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Se non altro per onor di testata, l’Espresso ha ricordato chequarant’anni fa proprio sulle sue colonne Craxi pubblicò

Il Vangelo socialista. Prima lo aveva fatto solo Fabio Martinisulla Stampa, e dopo sul Corriere Sergio Romano nel recen-sire un libro di Giovanni Scirocco: ed ovviamente ne par-liamo anche noi con l’articolo di Nunziante Mastrolia.Eppure la ricorrenza avrebbe meritato qualche spazio in più,in una fase in cui i giornali sono pieni delle discettazioni diintellettuali di ogni genere e specie che si affollano attorno alcapezzale di una sinistra in sala di rianimazione (e che deplo-rano la desuetudine di quella che una volta si chiamava “labattaglia delle idee”). Intendiamoci: lo scritto di Craxi è inevitabilmente datato, egià allora poteva sembrare un anacronismo, dal momento chele dure repliche della storia erano sotto gli occhi di tuttialmeno a partire dal 1956. Ma Craxi replicava ad Enrico Ber-linguer, che tre mesi dopo l’assassinio di Aldo Moro, in un’in-tervista alla Repubblica, perorava ancora “la permanente vali-dità della lezione leninista” ed irrideva all’eclettismo ed alla“debolezza culturale” del nuovo corso socialista. Il leader delPci, del resto, era in buona compagnia. Dopo il successo elet-torale del 1976 sulla Repubblica Alberto Asor Rosa avevacelebrato nel Pci l’erede legittimo di tutta la tradizione cultu-rale del movimento operaio italiano, “da Turati a Lenin”, e sulCorriere Umberto Eco aveva rilevato come ormai in Italia ilmarxismo fosse diventato senso comune: mentre nello statutodel Pci lo stesso marxismo continuava ad essere collegato alleninismo da un trattino. Allora non fu difficile ai comunisti eludere il confronto: bastòche qualche erudito di servizio estraesse il nome di Proudhondal gran numero di citazioni di critici del leninismo richiamatinell’articolo (da Rosa Luxemburg a Kautsky, da Trotzky aBernstein, da Bertrand Russell a Carlo Rosselli, a NorbertoBobbio ed a tanti altri) per intestare l’articolo al controversoutopista francese e costringere il giornalista collettivo ad unrapido ripasso delle sue tesi, talora effettivamente strampa-late. E fu così che anche quella sfida non venne raccolta, masemplicemente elusa.

Non si trattò di una sfida velleitaria, anche se la forza deinumeri stava indubbiamente dalla parte del Pci. Non a casoveniva portata verso la fine di un anno, il 1978, che a buonaragione può essere considerato fra le date periodizzanti dellastoria della Repubblica: l’anno in cui Aldo Moro avverte ildeclino del potere di coalizione della Dc, ed in cui il Psi, alcongresso di Torino, approda a quella che l’intelligenza iro-nica di Walter Tobagi definì la “socialdemocraxia”, e chesegna, col “Progetto socialista”, la valorizzazione in sedepolitica di quanto scrivevano su questa rivista intellettualifino ad allora ai margini della vita di partito: da Amato a Ruf-folo, da Giugni a Forte e a tanti altri. Ma soprattutto l’anno incui lo stesso Moro viene sequestrato ed assassinato, e papaPaolo VI ne deve celebrare le esequie cadavere absentedavanti a tutti i maggiorenti della vita repubblicana. Ed èforse proprio nei cinquantacinque giorni che passano dal 16marzo al 9 maggio che la sfida di Craxi, benché perdente, sirivela più pericolosa di un articolo di giornale per l’egemoniadel Pci su vasti strati dell’opinione pubblica.Fu allora, infatti, che Craxi riuscì a fare breccia in significa-tivi segmenti del mondo cattolico, in quella porzione dellasinistra extraparlamentare che aveva rifiutato la lotta armata,e perfino presso personalità non secondarie del mondo comu-nista, da Lucio Lombardo Radice ad Antonello Trombadori. Efu soprattutto allora che gli italiani ebbero modo di valutare lasterilità di un partito che si voleva fare Stato e di un altro cheforse preterintenzionalmente davvero si era fatto Stato. Tantoche non è azzardato sostenere che cinque anni dopo Craxisarebbe approdato a palazzo Chigi non per il solito “stato dinecessità”, ma per una conquistata “centralità socialista”testimoniata anche dall’elezione nell’Assemblea nazionaledel Psi di personalità che non erano certo “nani e ballerine”:da Francesco Alberoni a Valerio Castronovo, da MassimoSevero Giannini a Gianni Brera, da Mario Soldati a GiorgioStrehler, da Umberto Veronesi a Marisa Bellisario, a NicolaTrussardi e a tanti altri. Anche allora, peraltro, per Berlinguer Craxi restò “un peri-colo per la democrazia”: questa volta in ragione della forza

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dei numeri, evocata allora con la stessa determinazione concui per legittimare la loro alleanza ora la evocano Di Maio eSalvini. E comunque, quando Craxi - dopo alcune migliaia diore di trattative con Cgil, Cisl e Uil – firmò il decreto sullascala mobile, non mancò l’erudito di turno che riesumò unostudioso allora poco frequentato come Carl Schmitt per impu-targli il reato di “decisionismo”: anche se in quel caso il gior-nalista collettivo non venne disturbato nella sua pigrizia, sur-rogato come fu dal giornalismo pop di Giorgio Forattini,completo di stivaloni e di camicia nera.La storia controfattuale è prerogativa degli sconfitti, fra iquali indubbiamente dobbiamo annoverarci. Ciò non toglieche c’è da chiedersi che cosa sarebbe stato del nostro sistemapolitico se allora la Dc avesse preso atto del declino del pro-prio potere di coalizione ed il Pci avesse rinunciato a coltivareil proprio “consenso crescente”, e non avesse continuato aseguire quella “strategia dell’obesità” che ad esso venne con-testata da Luciano Cafagna all’atto del suo scioglimento: obe-sità che in genere non aiuta l’efficacia dell’azione politica, magarantisce soltanto un più lungo processo di decomposizione.Quel processo ora è giunto al termine, così come si è esauritala “spinta propulsiva” di un astuto tycoon che un quarto disecolo fa seppe mettere insieme il diavolo e l’acqua santa, laLega ed i reduci del Msi. Niente di strano, quindi, se ilsistema politico della seconda Repubblica è venuto giù comeun castello di sabbia, ed i suoi due pilastri di sostegno sono

crollati su se stessi. Strana sarebbe (e purtroppo è) la pretesadi costruire un altro castello con gli stessi materiali di quelloche è crollato: e strana è la tendenza in atto nel Pd a ridurre aquestione interna la rigenerazione di un’area di sinistra rifor-mista nel nostro paese.E’ vero: la crisi del Pd coincide con quella che attraversa tuttala socialdemocrazia europea. Ma c’è da augurarsi che almenoquesta volta il fatto non funzioni da alibi per non fare i conticon le conseguenze di una quarantennale peculiarità italiana:e pazienza se l’urgenza di questa riflessione contraddice il“presentismo” che ormai inquina la nostra vita politica. Delresto non è necessario essere nostalgici del passato per pren-dere atto di quanti mondi vitali in questi venticinque annisono rimasti esclusi dal circuito politico, e di quanto sianecessario riferirsi innanzitutto ad essi per ricostruire qual-cosa che prescinda dai nipotini di Berlinguer che non sonomai stati comunisti e dagli eredi immaginari di quel Moro chequarant’anni fa non si volle (o non si seppe) salvare dai suoicarnefici.Questa rivista, per quello che può contare, è al servizio deimondi vitali finora negletti (o al massimo catalogati comel’Intendence napoleonica) in quella che avrebbe dovutoessere la casa comune di tutti i riformisti. Forse è un impegnoimpari rispetto alle sue modeste forze. Ma in fondo è statafondata da quel Pietro Nenni che aveva fatto proprio il mottokantiano: “Fai quel che devi, accada quel che può”.

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