, uno dei suoi paesaggi più belli. Tra le opere prestate per la mostra ci sono due delle più piacevoli composizioni di Edmond: Il ragazzo che ruba il latte e II cugino timido; un'ammirevole copia dal Tiziano di Duran, e II sogno ad occhi aperti di Ingham, forse la migliore testa di donna che egli abbia mai dipinto. Oltre ai quadri, c'è una collezione di stampe rare che dovrebbero essere presentate al pubblico come un antidoto alle stampe pubblicate dai periodici. La Galleria nel suo insieme presenta molti quadri degni di essere visti, ma anche se contenesse solo i quadri di Cole e di Mount potrebbe essere considerata con orgoglio da un newyorkese. Il pubblico (specie se si tratta di una re-pubblica) è portato a peccare di ingratitudine, e come un bambino viziato, non si dà la pena di chiedersi qual è la fonte da cui derivano i suoi piaceri. Speriamo che la massa di visitatori, che trarranno diletto e istruzione dalla visita a questa collezione di opere d'arte, si imprimeranno bene in mente che non si tratta di una produzione spontanea caduta dal cielo, ma che sono in debito con qualcuno, per il fatto che esiste. Ci risulta che il mecenate che ha più contribuito alla formazione della Nuova Galleria di New York è Yonathan Sturger, l'ex socio commerciale di Mr. Reed, alla cui liberalità dobbiamo questa collezione.

Pensieri di un uomo silenzioso I Di tutte le varie cause che si possono trovare per spiegare la sovrabbondanza di opere di letteratura mediocre, di cui tanto ci si lamenta tra i lettori, forse la più frequente può essere attribuita a quella terribile necessità di espressione, che per molti rappresenta persino un'esigenza più imperiosa della più forte necessità di amore. Tuttavia la maggior parte delle persone comprende di rado tutto ciò. L'ambizione, l'avidità di guadagno e soprattutto la vanità, sono considerati come le motivazioni determinanti del lavoro letterario, mentre pochi si rendono conto quanto incida, nell'impulso che spinge a scrivere, il bisogno di simpatia, il desiderio di ristoro spirituale, l'aspirazione insopprimibile a stabilire un rapporto con spiriti affini. La gente di mentalità pratica, che vive giorno per giorno, governata solo dalle necessità del momento, e che si abbandona alle esperienze dell'ora che passa, non può avere la minima idea di queste esigenze interiori. La maggior parte delle persone soddisfa questa esigenza innata di comunicare con gli altri nel pettegolezzo del piccolo scandalo, nella discussione di minori questioni politiche, o nel chiacchiericcio sugli aspetti spiccioli degli affari quotidiani. Mangiano, bevono, dormono, e leggono i giornali, mentre le vere energie della loro natura sono tutte spese nel supremo obiettivo del guadagno. Vivono per fare scambi e commerci, non sentono nessuna aspirazione dell'anima perché hanno

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occupato il tempio del Dio vivente con i banchi dei mercati e con i tavoli degli agenti di borsa. Ma per coloro che pensano profondamente, e sentono in modo vivido e intenso, l'espressione è una necessità del loro essere; devono « parlare o morire ». Alcuni di questi individui particolarmente sensibili trovano la loro autorealizzazione nello scambio dei rapporti sociali, altri nella discussione di musica e di pittura. E c'è chi riesce ad esprimere l'ideale della propria anima con la scultura, nelle forme permanenti del marmo; c'è chi invece libra i suoi pensieri sulle ali della poesia, verso i lontani venti del cielo. Tuttavia ci sono anche molti spiriti meno fortunati, a cui sono negate tutte queste possibilità di espressione artistica. Ci sono alcuni che avrebbero tutti gli elementi dentro di sé, per esprimersi in qualche forma d'arte, ma le loro labbra non sono mai state toccate dal tizzone vivo dell'altare, che per il profeta era al tempo stesso ispirazione e espressione. Ci sono alcuni che, al pari di Zaccaria, diventano muti dopo esser stati folgorati da quel potere divino, che pure porta con sé la promessa della be-nedizione - alcuni, per cui la mancanza di fiducia in se stessi diventa un incubo nella mente e per cui il dono della sensibilità artistica si manifesta in una inquietudine interiore, che non riesce ad esprimersi. Senza avanzare alcuna pretesa di possedere la sensibilità artistica nel suo più alto grado di manifestazione, posso sostenere a buon diritto di conoscere qualcosa dei disagi che accompagnano questa sensibilità, quando resta soffocata nella condanna di un silenzio obbligato. Ho perduto con gli anni i legami affettivi della prima età della vita, e la mia irriducibile timidezza di temperamento mi ha impedito di formarne di nuovi. Ho un largo circolo di conoscenze e molti amici di famiglia, ma non ho nessuno, a cui possa aprire il mio cuore, rivelando i suoi più intimi segreti. Ho un buon patrimonio, gusti raffinati, e penso, anche, un certo calore di affetti; tuttavia vivo la vita di un eremita, per ciò che riguarda le simpatie più elevate nel campo intellettuale e mondano. Nell'opinione del mondo, io dovrei avere tutti gli strumenti della felicità a portata di mano, ma tutti i doni esteriori della sorte sono annullati per me dalla mancanza di una facoltà, che in se stessa è di dominio comune, tanto che, come la benedizione della luce e dell'aria, la gente non gli attribuisce alcun valore; voglio dire, la facoltà di esprimere il peso che mi opprime la mente attraverso le parole. Non posso parlare. Un disgraziato impedimento nel pronunciare le parole, che è aggravato da qualsiasi forma di eccitazione nervosa, rappresenta già un ostacolo fisico alla mia capacità di esprimermi; ma un altro ostacolo, forse ancora più grave, è costituito dalla mia invincibile timidezza e sfiducia in me stesso. Ascolto le conversazioni brillanti (annovero tra i miei amici alcuni dei migliori conversatori che abbia mai sentito) e all'interno della mia mente ci prendo pienamente parte. Battute pronte, risposte argute e scintillanti, argomentazioni sottili, riflessioni profonde, speculazioni di alto livello, e tutte le forme sfaccettate della eloquenza più forbita, vengono elaborate nella camera oscura della mia immaginazione. A volte mi illudo con la convinzione di aver contribuito davvero per la mia parte all'intrattenimento del circolo sociale in cui mi trovo. Le mie idee sono così vivide, che a volte mi sembra come se avessi pronunciato effettivamente tutte le belle

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cose che mi passano per la mente. E spesso mi sono compiaciuto addirittura di questa convinzione, e ho trovato per un momento tutta la soddisfazione di un uomo che ha recitato bene la sua parte in società; finché qualche incidente triviale non mi ha riportato alla coscienza della realtà effettiva delle cose, e non mi sono reso conto, che la mia era stata solo « una conversazione immaginaria », una specie di allucinazione verbale, che mi faceva credere di avere espresso, in parole effettivamente pronunciate, delle idee che erano invece state strangolate sul nascere. Come può, uno come me, trovare il modo di esprimersi? La mia mente è troppo attiva per restare sempre in silenzio; ha in serbo enormi riserve di conoscenza, e accumula continuamente masse di fatti, modella immagini di bellezza, elabora concezioni sublimi di bontà e di grandezza. Perché dunque dovrebbe restare muta, quando avrebbe in sé, almeno in potenza, la facoltà di dar fiato agli oracoli della natura e della verità? Ho deciso. Prenderò la mia umile penna, e circondato dai miei libri, questi amici tranquilli, il cui silenzio è così suggestivo, imprigionerò in parole scritte le fantasie che mi affollano la mente e che disturbano la pace del mio spirito. Per quanto le mie idee possano sembrare rozze e male assortite, forse lasceranno intravvedere qualcosa di meglio, che verrà in seguito. In me c'è molto di più di quanto non sia in grado di esprimere a parole, ma nessuna parola sincera è mai stata detta invano e può darsi che qualcuno possa diventare più felice, dopo aver raccolto qualcuno dei pensieri rozzamente balbettati, scavati a fatica dalla impervia miniera della mia mente. Non mi faccio illusioni che il mio sia un caso insolito, né tantomeno presumo di possedere una specie di genio nascosto che chiede di essere liberato. Non c'è condizione della vita a cui la storia della natura umana non offra innumerevoli paralleli, e uno dei grandi errori che fanno l'infelicità dei mortali è l'idea di essere afflitti da un destino di sofferenza particolare. So benissimo perciò che migliaia di altre persone hanno provato i miei stessi sentimenti e potrebbero averli espressi meglio di me. Quanto al genio, questo è un dono di Dio elargito una volta sola, nel corso di un'epoca, al mondo. Gli uomini di talento si contano a centinaia, gli uomini di cultura a migliaia, ma gli uomini di genio possono esser numerati solo a diecine, sebbene il mondo abbia almeno seimila anni. Inoltre, il genio viene con una missione che gli è affidata dall'Altissimo, e non potrebbe restare silenzioso nemmeno se volesse. Ma io sono stanco di questo continuo comunicare, in modo sterile, nella timidezza introversa del mio cuore, stanco di questo perpetuo rimuginare in me stesso, senza riuscire mai a rompere il silenzio che mi ossessiona. Come vorrei parlare, sì, parlare, senza avere la sensazione paralizzante del ridicolo che mi scorre sulle guance, senza avere l'orecchio tormentato dai nomi semiarticolati che escono dalle mie labbra balbuzienti, senza provare in ogni vena il battito ossessivo di quel terribile silenzio che è immancabilmente il risultato di qualsiasi mio tentativo di dare voce a ciò che sento. Può darsi che la vecchiaia stia velocemente insinuandosi, quasi a tradimento, su di me, e che io cominci ad acquistare una certa loquacità man mano che i miei capelli

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diventano grigi. Può darsi che mi sbagli nel pensare di avere veramente qualcosa da dire. Se fosse così, mi renderò ben presto conto del mio errore, perché non c'è nessuna verifica più severa della validità o meno delle proprie fantasie personali, del fatto di vederle stampate. Tutti abbiamo le nostre fantasticherie, ma quando l'« anima dei nostri pensieri » ci appare per la prima volta davanti, materializzata nella forma oggettiva di una pagina stampata, la sensazione che proviamo è sostanzialmente analoga a quella che si ha, guardando una apparizione del mondo delle ombre, e come la strega di Endor, siamo terrorizzati davanti allo spettro che noi stessi abbiamo evocato.

II Mi ero immerso, per distrarmi, nella lettura del delizioso saggio di Elia sulle « simpatie imperfette », quando, nel rimettere a posto il libro, l'occhio mi cadde sul volume « Corrispondenza tra Burns e Clarinda ». Questo fatto mi fece entrare in un ordine di pensieri connesso, a quelle antipatie significative, a cui la massa dell'umanità è così pronta ad indulgere, e a quelle affinità rimate su cui invece di solito è così scettica. Ognuno di noi ha qualche idiosincrasia riguardo alle sue simpatie e antipatie. Il detto « non amo te, Sabide» del poeta latino, è entrato a far parte dell'esperienza delle menti più grossolane, non meno che di quelle più raffinate, nella versione più popolare del ritornello inglese: Non mi piaci, signor Umberto, La ragione non la so dire, Ma questo solo so di certo, che non ti posso proprio soffrire. Ci sono persone che ci ispirano un'immediata ripugnanza - con queste persone noi, se siamo di temperamento irascibile, saremmo portati ad attaccar briga; o se, invece siamo d'animo gentile e mansueto, vorremmo almeno avere la soddisfazione di vederle prendere a calci dal nostro vicino. C'è gente, la cui anima si muove in un'atmosfera così poco congeniale con la nostra, che sentiamo alla loro presenza come se respirassimo una specie di aria mefitica, che ottunde ogni facoltà e paralizza ogni impulso. Le raffinatezze dell'educazione e della società coltivata possono rendere questa sensazione più penosamente delicata, ma questa sensazione esiste in tutti e dovunque. Guardate per esempio i passeggeri di una nave, che si incontrano, forse per la prima volta nella loro vita, sul ponte di poppa, che sarà la loro dimora per i mesi a venire, e avvertirete subito improvvise antipatie che si manifestano tra certi individui, e improvvise attrazioni tra altri, per nessuna ragione apparente. È un istinto dell'anima, il segno di riconoscimento di spiriti affini, o la percezione di nature antagoniste tra loro. Vien fatto di chiedersi però perché, mentre tutti sono disposti a riconoscere l'esistenza di antipatie innate, si trovano così pochi che credono nell'esistenza di attrazioni, basate su affinità elettive dello spirito? Se la prima parte di questa proposizione è vera, anche

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l'altra non può fare a meno di esserlo. La gente dice seriamente « Non mi piace il signor Tal dei Tali - non posso spiegare perché, ma mi è rimasto antipatico fin dalla prima volta che l'ho visto » e tuttavia questa stessa gente parlerà con accenti di scherno dell'«amore a prima vista ». Ora io non ritengo che l'amore, nella sua piena perfezione e nei suoi massimi sviluppi - l'amore che porta l'armatura a tutta prova dell'amicizia e della fedeltà - nasca in modo così istantaneo. Ma che ci possa essere un improvviso riconoscimento dell'animo, un senso istantaneo di affinità elettive, una segreta simpatia che esercita una specie di influenza magnetica su due individui, senza una volontà deliberata da una parte e dall'altra, questa è una cosa che non si può negare. In circostanze favorevoli, questa simpatia istintiva si sviluppa nella piena forma del vero amore; in altri casi, può arrivare alla forma dell'amicizia; e se è ostacolata da situazioni ambientali ostili, può essere raffreddata e congelata nelle apparenze dell'indifferenza. Perché, chi è riuscito a superare una delle cosiddette « antipatie istintive », in seguito finisce sempre prima o poi per trovare una ragione di pentirsi per averlo fatto? Perché chi ha represso una simpatia istintiva, si trova sempre, d'altro canto, di fronte allo spettro di questa attrazione soffocata, che ossessiona le dimore silenziose del cuore, molto tempo dopo che simpatie apparentemente più ragionevoli non hanno più lasciato traccia della loro esistenza. Una delle teorie più false che esistono è quella che nega l'esistenza dell'amicizia tra i sessi. « L'amore platonico » come viene chiamato, è stato così spesso oggetto di ridicolo, che non si ha più il coraggio adesso di pronunciare questa frase, senza un atteggiamento di scettica derisione. Eppure che cosa ci può essere di più bello, di più elevato, che la vera dottrina del divino Platone, di colui che è stato il più puro e il più nobile di quel glorioso gruppo di cercatori della verità, i filosofi antichi - di colui, secondo il quale « La bellezza non è che lo splendore riflesso della virtù, e l'Amore nient'altro che l'aspirazione dell'Anima verso quella perfezione, di cui la Divinità è l'archetipo ideale ». Nell'amore, come esiste di solito, c'è gelosia, e possessività, o almeno la tinta, per quanto leggera, dell'emozione sessuale. Nell'amore platonico, l'amicizia che unisce in sé calore e purezza, che richiede mutua corrispondenza, ma non esclude differenza di temperamento, i desideri più profondi dell'anima sono com-pletamente soddisfatti. Il terribile senso di degradazione della natura umana, che accompagna sempre la vittoria della pura passione, e spesso si unisce persino ai più teneri sentimenti d'affetto con cui la passione si mescola, è sconosciuto a un'unione del genere. Non ci può essere affetto durevole che non abbia tra i suoi elementi fondamentali molto di questa santa amicizia, ma al contrario, può anche succedere, che questo tipo di amicizia platonica esista e col tempo cresca in forza e fervore, senza comprendere un solo elemento di ciò che il mondo chiama comunemente Amore. Tuttavia è solo il più alto ordine di menti che può riconoscere questa bella forma di tenerezza umana. Per una natura bassa, le leggi fisiche sembrano tanto più forti dei legami spirituali, che un amore, capace di sollevarsi al di sopra dei modi grossolani di espressione, è di gran lunga oltre la loro comprensione, come è al di sopra della loro

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coscienza. Non che io voglia affermare che « il genio non ha sesso », in effetti nel genio il sesso c'è, ed è altrettanto marcato nel suo aspetto sia mentale che fisico; ma la presenza del genio raffina il culto della verità e dell'amore invece di profanarlo. Gli uomini e le donne di genio raramente hanno trovato la felicità nel sentimento dell'amore, ma spesso la loro felicità si è sviluppata in modo tranquillo e sicuro nell'affetto costante dell'amicizia. Il genio di rado opera una scelta saggia nelle sue prime manifestazioni affettive. Cerca le qualità che mancano nel suo stesso essere - e, trovando queste, immagina che tutte le altre qualità essenziali per una combinazione armoniosa si accompagnino con esse . « Oh non chiedere, non sperare troppo di simpatia quaggiù, non essere sciocco. Pochi sono i cuori da cui fluiscono correnti affini allo stesso tocco ».

Questo è di solito il risultato della esperienza dell'uomo di genio. Riveste qualche creatura puramente umana con la bellezza del suo ideale, e quando « Incanto dopo incanto, spoglia le sembianze del suo idolo » si accorge non solo che l'oggetto della sua adorazione era una falsa divinità, ma che anche la religione del suo cuore profondo non era che debolezza ed errore. Questo è particolarmente vero dei poeti. Tra i poeti sono pochi (o nessuno addirittura) quelli che hanno trovato pace nel santuario dei loro cuori, mentre l'altare fiammeggiava davanti all'immagine dell'amore. Tuttavia quanti di loro sono stati felici, quando hanno imparato a tessere le loro ghirlande votive solo per il santuario dell'amicizia. Ogni volta che viene esposta davanti agli occhi del pubblico la realtà oggettiva del cuore umano, sorge invariabilmente il grido di scandalo sulla « malvagità della natura umana », la « degradazione innata » « le tendenze immorali » e le altre migliaia di luoghi comuni che la gente, la cui coscienza di solito dorme il sonno del giusto, si ritiene in dovere di ripetere per risvegliare la coscienza dei vicini, che con ogni probabilità non hanno bisogno di questa sollecitazione. L'epistolario di Burns e Clarinda, è stato appunto una di queste rivelazioni; il nove per cento dei lettori hanno distolto gli occhi con un senso di sacro orrore, e in questa relazione hanno guardato l'uomo come uno scavezzacollo e la donna come una « donna di malaffare ». Ma perché mai? C'era, in quell'epistolario, molto calore di sentimento, e fervida espressione, tali quali solo un poeta avrebbe potuto esprimere, o una natura congeniale comprendere; dove era un solo passo che poteva giustificare l'accusa di immoralità?

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Clarinda era una donna di mente raffinata, gusti delicati e affetti robusti; il marito l'aveva trattata male e abbandonata. Dotata per natura di una riserva di tenerezza, che non era stata apprezzata, per molti anni Clarinda era stata peggio che vedova nel proprio cuore, quando per caso conobbe Burns. Che cosa era più naturale se non che questi - un essere il cui cuore, come una coppa piena, tenuta da una mano instabile, sempre pronta a tremare al minimo soffio - dovesse aver riconosciuto in lei un temperamento affine? Che cosa era più naturale del fatto che questa donna, per la quale nemmeno la crudeltà poteva schiacciare il potere di amare, trovasse una gioia passeg-gera in questa pura simpatia poetica. Burns ha vissuto una vita selvaggia e sregolata. « Il battito delirante del suo polso lo portò sulla via capricciosa del piacere spinto dalla selvaggia passione: E tuttavia la luce che lo fece deviare era una luce che veniva dal Cielo ».

Burns era il vero interprete di questi versi. La lotta che la sua anima ingaggiò per raggiungere qualcosa di superiore alla grossolanità della vita contadina, o il freddo convenzionalismo dell'alta società, insieme con i prepotenti impulsi di una forte natura sessuale, lo portarono a compiere molti errori. Ma chi legge le sue squisite canzoni non può dubitare che esse rivelino molti sprazzi di quella vita superiore, verso la quale così vanamente il genio cerca di librarsi. Chi non può vedere nel rapporto di Burns con Clarinda, uno di quei « momenti migliori » della sua vita, deve essere compianto, secondo me, per la sua ottusità di percezione. Vergogna sull'uomo che ritiene che un sentimento come questo non esista senza malizia! Crede egli forse che solo il legame coniugale possa santificare un affetto del genere? Ah, raramente, di fatto, un affetto del genere santifica il legame ufficiale sancito dalla Chiesa. La passione, la prudenza, l'orgoglio, e migliaia di motivi del genere possono indurre un uomo a sposarci, e in seguito la forza dell'abitudine e uno spiccato senso del dovere portano i coniugi ad essere fedeli l'un l'altro per tutta la vita. Ma raramente questo mistico segno di riconoscimento dell'anima, questa affinità elettiva dello spirito, ha bisogno di esser accompagnato dal matrimonio esterno o visibile. Coloro che provano questa forma sublime d'amore platonico, non sentono il bisogno di tale suggello, se non forse nell'aldilà, quando i misteri della vita saranno rivelati loro attraverso la sofferenza. Come Alcifrone, l'Epicureo, essi passano attraverso l'oscurità, iniziandosi ai misteri egiziani del dolore e del peccato, alla ricerca di quella verità il cui simbolo è luce. Dell'esistenza di questo riconoscimento mistico tra gli spiriti affini sono altrettanto certo quanto della esistenza dei sottili poteri del magnetismo. Ma nemmeno una mente come quella di Swedenborg potrebbe costruire una teoria su questo argomento. Non ci

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sarà mai un trattato, che esponga in modo sistematico come funzionino queste correnti emotive di simpatia, che possa soddisfare coloro che sono suscettibili alle loro in-fluenze; e quanto a quelli, che sono insensibili ad esse, tutti i tentativi di classificare questi esempi impalpabili non possono fare a meno di sembrare loro del tutto assurdi. Né si tratta di qualcosa, che può essere materializzato e toccato con mano, come i mesmerizzatori della nostra epoca sarebbero ben disposti di asserire. È solo una forma di spiritualismo - un legame nella catena degli esseri, che lega l'anima al nebbioso ricordo di vite preesistenti. La società ha elaborato certo leggi non prive di saggezza per mantenere l'ordine. Una natura superiore non offenderà queste leggi; ma neppure permetterà che se ne dia una interpretazione così gretta, da distruggere tutta la ele-mentare purezza dell'anima. Dio ci ha dato leggi più sagge e più alte, che trovano pronta accettazione nelle anime dei suoi veri figli. Le leggi emanate tra i tuoni del Monte Sinai sono abbastanza comprensive - esse denunciano ogni peccato che possa far arrossire l'uomo di fronte al suo Creatore, e chi non viola nessuna di queste leggi, non può certamente rendersi colpevole di alcun reato contro la società. Io non credo nella esistenza della simpatia perfetta tra due esseri umani; ma credo in qualcosa che li avvicina a questa simpatia perfetta, con altrettanta fermezza, come credo nelle decise antipatie. Perciò, così come posso capire che Burns provasse odio per un nemico, senza per questo cercare di assassinarlo, posso anche comprendere che egli possa aver amato Clarinda, in modo profondo e radicato, senza degradarla con una illecita passione.

III « La nature n'est pour l'homme, que les feuilles eparses de la Sybille, dont nul, jusqu'à ce jour, n'a pu faire un livre. » La tendenza dominante della filosofia nel Seicento era verso l'astrazione e il misticismo. La mente di alto livello, quando si sollevava oltre le cose comuni, nutriva profondo disprezzo per i diritti della gente ordinaria, e si perdeva nel puro vuoto della verità astratta; mentre i pensatori inquieti e capricciosi dell'epoca, incapaci di battere le ali con un volo così audace, raggiungevano solo le nebbiose regioni del misticismo. E come il viaggiatore sulle montagne di Hartz, anziché delle solide certezze, contemplavano le loro stesse ombre ingigantite dalla nebbia. Il cammino della mente umana tende ad andare avanti, ma segue una strada molto tortuosa. Di conseguenza, troviamo che il secolo seguente, il Settecento, è caratterizzato da uno spirito di analisi e di scetticismo. Nulla era accettato nel secolo scorso se non la verità assolutamente dimostrabile. La mente - l'argano dell'intelligenza - era l'unica funzione che veniva esercitata. E al tempo stesso veniva gettato il dubbio sulla stessa esistenza dell'anima, questa segreta abitatrice del tempio più segreto nel sacrario dell'uomo, questa entità capace di recepire la verità di Dio e di manifestarla attraverso la coscienza.

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Nel progresso dell'intelletto umano, noi assistiamo adesso ad un'altra fase: l'ossessione del presente è attualmente l'indagine; oggi l'uomo specula su qualunque cosa; si cerca di generalizzare su tutto: ogni fatto della natura, ogni verità della fisica, diventa il nucleo di una teoria, che vera o falsa che sia, trova immediatamente dei seguaci. Chi si accontenta semplicemente di soddisfare la sua mente con le scienze esatte e di nutrire la sua anima con la fede sincera, viene considerato come uno che arriva per ultimo nella marcia dell'intelletto umano. L'abitudine a teorizzare su ogni scoperta dell'arte e della scienza ha portato ogni cosa anche la più insignificante, ad un rango molto più alto di quanto gli antichi filosofi fossero stati disposti a concederle. In alcuni uomini questa facoltà teorizzatrice ha il potere di operare una specie di rovesciamento delle funzioni tradizionali nel mondo intellettuale e artistico; una volta gli uomini di immaginazione erano poeti o scrittori, oggi troviamo invece che l'immaginazione più sbrigliata è diventata la prerogativa di filosofi, metafisici ed esperti di meccanica; una volta la caratteristica più importante attribuita all'immaginazione era quella di adornare la verità; ma adesso accade spesso che, mentre la ragione si affanna a definire, disporre e combinare qualche teoria astratta, l'immaginazione è usata invece per analizzare le teorie della scienza. Ma come era già accaduto in epoche precedenti, l'ipertrofia dello spirito di analisi ha portato, per gradi impercettibili, allo scetticismo, tanto vero che (così almeno mi sembra), nei tempi moderni questa diffusa abitudine a generalizzare e teorizzare tende decisamente verso una riaffermazione esclusiva del materialismo. Si prenda, per esempio, un libro pubblicato di recente, che per la lucida sistemazione della materia e per la ammirevole argomentazione delle sue tesi, non ha rivali in nessun'altra opera sullo stesso soggetto: mi riferisco ai Vestigi della storia naturale della creazione. L'opera non contiene fatti nuovi, ma è composta da gruppi di fatti (per così dire), che ci appaiono nuovi, solo perché il loro accostamento è così sorprendente e originale. L'autore non è un materialista, al contrario si dà da fare per svalutare ogni tendenza del genere. Tut-tavia, quale miniera di argomenti in favore del materialismo offre il libro, a chiunque sia portato a dubitare di ogni verità, che non venga attraverso l'intelletto. La fede incrollabile che l'autore ha nelle proprie teorie aggiunge un fascino irresistibile ai suoi argomenti, e occorre l'esame più attento e coscienzioso della verità, per distinguere in molti casi, attraverso un'investigazione serrata e sottile, i fantasmi della sua immaginazione dai rigorosi argomenti della sua ragione nel corso dell'opera. Il suo sistema dell'evoluzione progressiva della natura non ha altro limite, se non la divinità stessa, sebbene l'esperienza di migliaia di anni ci dice che, per quanto la mente umana possa avere progredito, la struttura fisica del mondo non ha conosciuto altri cambiamenti, se non quelli di natura ambientale dovuti al clima e al modo di vita. L'autore dell'opera parla di un tipo perfetto di divinità, a cui l'uomo da ora in poi sarebbe in grado di adeguarsi. Ma non abbiamo forse già avuto nella divinità incarnata il tipo più perfetto di umanità al suo più alto livello? È mai possibile credere che quando « Dio si fece uomo e abitò fra noi » egli aveva le sembianze di una umanità

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inferiore, che per la nobile razza destinata a succedervi sembrerà degradata nella scala dell'essere, quanto le tribù di simia e altri scimpanzè lo sono rispetto alla razza dell'umanità esistente? Nella sua teoria sulle trasformazioni geologiche e naturali, mi sembra che l'autore delle vestigia vada fuori strada. Ma, sebbene esistono dei fatti che gettano qualche dubbio su questa teoria, il quadro che poi egli fa della creazione, specie per ciò che riguarda il periodo della « formazione carbonifera » è così sublime, che vorremmo credere che sia altrettanto vero quanto è grandioso. Il potere di suggestione del suo affresco è oggettivamente strabiliante. Egli ci ha dato solo pochi tocchi magistrali del pennello, ma ci vorrebbe tutto il genio di Milton, per riempire lo schizzo che ha tracciato nelle origini del mondo. Quando l'autore applica il suo sistema alla natura animata, tuttavia, ci rendiamo conto della sua aporia. Anche un principiante di fisiologia può portare la più decisa testimonianza contro di lui. Tutte le leggi della natura (così vengono chiamate) provano l'impossibilità di generare razze superiori da razze inferiori, o persino di generare, da incroci troppo ibridi, specie capaci di riprodursi. C'è da pensare che l'Onnipotente, che ha fatto queste leggi, sia superiore ad esse. Ma questo non risolve la questione, dato che se noi crediamo che in un singolo caso sia possibile un salto di qualità della natura umana, con un distacco così brusco dalle leggi dell'evoluzione, possiamo anche credere nel miracolo della creazione istantanea. C'è qualcosa di agghiacciante per la debole natura umana nell'idea di necessità, che regola con una verga di ferro gli impotenti figli della Terra. Come possiamo immaginare che il Cielo sia occupato solo da una infinita Intelligenza, rispetto alla quale noi uomini non siamo che degli atomi di polvere sulle ruote vorticose del progresso? Una mente finita rifugge da una verità così controversa. Jean Paul, lo scrittore tedesco, ci ha dato qualche idea di una simile condizione esistenziale, che vede l'uomo orfano sulla terra, senza alcun Padre che risponda alla sua disperata implorazione di aiuto, nel suo terribile racconto Sogno. La potente immaginazione di Jean Paul ha portato gli orrori dell'ateismo nel mondo degli spiriti: egli ci presenta una visione delle anime dei bambini bruciati, che errano ciecamente attraverso uno spazio scuro e che invocano un Padre celeste, mentre la voce del Cristo risorto risponde: « Siamo tutti orfani, non abbiamo nessun Padre in Cielo ». « Chi ha chiamato per primo Dio nostro Padre conosceva il cuore degli uomini meglio dei più profondi pensatori ». Le Vestigia sono un'opera di grande potenza e suggestione, tuttavia c'è almeno uno dei suoi lettori, che ha chiuso il libro con un sentimento di profonda tristezza. Mentre erravo nella mia stanza solitaria meditando su ciò che avevo letto, i miei pensieri si modificavano nel linguaggio della speranza, che è la poesia; e pur nella mia qualità di atomo insignificante nella polvere dell'universo, sono stato portato a scrivere i versi che seguono.

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All'autore delle Vestigia della Creazione

« Guida attraverso il labirinto della Creazione che a questo arduo compito ti sei autoeletto. Così interpreti di Dio il possente disegno, tessendo la fantastica ragnatela di un sogno dalle sparse vestigia delle sue mistiche strade? Quando entrasti in mezzo al caos come un cieco raccogliendo a poco a poco nuovi anelli per la pesante catena della materia in moto, non c'era nella tua anima la segreta speranza che qualche potente verità spezzasse alla fine il ferreo legame di dolore e d'angoscia che ci ha fissato alla ruota di ferro del progresso che mai non si arresta? Non insegnare un credo così disperato alla terra già oppressa da tante sventure: ben grave sarebbe la maledizione dell'uomo, se fosse condannato per sempre a sentire che nell'ora tremenda dell'amaro bisogno il suo occhio sollevato in preghiera non potrebbe vedere altro, nient'altro nel cielo, se non le leggi della necessità più severa scolpite in eterno, che non muteranno mai più ».

IV In un articolo precedente ho parlato della simpatia che esiste fra anime affini, in uno stato molto più perfetto di quello che il mondo è disposto ad offrire all'uomo quaggiù sulla terra. La corrispondenza, da poco pubblicata, tra Schiller e Goethe, fornisce la più completa esposizione di questo riconoscimento di affinità spirituale, che gli annali della letteratura abbiano mai registrato. Le amicizie letterarie, come si chiamano, sono ormai troppo spesso solo delle alleanze che nascono da interessi comuni, quando non sono dei legami che si formano per compiacere una vanità insoddisfatta. Le menti inferiori a volte possono rendersi indispensabili a quelle superiori, soddisfacendo le loro debolezze insospettate. Un uomo disposto a svolgere il ruolo dello sciacallo raramente mancherà di trovare un leone di cui mettersi al servizio. Un legame di questo genere non merita il nome di amicizia. Tuttavia il mondo non fa distinzioni, e quando il legame del mutuo interesse fra due amici sul piano intellettuale diventa un caso, la gente comune grida allo scandalo denunciando l'instabilità oggettiva degli uomini di genio.

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Nessuno può leggere la corrispondenza fra i due scrittori a cui ho accennato, senza essere sensibile alle forme più nobili di unione, che può tessere soltanto la vera simpatia. Ma lo stesso carattere improvviso e spontaneo del riconoscimento del-l'affinità spirituale fra queste due personalità d'eccezione è la prova migliore del suo carattere autentico. Schiller ebbe occasione di rivolgersi a Goethe per chiedergli l'appoggio nella fondazione di un nuovo periodico, e gli inviò a questo proposito una lettera di rispetto formale, che manifestava tutta la sua ammirazione per lui, pur senza contenere una sola parola di adulazione. Goethe rispose in modo pronto e cordiale, dichiarando l'esplicito riconoscimento dell'affinità intellettuale che sentiva con il giovane poeta. In meno di due mesi, Schiller aprì il suo cuore all'animo di Goethe dichiarando la sua amicizia con la confidenza e la delicatezza dell'amore di una donna. Con quanto coraggio e mancanza di gelosia Schiller spiega i vantaggi dell'amicizia che ha stretto da poco: « La contemplazione della vostra mente ha acceso in me una nuova luce su molte questioni che non riuscivo a risolvere - scrive a Goethe -. Avevo bisogno dell'oggetto, con cui dar corpo a molte idee speculative, e voi mi avete messo sulla giusta strada ». La risposta di Goethe, per quanto in qualche modo di tono oracolare, è altrettanto calorosa ed aperta: « La pura gioia ed i veri benefici possono essere soltanto reciproci, e mi darà piacere perciò di rivelarvi a volontà l'effetto che il mio rapporto con voi ha avuto su di me - e cioè che anche io lo considero una svolta nella mia esistenza, e che sono contento di aver proceduto per la mia strada finora senza particolari incoraggiamenti, dato che adesso, dopo un incontro così inaspettato, sono sicuro che andremo avanti insieme per un lungo tratto. Ho sempre apprezzato la serietà, che si rivela in tutto ciò che avete fatto o scritto. Sarò lieto quindi di istruirvi su tutto ciò che vi riguarda e su ciò che è in me. Sento che la mia impresa va molto al di là dei limiti assegnati alle facoltà di una sola vita terrena, e sarei desideroso perciò di mettervene a parte e di dargli così non solo durata, ma anche vitalità ». Ci può essere qualcosa in questo rapporto tra i due scrittori, che si avvicina troppo alla sicurezza di sé, da parte di Goethe, e che forse implica un apprezzamento troppo modesto del proprio valore, da parte di Schiller. Ma non c'è piaggeria cortigiana nel poeta più giovane, né vanità compiaciuta in quello incoronato. Non c'è mai stato forse un abbandono più congeniale dell'anima all'improvviso richiamo di una segreta simpatia. Non ci fu affatto bisogno di assoggettarsi alle esigenze formali di cortesia, perché i due poeti potessero stringersi la mano davanti al tempio dell'amicizia. « Per quanto forte fosse stato il mio desiderio » dice Schiller a Goethe, « di entrare con voi in una relazione più stretta di quella che esiste fra lo spirito dello scrittore e quello del lettore, tuttavia adesso mi rendo conto chiaramente che le strade differenti, in cui voi ed io ci siamo mossi finora, non potevano essere riunite insieme in modo vantaggioso prima di adesso. Ma ora posso sperare che viaggeremo insieme di buon accordo per il resto della strada, in quanto i viaggiatori che si fanno compagnia per ultimi hanno sempre più cose da dirsi l'un l'altro ».

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Per ciò che riguarda il carattere dei due uomini e la posizione che occupavano nel campo delle lettere, il quadro della pura e bella amicizia letteraria che strinsero tra loro diventa completo, se ci volgiamo con un senso di freschezza dai freddi, duri, meschini egoismi della società al ricco sviluppo dell'anima nato dalla loro unione. La corrispondenza tra i due scrittori, che durò dieci anni, e terminò solo con la morte di Schiller, è come uno specchio sfaccettato, che riflette ogni oggetto che gli passa davanti, in ogni varietà di luce e di ombra; mentre la pura e chiara atmosfera, in cui queste anime vivono e si muovono e hanno la loro esistenza, dà una perspicuità quasi magica ad ogni immagine. Nessun soffio di egoismo o di sfiducia, passa mai per un solo istante sulla brillante superficie di questo rapporto. Anche se si intravede qua e là un tocco della magnifica vanità di Goethe (perché Goethe era un uomo che faceva sembrare sublime anche le sue debolezze), ciò serve a far risaltare meglio nella giusta luce la squisita umiltà di Schiller; e il decano della letteratura tedesca non appare mai in un aspetto così amabile, come quando accetta cordialmente le precise e acute critiche di Schiller e ne tiene conto. Tuttavia, poiché in precedenza mi sono azzardato ad affermare che una simpatia intellettuale del genere non potrebbe attingere alla perfezione in persona di sesso opposto, così adesso oso affermare che questa stessa corrispondenza tra Schiller e Goethe è una prova della mia teoria. Il genio assimila il sesso ma non lo confonde, e mentre dà alla donna qualcosa della forza maschile, conferisce all'uomo molte doti femminili di sentimento e di raffinatezza, specialmente se la sua struttura fisica è legata a un organismo delicato. Goethe, con il suo robusto physique, le sue vaste facoltà percettive, la sua torreggiante indipendenza dell'animo, il suo facile, seducente, eppurtuttavia dispotico, esercizio di dominio mentale, offre un perfetto polo di contrasto con Schiller, che era debole di salute, mancava di fiducia in se stesso ed era straordinariamente tenero nelle sue facoltà immaginative, e pieno di incondizionata confidenza nello spirito più forte e sicuro di sé del suo amico. Se ambedue avessero posseduto solo dei tratti di carattere mascolino fortemente marcati, la loro unione non avrebbe potuto mai essere così perfetta. Così come stavano le cose, invece, il rapporto tra Goethe e Schiller aveva le migliori caratteristiche dell'affetto platonico. Goethe era l'uomo forte, fiducioso in se stesso, autonomo, e tuttavia bisognoso di compagnia; Schiller era l'uomo dalla natura tenera-mente femminile, forte in linea di principio, e forse con una capacità latente di confidenza in se stesso, ma più felice e persino migliore, quando si trovava in un rapporto di gentile dipendenza da una natura più forte. Consigli, sproni, ordini, sug-gerimenti, e una specie di attenta e affettuosa protezione; questo è l'atteggiamento di Goethe nei confronti di Schiller; deferenza, devozione, e persino quella disponibilità ad assecondare i bisogni e i desideri degli altri, che è un po' la prerogativa delle donne, è invece l'atteggiamento di Schiller verso Goethe. È Schiller che manda la scatola di Biscuits come segno d'attenzione e d'affetto - Goethe da parte sua manda al suo amico un pesce, pescato in acque libere per ricambiare la sua gentilezza. Ma il dono che

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ricorda le buone cose di casa viene dall'affetto, simile a quello di una donna, dello spirito più gentile, che è appunto in questo caso quello di Schiller. Questa non è pura speculazione fantasiosa. La perfetta somiglianza non ingenera simpatia; ciascuno deve trovare nell'altro ciò che manca in lui. Ciò non significa che una mente sia inferiore all'altra, ma che ci sono differenze nelle qualità mentali e morali di ciascuno, come è giusto che ci siano. Gli uomini giudicano quelli che appartengono al loro stesso sesso attraverso la loro coscienza, e vedono invece le donne attraverso la loro immaginazione. Ambedue queste facoltà mentali, la coscienza e l'immaginazione, possono talvolta essere delle guide fallaci, ma è più probabile che l'immaginazione colga più nel giusto della coscienza, dato che di solito dà una visione molto più idealizzata, ma molto meno moralistica e unilaterale, della natura umana. L'amore di un uomo dall'anima elevata è uno dei sentimenti più nobili, più altruistici, più sublimi, più oggettivamente disinteressati, di cui l'umanità sia capace. L'amore della donna, anche della più gentile, o della più alta natura, è molto esigente e possessivo, perché anche se la donna è disposta a dare tutto all'uomo, senza riserve di sorta, non si accontenta di niente di meno del sacrificio totale, da parte dell'uomo, come corrispettivo della sua dedizione assoluta, di tutti i suoi affetti ed interessi sull'altare dell'amore per lei. Considerazione, tenerezza, l'intera devozione di una vita, non sono niente agli occhi di una donna che ama. Essa vorrebbe dare quanto può all'uomo amato, e perciò niente può esserle offerto che il suo amore non meriti. La donna può essere umile in tutte le altre cose, ma dà sempre un grande valore al proprio affetto, e di qui deriva la sua mancanza di ragionevolezza in tutte le sue relazioni d'amore. Tutto ciò che l'uomo, data la sua natura più forte, è in grado di offrire in più alla donna in fatto di amore sul piano del sesso, la donna, per la maggiore purezza dei suoi sentimenti, è capace di restituirglielo in forma di amicizia. In nessun essere umano c'è più devozione, più disinteresse, più disposizione all'auto-sacrificio, che nell'amicizia di una donna per l'uomo amato; ma in nessun'altra creatura, d'altro canto, e non potrebbe essere altrimenti, c'è possessività più insistente, molesta e tormentosa, sotto certi aspetti che nel suo modo di amare; e paradossalmente, l'uomo che volesse apprezzare al massimo la natura della donna e gioire in pieno della sua dolce presenza, dovrebbe essere il suo più caro amico, piuttosto che il suo devoto amante. V Il desiderio, comune a tutti gli uomini che non possono fare qualcosa di creativo, di guardare nella più intima natura degli uomini di genio (i « veggenti e costruttori », come erano definiti nella lingua più antica) prevale in me, lo confesso, al massimo grado. Perciò sono passato dall'esame delle lettere di Goethe a Schiller, dove il grand'uomo indossa il simpatico deshabillé dell'amicizia intellettuale, al quadro che la stessa mente di Goethe offre in un'altra opera di tono intimo e confidenziale, Der brief wechsel mit einem kinde (« Breve incontro con una bambina »). Niente può essere in maggior contrasto che lo stesso individuo, Goethe, visto sotto i due differenti aspetti dell'amicizia e

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dell'amore. Nelle sue lettere a Schiller, egli è franco, cordiale, ed aperto, pienamente cosciente di essere un dittatore riconosciuto, e perciò disposto a mettere da parte tutti gli emblemi esterni di potere, mentre incontra Schiller sul vasto terreno dell'affinità di idee, di sentimenti e d'opinioni. Egli non eleva Schiller all'uguaglianza con se stesso, ma discende uno scalino dal suo baldacchino damascato per incontrarlo, ma fa questo in modo così grazioso, che si nota appena la regale condiscendenza dell'atto. Il fatto era che Schiller aveva conquistato il rispetto di Goethe con la sua fermezza virile, la sua salda presa sulla verità e il suo genio stesso, mentre se ne era assicurato l'affetto con lo sviluppo inconscio della sua natura tenera e ricca di sentimento. Tuttavia, perché Schiller suscitasse tale attaccamento da parte di Goethe, era necessario che prima ne conquistasse il rispetto, e questa era una cosa che nessuna donna era mai riuscita a ottenere dal grande scrittore tedesco. Fin dalla prima giovinezza, Goethe si era imposto al mondo per la bellezza della persona, non meno che per i poteri eccezionali della sua mente. Naturalmente egli era molto attraente per le donne. La sua mente meravigliosa conquistava col fascino del suo scintillio, anche quella parte del mondo femminile, che poteva essere avvicinata soltanto attraverso l'intelletto; mentre la sua figura nobile e prestigiosa suscitava l'ammirazione di quelle donne, che avevano un occhio solo per la bellezza fisica, e la raffinata delicatezza dei suoi sentimenti, era irresistibile per quelle, che cercavano nell'uomo una specie di guida ideale dello spirito. Fin dalla sua infanzia, perciò, Goethe era stato un favorito del mondo muliebre, e non c'è bisogno di dire, che la stessa adorazione di cui era fatto oggetto, come spesso accade, finiva per diminuire il suo rispetto per le donne che erano addette al suo culto. In seguito alla stravagante ammira-zione delle donne, un uomo può diventare vanitoso, ma non viene certo incoraggiato al rispetto di sé. Tende a mettere in questione, se non il carattere autentico di tale ammirazione, almeno la giustezza del criterio a cui si ispira, e quando si accorge poi che le donne sono governate di solito, nelle loro simpatie e antipatie, dal puro capriccio, comincia a dubitare di possedere veramente quelle qualità, che suscitano la loro ap-provazione. A Goethe piaceva essere adulato, corteggiato, idolatrato dalle donne, ma non si curava molto delle loro opinioni, eccetto nel caso in cui esse potessero influenzare delle menti più forti. Egli guardava agli uomini per l'apprezzamento delle sue qualità intellettuali. La colonna eretta alla sua fama poteva essere incoronata dai fiori intrecciati da mani gentili di donna, ma egli si aspettava che fosse costruita dal forte braccio dell'uomo. Nella sua Corrispondenza con una bambina (una bambina, sia detto per inciso, di vent'anni), che cominciò un anno o due dopo la morte di Schiller, Goethe mostra di avere sviluppato al massimo quell'egotismo che fin dagli anni giovanili aveva caratterizzato le sue prime esperienze d'amore. Quando egli conobbe per la prima volta Bettina Von Arnim, aveva già passato i sessant'anni e la sua fama era stabilita su una base sicura. E sebbene la sua miniera di sentimenti non fosse esaurita, tuttavia era già stata così esaurientemente realizzata nell'esperienza di vita, oltre che nell'espressione della

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poesia, che non c'erano più ormai nuove vene di minerali preziosi da scoprire. Bettina possedeva un grande talento, accoppiato a un temperamento originale che, se fosse stato accompagnato dal genio, avrebbe prodotto grandi risultati, ma, essendo connesso con la facoltà percettiva, anziché con la facoltà inventiva, si manifestava piuttosto in un entusiasmo irrequieto e quasi in un senso di disagio, per un dono che non riusciva a utilizzare. Il suo amore per Goethe, su cui si è fatto tanto rumore, era una fantasia molto innocente, nata dall'ammirazione della fanciulla per il poeta, e alimentata in seguito dalla vanità di ambedue. Che si trattasse del vero sentimento d'amore, è troppo assurdo per essere creduto, e che fosse l'effervescenza della passione, è peggio che assurdo, è addirittura calunnioso pensare. Ci vorrebbe un'immaginazione troppo spiritualizzata e idealizzante, d'altro canto, per scambiare l'infatuazione fanciullesca di Bettina verso l'anziano poeta con l'espressione sublime di quelle simpatie innate dell'anima, che ci legano al Cielo. Ma nello stesso tempo, solo una fantasia, nutrita del cibo disgustoso di impulsi lubrichi, può scorgere qualcosa di male nei suoi sentimenti di affettività esagerata sì, ma pur sempre innocente. Sentendosi lusingata per il privilegio di intrattenere una corrispondenza familiare con il signore della cultura tedesca, felice, della tenerezza semi-obbligata che egli mostrava verso di lei, orgogliosa di essere il diversivo e il trastullo del grande leone letterario, è chiaro che Bettina si era abbandonata alla piacevole eccitazione di questo rapporto, senza un solo timore o un momento di calcolo. Bettina, a giudicare da queste lettere, sembra esser rimasta ferma, con atteggiamento titubante, alla soglia della sua maturazione di donna, non ancora disposta a voltare le spalle alle gioie innocenti della sua fanciullezza, e tuttavia capace di dare solo uno sguardo occasionale, carico di un desiderio semi-espresso, verso il sacrario velato dentro il tempio dell'amore. Se la mano di Goethe talvolta sollevò quel velo, fu solo per cogliere un barlume temporaneo della fiamma che vi ardeva, ma la ragazza, ancora immersa nella fase adolescenziale, era più attirata dai fiori che crescevano intorno al portico, che non dal mistico oggetto di culto all'interno del tempio. Per dare un giudizio equanime di Bettina, dobbiamo tener conto delle caratteristiche della società in cui viveva. In Inghilterra, dove le forme convenzionali rappresentano i legami più forti, essa sarebbe stata considerata come una donna pazza. Nel nostro paese, dove la donna gode di una certa libertà nel manifestare le sue inclinazioni, una ragazza come Bettina avrebbe scoperto molto prima che non era più una bambina, e la sua relazione con Goethe sarebbe stata presa più sul serio e si sarebbe sviluppata meno sul piano inconscio. Ma in Germania, sin dai tempi del Werther e delle Affinità elettive, cose del genere fanno parte del sistema sociale. I filosofi tedeschi, non meno dei poeti, hanno inculcato alla gente che le impressioni possono essere considerate come dei precetti; e di conseguenza una mancanza di entusiasmo o di sensibilità viene considerata poco meno che un atto immorale.

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A noi americani basta che un uomo possegga un forte senso morale, ma i tedeschi chiedono anche che egli nutra un amore profondamente radicato, non solo per il buono, ma anche per il bello, una viva percezione della presenza di questa qualità nelle cose esteriori, e un istantaneo riconoscimento del suo potere, nonostante la contrarietà delle circostanze. Io, da parte mia, non sono disposto a criticare i tedeschi per questo; ma disgraziatamente questa estrema suscettibilità di carattere fa sì che in Germania si attribuisca infinita importanza alle più sottili sfumature del sentimento; e, come prova dell'esistenza di un sentimento, ci si sente in dovere di esprimere ogni sua gradazione e sfumatura. Il perfetto sviluppo di un sentimento non è sufficiente agli occhi dei tedeschi, essi devono vedere il processo per cui il risultato è stato ottenuto. Essi non si accontentano mai della piled up agony, cioè del tormento della passione che raggiunge il suo acme, - vogliono vedere la lenta accumulazione di ogni affanno del cuore, uno per uno, in tutti i suoi dettagli e nuances. Questa abitudine a guardare negli affari del cuore con la lente del microscopio, è una caratteristica tipicamente tedesca, e naturalmente non può fare a meno di favorire una buona dose di sentimentalismo affettato. Il sentimento in quanto tale rifugge sempre dallo scandalo dell'analisi, e un'emozione che sopporta di essere sottoposta a dissezione ha perso certamente molto della sua vitalità. Tuttavia, in un paese dove la sensibilità in quanto tale viene considerata come una virtù, essa finisce per essere simulata; così come lo sono, al polo opposto la freddezza e la pruderie tra la gente - come avviene spesso in Inghilterra e in America - che pretende invece di misurare la sua moralità in proporzione alla sua incapacità di sentimento e impermeabilità alle emozioni. Ma non c'è solo questo. Anche dove la sensibilità non è finta ed esiste davvero, ci sarà la tendenza, se la sensibilità viene considerata una dote, ad accrescerla con mezzi artificiali. Se la disponibilità al sentimento è una virtù, allora accrescere questa vivacità sentimentale, agli occhi di chi la pensa così, significa accrescere la moralità stessa di una persona, e ciò che altrove, in un ambiente più puritano, sarebbe considerato, da parte di una ragazza come Bettina, come mancanza di pudore, diventa invece una dimostrazione della sua eccezionale sensibilità e di conseguenza del suo carattere nobile ed elevato. Quasi tutte le comunità civili considerano la repressione della sensibilità come un dovere morale. Solo i tedeschi, paradossalmente, considerano il suo esercizio costante come la prova più efficace della vera virtù: e a nostro parere, c'è altrettanto male nel codice che impone la sua soppressione forzata, come in quello che inculca e stimola la sua esibizione artificiale. Possiamo dettare regole precise di condotta, basate sulle leggi immutabili del dovere verso Dio e della giustizia verso l'uomo, ma non possiamo emanare regole del genere per il controllo delle emozioni. Non abbiamo diritto a fare della sensibilità un dovere. Per una piccola minoranza, la sensibilità può essere un privilegio assoluto; - per molti può essere una pena, sopportata di buona voglia, tenendo conto delle gioie che pure

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l'accompagnano - per la maggior parte di noi è una maledizione ossessiva di cui non riusciamo, anche volendo, a liberarci. L'individuo arido, duro, incapace di simpatia, che è virtuoso per calcolo, e cammina sul suo gretto cammino senza badare minimamente ai fiori che calpesta sotto i piedi, o in alto, alle stelle che brillano sulla sua testa, può spesso ottemperare ai suoi doveri nella vita, meglio dell'essere tenero e sensibile che si fa sempre da parte per gentilezza, o almeno è portato spesso a dimenticarsi di tenere l'occhio fermo sulla meta lontana. Se il mondo fosse fatto di persone che pensano e sentono, piuttosto che agire (e queste sono le persone dotate di un'acuta sensibilità) quanti più progetti di bene sarebbero concepiti, ma quanti pochi ne sarebbero realizzati! Sia ringraziato il cielo, quindi, che la sensibilità non è un dovere. Sarebbe una maledizione troppo pesante per la fragile umanità, se tutti fossero chiamati a sopportare il peso della sensibilità, oltre che il peso del lavoro. Siamo condannati a guadagnarci il nostro pane col sudore della fronte, non con il sudore del nostro cuore. E com'è relativamente misericordiosa questa disposizione celeste, lo sanno solo coloro che hanno provato la doppia maledizione di uno spirito afflitto dalla pena, in un corpo logorato dal lavoro. Tuttavia, mentre possiamo assolvere Bettina, considerandola solo come una ragazza molto tedesca nella sua esibizione di sensibilità un po' eccessiva, siamo portati ad essere meno indulgenti per la civetteria sessuagenaria di Goethe. Evidentemente a Goethe piace il tono appassionato delle sue lettere e tende ad incoraggiare le piccole petulanti gelosie di Bettina. A volte, è vero, la frena con veemenza, ma in modo tale da far capire che approva, anche quando sembra sgridare. Talvolta loda le capacità descrittive di lei, a volte le rinvia i suoi stessi sentimenti imbalsamati nei suoi versi, e a volte sollecita tutto il vivo calore della devozione con il suo eloquente apprezzamento. Se quest'affetto si fosse sviluppato quando Goethe era vent'anni più giovane, sarebbe stato annoverato tra le molte testimonianze sulla attrazione che quest'uomo straordinario, spe- eie ai suoi verdi anni, esercitava tra le donne, come era sempre fiero di ricordare. Ma venendo come venne, quando egli aveva già raggiunto la vecchiaia, ebbe ai suoi occhi un'importanza, e un rilievo, poco consiliabile con la sua dignità, e che per essere scusata richiede una speciale indulgenza. L'uomo che Ninon aveva onorato delle sue grazie dopo che essa aveva raggiunto l'ottantesimo anno di età, sarebbe stato forse meno fortunato, se fosse stato l'amante di questa donna, che a suo tempo era stata una bellezza famosa quarant'anni prima, quando Ninon era nel pieno splendore della sua maturità. In confronto con Goethe, Bettina era veramente una bambina, e il poeta, se non aveva letto invano il cuore umano, conosceva bene il risultato probabile di tale spreco di devozione da parte di lei. Il pericolo, in questo caso, non era tanto per la virtù di Bettina, quanto per il suo buon nome - era la purezza incontaminata del cuore, che essa metteva allo sbaraglio, nella sua relazione con Goethe. Non c'era nessun danno esterno - nessun sacrificio era richiesto; ma non era nulla, da parte di Goethe, accettare il primo slancio di tenerezza

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da un petto femminile? non era niente aver risvegliato il primo rossore dell'anima? non era nulla aver rubato la freschezza di rugiada dei primi frutti del cuore? Come sarebbe stato facile per Goethe orientare nella giusta direzione tutta la pienezza sovrabbondante della natura passionale di Bettina, frenando il suo entusiasmo, moderando la sua esuberanza emotiva, sradicando la sua assurda gelosia, e in breve, sollevandola al disopra della cieca idolatria che la faceva inchinare davanti al sacerdote, invece di adorare la divinità, del cui santuario egli era solo l'umile ministro! Ma il fatto era che, nonostante tutta la sua grandezza di mente, Goethe era tutt'altro che insensibile ai piaceri della vanità gratificata. Goethe apprezzava l'adorazione che Bettina mostrava per lui, come avrebbe fatto qualunque altro uomo, e forse, pretendendo che respingesse la devota fedele, che portava doni così preziosi al suo altare, chiediamo più virtù stoica, più autocontrollo e più saggezza, di quanto persino i più alti rappresentanti dell'umanità siano dotati. Niente è più evidente, in questa singolare corrispondenza, della differenza tra il fervore pieno di speranza della giovinezza, e il nostalgico desiderio dell'età avanzata, che si volge con rimpianto al passato. È la stessa differenza che esiste tra il mazzo di boccioli freschi appena colti, e la rosa spettrale, che l'abilità quasi magica del chimico può estrarre dal fiore. Goethe poteva evocare l'immagine sbiadita di un fantasma d'amore dal crogiolo alchemico della memoria, ma la fresca ghirlanda, che Bettina gli offriva, doveva essere consumata e distrutta nel mistico processo di riportare alla vita le ombre di un irripetibile passato.

Il genio è cosciente dei suoi poteri? Non c'è ombra di dubbio nella risposta da dare a questa domanda: il genio è cosciente dei suoi poteri? È la più sicura scommessa, questa, su cui sarei pronto a giurare. Ma se ci fosse ancora qualche punto oscuro in proposito, il saggio di Hazlitt, in cui lo scrittore inglese cerca di provare il contrario, lo dissipa nel modo più assoluto. « Nessun uomo veramente grande ha mai pensato di esserlo » comincia il saggista inglese, ma prima che lasci cadere la penna, fa queste osservazioni non propriamente denigratorie su di sé: « Se il lettore non lo sa già, noti che io scrivo questo a Winterslow. Il mio stile tende ad essere ridondante e prolisso. In altre occasioni posso essere sintetico, arido, brusco; ma qui ciò che scrivo fluisce come un fiume, e va al di là delle sue rive. Non devo cercare i pensieri né andare a caccia delle immagini: esse vengono da sé, le sento con la brezza, e i cespugli silenziosi risuonano di migliaia di ricordi e, « visioni evocate da occhi poetici pendono da ogni foglia, e si attaccano ad ogni ramo ». Sono venuto qui quindici anni fa in esilio volontario; e mentre camminavo sui viottoli verdi del sottobosco, ripetevo il vecchio adagio « La mia mente per me è un regno ». Ho pensato così allora, e lo pensavo prima, e lo penso tuttora; e non m'importa di morire, ora che ho riversato lo spirito

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di quella mente sul mondo, e ho trattato molti argomenti con verità, con libertà e con forza. Ma perché sono stato accusato da allora in poi di non essere stato uno strumento del governo? Qui ho schizzato un profilo di quel vecchio onesto signor Orlando Friscobaldo, che, con il suo tono sottile, sostanzioso, e non privo di acredine, avrebbe apprezzato certamente, o preteso di apprezzare davvero, che io fossi stato uno strumento del governo! Qui ho scritto innumerevoli Discorsi a tavolino, e finora senza mai sbagliare, e adesso che sono già quasi finiti, potrei giurare, se non fossero miei, che i pensieri, in molti di essi, sono fondati solidamente come sulla roccia, liberi come l'aria, con un tono che nel suo insieme è simile a un « quadro italiano ». Questa affermazione di Hazlitt suona come il giusto apprezzamento della propria opera da parte dello scrittore: e non ricordo tra tutte le lodi del genio stesso di Hazlitt, nessuna più lusinghiera di queste linee vergate dalla sua stessa mano. Ma la falsa conclusione di Hazlitt che la grandezza del genio è cieca sulle proprie dimensioni e facoltà, deriva dal fatto che egli confonde la coscienza della superiorità che il genio possiede con l'incoscienza della sua causa, che ignora. Un uomo, che si è dedicato per dieci anni allo studio del greco, si rende perfettamente conto dell'origine della conoscenza acquisita, non meno che della sua vastità. Ma l'erudito Blacksmith, che riesce a imparare il greco in dieci giorni, si rende pure benissimo conto dei risultati ottenuti, anche se non può spiegare come abbia avuto la facoltà eccezionale per arrivarci. Gli scritti delle grandi menti sono piene di esempi della coscienza del loro talento. Shakespeare e Milton sono coscienti di ciò forse più di qualsiasi altro. Con quale certezza oracolare, sia l'uno che l'altro, promettono immortalità ai nomi citati nei loro versi. Proporre degli esempi, significherebbe in questo caso insinuare un dubbio sull'ignoranza del lettore, riguardo agli scritti di questi due sommi che sono ben lungi dal nutrire. Tutti sanno che Milton promise di scrivere il suo grande poema epico per molti anni, prima di scrivere una sola linea del Paradiso Perduto. L'intervallo tra la promessa e la realizzazione dell'opera fu dovuto al periodo di gestazione, ma richiedeva l'audacia del Genio fare una predizione che solo il Genio poteva realizzare. Checché se ne dica, il freddo egotismo, che non arrossisce di sé, è un'indicazione quasi infallibile di grandezza. Non ci può essere grandezza senza questa sicurezza di sé. Le vanterie dell'impudenza velleitaria sono tutt'altra cosa. Nel nominare Burke, Hazlitt dice: « Poiché il suo alto rango nel mondo delle lettere è diventato un punto fisso per noi, concludiamo che ciò deve essere stato evidente anche a lui, cioè che Hazlitt deve essere stato perfettamente cosciente della sua grande superiorità di fronte a tutto il resto del mondo. Ma non era così. Nessun uomo è veramente se stesso, se non nell'"idea" che gli altri hanno di lui ». Quanto al suo « rango nel mondo delle lettere » Burke non avrebbe potuto essere più fiducioso di sé, perché sapeva benissimo che il successo esteriore dipende tanto dal caso che dal merito, ma la sua superiorità di fronte al resto del mondo era un fatto, del

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quale ci sono molte ragioni di credere che egli fosse fermamente convinto, quanto lo è oggi qualsiasi suo ammiratore. Le stesse doti, che fanno grande un uomo, fanno sì che egli si renda conto, meglio di qualsiasi altro, della sua grandezza. Chi ha mai letto Burns senza essere colpito dai giudizi laudativi che pronuncia su di sé? Un uomo d'animo gen-tile come Walter Scott, lanciò i più terribili improperi contro il suo editore Blackwood, perché aveva la presunzione di suggerirgli che si poteva migliorare la trama di uno dei suoi Racconti del Mio Signore. E il cortese e onnipotente disprezzo che Scott espresse per Jeffrey, quando il critico recensì una delle sue poesie, con una leggera punta di riserva, che non sarebbe apparsa visibile nemmeno a un lettore comune, è per me una prova più sicura del suo Genio, che non la poesia stessa che ha scritto. Che « nessun uomo sia veramente se stesso se non nell'idea che gli altri si fanno di lui » è una menzogna bella e buona, e per di più vile e perniciosa: una menzogna, che, se fosse creduta, distruggerebbe ogni grandezza. Ogni senso di fiducia e di coraggio sarebbe subito spento, e gli uomini se ne andrebbero in giro a capo chino, paralizzati dalla paura di parlare o di agire, perché non potrebbero sapere in anticipo quali opi-nioni la gente ha su di loro. Nessun uomo è stato veramente grande, se la sua opinione di sé non era indipendente dalla opinione degli altri. La fiducia in se stessi è il solo fondamento su cui qualsiasi opera grande è stata mai eretta. È il combustibile che fa sviluppare il vapore, senza il quale il motore stesso diventa inutile. Intraprendere un compito, per cui uno non è cosciente di essere adatto, sarebbe l'opposto della modestia; e la modestia è una qualità che accompagna immancabilmente il Genio, non meno della fiducia in se stesso. « Che peccato » dice uno « che Milton non abbia avuto il piacere di leggere II Paradiso Perduto! ». Che peccato, dico io, che un uomo di genio, come Hazlitt, che è stato spesso immerso nella gioia di comporre e di creare, debba aver ripetuto questa sciocchezza. Si può mai credere che qualcuno, nello studiare II Paradiso Perduto, abbia provato metà del piacere che ha provato l'autore nel comporlo? Quale ricompensa avrebbe il poeta, se non ne ricavasse nessuna del suo lavoro? Può un poeta guardare la ricompensa che le sue fatiche gli hanno apportato, e dichiarare che gli hanno dato altrettanto piacere, quanto le fatiche stesse? Credo davvero, che - per quanto grande sia il diletto che il personaggio di Falstaft abbia dato al mondo -, il suo autore ha ricavato più piacere nel crearlo, che tutto il resto del mondo nel leggere l'opera che è stato ispirato a scrivere. Shakespeare, prima di scrivere il dramma incentrato su quel personaggio, udì tutte le battute di quel grosso cavaliere, espresse nella sua ricca voce oleosa, e vide le smorfie che le accompagnavano, insieme alle scrollate di spalle, e le frasi ironicamente solenni, che egli diceva con tono beffardo man mano che lo andava evocando sulla pagina: tutte cose che noi non possiamo udire o sentire. Inoltre egli vide e udì, nel fervore della sua immaginazione un migliaio di tratti caratteristici del suo buffo personaggio, che non potevano esser messi per iscritto. Il ritratto di Falstaft ci appare abbastanza vivo, palpitante e reale, ma paragonato all'originale, che era presente al poeta, nel momento

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in cui lo creava, è il mero schizzo di un'ombra. Ed è per questa ragione che gli autori hanno un tale disgusto della loro produzione. Al lettore i tentativi di descrizione, che lo scrittore fa delle cose che ha visto nel tumulto della creazione richiamano qualche sbiadita reminiscenza degli oggetti originali, e anche questa verosimiglianza, pur debole com'è, gli dà un certo piacere. Ma per lo scrittore, ciò che ha fissato sulla pagina, suscita solo un senso angoscioso per la inadeguatezza della sua penna a restituire con lo scritto le gloriose visioni che hanno infiammato la sua immaginazione. « Talvolta provo a leggere un articolo che ho scritto in qualche periodico o rivista, ma mi fermo subito dopo una frase o due, e non ci provo più ». Confessa Hazlitt. Tuttavia un'altra persona può leggere quello stesso articolo o recensione, anche due o tre volte, con piacere sempre rinnovato. Dickens ha dato una conferma della verità della mia asserzione nella prefazione a Martin Chuzz- lewit. Egli dice: « Se i miei lettori hanno derivato dalla lettura di questo romanzo solo metà del piacere e dell'interesse che ho provato nel comporlo, ho buona ragione di essere soddisfatto; e se essi prendono congedo da uno qualsiasi dei miei amici immaginari, con un minimo di quel senso di riluttanza e di rimpianto, che io sento nel lasciarli andare, il mio successo è stato davvero completo ». Questa è la più candida confessione che uno scrittore abbia mai fatto. Perciò, per quanto possiamo esserci divertiti in compagnia di un personaggio come Sairey Camp, Dickens si è divertito per parte sua il doppio di quanto ci siamo divertiti noi. E tuttavia Dickens non cercherà più la compagnia del suo personaggio, come il resto di noi, nelle pagine che ha scritto. La sua Sairey e la nostra Sairey sono due personaggi completamente diversi. La nostra Sairey è solo un'ombra, ma la Sairey che Dickens ha conosciuto è una realtà. Comunque, riluttanza non è la parola più adatta per esprimere la sensazione che abbiamo sperimentato, dopo aver finito di leggere il romanzo di Dickens, nel prendere congedo da Sairey Camp e dal Junior Bailey; un termine molto più forte deve essere usato senza esagerazione, per esprimere il dispiacere del nostro distacco. Hazlitt non crede però veramente nella sua teoria. Come tutti quelli che giocano col paradosso, sia intenzionalmente sia accidentalmente, egli rovescia e contraddice continuamente le sue argomentazioni. Tutti gli esempi che nomina, specie quelli dei pittori, per sostenere che il genio non è cosciente dei suoi poteri, contraddicono direttamente le sue asserzioni. Hazlitt non avrebbe potuto fare il nome di un grand'uomo che abbia avuto maggior fiducia e sicurezza nel proprio genio, di quanta ne abbia avuto Michelangelo. Dubito comunque che si possa citare alcun nome veramente grande, che non fosse cosciente del proprio valore. La timidezza di Cowper, persino, non era dovuta a mancanza di fiducia in ciò che era capace di fare; egli fu coraggioso abbastanza, da intraprendere il compito che si sentiva all'altezza di portare a termine. Chiunque ha avuto il privilegio di stringere un rapporto personale con uomini di genio deve aver notato molto spesso in questa persona degli scatti occasionali di orgoglio, dovuti alla

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coscienza della propria forza, che in uomini di minor levatura sarebbero apparsi come il non-plus-ultra della presunzione. Conosco un artista, che disse deliberatamente una volta, che poteva dipingere come Tiziano, e disegnare anche meglio. Un'affermazione come questa avrebbe fatto rizzare i capelli in testa ad Hazlitt, ma se avesse visto il lavoro dell'artista, il delizioso saggista inglese non avrebbe detto ciò che ha detto di Annibale Carracci, per aver fatto la stessa vanteria, cioè che « si sbagliava di brutto ». Ma questo stesso pittore, a cui ho accennato, nonostante ciò, avrebbe potuto scrivere sul suo lavoro Faciebam, L'ho fatto. Il dottor Johnson si vantò una volta di saper scrivere un libro di cucina migliore di tutti quelli che erano stati scritti sull'argomento. Sono portato a credere che sarebbe stato in grado di farlo, ma era troppo occupato col suo Dizionario per farlo davvero. « Il più grande piacere della vita è quello di leggere » dice Hazlitt. Ma qualunque libro, che dia piacere nel leggerlo, deve aver dato anche più piacere nello scriverlo. Siamo certi che sarebbe risparmiato ai critici tutto quel crudele divertimento, che si arrogano nello stroncare un libro mediocre, se gli autori si prendessero la briga di sottoporre attentamente i loro scritti, prima di pubblicarli, al tornasole delle sensazioni che hanno provato nel comporli. Se questo fosse vero, e mi appello come testimo-nianza a tutti gli autori di libri, in quale oceano di piacere devono essersi trovati immersi scrittori come Cervantes e Fielding, Rabelais e Sterne nel comporre i loro capolavori, contrassegnati dal divertimento puro.

Temi d'attualità La conversazione giornaliera di una grande città è altrettanto importante quanto il suo cibo quotidiano; la fonte da cui deriva non è meno difficile da scoprire. Ci deve essere sempre un dolce bocconcino da dare in pasto al pubblico. E fortunato è l'uomo (o la donna) che sfugge all'ingrato destino di essere macinato tra le fauci della pubblica opinione. L'anno scorso a quest'epoca tutti si ponevano una sola domanda: « Ci può essere una chiesa senza un vescovo? ». Adesso questa questione non interessa più, e non si sente parlare d'altro che del « vescovo ». La gente di malaffare, nell'apostrofarsi l'un l'altro, non trova accusa più offensiva di questa espressione: « Sei peggio di un vescovo ». I forestieri che passano di qui, sentendo parlar male dei vescovi, pensano di essersi imbattuti in una comunità sconvolta da violente polemiche religiose. La prerogativa di vescovo, a quanto pare, è la carica più pericolosa che possa essere conferita ad un essere mortale. Ci sono più vescovi notoriamente ribaldi, di cui si sente parlare, che non qualsiasi altro alto funzionario sia della Chiesa che dello Stato. Il grande spauracchio della nostra infanzia è stato il vescovo Bruno, che Southey ha immortalato nei suoi versi. E fin da quanto abbiamo acquisito un minimo di sensibilità artistica, abbiamo provato un vivo risentimento contro il vescovo di Colonia, che

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sprecò in guerre inutili il denaro, che avrebbe dovuto essere speso per poter portare a termine la famosa cattedrale. Un uomo di mondo, che ambiva condividere col vescovo la sua vasta fascia di pubblica attenzione, lo ha fraternamente abbracciato e adesso è pronto ad accettare in bene e in male le conseguenze della sua equivoca notorietà. È divertente ripercorrere a ritroso qualsiasi soggetto ormai superato che sia stato al centro della pubblica conversazione qualche tempo fa e analizzare le ragioni per cui si è imposto alla pubblica attenzione. A chi importa qualcosa, adesso di William Morgan, Sam Patch, o Mary Rogers? E tuttavia ognuno di questi individui a turno ha polarizzato l'interesse della pubblica conversazione. In pochi giorni l'argomento del vescovo non sarà più d'attualità; e non ne sentiremo parlare finché qualche romanziere, magari di qui a mezzo secolo, non ne farà il protagonista di un romanzo. Che imbroglioni siamo, e a quali imbroglioni andia-mo dietro! Dicono che Liszt, Thalbergh e Taglioni, stanno venendo qui a New York. Se è così, per un po' di tempo non si parlerà di altro. La balena deve avere una botte con cui divertirsi, e forse non gli si potrebbe lanciare un diversivo più innocente di un pianista o di un ballerino. Boz è stata la più grande « attrazione » che abbiamo avuto recentemente fra di noi, e forse l'incertezza del favore popolare in questo caso è stata dimostrata in modo più evidente. E come la città deve avere il suo argomento di con-versazione, così deve averlo l'intera nazione. Ed è straordinario come qualunque argomento d'attualità appaia assolutamente insignificante e privo di valore, dal momento in cui viene lasciato cadere nel dimenticatoio per la mancanza di interesse del pubblico. Il Texas è adesso il tema nazionale di conversazione, e a dire il vero è un argomento di tali dimensioni, che è difficile pensare che venga un giorno in cui possa mai sembrare meno importante. Ma anche questo argomento deve obbedire alle leggi della natura, come tutte le altre cose, e l'anno prossimo ci sentiremo degli sciocchi per esserci appassionati ad una cosa come così futile. La nostra memoria non arriva così lontano da ricordarci dell'epoca in cui fece un gran rumore la « questione del Missouri », ma ci ricordiamo molto bene che un direttore di un giornale, in occasione dell'anniversario del voto su questa questione, si diede la briga di pubblicare a grandi lettere nere i nomi di tutti gli uomini del Nord che avevano votato a favore di essa; e che questo stesso direttore di giornale si impegnò a riportare d'attualità quell'avvenimento lontano, pubblicando la « lista nera » come egli la chiamava, dei deputati incriminati ad ogni scadenza dell'anniversario del voto. Ma quel direttore continua a pubblicare ancora il suo giornale, ma sono passati molti anni, da quando ha smesso di pubblicare la sua « lista nera ». Senza dubbio adesso pensa che è stata una stupidaggine aver pubblicato quella « lista nera ». Gli avvenimenti esterni sono puri accidenti, è il sentimento interiore l'unica cosa che abbia qualche importanza. Che il Texas sia annesso o no dagli Stati Uniti, in se stessa è una questione meno importante, del desiderio di effettuare questa annessione.

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Libri illustrati in America Grandi speranze sono state suscitate nel mondo artistico e letterario dall'annuncio della pubblicazione di questa edizione della Bibbia (Harper's Illuminateci and new pictorial Bible, N° 1° to 17) e l'apparizione del primo numero con la prima pagina color rosa, e la copertina in rosso e giallo, non ha fatto che accrescere queste aspettative nella moltitudine dei lettori. Ma chiunque abbia la minima conoscenza di arte, avrebbe po-tuto prevedere, a giudicare soltanto dalla copertina, che la straordinaria sensazione che la pubblicazione aveva cominciato a causare, presto si sarebbe sgonfiata in un silenzio di morte. Può darsi che questo disinteresse del pubblico abbia qualcosa a che fare col fatto, che il primo numero dell'opera a puntate, che doveva lanciarne la vendita, conteneva circa il doppio di illustrazioni di quelli seguenti. Ma noi non ci sogniamo nemmeno di pensare che la maggior quantità di illustrazioni profuse nel primo numero fosse dovuta all'intenzione di allettare il pubblico ad acquistarlo, perché sappiamo bene che gli editori sono persone di onore irreprensibile, e che la Bibbia è un'opera, in cui degli operatori librari di professione, che trattano nel campo degli scritti religiosi, non oserebbero mai e poi mai praticare alcuna forma di inganno a scopi di profitto, che sarebbe contraria alla loro assoluta integrità di principi. E se l'ombra di un sospetto così perfido dovesse mai attraversare la mente di uno dei lettori, speriamo di dissiparla subito, illuminando la loro mente con considerazioni di carità. Abbiamo esaminato con grande attenzione l'intera opera, almeno per ciò che riguarda la parte che è già stata pubblicata, in attesa di imbatterci nelle parti cosiddette « miniate », ma non abbiamo scoperto la minima traccia di qualsiasi cosa che possa esser definita con questo termine aulico e desueto. Anche in questo caso dobbiamo mettere in guardia i lettori, di non attribuire, per carità, nessuna colpa di questo fatto agli editori, dato che è evidente che essi non avrebbero mai usato il termine « mi- matura », se ne avessero compreso davvero il significato. Anche il termine « Nuova Bibbia illustrata » si presta a un signi-ficato equivoco, perché non si può supporre che vada applicato alla Bibbia stessa che, come testo, nuova indubbiamente non è; e il fatto che alcune delle illustrazioni usate in questa edizione sono di vecchia data impedisce che il termine « nuovo » si possa applicare alle illustrazioni che contiene. Ma il titolo, nel suo complesso, forse, può elucidare il significato dei termini particolari di cui è composto. « Harpers Illuminated and New Pictorial Bible » suona un po' più chiaro. Questa edizione della Bibbia può sembrare vecchia a qualcun altro, ma per Harper è nuova. Noi siamo stati così pignoli con il titolo, perché abbiamo sentito molta gente discutere sul suo significato, che speriamo di aver contribuito a elucidare in tutta la sua pregnanza semantica. Non si può fare a meno tuttavia di deplorare la circostanza che - per un'impresa come questa, per cui era stato promesso tanto, e speso tanto danaro, e che in se stessa offriva

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un'occasione così preziosa per promuovere la causa dell'arte in questo paese, - non sia stato fatto qualcosa di più. La Bibbia è un'opera troppo vasta, per essere illustrata da una sola mano, non solo perché i suoi soggetti sono troppo vari per essere afferrati da una mente sola, ma anche perché i disegni della stessa mano, spesso ripetuti, alla fine diventano monotoni e noiosi. Un editore ha indubbiamente diritto, come qualsiasi altro uomo, a fare quel che gli pare con ciò che è suo; e se gli Harper scelgono di impiegare un solo artista per fare migliaia di disegni, invece di suddividere una così vasta opera di mecenatismo tra tutti gli altri membri della professione dotati di eguale talento, hanno diritto a farlo. Il diritto a cui abbiamo accennato è un diritto inalienabile assicurato agli editori per legge: il che non è il caso con tutti i diritti inalienabili, come una vasta parte della nostra popolazione può attestare. Ma, torniamo a ripeterlo, quando una considerevole quantità di mecenatismo viene elargita per promuovere le belle arti ili questo Paese, questo mecenatismo dovrebbe, per il bene dell'arte stessa, essere distribuito il più equamente possibile, perché con il mecenatismo succede come con il concime: una gran quantità ammassata insieme non produce altro che funghi, ma quando è sparso adeguatamente sulla terra fa nascere il grano. Non sappiamo chi ha disegnato i fregi sulla copertina di quest'opera e siamo contenti di non saperlo; speriamo che non l'abbia fatto nessun artista americano, perché si tratta dei fregi più assolutamente privi di qualsiasi merito artistico, tra tutti i disegni ornamentali, che siano mai stati visti: dei disegni, infinitamente migliori a questo scopo, avrebbero potuto essere scelti prendendoli a caso da una scatola di cotonina da uno scellino. È un tipo di disegno semplicemente senza significato, e assolutamente privo di grazia. Lo stesso si può dire dei bordi che circondano le grandi stampe della Bibbia, aggiungendo che due di questi bordi sono dozzinali, e uno è decisamente orribile. Gli stessi bordi con gli stessi emblemi, grappoli d'uva e motivi grotteschi, circondano ogni sorta di soggetti, senza alcun riguardo per l'armonia dell'esposizione. I disegni racchiusi in questi bordi sono tutti pestiferi; non ce n'è uno solo tollerabile in mezzo a loro; e l'incisione, se è possibile, è peggio del disegno. Siamo lasciati completamente all'oscuro quanto all'autore di queste miniature, ma ci rifiutiamo di pensare che siano state rubate, o piuttosto « prese in prestito », per due ragioni: primo, non siamo disposti a credere che gli editori, noti per la loro assoluta integrità, avreb-bero mai avallato una cosa del genere; e secondo, non crediamo che disegni così brutti e ripugnanti possano esser stati trovati, né pubblicati da nessuna parte. La vignetta sulla prima pagina, che troviamo firmata col nome di Chapman, è un'illustrazione molto carina, sia nel disegno che nel taglio, e dà credito sia a Chapman che ad Adams. Alcune delle vignette grandi, in testa ai capitoli, sono pure ottime; ma abbiamo l'impressione, difficile a dissipare, che la maggior parte di esse sono delle riproduzioni, perché non vediamo nessun nome di artista a cui vengano attribuite, e non sono di un carattere che qualsiasi nostro pittore sarebbe portato a ripudiare. I piccoli disegni, che

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evidentemente sono tutti di Chapman, sono per la maggior parte fatti molto bene; alcuni di essi rivelano molta verità e dolcezza. Riconosciamo qualcosa di Déjà-vu in una forma o nell'arte tra questi disegni, ma nel complesso hanno più originalità e carattere di quanto avevamo diritto di aspettarci. Chapman si mostra al meglio delle sue qualità in qualsiasi cosa che non sia la tela; come pittore, dobbiamo dire che fa un uso terribile dei suoi colori, ma in disegni come questi possiede, innegabilmente, una buona dose di talento. È un genere di talento, inoltre, che molti artisti di uguali o anche di maggiori pretese, non hanno. Le lettere iniziali, una cosa molto importante nei libri illustrati, sono tutte tracciate nel modo più povero possibile: smilze, deboli e dozzinali. Queste lettere mostrano una completa incapacità per l'arte da parte di chi le ha disegnate, che è mortificante specie quando viene esibita in un'opera di questa imponenza, che dobbiamo considerare come un esempio di quanto di meglio può esser fatto da noi nel campo dell'illustrazione libraria. Gli editori di questa Bibbia, a nostro parere, potevano fare quattro cose, se volevano fare una cosa fatta bene. Primo: dare uno slancio all'arte negli Stati Uniti, impiegando i migliori artisti del paese nel fornire disegni originali per l'opera. Secondo: guadagnare la perenne gratitudine del loro paese, producendo un libro illustrato, che potessero indicare con legittimo orgoglio come un monumento della perfezione dell'arte tra loro. Terzo: immortalare se stessi. Quarto: realizzare una considerevole aggiunta al loro patrimonio. Gli editori della Bibbia possono raggiungere quest'ultimo obbiettivo anche con la presente edizione così com'è ma avrebbero potuto farlo molto meglio - e realizzare al tempo stesso anche le altre cose, - con la stessa spesa che è costata loro quest'opera sotto tanti aspetti così deludente. Questi diciassette numeri contengono 187 incisioni. Troppe: sarebbero bastate la metà. Quanto a incisioni, un quarto di questo numero, a un costo minore della metà, sarebbe stato di doppio valore. Un disegno veramente buono sarebbe valso da solo quanto tutti gli altri 437 messi insieme, che sono contenuti nell'opera, e sarebbe stato più apprezzato dal paese, e a lungo andare avrebbe reso anche di più agli editori come guadagno. Mentre ogni Paese d'Europa sta producendo opere illustrate di carattere nazionale, sul piano della più alta qualità artistica, noi americani non abbiamo fatto niente, nella stessa linea, di cui possiamo a buon diritto vantarci. Tuttavia c'è fra noi americani il genio per fare grandi cose, se solo gli si desse la possibilità di affermarsi. Per tutto ciò che riguarda la composizione dobbiamo riconoscerlo, l'opera getta grande credito sugli editori. I tipi sono molto chiari e netti, l'inchiostro è di un nero denso molto brillante, e la carta è di qualità superiore. Le nostre osservazioni sulle illustrazioni sono tali, quali ci sentivamo onestamente di fare. È un'opera, questa grande Bibbia illustrata, che non potevamo passare sotto silenzio; e non potevamo d'altro canto

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liquidarla con l'encomio insignificante di coloro, che si sentono in dovere di dire qualcosa di gentile come ringraziamento per aver avuto una copia di presentazione in omaggio. L'arte dell'illustrazione è un ramo delle belle arti che ha ricevuto ben poca attenzione in questo paese, ma è di grande importanza per la nostra prosperità nazionale; dato che gran parte dei nostri manufatti, a pensarci bene, derivano metà e forse anche più del valore dalla mera arte della decorazione esterna. Con tutte le nostre vanterie sul genio americano, non siamo stati capaci ancora di disegnare un motivo per il fiocco di un cappello. Se vale la pena di avere certe cose, vale anche la pena di fabbricarle, ma questo non saremo mai capaci di farlo, a meno che un grande genio come Raffaello o Cellini non appaia fra noi, o non istituiamo delle scuole per la formazione degli artisti, come in Francia e in Inghilterra. Non siamo affatto sorpresi di vedere che disegni come questi dell'Harper's Bible vengono dalle mani di un membro della nostra Accademia Nazionale. Sarebbe ingiusto per i nostri artisti paragonare i loro disegni, in questo settore artistico che è stato così poco coltivato tra noi, con le produzioni che vengono dalle scuole di disegno francesi o inglesi; ma abbiamo il diritto di aspettarci almeno una prova che si cerca di raggiungere il giusto obbiettivo, a parte la capacità di realizzarlo, nelle opere curate dai membri di un'istituzione così pretenziosa, come quella della nostra «Accademia Nazionale ». Se i nostri artisti non si imbevono di principi corretti, non potranno mai realizzare niente di buono, anche se hanno una grande abilità tecnica in fatto di « manipolazione » di modeli già esistenti. In tutto ciò che un artista cerca di fare, deve cercare soprattutto di imitare la natura. Niente può essere realizzato, se si dimentica questo. Ma noi siamo spinti a credere che l'artista o gli artisti, che hanno curato le decorazioni della Harper's Bible abbiano per un principio del genere un grande disprezzo. Chiunque guardi le mostruosità e gli errori, che egli è riuscito ad ammassare sui bordi di molti dei disegni in quest'opera, si rende conto che egli ha voltato le spalle alla natura, e che la natura gli ha voltato le sue.

Note generali Romanzo Il Corsaro, il romanzo di Poe che appare qui per la prima volta come inedito mondiale nell'edizione definitiva in forma di libro, fu pubblicato a puntate sul Gentleman's Magazine di Filadelfia, nel periodo tra luglio e dicembre del 1839. Poe scrisse la prima stesura del romanzo in casa della nonna paterna, a Baltimora, dove si era rifugiato dopo la rottura col padre adottivo John Allan, in seguito al suo abbandono dell'Università e al suo rifiuto di entrare nella ditta per la manifattura di Tabacchi che Allan dirigeva. Oltre alle sue esperienze dei due anni di vita militare, specie il periodo trascorso a Fort Mambrie e nell'isola Sullivan, nel Sud Carolina, nei pressi di Charleston, come sergente

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maggiore di artiglieria, Poe utilizzò in questo romanzo (ambientato all'epoca della seconda guerra d'indipendenza americana con la Gran Bretagna e proiettato sullo sfondo della vita di bordo) i resoconti del fratello Henry, figlio del suo padre vero, David, scomparso all'indomani della sua nascita. Henry, che conduceva una vita dissipata, dedita al bere e alle donne, era quasi coetaneo di Poe, portava il suo stesso cognome e pur essendo arruolato regolarmente in marina, nutriva velleità letterarie, forse stimolate dall'esempio del fratello. Non si peritò pertanto di sottrargli la prima stesura del romanzo, ancora in forma di abbozzo, insieme a un gruppo di poesie, e riuscì a pubblicarlo a suo nome sul North American di Baltimora nel 1829. I rapporti di Edgar col fratello (che egli adombrerà poi nel racconto William Wilson) furono di natura fortemente ambivalente: nonostante la simpatia dovuta al legame di sangue, Poe era irritato dalla mancanza di scrupoli di Henry, ma non osava protestare contro i suoi plagi e soprusi, per non scontentare la zia, Maria Clemen, che lo aveva allevato. Il Corsaro, pur essendo fondamentalmente un romanzo d'avventure, con episodi di battaglie tra i pirati non privi di colore e di suspense, e splendide descrizioni di sfondi marini, contiene anche una romantica storia d'amore, caratterizzata da idillici incontri, brusche separazioni e patetiche riconciliazioni, che adombra il tempestoso rapporto di Edgar con la sua fiamma giovanile, Elmira Royster. Che il romanzo sia stato scritto da Poe risulta chiaramente dai fin troppo scoperti elementi di confessione autobiografica che esso contiene, in quanto rispecchia non solo il suo amore burrascoso per la Royster, ma anche il suo innamoramento per Virginia, la sposa-bambina che costituì la grande passione della sua vita. La penna di Poe, in questo romanzo che precorre direttamente il Gordon Pym e che sotto certi aspetti anticipa il Moby Dick di Melville, si rivela inoltre nelle maliose descrizioni di sfondi marini e nelle fosche scene di tempesta e di strage, anche se la convenzionalità della trama risente degli schemi narrativi correnti. Un altro aspetto significativo del romanzo è lo sdoppiamento di Poe nelle due figure maschili dominanti, De Berrian e il cugino, che rispecchiano i due lati conflittuali della sua personalità, legata alla sua stessa situazione esistenziale: da un lato, lo spirito sdegnoso e ribelle del giovane diseredato e perseguitato, dall'altro l'inconscio desiderio di essere in qualche modo reintegrato ed accolto in quella società ricca e aristocratica della Vecchia America a cui (come appare nel drammatico scontro con il padre adottivo all'inizio del romanzo) aveva decisamente voltato le spalle. La prosa di Poe, in questo romanzo, risente qua e là del tono liricheggiante e della scrittura elaborata, che gli derivava dalla sua esperienza di poeta, e che lo portava a indugiare più sull'arabesco stilistico che non sulla narrativa asciutta e funzionale. Ciò non toglie che la scrittura - specie quando Poe descrive la violenza delle bufere o la ferocia degli eccidi - raggiunge una insolita efficacia. Anche le scene sentimentali non mancano di fascino, per la finezza dell'introspezione psicologica, per la rievocazione magistrale delle atmosfere languide e sensuali del vecchio Sud, e per la nota struggente e malinconica, tipicamente romantica, dell'amore non corrisposto e dell'esilio volontario, che Poe aveva ripreso da Byron e da Goethe.

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Racconti I racconti inediti di Poe che presentiamo rientrano solo in parte nel novero della sua vena predominante del terrore e dell'angoscia, per lo più rispondono a una intonazione di fondo satirico - grottesco, (che è tuttavia più importante di quanto forse non si creda come matrice della sua ispirazione nel complesso della sua opera). Se Uno spettro a New York, e sotto certi aspetti, anche Un sortilegio di nome Hannah rimandano direttamente ai racconti dell'allucinazione e dell'orrore, in altre composizioni, come Vampiri a Manhattan, e Le scimmie mannaie prevale piuttosto il tono burlesco e fantasioso, sia pure con qualche sinistra incursione nel macabro e nel terrificante.

Miscellanea La saggistica di Poe è molto ampia, ed è conosciuta solo in minima parte. Gli Scritti ritrovati che qui presentiamo si muovono su un ventaglio molto vasto, che va dalla divagazione intellettuale e la confessione indiretta, al trattato sul gusto e sulla moda e al commento d'attualità. Pezzi come L'usura della letteratura e È il genio cosciente dei suoi poteri?, Architettura rurale, Libri illustrati in America, rientrano nella disamina culturale ad alto livello, mentre I pensieri di un uomo silenzioso stanno tra la rivelazione autobiografica, la speculazione filosofica e l'analisi psicologica. Più leggeri e frizzanti, per l'humour che li caratterizza, « elzeviri » quali Barba e barbarie, Dignità dei sarti, Consigli a un giovane che entra in società. Abbiamo incluso nella miscellanea infine anche quegli scritti più propriamente tecnici e scientifici - primo germe dei suoi racconti di fantascienza - che rivelano l'interesse di Poe per le scoperte e le invenzioni del suo tempo.

Nota biografica Francesco Mei ha studiato alla Scuola Normale di Pisa e si è perfezionato negli Stati Uniti a Notre Dame e ad Harvard. Ha pubblicato diversi studi e ricerche sulla cultura anglosassone, fra cui un compendio di letteratura inglese e una breve storia della letteratura americana per l'Enciclopedia Mondadori; l'antologia America 800 nelle edizioni Casini; ha curato diversi profili di scrittori americani per l'opera I Contemporanei della Lucarini. Ha pubblicato in America un saggio su Allan Tate con la Minnesota University Press. Ha presentato per la prima volta in italiano il romanzo di Cummings, La Stanza enorme e curato diverse traduzioni di scrittori inglesi e americani. Il suo saggio sulla fantascienza La giungla del futuro (Cooperativa Scrittori, 1976) ha avuto il Premio Estense per il giornalismo.