Download - Berti, Proudhon

Transcript
Page 1: Berti, Proudhon

Giampietro D. Berti

LA DIMENSIONE LIBERTARIADI

PIERRE-JOSEPH PROUDHON

Città Nuova Editrice

Page 2: Berti, Proudhon

IDEE/Sezione Readings

Collana a cura di Gaspare Mura

Tutti i diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento riservati per tutti i paesi

© 1982, Città Nuova Ed., via degli Scipioni 265 - 00192 Roma

Page 3: Berti, Proudhon

« ...Applaudo di tutto cuore la vostra idea di portare in luce tutte le opinioni; fac­ciamo una buona e leale polemica; dia­mo al mondo l’esempio di una informata e lungimirante tolleranza, m a non fac­ciamo di noi stessi, perché siamo alla testa di un movimento, i campioni di una nuova intolleranza, non posiamo ad apo­stoli di una nuova religione, fosse pure la religione della logica, la religione del­la ragione ».P.-J. Proudhon a Marx, 17 maggio 1846.

«Cosa stupefacente, la maggior parte dei rivoluzionari, a imitazione dei conserva- tori che combattono, non pensano che a costruire prigioni ».P.-J. Proudhon.

« La libertà: ecco la prima e l’ultima pa­rola della filosofìa sociale ».P.-J. Proudhon.

Page 4: Berti, Proudhon

PREMESSA

È sempre scorretto strumentalizzare un autore a fini politici o anche religiosi. La varietà e le suggestioni del pen­siero di Pierre-]oseph Proudhon non possono essere infatti intese nel loro valore positivo come pure nei loro limiti reali, partendo unicamente dalla utilizzazione che se. n’è fatta anche di recente per motivi di attualità politica o anche dalla opposizione radicale a tutta la sua figura a cagione del suo più volte proclamato ateismo e anticlerica­lismo. Del resto, Henri de Lubac in un noto libro, Proudhon et le christianisme (Parigi 1945), da teologo intelligente, ha tentato di penetrare il senso ultimo delle affermazioni anti­cristiane di Proudhon riconducendole all’orizzonte cultu­rale in cui si è mosso l’autore nel suo tempo, e, pur denun­ciando i possibili esiti anticristiani e soprattutto antieccle- siastici del modo in cui è strutturato questo pensiero, ha evidenziato come l’aspirazione alla libertà e alla giustizia proprie di Proudhon non fossero di per sé contrarie ai va­lori cristiani. Non sembra perciò scorretto, al di là delte professioni di fede « atea » di questo autore, riappropriarsi dei numerosi stimoli fecondi dovuti al pensiero sociale di P.-J. Proudhon. E ciò non per una lettura « strumentale »o «politica», quanto piuttosto per un'operazione culturale, che è lo scopo a cui spera di contribuire questo lavoro.Del resto, nonostante che il pensiero sociale di Proudhon rappresentasse ancora un mito in alcuni strati della cul­tura europea déll’Ottocento: è noto come il conte Pierre Bezukov di Guerra e pace di Tolstoj incarnasse l'ideale so­ciale e libertario di Proudhon; come peraltro il suo pen­siero abbia ispirato il sindacalismo francese fine Ottocento, dall’anarco-sindacalismo di Pelloutier al sindacalismo rivo­luzionario di Sorel; e nonostante si siano occupati di Prou­dhon in questo secolo sociologi di rilievo come Pierre Ansart, Georges Gurvitch, fino all’ultimo saggio di Jacques Langlois, Attualità di Proudhon, Milano 1980, il pensiero proudhoniano è stato oscurato dal trionfo del pensiero marxista. Ora, è proprio l’antitesi Proudhon-Marx, che si è manifestata fin

Page 5: Berti, Proudhon

10 Premessadall’inizio nei rapporti tra questi due autori, che polarizza l’attenzione dello studioso, il quale si trova di fronte a due diverse e ben precise concezioni della società e dei rapporti sociali: da una parte, il collettivismo comunista di Marx; dall’altra, il federalismo libertario e mutualista di Proudhon. E quindi a due diverse e opposte concezioni della funzione dell’economia nella società: da una parte, l’economia di Stato, intesa come totale statizzazione dei mezzi di produ­zione di Marx; e, dall'altra, l’economia autogestionaria di Proudhon secondo la quale la proprietà deve trasformarsi in possesso da parte del lavoratore di tu tti i mezzi che aiutano il suo sviluppo personale e sociale, con la conse­guente valorizzazione dell'economia di mercato che sola può impedire allo Stato di divenire Stato-padrone — come di fatto avviene negli Stati del socialismo reale — e soffoca­tore delle libertà individuali. È chiaro che quando Marx, nel 1847, scrisse la Miseria della filosofìa per combattere e ridicolizzare le critiche che Proudhon gli aveva mosso l’anno precedente nel Sistema delle contraddizioni economiche, ov­vero filosofia della miseria, si trattò allora non di una po­lemica casuale, ma dello scontro tra due diverse concezioni dell’economia, dei rapporti sociali e della politica. Scontro che tuttora permane e che sottende in fondo due diverse concezioni della persona umana, ossia due diverse antropo­logie. L’esposizione attenta di alcuni principali momenti del pensiero di Proudhon la si potrà trovare nelle pagine del presente lavoro; ma possiamo qui chiederci, a titolo indica­tivo: Quali sono gli elementi che rendono ancor oggi inte­ressante il pensiero di questo autore primo Ottocento, originario della campagna francese, esponente di un socia­lismo riformista ante-Marx e anti-Marx?Anzitutto, l'intuizione premonitrice, rivelatasi poi esatta nei Paesi del cosiddetto socialismo reale, che espropriare il lavoratore di tu tti i mezzi di produzione non significa abolire il capitalismo, piuttosto crearne uno nuovo e peg­giore, che riproporrà nuove e più temibili alienazioni: il capitalismo di Stato.In secondo luogo, la certezza che la pianificazione eco­nomica da parte dello Stato, con l’abolizione dell’economia di mercato, significa né più né meno che la fine della libertà. « Dalla proprietà al possesso » è la formula di Proudhon, secondo il quale il possesso, allargato a tu tti i lavoratori, è sinonimo di libertà. Ciò viene condensato dal Proudhon nel termine: autogestione, che non dobbiamo intendere iden­tificandolo con modelli autogestionari fin qui realizzati, bensì come ideale ispiratore di un'economia decentrata a

Page 6: Berti, Proudhon

Premessa 11

cui deve corrispondere uno Stato che non assuma tutto il potere, come nel marxismo, ma che sia puramente arbitro degli inevitabili conflitti sociali. Si tratta quindi per Prou- dhon di un sistema sociale e politico non totalitario, ma federativo — oggi lo diremmo pluralistico — in cui l’elemento della società civile ha la netta preminenza sulla società politica.Infine, come giustamente ha fatto rilevare il Langlois nel saggio citato, non è da trascurare l’elemento «personali­s ta » insito nella riflessione del Proudhon. Quando Marx criticava aspramente Proudhon come piccolo-borghese per­ché intendeva il progresso sociale non nel senso da lui voluto, ossia dalla persona verso la società, ma viceversa dalla società verso la persona, coglieva bene l’elemento prevalentemente personalista del Proudhon, per il quale la persona resta il valore assoluto e non può mai divenire una variabile dipendente dalla società. Personalismo, si badi bene, che non vuol dire affatto individualismo, ma valoriz­zazione della persona umana anche e soprattutto nella sua dimensione sociale. E qui diverrebbe interessante aprire il discorso sulle affinità e differenze esistenti tra Proudhon e il personalismo comunitario di Emmanuel Mounier. Pino a che punto il personalismo mounieriano può ritrovarsi nel libertarismo di Proudhon? Qual è l’antropologia che fa da supporto alla sociologia di Proudhon e alla filosofia comu­nitaria di Mounier, e sono esse compossibili? Ma questo è un discorso ancora tutto da fare, provocatorio, si, ma indub­biamente interessante perché condurrebbe inevitabilmente a ripensare il valore primario della persona umana, anche nel suo essere sociale.G.M.

Page 7: Berti, Proudhon

INTRODUZIONE

Nella storia del socialismo, il posto di Pierre-Joseph Prou­dhon non è stato ancora messo nella sua giusta luce. E sen­z'altro inaccettabile infatti che ancora oggi il giudizio su di lui ricalchi senza appello quello formulato cent'anni fa da M arx1. Un giudizio che lo vuole rappresentante socialista della piccola borghesia e perciò teorico confuso e contrad­dittorio, diviso tra gli interessi del proletariato e quelli della classe media.Altre interpretazioni non si discostano molto da quella marxista, tutte avendo in comune la convinzione che egli sia stato incapace di comprendere il mondo moderno segnato dall'irreversibile rivoluzione industriale. Perciò l'immagine riportata da m olta storiografia è sempre quella di un uomo rivolto al passato, più che al presente e al futuro. Nascerebbe da qui il suo anarchismo ribellistico, la natura della sua pro­testa, morale oltre che politica, contro l'ordine esistente2.Si tra tta di un'interpretazione sostanzialmente errata, in cui non gioca solo il pregiudizio marxista, ma anche una sco­perta ignoranza delle sue idee. In Italia, ad esempio, l'esiguità degli studi che gli sono stati dedicati è la causa della ripetiti­vità stereotipa dei giudizi sul suo pensiero che si riscontra in tu tte le storie del socialismo.Eppure Proudhon, a chi si ponga seriamente l’intento di studiarlo, non si presta a confuse interpretazioni; la sua ope­ra anzi induce a considerarlo uno dei massimi pensatori del socialismo. Egli infatti ha formulato per primo alcune ana­lisi fondamentali sulla società capitalista, indicando nello stesso tempo al movimento operaio le direttive di fondo per la sua emancipazione.Egli, soprattutto, è l'iniziatore di una corrente di pen­siero che, pur essendo completamente dentro la tradizione socialista, non viene a identificarsi per nulla con il marxismo, il che è un punto di vista completamente diverso da quello consueto3.Di conseguenza, tenendo presente questa fondamentale demarcazione, è possibile ripensare la storia del socialismo

Page 8: Berti, Proudhon

14 Introduzione

secondo una periodizzazione molto divergente da quella pro­posta dall'autore del Capitale articolata, com’è noto, sullo spartiacque tra la fase utopistica e la fase scientifica, tra il socialismo umanitario e filantropico e il socialismo agguer­rito e maturo « dopo Marx ».In effetti il socialismo, se inteso come aspirazione alla li­bertà e alla uguaglianza, non data certo dal Manifesto del Partito Comunista e non può esaurirsi nella disamina mar­xista, tra l'altro dedotta da un’analisi del capitalismo oggi superata. Occorre dunque ripensarlo come ima volontà posi­tiva volta alla trasformazione del mondo che non muova da presunte leggi oggettive della storia. In questo senso Proudhon pone il problema della realizzazione del socialismo al di là dell'improbabile determinismo economico, postulato e puntualmente smentito dalla storia, di Marx. L’ipotesi del socialista francese rifugge quindi, ed è la naturale conse­guenza del rifiuto dell'atto di fede nella necessità storica, anche il concetto di rivoluzione intesa come conquista poli­tica del potere. Su questa via essa scinde il destino storico del movimento emancipatore dal pathos giacobinista, ren­dendo possibile al socialismo la reale comprensione delle conquiste liberali e la loro assimilazione fino a renderle stru­menti operativi dell'emancipazione delle masse oppresse4.Soprattutto attorno a questa fondamentale questione, quella del potere, si chiarisce il nodo problematico del rap­porto fra riformismo e rivoluzionarismo. È consuetudine storiografica infatti legare la nascita della consapevolezza teorica del riformismo alla svolta revisionista. Ci si dimen­tica con ciò che è esistito anche un riformismo, quello prou- dhoniano appunto, che esce dal dilemma tra conquista vio­lenta del potere e conquista moderata, per fondarsi invece sull'« indifferenza » programmatica nei confronti di ogni azio­ne volta al dominio. Il rifiuto della teorizzazione ideologica della conquista del potere viene anzi posto da Proudhon quale condizione imprescindibile della realizzazione della società senza classi.Ci si dimentica dunque che è esistito un socialismo rifor­mista non necessariamente autoritario, a tu tto vantaggio di un’interpretazione del riformismo come socialdemocrazia secondintemazionalista, ossia come soluzione deficitaria ed errata, ancora ima volta, rispetto al marxismo.Il riformismo non autoritario concepito dal socialista francese non coincide dunque con quello marxista. Ma nep­pure completamente con il rivoluzionarismo anarchico. Con quest’ultimo condivide 1’« indifferenza » nei confronti del potere; tuttavia la posizione anarchica nei confronti del po­tere non è solo quella della sua non considerazione, m a anche

Page 9: Berti, Proudhon

Proudhon: varie interpretazioni 15

e necessariamente della sua distruzione. In ogni caso, tra Proudhon e il pensiero libertario esiste una similarità netta­mente superiore a quella esistente nei confronti del marxi­smo, e ciò giustifica in sede critica la problematica definizio­ne di Proudhon quale primo teorico dell'anarchismo5.Fondando su altre basi da quelle marxiste l’interpreta­zione della storia del socialismo, a partire da Proudhon si deve proporre dunque ima sorta di quadripartizione, perché come esiste im a duplice tradizione rivoluzionaria, cosi esiste una duplice tradizione riform ista. La tradizione rivoluziona­ria può intendersi divisa tra la corrente autoritaria che va passando attraverso il marxismo, dal giacobinismo al lenini­smo; e la corrente antiautoritaria deH'anarchismo iniziata da Bakunin. La tradizione riform ista può intendersi a sua volta divisa fra una corrente cominciata con Proudhon per conti­nuare poi con Malon, Merlino, Russell, Cole, e una corrente autoritaria nata con il revisionismo socialdemocratico. In base a questa chiave interpretativa è possibile comprendere tutta l’importanza del pensiero proudhoniano, perché pone nel socialismo l'esistenza non solo della discriminazione fra rivoluzionarismo e riformismo, m a anche tra autoritarismo e libertarismo.Questa ripartizione, inoltre, consente anche una più lucida identificazione teorica e storica dello scrittore di Besançon, che si rapporta tanto all’anarchismo quanto al riformismo socialista, in una continua contrapposizione e intersecazione di piani alla fin fine riconducibili, ma non in modo lineare, al binomio socialismo-libertarismo. Il suo pensiero intende porsi in effetti come estremo equilibrio fra le ragioni della libertà e quelle dell’uguaglianza, f ra le tradizioni del libera­lismo e quelle del socialismo fin allora contrapposti, fra la critica al capitalismo e il riconoscimento delle libertà indi­viduali in esso contenute, e per questo offre un ventaglio in­terpretativo assai ampio. Ciò è confermato dalla ricchezza dei suoi contenuti, sempre comprensivi di tu tte le dimensioni della realtà sociale e in questo senso più che presentarsi come un’ideologia ben definita, la teoria proudhoniana può essere vista come ima riflessione continua sulla realtà a par­tire dalla convinzione della sua irriducibilità ad ogni sche­matizzazione 6.Questo sforzo di cogliere la realtà sociale nel suo infinito svolgimento non è privo talvolta di incertezze metodologiche e concettuali, che risultano di ostacolo all’interpretazione del­la sua dottrina. A questa intrinseca difficoltà di in terpreta­zione, si aggiunge l’evoluzione stessa di Proudhon che da un democraticismo venato di socialismo, inclina, negli anni cru-

Page 10: Berti, Proudhon

16 Introduzione

ciali intomo al '48 (precisamente gli anni dal '46 al ’56), ad un anarchismo radicale sul piano della critica politica7.Le stesse vicende personali intrecciate alla sua militanza politica lo hanno fatto apparire sia rivoluzionario, sia difen­sore dell’ordine costituito, senza che sull’una o l’altra defini­zione converga un giudizio unanime. Cosi egli è stato discus­so in quanto fondatore del pensiero anarchico, oppure stron­cato dai marxisti quale piccolo borghese; è stato salutato dalla destra francese come teorico dell’autorità familiare e riconosciuto dai socialisti liberali come loro precursore; è stato identificato dal sindacalismo rivoluzionario come nume tutelare e intellettuale di Sorel e riscoperto infine dal socia­lismo consiliare come iniziatore dell’autogestione operaia8.La varietà delle interpretazioni è confortata dalla diversi­ficata influenza che il proudhonismo ebbe su alcuni impor­tanti esponenti democratici, socialisti e operai europei del secolo scorso. Dando per scontata la sua ascendenza sul mo­vimento anarchico internazionale, ricorderemo intanto la grande suggestione da esso esercitata in alcuni rappresentanti del Risorgimento italiano della tendenza federalistica, auto­nomistica e socialista9. Si sa che Proudhon era contrario all’unità d’Italia, ritenendo che occorresse invece per la nostra penisola una rivoluzione sociale a carattere contadino10. Queste idee — che sottolineavano l’indispensabile preceden­za della rivoluzione democratica sulla guerra d’indipenden­za — influenzarono assai personaggi come il F erra rin, il Pi- sacaneI2, il M ontanelli13. È tram ite questo filone di pensiero che penetra in Italia il socialismo, che sarà per molto tempo di ispirazione libertaria e um anitaria14.Grande importanza ebbe Proudhon anche in Spagna, so­p rattu tto dopo il 1868. Le sue idee federalistiche ispirarono imo dei massimi democratici spagnoli dell'epoca, Pi y Mar-fa ll15. Dopo la rinuncia di Amedeo di Savoia alla corona di pagna, fu proclamata nel 1873 la repubblica e posto a suo presidente proprio il Pi y M argalllé. Anche se l’esperimento repubblicano-federalista durò pochissimo, il pensiero prou- dhoniano contribuì certamente a determinare, attraverso la mediazione di Pi y Margall, una coscienza pubblica democra­tica I7. L’opera del Margall, La reacción y la revolución — che si rifaceva in pieno alle tesi del francese — rappresentò « unaEietra miliare nella storia del pensiero politico spagnolo » 18. 'influenza proudhoniana non si fece comunque sentire solo nell'ambito propriam ente democratico, m a anche socialista e soprattutto anarchico, come lo testimonia la stessa Intem a­zionale in Spagna dopo il 1869-187019. Il sindacalismo anar­chico, che permeerà gran parte del movimento operaio spa­

Page 11: Berti, Proudhon

Proudhon: varie interpretazioni 17

gnolo, riprenderà i fondamentali concetti libertari del decen­tramento, dell’autonomia e del federalismo20.Oltre alla Spagna, anche la Russia vede una significativa diffusione del proudhonismo. Sono i massimi rappresentanti del populismo a esserne portatori. Prima Belinskij 21, poi Her- zen e Cemysevskij subiscono il fascino delle opere di Prou- dhon, come, ad esempio, Qu’est-ce que la propriété? e De la création de l’ordre dans l’hum anitén. Anche qui è determi­nante la visione del federalismo e del decentramento, una visione che starà poi alla base del socialismo decentraliz­zato delle « comunità di villaggio » a . Interessante è ricordare poi il rapporto Proudhon-Tolstoj. Il tolstoiano Guerra e pace tradisce, numerosi, i suoi debiti nei confronti del filosofo francese: nel titolo, in primo luogo, che si ispira all’omoni- ma opera di Proudhon; nel suo protagonista, il conte Bezu- kov, le cui idee sono chiaramente ispirate a quelle anarchi­che; nella prassi pedagogica infine24.Non occorre ricordare poi che questa influenza si allarga a tu tto l ’anarchismo russo, a cominciare da Bakunin e Kro- potkin. Essa attraverserà tu tta la seconda m età dell’Otto- cento per riaffiorare durante la rivoluzione del '17. Basti pen­sare alla originaria concezione sovietica — cioè la democra­zia dei consigli — che realizza l’idea di fondo del superamen­to della rappresentanza, superamento che sta alla base del­l’autogestione da lui per primo elaborata25.Ma certamente dove le idee di Proudhon troveranno la massima risonanza sarà soprattutto nel movimento operaio e socialista francese. Si può dire senz’altro che qui il suo peso fu duraturo e determinante. A lui infatti si rifacevano i dele­gati francesi riunitisi a Londra con i capi tradeunionisti in­glesi per dare vita alla Prima Intem azionale26. L’originario documento steso in quell’occasione, che poi Marx elaborò nei famosi tre testi — L’indirizzo inaugurale, il Preambolo e gli Statuti — era di netta ispirazione proudhoniana, comelo documenta la frase, diventata poi celebre, « l'emancipa­zione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stes­si » 27. L’influenza antiautoritaria nella Prima Intemazionale non si limitava comunque solo alla Francia, paese in cui aveva la massima b a se 28, ma anche al Belgio e in genere a tu tti i paesi di lingua la tin a29.Si deve infatti al proudhonismo se la Prima Intemazio­nale mantenne il suo carattere di associazione economica non disgiunta da quella politica, prima che la scissione volu­ta dai marxisti rompesse questa unità dividendo in due di­stin te organizzazioni il movimento dei lavoratori: da una parte l’organizzazione politica (il partito), dall’altra l’orga­nizzazione economica (il sindacato) 3°.

Page 12: Berti, Proudhon

18 Introduzione

Va ricordato inoltre che molti esponenti della Comune di Parigi si riconoscevano nelle idee dello scrittore francese31 senza contare che il modello politico comunardo, più: ripren­dendo in parte quello scaturito dalla prima rivoluzione fran­cese, era decisamente un’idea filiata da Proudhon32.Dopo la tragica esperienza del 1871, non si spense in Fran­cia la corrente di idee a lui ispirata. Lo dimostra, ad esem­pio, il Partito operaio possibilista, fondato da Paul Brousse, che si rifaceva ad un mutualismo moderato. Essa trovò, però, la sua maggiore espressione nello sviluppo del sindacalismo rivoluzionario e d e ll'an arco sin d aca lism o I teorici del pri­mo, Georges Sorel e il suo discepolo Edward Berth, si sono esplicitamente richiamati allo scrittore di Besançon34. Cosi pure l’iniziatore del secondo, Fernand Pelloutier35, fondatore delle Bourses du travail. Soprattutto attraverso Pelloutier e gli intellettuali della Confédération général du travail, il pen­siero di Proudhon condizionerà in maniera rilevante non solo l’anarcosindacalismo ma anche l’intero sindacalismo ri­voluzionario 3Ó, contribuendo in modo decisivo a distaccare quest’ultimo dalla teoria e dalla prassi politica del marxi­smo ì7; Infatti, le principali tematiche proudhoniane — il vo­lontarismo, il separatismo operaio, l’antistatalismo, il fede­ralismo — sono troppo lontane dalla concezione strumental­mente politica che il marxismo ha del sindacato.Pure Cole38 e Rosselli39, esponenti di primo piano rispet­tivamente del Guild Socialism in Inghilterra e del socialismo liberale in Italia, hanno riconosciuto il loro debito verso il socialista francese. Come si vede anche da quest’ultima men­zione, la multiformità divergente e contraddittoria della for­tuna di Proudhon fa scaturire uno spettro interpretativo ampio e problematico.

Il metodo

La peculiarità del pensiero proudhoniano deriva in gran parte dalla metodologia adottata, che risulta ancor oggi ori­ginale. Essa attraversa senza soluzione di continuità tu tta la sua opera ed è quindi da questa metodologia che bisogna partire per enucleare le direttive di fondo del suo pensiero.Per Proudhon il problema fondamentale della conoscenza risiede nella difficoltà che l’uomo ha di abbracciare e di com­prendere la simultaneità dei fattori che intervengono innu­merevoli nello svolgimento della realtà. La scienza per pro­gredire ha bisogno di concettualizzazioni, di schematizzazio­

Page 13: Berti, Proudhon

La metodologia proudhoniana 19

ni, di ordine, di precisione, ma nello stesso tempo ogni fissità pregiudica l’avanzata stessa del sapere, convertendolo da una ricerca « aperta » a una form a chiusa.La scienza rappresenta di fatto im a lotta contro ogni for­ma di arbitrio e, in quanto tale, non può che essere fondata obiettivamente40; tuttavia questa razionalità, che deve es­sere il fondamento costante della ricerca, non può pretendere di essere esaustiva perché non esiste la possibilità di una totale razionalizzazione della realtà. Sotto l'influsso kantiano, Proudhon riconosce dei limiti alla conoscenza umana, nel senso che essa può spiegare il rapporto tra le cose, m a non dare ragione e spiegazione della natu ra ultim a dei fenomeni.Si precisa cosi il senso del suo problematicismo tu tto cen­trato sull’idea che il progresso della scienza si identifica con la consapevolezza dell’impossibilità di pervenire a soluzioni integrali.L’esperienza umana, di per sé « intessuta di contraddizio­n i» 41, non può risolversi in dati elementari prestabiliti per­ché « il semplicismo, lungi dall’indicare la più alta potenza dell’essere, ne indica al contrario il grado più basso » 42. Biso­gna perciò riconoscere fino in fondo la limitatezza dell'uomo e perciò la sua impossibilità a risolvere definitivamente ogni problema.Questa consapevolezza fa di Proudhon un teorico avver­tito e disincantato del socialismo perché lo pone lontano da ogni sogno utopistico di rigenerazione totale e di meta­morfosi antropologica. La società, egli precisa, « è molto più complicata di quanto si pensi »43; e quindi ogni volontà di risoluzione definitiva non può risolversi che in due modi: o nel fallimento o neH’arbitrio del potere.Diventa perciò comprensibile la sua critica alla dialettica di Hegel. Mentre questi definisce la realtà nella form a tria­dica di una tesi e di una antitesi le quali si risolvono in una sintesi superiore, Proudhon afferma che proprio le opposi­zioni e le antinomie sono la struttura stessa del reale e che « l ’antinomia non si risolve: là è il vizio fondamentale di tu tta la filosofia hegeliana. I due termini che compongono l’antinomia, si bilanciano tra loro, o con altri termini anti- nomici, il che conduce a nuovi risultati »44. Ogni sintesi è oggettivamente impossibile perché i termini antinomici sono come « i poli opposti di una pila elettrica (che) non si di­struggono. Il problema consiste nel trovare non la loro fu­sione, che sarebbe la loro morte, m a il loro equilibrio inces­santemente instabile, variabile a seconda dello sviluppo della società » 45.Il sistema hegeliano, secondo Proudhon, è un sistema pre­costituito perché invece di attendere i fatti li anticipa4é. Cosi

Page 14: Berti, Proudhon

20 Introduzionela sua sintesi è del tutto fantastica e arbitraria: « La formula hegeliana non è una triade che per il buon piacere o l’errore del maestro il quale conta tre termini là dove in effetti non ne esistono che due perché non ha visto che l’antinomia non si risolve in quanto essa indica una oscillazione o antago­nismo suscettibile soltanto di equilibrio »47. Insomma la sin­tesi, afferma Proudhon, « non distrugge realmente ma for­malmente, la tesi e l’antitesi » 48 ed essa può farsi valere solo trasformandosi in una volontà egemonica di potere. Perciò « Hegel conduce, con Hobbes, all’assolutismo governativo, al- i onnipotenza dello Stato, alla subalternità dell’individuo » 4?. Rispetto alla dialettica hegeliana, quella di Proudhon si spe­cifica invece come un metodo di analisi dei rapporti, una ri­cerca estremamente sottile e sfumata delle leggi di compo­sizione e combinazione dei fattori della realtà. In questo senso, essa tende ad essere un pluralismo sociologico sempre più realistico; occorre, per lui, non tanto inventare una lo­gica, un idea sia pure rivoluzionaria e libertaria, da imporre con forza alla realtà, ma scoprire le leggi proprie della socie­tà in modo da restituire a questa la sua autonomia persa con la nssazione istituzionale della ripetitività autoritaria.oi tra tta dunque di un metodo fortemente empirico che consente all'osservatore di seguire le infinite composizioni e scomposizioni della realtà, di aderire al movimento reale delte cose e del loro svolgimento50.

L ostilità di Proudhon verso tutti gli a priori lo spingerà sempre più a cercare una metodologia capace di intendere specmcamente il movimento stesso della realtà nel suo farsi, « colto, per cosi dire, sul fatto »51, in ima ricerca incessante, essendo indefinito lo sviluppo stesso della società52. Ecco perche la ricerca proudhomana è costituzionalmente una ri­cerca « aperta », per sua stru ttura rivedibile e correggibile, non dogmatica, intrinsecamente libertaria.Non si tratta, beninteso, di una filosofia eclettica — tra i altro m voga proprio in quegli anni in Francia — ma di una concezione sociale che si prefigge di essere scientifica perché tende a riflettere l’infinita complessità della società per libe­rarla da ogni soffocante sintesi unitaria; perché si sostanzia . ,ur? metodo che non esita a cercare e accogliere la diver­sità m tu tti i suoi dettagli.io SiVa dialettica, Proudhon distingue la realtà, che èa sede delle opposizioni reali, fisiche, concrete, dal discorso ìaiettico consistente precisamente nell'analizzare tali oppo- zioni. .fagli definisce quindi, kantianamente, le opposizio­ni reali con il termine «antinom ia» o contro-leggi, e in- noli i COn p riferirsi all'espressione della realtà delle cose ena loro fattualità; diversamente queste stesse opposizioni,

Page 15: Berti, Proudhon

La metodologia proudhoniana 21

quando non sono più colte sul fatto, ma argom entate nel di­scorso, sono da lui definite con il termine contradictio, con­trodiscorsi53. Perciò il sistema delle antinomie è il metodo impiegato da Proudhon per interpretare la società54. Le an­tinomie, essendo espressione dell’opposizione reale delle cose concrete, dimostrano di per sé l ’impossibilità di ogni sintesi a priori e di conseguenza l’impotenza oggettiva di ogni regime sociale volto alla loro forzata mediazione. Secondo Prou­dhon, infatti, non si può pretendere di costruire una nuova realtà sociale con dei pretesi « a priori della ragione », cosi come non si può definire il metodo scientifico attraverso una « deduzione dialettica delle nozioni »^. È necessario piutto­sto che la scienza sociale e la riflessione filosofica si orien­tino contro ogni forma di universalismo astra tto riconoscen­do invece il principio della logica binaria dell'antinomia.Ciò non significa naturalm ente che l’empirismoì e il rea­lismo dialettico di Proudhon non abbiano dei limiti e che egli non cerchi, anche, una « riconciliazione imi versale attraver­so la contraddizione universale »_56. Tuttavia poiché comple­mentarità, e implicazioni scambievoli, e reciprocità di pro­spettive, sono tanto reali quanto le polarizzazioni e le anti­nomie, ecco che è proprio l’esigenza realistica, ancora, a ri­chiedere la scoperta di procedimenti capaci di esprimere appunto la conciliazione pur all'interno della contraddizione, pur nella conservazione degli squilibri. E qui infatti sta tuttolo sforzo teorico di Proudhon: nel ricercare l'equilibrio dei contrari senza far scomparire la contraddizione, linfa vitale della società e della lib e rtà57.Si spiega quindi perché non vi è in Proudhon un’assolutiz- zazione del suo stesso metodo. Egli è ben lontano dal dichia­rare che il mondo reale si possa risolvere solo nella descri­zione « dei suoi elementi irriducibili, dei suoi principi anti­tetici e delle sue forze antagonistiche »54 perché questa teo­ria dei contrari, pur agendo con potenza incomparabile nel controllo razionale delle nostre opinioni, « non è l’unica for­ma della natura, la sola rivelazione dell’esperienza, e per conseguenza la sola legge dello spirito » In coerenza con i propri presupposti, il metodo stesso di Proudhon è nei suoi principi antiassolutistico in quanto che la filosofia viene con­cepita soltanto come metodologia, cioè come logica delle scienze.Secondo Proudhon è necessario inoltre vedere quale « stru ttu ra » sia sottesa alla legge delle antinomie, quale inte­razione reciproca le colleghi, quale totalità le comprenda. Occorre cioè trovare quel criterio di unità che le associ per analogia secondo un principio di serie, e perciò secondo un principio di progressione. La dialettica proudhoniana si pre­

Page 16: Berti, Proudhon

22 Introduzionecisa pertanto come dialettica seriale, vale a dire come sapere organizzato secondo un principio di strutturazione, nel senso che questo sottostà e collega le antinomie a un dato livello dell’evoluzione sociale. Se dunque il principio di divisione e individuazione costituisce « la prima condizione della possi­bilità di una scienza b60, di uno « sperimentare realista », è anche vero che non ci si può smarrire nel particolarismo. Questo va superato cogliendo appunto le forze coesive imma­nenti alla dialettica sociale. Precisamente, per conservare entrambe le istanze, si dovrà elaborare una scienza sociale che sappia essere al tempo stesso scienza del particolare e scienza del generale. Cosi « la scienza dei particolari deve con­testualmente saper essere scienza delle situazioni, la scienza dell’individuale deve saper essere anche scienza della seria­lità »61. Proudhon si riconnette con ciò a Fourier e precisa- mente all’intuizione della serialità quale principio direttivo del metodo delle scienze sociali, intuizione già enucleata ap­punto dall’utopista francese62. Questa dialettica seriale, che deve definire la diversità tra « il metodo sillogistico e il me­todo sperimentale e obiettivo»63 assumendo appunto come suo fondamento l’idea che ogni fenomeno vada considerato non solo in se stesso, ma anche in riferimento all’intreccio delle relazioni che lo costituiscono e lo rapportano a un de­terminato campo di situazioni, deve realizzare per Proudhon un duplice compito: da una parte, accertare la dinamica della differenziazione degli elementi costitutivi di un insie­me; dall’altro, proporsi come un principio di strutturazione del reale. La serie si costituisce cosi come una « totalizzazio­ne nella diversità, si afferma cioè come un’idea completa di totalità, la quale non è l’unità con l’esclusione della pluralità, ne la pluralità con l’esclusione dell’unità, ma simultaneamen­te 1 una e l’altra » <*.

L’intento di comprendere la diversità nell’unità, in sede teorica, ha una traduzione ideologica immediata. Nel siste­ma sociale auspicato da Proudhon si dovrà perseguire infatti « uno stato di uguaglianza sociale che non sia né comuniSmo, ne frazionamento, né anarchia, ma libertà nell’ordine e indi- pendenza nell'unità » Un sistema che esclude dunque qual- siasi forma di assolutismo, fosse pure l’assoluto della libertà, perché quest'ultimo non sarebbe, autocontraddicendosi, che la negazione della libertà stessa.. N d concetto di « serie » emergono subito due dimensioni « ideologiche ». La prim a si specifica come rifiuto di assolu- tizzazione concettuale, in quanto nessuna interpretazione teorica può risolvere e spiegare del tutto la fattualità del reale. Questo rifiuto oppone Proudhon a ogni ideomania che pretenda di enucleare la genealogia delle idee al di fuori del­

Page 17: Berti, Proudhon

La metodologia proudhoniana 23

l’esperienza umana. In altri termini, la serialità si specifica come scienza della fenomenologia dei fatti, i quali non pos­sono essere ricondotti a ima spiegazione puramente ideali­stica né ad una spiegazione puramente materialistica. Il fatto, in sé, non è materiale né ideale perché nella realtà sociale « lo spiritualismo schiaccia i fatti e i fatti schiacciano il ma­terialismo »66. La società esiste tram ite l’unità indissociabile dell’azione collettiva che implica « la vita, il lavoro, la co­scienza individuale e collettiva, la ragione e la giustizia » 61.La consapevolezza di non poter disgiungere il reale e l’ideale, perché tale separazione è di per sé impossibile68, porta Proudhon ad affermare che « organizzare la società è descrivere (appunto) una serie: serie insieme reale e idea­le » ®. Questa sintesi, che a sua volta non può darsi come definitiva e integrale, ha lo scopo di vanificare ogni dogma­tismo, dimostrando l’intim a connessione esistente fra la di­mensione spirituale e quella m ateriale70 al fine di impedire ogni separazione artificiale. Sta dunque in questo orienta­mento il presupposto del suo tanto discusso « ideoreali- smo »71 che vuole proporsi al tempo stesso come strumento conoscitivo e produttivo perché « la serie è la forma della facoltà intellettiva, e la legge della facoltà industriale »71.La seconda dimensione ideologica si specifica invece come sforzo teorico teso a individuare all'interno della serie stessa, nella sua « unità di composizione », la form a proporzionale delle parti, nel senso di una loro sostanziale equivalenza. Non esistono cioè elementi più importanti e decisivi di altri nella formazione della realtà, nella strutturazione dello svolgimen­to storico-sociale. Ne discende immediatamente che tale real­tà non è « sostanziale né causativa » 73 e quindi è priva di un potere integrale di determinismo in quanto si presenta di fatto come « insieme di rapporti »74.Anche qui si può cogliere subito un’altra traduzione ideo­logica relativa proprio al concetto di rapporto, un concetto che, nella formulazione del federalismo pluralista proudho- niano, ha un posto fondamentale. Il rapporto è infatti una stru ttu ra che determina « in ultim a analisi, ogni fenomena­lità, ogni realtà, ogni forza, ogni esistenza » 75. Ciò vuol dire che la società perde ogni senso di giustizia se non ha questa consapevolezza, questa coscienza. È in tal senso che si pre­cisa l’idea di uguaglianza: come idea di un rapporto recipro­co, di un rapporto commutativo: « ciò che la società cerca è l ’equilibrio delle forze naturali »76. Questa logica di equili­brio e di reciprocità sta alla base del federalismo pluralista di Proudhon, volto appunto a costituirsi come sistema « aper­to » capace di fa r convivere più tendenze di per sé contraddit­torie, a porsi come estrinsecazione della libertà nel suo infi­

Page 18: Berti, Proudhon

24 Introduzione

nito movimento. Con il metodo seriale si può giungere alla consapevolezza ideologica dell’uguaglianza sociale perché, scoprendo l’intima connessione dei fenomeni entro il conte­sto di una dinamica complessa di relazioni e di situazioni, si arriva a capire pure che questa stessa dialettica esprime la necessità di un principio di coordinazione che « esclude di per sé la gerarchia »77. Perciò la legge seriale, indicando « un rapporto di uguaglianza », annuncia in pari tempo la legge della reciprocità e dell’equivalenza che è alla base del mutua­lismo economico-sociale da lui proposto.Nello stesso tempo, a partire da questa valenza ideologica dell’uguaglianza, è possibile arrivare anche a quella della libertà intesa come pluralismo. Infatti il concetto di ugua­glianza non si specifica in Proudhon come mero appiattimen­to e uniformità, ma al contrario come esaltazione del parti­colare e dell’individuale. L’uguaglianza, egli afferma, « non è affatto una condizione fissa, ma la media algebrica di una situazione sempre mobile »7S. Ora, non potendosi concepire le serie come unità di dati strutturali fissi, ne deriva che esse si danno solo come continuità perché « chi dice pro­gresso, dice necessariamente successione, trasporto, cre­scita, passaggio, addizione, moltiplicazione, differenze, infine serie » 79. La dialettica seriale appare dunque come ima legge di progressione e di organizzazione, un principio organico di simultanea differenziazione e associazione, un processo generale di crescita comune al mondo materiale, allo spi­rito, all’uomo, alla società. Ciò significa che ogni sviluppo avviene solo attraverso una dialettica di conflitti e di soli­darietà, una catena di coppie antinomiche di cui l’oppo­sizione rappresenta la fonte di ogni movimento, e di ogni vita e di ogni libertà; si tra tta dunque, alla fin fine, di una dialettica antinómica. Una dialettica, comunque, in cui si rivela l ’attività di una forza organizzatrice, di una legge creatrice di unità e di progresso: la legge seriale, la « se­rie » «°. Essa, rispettando la pluralità degli elementi e il loro antagonismo, conduce a una unità pluralista e ad una perenne tensione dinamica.Il pluralismo è dunque il corollario logico della serialità; la realtà sociale è insomma, secondo Proudhon, una con­tinua moltiplicazione e trasformazione della serie. In questo senso il concetto di serie implica di per sé la pluralità della serie e quindi comporta la pluralità della conoscenza nella sua infinita e sempre mutevole interdisciplinarità. Il prin­cipio di serialità, affermando che vi è indipendenza fra i diversi ordini di serie, nega « l’idea di una scienza uni­versale » 81 e perciò l’idea che possa costituirsi anche nel

Page 19: Berti, Proudhon

I fondamenti sociologici 25campo della scienza e della teoria un’altra forma di assolutismo.La chiave del pensiero proudhoniano, ciò che ne costi­tuisce al tempo stesso l'originalità e l’unità non si trova dunque in un apriorismo intellettuale o in un dogma m eta­fisico, ma scaturisce dall’evidenza primordiale dell’esistente, dalla constatazione, sociologica, del suo palese pluralismo.« Il mondo morale, come il mondo fisico riposano su una pluralità di elementi irriducibili ed antagonisti » e , afferma Proudhon. E del pluralismo occorre tener conto in ogni costruzione economica, in ogni concezione filosofica, in ogni metodo pedagogico, perché questa è la dinamica incessante, di composizione e scomposizione, della realtà, questa la sua tensione permanente e la linfa vitale della libertà. Solo rico­noscendo questo pluralismo organico nella realtà dei fatti e della società, sarà possibile passare ad un pluralismo organizzatore come metodo di pensiero e tecnica di azione, come fattore di equilibrio delle forze, come stru ttu ra natu­rale della spontaneità sociale.Si delinea cosi in modo inequivocabile il fondamento teorico del suo anarchismo, ossia un relativismo pluralisti- co che può essere considerato senza alcun dubbio la chiave interpretativa di tutto il suo pensiero, di tu tta la sua dottrina. Questo relativismo pluralistico poggia anch'esso sull'idea centrale che la « scienza e la libertà sono infini­te » per cui ogni pretesa di conoscenza integrale come ogni pretesa di risoluzione definitiva si mostrano fasulle sul piano scientifico e totalitarie sul piano politico. Occorre invece un grande realismo alimentato dalla consapevolez­za della precarietà, della provvisorietà e della relatività di ogni conoscenza umana. Come si vede, l’epistemologia prou- dhoniana presenta alcuni aspetti di grande modernità.

XI fondam enti socio logic i

Alla base della sociologia elaborata dal pensatore fran­cese sta il concetto del lavoro come « azione intelligente del­l’uomo sulla materia »M e come « forza plastica della so­cietà » 85. Questo concetto del lavoro è formulato da Proudhon in modo assai preciso: « Il lavoro, campo di osservazione dell’economia politica considerato: 1) soggettivamente nei lavoratori, 2) obiettivamente nella produzione, 3) sintetica­mente nella distribuzione degli impieghi e la ripartizione dei salari, 4) storicamente nelle sue determinazioni scien­

Page 20: Berti, Proudhon

26 Introduzionetifiche, è la forza plastica della società, l’idea tipo che determina le diverse fasi della sua crescita, e, di seguito, di tutto il suo organismo sia interno che esterno »86. Cosi inteso, il concetto di lavoro è il concetto tipo della « serie », ciò che, in un certo senso, unifica tutte le serie perché è proprio il lavoro che esprime e si esprime nelle forme infinite del materialismo, dell’umanesimo, dello spirituali­smo, del volontarismo e del personalismo sia individuale che collettivo. Il lavoro è dunque l’energia sociale per eccel­lenza, la forza specifica che crea e regge la società. Realtà né materiale né spirituale, esso è una forza « ideorealista » che comprende indissolubilmente nel suo processo creativo, idea e fatto, materia e spirito, uomo e società.Tutta la socio-economia proudhoniana si basa dunque su questa scienza del lavoro, che vuole fondarsi come scien­za del lavoro umano, qualsiasi sia la sua determinazione concreta87. Il lavoro si sviluppa attraverso la duplice legge della comunità d’azione e della divisione, perché si esprime come processo di integrazione sociale, dando cosi alla so­cietà la sua unità d’azione e la sua coerenza collettiva, e come processo di differenziazione sociale, in quanto implica in questa stessa società la diversificazione dei produttori e la specificazione delle funzioni. Per Proudhon quindi l’eco­nomia politica non è che una scienza particolare di questa scienza del lavoro88.Ma questo concetto di lavoro non può che rimandare im­mediatamente al concetto di lavoro collettivo, il quale riman­da a sua volta a quello di società perché, se il lavoro è « ciò che produce tutti gli elementi della ricchezza, è la società o l ’uomo collettivo che crea tale possibilità »*®. Cosi la realtà del lavoro collettivo non è solamente una semplice somma di lavori individuali, ma l’espressione dell’attività di un essere sociale avente una sua specifica realtà con delle proprie leggi. Secondo Proudhon « per il vero economista, la società è un essere vivente dotato di una intelligenza e di una attività proprie, re tta da leggi speciali che l’osser­vazione può scoprire, e la cui esistenza si manifesta non sotto una forma fisica m a per l’insieme armonico dell'inti­ma solidarietà di tu tti i suoi membri »90. Cosi, nel seno stesso del lavoro, è la società che si manifesta in ogni azione del lavoro umano proprio perché il campo di osservazione della scienza economica è la società91.La scoperta della società come un essere collettivo reale, autonomo e immanente a tutti i suoi membri, comporta immediatamente la scoperta dei suoi due attributi fonda­m entali: la ragione collettiva e la forza collettiva. Queste due nozioni sociologiche, sebbene non siano sempre espli­

Page 21: Berti, Proudhon

I fondamenti sociologici 27citate in modo chiaro, esauriente e continuativo nel suo pensiero, rimandano tuttavia sufficientemente a un comune concetto, che si può cosi riassumere: la riunione delle unità individuali genera ima realtà originale che è qualcosa di più e qualcosa d’altro rispetto alla loro som m a92. La forza collettiva è l'elemento puramente sensibile della società, la manifestazione della società in movimento, l’atto a ttra­verso cui il sociale palesa la sua esistenza, mentre la ragione collettiva è al tempo stesso una comunità di coscienza e e una intelligenza, cioè una ragione rinnovabile nel processo storico.Alla base di entrambe queste nozioni vi è l’idea fonda- mentale che l’uguaglianza e la giustizia sociale non sono solo un dover essere, m a un fatto oggettivo, sia pur com­presso e deformato dalla società gerarchica e sfruttatrice. La creazione di un ordine sociale positivo non deve risulta­re quindi da una costruzione arbitraria imposta con la forza e giustificata a posteriori dai legislatori, ma dall’applica­zione delle leggi sociologiche e dell’organizzazione razionale della società intesa come lavoratore collettivo. E questo perché l’autentico ordine sociale non è già l’applicazione di una volontà generale, ma la presa di coscienza che la società realizza di se stessa attraverso un rapporto sponta­neo e naturale, « scoperto e applicato »93. L’ordine, in altre parole, non può che prodursi « nell’um anità per mezzo della conoscenza che l ’essere collettivo acquista delle pro­prie leggi »M. Non occorre dire quanto sia presente qui una certa influenza illuminista che perm ea gran parte della sua metodologia, dando la misura della complessità delle ascendenze culturali del suo pensiero.Con la nozione di forza collettiva Proudhon precisa che gli individui, indipendentemente dalle loro capacità e atti­tudini, vivendo in società ricevono sempre di più di quanto danno; in altri termini l’uomo, nel momento in cui si inse­risce nell’attività produttiva e partecipa a un compito comune, diventa immediatamente debitore verso la società di cui fa parte. Questo perché qualsiasi impresa produttiva e sociale, che riunisca gli sforzi individuali altrimenti sepa­rati, ha la capacità di generare, proprio attraverso la coesio­ne dovuta al lavoro collettivo, una potenza economica e sociale essenzialmente diversa dalla somma, anche infinita, degli sforzi individuali divisi e non concomitanti. « Non solo gli individui, afferma Proudhon, sono dotati di forza; anche le collettività hanno la loro [...]. Una fabbrica, for­m ata di operai i cui lavori convergono verso uno stesso fine, quello cioè di ottenere questo o quel prodotto, pos­siede, in quanto fabbrica o collettività, una potenza che le

Page 22: Berti, Proudhon

28 Introduzioneè propria: prova ne è il fatto che il prodotto di questi indi­vidui cosi raggruppati è molto superiore a quello che si sarebbe ricavato dalla somma dei loro prodotti particolari se essi avessero lavorato separatamente. Parimenti l’equi­paggio di una nave, una società in accomandita, un’acca­demia, un'orchestra, un esercito, ecc., tu tte queste collet­tività [...] contengono della potenza, potenza sintetica e di conseguenza speciale del gruppo, superiore in qualità e in energia alla somma delle forze elementari che la compon­gono » 95.Con la nozione di ragione collettiva Proudhon aggiunge che gli individui non possono associarsi veramente che alla sola condizione che si realizzi tra loro uno scambio fondato sull’uguaglianza Perché infatti lo scambio tra non uguali, generando disuguaglianza, provoca continui conflitti sociali rendendo impossibile la piena realizzazione della socialità umana. La ragione collettiva si estrinseca dunque in questo principio dello scambio paritario fondato su una « ragione necessaria », pena la fine della società stessà.Poiché risulta da un gioco complesso della combinazione sociale, essa si presenta di volta in volta come intelligenza, giudizio, coscienza e volontà. La ragione collettiva nasce non dalla somma delle ragioni individuali sfocianti in uno stesso assoluto trascendente che implica la rinuncia alla propria autonomia primitiva, ma dai rapporti contraddittori e liberi che permettono di relativizzare l’assoluto delle ragioni indi­viduali. Attraverso questo incontro e scontro vengono supe­rate le soggettività rispettive delle ragioni individuali, e nasce allora questo rapporto con le cose, questa ragione obiettiva che è la ragione sociale. Cosi la ragione collettiva risulta « dall’antagonismo delle ragioni particolari » e dalla loro composizione attraverso le opposizioni, allo stesso modo in cui « la potenza pubblica risulta dal concorso delle forze individuali concorrenti fra loro »91. Essa deve procedere per « equazioni » negando ogni sistema precostituito. Di qui ima dialettica dell'intersoggettività quale condizione per la libera dinamica delle esperienze.Non si deve quindi pensare che Proudhon voglia subor­dinare l ’individuale al collettivo rendendo disponibile il suo pensiero a una giustificazione del totalitarismo. È. vero piut­tosto il contrario. Invero, la nozione di scambio nel socia­lismo proudhoniano comporta appunto l’affermazione della liberazione delle attività individuali, compreso il loro scon­tro , perché solo cosi si possono dare la piena mobilità e vitalità del sociale. E infine, sono proprio le nozioni di forza collettiva e di ragione collettiva, che desunte dal con­creto e non dedotte dall’ideologia, se vengono poste a fonda­

Page 23: Berti, Proudhon

I fondamenti sociologici 29mento del socialismo, possono rendere quest'ultimo non solo un’idea, un'etica, ma una scienza fondata sul reale. E di qui che può nascere il socialismo che Proudhon per primo definirà « scientifico » 98.Ora, se la forza collettiva e la ragione collettiva sono gli attributi della società intesa come essere collettivo, come lavoratore collettivo, le leggi di questa stessa società devono essere enucleate considerando tali attributi. Preci­samente la forza collettiva e la ragione collettiva rimandano al concetto di divisione del lavoro e di composizione del lavoro. La divisione del lavoro è alla base della forza col­lettiva, la composizione del lavoro è alla base della ragione collettiva.Da questo punto di vista, la divisione del lavoro si rivela nell’antagonismo competitivo, che è il segno della libertà del lavoratore, mentre la legge di composizione del lavoro si manifesta nella « serie », vale a dire nell’equilibrio dinamico degli elementi irriducibili e al tempo stesso soli­dali che la compongono. In a ltri termini la legge di divi­sione, o specificazione della funzione, rivela la legge di competizione ed antagonismo che anima ogni essere indi­viduale o collettivo, mentre la legge di composizione o di « serie » è la legge che sta alla base dell’associazione, è cioè la legge della solidarietà che anima anch’essa ogni essere individuale e collettivo spingendolo all’unione e all'interdi­pendenza. Perciò antagonismo e solidarietà, divisione e composizione formano ima coppia antinómica irriducibile. Cosi la divisione delle funzioni e la composizione della società si deducono naturalmente implicando una imme­diata e irreversibile interpretazione ideologica libertaria. Infatti Proudhon, considerando contemporaneamente divi­sione e composizione come una coppia antinómica e indis­solubile, si pone oltre l’individualismo classico del liberali­smo e oltre l’universo tradizionale del comunismo per arri­vare a una fondazione della società che non è l'assoggetta­mento deU'individuo alla collettività né l'assoggettamento della collettività all'individuo. Il primo infatti considera l'uomo come una semplice unità sottomessa ad una collet­tività superiore, la quale, schiacciando la personalità, sfocia nel dispotismo, il secondo pretende di liberare l'uomo iso­landolo e astraendolo dalla società. Contro la logica del comunismo che è la logica dc\Yuniversalismo e contro la logica del liberalismo che è la logica del nominalismo, Proudhon pone la logica del pluralismo che contempla un ordine autonomo e immanente al quale partecipano tutte le persone individualmente come elementi indispensabili e irriducibili di questo insiem e".

Page 24: Berti, Proudhon

30 IntroduzioneSi delinea cosi il suo tentativo sintetizzatore volto a superare l’astratta contrapposizione fra individuo e società. La sua analisi, focalizzandosi sulle connessioni oggettive che legano l'individuo alla società, vuole sottolineare la peculiarità dell'uno e dell’altra pur nella loro indissolubile interdipendenza. Essa afferma da una parte che l’individuo « è il criterio dell’ordine sociale », mentre dall’altra ribadi­sce la specificità del sociale costituito da regole molto diverse da quelle che si ha l’abitudine di chiamare senso comune 10°. Questa dialettica fra individuo e società è perciò circolare nel senso che per « conoscere l’uomo bisogna studiare la società, per conoscere la società bisogna stu­diare l ’uomo » 1(U, vale a dire che l’uomo e la società si servono reciprocamente di soggetto e di oggetto102. In tal modo si sfugge all’unicismo comunista e liberale che tende ad assorbire l’uno nell’altro a seconda del proprio punto di vista.Nel riconoscimento dell’impossibilità da parte della so­cietà di assorbire l’individuo e da parte dell’individuo di assorbire la società, deve risiedere per Proudhon tutta la ricerca della libertà. Ecco perché la forza collettiva non deve essere considerata come ima potenza obiettiva che si impone agli individui, né la ragione collettiva come una ragione definitivamente costituita, come un dogm a103. Sono le classi dominanti invece che utilizzano a proprio vantaggio l’insieme di questa energia sociale, trasformando la forza collettiva in forza coercitiva, e la ragione collettiva in ragione assolutistica. Il monopolio economico e il monopolio poli­tico, il capitalismo e lo Stato nascono appunto da questa generale alienazione.Più precisamente l’alienazione del lavoro umano, « forza plastica della società [...] che determina le diverse fasi della sua crescita e conseguentemente tutto il suo organismo sia interno che esterno »I04, non deriva solo da un determinato, specifico modo di produzione (il capitalismo), m a dalla generale stru ttu ra autoritaria che presiede a ogni società storica; l’alienazione sarebbe insomma la logica conseguen­za di ogni trascendentalismo, sia esso religioso, politico, sociale o economico. E poiché la forma storica di ogni trascendentalismo si esprime nel monopolio — versione istituzionale dell’unicismo e dell'unidimensionalità — avvie­ne che la scomparsa dell’alienazione può darsi per Proudhon solo con la scomparsa di ogni accentramento di qualsiasi tipo e di qualsiasi n a tu ra105.

Page 25: Berti, Proudhon

La critica della proprietà 31

Lo sfruttam ento economico, afferma Proudhon, si attua attraverso l'appropriazione indebita della forza collettiva generata dalla simultaneità e dalle convergenze degli sforzi individuali: « Il capitalista, si dice, ha pagato le giornate degli operai; per essere esatti, bisogna dire che il capitali­sta ha pagato ogni giorno una giornata quanti operai ha impiegato, il che non è affatto la stessa cosa. Perché questa forza immensa che risulta dall’unione e dall'armonia dei lavoratori, dalla convergenza e dalla simultaneità dei loro sforzi, egli non l’ha pagata per niente. Duecento granatieri hanno alzato sulla sua base in qualche ora l’obelisco di Luxor; si suppone che un solo uomo, in duecento giorni, ne sarebbe venuto a capo? Tuttavia, per il conto del capita­lista, la somma dei salari sarebbe stata la stessa » 106.È qui che il profitto del capitale trova la sua spiega­zione: nella sproporzione fra le somme consegnate ai lavo­ratori e il prodotto collettivo che essi hanno creato. È in questo furto, in questo errore di calcolo, che sta l’origine dell’ineguaglianza sociale che crea la ricchezza del capita­lista e lo sfruttam ento del lavoratore. È dall’appropria­zione, da parte di un singolo, di ciò che è frutto solo del lavoro collettivo che si genera, appunto, il plusvalore.Cosi il plusvalore risulta essenzialmente dall’appropria­zione di un surplus collettivo, vale a dire dal punto di vista della produzione, della differenza tra la produttività del lavoro collettivo e la semplice somma delle forze indivi­duali considerate singolarmente. Questo plusvalore aumen­ta e si specifica all’interno del mercato capitalista del lavo­ro. Qui avviene una ritenuta sulla produzione individuale a seguito della differenza esistente tra il valore di scambio e il valore d'uso del lavoro perché al momento dello scambio, il proprietario può esercitare tale ritenuta sul consumo dei lavoratori. Infatti il valore di scambio del lavoro è costituito dal salario, vale a dire ciò che compone la som­ma complessiva necessaria alla riproduzione del lavoratore, mentre ciò che costituisce la vera stima del salario dovreb­be essere dato dal « lavoro sociale » acquistato invece dal proprietario grazie al surplus della forza collettiva. Cosi se « l’operaio riceve tre franchi al giorno, il proprietario rivendendo sotto forma di merce la giornata lavorativa del lavoratore, ne può ricavare un soprappiu » i(n. Questa analisi dimostra chiaramente la paternità proudhoniana nel campo socialista della teoria del valore-lavoro. È

La c ritica d e lla p roprie tà

Page 26: Berti, Proudhon

32 IntroduzioneProudhon, non Marx, a denunciare per primo in questi termini il sistema capitalista108.Ma la critica della proprietà non si esplica solo nell’ana­lisi dell'appropriazione e dello sfruttamento capitalista. Il pensatore francese prende infatti in esame ogni forma di proprietà e quindi ogni teoria che la sottende e la giusti- fica. Quest'analisi lo porta a concludere che nessuna delle teorie miranti a giustificare tale processo di appropria­zione riesce a essere credibile: non la teoria dell’occupa­zione, secondo la quale è legittima la proprietà di fatto su quanto la collettività non ha ancora preso possesso; infatti questa teoria non può spiegare il passaggio dal fatto al diritto che ricorrendo a una tautologia: « La proprietà è il diritto di proprietà ». Dal canto suo la teoria della pro­prietà fondata sul lavoro, ossia sul principio che è proprietà del singolo ciò che è frutto della sua sola iniziativa, non solo non spiega perché il singolo abbia il diritto di appro­priarsi a un certo punto del lavoro altrui, m a neppure dà ragione della realtà paradossale che proprio chi produce risulta privo della proprietà. Senza contare che questa teoria e internamente contraddittoria. Il lavoro, infatti, non ha di per sé alcun potere di appropriazione sulle cose della n a tu ra 109; e se, malgrado tutto, si riconoscesse al la­voro un tale potere, si sarebbe logicamente indotti ad affer­mare l’uguaglianza della proprietà, quali che siano il tipo di lavoro, la rarità del prodotto e la disuguaglianza delle forze collettive.Non esiste dunque teoria che riesca a dar ragione logica di questo furto della forza collettiva, che riesca a legittimare ragionevolmente l’esistenza della proprietà.E tuttavia, in merito a tale questione, più importante ancora della critica alla concezione del regime proprietario è la revisione e ridefìnizione da lui operata del concetto stesso di proprietà, con la distinzione fra questa e il possesso.Per Proudhon la proprietà vera e propria non consiste nella facoltà da parte di una persona di fare uso di un bene e di esserne responsabile, ma più esattamente nel fatto eco­nomico attraverso il quale la proprietà diventa creatrice di interessi, diventa un capitale fonte di tu tte le forme di facile guadagno. Il profitto, il nolo, l’affitto, l’interesse, in una parola il facile guadagno, sono tutte forme di estorsio­ne, di furto, di plusvalore che Proudhon definisce e raggrup­pa nell’espressione, intraducibile in lingua italiana, del droit d'aubaine.Diversamente deve essere inteso il possesso. Il possesso è infatti Yuso socialmente responsabile di un bene al fine

Page 27: Berti, Proudhon

La critica del comunismo 33di trarne un frutto corrispondente al lavoro individual­m ente fo rn ito u0; si tra tta di un uso che non implica né il diritto assoluto di proprietà, né la possibilità di trasfor­m are il bene di cui si usufruisce in u n capitale produttivo a sua volta di altri, ulteriori b en i111.La proprietà vera e propria è dunque il diritto di ricavare fru tto da un bene realizzato dal lavoro altrui, « il d iritto di usare e di abusare, in una parola il dispotismo »m , è il detenere un bene senza fam e uso, è insomma un dominio senza alcuna giustificazione economico-sociale.« Terra, strumenti, macchine », egli scrive, hanno valore « solo insieme al lavoro. Ma il puro e semplice proprie­tario è proprio colui che dissocia questo qualcosa dal lavo­ro: e per questa cosa inerte, che da sé non produce nulla, ottiene un compenso » 113.È su questa separazione infine, tra dominio e uso, che si fonda la separazione tra le classi sociali del proprietario e del lavoratore, fra « l'uomo e l’uomo » 114.Come ha messo in rilievo con grande acutezza Mario Albertini, questa definizione della proprietà come droit d'aubaine m ostra interam ente la sua utilità e correttezza quando si ponga il problema della reale abolizione della proprietà stessa115.In effetti, se la proprietà fosse intesa come semplice attribuzione di qualcosa a qualcuno, vale a dire come pos­sesso, sarebbe mai eliminabile? La risposta è, chiaramente, negativa. È infatti impossibile non attribuire a qualcuno i mezzi di produzione: là dove essi non sono sotto il domi­nio privato, inevitabilmente non possono che essere a ttri­buiti alla collettività, e viceversa.È dunque solo la specificazione del concetto di proprietà come droit d ’aubaine, come diritto di guadagno senza uso, come plusvalore, è solo questa determinazione che consente di affermare la possibilità di eliminare la pro­prietà; anzi, a dir meglio, ad affermare in che senso sia possibile tale eliminazione.

La critica del com uniSm o come critica della proprietà

La distinzione fra proprietà e possesso è quindi fonda- mentale in quanto permette a Proudhon di dimostrare da un lato l’assoluta inconsistenza del progetto comunista, tutto fondato com’è sull’irreale idea di eliminare la pro­prietà tout court, mentre dall’altro gli consente di preve­dere gli esiti dispotici del comuniSmo reale perché questo

Page 28: Berti, Proudhon

34 Introduzionericostituisce, sotto il modo della « proprietà collettiva », ima nuova e più potente forma di proprietà. La distinzione fra proprietà e possesso svela, in altri termini, la natura pro­prietaria dello stesso comuniSmo.Infatti se la proprietà, intesa come possesso, è in tu tti i casi ineliminabile, perché è conseguenza della produzione sociale, perché nasce e vive insieme al lavoro, ne con­segue che essa esisterà anche in una società comunista. Anzi, in una tale società, gli effetti negativi della proprietà saranno maggiori perché il privilegio reale verrà occul­tato dall’ideologia collettivista; il fatto concreto, asso­lutamente ineliminabile, che i mezzi di produzione sono sotto il controllo di qualcuno (classe, individuo, ente), verrà mascherato dall’illusione della collettivizzazione. È per queste ragioni che Proudhon considera l’espressione « pro­prietà collettiva » un mero gioco lessicale privo di refe­rente reale o realmente possibile.L’illusione di cancellare lo sfruttamento e la proprietà attraverso la semplice abolizione della proprietà privata diventa, appunto, solo un’illusione perché non abolisce, ma solo trasferisce da un soggetto all’altro, dal dominio privato a quello pubblico, la proprietà stessa, e con essa, intatto, il droit d'aubaine, fonte prima dello sfruttamento.Piuttosto, tale progetto non può che portare a quella che è la massima espressione negativa della proprietà: la proprietà connaturata al monopolio di Stato dei mezzi di produzione. Una proprietà, per giunta, onnipresente, essen­do tu tte le attività umane ugualmente esposte al rischio di essere assoggettate al processo di « appropriazione » statale.Scrive Proudhon: « Cosa singolare! la comunità siste­matica, negazione m editata della proprietà, è concepita sotto l’influenza diretta del pregiudizio della proprietà; ed è la proprietà che si ritrova al fondo di tutte le teorie dei comu­nisti. I membri di una comunità, è vero, non hanno niente di proprio; ma la comunità è proprietaria, e proprietaria non solo dei beni, ma anche delle persone e della volontà. È per questo principio di volontà sovrana che in ogni co­munità di lavoro, che non deve essere per l’uomo altro che una condizione imposta dalla natura, diventa un comanda­mento umano e perciò stesso odioso; che l'obbedienza pas­siva, inconciliabile con una volontà che riflette, è pre­scritta; che la fedeltà a dei regolamenti sempre difettosi, per quanto saggi li si supponga, non ammette nessun re­clamo; che la vita, il talento, tu tte le facoltà dell’uomo sono proprietà dello Stato, che ha il diritto di farne, per l’interesse generale, l’uso che gli piace; che le società parti­

Page 29: Berti, Proudhon

La critica del comunismo 35colari devono essere severamente proibite, malgrado tutte le simpatie ed antipatie di talenti e di caratteri, perché tollerarle significherebbe introdurre delle piccole comunità nella grande, e di conseguenza della proprietà [...] che l’uomo, rinunziando al suo io, alla sua spontaneità, al suo genio, ai suoi effetti, deve annientarsi umilmente davanti alla m aestà e all’inflessibilità della legge comune » n6.Il comunismo, in conclusione, è per Proudhon un pro­getto allo stesso tempo utopistico e dispotico: essendo del tu tto « opposto alla realtà » 117, esso è costretto, per realizzarsi, a violentare le leggi della natura e della storia. Si fa insomma dispotico perché è del tu tto inadeguato al reale. Volendo mantenere la società in uno stato di esalta­zione che è di per sé incompatibile con le leggi naturali defl’economia e con i principi di libertà, la comunità inte­grale sfocia fatalmente nell’amorfismo psicologico e cultu­rale. Non c’è esempio di comunismo, ricorda Proudhon, che « fondato sull’entusiasmo non sia finito neU’imbecilli- t à » 118. Cosi, nel tentativo impossibile di realizzarsi, la so­cietà « comunista » mantiene i difetti della proprietà ricosti­tuendo perciò le classi. Anzi, gli aspetti negativi della proprietà vengono esaltati daH’assimilazione di questa con il potere politico in un unico monopolio statale. Il risultato è l'inevitabile annientamento delle antinomie attraverso la formazione di una nuova autorità tesa a distruggere le contraddizioni in una soffocante sintesi governativa. Da ciò scaturisce un ordine sociale che può fondarsi solo con l’an­nullamento della personalità umana. Infatti, la vocazione afl'indistinto propria dell’ideologia comunista, ha come effetto reale l’estensione totalitaria del potere. Perciò l’idea­le del comunismo, egli precisa, « non può che essere l’as­solutismo »119.Anche se Proudhon ha in mente il comunismo utopistico e grossolano criticato pure da Marx, i suoi giudizi sugli esiti storici di ogni società comunista anticipano lo stesso comunismo marxista. Questo infatti, nella sua realizzazio­ne storica, non ha fatto altro che concretizzare ciò che Proudhon criticava del comunismo utopistico e grossolano: la ricostituzione di un nuovo e più forte potere attraverso una nuova e più forte proprietà.Ma perché Proudhon, diversamente da Mane, riesce a prevedere l’esito dittatoriale di ogni società comunista?La spiegazione ci sembra vada trovata nel diverso mo­do in cui entrambi si pongono contro il capitalismo, nel loro diverso modo di criticare la società borghese e di dedurre l'alternativa.Proudhon afferma infatti, ricordiamo, che lo sfruttamen-

Page 30: Berti, Proudhon

36 Introduzioneto dell’uomo sull'uomo nasce dall’appropriazione, da parte del detentore dei mezzi di produzione, della forza collet­tiva; che nella società capitalistica il proprietario dei mezzi di produzione retribuisce il lavoro individuale di ogni operaio p e r la sua singola forza-lavoro mentre non paga il lavoro collettivo, quella « forza immensa » che scaturisce dall’armonia convergente degli sforzi comuni. Ed è quindi grazie a questa forza collettiva non retribuita di cui si fa padrone, che il capitalista diviene sfruttatore.Diversa è invece l'analisi e la spiegazione marxiana dello sfruttam ento. Secondo Marx lo sfruttamento nasce dal fatto che il lavoratore fornisce un tempo di lavoro di cui una parte viene corrisposta in salario, mentre l’altra, non retribuita, si trasforma in plusvalore.È ben noto il suo ragionamento. Nel modo capitali­stico di produzione anche il lavoro è una merce che ha il suo valore di mercato. Ciò che costituisce oggetto di scam­bio fra il capitalista e l'operaio non è il lavoro di quest'ul­timo, m a la sua capacità di lavoro. Essa, che si definisce come forza-lavoro, ha un costo di produzione identificabile nel tempo necessario per produrla, ossia nel lavoro che occorre p er produrre i mezzi di sussistenza. La quantità di lavoro contenuta nella forza-lavoro, che determina il suo valore di scambio, non ha evidentemente alcun rap­porto con la quantità di lavoro che l'operaio, ossia il porta­tore di forza-lavoro, è in grado di erogare all'interno del processo produttivo. Il meccanismo del processo capitali­stico sta appunto in questo: che la quantità di lavoro ero­gato dall'operaio, in un tempo dato, è maggiore della quan­tità di lavoro contenuta nei mezzi di sussistenza consumati dallo stesso operaio in quel medesimo tempo; il che vuol dire che il valore prodotto dall'operaio è maggiore del valore della sua forza-lavoro. La differenza che risulta da questa non equivalenza è ciò che Marx chiama plusvalore 12°.Ora, quello che ci interessa far notare in questo ragio­namento — certamente molto più complesso della nostra riduttivissima schematizzazione — è che la proprietà si presenta semplicemente come controllo privato dei mezzi di produzione. In effetti, lo scopo di Marx non è lo studio della proprietà, m a lo studio di uno specifico modo di pro­duzione, quello capitalistico. Marx, insomma, non studia e non conosce altra proprietà che quella privata connatu­rata alla società borghese.Ma la differenza rispetto a Proudhon a questo punto è evidente. Per Marx il plusvalore (e quindi lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo nella sua forma storica più compiuta) è un meccanismo e un risultato preciso solo dell’economia

Page 31: Berti, Proudhon

La critica del comunismo 37scambista caratterizzata dal mercato del lavoro, per Proud­hon è la conseguenza inevitabile di qualsiasi forma di pro­p rie tà121. Mentre per Marx la proprietà si determina alla fin fine come proprietà giuridica dei mezzi di produzione, come elemento necessario ma non determinante dell’intero modo di produzione capitalistico, per Proudhon si spe­cifica invece soprattutto come capacità di controllo e possi­bilità d’uso dei mezzi di produzione, siano essi dati sotto la forma capitalistica o socialistica. A dir meglio, la pro­prietà per Proudhon è la pura e semplice capacità di con­trollare e di sfruttare ogni forma e ogni prodotto dell’at­tività umana altrui associata122, cioè ogni forma e ogni prodotto della forza collettiva.Tutto questo è particolarmente evidente qualora si pensi alla concezione proudhoniana del valore-lavoro rispetto a quella marxiana. Per Marx il lavoro diventa fonte di valore perché nella società borghese esso può determinarsi come pura forza-lavoro, come lavoro umano astratto generale: può, cioè, essere scambiato come qualsiasi altra merce. È solo qui infatti che il mercato del lavoro ha la sua mas­sima espressione, nel senso che il lavoro come valore d’uso si trasforma in lavoro come valore di scambio. A deter­minare la particolare form a astratta del lavoro, come pura forza-lavoro, come merce, è la particolare forma sociale della società borghese completamente fondata sul­lo scambio.Per Proudhon, invece, il lavoro è in tu tti i casi la reale misura del valore, al di là della form a scambista data dal mercato capitalistico delle m ercim . E questo perché, come abbiamo già detto, il fenomeno della forza collettiva e il suo effetto — la creazione del plusvalore — è una realtà che si esplica non solo nel contesto della società borghese, ma in ogni forma di società. Proudhon, in altri termini, pur avendo intuito che la specificità dello sfruttam ento ca­pitalistico consiste nella differenza tra il valore d ’uso e il valore di scambio del lavoro124, mantiene nondimeno la direzione della ricerca dentro l’orizzonte assai più vasto del campo sociologico. L’intento è quello di scoprire il prin­cipio sociale della forza collettiva al fine di dare una spie­gazione generale dello sfruttam ento dell’uomo sull’uomo che superi la specificità storica borghese.Certamente, tale ricerca è rimasta uno statuto scienti­fico genericissimo, per non dire quasi banale125. L’intui­zione che la sottende, tuttavia, ci sembra importante, per­ché è proprio questa — e ritorniamo cosi alla sua critica del comuniSmo come critica della proprietà — ad inner­vare il metodo analitico che lo rende lungimirante circa la

Page 32: Berti, Proudhon

38 Introduzionevera natura della società comunista quale forma suprema del regime proprietario.Il comunismo, infatti, abolisce solo il modo di produ­zione generato dal capitale, vale a dire lo sfruttamento del lavoro umano come lavoro astratto generale, come merce, ma non distrugge per nulla la causa della pro­prietà perché questa si ricostituisce sotto le spoglie di un diverso controllo e sfruttamento della forza collettiva. Non esplicitando il fatto reale che la proprietà, intesa come attribuzione a qualcuno dei mezzi di produzione, è in tu tti i casi ineliminabile, esso permette che nei fatti questo qual­cuno, mimetizzato dietro il mito della « proprietà collet­tiva », possa veramente controllare e sfruttare il lavoro monopolizzato dallo Stato. In tal caso la proprietà si rico­stituisce non come proprietà giuridico-privata dei mezzi di produzione, come riconoscimento ufficiale, ma come reale possesso da parte di chi detiene e controlla in qualche mo­do il monopolio del lavoro anche se esso non è più, a questo punto, una merce. Anzi, proprio perché non è più merce, il lavoro subisce uno sfruttamento maggiore. Non determinandosi ulteriormente come valore di scambio, ma solo e soltanto come valore d’uso, esso è costretto a subire la sola valorizzazione possibile, quella data dal suo unico padrone e signore: lo Stato. L’ideologia collettivista è dunque, in conclusione, la forma più mistificante e raffi­nata del regime proprietario.Diventa perciò assolutamente necessario per Proudhon esplicitare al massimo la distinzione fra la proprietà come droit d'aubaine, negativa e non necessaria, e la proprietà come possesso, positiva e auspicabile. Solo se si è vera­mente consapevoli che in tutti i casi bisogna attribuire a qualcuno i mezzi di produzione, è possibile neutralizzare gli effetti negativi della proprietà come droit d’aubaine. Solo in tal modo, insomma, è possibile pervenire alla società senza classi che è data non dall’abolizione della proprietà, frase priva di senso, ma dalla generalizzazione della proprietà, cioè dal possesso universale fondato sul lavoro. Su questa fondamentale distinzione fra proprietà dispotica (droit d’aubaine) e proprietà democratica (pos­sesso giustificato dal lavoro non appropriatore della forza collettiva) Proudhon traccia il confine insuperabile fra comunismo e socialismo, fra mistificazione del regime pro­prietario e reale abolizione dello stesso.L’universalizzazione della proprietà, intesa come posses­so generalizzato fondato sul lavoro, è dunque l’unica via per distruggere il privilegio perché, afferma egli polemica- mente, « non è affatto diventando comune che la proprietà

Page 33: Berti, Proudhon

Fondamenti « neutri » dell'antinomia 39può diventare sociale: non si rimedia alla rabbia facendo mordere tu tti » 126. La critica dell’esclusivismo proprietario (del plusvalore dovuto alla proprietà senza uso) è quindi indissociabile dalla propugnazione dell’uguaglianza delle proprietà individuali, del possesso generalizzato. Dalla anti­nomia fra proprietà e lavoro si deve passare alla riconcilia­zione del lavoro con la proprietà, si deve pervenire al pos­sesso per ricondurre la proprietà a un ruolo servente nei confronti del lavoro liberato. Coerentemente, è da queste conclusioni che discende la teoria proudhoniana dell’ugua- glianza e della reciprocità dello scambio fra equivalenti.

I fondam enti « neutri » dell’antinom ia

Abbiamo visto che approfondendo l’analisi sociologica Proudhon è riuscito a generalizzare la critica al concetto di proprietà, passando da ima sua individuazione capitali­stica ad una sua individuazione comunista. Questo perché la proprietà è una risultante e un controllo della forza col­lettiva e come tale può presentarsi ovunque vi sia asso­ciazione umana: la generalizzazione del concetto di pro­prietà discende, in altri termini, dalla generalizzazione socio­logica del concetto stesso di forza collettiva. Infatti lo Stato può essere considerato « proprietario » della volontà politica dei cittadini, il partito politico dell’ansia di rinno­vamento dei propri iscritti. E ancora, secondo Proudhon, il capitale risulta dal furto del prodotto della forza collet­tiva, cosi come il governo deriva dall’appropriazione della forza sociale di cui si arroga la direzione, e cosi via.La proprietà si presenta quindi nel suo pensiero come un principio autoritario di equivalenza allargato, nel senso che proprietà e autorità diventano pressoché sinonimi:« Ciò che si chiama in politica autorità è analogo, equi­valente a ciò che si chiama in economia politica proprietà; queste due idee sono identiche e adeguate l’una all’altra » 127. Si possono neutralizzare gli effetti negativi della proprietà con la sua trasformazione in possesso, o, come vedremo, con l’autogestione generalizzata per quanto riguarda gli altri aspetti non economici, ma non si può mai abolire la sua causa.Ora è proprio questo che interessa a Proudhon: analizzare tale causa, cioè i fondamenti strutturali di questo feno­meno per spiegare le leggi che presiedono e governano la società. Da qui la formulazione di un programma di ricerca

Page 34: Berti, Proudhon

40 Introduzioneche si può riassumere con questa frase: «La scienza so­ciale è la conoscenza ragionata e sistematica non di quello che è stata la società, né di quello che sarà, ma di quello che è in tu tta la sua vita, vale a dire nell’insieme delle sue successive manifestazioni: perché soltanto cosi può esservi ragione e sistem a»128. L’intento è chiaro: affermando l'esi­stenza di una struttura sociale atemporale, Proudhon di­chiara la possibilità di cogliere le leggi di questa riproduci­bilità costante al fine di vedere, per cosi dire, quale è la loro valenza politico-ideologica cioè se esse sono destinate soltanto a servire il principio autoritario.La questione, si capisce, è determinante: qualora si riesca a dimostrare che i fondamenti strutturali della forza collettiva sono « neutri », diventerà evidente che un loro diverso « uso » potrà rendere possibile un vero processo di trasformazione sociale.Le conclusioni cui giunge Proudhon riflettono comple­tamente questo punto di vista: la forza collettiva non è in sé strutturalm ente autoritaria, né strutturalm ente liberta­ria. Essa è disponibile a diversi esiti a seconda della plura­lità dei modi in cui viene gestita e organizzata.La dimostrazione proudhoniana non è tuttavia lineare. È questo infatti un aspetto intricatissimo, contraddittorio e sofferto di tutta la sua ricerca, dove si palesano intui­zioni geniali e limiti teorici vistosi.Ciò perché al fondo di tutto l’assunto vi è il concetto di antinomia quale stru ttura unificante di tutto il reale. Ora l’antinomia, l’abbiamo già visto, « non si risolve ». Ne deriva che anche la dimostrazione di Proudhon non può mai com­pletamente risolversi perché costretta, dal suo stesso as­sunto, a ripercorrere le pieghe contraddittoriamente infi­nite del reale date, appunto, daU’antinomia: « per organiz­zare la società, ristabilire l’ordine, non ci si può sottrarre ai principi antinomici. È inutile cercare un 'uscita, come so­luzione alle contraddizioni che si presentano; non esistono uscite. Arrangiamoci (invece) con esse e attraverso esse » 129.In altre parole, la piena realizzazione di un solo ter­mine è impossibile perché questo, sviluppandosi, genera immediatamente il suo contrario, senza d’altro canto arri­vare mai aU’annullamento o all’assorbimento di entrambi i contrari in una sintesi superiore. Le antinomie insomma non possono essere superate, m a solo bilanciate e modificate.Questo realismo teso a cogliere l’infinita pluralità della vita comunitaria ha, nelle intenzioni di Proudhon, il com­pito di evidenziare la realtà obiettiva delle leggi socio-eco­nomiche affinché da queste leggi il socialismo voglia par­tire per la realizzazione dei propri scopi. Perché qui sta

Page 35: Berti, Proudhon

Fondamenti « neutri » dell'antinomia 41il punto: che il socialismo può realizzarsi solo mantenendo l'antinomia.Se non che, il mantenimento dell'antinomia, quale stru t­tura unificante di tutto il reale, significa il mantenimento di tutta la realtà sociale intesa come un insieme m ultiform e e insopprimibile di forze collettive. In altri termini, la plura­lità delle forze collettive è il segno tangibile del manteni­mento dell'antinomia.Pertanto solo una scienza sociale capace di cogliere tale insieme può costituire la base razionalmente scienti­fica del socialismo. Una scienza sociale che faccia conver­gere su di sé filosofia ed economia, storia e sociologia, poli­tica e morale. Solo cosi si può cogliere la società nella sua immanenza, cioè nell’insieme delle sue « successive ma­nifestazioni ».Ne deriva, di conseguenza, che una scienza sociale si autorealizza soltanto come una sorta di conoscenza « inter­disciplinare » e perciò come superamento dell’approccio eco­nomicistico per la comprensione della società130. Occorre dunque fondere in un unico m etro analitico l’economia e la sociologia131, rifiutandosi di stabilire un nesso di causa­lità tra la stru ttura economica e la stru ttura sociale, per enucleare invece l’immagine di un « sistema » economico-

sociale132. -----Con questa fondamentale impostazione volta a darsi una scienza « integrale », Proudhon prende le distanze, an­cora una volta, sia dal liberismo economico che dal socia­lismo autoritario. Il liberismo economico afferma infatti che gli antagonismi sono ineluttabili e che non vi è altra soluzione che il loro mantenimento, precludendosi cosi la reale comprensione del significato delle antinomie. Il socia­lismo autoritario sostiene che in una comunità fraterna tutti i conflitti scompariranno. L’uno e l’altro concordano quindi nel negare che si possa costituire una scienza so­ciale che abbia come proprio oggetto le leggi immanenti della società, sicché anche il socialismo autoritario, che pure dichiara di voler combattere il liberalismo, dimostra di non avere niente che non vi sia anche nell'economia politica « e questo plagio perpetuo è la condanna irrevocabile di entrambi »133.Occorre invece ripensare tutte le forme dell'attività umana secondo un criterio di equivalenza e di interdipen­denza. Per lui ogni attività umana risulta allo stesso titolo prodotto e produttrice della realtà sociale in atto, perché partecipa alla totalità espressa in ogni forza collettiva, perché è, in egual misura, creatrice di questo fenomeno 134.Nella trasformazione sociale e più in generale nel dive-

Page 36: Berti, Proudhon

42 Introduzionenire incessante della realtà, tutte le forme dell’attività uma­na si presentano perciò in modo simultaneo, perché nella pratica sono inseparabili, e autonomo, giacché nessuna forma deriva gerarchicamente da un’altra. Questa possi­bilità di pensare la realtà sociale come totalità dialettica, mai completamente risolvibile, come simultaneità attra­versata da antinomie e contraddizioni e non da schemati­smi gerarchici, consente quindi di stringere in un unico nesso coscienza e azione, idea e fatto, ragione e pratica, realtà e progettazione135. Contro ogni gnoseologia che leg­ge la realtà secondo una chiave interpretativa di tipo gerarchico, Proudhon sottolinea la costante mobilità del­l'azione sociale che penetra l’insieme dei livelli materiali e intellettuali prodotti dalla società; restituisce intera l’im­magine della realtà perché colta nella sua multiformità e pluridimensionalità; consente di ipotizzare infine, con questa teoria che egli definisce ideo-realistaU6, l’esistenza di una forma ordinata, di un’idea, espressa dalla totalità delle relazioni intellegibili del reale, pur nella loro perenne contraddittorietà. Nell’ordine sociale egli scrive: « il iatto e Videa sono realmente inseparabili »137, ogni fatto cioè « è adeguato alla sua idea » 13S; tra reale e razionale esiste identità e la form a del reale esprime ima forma logica, ogni realtà esprime il suo senso o la sua idea.Proudhon vuole ripensare tu tta la realtà sociale nella sua attualità categoriale, in ciò che rimane fisso attraverso il tempo e lo spazio, e ciò è possibile, a suo giudizio, solo pensando l’azione sociale come u n ’identità fra pratica e teoria139; l’esempio dello scambio, rapporto fondamentale che caratterizza la natura stessa del sociale, definisce chiara­mente tale identità. In esso, afferma Proudhon, non si può opporre un’idea e una realtà, né si può ricercare un rap­porto di successione fra l'una e l’altra, perché lo scambio è al tempo stesso una pratica e un rapporto astratto, una realtà e un’idea 14°. Nello scambio l’idea è identica al fatto, l ’azione è l ’idea141.

In questa eccessiva tendenza di Proudhon al razionali­smo 142 non si deve scorgere un suo inconsapevole platoni­smo (le idee si esprimono nella realtà 143) né un suo incon­sapevole hegelismo (l’identità del reale e del razionale). Proudhon ha voluto al contrario denunciare ogni idealismo dimostrando « come tutti i sistemi filosofici (abbiano) la loro radice e la loro ragion d ’essere nella società stessa »144, mentre la teoria dell’identità del reale e dell’ideale ha per lui lo scopo non di giustificare il presente, m a di scoprirne e denunciarne le contraddizioni.

Page 37: Berti, Proudhon

Fondamenti « neutri » dell'antinomia 43È vero che alcune sue formulazioni si prestano a una definizione in term ini di idealism o145; questa è la defini­zione che Marx ha usato contro Proudhon affermando che questi non ha capito « che le categorie economiche sono solo espressioni teoriche, le astrazioni dei rapporti socia­li Egli non ha compreso che gli stessi uomini che stabi­liscono i rapporti sociali conformemente alla loro produtti­vità materiale, producono i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali. Cosi queste idee, queste categorie sono tanto poco eterne quanto lo sono le loro relazioni che esse esprimono » 146; noi sappiamo tu tta­via che nelle annotazioni scritte in margine al suo esemplare della Miseria della -filosofía, Proudhon ha violentemente e giustamente protestato contro una simile deformazione del suo pensiero ribadendo piuttosto l’unità di teoria e pratica, struttura e sovrastruttura, reale e razionale, in quanto ter­mini fondati su un'identità concreta e non sul principio della derivazione gerarchica: « La società produce le leggi e i materiali della sua esperienza [...]. Ho mai preteso di affermare che i principi siano cosa diversa dalla rappresen­tazione intellettuale e che essi siano la causa generatrice

dei fatti? » 147.In realtà, il progetto proudhoniano di cogliere la logica generale e riproduttiva della dimensione autoritaria pre­sente nel sociale non porta, come credette il socialista tedesco, a sostituire al reale una sua astratta rappresenta­zione ideale, a immaginare una fantastica generazione delle categorie logiche attraverso una ragione p u ra 14i. Porta invece a creare un modello euristico universale, capace cioè di riuscire a spiegare qualsiasi società gerarchica. Fare l’ana­lisi del sistema « secondo la successione delle idee » signi­ficherà svelare la sua stru ttura logica sostituendo alla suc­cessione storica l’ordine interno delle relazioni im m anenti149.Ciò che divide Proudhon da Marx non è dunque il fatto che egli sarebbe idealista e Marx materialista, ma il fatto assolutamente centrale che Proudhon legge lo sfruttamento e l’alienazione um ana a partire dal suddetto modello uni­versale deU’autorità, e dalla nozione di antagonismo anti­nómico 15°. L’intenzione di Proudhon non è dunque quella di ammettere senza critica le categorie dell'economia bor­ghese o dedurre da esse pretesi principi invariabili, m a di osservare e spiegare « il regime della proprietà » in tu tte le sue forme, nella sua totalità, fissandolo per un momento nella sua dimensione sincronica, nel suo fondamento strut­turale 151.In effetti, se tra razionale e reale esiste identità e il

Page 38: Berti, Proudhon

44 Introduzionereale è leggibile in quanto forma logica, è lecito pensare per contro che il potere — struttura che si assimila paras- sitariamente ad ogni livello del sociale, trascorrendo dal- l’una all’altra delle attività umane in virtù della loro equi­valenza — sia leggibile nella sua logica generale e riprodut­tiva al di là dei suoi particolari e specifici modi d'essere affermatisi nel corso dello sviluppo storico. Precisamente, che esso sia rinvenibile in egual misura, anche se sotto spoglie diverse, a qualsiasi livello della vita sociale e quindi non solo a livello economico. Infatti la pluralità delle forze collettive — espressasi come loro sostanziale equivalenza — è a sua volta il segno tangibile della pluralità delle possibili forme di proprietà, cioè delle possibili forme di potere. I fondamenti delle varie forze collettive si rivelano come fon­damenti « neutri » proprio perché la pluralità di queste stesse forze è la base delle antinomie che in sé non sono né liber­tarie, né autoritarie. L’oggettiva pluralità delle forze collet­tive, cioè la struttura dinamica delle antinomie, è dunque l’orizzonte insuperabile non solo della spiegazione proudho- niana della società intesa nella sua ragione di esistenza, ma anche nella sua ragione di trasformazione.È questa considerazione che porta Proudhon al delibe­rato proposito di rappresentare, come in un’equazione ma­tematica, la logica della stru ttura sociale, al fine di liberarla dalle sue contraddizioni distruttive. Ciò vuol dire che non si può pensare di abolire le contraddizioni, vale a dire il dinamico modo di essere di tali forze, ma solo di regolarle creando sempre nuovi equilibri capaci di rispondere al­l’espansione continua del cambiamento che è la linfa vitale della libertà.Diversamente Marx, leggendo la realtà attraverso il rap­porto autoritario struttura-sovrastruttura, negando impor­tanza a quelle forme dell’agire umano che egli ritiene deri­vate, sovrastrutturali, ritenendo infine, e contrariamente a Proudhon, che davvero le antinomie possono essere defini­tivamente risolte, apre la strada a un comunismo, che, posto di fronte alla loro realtà irriducibile, alla loro mancata solu­zione in ima sintesi superiore, non può che imporsi forzando le leggi immanenti e obiettive della società, non può che darsi a prezzo della coercizione e della dittatura, a prezzo della sua trasformazione in regime poliziesco152. Tutti i partigiani del collettivismo accentratore « sono infatti vit­time di una strana illusione: fanatici del potere pretendono di fa r derivare l'instaurazione di una società nuova dalla forza centrale » 153. Il modello della loro vagheggiata organiz­zazione industriale sem bra preso a prestito da quello della polizia perché « fra tu tti i pregiudizi quello che accarezzano

Page 39: Berti, Proudhon

Critica del potere politico 45di più è la dittatura. Dittatura dell’industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero, dittatura nella vita so­ciale e nella vita privata, dittatura dappertutto » 154.

Critica del potere politico

L'analisi proudhoniana della forza collettiva ha eviden­ziato l’immanenza di tale forza in ogni azione sociale. In virtù di questa forza, che si sprigiona spontaneamente dalla vita associata, il sociale si rende effettivamente autonomo rispetto a qualsiasi potere esterno: al di sotto dell’apparato governativo, all’ombra delle istituzioni politiche esso tende a produrre lentamente e in silenzio il suo proprio organi­smo, e a costituire un ordine nuovo, espressione della sua vitalità e della sua autonom ia155. La società, per cosi dire, « cammina da sola » 156.Ogni potere politico vivendo dell’appropriazione di questa forza sociale immanente alla collettività, rispetto alla quale è tuttavia superfluo, non può perciò che instaurare con questa collettività un rapporto di contrapposizione; una contrapposizione nella quale si ritrova per Proudhon lo stesso antagonismo che lega lo spontaneo e il meccanico, il mobile e l’immobile, la creazione e la ripetitività, la plura­lità e l’unidimensionalità, il dinamismo e la conservazione. Precisamente, si ripete qui ciò che avviene fra capitale e lavoro, perché se nella società economica la forza collet­tiva nasce dai rapporti di cooperazione, nella società poli­tica nasce dai rapporti di commutazione, di relazione, di scambio, moltiplicandosi in funzione di questi. Cosi come esiste un plusvalore economico, esiste pure un plusvalore statale, nel senso di una usurpazione permanente della po­tenza sociale espressa dall’essere collettivo della società157. Si può dire pertanto che « sfruttare e governare sono la stessa cosa » 15S.La politica è dunque, in rapporto alla vita sociale, ciò che è il capitale in relazione al lavoro: un’alienazione della forza collettiva; lo Stato in quanto rappresentazione sim­bolica, rappresentazione esterna della forza sociale, ne è anche per ciò stesso la negazione, una sottrazione di vita e di esistenza.Come si può notare le categorie dell’alienazione e della trascendenza, già esplicitate da Feuerbach e Marx, tornano qui a innervare la critica proudhoniana. Specificamente, esse compaiono fondandosi in una stretta analogia; se infatti

Page 40: Berti, Proudhon

46 Introduzioneper Feuerbach la trascendenza si dà nel rapporto esisten­ziale tra l’uomo e Dio e se per Marx l'alienazione si estrin­seca nella sola relazione tra l’essere produttore e la produ­zione stessa, per Proudhon questi due piani — dell’esisten­za, e del sociale nella forma della produzione — slittano l'uno sull'altro e si identificano nella comune critica rivolta alla trascendenza sotto qualunque forma questa si ma­nifesti 159.Il politico, lo Stato, è la risultante dell'alienazione della forza collettiva esplicitata a tutti i livelli, da quello sociale a quello economico, da quello culturale a quello psicologico. Per mantenere la propria esistenza che è fittizia, esso non può che perpetuare l'espropriazione della società. Non può che tendere a mantenere la disuguaglianza; perché è solo a condizione che la società sia e rimanga non egualitaria che l’organizzazione statale può sostituirsi a quella sociale, il politico rispondere alle esigenze dell’economico, e lo Stato assolvere con autorità quello che la società dovrebbe svolgere con autonomia. Con « il principio della fatalità e dell'antagonismo preso per base della società, noi cono­sciamo, scrive Proudhon, il segreto del fatalismo politico, la metafisica governativa di una gerarchia eterna » 16°. Questo dogma fatalistico fondato sulla teologia della forza è stato ripreso in pieno dalla democrazia giacobina e dal socialismo autoritario che Io hanno mutuato totalmente dall'aristo­crazia e dalla regalità. Cosi Proudhon constata attraverso l'analogia simbolica una sorta di « religione della forza », di mistica della « ragione di Stato », di fascino che ammante­rebbe il potere sociale spingendolo come un archetipo sa­crale fino nel profondo dell'inconscio sociale161.In conclusione l’idea dello Stato secondo il pensatore francese non prescinde da una dimensione teistica, neppure nelle sue articolazioni formali (tanto da assumere perfino una qualche forma trinitaria di potenza, assistenza e sicu­rezza) e spiegherebbe anche la trasposizione dal piano teistico a quello fideistico operata dal pensiero giacobino, nel quale l ’immagine indeterminata e collettiva del « po­polo » viene vissuta in chiave trascendente e sacrale, a estrema riconferma delle ragioni della legittimazione del­l ’espansione totalitaria e burocratica del p o tere162.È proprio dunque della natura dello Stato, di ogni Stato, tendere a un proprio rafforzamento attraverso un movi­mento di assorbimento delle forze collettive e delle forze sociali. E non solo lo Stato è spinto dalla sua logica intrin­seca ad appropriarsi dell’azione sociale, m a anche a cen­tralizzare e unificare in una sola direzione la pluralità della vita collettiva. Questo movimento, che comporta la crescita

Page 41: Berti, Proudhon

Critica del potere politico 47continua delle funzioni dello Stato « a spese dell’iniziativa individuale, corporativa, comunale e sociale » 1&3, ima volta iniziato tende incessantemente a crescere, a invadere tu tta la società, perché la centralizzazione è per sua natura espansiva, invadente.La società disegualitaria è dunque la condizione obiettiva dell’esistenza dello Stato allo stesso modo in cui l’esistenza di questo è la condizione del mantenimento della disugua­glianza sociale. La tendenza irreversibile dello Stato alla concentrazione e all’appropriazione della forza sociale dipen­de quindi dal conflitto delle classi, e più precisamente da ogni forma di gerarchia sociale che è a sua volta la condi­zione fondamentale per l’estorsione della forza collettiva.La contrapposizione fra politico e sociale assume sen­z’altro nel pensiero di Proudhon la forma della contrappo­sizione fra autorità e libertà; date queste radicali premes­se 164, Proudhon è conseguentemente contrario a qualsiasi rivoluzione di tipo politico, tale cioè da interessare soltanto il potere. Questo genere di rivoluzione, ai fini di un vero cambiamento sociale, è assolutamente fasullo, apparente, proprio perché fittizia è la dimensione stessa del politico, fondata com’è su un’esistenza presa a prestito dal sociale165.Ogni rivoluzione politica non può che essere una rivolu­zione alienante perché ripete la dinamica, sempre identica a se stessa, del rapporto parassitario fra la società globale e lo Stato, tra la forza collettiva espressa dalla società e l’appropriazione generale operata dallo Stato. Inoltre, poiché il politico deriva dall’alienazione posta in atto a tutti i livelli della vita collettiva e non solo quindi dall’aliena­zione economica pur se questa ha una grande im portanza166, ecco che la rivoluzione politica finisce per essere proprio la forma massima dell’alienazione umana.Comprendere la specificità del politico senza intenderlo come riducibile a mero riflesso delle contraddizioni econo­miche significa leggere contemporaneamente la logica del potere, sia nella sua forma generale che in quella partico­lare. Nella sua forma generale perché lo Stato, forma su­prema della politica, comprende il complesso più potente delle articolazioni autoritarie della società gerarchica: ma­gistratura, polizia, finanze, educazione, esercito, burocrazia, informazione. Nella sua forma particolare perché il modello del politico si esprime per definizione nell’esercizio del po­tere: « L’autorità sta al governo come il pensiero alla parola, l’idea al fatto, l’anima al corpo. Se l’autorità è il principio del governo, il governo è l’esercizio dell’autorità. Abolire l’uno o l ’altra, se l’abolizione è reale, significa distruggerli tutti e due nello stesso tempo; per lo stesso motivo, con­

Page 42: Berti, Proudhon

48 Introduzioneservare l'uno o l’altra, se la conservazione è effettiva, signi­fica mantenerli entrambi »167.Ciò permette a Proudhon di dimostrare che non esiste una scienza della politica che non sia in realtà ima scienza del potere; che una scienza della politica, in quanto scienza del e per il potere non potrà superare mai l’orizzonte del potere per il potere; che, infine, non è vero che non esiste1 autonomia del politico dal momento che questa autonomia trova il suo terreno ideale proprio là dove fruttifica il potere. Detto in altro modo: le leggi della politica e quelle del potere sono di eguale natura, sono autonome e non rispon­dono a volontà ideologiche. Dovunque vengano messe in moto e applicate si evidenziano come leggi rispondenti a una logica tutta propria, refrattaria ai contesti socio-econo­mici anche se di essi assimilano la contestualità storica. c,sse travolgono ogni intenzione positiva di riforma, nel senso che non sono gli uomini a cambiare la natura del potere, ma questo a cambiare quelli. 11 governo infatti è « per sua natura controrivoluzionario, o resiste, o opprime,o corrompe, o infierisce. Il governo non sa, non può, non vorrà mai essere nient’altro. Mettete un san Vincenzo de' raoli al potere: diverrà un Guizot o un Talleyrand » ,6S.Cosi il socialismo statalista pretende di combattere il capitalismo con una nuova alienazione, quella dello Stato; di lottare contro l’abuso con un ulteriore abuso; di abbat­tere un assolutismo con un altro assolutismo: « Cosa stupe­facente, la maggior parte dei rivoluzionari, a imitazione dei conservatori che combattono, non pensano che a co­struire prigioni »169. Proudhon approfondendo la sua critica allo Stato mette perciò in rilievo nella classe politica dei democratici, dei socialisti governativi e dei rivoluzionari, un gusto del potere politico e della proprietà che, pur essen­do più sottile e meno apparente, è tuttavia equivalente e similare al gusto del potere economico e della proprietà tipica dei capitalisti. È ciò perché il potere è una vera proprietà, un diritto di usare e di abusare, un mezzo di struttam ento dell’uomo attraverso la forza170. Paradossal­m ente è proprio lo Stato a essere « il Dio adorato del socia- lismo autoritario » 171 «un feticcio nato con il dogmatismo giacobino e continuato con il governamentalismo demo­cratico, radicale e socialista » 172.

Contrariamente dunque a tu tte le illusioni dei partiti e allo spirito giacobino, Proudhon m ette in luce il carattere essenzialmente controrivoluzionario della politica perché sempre essa si esprime nella logica del potere. Egli segna cosi una ro ttu ra con tutte le teorie politiche del passato e con tutte le concezioni falsamente rivoluzionarie dei de-

Page 43: Berti, Proudhon

Critica del potere politico 49raocratici, incapaci, tutte, di prescindere dal pregiudizio statalistico. Una ro ttu ra che conduce a questa lapidaria de­finizione della rivoluzione: « Nessuna autorità nessun go­verno, nemmeno popolare: la rivoluzione sta in questo » 173.La critica radicale all’idea stessa dello Stato, del go­verno e della politica si salda quindi con la critica alle teorie che immaginano la nascita del potere politico quale risultato di una libera decisione dei cittadini, quasi che fosse possibile una unificazione forzata del politico senza una precedente unificazione naturale del sociale174. Vi è invece « una società permanente, indistruttibile, che sostiene tu tte le forme ufficiali comunicando a loro una parte di sé ». La società reale è « il noumeno », la società ufficiale è « il fenomeno », la prima è « l'essenza », la seconda è « lo Stato » 175. Occorre quindi pensare il politico attraverso il sociale, pur nella consapevolezza della distinzione dei due piani. Questa critica investe chiaramente la nozione rous- seauiana del Contratto sociale, dove esso è appunto per Rousseau l’accordo politico, e per Proudhon invece sinonimo di alienazione della libertà e di sottomissione co a tta176. Il Contratto rousseauiano si presenta ai suoi occhi quale ipo­tesi troppo irreale perché non fa riferimento alle forze concrete dell’esperienza sociale ed economica177. Alla base del Contratto sociale di Rousseau, come di tutta la tradi­zione giacobina, vi è una fondamentale ambiguità dovuta proprio aH’indeterminatezza del ruolo del potere, il quale, venendo concepito come indiviso perché « nato dal popolo », non può che risolversi in un puro dispotismo: « tu tto ciò che la storia e l'immaginazione possono suggerire di estrema licenza e di estrem a servitù si deduce con una facilità e un rigore di logica dalla teoria societaria di Rousseau » 178.In verità la critica proudhoniana si estende a tu tte le forme del politico, da quella assolutistica a quella demo­cratica, perché tu tte fondate sull’idea che gli uomini deb­bano cedere la loro autonomia e delegare il loro potere al fine di costruire una sovranità che, volenti o nolenti, do­vranno poi risp e tta re179.La teoria della democrazia rappresentativa e del suf­fragio universale vengono appunto considerate da Proudhon sotto questa luce, e perciò valutate una grande illusione mistificatoria 18°. Specialmente contro questa illusione la critica proudhoniana del potere politico si dispiegherà con tu tta la sua forza intorno agli anni cruciali del ’48-’49. A suo giudizio si spererà sempre invano che la democrazia rappresentativa esprima le idee e gli interessi generali. Un delegato eletto al fine di conciliare le idee e gli interessi di

Page 44: Berti, Proudhon

50 Introduzionetutti o almeno di una parte dei suoi mandanti, rappresenterà sempre invece una sola idea e un solo interesse; un’assem­blea per quanto voglia rappresentare la pluralità degli elet­tori non potrà alla fin fine che dichiarare la sola opinione della sua maggioranza. Cosi, dichiarando volontà popo­lare l’opinione di metà del Parlamento si sostituirà all'il­lusione democratica la tirannia maggioritaria. L’obiettivo della rivoluzione politica voluto dai democratici non è perciò quello di restituire al popolo la sua sovranità per mezzo della distruzione dell’autorità, ma al contrario di fare della democrazia una nuova autorità, un nuovo potere più forte e più solido perché fondato questa volta su un consenso popolare illusoriamente più allargato181.Il rifiuto della democrazia rappresentativa, che verrà in seguito attuato, indica qual è l’atteggiamento e il giudizio di Proudhon verso ogni forma di rappresentanza e di delega, specialmente per quanto riguarda l'emancipazione delle classi inferiori. Si può dire senz'altro che è la teoria proudhoniana della separazione fra società economica e società politica, fra Stato e società, che motiva il princi­pio fondamentale secondo il quale « l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi o non sarà » 182. Più estesamente, quest’idea, che ha il suo fonda­mento nel concetto di « autonomia delle masse » 183, afferma che l’emancipazione proletaria può avvenire solo « senza l ’aiuto del governo » e senza l’aiuto di qualsiasi consorteriao « fazione rivoluzionaria separata dal popolo » 184. Solo agendo da se stessa e per se stessa la classe operaia può realizzare la propria emancipazione.Proudhon quindi è portato del tutto logicamente a re­spingere la dittatura del proletariato perché essa implica un’azione di guida sulle masse popolari ad opera di un corpo estraneo al mondo sociale: i rivoluzionari di profes­sione, che appartengono per definizione e di fatto alla società politica. La dittatura del proletariato resta perfet­tamente legata, perché ne è la sua esatta espressione, a una tipica concezione della rivoluzione il cui solo e unico scopo è la sostituzione del potere.In realtà, se la rivoluzione vuole essere davvero la distruzione di ogni alienazione, alienazione che per Proudhon si identifica tout court con il principio di autorità, è evi­dente allora che la liberazione umana deve escludere il ricorso a tale principio, qualunque sia la giustificazione a ciò addotta.È interessante a questo proposito leggere quanto egli scrive su questo tem a proprio in una lettera a Marx, lettera che segna la definitiva ro ttu ra tra i d u e 185 e che vale la pena

Page 45: Berti, Proudhon

Critica del potere politico 51di riportare quasi per intero. Scrive dunque Proudhon:« [...] credo mio dovere e dovere di tutti i socialisti man­tenere ancora per qualche tempo la forma critica o dubi­tativa; in breve, faccio professione in pubblico di un quasi assoluto antidogmatismo economico. Cerchiamo insieme, se volete, le leggi della società e del progresso; il modo in cui queste si realizzano, il progresso secondo il quale noi veniamo a scoprirle; m a diamine! dopo aver demolito tutti i dogmatismi a priori, non pensiamo a nostra volta ad addottrinare il popolo [...]. Applaudo di tutto cuore la vostra idea di portare in luce tu tte le opinioni; facciamo una buona e leale polemica; diamo al mondo l’esempio di una informata e lungimirante tolleranza, m a non facciamo di noi stessi, perché siamo alla testa di un movimento, i cam­pioni di una nuova intolleranza, non posiamo ad apostoli di una nuova religione, fosse pure la religione della logica, la re­ligione della ragione. Accogliamo, incoraggiamo tutte le pro­teste; rifiutiamo ogni esclusivismo, ogni misticismo; non con­sideriamo mai esaurita nessuna questione, e quando avremo usato il nostro ultimo argomento ricominciamo da principio, se necessario, con l’eloquenza e l’ironia. A queste condizioniio entrerò nella vostra associazione, se no, no!Devo fare qualche osservazione anche su questa frase della vostra lettera: al momento dell’azione. Forse conser­vate ancora l’opinione che al presente nessuna riforma sia possibile senza un coup-de-main, senza quello che im a volta era chiamato rivoluzione e in realtà non è altro che una scossa. Quest’opinione, che io capisco, scuso e sono disposto a discutere, avendola condivisa anch’io per molto tempo,i miei studi più recenti me l’hanno fatta abbandonare com­pletamente [...] perché questo preteso mezzo sarebbe sol­tanto un ricorso alla forza, all'arbitrio, in breve una con­traddizione. Quanto a me imposto il problema in questo modo: far rientrare nella società, con una combinazione economica, le ricchezze che sono uscite dalla società con un'altra combinazione economica. In altre parole, volgere in economia politica la teoria della proprietà contro la proprietà, in modo da far nascere ciò che voi, socialisti tedeschi, chiamate comunità, e che io mi limiterei per il momento a chiamare libertà, uguaglianza » 18é.Questa lettera, che contrappone chiaramente l’idea anar­chica dell’azione economica all’idea marxista dell'azione po­litica, è significativa perché m ostra come Proudhon consi­deri del tutto inutile ogni « colpo di mano », in quanto non solo palese manifestazione di violenza, e perciò di contrad­dizione, ma anche perché palese manifestazione di vera impotenza rivoluzionaria. In altri termini, la rivoluzione

Page 46: Berti, Proudhon

52 Introduzionepolitica si presenta alla fine sempre come una scorciatoia che comporta l’inevitabile passività delle masse popolari, perché favorisce la loro atavica propensione alla sottomis­sione e al rispetto dei poteri cesariani1S7. Fino a quando le rivoluzioni concernevano la costituzione politica, si poteva anche pensare all’utilità di ima sommossa. Ma una rivolu­zione che pretende di essere radicale non può che essere una rivoluzione sociale, la sola in grado di coinvolgere fino in fondo i lavoratori trasformandoli da soggetti passivi a sog­getti attivi. È per questo che alla formula giacobina « tutto per il popolo, ma tutto dallo Stato » Proudhon propone di sostituire la formula « tutto per il popolo, ma tu tto dal popolo » 188.Ma la critica della dittatura del proletariato è soprat­tutto, in Proudhon come in ogni anarchico, critica della nozione stessa di dittatura, in quanto suprema concezione dell’autorità. Niente potrebbe essere più contraddittorio, per Proudhon, quanto proporre la liberazione umana attraverso un mezzo cosi autoritario come la dittatura. In questo senso, l’assolutismo della dittatura è perfettamente ana­logo all’assolutismo della proprietà. La dittatura cioè è l’estrema concezione ed applicazione della nozione di pro­prietà in campo politico. Perciò lo stesso criterio che sta alla base della critica proudhoniana del comunismo si svolge ora verso la nozione di dittatura. Infatti, come il comunismo sostituendo alla proprietà privata la proprietà statale realizza il massimo della proprietà nel monopolio dello Stato, cosi la dittatura del proletariato, sostituendo la democrazia parlamentare borghese con il massimo della proprietà politica nell’unico monopolio della dittatura, rea­lizza paradossalmente il massimo dell’alienazione. Il mas­simo dell’alienazione, sottolinea Proudhon, perché ogni for­ma di assolutismo non è mai, e non può essere mai, transi­toria. L’idea della superabilità della dittatura, del suo estin­guersi per morte naturale come appunto si delinea nella concezione m arxista della « fase di transizione », è per lui del tutto illogica e mistificante, e « vanamente si potrebbe prendere come scusa che questo assolutismo sarà transi­torio; per il fatto che, se una cosa è necessaria per un solo istante, essa lo diventa per sempre, la transizione è eterna » 189.Ma la previsione proudhoniana, puntualmente confer­m ata dalla storia, circa l’irreversibilità totalitaria e buro­cratica del comunismo dittatoriale, non tocca soltanto la critica all’illusione della « transitorietà ». Essa investe ancheil problema, antecedente, della effettiva realizzabilità di tale dittatura. Secondo Proudhon infatti le masse operaie

Page 47: Berti, Proudhon

L’auto emancipazione 53non potranno m ai di fatto esercitare una « dittatura » fino a che, ai loro posto, al posto delle masse operaie, il potere sarà gestito dalla classe politica dei rivoluzionari di pro­fessione 190. Per Proudhon la cosiddetta dittatura del prole­tariato non può che risolversi in una dittatura sul proleta­riato, su quel proletariato che è stato espropriato dai rivo­luzionari della propria facoltà decisionale.In effetti il sistema politico dei comunisti è da conside­rarsi « una democrazia compatta, basata in apparenza sulla dittatura delle masse, ma tale in realtà che le masse non hanno altro potere che quello necessario ad assicurare la servitù universale, secondo i principi tolti a prestito dal vecchio regime: Indivisione del potere; Centralizzazione assorbente; Distruzione sistematica di ogni pensiero indi­viduale, corporativo, locale, reputato secessionista; Poli­zia inquisitrice » 191.La critica del potere politico come deduzione della con­trapposizione fra Stato e società porta dunque Proudhon a dar vita in modo consapevole a una tradizione di pensiero che si sarebbe da allora fronteggiata con quella giacobiniz- zante del marxismo.

L’autoemancipazione

La contrapposizione esistente fra Stato e società, fra il politico e l’economico, che riprende la nota distinzione sansi- m oniana192, si inscrive per Proudhon nella più generale contrapposizione fra creazione e ripetizione, spontaneità e ripetitività, pluralità e unidimensionalità. Perciò solo nella società economica dei produttori, che si contrappongono frontalmente alla società politica dei dominatori, è possi­bile rintracciare e svelare quella dimensione creativa, spon­tanea e pluralista dell’agire sociale, quale segno inconfon­dibile dell'emancipazione umana; solo all’intemo di una teoria e di una pratica economica si possono corretta- mente trovare le ragioni e gli scopi di una teoria e di una pratica rivoluzionaria.Ma se la creatività, la spontaneità, la pluralità sono i segni inconfondibili, le manifestazioni visibili, della capacità di autonomia della società, ciò non significa che esse non siano anche i segni e le manifestazioni della consapevo­lezza e della compiutezza della libertà.La spontaneità, la creatività e la pluridimensionalità, proprie all'azione sociale, della prassi collettiva dell’eman­

Page 48: Berti, Proudhon

54 Introduzionecipazione umana, sono solo le condizioni necessarie, ma non esaustive, per il raggiungimento della libertà. La società economica dei produttori può infatti dimostrare la propria capacità di autonomia da ogni tutela esterna dello Stato e del politico, senza per questo raggiungere la libertà. Ciò significa che occorre operare una netta distinzione fra l’atto spontaneo, proprio di ogni essere, e l’atto libero, attributo specifico dell’uom o193. Questo perché, mentre l’ordine in­terno svelato dalla spontaneità è quello della naturalità, della gratuità, ma sempre nell’ambito della necessità, l’or­dine mostrato dalla libertà è invece quello del progetto, della possibilità teorica e pratica di agire al di là della necessità.Tuttavia il rapporto fra spontaneità e libertà, o a dir meglio fra necessità e libertà, non può essere visto come una relazione che ponga l’uomo in una condizione di irreversi­bile libertà rispetto al mondo e alla natura. Non esiste in Proudhon l’idea di un superamento definitivo della necessità da parte della libertà. Vi è invece l’idea di im a complemen­tarità fra i due termini, nel senso che « la libertà è completa solo quando si accorda con la necessità »194. Oltre a un rico­noscimento del tutto ovvio delle leggi oggettive della neces­sità quale unico modo per dominarne gli effetti, vi è in queste parole anche un appunto « ideologico »: Proudhon vi afferma infatti che la libertà non può farsi soggetto asso­luto. Anch’essa deve rispettare le particolarità e le determi­nazioni del reale, deve cioè pluralizzarsi e contestualizzarsi dentro le forme storiche e le situazioni reali date. Si tra tta di una concezione « concreta » della libertà che si pone all’opposto della visione astratta di derivazione illuminista. Questo perché Proudhon avverte una sorta di rischio assolu­tistico insito nel concetto di libertà qualora essa non venga divisa fra più soggetti politici e sociali. Dare un valore assoluto alla libertà significa per Proudhon assegnarle lo stesso significato che il giacobinismo diede alla « volontà generale ». Occorre invece una dialettica fra determinismi e libertà in grado di trasformare l’idea astra tta e generale di libertà in tante idee concrete e particolari di libertà. Infatti la divisione della libertà si realizza ripetendo il mo­vimento della necessità e riconoscendone le connessioni: « la necessità è essa stessa contraddittoria, poiché come ha dim ostrato Spinoza, fuori della necessità non esiste nulla, e tuttavia, per spiegare il movimento dell'universo e la perfettibilità degli animi, bisogna, con Leibniz, dividere questa necessità all’infinito, vale a dire creare una libertà uguale ad essa » 19S. Non esiste cosi un’unica necessità ma una pluralità di condizionamenti che consentono alla libertà

Page 49: Berti, Proudhon

L’auto emancipazione 55molteplici possibilità di affermazioni. La necessità è dunque la condizione della libertà.L'impossibilità di un assoluto e incontrovertibile supe- ramento della libertà rispetto alla necessità porta quindi Proudhon ad una concezione realistica del progresso umano perché, analogamente al rapporto fra necessità e libertà, anche quello fra conservazione e rivoluzione esprime la dialettica della complementarità. « Le rivoluzioni, egli scri­ve, sono le successive manifestazioni della Giustizia nel­l'umanità. È per questo che ogni rivoluzione ha il suo punto di partenza in una rivoluzione precedente. Dunque chi dice rivoluzione dice necessariamente progresso, e, per ciò stesso, conservazione. Ne segue che la rivoluzione è in per­manenza nella storia; e che, propriamente parlando, non ci sono state parecchie rivoluzioni: non c’è che una sola stessa e perpetua rivoluzione » 196. Da ciò risulta secondo Proudhon l’impossibilità oggettiva di ima distruzione totale del passato. Infatti, come nel rapporto fra necessità e libertà, anche in questo secondo caso la relazione di com­plementarità ci indica l'impossibilità di un assoluto supe­ramento perché ciò che muta stabilisce la misura di ciò che resta e viceversa. Occorrono dunque tre termini per decifrare la trasformazione: il primo per identificare il risultato nel suo complesso, il secondo per identificare ciò che muta, il terzo per identificare ciò che re s ta197.Si vede subito da quanto detto che la concezione proudho- niana del progresso è molto più complessa di quella comu­nemente presente nel secolo scorso. Vi è in Proudhon la consapevolezza della radicale relatività del mutamento e perciò della assoluta necessità di infondervi una carica etica e morale che lo giustifichi fino in fondo.Il rapporto fra conservatorismo e rivoluzione viene dun­que visto secondo una concezione complessa dove la tra­sformazione è tale nella misura in cui riesce a coinvolgere tutti i settori della società, da quello economico a quello sociale, da quello politico a quello culturale. Radicalmente opposta alla visione giacobina del « colpo di mano » che, secondo Proudhon, essendo solo un'operazione di potere non cambia sostanzialmente nulla sul piano antropologico, quella di Proudhon vuole portare invece a una trasforma­zione « organica ». In questo senso si precisa il suo sforzo teorico rispetto al concetto di storia. Questa deve essere si intesa come reale svolgimento progressivo dell’uomo nelle sue capacità di autonomia rispetto al mondo e alla natura, ma solo nella misura in cui questo svolgimento comporta la consapevolezza dei limiti stessi del cambiamento. La concezione realistica di Proudhon non lascia spazio dunque

Page 50: Berti, Proudhon

56 Introduzionea nessuna visione « millenaristica » e « provvidenzialisti­ca » del cambiamento concepito come metamorfosi assoluta. Non esiste quindi per lui una soluzione definitiva dei pro­blemi sociali in quanto essi si rinnovano sempre proprio perché sempre vi è cambiamento storico.La chiara consapevolezza del rapporto fra necessità e libertà non impedisce comunque a Proudhon di continuare a pensare che solo nella tendenza al superamento della costrizione fisica e sociale l’uomo si realizza come libero; un superamento per mezzo del quale l’uomo al di là della spontaneità idealizza ciò che crea, trasfigura il reale, rifiuta di rassegnarsi al naturale, « defatalizza » il suo de­stino 198. Si può affermare addirittura che per Proudhon la funzione della libertà consiste « nel portare il soggetto libero al di là di tu tte le manifestazioni, aspetti e leggi, tanto della m ateria quanto dello spirito, e dargli un carat­tere per cosi dire sovranaturale » 199.Con questa raffigurazione prometeica Proudhon non de­finisce solo il rapporto fra spontaneità e libertà, fra neces­sità e libertà, ma spiega anche il concetto di progresso umano. Infatti, cosi come la libertà non può essere ridotta a una mera funzione della necessità, altrettanto il pro­gresso non può essere visto come una evoluzione determi­nata nel suo sviluppo. Non vi è mai nulla di fatale e di auto­matico nel progresso, perché tutto ciò che può essere conquistato può essere anche perso 200. E questo perché il progresso non può essere identificato con il puro e sem­plice evolversi del processo storico, ma con l'adeguamentoo meno all’ideale della giustizia. In altri termini, è il grado di giustizia realizzato nella storia che determina e speci­fica il grado qualitativo del progresso umano. È quindi la libertà alla base della giustizia, perché questa si realizza solo attraverso il libero arbitrio dell’uomo, cioè attraverso la libera volontà umana ^ La giustizia non può essere altro perciò che il risultato di una consapevolezza etica, di una cosciente volontà rivoluzionaria. L’ideale proudhoniano del­la giustizia non è, come potrebbe apparire superficialmente, l ’esito di una visione idealistica e utopistica della storia umana, ma, al contrario, il frutto di una riflessione profon­damente rivoluzionaria e del tu tto realistica. Proudhon iden­tificando il socialismo con la sua dimensione etica — vale a dire con la giustizia — non intende infatti concepire que- s t’ultima, né ritiene sia possibile farlo, con una realtà ester­na all’uomo, trascendente rispetto aH’empiricità antropo- logica dell'individuo202. La giustizia quindi non come qual­cosa di idealistico, ma come attributo intrinseco dell'uomo, nel senso che essa è intima e omogenea alla costituzione

Page 51: Berti, Proudhon

L'autoemancipazione 57antropologica, al suo essere stesso inteso nella sua atem ­poralità a]3. Solo da questa autocoscienza immanente all’um a­no può svilupparsi una potenzialità sovversiva ben mag­giore di ogni effetto causato da contingenze storiche, può farsi concreto il progetto rivoluzionario dell’uguaglianza201.È sulla base di questa convinzione che Proudhon critica e respinge ogni idea di determinismo storico che a suo giudizio è fasulla sul piano scientifico e reazionaria sul piano ideologico. Fasulla sul piano scientifico perché tu tta l’espe­rienza storica passata sta a testimoniare la discontinuità e l’imprevedibilità del processo storico 205; reazionaria sul piano ideologico perché il determinismo, anche se risultato di una prassi immanente alla collettività umana, è nondi­meno, rispetto all’individuo, un puro trascendentalismo, e perciò un’altra ed ennesima alienazione.Con queste puntualizzazioni Proudhon elabora il concetto anarchico di rivoluzione, definibile perciò come il ricono­scimento dello svolgimento incessante e infinito della sto­ria per il sovvertimento e la distruzione dell'assoluto 206. Ciò significa, in altri termini, la consapevolezza della neces­sità di una duplice azione rivoluzionaria: da un lato favo­rire il mutamento storico, perché questo, nel suo divenire, porta la società « a cambiare perpetuamente di forma » 207, e perciò a dissolvere continuamente ogni fissazione e ripe­tizione; dall’altro lato a correggere, se occorre, questo stesso mutamento perché può essere a sua volta portatore di nuovi assoluti. Il « travestimento dell’assoluto » è infatti la definizione centrale che Proudhon dà della continua possi­bilità che si formi, all'interno di qualsiasi moto riforma­tore, un nuovo e più agguerrito assolutismo in quanto ciò che definisce l’assoluto, il totale, l ’integrale non è tanto uno specifico contenuto, ma la forma della sua ispirazione, la riproducibilità della sua intuizione. La teoria del pro­gresso deve escludere quindi « tutte le nozioni assolute, tutte le ipotesi sedicenti definitive, (perché solo cosi) met­terà al riparo la società dall’inerzia conservatrice come dalle false imprese rivoluzionarie » 208. Il progresso, ancora una volta, « è l’affermazione del movimento universale, e per conseguenza la negazione di ogni forma o formula impu­tabile, di ogni dottrina eterna, immobile, impeccabile, appli­cata a qualunque essere chiunque esso sia; di ogni ordine permanente, senza eccezione dello stesso universo; di ogni soggetto, empirico o trascendentale, che non vuol cambiare. L’assoluto, al contrario, o l’assolutismo, è l’affermazione di tutto ciò che il progresso nega, la negazione di tutto ciò che il progresso afferma. È la ricerca nella natura, nella società, nella religione, nella politica, nella morale, dell’eter­

Page 52: Berti, Proudhon

58 Introduzioneno, dell'immutabile, del perfetto, del definitivo, dell'incon­trovertibile, dell’indiviso » m .Ecco perché « ogni dottrina che aspira segretamente alla prepotenza e alla immutabilità, che tende ad etemizzarsi, che si vanta di dare l’ultima formula della libertà e della ragione, che nasconde nelle pieghe della sua dialettica l’esclusione e l’intolleranza; che si afferma come verità in sé, pura da ogni contaminazione, assoluta, eterna, come una religione, e senza tollerare considerazioni di nessun altro tipo; questa idea, che nega il movimento dello spirito e della classificazione delle cose, è falsa e funesta quanto è incapace di costru ire»210.Contro i « travestimenti dell’assoluto » che comprendo­no anche le dottrine falsamente « rivoluzionarie » come il comunismo, Proudhon propone perciò da una parte l’idea di progresso come « processus, movimento innato, essen­ziale, spontaneo incoercibile e indistruttibile », come movi­mento « essenzialmente storico, soggetto a progressioni, conversioni, evoluzioni e metamorfosi »211, dall’altro come « scopo, ideale, per tracciare in questa direzione déìl'idea »« la marcia della libertà » 212 affinché esso diventi « la giusti­ficazione dell’umanità da se stessa sotto lo stimolo del­l’ideale »213.La rivoluzione non è la deduzione necessaria di una realtà oggettiva, ma è la realizzazione della volontà umana, un'impresa voluta dalla coscienza emancipatrice dell’uomo:« la libertà, secondo la definizione rivoluzionaria, non è per niente la coscienza della necessità, non è neppure la necessità dello spirito che si sviluppa, si conserva con la necessità della natura. È una forza collettiva che compren­de insieme la natura e lo spirito e che si possiede, capace come tale di negare lo spirito, di opporsi alla natura, di sottometterla, di disfarla e di disfarsi essa stessa. È una forza che rifiuta per sé ogni organismo; si crea mediante l’ideale della giustizia un’esistenza divina il cui movimento è perciò superiore a quello della natura e dello spirito e incommensurabile con l’uno e con l’altro »214.Una rivoluzione cosi intesa implica, sul piano dell’azione, una direttiva di fondo precisa: che vi sia la massima coeren­za etica fra il contenuto dei fini perseguiti e la natura dei mezzi usati. I mezzi dell’azione devono essere dedotti dai fini che la rivoluzione si propone: quelli della giustizia. È su questo rapporto di deduzione tra fini e mezzi, dalla teoria alla prassi, che si fonda la certezza che la prassi sia, essa stessa, la teoria realizzata215.Naturalmente, poiché i fini della rivoluzione libertaria ed egualitaria sono appunto la libertà e l’eguaglianza, do­

Page 53: Berti, Proudhon

L’autoemancipazione 59vranno essere libertari ed egualitari anche i mezzi del­l’azione. È attraverso questa via soltanto che l'obiettivo dell’azione si inscrive nella prassi, che l’atto rivoluzionario annuncia la società futura.A questo punto si tra tta di vedere quale classe sociale esprima la consapevolezza della propria forza e volontà di liberazione, la propria « capacità politica » di passare dalla spontaneità dell’azione alla libertà della rivoluzione. Secon­do Proudhon, le classi operaie (« classi operaie » e non « classe operaia », perché egli allude, anarchicamente, a tutte le masse sfru tta te216) sono le sole che possono effet­tuare la rivoluzione sociale. Tuttavia ciò non avviene in virtù della contrapposizione oggettiva fra capitale e lavoro; infatti questa contrapposizione sebbene sia la caratteristica centrale del sistema capitalista, è pur sempre una delle tante della società gerarchica; e, inoltre, non esiste ima legge deterministica che opponga le masse sfruttate agli sfruttatori: la pluralità delle contraddizioni mostra infatti che i cambiamenti storici non hanno e non possono avere necessitanti esiti univoci, che infiniti fattori dinamici concor­rono allo svolgimento complessivo dell’evoluzione umana.In realtà, la « capacità politica » delle classi operaie va cercata là dove l’idea di emancipazione è da queste classi prodotta e consapevolmente voluta. A questo proposito occorre che si verifichino tre condizioni: « 1°) che il sog­getto abbia coscienza di se stesso: della sua dignità, del suo valore, del posto che occupa nella società, della funzione che adempie, degli uffici cui ha diritto di pretendere, degli interessi che rappresenta o personifica; 2°) che, come risul­tato di questa coscienza di se stesso, affermi la sua idea: sappia cioè comprendere, esprimere con le parole, spiegare col ragionamento la legge della sua esistenza, nel principio suo e nelle sue conseguenze; 3°) che da questa idea infine, sappia dedurre sempre conclusioni pratiche secondo le variabili contingenze » 217.Condizione essenziale della liberazione è dunque che le masse sfruttate elaborino da sé stesse l’idea della società da instaurare, e che pongano consapevolmente tale idea in rapporto alla loro azione sociale. Diversamente, fino a quan­do si mostreranno incapaci di esternare il loro progetto, fino a quando esse prenderanno a prestito le idee di eman­cipazione da altre classi sociali, la loro iniziativa storica non passerà mai dalla spontaneità alla libertà.Questa autonoma iniziativa storica delle classi operaie esige la loro completa separazione pratica e ideologica da ogni altra classe sociale non oppressa e da tutto quel si­

Page 54: Berti, Proudhon

60 Introduzionestema di alienazioni che costituisce la totalità strutturale della società gerarchica. Solo con questa radicale separa­zione le masse sfruttate possono uscire da ogni tutela poli­tica, sociale, economica, culturale, ideologica, psicologica, impegnandosi in un processo storico senza precedenti: quello che le vedrà agire spontaneamente e liberamente da sé stesse e per sé stesse, senza più niente sperare dalle altre classi sociali, né dai partiti politici costituiti, né da qualsiasi sètta di rivoluzionari di professione218.La concezione proudhoniana della coerenza tra i fini ei mezzi da usare, e quindi fra l’obiettivo della libertà e del­l’uguaglianza e la via libertaria ed egualitaria della lotta sociale, implica dunque la massima unità organica fra Videa e l'azione rivoluzionaria da parte dei soli lavoratori. Ciò significa, ancora una volta, che non deve esserci ima divisione fra la coscienza del proletariato, rappresentato paradossalmente da un corpo politico non proletario e anzi estraneo al proletariato (il partito) e l’azione di questo stesso proletariato, separazione che è invece promossa e teorizzata da tutte le altre correnti autoritarie, per le quali l’idea della necessità di una guida politica delle masse popolari è imprescindibile219.Ma una volta assicurata l’assoluta autonomia delle clas­si operaie, come può realizzarsi il passaggio dalla sponta­neità alla libertà? In quale modo l’uomo si realizza come libero?La risposta va ricercata nella sintesi armonica delle facoltà complesse che costituiscono l’essere umano. Quel­la sintesi « di materia, vita, intelligenza e passione » 220 che è propria solo dell'uomo. Essa si dà però solo esaltando l’autenticità di queste stesse facoltà attraverso il loro libero sviluppo: « La coscienza, la libertà e il lavoro, come la ragione, non sopportano né l’autorità né il protocollo. Infatti la ragione, se il suo operato fosse a priori, si pregiudiche­rebbe essa stessa e non sarebbe più ragione, cosi se la coscienza ricevesse il suo criterio da una sorgente estranea non sarebbe più coscienza, allo stesso modo se la libertà si subordinasse ad un ordine prestabilito non sarebbe più libertà, ma schiavitù, cosi se il lavoro fosse sottoposto ad un preteso organismo superiore, non sarebbe più lavoro, ma macchina » m .Proudhon riprende cosi implicitamente il concetto di forza collettiva per applicarlo alla libertà: come l’unione degli sforzi individuali genera nel gruppo sociale una forza superiore alle individualità, altrettanto la sintesi autentica delle facoltà umane genera una forza d’azione superiore

Page 55: Berti, Proudhon

L’autoemancipazione 61alle stesse facoltà. Attraverso questa forza superiore l’uomo si sperimenta come libero e può cosi opporsi al mondo e trasformarlo.La formazione umana dovrà quindi emergere da com­plesse e molteplici esperienze culturali e spirituali, dall’uso contemporaneo e libero di ogni facoltà, dalla messa in opera di tu tte quelle condizioni atte a favorire la capa­cità da parte dell'uomo di riprogettarsi continuamente. Di qui la concezione di ima naturale confluenza fra sviluppo intellettuale e sviluppo fisico, quello sviluppo in grado di comporre sinteticamente l’unità dello studio-lavoro che nel­l’equilibrio fra teoria e prassi caratterizza l’uomo com­pleto ed emancipato 222.Ciò che sta alla base dell’obiettivo proudhoniano dell’in­tegrazione, per ogni individuo, del lavoro manuale con quel­lo intellettuale, è quindi la convinzione teorica che solo l’unità sintetica di idea e fatto, di teoria e prassi, possa esprimere e realizzare la naturale completezza psicofisica aell'uomo, realizzare cioè quella forza collettiva che è delle sue facoltà e che può renderlo libero.Il concetto della sintesi armonica delle facoltà riposa cosi sull’idea dell’oggettiva integralità del lavoro umano in tu tti i suoi aspetti, intellettuali, manuali, teorici, pratici, psicologici e materiali. Il lavoro, dice Proudhon, « è uno e identico nel suo piano » perché « l’idea, con le sue categorie, nasce dall’azione; in altri termini l’industria è madre della filosofia e della scienza [...]. Ciò significa che ogni conoscen­za detta a priori, ivi compresa la metafisica, è derivata dal lavoro, e deve servire di strumento al lavoro [...] l’idea deve quindi ritornare all’azione; il che vuol dire che la filosofia e le scienze devono rientrare nell'industria, pena la degrada­zione dell'umanità » 223.Questa integrazione fra lavoro manuale e lavoro intel­lettuale in ogni individuo comporta logicamente l’abolizione della divisione gerarchica tra funzioni intellettuali e fun­zioni manuali nell’organizzazione produttiva e sociale; e contemporaneamente l’abolizione della divisione verticale fra idea e azione, teoria e prassi nel processo generale di liberazione. Infatti cosi come la funzione politica separata dall’azione sociale delle masse si concreta nella tutela della società da parte dello Stato, analogamente le funzioni intel­lettuali separate da quelle manuali si concretano social­mente in classi dominanti all’intemo della produzione sociale.Alla divisione fra lavoratori manuali e lavoratori intel­lettuali propria della società gerarchica, Proudhon oppone la concezione libertaria ed egualitaria di una società eco­

Page 56: Berti, Proudhon

62 Introduzione

nomica e autogestita da produttori autonomi ed eguali; alla concezione gerarchica e statale, quella « dei partigiani della libertà, secondo i quali la società deve essere consi­derata non come una gerarchia di funzioni e di facoltà, m a come un sistema di equilibri fra forme libere, in cui ognuno ha garanzia di conseguire i medesimi diritti purché sotto­stia agli stessi doveri, di ottenere gli stessi vantaggi in com­penso dei medesimi servizi; sistema questo essenzialmen­te egualitario » 224. La visione proudhoniana dell’autoeman- cipazione non comprende, come si può ben vedere, la pro­spettiva della liberazione dal lavoro, ma solo la liberazione del lavoro. Come non può esistere un superamento incon­trovertibile della libertà sulla necessità, cosi non può esi­stere una libertà dal lavoro come superamento irreversibile della sua necessità. Anche qui il realismo di Proudhon non dà spazio all’ethos provvidenzialistico e millenaristico del rivoluzionismo comunista, perché, a suo giudizio, più una società si espande e più essa impegna il lavoro umano nella soddisfazione della domanda progressiva e indefinita dei bisogni22S.

Si precisa cosi la concezione proudhoniana dell’autoge­stione: libertà di movimento e di rotazione per tu tti, capa­cità di controllo da parte dei produttori in virtù di una conoscenza che da individuale si è fatta collettiva, gestione dell’intera serie dei processi produttivi attraverso una cono­scenza integrale fattasi equilibrio fra scienza e lavoro, teoria e prassi, idea e azione226.

L’organizzazione policentrica e federalista di ogni nucleo produttivo « sotto il governo di tu tti quelli che la compon­gono » 227 è l’obiettivo del tutto logico e naturale della visio­ne proudhoniana della rivoluzione economica che si con­trappone in modo frontale alla rivoluzione politica. Questa rivoluzione non può coinvolgere solo la classe operaia, ma deve investire più classi, ceti, gruppi, individui, posti sottoil segno dello sfruttam ento e dell’oppressione, e tu tti aggre­gati attorno a un progetto di trasformazione dal basso delle strutture produttive e sociali.

Il protagonista rivoluzionario non è dunque un soggetto sociale specifico, una specifica classe oppressa, ma l’insieme delle classi sfruttate, che proprio nella contrapposizione tra politico ed economico, tra Stato e società, si trovano unite e sincrone tanto sul terreno delle trasformazioni imme­diate, quanto, e imprescindibilmente, su quello del cambia­m ento economico-sociale radicale, attraverso l’abolizione del potere politico.

L’unica rivoluzione possibile p er la realizzazione della libertà e dell’uguaglianza deve dunque procedere « attra­

Page 57: Berti, Proudhon

Il socialismo proudhoniano 63

verso lo sterminio del potere e della politica » 228) essere cioè una rivoluzione economica; ciò può avvenire solo se le masse lavoratrici, appropriandosi in via diretta dei mezzi di produzione attraverso le molteplici organizzazioni professionali, iniziano e sviluppano una vita sociale ed economica al di fuori e indipendentemente da quella poli­tica; gestiscono e praticano rapporti liberi e d iretti senza alcuna mediazione istituzionale; assolvono infine, in quanto società economica, i compiti precedentemente svolti dalla società politica, al fine di rendere quest’ultima del tutto superflua: « Ciò che mettiamo al posto del governo è l’orga­nizzazione industriale [...] ciò che mettiamo al posto delle leggi sono i contratti [...] ciò che mettiamo al posto dei poteri politici sono le forze economiche » 229.

Il socialismo come superamento storico del liberalismo

La contrapposizione fra politico ed economico operata da Proudhon ci porta a questo punto a decifrare il passaggio dalla società dello sfruttam ento alla società emancipata. La deduzione di questo passaggio diventa del tutto ovvia e necessaria, qualora si tenga conto quanto abbiamo detto finora. Secondo Proudhon, infatti, vi sono sostanzialmente due mondi: quello del lavoro e quello della politica. Appar­tengono al mondo della politica tutte le figure imbevute di una filosofia totale, unitaria, accentrata, omogenea, inevita­bilmente mistica e gnostica e perciò, per semplificare, i preti, i guerrieri, i capi-popolo, i rivoluzionari di professio­ne, i portatori di verità e di salvezza, i messia di ogni specie. Appartengono al mondo del lavoro, al contrario, tu tte le figure mondane, cioè i produttori economici inevi­tabilmente ispirati da una filosofia aperta, empirica, rela­tiva, disomogenea, provvisoria, sostanzialmente laica. I prim i vogliono sempre decidere come deve essere il mondo,i secondi vogliono liberare il mondo.

Contro la politica deve dunque insorgere il lavoro, affin­ché la contrapposizione si espliciti nella mortale lotta fra la libertà e l ’autorità. È questa un’antinomia strutturale, che in linea di principio non può mai essere risolta. Per Proudhon infatti « l’ordine politico si fonda su due opposti principi: l’autorità e la libertà » 230. La loro antinomia « è la sicura garanzia del fatto che un terzo termine è impossi­bile, che non esiste. Fra il si ed il no, cosi come tra l’essere ed il non-essere, la logica non ammette nulla »231. Da queste

Page 58: Berti, Proudhon

64 Introduzione

due nozioni risultano per la società due regimi opposti, definibili come il regime della libertà e il regime dell'auto- rità. Ed è qui che Proudhon indica il passaggio dalla società dello sfruttamento alla società emancipata. Esso si deli­nea quale logico prolungamento della linea tracciata dalla rivoluzione economico-industriale sorta a sua volta dalla rivoluzione borghese contro i legami organici del mondo feudale.

Secondo Proudhon in tu tto il corso della storia umana sono stati concepiti essenzialmente solo e soltanto quattro regimi politici. Questi sono concettualmente insuperabili, nel senso che tutti gli altri modi di intendere la vita umana associata devono considerarsi delle variabili riconducibili in sostanza sempre alla fondamentale quadripartizione che egli stesso cosi sintetizza:

« Regime d'autoritàa) Governo di tutti da parte di uno: M o n a rc h ia o P a ­

t r i a r c a t o .b) Governo di tutti da parte di tutti: Panarchia o Co­

munismo.Carattere peculiare di questo regime è l’indivisione del

potere.Regime di libertàa) Governo di tu tti da parte di ciascuno: D e m o c ra z ia .b) Governo di ciascuno per sé: Anarchia o auto-governo.Carattere essenziale di questo regime, nelle due specie,

è la divisione del potere.

È tutto qui. Questa classificazione suggerita a priori dalla natu ra delle cose e razionalmente deducibile, è matema­tica » 232.

Si vede subito come questa contrapposizione fra il regi­m e d ’autorità e il regime di libertà ponga nella stessa « fa­miglia » il principio monarchico con il principio comunista e il principio anarchico con il principio democratico, in quanto il primo gruppo ha sua la caratterizzazione nell’in- divisione del potere, il secondo nella divisione. Come l’anar­chia è l’estremo svolgimento logico della democrazia, cosi il comunismo è l ’estremo svolgimento logico della monar­chia za. Per Proudhon la contrapposizione deve essere perciò u lteriorm ente specificata nel senso che la democrazia è precisam ente l'opposto della monarchia, m entre l’anarchialo è del comunismo.

Questa suddivisione — che esprime il pensiero proudho- n iano nella sua fase più m atura — scinde in modo irrevo­cabile la natura teorica dell’anarchia dalla scuola socialista

Page 59: Berti, Proudhon

Il socialism o proudhoniano 65

per porla come estrem a variante del liberalismo. Scrive testualmente Proudhon: « Come variante del regime libe­rale, ho segnalato l’anarchia o governo di ciascuno per sé, in inglese self-government [...]. Essa consiste nel fatto che, una volta ricondotte tu tte le funzioni politiche alla regolamentazione dei soli rapporti di produzione, l’ordine sociale risulterebbe unicam ente dalle transazioni e dagli scambi. Ciascuno potrebbe dirsi, allora, autocrate di se stesso, il che è l’estremo opposto dell’assolutismo monar­chico ». Da questa premessa, Proudhon arriva pertanto a concludere che « m entre la comunità resta il sogno della maggior parte dei socialisti, l’anarchia è l’ideale della scuola liberalista che tende chiaram ente a sopprimere ogni tipo di governo e a costituire la società sulle sole basi della pro­prietà e del lavoro libero » 234.

Affermazioni queste che indicano in modo ben preciso la traiettoria proudhoniana della rivoluzione sociale. Le basi della società emancipata, « la proprietà e il lavoro libero », sono l’effetto della rivoluzione economica come continuazione logica del regime liberal-borghese svuotato delle sue prerogative di classe date dal contesto storico in cui era nato. Secondo Proudhon — che azzarda alarne pre­visioni — la storia seguirà questo iter: « Anarchia indu­striale, Feudalità industriale, Impero industriale, Repub­blica industria le»725. L’anarchia industriale (qui il termine anarchia è posto in modo dispregiativo) ha rappresentato e rappresenta la fase del capitalismo « irrazionale ed insta­bile »236, vale a dire la prim a fase del regime borghese. Questo capitalismo « classico » sfocerà fatalmente, data la sua continua instabilità e irrazionalità, in im a concentra­zione che si risolverà in una « formazione corporativa, in una F e u d a l i t à I n d u s t r i a l e » 237 caratterizzandosi per « un sistema di concessioni governative e di monopoli di Stato (e per) un sistema di corporazioni, che unirà i padroni e i rappresentanti di assemblee popolari (intraducibile in ita­liano: jurandes) » 238. Questa F e u d a l i t à , non risolvendo alcune contraddizioni, come l'unione fra padroni e operai, sfocerà a sua volta in un « Im p e ro I n d u s t r i a l e » che in quanto massima concentrazione possibile risolverà non solo le antinomie economiche, ma anche quelle politico-nazionali. Infine, dopo questa fase totalitaria, si dovrebbe arrivare alla R e p u b b lic a , o D e m o c ra z ia I n d u s t r i a l e , cioè la società fondata sulla universalizzazione della proprietà e del lavoro libero.

La previsione proudhoniana relativa alla progressiva statalizzazione dei mezzi di produzione e della pianificazione in ogni campo della vita economica, è stata fino al terzo

Page 60: Berti, Proudhon

termine (Im p ero I n d u s t r i a l e ) sostanzialmente confermata. La F e u d a li tà (sistema delle corporazioni) è stata realizzata dal fascismo 239 e più in generale dalle economie miste, men­tre I’Im pero I n d u s t r i a l e ha avuto la sua realizzazione nel comuniSmo di Stato240. Proudhon infatti aveva spiegato che la F e u d a l i t à non risolvendo alcune contraddizioni di fondo del capitalismo, come avverrà proprio nel fascismo, si sarebbe risolta nell’lMPERO, massimo sistema di pianifi­cazione in ogni campo della vita umana associata: « La progressiva conversione della feudalità industriale in impe­ro industriale è la realizzazione del programma comuni­sta » *». F b

Si spiega perciò a questo punto la parziale rivalutazione della proprietà fatta da Proudhon nella sua ultim a fase di pensiero. L’universalizzazione della proprietà quale inevi­tabile risultato della liberazione del lavoro (si badi bene del lavoro, non dal lavoro) si configura come l'ultimo a p prodo dell’anarchismo proudhoniano, una volta posta in modo definitivo la considerazione centrale — comune, que­sta, a tutto il pensiero anarchico242 — che la proprietà pri­vata non è la causa dello sfruttamento, ma l'effetto della divisione gerarchica del lavoro sociale, questa si vera fon­te strutturale delle classi. Occorre perciò per Proudhon, come abbiamo visto, abolire la divisione gerarchica del lavoro sociale con l’integrazione in ogni individuo del lavoro intellettuale e del lavoro manuale, vale a dire delle funzioni direttive e delle funzioni esecutive per realizzare l’effettiva uguaglianza sociale.

L’universalizzazione della proprietà non è dunque un ostacolo all’uguaglianza sociale e alla libertà, m a la via più immediata e praticabile dell’emancipazione popolare, la via che può realizzare subito, per successive approssi- ^ > o n i , una sempre maggiore « uguaglianza delle fortu­ne » . Per realizzare questa universalizzazione occorrerà pensare una proprietà che si ponga nel sistema sociale come « liberale, federativa, decentratrice, repubblicana, egua- pt a n Progressista, ma amante della giustizia » 244. Poiché rroudhon mantiene ferma la sua idea che nessuna teoria, m linea di principio, può giustificare moralmente e prati­camente la proprietà, essa deve essere vista nella sua funzione reale, nei suoi effetti che consistono nel garantire la libertà degli individui. Precisamente il compito della proprietà — che sta a presidio della libertà individuale — e quello di « controbilanciare la potenza politica » 245. In questo senso essa deve essere ritenuta come « la più gran­de forza rivoluzionaria che esista e possa opporsi allo otato » *6 Tutta la storia umana, secondo lui, sta a testi­

66 Introduzione

Page 61: Berti, Proudhon

Il socialismo proudhoniano 67

moniare che dove non è esistita la proprietà privata si è formato il peggior dispotismo politico che mai si possa immaginare. « Dove manca la proprietà, o si trova al suo posto il possesso di tipo slavo, o il feudo, c’è dispotismo nel governo e squilibrio in tu tto il sistem a»247. In modo particolare, dove « la proprietà appartiene alla collettività, senato, aristocrazia, principe o imperatore, non vi è che feudalità, vassallaggio, gerarchia e subordinazione; e per conseguenza nessuna libertà né autonomia » m .

Occorre quindi che i lavoratori recuperino a pieno titolo la cultura individualista che giustifica ideologicamente il possesso generalizzato e l’universalizzazione della proprietà. Combattere l'individualismo come l'antitesi del pensiero rivoluzionario e quale nemico della libertà, come ritengono gran parte dei rivoluzionari socialisti, « non è un modo per stabilire la libertà, che è essenzialmente, per non dire esclusivamente, individualista; non è ini modo di fondare l'associazione, la quale deve comporsi unicamente di indi­vidui, bensì è un ritorno al comunismo della barbarie e al servaggio feudale: significa ammazzare insieme la società e le persone che la compongono » 249.

Questa rivalutazione che Proudhon fa della proprietà, non deve essere ritenuta una svolta o una deviazione del suo originario dettato socialista, ma, come dice lui stesso, « una rettificazione di metodo » 25°. Si tratta per lui di con­cepire un sistema economico-sociale che, liberando le forze del lavoro da ogni sistema di monopolio e di sfruttamento, possa dare la possibilità alle masse popolari di appro­priarsi in modo egualitario delle ricchezze sociali, dividen­dole sia collettivamente che individualmente. Cosi la pro­prietà si configura allo stesso tempo come il segno della progressiva emancipazione acquisita e come il mezzo per attuarla. Perché essa non degeneri in dispotismo e diventi veramente universale, Proudhon concepisce ima serie di « garanzie » sociali quali sistemi regolativi e correttori del suo progetto di società autogestita. Un sistema di contrap­pesi, di continui e diversificati equilibri in grado di atte­nuare al massimo le tentazioni prevaricatrici inerenti fatalmente all’esercizio della proprietà, mantenendo nondi­meno viva la forma sociale di una democrazia industriale di tipo conflittuale e moderno. Tutto ciò, però, sempre sotto il segno della libertà. « L'eguaglianza si farà automa­ticamente, più rapidamente e meglio con il lavoro, con l'eco­nomia, coi servizi a buon mercato, con la perequazione e la riduzione ad un ventesimo dell’imposta, con le trasforma­zioni, con la pubblica istruzione, e, soprattutto, con la libertà » m .

Page 62: Berti, Proudhon

68 Introduzione

Si delinea qui in modo incontrovertibile il riformismo proudhoniano, un riformismo però che non scade mai ad un empirismo eclettico ed improvvisatore. Il riformismo di Proudhon si specifica infatti per un rifiuto della rivolu­zione politica di tipo violento e insurrezionale (da lui rite­nuta, come abbiamo visto, assolutamente inutile ai fini di una vera emancipazione popolare) non certo per un abbas­samento degli obiettivi della trasformazione sociale che devono rimanere sempre i più profondi e i più vasti pos­sibili. Ciò che caratterizza quella che potremmo chiamare « la fase di transizione » dalla società dello sfruttamento alla società autogestita, è la progressiva realizzazione ed at­tuazione dei fini nei mezzi d'azione: se i fini sono la libertà e l’uguaglianza anche i mezzi d ’azione dovranno essere libertari ed egualitari. È soltanto attraverso questa via che l’obiettivo dell’azione si inscrive nella prassi, che l’atto rivo­luzionario annuncia la società futura. « L’umanità procede mediante approssimazioni:

1) approssimazione all’eguaglianza delle fortune median­te l’educazione, la divisione del lavoro, e il libero sviluppo delle attitudini;

2) approssimazione all’eguaglianza delle fortune, median­te la libertà commerciale ed industriale;

3) approssimazione all'eguaglianza delle imposte;4) approssimazione aWanarchia;5) approssimazione all’a-religiosità o a-misticismo;6) progresso illimitato nella scienza, nel diritto, nella

libertà, nell’onore, nella giustizia » 252.La via che Proudhon indica ai lavoratori è: universaliz­

zare i privilegi goduti dalla borghesia, universalizzare cioè le sue originarie libertà di classe nate inizialmente quali strum ento di dominio della borghesia stessa. Il compito dei lavoratori non è combattere contro le incompiutezze di classe del liberalismo, per fa r sorgere dalla classe proletaria u n ’altra libertà. Ciò è semplicemente un non senso, dal momento che il significato autentico della libertà sta nella sua universalità. Bisogna quindi dare un significato univer­sale alla libertà, disgiungendola da ogni reazionaria collo­cazione classista. Il socialismo è dunque il superamento storico del liberalismo. È cosi che la rivoluzione sociale realizza il suo compito, che porta al suo termine finale l ’evoluzione politica della società risolvendola nella libertà e nell’anarchia253.

Ora, quale è la concezione politica più approssim ata del­l ’anarchia? Il federalismo, risponde Proudhon, ed è perciò qui che egli focalizza la sua attenzione e la sua riflessione in modo particolare. Il federalismo proudhoniano, infatti

Page 63: Berti, Proudhon

La società autogestita 69

— un federalismo libertario —, sa risolvere in ima continua tensione di libertà i termini, dati prim a come teoricamente insopprimibili, della libertà e dell’autorità. I l federalismo, cioè, è la realizzazione storicamente possibile della libertà e dell'anarchia, perché mantiene i due principi della libertà e dell’autorità risolvendoli in una transazione che si dà come continua divisione e ricomposizione, come continuo conflitto, e perciò, oggettivamente, come continua tensione di libertà. La libertà è la realizzazione di questa transazione che tende a spostare il peso dell'autorità a favore della libertà, « essendo nella natu ra delle cose » che il principio di autorità sia «iniziatore» mentre il principio di libertà « determinante », nel senso che più questo avanza, più l’altro indietreggia 254.

La società autogestita

Abbiamo detto che la dialettica proudhoniana non risol­ve in una sintesi superiore le opposizioni della vita socio- economica. Tale concezione che vede nel continuo svolgi­mento delle antinomie la stru ttura stessa del sociale, porta Proudhon a formulare la sua dottrina del federalismo plura­lista, considerata a suo parere l’unica realistica perché le contraddizioni, costituendo la linfa vitale della società, sono insopprimibili. Cosi il federalismo pluralista si definisce, da una parte, come critica di tu tte le dottrine stataliste, uniciste, assolutistiche in quanto utopistiche e reazionarie, e dall’altra, come metodo regolativo, più che costitutivo, dei rapporti socio-economici. Esso infatti deve garantire con la sua dimensione aperta l’eguale possibilità di espressione di ogni individuo o gruppo in armonia con le proprie esi­genze geografiche e le proprie tradizioni storiche. Il sistema federativo deve essere insomma il risultato degli equilibri da ricercarsi nel rapporto fra gruppi e individui, fra unità e molteplicità, fra società globale e raggruppamenti parti­colari, fra coesione e libertà. Tuttavia « ciò che costituisce l'essenza e il carattere del contratto federativo — egli precisa — è che in un tale sistema i contraenti si riservano più diritto, autorità e proprietà di quanto non ne abban­donino » 255.

Per sorreggere questo disegno fondamentalmente liber­tario ed egualitario, Proudhon ha concepito il mutualismo economico, il solo in grado a suo giudizio di rendere ope­rante tale impianto strutturale. Il mutualismo in senso

Page 64: Berti, Proudhon

70 Introduzione

economico è un socialismo pluralista decentralizzato, fon­dato sull’autogestione dei produttori della proprietà fede- ralizzata degli strumenti di produzione. Esso realizza con­temporaneamente la democrazia industriale sotto il diretto controllo dei lavoratori e una democrazia politica il cui unico scopo è di essere al servizio di quella industriale.

Il concetto proudhoniano di autogestione ruota attorno all'idea centrale della sostanziale similitudine che deve esistere fra società politica e società economica, non solo dal punto di vista di un ’ovvia interdipendenza, m a anche e soprattutto nel senso che le stesse leggi naturali che rego­lano la prim a devono essere alla base della seconda. In questo senso l’autogestione proudhoniana si vuole presentare come un insieme di strutture particolarmente coerenti e complementari. Questa similitudine dei principi organici inerenti alla costituzione economica e alla costituzione poli­tica sviluppa dunque una interdipendenza e una comple­mentarità: si tratta precisamente delllnterdipendenza e della complementarità esistenti fra il mutualismo e il fede­ralismo: « Trasportato nella sfera politica, ciò che noi ab­biamo chiamato finora mutualismo [...] prende il nome di federalismo » e in « questa semplice sinonimia » si riassume « per intero la rivoluzione politica ed economica » 256 perché « il principio federativo è l’applicazione sulla più alta scala dei principi di mutualità, di divisione del lavoro, di solida­rietà economica » 257. Il mutualismo, edificazione dell'econo­mia sulla reciprocità dei servizi, e il federalismo, edificazione deH’ordinamento politico sull’affratellamento dei gruppi, sono in effetti due applicazioni complementari di imo stesso principio: quello della giustizia. La giustizia come equilibrio, la giustizia come reciprocità, la giustizia come equivalenza. Essa configura un ordine nel quale « tu tti i rapporti sono rapporti di uguaglianza; dove non esiste né primato, né obbedienza, né centro di gravità, né direzione, dove la sola legge è che tutto si sottom etta alla Giustizia, cioè all’equi- librio »258.

La « realizzazione » della giustizia si attua grazie a quel­la scienza del lavoro, intesa come scienza « ideo-realista », che abbiamo visto essere alla base del suo metodo seriale e della sua analisi sociologica. Perciò è questo concetto di lavoro come serie, cioè come infinita crescita e pluralità di tu tte le sue forme — da quelle economiche a quelle sociali, da quelle culturali a quelle pedagogiche, da quelle politiche a quelle sociali — che sostanzia la realizzazione della giustizia.

Due sono, come abbiamo visto, i principi che regolano la legge del lavoro: il principio di divisione e il principio

Page 65: Berti, Proudhon

La società autogestita 71

di composizione, che qui si specificano come antagonismo com petitivo e come equilibrio reciproco. È tra queste due leggi antinomiche che si sviluppa il movimento dialettico del lavoro umano in tu tte le sue forme. La conoscenza di questa logica del mondo effettivo perm etterà dunque ai produttori di acquistare la reale padronanza della società e costruire in ta l modo un ordine autogestionario corrispon­dente alla reale natura dei rapporti sociali ed economici259. Cosi, basato sulla consapevolezza dell’impossibilità di ogni sintesi e sull’irriducibilità delle leggi antinomiche, l’ordine sociale pluralista della società autogestita si esprimerà come una tensione dinamica continua che solo la catena reale del lavoro, cioè la serie-tipo, saprà unificare e fornire di significato. In tutti i casi, la libertà e l'autonomia degli individui, dei gruppi e delle società particolari potrà darsi solo mantenendo la doppia coppia antinómica della com­petizione e della cooperazione, che significa la presenza della concorrenza e della commutazione. La competizione o la concorrenza quale legge elementare della vita (legge di creazione, di produzione e di ripartizione), la cooperazione e la commutazione, quale legge di equilibrio, di parteci­pazione, di scambio e di associazione260.

La legge di competizione è basata sulla primordiale con­statazione che « il mondo, la società, lo stesso uomo sono composti di elementi irriducibili, di principi antitetici, di forze antagonistiche »261 secondo una catena continua che non ha fine. È la vita reale infatti ad esigere pluralità, antagonismo, autonomia, perché « chi dice organismo, dice complicazione, chi dice pluralità dice contrarietà, indipen­denza » 262. La condizione della vita è l’azione, e l’azione è una lotta, una concorrenza dell’uomo con l’uomo, dei gruppi con i gruppi. Voler sopprimere questo antagonismo è impos­sibile perché ogni vita esige la lotta tra le forze antino­miche, ogni movimento è la risultante della tensione di tali forze, ogni libertà collettiva e individuale non è possi­bile che grazie al gioco di questa concorrenza. Insomma l’antagonismo è un fenomeno eterno, permanente, esisten­ziale, fisico, sociale, umano 263.

Ciò significa che il socialismo deve realizzarsi non mal­grado o contro la concorrenza, ma grazie e soprattutto ad essa. Solo i fanatici dell’unità e della pianificazione, i socia­listi dogmatici e autoritari, non hanno capito questa volontà elementare. La concorrenza è infatti « il modo secondo il quale si manifesta e si esercita l’attività collettiva, l’espres­sione della spontaneità sociale, l’emblema della democrazia e dell’uguaglianza, lo strumento più energico della costitu­zione del valore, il supporto dell’associazione » 2M.

Page 66: Berti, Proudhon

Ma l’antagonismo, esprimendosi in tu tta la sua potenza, fa emergere immediatamente e del tutto naturalmente una controforza che si può definire come equilibrio, coopera­zione, mutualità. Cosi l’opposizione delle forze è la condi­zione obiettiva e indispensabile di un equilibrio reale, di una solidarietà naturale, di una reciprocità spontanea. Quin­di solo un libero antagonismo competitivo può far emergere un libero e reale equilibrio. La stessa vita che esige contrad­dizione esige infatti anche reciprocità, commutazione265.

Cosi la legge comune del pluralismo autogestionario, la legge di equilibrio e di mutualità, diventa allo stesso tem­po legge organizzatrice del pluralismo sociale di cui l’anta­gonismo e il lavoro sono rispettivamente la legge motrice e la legge integratrice. Riconoscere l’equilibrio ad ogni livello sociale è dunque il compito fondamentale del socia­lismo che voglia essere veramente e farsi autogestionario.E questo sarà possibile solo se « la riorganizzazione dell’in­dustria e dell’agricoltura sarà effettuata sotto la giurisdi­zione di tutti quelli che la compongono »266. Si delinea perciò a questo punto il problema fondamentale della proprietà nel regime autogestionario. Essa può definirsi come possesso nel senso che « socializzandosi » e « umaniz­zandosi » essa diventa una funzione sociale definitivamente sottomessa alla regolamentazione interna del nuovo diritto economico e della giustizia sociale267. Su questa proprietà federalizzata che cambia non solo di soggetto, m a di natura, Proudhon fa poggiare, come vedremo, la federazione agri- colo-industriale. Questa federazione attribuisce gli strumenti di produzione contemporaneamente all'insieme della società economica, ad ogni regione, ad ogni gruppo di lavoratori, ad ogni operaio e contadino considerati individualmente. Essa organizza ima proprietà federativa e m utualista dei mezzi di produzione i cui possessori sono simultaneamente l’intera organizzazione economica, centrale e regionale, le diverse branche deH’industria, ogni fabbrica e infine ogni operaio. Il possesso universalizzato non comporta però la spartizione della proprietà, che resta una e indivisa. In altri termini gli individui possono richiedere il riscatto della loro parte, prodotta dal proprio lavoro, al fine di realizzare un’altra, ulteriore unità produttiva o sociale, senza pretendere tuttavia la divisione della proprietà prece­dente. Cosi, considerata in se stessa, « l’idea di una federa­zione industriale serve di compimento e di sanzione alla federazione politica (perché) riceve la conferma più schiac­ciante dai principi dell’economia »268.

Questa proprietà federalista è, rispetto a ogni membro della società economica, « una coproprietà in mano comu­

72 Introduzione

Page 67: Berti, Proudhon

La società autogestita 73

ne » 269. Essa insomma non viene abolita, ma rip a r tita 270. Nel suo carattere di diritto assoluto nella società economica essa resta dunque, sotto questo aspetto, indivisa in ciascuna delle persone individuali e collettive di questa società. Cosi nella federazione agricola, in quella industriale, e nelle organizzazioni cooperative dei servizi. Ma questo stesso di­ritto assoluto è, dal punto di v ista dell’insieme della società autogestita, un diritto relativo perché nella visione proudho- niana la proprietà intesa come possesso è semplicemente una proprietà-funzione.

Questo carattere antinomico della proprietà è dato dal fatto che essa non è un valore e una realtà assoluta, perché si specifica solo con il m utam ento della realtà sociale e storica: « la proprietà è mutevole, e le rivoluzioni dell’uma­nità non hanno mai avuto che lo scopo di esprimerne i m utam enti»271. La storicità della proprietà dim ostra per Proudhon che essa può essere contestualizzata in un regime socialista e piegata alle esigenze di questo. E ciò perché la proprietà non è che uno dei term ini dell’insieme sociale272. Nel caso specifico la funzione della proprietà vuol dire, riguardo alla persona umana, la difesa della libertà indivi­duale, e sotto il profilo sociale la capacità di promuovere la responsabilità economica. Ecco in quale senso si delinea il socialismo autogestionario e libertario di Proudhon: nella coniugazione dell’istanza liberale della difesa della proprietà (quale garanzia reale e concreta dell’esercizio della libertà individuale) con l’istanza socialista della re­sponsabilità economica quale contesto obiettivo per la realiz­zazione della generalità dei diritti, dell’universalità dei doveri.

La teoria proudhoniana della proprietà può essere quindi divisa secondo lo schema seguente: il mutualismo federa­tivo dell’agricoltura, vale a dire la costituzione di proprietà individuah di sfruttam ento associato del suolo in un insieme di cooperative raggruppate in una federazione agricola; il socialismo federativo dell’industria, vale a dire l’insieme di proprietà collettive dei mezzi di produzione, concorrenti fra loro ma associate in una federazione industriale. Questa è la base della federazione agricolo-industriale comprendente pure le associazioni di consumatori e le cooperative dei servizi sociali. Si realizza in ta l modo quell’integrazione del­la doppia figura di produttore-consumatore che costituisce la condizione principale della democrazia economica273.

Ognuno nella società economica è allo stesso tempo e allo stesso titolo produttore e consumatore perché esiste l’equivalenza nella reciprocità dei servizi. Secondo Prou­dhon ciò è possibile partendo dalla messa in opera della

Page 68: Berti, Proudhon

teoria del valore-lavoro e, conseguentemente, del « valore costituito ». Questo si può sinteticamente definire come equazione tra il lavoro utile (la domanda di prodotti e di servizi) e il lavoro di scambio (l'offerta in prodotti realiz­zati e in servizi), in breve tra il valore d'uso — che ha per base i bisogni dell’insieme dei consumatori — e il valore di scambio, che ha per base il lavoro274.

Ciò perché il valore — « pietra angolare della scienza economica » — indica « un rapporto essenzialmente socia­le », nel senso che « l’idea contraddittoria di valore, cosi bene messa in luce dall’inevitabile distinzione tra il valore d ’uso e il valore di scambio, non viene da una falsa per­cezione dello spirito, né da una terminologia viziosa, né da qualsiasi aberrazione pratica, m a è insita alla natura delle cose e s’impone alla ragione come forma generale del pensiero, cioè a dire come categoria » 275. Non è quindi assolutamente possibile sottrarsi alla legge generale del valore. Si tratta invece, per Proudhon, di esplicitarla per intero volgendola a favore dell’uguaglianza sociale. Di qui l ’idea di arrivare a « costituire » il valore, a determinarlo equamente grazie ad un circuito economico di scambio che possa — essendo libero da ogni monopolio — far ritornare ad ogni produttore l’integraTità del suo prodotto, al fine di realizzare in ogni individuo la doppia figura di produtto­re e consumatore.

Per intendere pienamente il significato del progetto proudhoniano della « costituzione del valore » occorre te­ner presente che nelle intenzioni del suo autore esso va inteso quasi come un modello norm ativo276, non come un rimedio ai mali, alle deficienze e alle contraddizioni del regime capitalista. Non si tratta, per Proudhon, di rifor­m are il capitalismo attraverso la legge della costituzione egualitaria del valore, ma di costruire una società socialista partendo dal necessario riconoscimento dell’impossibilità oggettiva della sua abolizione. Occorre, cioè, cercare la legge generale del valore: solo cosi il socialismo passerà veramente dalla fase utopistica alla fase scientifica. Da que­sto punto di vista la polemica di Marx e del posteriore marxismo contro Proudhon appare infondata, giacché il socialista francese non ha mai affermato che la costituzione del valore potesse essere determ inata lasciando sussistere il capitalismo 277.

Ma se la legge generale del valore è ineliminabile, se la formazione del valore si costituisce in tu tti i casi anche in una fu tura società socialista, se ne deve dedurre, a questo punto, la condizione fondamentale e naturale di tale ineliminabilità: il mercato. Proudhon è il prim o a

74 Introduzione

Page 69: Berti, Proudhon

La società autogestita 75

concepire in modo « profetico » la necessaria ed indissolu­bile coniugazione del socialismo con il m ercato275. Neces­saria e indissolubile, secondo lui, non solo per l’oggettiva impossibilità di eliminare il valore, ma anche perché il luogo della sua formazione — il mercato — è il presidio di ogni libertà sia essa economica, sociale, politica, cultu­rale, ecc.279. « Il valore di scambio » — inteso proprio come uno dei due aspetti della « forma generale del pensiero, cioè a dire come categoria » — esprime dunque perfetta­mente un lessico ideologico preciso: lo scambio crea valore, deve creare valore: in altri termini, non è possibile con­cepire il valore e l’idea del valore senza lo scambio. Ogni forma di valore, da quella economica a quella sociale, da quella politica a quella culturale, si costituisce solo attraverso lo scambio. Esso assume la forma sociale su­prema della libertà: la libertà si costituisce attraverso lo scambio. Il « valore di scambio » è la forma sociale e dinamica della libertà280. L’eliminazione del mercato è quindi l’eliminazione della libertà.

Ora, secondo Proudhon, l’obiettivo della « costituzione del valore », è raggiungibile attraverso una scienza stati­stica che esprima l’insieme delle informazioni sull’organiz­zazione della produzione, sull’andamento del mercato, dagli investimenti e dal consumo, una scienza insomma capace di dare un quadro del rapporto tra risorse e impieghi. Si potrà cosi arrivare a determinare la « costituzione del va­lore » sulla base delle previsioni di un costo del lavoro inteso in senso largo. A partire da questa « contabilità economica » potrà essere costantemente stabilita una mi­sura della giornata di lavoro secondo le industrie e le professioni. Questa giornata di lavoro sarà definita come « la quantità dei servizi e della produzione che un uomo di forza e di intelligenza e di età media può fornire in un intervallo dato » 281. In questo modo ogni form a assunta dal­la circolazione della ricchezza avrà sempre come fonte comune il lavoro, inteso però non come forza-lavoro cioè come lavoro produttivo, m a come processo, per cui in questa ottica anche il lavoro erogato nello scambio crea valore 282.

Nella versione proudhoniana il mutualismo non è quin­di un sistema precostituito e dato una volta per tutte. È piuttosto un metodo regolativo generale capace di far esprim ere la potenzialità latente nelle varie dimensioni dell’economia. In questo senso è possibile vedere come vi sia un’ulteriore similitudine fra il mutualismo-federalismo e il pluralismo. Infatti l’organizzazione sociale e istituzio­nale non segue un unico criterio per tutti i settori dell’eco­

Page 70: Berti, Proudhon

76 Introduzione

nomia: per l ’industria Proudhon raccomanda il socialismo, per l’agricoltura il mutualismo, per i servizi la cooperazione. Questo diverso « dosaggio » è dovuto alla considerazione che la riorganizzazione sociale deve, in un certo senso,Ìiiegarsi alle caratteristiche proprie di ogni settore, pena ’uniformità mortificante di u n piano esterno e autoritario.

È possibile anche osservare a questo punto che le indica­zioni proudhoniane riguardo alla riorganizzazione socialista delle industrie sono diverse dalla falsa immagine datane da quasi tu tta la storiografia marxista e non marxista, nel senso che Proudhon non ha m ai confuso il decentramento e il federalismo con il manten imento di ima stru ttu ra indu­striale arre tra ta e riduttiva. Proudhon è consapevole che il numero delle piccole imprese è condannato a diminuire in virtù di quella divisione del lavoro che è la condizione della forza collettiva. Infatti « come più individui, combi­nando i loro sforzi, producono una forza collettiva che è superiore p er qualità e intensità alla somma delle loro rispettive forze, cosi più gruppi di lavoratori, posti fra loro in un rapporto di scambio, danno luogo a una potenza di ordine più elevato » 2SJ. Il problema per Proudhon è un altro. Si tra tta di non piegarsi a un fatalismo del pro­gresso industriale che in realtà non esiste se non nella volontà politica di chi vuole promuoverlo. Esso infatti non può che risultare al servizio dell’accentramento economico e perciò dell’accentramento politico. Cosi il gigantismo industriale si rivela necessario non all’economia, ma alla volontà politica di potere. Ecco in quale senso non vi deve essere fusione fra società politica e società economica: essa infatti comporterebbe una « orientalizzazione » della vita civile che verrebbe del tu tto identificata con quella po­litica, come nel caso della progettata società com unista284.

La similitudine fra dimensione politica e dimensione economica non deve perciò annullare la loro rispettiva auto­nomia. Anzi essa le deve maggiormente esaltare a partire dal principio fondamentale che sta alla base di entrambe: il decentramento.

La pluridimensionalità dell’autogestione proudhoniana— intreccio organico fra industria e agricoltura, indipen­denza dei gruppi produttivi, esistenza e differenza fra i gruppi produttivi e i gruppi professionali, unione trasver­sale fra consumatori e produttori in varie e sovrapposte associazioni — non significa una tendenza latente e ogget­tiva aH’integralismo sociale, politico, economico e culturale. Il decentramento e l'autonomia politica sociale ed econo­mica dei gruppi e degli individui è la garanzia obiettiva di questa differenza fra piano politico e piano economico,

Page 71: Berti, Proudhon

La società autogestita 77

perché nella concezione proudhoniana la dimensione terri­toriale non coincide con quella produttiva, né quella produt­tiva con quella politica. In altri termini Proudhon distingue chiaramente i due tipi di struttura, quella economica, vale a dire la federazione agricolo-industriale, e quella politica, vale a dire il federalism o285. Questo sarà basato sul decen­tram ento e sulla divisione dei poteri, sulla concessione della massima autonomia ai Comuni e alle Circoscrizioni regionali, sulla più ampia sostituzione possibile della buro­crazia con una direzione degli affari più flessibile e imme­diata derivante dal gruppo naturale. Secondo Proudhon questo federalismo potrebbe configurarsi e riassumersi in tre norme fondamentali: « formare gruppi di media gran­dezza, relativamente sovrani, e riunirli con un atto di federazione; 2) in ogni Stato federato organizzare il gover­no in base alla legge della separazione degli organi, vale a dire: nell’ambito del potere pubblico separare tutto ciò che si può separare, determinare tu tto ciò che si può determinare, ripartire fra vari organi o funzionari tutto ciò che si è separato e determinato, non lasciare nulla indiviso, circondare l ’amministrazione pubblica con ogni condizione di pubblicità e di controllo; 3) invece di lasciare assorbire gli Stati federati o le autorità provinciali e municipali da un ’autorità centrale, limitare le attribuzioni di questa al semplice compito dell'iniziativa generale, della garanzia e sorveglianza reciproca »286. In tutti i casi questa indica­zione di massima non è fine a se stessa, ma solo il mezzo più coerente e nello stesso tem po più concreto e immediato per configurare la tendenza verso una società « dove il centro politico è ovunque, la circonferenza in nessun punto »287.

L’autogestione proudhoniana, identificando in ogni cen­tro economico e sociale la capacità di propulsione e di iniziativa, riconoscendo la possibilità di una libera com­posizione e riscomposizione dei nuclei sociali, economici, produttivi e professionali, intende porre le basi di una società libera ed egualitaria.

Page 72: Berti, Proudhon

CENNI BIOGRAFICI

Nato a Besançon il 15 gennaio 1809, Pierre-Joseph Proudhon è il quinto figlio di una famiglia poverissima. Il padre bottaio-artigiano non dimostrò nessuna propensione per gli affari preferendo la rovina economica alla vendita della b irra ad un prezzo da lui ritenuto ingiusto. La madre Catherine Simonin, fu invece ima donna energica dotata di un carattere eroico che influì molto sulla formazione mo­rale del figlio. Fino a dieci anni Proudhon non legge che il Vangelo. Poi, grazie ad una borsa di studio ottenuta con l'aiuto di un amico dei genitori, entra nel collegio di Besançon come allievo esterno. Prossimo al baccalaureato e nonostante gli ottimi risultati, nel '27 deve interrompere gli studi per aiutare la famiglia. Impiegatosi come tipografo nel '29 entra in contatto con Fallot, un giovane studioso che gli fu amico e direttore spirituale. Costretto per lavoro a comporre libri e correggere bozze, legge moltissimo, in specie opere di teologia.

Nel 1837, dopo la fallimentare gestione di una tipografia scrive la sua prim a opera: Essai de grammaire générale appendice agli Eléments prim itifs des langues di Bergier. Questa appendice uscita anonima non ebbe alcuna riso­nanza. Più incoraggiante fu la menzione che il suo lavoro De la célébration du dimanche (1839) ebbe all’Accademia di Besançon per il concorso sulla « utilità della domenica, considerata dal punto di vista dell’igiene morale ».

Quest’opera sociale, piuttosto che religiosa, gli dà la consapevolezza di « aver passato il Rubicone ».

A Parigi (dall’autunno del 1838) resta fino alla fine del 1841 e cioè fino a quando gli viene tolta la borsa di Suard (vinta nel ’38) a causa del successo-scandalo suscitato dalla pubblicazione nel 1840 della memoria Qu'est-ce que la propriété? Questa prima memoria è seguita dalla secon­da Lettre a M. Blanqui sur la propriété... nel 1841 e dal­l ’avvertimento ai proprietari Avertissement aux proprié­taires, ou lettre a M. Considérant nel 1842. In seguito a queste pubblicazioni, Proudhon è tradotto davanti alla

Page 73: Berti, Proudhon

Corte di Doubs (sempre nel ’42), denunziato per attacco alia proprietà, oltraggio alla religione, incitazione all’odio per a governo e per diverse categorie di cittadini. Basata

propria difesa su argomentazioni filosofiche e scientifiche, iene assolto e pubblica il suo discorso di difesa nello stesso

anno. Indebitato, accetta un impiego nell’azienda di trasporti uviau dei fratelli Gauthier a Lione, con l’accordo di lavo-

s ire t ° tt° o nove mesi all’anno e di passare il resto del i fr f a Durante i cinque anni trascorsi presso

ri1 ^authier, Proudhon pubblica due opere impor- ttrim v e 1°- création de l'ordre dans Vhumanité (1843), suo reaVià te?}tativo ^ sistemazione generale del sapere e della

a e u Système des contradictions économiques (che ha P . sottotitolo: Philosophie de la misere [1846]). Nel feb- J ~ ° prende contatto a Parigi con la cerchia degli

normsti che fanno capo aH’editore Guillaumin, e in uiunno con Marx e Bakunin. Nel corso delle loro conver- w°ni' £he a volte si prolungano tu tta la notte, Proudhon Marx non simpatizzano. Nel maggio 1846 la ro ttu ra tra ™ ,e ? roudh°n è ormai definitiva a causa del rifiuto di

rivai • lmo. di diventare il rappresentante di un organismo zionario di propaganda intemazionale che Marx ten-

Lijp dl mettere in piedi. Nella Miseria della filosofia, pub- di P !lel come risposta alla Philosophie de la misère npiì r °c ’ Marx- dimenticando le parole di elogio avute Prn r \ u Cra del '45, lo attaccherà violentemente,j «“ ? ® annoterà, in margine a una pagina della sua copia Mary ^ ts.fr*a. della filosofia: « Il vero senso dell’opera di npnc ♦ rincrescimento che a ogni proposito io abbia Ao l i i - .c°me lui, e che io l’abbia detto prima di lui ». npr 171 del ’47> Proudhon abbandona il suo posto a Lione

~ aiventare giornalista a Parigi.^ °P° molti insuccessi, riesce verso la fine del '47, a fon-* 1111 Quotidiano: « Le Représentant du Peuple ». Dopo la n n ^ Ue-Str ’ cessa pubblicazioni, ma Proudhon riprende 111?:!? mii'a con 1111 nuovo giornale, « Le Peuple ». Alla rivo- dir“r?6 o d '48 e alle sue vicende Proudhon partecipa s amente difendendo, ad esempio, i ribelli perseguitati, tatn erìf, .contrario alla rivoluzione di giugno. Eletto depu- (j . . 1 Assemblea Nazionale, nelle elezioni complementari econo**1*.' cerca invano di adoperarsi per introdurre riforme

omiche. Il suo disegno di legge che m irava a confiscare cred f ran Parte patrimoni privati, a istituire banche di a Jr A 6 a forn.ire sussidi a contadini e operai viene respinto p r f t - l ynaSgi°ranza. Dominato dall’idea fissa del credito attn!» ° alla fine dell’anno fonda la « Banca del Popolo » per

are i principi della mutualità. Nel gennaio 1849, dopo

Cenni biografici

Page 74: Berti, Proudhon

Cenni biografici 81

l ’ennesimo attacco al principe-presidente Luigi Bonaparte, viene accusato di delitto di stampa, l’Assemblea Nazionale accorda l’autorizzazione di perseguirlo e il 28 marzo viene condannato a tre anni di prigione. Prevedendo la condanna, liquida la società della « Banca del Popolo » e ripara in Belgio per evitare la prigione. Rientrato illegalmente in Francia, viene riconosciuto, arrestato e incarcerato (dal giugno 1849 al giugno 1852) nella prigione di Saint Pélagie.È di questo periodo la pubblicazione de Les confessions d’un révolutionnaire. Nel '50 sposa nel carcere di Saint Pélagie, Eufrasia Pégard, operaia parigina che gli darà quattro figlie. Nel ’51, continuando il lavoro di scrittore in prigione, pubblica Idée générale de la révolution au XIX siècle e nel '52 La révolution sociale démontrée par le coup d'Etat du 2 décembre.

Quest’opera, come Les confessions e l'Idée contiene delle posizioni che hanno fatto pensare a un cedimento,o persino a deviazioni piccolo-borghesi; ma tu tt’al più si potrebbe ammettere che Proudhon appare un po’ disin­gannato. Si riprende comunque presto e nella Philosophie du progrès, ultim a opera scritta in prigione e pubblicata nel 1853, conta sulla energia rivoluzionaria delle masse operaie per rovesciare la corrente della reazione e far scoppiare la « feudalità industriale ». Questo ritorno al­l’ottimismo trova conferma nella prefazione alla terza edi­zione del Manuel du spéculateur à la Bourse (1857) intera­mente riveduto e firmato solo dopo l’aggiunta della sua polemica sociale. Nel corso dei cinque anni e mezzo che seguono la sua uscita di prigione, Proudhon non è perse­guitato; ma all’atto della pubblicazione nel ’58 della sua opera in quattro volumi, De la justice dans la révolution et dans VÉglise viene di nuovo inquisito, condannato a molti anni di prigione e alla confisca del libro.

Ripara in Belgio dove rimane anche dopo il 1860, anno in cui gli viene condonata la pena. Più tardi, nel ’62, in seguito all’ostilità dimostratagli dai belgi, che avevano interpretato il suo articolo « Garibaldi e l’unità italiana » come un’esortazio­ne a Napoleone III ad annettere il Belgio, decide di rientrare in patria. Qui riunisce in un volume dal titolo La fédération et l’unité en Italie i suoi scritti sul problema italiano, in cui espone i principi contro l’unitarismo politico ripresi in seguito (1863) nell’opera Du principe fédératif et de la nécessité de reconstituer le parti de la révolution. Quest’ope­ra che in apparenza è ima polemica, perché risponde agli attacchi della stampa, è tuttavia d’importanza fondamen­tale per cogliere bene il modo di concatenarsi del pensiero proudhoniano. « Tutte le mie concezioni politiche si ridu­

Page 75: Berti, Proudhon

cono ad una formula simile: federazione politica o decen­tralizzazione ». La proprietà, purgata dai Suoi abusi attra­verso « la liquidazione » del regime capitalistico, diventerà anch’essa una proprietà federativa. Si tra tta di ima pro­prietà molto ristretta, che dipende da equilibri molto complessi realizzati tra i coproprietari; costoro sono con­temporaneamente la federazione industriale-agricola tutta intera, ogni ramo deH’industria, ogni regione, ogni gruppo di produttori ed ogni lavoratore preso individualmente. Proudhon l’analizza dettagliatamente in un’opera scritta probabilmente come secondo volume del Du principe feae- ratif, m a pubblicata nel 1866, dopo la sua morte, con il titolo Théorie de la propriété. . .

Nel ’64 scrive la Lettre aux ouvriers e inizia la redazione di De la capacité politique des classes ouvrières, un libro (si può considerare come il suo testam ento di pensatore e di militante) destinato a diventare il « catechismo * del movimento operaio francese, l'opera più le tta negli ambien­ti operai. Un gruppo di operai aveva deciso di presentare proprie candidature per le elezioni supplementari del 1864, e aveva pubblicato un manifesto, « il manifesto dei sessan­ta »; nella « Opinion Nationale » del 17 febbraio avendo preso posizione per l’astensione Proudhon giudicò severa­mente il fatto: non solo a causa della opposizione radi­cale allTmpero, m a perché riteneva che in regime capitalista, il proletariato non dovesse occuparsi che della propria orga­nizzazione al fine di preparare la rivoluzione sociale. Questo separatismo assoluto sarà l’inizio della fine per la borghe­sia il cui ruolo storico è virtualmente compiuto. Proudhon è dunque rimasto rivoluzionario fino all’ultimo respiro; sotto molti aspetti più di Marx, al quale, d'altronde, si avvicina singolarmente nella sua ultima opera.

Muore a Passy nel ’65 dove si era stabilito al ritorno dal Belgio il 19 gennaio.

82 Cenni biografici

Page 76: Berti, Proudhon

NOTA BIBLIOG RAFICA

I - OPERE DI PROUDHON

a) Votumi e opuscoli pubblicati in vita

Essai de grammaire générale (in appendice a Bergier, Eléments primitifs des langues), Lambert, Besançon 1837.

De la célébration du dimanche, Tipografia Proudhon, presso Bintot, Besan­çon 1839.

Qu'est-ce que la propriété? ou recherche sur le principe du droit et du gouvernement (Premier mémoire), Prévôt, Paris 1840.

Lettre à Ai. Blanqui sur la propriété (Deuxième mémoire). Prévôt, Pa­ris 1841.

Avertissement aux propriétaires, ou lettre à M. Considérant sur une défense de la propriété (Troisième mémoire). Prévôt, Paris 1842.

Explications présentées au Ministère Public sur le droit de propriété, Tipo­grafia Proudhon, Besançon 1842.

De la création de l'ordre dans l'humanité, ou principes d ’organisation poli­tique, Prévôt, Paris 1843.

La Miserere ou la pénitence d'un Roi, lettre au R. P. Lacordaire sur son Carême de 1845, in « Revue indépendante », 25 marzo 1845.

De la concurrence entre les chemins de fer et les voies navigables, Guillau- min, Paris 1845.

Système des contradictions économiques, ou philosophie de la misère, 2 voll., Guillaumin, Paris 1846.

Organisation du crédit et de la circulation, et solution du problème social sans impôt, sans imprunt, Guillaumin, Paris 1848.

Proposition relative à l'impôt sur le revenu présentée par le citoyen Prou­dhon, suivie du discours qu'il a prononcé à l'Assemblée Nationale, Gar- nier, Paris 1848.

Le droit au travail, et le droit à la propriété, Vasbenter, Paris 1848.Résumé de la Question sociale, Banque d'échange, Gamier, Paris 1848.Banque du Peuple, Documents, Gamier, Paris 1849.Idées révolutionnaires: les Malthusiens, programme révolutionnaire. Le ter­

me, toast à la révolution, ecc., Gamier, Paris 1849.Les confessions d'un révolutionnaire, pour servir à l'histoire de la révolu­

tion de février, in « La Voix du Peuple », Paris 1849.Intérêt et principal, discussion entre M. Proudhon et M. Bastiat sur l'inté­

rêt des capitaux, Gamier, Paris 1850.Gratuité du crédit, discussion entre M. Bastiat et M. Proudhon, Guillaumin,

Paris 1850.Idée générale de la révolution au X IX siècle, Garnier, Paris 1851.

Page 77: Berti, Proudhon

84 Nota bibliografica

La révolution sociale démontrée par le coup d'Etat du 2 décembre, Gar- nier, Paris 1852.

Philosophie du progrès, Lebègue, Bruxelles 1853.Des réformes à opérer dans l'exploitation des chamins de fer, Garnier, Pa­

ris 1855.Manuel du spéculateur à la Bourse, terza edizione firmata da Proudhon,

Garnier, Paris 1857.De la justice dans la révolution et dans iÉglise, nouveaux principes de phi­

losophie pratique adressés à son Eminence Monseigneur Matthieu, 3 voll., Garnier, Paris 1858.

La justice poursuivie par l'Êglise, « Office de Publicité », Bruxelles 1858.La guerre et la paix, recherches sur le principe et la constitution du droit

des gens, 2 voll., Dentu, Paris 1861.Théorie de l'impôt, Dentu, Paris 1861.Les majoritats littéraires, examen d'un projet de toi ayant pour but de créer

au profit des auteurs, interveneurs et artistes un monopole perpétuel, € Office de Publicité », Bruxelles 1862.

La fédération et l'unité en Italie, Dentu, Paris 1862.Du principe fédératif et de la nécessité de reconstituer le parti de la révo­

lution, Dentu, Paris 1863.Les démocrates assermentés et les réfractaires, Dentu, Paris 1863.Si les Traités de 1815 ont cessé d'exister, actes du fu tur Congrès, Dentu,

Paris 1863.

b) Pubblicazioni postume

Nouvelles observations sur l'unité italienne, Dentu, Paris 1865.De la capacité politique des classes ouvrières, Dentu, Paris 1865.Du principe de l'art, et de sa destination sociale, Legèvre, Paris 1865.Théorie de la propriété, projet d'exposition perpétuelle, Lacroix, Paris 1865La Bible annotée (Nouveau Testament), 2 voll., Lacroix, Paris 1866.France et Rhin, Librairie Internationale, Paris 1867.Contradictions politiques: théorie du mouvement constitutionnel au XIX

siècle, Librairie Internationale, Paris 1870.La pornocratie, ou les femmes dans les temps modernes. Librairie Interna­

tionale, Paris 1875.Césarisme et christianisme, Marpon et Flammarion, Paris 1883.Jésus et les origines du christianisme, Havard fils, Paris 1896.Napoléon I , Montgrédien, Paris 1898.Commentaires sur les Mémoires de Fouché, Parallèle entre Napoléon et

Wellington, Ollendorf, Paris 1900.Napoléon I I I , Ollendorf, Paris 1900.

c) Articoli di giornale

Gli articoli apparsi dal 1847 al 1850 su « Le Répresentant du Peuple », « La Voix du Peuple », « Le Peuple » sono stati in parte raccolti in tre volumi dal titolo Mélanges (XVII, XVIII, XIX) della prima edizione delle Opere complete, e successivamente in appendice a diversi volumi della seconda edizione delle Opere complete.

Page 78: Berti, Proudhon

Nota bibliografica 85

d) Diario e corrispondenza

Carnets de P.-J. Proudhon, vol. I , Rivière, Paris 1860.Carnets de P.-J. Proudhon, vol. I I , Rivière, Paris 1961 (il II I e il IV volu­

me sono in preparazione).Correspondance de P. J. Proudhon, a cura di Lacroix, 14 voli.. Librairie Inter­

nationale, 1874-1875 (incompleta).Lettres à Chaudey et à divers Comtois, a cura di E. Droz, Dodivers, Besan­

çon 1911.Lettres au citoyen Rolland, a cura di J. Bompard, Grasset, 1946.

e) Opere complete

Oeuvres complètes, 26 voli., Librairie Internationale, Paris 1867-1870 (incorri' plete).

Oeuvres complètes, sotto la direzione di Bouglé e Moysset, Rivière, Pa­ris, a partire dal 1920.

II - LE TRADUZIONI ITALIANE

Teoria dell'imposta, in Biblioteca dell'economista, Torino 1868.Sistema delle contraddizioni economiche, o filosofia della miseria, in Biblio­

teca dell'economista, Torino 1882.Che cos'è la proprietà, Firenze 1903.La celebrazione della domenica considerata in rapporto all'igiene pubblica,

alla morale, alle relazioni di -famiglia e di società, Firenze 1904.Psicologia della rivoluzione, Firenze 1904.La proprietà (incompleta), Roma s.d.Scritti sulla rivoluzione italiana (estratti), a cura di Agostino Lanzillo, Lan­

ciano 1914.La guerra e la pace, estratti a cura di P. Jaher, Lanciano 1920.La capacità politica delle classi operaie (incompleta), a cura di Giulio Pie-

rangeli. Città di Castello 1921.La filosofia della miseria (incompleta), a cura di Franco Valori, Roma 1945.La proprietà, Roma [1947].Che cos'è la proprietà? La proprietà è un furto (incompleta), a cura di Va­

lentino Marafini, Roma 1947.La questione sociale, antologia a cura di Mario Bonfadini, Milano 1957.Che cos’è la proprietà? o ricerche sul principio del diritto e del governo,

a cura di Umberto Cerroni, Bari 1967. _ .La giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa, a cura di Mano Albertim, To­

rino 1968. . .Sistema delle contraddizioni economiche, o filosofia della miseria, Cata­

nia 1975.Della capacità politica delle classi operaie (estratti), in P. Ansart, P. J. Prou-

dhon, Milano 1978.Idea generale della rivoluzione nel X IX secolo (estratti), in P. Ansart,

P. J. Proudhon, Milano 1978.

Page 79: Berti, Proudhon

86 Nota bibliografica

Resistenza alla rivoluzione. Louis Blatte e Pierre Leroux (estratti), in P. An- sart, P. J. Proudhon, Milano 1978.

Del principio federativo, Roma 1979.La pomocrazia o le donne nei tempi moderni, Bari 1979.

I l i - LA CRITICA

a) La vita

C.-A. Sainte-Beuve, P.-J. Proudhon, sa vie et sa correspondance, Paris 1872 (riedita da D. Halevy, Paris 1948).

J.-A. Langlois, Notice sur P.-J. Proudhon, in Correspondance de P.J. Prou­dhon, I, Paris 1875.

A. Desjardins, P. J. Proudhon, sa vie, ses oeuvres, ses doctrines, 2 voli., Paris 1896.

E. Droz, P. J. Proudhon, Paris 1909.D. Halevy, La jeunesse de Proudhon, Paris 1913.Id., Proudhon d'après ses carnets inédits, Paris 1944.E. Dolleans, Proudhon, Paris 1948.D. Halevy, Vie de Proudhon, I, Paris 1948.Id., Le mariage de Proudhon (Vie de Proudhon, II), Paris 1955.G. Woodcook, P. J. Proudhon, a Biography, New York 1956.

b) Il pensiero

1. LIBRI

K. Grün, Die Sociale Bewegung in Frankreich und Belgien, Darmstadt 1845. K. Marx, Die heilige Familie, Francoforte 1845.Id., Misère de la philosophie, réponse à lu Philosophie de la misère de

M. Proudhon, Paris 1847.Mattabon, La propriété est-elle le vol?, Paris 1848.Thiers, De la propriété, Paris 1848.J. Tissot, Examen de ta théorie de M. Proudhon sur la propriété, Pa­

ris 1849.F. Marchai, P. J. Proudhon et P: Leroux: révélations édifiantes, Paris 1850. J. Vran, Proudhon et son système économique, Paris 1853.Colin, Proudhon et son ouvrage de ta justice, Paris 1858.E. De Mirecourt, Biographie de Proudhon, Paris 1858.G. Boniface, La Belgique calomniée, réponse a M. Proudhon, Bruxelles 1862.A. Laporte, Napoléon III, M. Proudhon, l'Italie et la Belgique, Liège 1862.G. Lubanski, La vérité sur les lettres de Proudhon, Torino 1862.B. Gastineau, Le socialiste P. Ji Proudhon, sa vie, ses oeuvres, Paris 1865. Ravaisson, Philosophie en France au X IX siècle, Paris 1867.Henard, De l'injustice dans la révolution et de l'ordre dans ¡'Église, Pa­

ris 1868.A. Spoil, Proudhon, sa vie, Paris 1868.Beslay, Mes souvenirs, Paris 1873,

Page 80: Berti, Proudhon

N ota bibliografica 87

Darimon, A travers une révolution, Paris 1884.K. Diehl, P. J. Proudhon, seine Lelire und seine Leben, 3 voll., Jena 188&-

1890-1896.Borgiun, Les rapports entre Proudhon et Karl Marx, Lille 1892.L. Rosenthal, Les destinées de l'art social d'après Proudhon, Paris 1894.C. A. Danq, Proudhon and his Bank of People, New York 1896.Renouvier, Philosophie analitique de l'histoire, Paris 1896.Meriino, Abrégé des oeuvres de Proudhon, Paris 1897.A. Muhlberger, P. J. Proudhon. Leben und Werk, Stuttgart 1899.E. Faguet, Proudhon, in Politiques et moralistes du X IX siècle, terza serie,

Paris 1900.H. Bourgin, Proudhon, Paris 1901.M. Bernes, La morale di Proudhon, in Études sur la philosophie morale

au X IX siècle, Alcan 1904.Foumière, Les théories socialistes au X IX siècle de Babeuf à Proudhon,

Paris 1904.Guétary, Un grand méconnu, Paris 1905.C. Sabatier, Socialisme libérale ou moercellisme, Paris 1905.J. L. Puech, Le proudhonisme dans l'association internationale des travail­

leurs, Paris 1907.E. Zoccoli, L'anarchia. Gli agitatori, le idee, i fatti, Milano 1907.Harmel, Proudhon, Paris 1909.A. Berthod, Proudhon et la propriété. Un socialisme pour le paysan, Pa­

ris 1910.G. Pirou, Proudhon et syndacalisme révolutionnaire, Paris 1910.C. Bouglé, La sociologie de Proudhon, Paris 1911.A. G. Boulen, Les idées solidaristes de Proudhon, Paris 1912.G. De Rostu, Proudhon et les socialistes de son temps, Paris 1913.Dimier, Les maîtres de la contre-révolution, Paris 1917.C. Bouglé, Chez les prophètes socialistes, Paris 1918.J. M. Steklov, Proudhon, otets anarchii, Patersbury 1918.G. Guy-Grand e altri, Proudhon et notre temps, Paris 1920.J. L. Puech, La tradition socialiste en France et la Société des Nations,

Paris 1921.S. Y. Lu, The political theorie of P. J. Proudhon, New York 1922.R. Elzbacher, L'anarchisme, Paris 1923.Bourgeois, Proudhon, le fédéralisme et la paix, Paris 1926.Id., Les théories du droit international chez Proudhon, Paris 1926.G. Sorel, Exégèses proudhoniennes, in Matériaux d'une théorie du pro­

létariat, Paris 1926.R. Labey, Herzen et Proudhon, Paris 1928.Bourgeois, Les théories du droit international chez Proudhon, Paris 1929. J. Duprat, Proudhon sociologue et moraliste, Paris 1929.G. Gurvitch, L'idée du droit social, Paris 1929.M. Raphael, Proudhon, Marx, Picasso, Paris 1933.Bourgeau, Proudhon et la critique de la démocratie, Strasbourg 1933.J. Chabrier, L'idée de la révolution d'après Proudhon, Paris 1935.G. Santonastaso, Proudhon, Bari 1935.Chen Kui-Si, La dialectique dans l’oeuvre de Proudhon, Paris 1936.A. Cuvillier, Proudhon, Paris 1937.Id., Marx et Proudhon, in À la lumière du marxisme, Paris 1937.J.-G. Lossier, Le rôle social de l'art selon Proudhon, Paris 1937.J. Bourgeat, Proudhon, père du socialisme français, Paris 1943.

Page 81: Berti, Proudhon

88 Nota bibliografica

M. Amoudruz, Proudhon et l'Europe, Paris 1945.H. De Lubac, Proudhon et le christianisme, Paris 1945.A. Marc, Proudhon, Paris 1945.L. Maury, La pensée vivante de Proudhon, 2 voli., Paris 1945.G. Guy-Grand, Pour connaître la pensée de Proudhon, Paris 1947.P. Haubtmann, Marx et Proudhon, Liège 1947.Dolleans - Puech, Proudhon et la révolution de 1848, Paris 1948.H. De Lubac, The Vnmarxian Socialist. A Study of Proudhon, London 1948. M. Dommanget, Proudhon, Paris 1950.P. Lajugie, Proudhon, Paris 1953.E. Thier, Marx und Proudhon, Tiibingen 1954.G. Gurvitch, Les fondateurs français de la sociologie contemporaine: Saint-

Simon et Proudhon, Paris 1955.G. Gurvitch, Proudhon sociologue (corsi ciclostilati), Paris 1955.J.-J. Chevalier, Le fédéralisme de Proudhon et ses disciples, in Le fédéra­

lisme, a cura di G. Berger, Paris 1956.P. Heintz, Die Autoritdtsproblematik bei Proudhon, Holn 1956.G. Guy-Grand, Pour connaître la pensée de Proudhon, Paris 1957.G. Cogniot, Proudhon et la démagogie bonapartiste, Paris 1958.V. De Sa', A. Viana e Proudhon, Lisbona 1960.F. Ferrarotti, Storia delta Sociologia, in Storia delle Scienze, vol. I l l , a

cura di N. Abbagnano, Torino 1962.J. H. Jackson, Marx, Proudhon and European Socialism, New York 1962.G. Gurvitch, Proudhon et Marx, une confrontation (corsi ciclostilati), Pa­

ris 1964.M. Nettlau, Breve storia dell'anarchismo, Cesena 1964.G. Gurvitch, Proudhon, Paris 1965.AA* W -, Actualité de Proudhon, Bruxelles 1965.S. Rota Ghibaudi, Proudhon e Rousseau, Milano 1965.P . Guiral, Proudhon et la Révolution française, in La pensée socialiste

devant à ta Révolution française, Paris 1966.G. Woodcook, L'anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, Mi­

lano 1966.AA- VV., L'actualité de Proudhon, Bruxelles 1967.P. King, Fear of Power. An Analysis of Anti-statism in three French Writers,

London 1967.G. D. H. Cole, Storia del pensiero socialista, Bari 1967-1968, vol. I.D. Guerin, L'anarchismo dalla dottrina all'azione, Roma 1969.A. R itter, The Political Thought of P. J. Proudhon, Princeton 1969.P. Ansart, Marx e l'anarchismo, Bologna 1969.A. Zanfarino, Ordine sociale e libertà in Proudhon, Napoli 1969.P. Haubtm ann, P. J. Proudhon. Genèse d'un antithéiste, Maison Marne, Pa­

r is 1969.J. Jo li, Gli anarchici, Milano 1970.P. A nsart, Naissance de l'artarchisme. Esquisse d'une explication du prou-

dhonisme, Paris 1970.J. B ancal, Proudhon. Pluralisme et autogestion, Paris 1970.E. Sciacca, L ’attualità di Proudhon, in Anarchici e anarchia nel mondo

contemporaneo, Torino 1971.P. A nsart, La sociologia di Proudhon, Milano 1972.G. D upra t, Marx, Proudhon: théorie du conflit social, Paris 1973.H. Arvon, L ’anarchismo, Messina-Firenze 1973.B. Voyenne, Le fédéralisme de P. J. Proudhon, Paris 1973.

Page 82: Berti, Proudhon

N ota bibliografica 89

G. Gurvitch, Proudhon, Napoli 1974.M. Albertini, Proudhon, Firenze 1974.E. Campelli, Classe e coscienza di classe in Proudhon, Ivrea 1974.R. Allio, Le contraddizioni economiche di Proudhon nella critica di Marx,

Bologna 1978.P. Ansart, P. J. Proudhon, Milano 1978.J. Langlois, Attualità di Proudhon, Milano 1980.

2. RIVISTE

Bastiat, Justice et fraternité, in « Journal des Economistes », 15 giugno 1848,K. Marx, Vber P. J. Proudhon, in « Social-Demokrat », 16-17-18 gennaio 1865.F. Tissot, Proudhon, in « Revue littéraire », Besançon, marzo 1865.Pelletan, Proudhon et ses Oeuvres complètes, in « Revue des Deux Mondes »,

15 gennaio 1866.G. Ferrari, P. J. Proudhon, in « Nuova Antologia di lettere scienze e arti »,

X, XXVIII, IV, aprile 1875.G. Sorel, Essai sur la philosophie de Proudhon, in « Revue philosophique »,

1892.Bourgin, Marx et Proudhon, in « Revue d ’économie politique », marzo 1893.L. Rosenthal, Les destinées de l'art social d ’après Proudhon, in « Revue

int. de sociologie », 1894.E. Bernstein, Proudhon, in « Neue Zeit », 1896.Le Roy Beaulieu, Proudhon d'après un livre récent, in « Journal des E co

nomistes », 7 marzo 1896.Darlu, La solidarité, in « Revue de morale et de métaphysique », 1897.Héligou, La critique du droit de propriété d'après Proudhon, in « Revue

psychologique », 1907.Berthod, L'attitude sociale de Proudhon, in « Bulletin de la Société d'histoi­

re de la Révolution de 1848 », gennaio-febbraio 1909.Id., Les tendances maîtresses de Proudhon, in « Revue socialiste », feb­

braio-marzo 1909.L. Febvre, Une question d'influence: Proudhon et le syndacalisme con­

temporain, in c Revue de synthèse historique », XIX, 1909.M. Loir, Le père de l'anarchie?, in « Annales des sciences politiques », set­

tembre 1909.Bouglé, La méthode de Proudhon dans les premières mémoires sur la

propriété, in « Revue d ’économie politique », ottobre 1910.Clément, Proudhon et ses doctrines sur la propriété, in « Réforme socia­

le », novembre 1910.Halévy, Bible proudhonienne, in « L'indépendance », luglio 1911.Turgeon, Essai sur la conception de l'histoire et du progrès d'après Prou­

dhon, in « Revue d'économie politique », 1915.Duprat, Prévision sociologique et structures sociales, in * Archives de So­

ciologie », Genève 1933.J. Salwyn Schapiro, P. J. Proudhon, Harbinger of fascism, in « The Ame­

rican Historical Review », 1945.H. Arvon, Proudhon et le radicalisme allemand, in « Annales », Paris 1951.B. Brunello, Ferrari e Proudhon, in « Rivista intemazionale di filosofia del

diritto », 1951.F. Della Peruta, Lettere di Giuseppe Ferrari a Pierre Joseph Proudhon, 1854-

1861, in « Annali Feltrinelli », vol. IV, Milano 1961.

Page 83: Berti, Proudhon

90 Nota bibliografica

Id., Un capitolo di storia del socialismo risorgimentale: Proudhon e Fer­rari, in « Studi storici », 1962.

J.-J. Chevalier, Le denier mot de Pierre Joseph Proudhon, in « l a revue de deux monde », Paris, 1 marzo 1965.

A. Marc, Vers la dialectique ouverte, in « Europe en formation », 62, 1965.B. Voyenne, Le fédéralisme de Proudhon, in « Europe en formation »,

62, 1965.A. Noland, Proudhon and Rousseau, in « Journal of the History of Ideas »,

XXVII, 1967.A. Ritter, Proudhon and the problem of Community, in « The Review of

Politics», XX, 1967.S. Rota Ghibaudi, Ferrari e Proudhon, in « Il pensiero politico», anno I,

1968.W. Harbold, Progressive Humanity in the Philosophy of P. J: Proudhon, in

« The Review of Politics », XXXI, 1969.M. Mervaud, Herzen et Proudhon, in « Cahier du monde russe et sovie-

tique », vol. XII, fase. 1-2, gennaio-giugno 1971.S. Rota Ghibaudi, Recenti interpretazioni di Proudhon, in « Il pensiero

politico », anno IV, n. 1, 1971.

Page 84: Berti, Proudhon

TESTI

Page 85: Berti, Proudhon

I. DIALETTICA SERIALE

I fondamenti filosofici del pluralismo

171. La serie è la condizione suprema della scienza, come della stessa creazione. Se è cosi, ciò che secondo Leibniz è chiamato legge di continuità è un errore almeno nell’espressione. L’idea di continuità è una concezione della nostra ragione analoga a quella di sostanza e di causa, cioè senza ima realtà percettibile. La coesione dei corpi e la successione dei fenomeni ci dà l’idea di continuità: ma nei fatti questa continuità non esiste affatto. La continuità è un’idea vera, la cui verità, però, è anteriore alla differen­ziazione degli esseri, vale a dire per noi, alla loro creazione. Quest’idea è legittima, poiché l’ipotesi che esprime è pro­dotta in conformità alle leggi della nostra ragione ed essa ci è suggerita dall’osservazione stessa della serie.

Quando dunque Leibniz ha detto che la natura non fa nulla bruscamente, che non procede per salti, m a si muove in maniera progressiva, e ha chiamato questa legge legge di continuità, vuol dire che egli ha parlato di un progresso graduale, di una serie tanto serrata, tanto frequente finché si vuole, m a non di un progresso continuo inteso come continuità progressiva.

Le idee di continuità e di progressione sembrano anche escludersi: chi dice progresso dice necessariamente succes­sione, crescita, passaggio, addizione, moltiplicazione, diffe­renza, infine serie; ne viene che l’espressione movimento continuo non è a ltro che una metafora. [...].

174. Osservazioni sulla serieQuesti sono i fatti che, nella natura, ci rivelano la

presenza di ima legge generale, cosi varia nelle sue appli­cazioni come le stesse essenze, o, per meglio dire, sono causa, attraverso le innumerevoli determinazioni della so­stanza, di tu tte le essenze; legge che noi possiamo pro­clamare e incidere sul tempo della verità: questa è in­fine la legge seriale.

Page 86: Berti, Proudhon

94 Testi

189. Ne traiamo una prima conseguenza: la nostra scien­za non ha bisogno, per essere assoluta, di diventare uni­versale.

Infatti, a seguito di ciò che abbiamo esposto preceden­temente, la conoscenza è tanto più profonda quanto più si eleva ad un più alto grado nelle proprietà di ima serie e nelle determinazioni di un punto di vista; è tanto più vasta o comprensiva, quanto più numerosi sono gli aspetti che abbraccia. Ma ciò che costituisce l’assoluto della cono­scenza è la proprietà e la regolarità della serie.

190. Poiché ogni serie racchiude in se stessa il suo prin­cipio, la sua legge, la sua certezza, ne consegue che le serie sono indipendenti e che la conoscenza dell’una non suppone né racchiude la conoscenza dell’altra.

Lì.Prendiamo quindi per certo che le serie di ordini diversi

sono indipendenti, che le une non spiegano le altre, e che in ogni scienza bisogna, senza precludersi altre conoscenze, cercare la propria serie, Vin sé e per sé della cosa che si studia.

191. Avendo riconosciuta l’indipendenza delle sfere se­riali, una linea di demarcazione insuperabile separa le scienze e quindi l’idea di una scienza universale è per noi una contraddizione. Infatti, immaginando tutte le scienze conosciute o future, portate al loro punto massimo di perfezione e riunite in un solo uomo, ne risulterebbe per questi l'universalità delle conoscenze ma non una scienza universale. Perché possa esistere una scienza universale, bisognerebbe che le scienze particolari si concatenassero le une alle altre in modo da formare una serie dimostra­bile con un unico principio e suscettibile di essere, nella sua immensa capacità, intellegibilmente analizzata da una stessa legge e ricondotta agli stessi elementi. Bisognerebbe che partendo da una qualsiasi scienza si potesse, anche senza sapere niente delle altre, arrivare a queste per una specie di a priori, capace di portare ad un’integrazione universale.

Ora, il più semplice colpo d ’occhio dato alle scienze già costituite e classificate dimostra che è impossibile.

Se si fosse in grado di costituire una sintesi generale delle scienze, questa non sarebbe certo data dall’identità degli ultim i teoremi, poiché più le scienze progrediscono più si distanziano, ma sarebbe invece data dalla comunanza dei loro oggetti e dall’equivalenza delle loro serie. Ma le scienze si diversificano essenzialmente sia nel loro oggetto sia nella classificazione della loro serie: una scienza uni­versale è quindi impossibile.

Page 87: Berti, Proudhon

Dialettica seriale 95

192. Tuttavia [...] le scienze fanno sorgere un problema filosofico; come m ai dunque la m etafisica1 non è la sintesi delle scienze, la scienza universale?

Bisogna a questo punto stare in guardia. Ciò che nelle scienze produce la diversità della serie è la diversità del­l ’oggetto: ora, anche se si può, attraverso l’astrazione di ogni oggetto, raggiungere una teoria generale di astrazione, le diverse forme di serie non si spiegano le ime con le altre, e non c’è quindi una scienza universale perché non c ’è un oggetto universale.

194. Da tutte queste considerazioni risulta che la meta­fisica, o teoria della legge seriale, non è affatto scienza, ma metodo; non metodo speciale e oggettivo, ma metodo sommario e ideale; che questa teoria non pregiudica e non esclude nulla, anzi accoglie tutti i fatti e non ha paura di essere smentita da nessuno: che essa non pretende affatto di dare essa stessa la conoscenza, e non anticipa sull’osser­vazione: essa è ben diversa in ciò dai pretesi sistemi uni­versali, basati sull’attrazione, l’espansione, la casualità, la deificazione e su altri sistemi ontologici, momenti di pigrizia e di impotenza.

Una dialettica seriale è impossibile? Progressi compiu­ti in questa direzione

195. Gli esseri organici e inorganici ci appaiono per mezzo di forme, di combinazioni, di proprietà seriali; le loro di­mensioni, i loro movimenti, la loro azione reciproca per mezzo delle serie si rivelano a noi attraverso il criterio della molteplicità di una qualsiasi serie. La conoscenza di tutto questo costituisce la parte migliore della nostra ric­chezza intellettuale; aggiungiamo anche che già la nostra ragione si è modellata sulla forma degli oggetti e solamente questo modo di procedere risulta pertinente rispetto alle scienze naturali e matematiche perché coordina il suo lin­guaggio e le sue idee con l’oggetto stesso di cui parla.

197. Poiché è scarsamente ipotizzabile che l’uomo abbia portato cosi alto lo sviluppo delle scienze, delle arti, del* l'industria, senza una qualsiasi intuizione sulla legge seriale; poiché nel movimento di civilizzazione non si vede una rivo­luzione improvvisa, una conoscenza acquisita senza prepa­razione e senza precedenti: cerchiamo dunque se attraverso il movimento filosofico non vi sia uno sforzo spontaneo

Page 88: Berti, Proudhon

96 Testi

e un tentativo costante di classificazione delle idee, di serie dialettica.

283. La sintesi non distrugge realmente, m a formalmente, la tesi e l’antitesi: cosi nell’esempio precedente, gli oggetti della fede non sono negati, ma spiegati; la ricerca filosofica non è soppressa, ma diretta dal metodo. Il metodo, in poche parole, abolisce la religione e la filosofia, non nel contenuto, ma nella forma.

La sintesi non è il punto di mezzo: si crede, o si nega; si ragiona o ci si astiene; si sa, o si ignora. In religione e in filosofia, giusto centro, è un tradimento: nella scienza un’assurdità.

La sintesi non è nemmeno un eclettismo: essa non sal­da la metà di un’idea all’altra metà: essa è la risoluzione completa e la combinazione intima della tesi e dell’antitesi.

Cosi, quando ho sostenuto che la pura proprietà e la pura comunità erano due principi semplici e antitetici, incapaci, l’uno e l’altro, di servire da base all’organizzazione sociale e ad una scienza del diritto, e che bisognava cercare nella loro sintesi il principio superiore della società, i critici mi potevano dire: Esponga questa sintesi; e non accusarmi invece come han fatto, di spingere alla espropria­zione generalizzata della proprietà, poiché con la m ia dialet­tica avrei reso la sintesi impossibile; cosi non sarebbe stato necessario che essi gridassero che fuori della proprietà e della comunità non c’era più nulla, poiché era solo que­stione di unirle sinteticamente.

[...].285. Ciò che dà la form a alla serie semplice è il rapporto,

tanto d'uguaglianza, tanto di progressione, tanto di poten­za, ecc., che riunisce i membri della serie; ciò che dà la forma alla serie composta, è, inoltre, la pluralità e la dispo­sizione dei punti di vista. Ciò si osserva nella più ristretta delle serie composte. In effetti, due cose sono da conside­rare nel numero, l’unità e la pluralità: riunendo nel pensiero questi due punti di vista di grandezza misurabile, avrete l’idea complessa di totalità, la quale non è l ’unità che esclu­de la pluralità, né la pluralità che esclude l’unità, m a simul­taneam ente l’una e l’altra. In questa serie il punto di vista è duplice e presenta anche un’opposizione. [...].

299. Vantaggi d i una dialettica seriale, tendenza degli sp iriti a lla serie.

Riassumiamo brevemente i fatti esposti nei paragrafi precedenti.

La natura è infinita nella varietà del suo operato. Questa fecondità della potenza creatrice, sempre nuova e sempre im prevista, sem pre lussureggiante e sempre piena di armo­

Page 89: Berti, Proudhon

Dialettica seriale 97

nia, è stata per l'uomo, fin dal principio, fonte permanente di ispirazione e di entusiasmo, e allo stesso tempo motivo inesauribile di congetture. Alla vista di queste stupefacenti meraviglie, il pensiero umano, confuso, si è rifugiato in seno all’Essere eterno, principio di vita e ordinatore dei mondi: e da questa contemplazione prim itiva nacquero in> numerevoli religioni, tanto varie nelle loro forme quanto nelle manifestazioni del Dio che esse celebrano. [...].

Ma, fra queste infinite varietà di continuazioni e di forme, la ragione non poteva languire in estasi eterna, né perdersi in continui errori: il meccanismo che moltiplica attorno a noi le circonvoluzioni del labirinto è al tempo stesso il filo conduttore e la chiave che ci aiuta a scoprire i ritorni. E come, per scrivere e calcolare i più infiniti numeri ci è bastata una semplice combinazione di segni, lo stesso, per riconoscerci in questo oceano di figure e di tipi, ci occorre una legge sovrana: la SERIE.

300. Questa legge [...] dà forma al nostro pensiero, indi­rizza i nostri giudizi e costituisce la scienza: essa può essere definita l’intuizione sintetica nella diversità, la tota­lità nella divisione.

La legge seriale esclude ogni idea di sostanza e di causa anche se ne riconosce la realtà oggettiva: essa indica un rapporto di uguaglianza, di progressione o di sim ilitudin e ; non di influenza o di continuità.

Da qualsiasi parte si consideri la natura, essa presenta una seriazione; ora, dato che le cose si mostrano ai nostri occhi con tanti punti di vista diversi quante sono le serie, siamo costretti per riconoscerci ad adottarne imo, senza tuttavia escludere gli altri; anzi dobbiamo metterli a con­fronto [...] *.

* Da P.-J. Proudhon, De la création d e l'ordre dans l'hum anité ou prin cipes d ’organisation politic/ue, Introdu­zione e Note di C. Bouglé e A. Cuviller, Librairie M. Rivière, Paris 1927, pp. 139-234. (La traduzione dal francese è di Giovanna Brocchi Colonna).

Page 90: Berti, Proudhon

II. CRITICA DELL’ASSOLUTO

I fondamenti filosofici de! pluralismo

Ciò che domina tutti i miei studi è (l’idea di) progresso. Essa ne costituisce il principio e la fine, la cima e la base, in una parola la ragione. È questa idea che dà la chiave a ogni m ia controversia, ad ogni mia disquisizione [...] è ciò che infine costituisce la m ia originalità, se posso attribuir­mene una, come pensatore; è ciò che affermo risolutamente, irrevocabilmente in tutto e dappertutto e con altrettanta risoluzione nego invece in tutto e dappertutto l'assoluto.

Tutto quello che ho scritto, negato, attaccato, combat­tu to , io l’ho scritto, negato, affermato in nome di un’unica idea: il progresso. I miei numerosi avversari sono partigiani dell’assoluto, in omni genere, casu et numero, come diceva Sganarelle.

Che cosa è dunque il progresso? Da un secolo tutti ne parlano senza che il progresso come dottrina abbia avan­zato di un passo [...] la sua teoria è ancora al punto in cui l’h a lasciata Lessing. Tutti ripudiano e detestano l’assoluto, nessuno ne vuole più sapere.

Il progresso, nel senso più puro della parola [...] è il movimento dell’idea, processus; movimento innato, spon­taneo, essenziale, incoercibile, indistruttibile [...] e si mani­fe s ta principalmente nel cammino delle società, nella storia. Ne segue che essendo il movimento l’essenza dello spirito, la verità, sia nella natura che nella civilizzazione, è essen­zialm ente storica, soggetta a progressioni, conversioni, evo­luzioni e metamorfosi. Di fisso e di eterno non vi sono che le leggi stesse del movimento [...].

La maggioranza dei sapienti come degli ignoranti in­tende il progresso in un senso utilitario e materiale. Quan­t i tà di scoperte, moltiplicazione delle macchine, crescita del benessere generale, sviluppo completo o maggiore dell'in­segnam ento e miglioramento dei metodi, in poche parole aum ento della ricchezza materiale e morale, e partecipa­zione di un numero di uomini sempre più grande al godi­

Page 91: Berti, Proudhon

Critica dell'assoluto 99

mento della fortuna e dello spirito: tale è, grosso modo, per loro, il progresso.

Certo, anche questo è progresso, e la filosofìa progres­sista sarebbe di poco fru tto e di vista corta, se nelle sue speculazioni cominciasse col m ettere da parte il migliora­mento fisico, morale e intellettuale della classe più nume­rosa e più povera, come dice la formula di Saint-Simon. Ma tutto ciò ci dà ima visione ristretta del progresso [...] filosoficamente una simile nozione [...] è senza valore.

Il progresso, ancora im a volta, è l’affermazione del movimento universale, per conseguenza la negazione di tutte le forme e formule immutabili, di ogni dottrina eter­na, inamovibile, impeccabile, ecc., applicata a qualsiasi essere; di ogni ordine permanente, senza escludere quello dell’universo, di ogni soggetto, empirico o trascendentale, senza nessuna differenza.

L’assoluto, al contrario [...] è l’affermazione di tu tto ciò che il progresso nega, la negazione di tu tto ciò che il progresso afferma. È la ricerca nella natura, nella società, nella religione, nella politica, nella morale, ecc. dell'etemo, deH’immutabile, del perfetto, del definito, dell’inconverti­bile, dell’indiviso; è, per servirmi di una parola divenuta celebre [...], in tu tto e per tutto lo stata quo.

Descartes, ragionando a sua insaputa sui pregiudizi della vecchia metafisica, e cercando una salda base per la filoso­fia, un aliquid inconcussum, come egli diceva, pensa di averla trovata nell'io e pone questo principio: Io penso, dunque io sono (Cogito, ergo stim). Descartes non si è accorto che la sua base, che credeva immobile, era la mobilità stessa. Cogito, io penso, queste due parole espri­mono il movimento; e la conclusione, seguendo il valore primitivo del verbo essere, sum [...], non è ancora che il movimento. Egli doveva dire: Moveor, ergo fio, io mi muovo, dunque io divento!

Da questa doppia e contraddittoria definizione di pro­gresso e di assoluto, si deduce subito questa proposizio­ne [...] e cioè che il vero in tutte le cose, il reale, il posi­tivo, il praticabile è quello che cambia, o, almeno, che è suscettibile di progressione, conciliazione, trasformazione, mentre il falso, il fittizio, l’impossibile, l’astratto, è tu tto ciò che si presenta come fisso, intero, completo, inalterabile, indefettibile, non suscettibile di modificazione, conversio­ne, crescita o diminuzione, refrattario, per conseguenza, ad ogni superiore combinazione, a ogni sintesi.

Ne deriva che la nozione di progresso ci fornisce imme­diatamente e prim a di ogni esperienza, non ciò che si chiama criterio, ma, come dice Bossuet, un « favorevole

Page 92: Berti, Proudhon

100 Testi

pregiudizio », per mezzo del quale possiamo distinguere, in pratica, ciò che può essere utile intraprendere e proseguire, da ciò che può diventare dannoso e funesto [...] e ciò è importante per il governo dello Stato e degli affari.

Infatti, fra i tanti progetti di miglioramento e di ri­forma che si verificano giornalmente nelle società, è indub­bio che ve ne sono di utili e di desiderabili, mentre altri non lo sono. Ora, prim a che l’esperienza abbia deciso, come si può riconoscere a priori il meglio dal peggio [...], come scegliere, ad esempio, fra la proprietà privata e la pro­prietà comune, il federalismo e la centralizzazione, il go­verno diretto del popolo e la dittatura, il suffragio univer­sale e il diritto divino? Domande tanto più difficili perché non mancano esempi di legislatori e di società che hanno preso per regola l'uno o l’altro di questi principi, e appli­cazioni contrarie trovano uguale giustificazione nella storia.

Per me, la risposta è facile. Tutte le idee sono false, cioè contraddittorie e irrazionali, se si prendono nel loro significato esclusivo ed assoluto [...]; tutte le idee sono vere, cioè suscettibili di realizzazione e di razionalità, se si mettono in composizione con altre o in evoluzione.

Cosi, poniamo il caso che la legge dominante della Re­pubblica sia la proprietà, come per i Romani, o la comunità, come per Licurgo, o la centralizzazione, come per Richelieu,o il suffragio universale, come per Rousseau; (ebbene) qua­lunque sia il principio che voi scegliete (se) nel vostro pensiero questo principio viene prim a di tu tti gli altri (se insomma risulta dominante) il vostro sistema è errato.

C’è ima tendenza fatale aH’eliminazione, all’epurazione, all’esclusione, all'immobilismo, pertanto alla rovina. Non c’è rivoluzione dell'umanità che non si possa facilmente spiegare da qui. Al contrario, ammettendo per principio che ogni realizzazione, nella società e nella natura, risulti dalla combinazione di elementi opposti e dal loro movi­m ento, la vostra direzione è tracciata: ogni proposizione, che ha per scopo sia di far avanzare un'idea in ritardo, sia di procurare una combinazione più profonda, un accordo superiore e vantaggioso per voi, è vera. Essa è in prò- gresso [...].

Questa è dunque, nel mio pensiero, la regola della nostra condotta e dei nostri giudizi: è che nell'esistenza, nella ve rità e nel bene vi sono dei gradi, e il meglio è il cammino regolare dell'essere, l'accordo fra il più grande numero di term in i o di rapporti, m entre il nulla è equivalente all’uni­tà p u ra e all’immobilismo; e che tu tte le idee, tu tte le dot­trine che aspirano segretamente alla prepotenza, all'immu­tabilità , che mirano a etemizzarsi, che si compiacciono

Page 93: Berti, Proudhon

Critica dell’assoluto 101

di dare l’ultima formula della libertà e della ragione, e che di conseguenza celano, nelle pieghe della loro dialettica, l ’esclusione e l’intolleranza; che affermano come verità in sé, pura da ogni ibrido, assoluta, eterna, come una reli­gione, e senza considerazione di nessun’altra; queste idee che insomma negano il movimento dello spirito e la classi­ficazione delle cose, sono false e funeste, anzi, di più, esse sono incapaci di costituirsi.

[...].Per il filosofo (quindi) tu tto cambia d’aspetto quando

viene introdotta la nozione del progresso o del movimento universale e quando questa nozione viene ammessa nella repubblica delle idee [...].

Il mondo dello spirito come quello della natura, sembra capovolgersi: logica, metafisica, religione, politica, econo­mia, giurisprudenza, morale, arte, appaiono sotto ima nuova fisionomia, rivoluzionate radicalmente. Ciò che lo spirito aveva creduto finora vero diventa falso; ciò che aveva rifiutato come falso diventa vero. Tutti risentono dell’in­fluenza della nuova concezione e questo comporta ben presto una confusione che sembra inestricabile agli osser­vatori superficiali, come il sintomo della follia generale. Nell’interregno che separa il nuovo regime del Progresso dall’antico regime dell’Assoluto, e nel periodo in cui le menti si abituano a passare da un regime all’altro, la coscienza esita e brancola fra le aspirazioni e le tradizioni; e siccome pochi sanno discemere [...] e separare ciò che affermano o negano in virtù della loro fede verso l’asso­luto da ciò che affermano o negano in v irtù della loro adesione verso il progresso, ne risulta per la società [...] una sovrapposizione di opinioni e di interessi, una battaglia di partiti [...] *.

* Da P.-J. P ro u d h o n , Philosophie du progrès, Introdu­zione e Note di Th. Ruyssen, Librairie M. Rivière, Paris 1946, pp. 45-55. (La traduzione dal francese è di Giovanna Brocchi Colonna).

Page 94: Berti, Proudhon

»1. LA FORZA COLLETTIVA

Del potere sociale, considerato in se stesso

D o m an d a. - Qualsiasi manifestazione ricopre una realtà: che cosa costituisce la realtà del potere sociale?

R is p o s ta . - La forza collettiva.•D. - Che cosa chiamate forza collettiva?R- - Qualsiasi essere, per il solo fatto di esistere, di

essere una realtà, non un fantasma, possiede in sé, a un grado qualunque, la facoltà o proprietà, dal momento in cui si trova in presenza di altri esseri, di attirare e di essere attirato, di respingere e di essere respinto, di muoversi, di agire, di pensare, di p ro d u r re , almeno di resi­stere, con la sua inerzia, alle influenze esterne.

Questa facoltà o proprietà, si chiama forza.Cosi la forza è inerente, immanente all’essere: è il suo

attributo essenziale, il solo che testimonia della sua realtà, togliete l’attrazione, non siamo più sicuri dell'esistenza dei corpi.

Orbene, gli individui non sono i soli a essere dotati dir>a ’ c°Tlettività hanno anch’esse la loro.

. Per non parlare qui che delle collettività umane, suppo­niam o che degli individui, numerosi quanto si vuole, in Qualunque modo e con qualunque scopo, riuniscano le loro forze: la risultante di queste forze agglomerate, che non bisogna confondere con la loro somma, costituisce la forza ° Potenza del gruppo.

■D. - Date degli esempi di questa forza.R- - Una officina, formata da operai i cui lavori conver­

gono verso lo stesso scopo, che è quello di ottenere questo ° quel prodotto, possiede, in quanto officina o collettività, una potenza che le è propria: la prova è che il prodotto di questi individui cosi raggruppati è di molto superiore a quello costituito dalla somma dei loro prodotti singoli se ess][.avessero lavorato separatamente.

Similmente, l’equipaggio di una nave, una società in acco­mandita, una accademia, una orchestra, un esercito, ecc.;

Page 95: Berti, Proudhon

La forza collettiva 103

tu tte queste collettività, più o meno abilmente organizzate, racchiudono della potenza, una potenza sintetica e perciò speciale del gruppo, superiore in qualità ed energia alle forze elementari che lo compongono.

Del resto, gli esseri ai quali noi attribuiam o l’individua­lità non ne godono a titolo diverso degli esseri collettivi: sono sempre dei gruppi formati in base a ima legge di rela­zione, e nei quali la forza, proporzionale all’assetto almeno quanto alla massa, è il principio di unità.

Da ciò si conclude, contrariamente alla antica metafìsica:1) che, essendo ogni manifestazione di potenza il pro­

dotto di un gruppo o di un organismo, l'intensità e la qualità di questa potenza possono servire, quanto alla forma, il suono, il sapore, la solidità, ecc., alla constatazione e alla classificazione degli esseri; 2) che, per conseguenza, essendo la forza collettiva un fatto tanto positivo quanto la forza individuale, la prim a perfettamente distinta dalla seconda, gli esseri collettivi sono delle realtà allo stesso titolo degli individui.

D. - Come la forza collettiva, fenomeno ontologico, mec­canico, industriale, diventa potenza politica?

R. - Anzitutto, ogni gruppo umano, famiglia, officina, battaglione, può essere considerato come un embrione sociale; per conseguenza la forza che è in lui può, in una certa misura, costituire la base del potere politico.

Ma in generale non è dal gruppo, come lo abbiamo or ora illustrato, che nasce la comunità, lo Stato. Lo Stato risulta dalla riunione di numerosi gruppi diversi per natura ed oggetto, formati ciascuno per l'esercizio di una funzione speciale e la creazione di un prodotto spe­ciale, poi riuniti sotto una legge comune e un interesse identico. È una collettività di ordine superiore, nella quale ciascun gruppo, preso di per se stesso come individuo, concorre a sviluppare una nuova forza, che sarà tanto più grande quanto più le funzioni associate saranno numerose, la loro armonia più perfetta, e la prestazione delle forze, da parte dei cittadini, più completa.

Riassumendo, ciò che produce il potere nella società e fa la realtà di questa società, è la stessa cosa che produce la forza nei corpi, tanto organici che inorganici, e che costituisce la loro realtà: è il rapporto delle parti. [...].

D. - Nel gruppo industriale, la forza collettiva si vede senza difficoltà: l'accrescimento della produzione la dimo­stra. Ma nel gruppo politico, da qual segno riconoscerla? In che cosa si distingue dalle forze dei gruppi ordinari? Qual è il suo prodotto speciale, e di quale natura sono i suoi effetti?

Page 96: Berti, Proudhon

104 Testi

R. - In qualunque tempo l'uomo comune ha creduto di vedere la potenza sociale nello sviluppo delle forze militari, nella costruzione di monumenti, nella esecuzione dei lavori di utilità pubblica.

Ma è chiaro, dopo ciò che si è detto, che tutte queste cose, qualunque ne sia la grandezza, sono degli effetti della forza collettiva ordinaria: poco importa che i gruppi produttori, mantenuti a spese dello Stato, siano devoti al principe, o lavorino per proprio conto. Non è in ciò che noi dobbiamo cercare le manifestazioni della potenza sociale.

Essendo i gruppi attivi che compongono la comunità differenti fra loro per organizzazione, come per idea ed obiettivo, il rapporto che li unisce non è più tanto un rap­porto di cooperazione quanto un rapporto di commutazione. La forza sociale avrà dunque per carattere di essere essen­zialmente commutativa; essa non sarà perciò meno reale.

D. - Mostratelo con degli esempi.R. - L a m o n e ta . In teoria e in fatto, i prodotti si scam-

i?n.° con dei prodotti. Infatti questo scambio, la funzione più importante della società, che fa muovere in valore tanti miliardi di franchi, in peso tanti miliardi di chilogrammi, non avrebbe luogo senza questo denominatore comune, nel contempo prodotto e segno, che si chiama moneta. In Francia, la somma del numerario circolante è, per quel che si crede, di circa due miliardi di franchi, ossia 10 m i l i on i di chilogrammi d'argento, o 645.161 chilogrammi d’oro. Dal punto di vista delle mercanzie che questo strumento fa muovere, e supponendo tu tti gli affari fatti per contanti, si può dire che questa quantità di moneta rappresenta una forza m otrice di molti milioni di cavalli. È il metallo, di cui è fa tta la moneta, che possiede questa forza prodigiosa? No: essa è nella reciprocità pubblica, di cui la moneta è11 segno e il pegno.

La l e t t e r a d i c am b io . La moneta, nonostante la potenza meravigliosa che le viene data dal rapporto di commutazione dei gruppi produttori, non è ancora sufficiente per la massa delle transazioni. Si è dovuto supplire con una combinazione ingegnosa, la cui teoria è tanto conosciuta quanto quella della moneta. Essendo la produzione annua del paese di12 m iliardi, si può, senza esagerazioni, stimare la somma degli scambi che questa produzione implica, a 4 volte tanto, ossia a 48 miliardi. Se gli affari si facessero per contanti, ci vorrebbe ima quantità di moneta almeno della m età, se non uguale: l ’uso delle lettere di scambio svolge dun­que in rea ltà la stessa funzione di una ventina di miliardi di franchi, in m onete d’oro o d ’argento. Da dove viene

Page 97: Berti, Proudhon

La forza collettiva 105

questa potenza? Dal rapporto di commutazione che unisce tra di loro i membri della società, i gruppi e individui.

La b a n c a . Lo sconto delle lettere di cambio è un servizio che le banche private si fanno pagare a un prezzo abba­stanza elevato, m a per il quale la Banca di Francia, che ha il privilegio di emettere dei biglietti al portatore e di farli accettare ovunque, non esige che un compenso minore di due terzi. È provato che questo compenso potrebbe essere ridotto ancora di nove decimi. Ottenuta questa nuova econo­mia, si sarebbe in conseguenza creata, dal fatto delle rela­zioni sociali, una nuova forza. Perché chi dice economia di spese, dice, in ogni caso, diminuzione della forza inerte o del peso morto, e quindi aumento di forza viva.

L a r e n d i t a . Tre cause concorrono alla produzione della rendita: la terra, il lavoro e la società. Prescindiamo, in un primo momento, dalla terra. Quanto al lavoro, sappiamo come, per mezzo della separazione delle industrie e della formazione del gruppo lavoratore, si aumenta, restando eguale il numero degli individui, la produzione: si tra tta in effetti della forza collettiva, ne abbiamo parlato più sopra. Ma il vantaggio di questa divisione non si lim ita a ciò. Più i gruppi, moltiplicandosi, moltiplicano i rapporti di commu­tazione nella società, più il numero degli oggetti utili, e la loro u tilità stessa, aumentano. Orbene, questo accrescimento di utilità, che risulta, a parità di territorio e mantenendo uguale la quantità di servizio effettivo, dal rapporto dei gruppi, che cosa altro è se non rendita? Dunque, creazione di ricchezza, creazione di forza.

S ic u r e z z a g e n e r a le . In una popolazione antagonistica, co­m e quella del Medio Evo, la Chiesa può ben far sentire le sue minacce, i tribunali possono ben mettere in m ostra i loro supplizi, i re ed i loro armati posson ben far risuonare le loro lance sul lastricato delle caserme, la sicurezza è nulla. La terra si copre di castelli e di fortezze; tu tti si armano e si rinchiudono; il saccheggio e la guerra sono all'ordine del giorno.

Si accusa di questo disordine la barbarie del tempo e si ha ragione. Ma che cos’è la barbarie, o piuttosto che cos’è che la produce? L’incoerenza dei gruppi industriali, d’altra parte in numero molto ristretto, e l’isolamento nel quale agiscono, al modo dei gruppi agricoli. Dunque il rapporto delle funzioni, la solidarietà di interessi che si crea, il senti­mento che ne acquistano i produttori, la coscienza nuova che ne risulta, fanno più per l’ordine pubblico che gli eserciti, la polizia e la religione. Dove trovare una forza più reale e più sublime?

Questi esempi sono sufficienti per spiegare che cosa è,

Page 98: Berti, Proudhon

106 Testi

in sé, il potere che si origina dalla collettività sociale. È con l’aiuto di questo potere, convertito in imposta, che i principi si procurano in seguito la polizia e tutto l’appa­rato di coercizione che serve loro per difendersi contro gli attacchi dei loro rivali, spesso contro il voto delle popolazioni stesse.

D. - Ciò cambia tutte le idee correnti sulla origine del potere, sulla sua natura, sulla sua organizzazione e sul suo esercizio. Come credere che tali idee abbiano potuto stabilirsi ovunque, se in realtà bisogna ritenerle false?

R. - L’opinione dei popoli antichi sulla natura e l ’ori­gine del potere sociale è una testimonianza della sua realtà. Il potere è immanente nella società, come l’a ttra ­zione nella materia, come la Giustizia nel cuore dell’uomo. Questa immanenza del potere nella società risulta dalla nozione stessa di società, poiché è impossibile che delle unità, atomi, monadi, molecole, o persone, in stato di agglomerazione, non mantengano fra di loro dei rapporti, non formino una collettività, dalla quale nasce una forza. Dal che segue che il potere nella società, come il peso nei corpi, la vita negli animali, la Giustizia nella coscienza, è ima cosa sui generis, reale ed obiettiva, la cui negazione, data la società, implica contraddizione.

[...].D. - Una condizione essenziale del potere è la sua unita.

Come sarà assicurata questa unità se i gruppi formatori restano uguali, se nessuno ottiene una certa preponde­ranza sugli altri? D’altra parte se questa preponderanza viene accordata, ricaschiamo nell’antico sistema: a che cosa serve, in tal caso, il riferimento del potere alla collettività?

R. - La diversità delle funzioni nella società non com­porta la divergenza o la pluralità nel potere più di quan­to non comporti la diversità del prodotto finale. Il potere è uno per natura, o non esiste: lungi dal crearlo, qual­siasi competizione o prepotenza, tanto di un membro quanto di una frazione della società, non servirebbero che ad abolirlo. L’elettricità cessa forse di essere unica nella pila, perché questa pila si compone di molti ele­m enti? Ciononostante, la qualità del potere sociale varia, la sua intensità si eleva o si abbassa, a seconda del num ero e della differenza dei gruppi: quanto all’unità, essa resta immutabile.

D. - Ogni forza suppone una direzione: a chi la dire­zione del potere sociale?

R. - A tu tti, il che vuol dire a nessuno. Risultando il potere politico dal rapporto di numerose forze, la ra-

Page 99: Berti, Proudhon

La forza collettiva 107

gione dice anzitutto che queste forze devono bilanciarsi le une con le altre, in modo da formare un tu tto regolare ed armonico. La Giustizia interviene a sua volta per dichiarare, come ha fatto nell’economia generale, che questo equilibrio delle forze, conforme al diritto, preteso dal diritto, è obbligatorio per qualsiasi coscienza. È. dun­que alla Giustizia che spetta la direzione del potere; in modo che l’ordine nell’essere collettivo, come la salute, la volontà, ecc., nell’animale, non è il fru tto di alcuna inizia­tiva particolare: risulta dalla organizzazione.

D. • E chi garantisce l’osservanza della Giustizia?R. - La stessa cosa che ci garantisce che il commercian­

te obbedirà alla moneta, la fede pubblica, la certezza della reciprocità, in una parola la Giustizia. — La Giustizia è per gli esseri intelligenti e liberi la causa suprema delle loro determinazioni. Essa non ha bisogno che di essere spiegata e compresa per essere affermata da tutti e per agire. Essa è, o l’universo non è che un fantasma e l’uma­nità un mostro.

D. - Cosi il potere sociale, per quanto sia elevato, non implica in se stesso la Giustizia?

R. - No: come la proprietà, la concorrenza e tutte le forze economiche, tutte le forze collettive, il potere è, per natura, estraneo al diritto; è forza.

Diciamo tuttavia che, essendo la forza un attributo di qualunque realtà, e potendo qualsiasi forza accrescersi indefinitamente mediante l’associazione, la coscienza acqui­sisce maggiore energia negli uomini e il rispetto della Giustizia più certezza, quanto più il gruppo sociale è nu­meroso e meglio formato: e ciò fa si che in una società civile, per quanto corrotta o asservita essa sia, c’è sem­pre più Giustizia che in una società barbara.

D. - Che cosa si intende per divisione dei poteri?R. - L’unità stessa del potere, considerata nella diver­

sità dei gruppi che la formano. Se l’osservatore si pone al centro del fascio, e di là percorre la serie dei gruppi, il potere gli sem bra diviso; se guarda la risultante delle forze in relazione, vede l’unità. Qualsiasi vera separazione è impossibile. È per questo che l’ipotesi dei due poteri indi- pendenti, ciascuno con il suo mondo a parte, come si pensa oggi per il potere spirituale, e per il potere temporale, è contraria alla natura delle cose, un’utopia, una assurdità.

D. - Qual è l’oggetto proprio del potere sociale?R. - Risulta dalla sua definizione: aumentare incessante­

mente la potenza dell’uomo, la sua ricchezza e il suo benessere mediante una produzione superiore di forza.

Page 100: Berti, Proudhon

108 Testi

D. - A chi va il beneficio del potere sociale, e general­m ente di qualsiasi forza collettiva?

R. - A tu tti coloro che hanno concorso a formarlo, in proporzione al loro contributo.

•D. - Qual è il limite del potere?R. - Il potere, per natura e destino, non ha altro lim ite

che quello del gruppo che rappresenta, degli interessi e delle idee che deve servire.

Tuttavia, si intende per limite del potere, o dei poteri,° più esattamente dell’azione del potere, la determinazione attributiva dei gruppi e sottogruppi di cui è l'espressione generale. Siccome ciascuno di questi gruppi e sottogruppi, fino all’ultimo termine della serie sociale, ossia l’individuo, rappresenta in effetti di fronte agli altri, nella funzione che gli è devoluta, il potere sociale, ne consegue che la lim ita­zione del potere, o meglio la sua ripartizione, regolarmente compiuta secondo la legge di Giustizia, altro non è che la formula di accrescimento della libertà stessa.

D. - Quale differenza fate tra la politica e l ’economia?R- - In fondo, sono due maniere differenti di considerare

la stessa cosa. Non si può immaginare che gli uomini abbiano bisogno, per la loro libertà e il loro benessere, di qualche cosa di diverso dalla forza; per la sincerità delle loro relazioni, di qualche cosa di diverso dalla Giustizia. L'economia presuppone queste due condizioni; che cosa potrebbe dare di più la politica?

Nelle condizioni attuali, la politica è l’arte, equivoca e arbitraria, di fare l ’ordine in una società in cui tutte le leggi dell'economia sono misconosciute, ogni equilibrio di­strutto, qualsiasi libertà compressa, ogni coscienza deviata, ogni forza collettiva convertita in monopolio.

Della appropriazione delle forze collettive, e della cor­ruzione del potere sociale

D. - è possibile che un fenomeno cosi considerevole come la forza collettiva, che cambia il volto dell’ontologia, che tocca quasi la fisica, sia sfuggito per tanti secoli all’atten­zione dei filosofi? Come mai, a proposito di una cosa che interessa sia l ’una che l’altro cosi intensamente, la ragione pubblica da una parte, l’interesse personale dall’altra, si sono lasciati ingannare cosi a lungo?

R- - Tutto viene col tempo, nella scienza come nella na­tura. Tutto comincia con qualcosa di infinitamente piccolo,

Page 101: Berti, Proudhon

La forza collettiva 109

con un germe, inizialmente invisibile, che si sviluppa a poco a poco, e tende all'infinito. Per questa ragione la persistenza degli errori è connessa proprio alla grandezza delle verità. Non si può quindi essere sorpresi se la potenza sociale, inac­cessibile ai sensi malgrado la sua realtà, è sembrata ai prim i uomini una emanazione dell’Essere divino, e a questo titolo degno oggetto della loro religione. Meno sapevano mediante l’analisi rendersene conto, più ne avevano senti­mento vivo, ben diversi in ciò dai filosofi che, venuti più tardi, fecero dello Stato una restrizione della libertà dei cittadini, un mandato del loro beneplacito, un nulla. A sten­to, ancor oggi, gli economisti nominano la forza collettiva. Dopo duemila anni di misticismo politico, abbiamo avuto duemila anni di nichilismo: non si potrebbero chiamare altrimenti le teorie che regnano da Aristotele in poi.

D. - Qual è stata, per il popoli e per gli Stati, la conse­guenza di questo ritardo nella conoscenza dell’Essere col­lettivo?

R. - L’appropriazione di tutte le forze collettive e la corruzione del potere sociale; in term ini meno severi, una economia arbitraria e una costituzione artificiale del potere pubblico.

D. - Spiegatevi su questi due punti.R. - Per mezzo della costituzione della famiglia, il padre

si trova naturalm ente investito della proprietà e della dire­zione della forza risultante dal gruppo familiare. Ben pre­sto questa forza si accresce con il lavoro degli schiavi e dei salariati, il num ero dei quali essa concorre ad aumen­tare. La famiglia diviene tribù: il padre, conservando la sua dignità, vede crescere di altrettanto il potere di cui dispone. È il punto di partenza, il tipo di tu tte le appropriazioni analoghe. Ovunque si forma un gruppo di uomini, o un potere di collettività, là si forma un patriziato, ima signoria.

Numerose famiglie, numerose imprese, riunendosi, for­m ano una comunità: la presenza di una forza superiore, oggetto dell’ambizione di tutti, si fa ben presto sentire. Chi ne diverrà il depositario, il beneficiario, l’organo? Di solito, sarà quello tra i capi che conta, nella sua signoria, un num ero maggiore di figli, di parenti, di alleati, di clienti, di schiavi, di salariati, di bestie da soma, di capitali, di terre; che, in una parola, dispone della maggior forza di collettività. È. una legge di natura che la forza più grande assorba e assimili le forze più piccole, e che la potenza domestica diventi un titolo alla potenza politica: cosi non vi è competizione p er la corona che tra i forti. Si sa che divenne la dinastia di Saul, fondata da Samuele in disprezzo di questa legge, e quale fatica fece il re Giovanni, sopran­

Page 102: Berti, Proudhon

110 Testi

nominato Senza Terra, per consolidarsi sul trono d’Inghil­terra. Egli non avrebbe mai trionfato della resistenza dei baroni, senza la carta che accordò loro e che divenne il fondamento delle libertà inglesi. Senza uscire dalla nostra storia, quando il maestro di palazzo, Pipino di Herstal o Ugo il Bianco, divenne più potente, in uomini e feudi, del re, fu fatto re a dispetto della consacrazione ecclesiastica che proteggeva il sovrano. Nel 1848, quando Luigi Napo­leone fu eletto presidente della Repubblica, il popolo delle campagne gli attribuiva ima fortuna di venti miliardi.

D’altra parte l'alienazione della forza collettiva, oltre ad essere un risultato deH’ignoranza, sembra essere stato un mezzo per preparare le razze. Per avvezzare l ’uomo pri­m itivo, ancora selvatico, alla vita sociale, era necessaria, bisogna crederlo, una lunga m acinatura dei corpi e delle anime. Siccome l’educazione dell'umanità si compie attra­verso una specie di mutuo insegnamento, la legge delle cose voleva che gli istruttori godessero di certe preroga­tive. Nel futuro, l’eguaglianza consisterà nel fatto che cia­scuno potrà esercitare a turno la maestria, come avrà sopportato la disciplina.

D. - Quanto voi dite dimostra bene come è stata consu­m ata la grande diseredazione sociale, come l’ineguaglianza e la miseria sono divenute la piaga della civiltà. Ma come spiegare la rassegnazione delle coscienze, la sottomissione delle volontà, appena turbate, durante un cosi lungo pe­riodo, da qualche rivolta di schiavi, di fanatici, di proletari?

R. - L’antica religione del potere renderebbe, almeno fino ad u n certo punto, ragione del fatto. Ci si sottometteva al po tere perché lo si considerava proveniente dagli dèi, in una parola perché lo si adorava. Ma questa religione è per­duta: legittimità dinastica, diritto del signore e diritto divi­no non sono più che parole odiose, sostituite dal fiero prin­cipio della sovranità del popolo. Orbene, il fenomeno persi­ste: gli uomini dei nostri giorni non sembrano meno pronti dei loro padri a sottomettersi all’autorità e allo sfrutta­m ento di uno solo. Ciò costituisce una prova flagrante della vanità delle teorie teologiche e metafisiche, i cui principi possono alternativamente perire o affermarsi, senza chei fa tti dei quali essi erano ritenuti la causa, o che essi dovevano prevenire, cessino di prodursi.

A questo triste argomento — del quale si valgono la m isantropia e lo scetticismo, scusa banale di tanti trad i­m enti e di tante vigliaccherie — la teoria della forza col­lettiva dà una risposta perentoria, che risolleva in modo singolare la m oralità delle masse, lasciando nel contempo alla loro infamia gli oppressori e i loro complici.

Page 103: Berti, Proudhon

La forza collettiva 111

Con il raggruppamento delle forze individuali, e con il rapporto dei gruppi, la nazione intera prende corpo: è un essere reale, di un ordine superiore, il cui movimento trascina ogni esistenza, ogni fortuna. L'individuo è immerso nella società; egli dipende da questa alta potenza, da cui non potrebbe separarsi che p e r cadere nel nulla. Per quanto grande, in effetti, sia l’appropriazione delle forze collettive, p e r quanto intensa sia la tirannia, è evidente che alla m assa rimane sempre ima parte di beneficio sociale, e che, in fondo, è meglio per tu tti rimanere nel gruppo piuttosto che uscirne.

Non è dunque lo sfruttatore, non è il tiranno, che i lavoratori e i cittadini seguono in realtà: la seduzione e il terro re hanno ben poco a che fare con la loro sottomissione. È la potenza sociale che essi prendono in considerazione, una potenza mal definita nel loro pensiero, ma fuori dalla quale essi sentono di non poter sussistere; una potenza di cui il principe, chiunque esso sia, m ostra loro il sigillo, e che essi temono di fiaccare con la loro rivolta.

Ecco perché qualunque usurpatore della potenza pub­blica non manca mai di coprire il suo crimine col pretesto della salute pubblica, di atteggiarsi a padre della patria, a restauratore della nazione, come se la forza sociale traesse da lui la sua esistenza, m entre egli non è per essa che una effìgie, un timbro, e, se si può dire cosi, una ragione com­merciale. Cosi egli cadrà, con la stessa facilità con la quale si è stabilito al potere, il giorno in cui la sua presenza sem­brerà compromettere il grande interesse che egli ha preteso difendere: è questa, in ultima analisi, la causa della caduta di tu tti i governi.

D. - Quando il potere sociale si costituisce in principato, cade nelle mani di una dinastia o viene sfruttato da una casta, che cosa divengono i suoi rapporti con la nazione?

R. - Questi rapporti sono completamente sovvertiti. NeH’ordine naturale, il potere nasce dalla società, è la risultante di tutte le forze particolari raggruppate per il lavoro, la difesa e la Giustizia. Secondo la concezione empi­rica suggerita dalla alienazione del potere, è la società al contrario che nasce dal potere; esso ne è il generatore, il creatore, l’autore; esso è superiore alla società: in modo che il principe, da semplice agente della repubblica comelo vuole la verità, ne diventa il sovrano, e, come Dio, il giustiziere.

La conseguenza è che il principe, assorbito dal suo do­minio personale, invece di assicurare e di sviluppare il potere sociale, si crea, con l ’esercito, la polizia e le tasse, ima forza sua propria, capace di resistere a ogni attacco

Page 104: Berti, Proudhon

112 Testi

dall’interno e di costringere, se necessario, la nazione all'ob­bedienza: ed è questa forma principesca che avrà ormai il nome di potere. Napoleone III, come Napoleone I, dice il mio esercito, la mia flotta, i miei ministri, i miei prefetti, il mio governo; ed ha ragione di dirlo poiché nulla di tutto ciò appartiene più alla nazione, al contrario tu tto ciò è contro la nazione.

D. - Come si concepisce, in questo caso, la Giustizia?R. - Come una emanazione del potere, il che è la ne­

gazione stessa della Giustizia. In effetti, nella condizione normale della società, la Giustizia domina il potere, della cui bilancia, e della cui distribuzione, essa fa im a legge. Sotto il regime dinastico, il potere domina la Giustizia, che diviene un attributo, una funzione dell’autorità. Da ciò la subordinazione della Giustizia alla ragion di Stato, ultima parola dell’antica politica, condanna di tu tti i governi che la seguono, e che il cristianesimo, aggiungen- gendole la ragion di salvezza, non ha affatto santificato. Chei principi e i preti bisticcino per l ’esercizio del potere: né gli uni né gli altri ne sono degni, perché tu tti disconoscono la supremazia del diritto.

D. - Come, in questo sistema di usurpazione, si determi­nano i rapporti dei cittadini quanto alle persone, ai servizi, e ai beni?

R. - Tale è la Giustizia davanti al potere, tale sarà nella nazione. Essendo la Giustizia considerata come una emanazione della forza, tanto umana quanto divina, la forza diviene in tutto e per tutto la m isura del diritto, e la società, invece di riposare sull’equilibrio delle forze, ha per principio l’ineguaglianza, cioè la negazione dell’ordine.

D. - Quale può essere, in questa situazione, l’organizza­zione sociale e politica?

R. - È facile rendersene conto. Cadute in mani private le forze collettive, il potere pubblico convertito in un appan­naggio, gli individui e le famiglie, già ineguali per azzardo di natura, lo divengono ancor più per colpa della civiltà: la società si costituisce in gerarchia. È quanto esprimono la religione dinastica e il giuramento di fedeltà alla persona dell’imperatore. In questo sistema si pone come principio che la Giustizia, o ciò che si chiama con questo nome, pende sempre dal lato del superiore, s ta contro l’inferiore; e ciò, sotto l’apparenza di una autocrazia ineluttabile, non è che l’instabilità.

E, cosa triste, in questo caso tutti sono complici del principe perché lo spirito di uguaglianza che la Giustizia crea nell’uomo è neutralizzato o abolito dal pregiudizio

Page 105: Berti, Proudhon

La forza collettiva 113

contrario, reso invincibile dall’alienazione di ogni forza collettiva.

D. - Come, in questo travestimento della Giustizia, della società e del potere, si conserva l'unità?

R. - La na tu ra delle cose vuole che l ’unità risulti dalla bilancia delle forze, resa obbligatoria dalla Giustizia, che diviene cosi il vero sovrano, e che, in tale qualità, dà la consegna a tu tti i partecipanti alla potenza pubblica. Ora l’unità consisterà invece nell’assorbimento, nella persona del principe, di ogni facoltà, di ogni interesse, di ogni ini­ziativa: è la m orte sociale. E siccome la società non può né morire, né fare a meno dell’unità, si stabilisce un antago­nismo fra la società e il potere, finché non sopravviene la catastrofe.

D. - In questo stato di cose, la diminuzione del potere è sem brata sempre ima garanzia per la società: in che cosa consiste, e a che può servire, una tal riduzione?

R. - A prescindere da ciò che il principe possiede a titolo di patrimonio o dominio privato, e anche dal comando degli eserciti, dalla percezione delle imposte e dalla nomina dei funzionari, la teoria vuole che egli abbandoni il soprappiu, terre, miniere, coltivazioni, industrie, trasporti, banche, com­mercio, educazione al libero godimento, come disposizione assoluta, come concorrenza sfrenata o pura coalizione im­morale della classe privilegiata. Si ritiene che ciò che appartiene al dominio dell’economia non lo riguarda per niente: egli non deve impicciarsene affatto. In una parola, l’abbandono a una casta di feudatari della vera forza sociale, ecco quello che si chiama limite del potere, e che si decora con l’etichetta delle pubbliche libertà. Transazione assur­da, che nessun governo è padrone di mantenere, e che non tarderà a divenire un nuovo fermento di rivoluzione. Oggi, in Francia, l ’im peratore è padrone di tutto: m a con ciò stesso si è messo in un pericolo sempre crescente di per­dere tutto: ed è quanto l’avvenire, in un modo o nell’altro, dimostrerà.

D. - Cosi condizionato, il potere è senza oggetto?R. - Per nulla: l’oggetto del potere è allora precisamente

quello di mantenere questo sistema di contraddizione, in attesa della Giustizia, e come in una immagine capovolta della Giustizia.

D. - Precisate la sinonimia del potere.R. - La costituzione artificiale del potere avendone alte­

ra ta la nozione, la lingua doveva risentirne: a questo ri­guardo, come sempre, le parole sono la chiave della storia.

Considerato come appannaggio del principe, come sua fondazione, sua professione, suo mestiere, il potere sociale

Page 106: Berti, Proudhon

114 T esti

è stato chiamatu lo Stato. Come la gente del popolo, il re dice: il mio Stato, o i miei Stati, per il mio dominio, il mio stabilimento. — La Rivoluzione, trasferendo dal principe al paese la proprietà del potere, ha conservato la parola, oggi anonima, di res publica, repubblica.

Nella misura in cui si ritiene che il personale del potere regge la nazione e presiede ai suoi destini, si dà a questo personale, e al potere stesso, il nome di governo, espressio­ne tanto falsa quanto ambiziosa. In teoria la società è ingo­vernabile; essa non obbedisce che alla Giustizia, pena la morte. Di fatto i sedicenti governi, liberali e assoluti, con il loro arsenale di leggi, decreti, di editti, di statuti, di plebisciti, di regolamenti, di ordinanze, non hanno mai governato nulla e nessuno. Vivendo una vita completamen­te istintiva, agendo sotto la spinta di necessità invincibili, sotto la pressione di pregiudizi e di circostanze che non comprendono, abbandonandosi il più delle volte alla cor­rente della società che di tanto in tanto li travolge, essi non Possono, di loro iniziativa, far altro che del disordine. E la prova sta nel fatto che finiscono tutti miserevolmente.

Infine, se si considera nel potere l'eminente dignità che10 rende superiore a ogni individuo, a ogni collettività, lo si dice sovrano : espressione pericolosa, dalla quale è auspi­cabile che la democrazia in futuro si preservi. Quale che sia11 potere dell’essere collettivo, esso non costituisce, agli occhi del cittadino, una sovranità: tanto varrebbe quasi dire che u n a macchina, nella quale girano centomila fusi, è il sovrano delle centomila filatrici che essa riunisce. L’abbiamo detto, |a Giustizia sola comanda e governa, la Giustizia, che creail po tere facendo della bilancia delle forze un obbligo per tu tti . F ra il potere e l’individuo, non c’è dunque che il d iritto : ogni sovranità ripugna; è diniego di Giustizia, è religione *.

* Da P.-J. P ro u d h o n , La giustizia nella rivoluzione e n ella Chiesa, a cura di Mario Albertini, Utet, Torino 1968, PP. 545-559.

Page 107: Berti, Proudhon

IV. LA RAGIONE COLLETTIVA

La teoria della ragione collettiva riposa sul seguente fatto di osservazione noologica, che nessuna spiegazione potrebbe distruggere:

Quando due o più uom ini sono chiamati a pronunciarsi contraddittoriamente su un problema, sia dell'ordine natu­rale, sia, e a più forte ragione, dell’ordine umano, dalla eliminazione della loro soggettività — cioè dell’assoluto che l'io afferma e rappresenta — che essi sono condotti recipro­camente e rispettivamente a fare, risulta un modo di vedere comune, che non rassomiglia più affatto, né per la forma né per la sostanza, a quello che, senza questo dibat­tito, sarebbe stato il loro modo di pensare individuale.

Questo modo di vedere, nel quale non entrano che puri rapporti, senza mescolanza di elementi metafisici e assolu­tisti, costituisce la ragione collettiva o la ragione pubblica.

Consegue da questa differenza di qualità fra le due ragioni che se, invece di sottomettere il problema a un dibattito preliminare, gli stessi individui l’avessero risolto preventivamente, per tacito consenso, accettando ciascuno l’avviso altrui, le loro opinioni, emananti entrambi da imo stesso sentimento di assolutismo — che costituisce l’essen­za dell'individualità — si sarebbero trovate perfettamente omologhe, ma che, nel contempo, i loro interessi si sareb­bero trovati in un completo antagonismo: situazione del tutto contraria a quella che la ragione collettiva avrebbe creato.

È cosi che, all’origine, si è stabilita la proprietà. Essa èil risultato del consenso delle ragioni particolari, il cui fascio, formatosi spontaneamente, ha comportato di auto­rità la sanzione del legislatore. Ma oggi si constata che la proprietà, malgrado tu tti gli sforzi dei giuristi, è divenuta incompatibile con l’ordine sociale. Essa attende la sua tra­sformazione, e noi assistiamo da una ventina d’anni a un lavoro di purificazione di cui ho cercato di mettere in risalto lo scopo, presentando la bilancia dei diritti e dei doveri reciproci del locatario e del proprietario.

Page 108: Berti, Proudhon

116 T esti

La stessa cosa si verifica in tutto il sistema sociale, concepito in un primo tempo, e necessariamente, dal punto di vista assolutistico.

La ragione pubblica, condizione e fondamento della fede pubblica

LVII. Ma, si dice, la distinzione della ragione particolare e della ragione collettiva solleva più difficoltà di quante non ne può risolvere.

Basta, in primo luogo, criticare l’individualismo per affermare una sedicente ragione generale, della quale non ci si può fare un’idea se non mediante una specie di castra­zione dell’intelletto, come se la separazione astratta degli a ttributi dell’intendere producesse due tipi di intelligenza? B asta realizzare ima metafora per bu ttar via tutto ciò che la ragione dei popoli ha creato nel campo delle istituzioni, e p e r strappare alla civiltà, già cosi compromessa, i suoi vecchi, i suoi eterni fondamenti? L’eliminazione dell’asso­luto, dopo tutto, non è soltanto una negazione: è il sacri­ficio dell’interesse proprio, raccomandato in nome della cari­tà dal Vangelo, e preteso, in certi casi, dalla Giustizia. Ci vuole altro per far credere alla realtà della ragione col­lettiva. Qual è l’insieme delle sue idee? Il che è come chie­dere: qual è il sistem a che ci si propone di stabilire, in nom e di questa ragione, al posto dell’antico ordine di cose?

Andiamo più lontano. Quand’anche, in nome delle idee nuove, il sistema dei rapporti sociali fosse stato rinnovato da cim a a fondo, sarebbe questo un motivo per ammettere nel corpo sociale, come realtà noologica o psichica, una intelligenza sui generis, pari a quella che riconosciamo nel­l’essere vivente uomo o animale, un pensiero, un istinto, una intelligenza? Passi per la forza di collettività, risultante dal rapporto di cooperazione e di commutazione delle forze particolari; m a una intelligenza di collettività, un’anima sociale, il nostro senso intimo la rifiuta. Dove metterla? Chi la esprim erà? Creeremo forse un vicariato, un sacerdozio, per quest’a ltro Logos? Dopo aver distrutto in noi questa doppia coscienza, tanto rim proverata alla religione, la ri­creerem o grazie a questa ragione collettiva, le cui prescri­zioni penetrano cosi a fatica nella ragione particolare? Invece di assicurare con questa impalcatura la fede pub­

Page 109: Berti, Proudhon

La ragione collettiva 117

blica, ciò non finirà forse col gettarci in un’a ltra ipocrisia?Queste sono le difficoltà. I l sistem a della ragione pub­

blica, la sua realtà, il suo organismo, la sua necessità per la garanzia della fede pubblica, cioè il suo fine: ecco quanto cercherò di chiarire il più brevem ente possibile.

LVIII. Sistem a della ragione pubblica o sistem a sociale. Quante volte m i son sentito rivolgere questo compli­

mento, che la critica gelosa si affretterebbe, per l’onore del­l ’epoca, a ritirare, se ne comprendesse la portata: Voi siete un ammirevole distruttore; m a voi non costruite nulla. Voi gettate le persone sulla strada, e non offrite loro il minimo riparo. Che cosa mettete al posto della religione? Che cosa mettete al posto del governo? Che cosa m ettete al posto della proprietà? E ora mi si dice: Che cosa m ettete al posto di questa ragione individuale, di cui siete giunto, per soste­nere le vostre tesi, a negare la sufficienza?

Nulla, mio buon amico; perché non voglio affatto sop­primere, nemmeno in parte, ciò che ho fermamente criti­cato. Io m i compiaccio di due sole cose: in primo luogo, di insegnarvi a m ettere ogni cosa al suo posto, dopo averla purificata dall'assoluto e bilanciata con le altre cose, in seguito, di dimostrarvi che le cose che voi conoscete, e che avete tan ta paura di perdere, non sono le sole che esi­stono, di insegnarvi che ce ne sono di ancora più impor­tanti, delle quali dovete tener conto. Fra queste è la ragione collettiva.

Si cerca il vero sistema, il sistem a naturale, razionale, legittimo, della società, perché nessuno tra quelli che sono stati provati resiste all’azione segreta che lo disorganizza. È stata la preoccupazione costante dei filosofi socialisti, dal mitologico Minosse fino al capo degli Icariani. Siccome non si aveva nessuna idea positiva né della Giustizia, né del­l’ordine economico, né della dinamica sociale, né delle condizioni della certezza filosofica, ci si è fa tta una idea mostruosa dell’essere sociale: lo si è paragonato a un grande organismo, creato secondo una formula gerarchica che costituiva, anteriormente alla Giustizia, la sua legge e la condizione stessa della sua esistenza; era stato conce­pito come un animale di una specie misteriosa, m a che, similmente a tu tti gli animali conosciuti, aveva una testa, un cuore, dei nervi, dei denti, dei piedi, ecc. Da questo organismo chimerico, che tutti si son sforzati di scoprire, si deduceva in seguito la Giustizia; si faceva cioè scaturire la morale da una fisiologia, o, come si dice oggi, il diritto dal dovere, in modo che la Giustizia si trovava sempre fuori

Page 110: Berti, Proudhon

118 Testi

dalla coscienza, la libertà sempre sottomessa al fatalismo,e l’umanità sempre decaduta. . ._• •

Io ho confutato in anticipo tutte queste im m a g in a z io n i , esponendo i fatti e i principi che le escludono per »emp .

Per quanto riguarda la sostanzialità e 1 orgamzz . dell’essere sociale, io ho mostrato la prima nell ac mento di potenza eifettiva che è proprio del gn^PP >__ che eccede la somma delle forze individuali che 1° pongono; e ho dato la legge della seconda, mostran o essa si riduce a una serie di ponderazioni delle torz * servizi, e dei prodotti, il che fa del sistema sociale equazione generale, una bilancia. In questo orgamsm , società, l’essere morale per eccellenza, differisce essen - mente dagli esseri viventi, nei quali la subordinazione g organi è la legge stessa della esistenza. Per questa rag alla società ripugna qualsiasi idea di gerarchia, c° risulta dalla formula seguente: Tutti gli uomini sono in dignità per natura e devono conseguire una eq lenza di condizioni mediante il lavoro e la Giustizia.

Orbene, tale è l’organizzazione di un essere, tale sara la sua ragione; per questo, mentre la ragione dell ina assume la forma di una genesi, come si può constatare vando tu tte le teogonie, le gnosi, le costituzioni politicne, la sillogistica; la ragione collettiva si riduce, come l a g • m ediante l’eliminazione dell’assoluto, a una serie di luzioni e di equazioni, il che equivale a dire che in non c’è, per la società, un sistema. .

In effetti non si tratta di un sistema nel senso cne si dà di solito a questa parola, ma di un ordine ne q tu tti i rapporti sono rapporti di eguaglianza; nel q non esiste né primato, né obbedienza, né centro ai g ’ né direzione; nel quale la sola legge è che tu tto si m etta alla Giustizia, cioè all’equilibrio.

Le matematiche formano forse un sistema. A .viene in mente di dirlo. Se in un tratta to di. niatemati scopre qualche traccia di sistemazione, ciò e ai m dell’autore, ma non deriva affatto dalla scienza stessa, cosi anche nella ragione sociale.

Due uomini si incontrano, riconoscono la loro mgnua. constatano il sovrappiù di beneficio che nsultereb p entram bi dall’accordo della loro industriosità, e si ga * scono perciò, reciprocamente, l’uguaglianza, il cne g - fica, l ’economia. Ecco tutto il sistema sociale: una equ ne, e come conseguenza una potenza di collettività.

Due famiglie, due città, due province, contrattano su un piede di uguaglianza: ci sono sempre soltanto q due cose, una equazione e una potenza di collettivit .

Page 111: Berti, Proudhon

La ragione collettiva 119

rebbe contraddittorio, violerebbe la Giustizia, che ci fosse qualche cosa d’altro.

Una cosa è dunque la ragione individuale, assolutista, procedente attraverso genesi e sillogismo, che tende costan­temente, con la subordinazione delle persone, delle funzioni, dei caratteri, a chiudere la società in un sistema; e una cosa del tutto diversa la ragione collettiva, che elimina ovunque l’assoluto, che procede invariabilmente per equa­zioni, che nega energicamente, per quanto riguarda la società che essa rappresenta, ogni sistema. Incompatibilità di forme, antagonismo di tendenze: che cosa si vuole di più per affermare la distinzione di queste due nature?

LIX. Realtà della ragion pubblica.Ma che idea farsi di questa ragione collettiva, che resiste

con tanta forza e con un successo cosi completo alle fan­tasie della ragione individuale? È forse un’anima, uno spi­rito, una entelechia, qualche cosa come ciò che immaginiamo quando parliamo dello spirito divino, delle intelligenze celesti, della nostra anima immateriale e immortale?

E perché no, se la comprensione non può concepire altri­menti la cosa? L’intelligenza è ovunque, latente o cosciente, abbiamo osservato più sopra. È quanto diceva, in altri termini, il filosofo: Lo spirito dorme nella pietra, sogna nell'animale, ragiona nell’uomo. Perché non dovrebbe anche ragionare nell’umanità?

Ma scartiamo queste concezioni ardite. Non è cosi che la Rivoluzione, presentando se stessa, deve porre la sua ragione e procedere alla disciplina delle idee.

Nella misura in cui essa elimina dal suo programma le confessioni della legge religiosa e tutte le invenzioni della filosofìa trascendente, rivelazione, dogma, autorità, gerar­chia, Chiesa, disciplina; nella m isura in cui essa respingelo spiritualismo cartesiano, allo stesso titolo del materiali­smo di Epicuro, essa non può concepire la Ragione pubblica come una entità metafìsica a parte, un Logos anteriore e superiore, ma solo come la risultante di tu tte le ragioni o idee particolari, le cui ineguaglianze, provenienti dalla con­cezione dell'assoluto e dalla sua affermazione egoistica, si compensano grazie alla loro critica reciproca, e si annullano;

Una ragione costituita da un risultato, voi dite, è come imo spirito che si può comporre, o un'anima formata da parti: ciò ripugna al nostro sentimento deH’unità, alla no­stra concezione della semplicità, dell’identità del nostro io.

Ma voi ragionereste, in ogni modo, dell’assoluto, come

Page 112: Berti, Proudhon

120 Testi

se ne aveste una conoscenza dimostrativa e empirica? Che cosa sapete del vostro io e della sua semplicità, o anime semplici che siete? E siccome vi concepite gratuita­mente, senza prova alcuna, grazie solo al vostro assoluti­smo, come soggetto semplice, ne consegue forse che voi non possiate e non dobbiate concepirvi ugualmente, quando la spiegazione dei fatti lo richiede, come ima risultante?

Come abbiamo visto il concorso delle forze produrre una risultante diversa qualitativamente dalle forze che la com­pongono, e superiore alla loro somma; cosi vediamo cheil conflitto delle opinioni genera una ragione diversa quali­tativamente, e superiore in potenza, rispetto alla somma di tutte le ragioni particolari che la producono con la loro contraddizione.

Dico diversa qualitativamente: è provato dall'antago­nismo delle due ragioni. Aggiungo superiore in potenza:il progresso della società lo dimostra.

In effetti, per quanto voi facciate grande la ragione del­l’individuo, questa sarà sempre mescolata con elementi passionali, egoistici, trascendentali, in una parola assoluti­stici. Ciò si osserva nei movimenti della moltitudine, nei pregiudizi nazionali, negli odi di un popolo per un altro popolo, cosi spesso decorati con l’apparenza verbale del patriottism o: tu tte cose che non sono altro che assoluti­smo individuale, moltiplicato per il numero di gusci d’ostri­ca che lo esprimono. È per questo che il genere umano è stato vittim a cosi a lungo di istituzioni e di idee che sem­bravano ricevere la loro autorità dalla Ragione pubblica, nella quale si sarebbe rivelata, almeno cosi si pensava, la volontà degli dèi, m entre non erano che mostruose escrescenze della ragione individuale.

Orbene, noi vediamo la ragione collettiva distruggere incessantemente, con le sue equazioni, il sistema formato dalla condizione delle ragioni particolari: dunque essa non è soltanto diversa, essa è anche superiore alle ragioni indi­viduali, e la sua superiorità deriva proprio dal fatto che l’assolutismo, che occupa un posto cosi grande nelle altre, davanti ad essa scompare.

Conveniamo dunque che la ragione collettiva non è una parola vana: è, innanzitutto e indubitabilmente, un rap­porto. Orbene, siccome il rapporto, o ragione delle cose, è in ogni cosa il fatto fondamentale, la realtà più alta, io dico che la ragione collettiva, che risulta dall’antagonismo delle ragioni particolari, come il potere pubblico risulta dal concorso delle forze individuali, è una realtà allo stesso titolo di questo potere; e siccome queste realtà si riuni­scono nella medesima collettività, ne concludo che esse

Page 113: Berti, Proudhon

La ragione collettiva 121

formano i due attributi essenziali dello stesso essere, la ragione e la forza.

È questa Ragione collettiva, teorica e pratica nello stesso tempo, che da tre secoli a questa parte ha cominciato a dominare il mondo e a spingere la civiltà sulla via del progresso; è essa che ha fatto prevalere il principio di tolle­ranza religiosa, creato il diritto pubblico e il diritto delle genti, gettato le fondamenta della confederazione europea, proclamato l’eguaglianza davanti alla legge, resa la filosofia tanto sacra quanto la stessa religione. È essa che i tribu­nali e le accademie dei dotti si sforzano di esprimere nel loro stile, e che ogni scrittore, ogni artista, invoca in ultima istanza, dopo aver dato sfogo alla propria soggettività nella composizione della sua opera.

[...].

LX. Organismo della ragione pubblica.Siccome l’idea dell’assoluto si è realizzata in tutte le

creazioni dell’antico regime, l’idea della Giustizia deve realizzarsi, al suo posto, in tutte le istituzioni del nuovo regime.

Voi chiedete quale sia l’organo della ragione collettiva?Naturalmente non può essere l’individuo, benché l’indi­

viduo sia capace, per l’abitudine alla dialettica e per pratica della Giustizia, di esprimere, con più o meno felicità, il pensiero generale. Troppo assolutismo si mescola alle opere della personalità, perché essa possa esser presa come arbitro del diritto.

L’organo della ragione collettiva è l’organo stesso della forza collettiva: il gruppo lavoratore, istruttore; la compa­gnia industriale, dotta, artistica; le accademie, scuole, mu­nicipalità; l’assemblea nazionale, il club, la giuria; in una parola, qualsiasi riunione d'uomini formata per la di­scussione delle idee e la ricerca del diritto: Ubicumque fuerint duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum 2.

C’è da prendere una sola precauzione: quella di assi­curarsi che la collettività interrogata non voti come un sol uomo, in virtù di un sentimento particolare divenuto co­mune; ciò condurrebbe a una immensa truffa, come si può constatare nella maggior parte dei giudizi popolari. Com­battere contro un solo uomo, è la legge della guerra: votare come un sol uomo, è il sovvertimento della ragione.

Poniamo piuttosto questa massima: l’impersonalità della ragione pubblica presuppone, come principio, la maggiore contraddizione possibile, come organo, la maggior molte-

Page 114: Berti, Proudhon

122 Testi

Plicità possibile. Ed è solamente allo scopo di assicurare questa impersonalità che può essere opportuno creare una m agistratura speciale per la sorveglianza dei dibattiti e la salvaguardia dell’opinione. Quante volte, ahimè!, da sessan­ta anni a questa parte, non abbiamo avuto occasione di riconoscere l’inanità della salvaguardia pubblica, quando essa non ha per organo un potere incaricato di rappresen­tarla e di agire d'ufficio in suo nome, come il pubblico mi­nistero è incaricato, in nome della sicurezza generale, della repressione dei delitti e dei crimini?

Se le nostre accademie avessero mantenuto lo spirito delle loro origini, se avessero la sia pur più piccola idea della loro missione, se l’ipocrisia della trascendenza non avesse falsato la loro coscienza come il loro intelletto, nulla sarebbe per loro più facile dell’assunzione di questa alta giurisdizione sulle opere dell'intelligenza. Non è più difficile distinguere ciò che deriva da una ragione legittima da ciò che è solo il prodotto del misticismo o dell’assolutismo in un libro di storia, di economia, di politica, di morale, di letteratura, in un discorso, che segnalare la stessa diffe­renza nelle cose della fisica e della storia naturale.

[...].Nei confronti dell’assoluto siamo in istato di guerra.

Fino a quando l’umanità non avrà scosso questo terrore, e d iritto e dovere della Rivoluzione perseguirne ovunque le vestigia e neutralizzarne l’influenza. Ne dipendono la no­stra m oralità e il nostro progresso. Altri, in odio alla Chiesa, •a cui condotta dopo il 1848 ha ingannato la loro attesa, voteranno la soppressione del bilancio dei culti: è una soddisfazione promessa alla Rivoluzione della quale non no più da occuparmi. Io chiedo che il giorno dopo questo voto non si apra un credito per la celebrazione di qualche lesta in onore dell’Essere supremo; io chiedo che la fede teologica rimanga in avvenire nei cuori dei credenti, dive­nuti seriamente, secondo la parola del Vangelo, adoratori m ispirito. Quanto alla moltitudine la sola religione che le convenga ormai è quella della sua dignità. Insegniamo, a Questa moltitudine troppo a lungo avvilita, che l’idea di Uio le fu data come allegoria della Giustizia; e Dio e la Giustizia ci guadagneranno entrambi: il primo, di m eritare alfine la nostra stima; la seconda, di non essere più tenuta m scacco dalla sua sedicente cauzione.

LXI. La ragione pubblica, sola garanzia della fede pub­blica.

Dove l’assoluto regna, dove l’autorità pesa sulla opinione Pubblica, dove l’idea di una essenza soprannaturale serve

Page 115: Berti, Proudhon

La ragione collettiva 123

da base alla morale, dove la ragion di Stato domina su tu tti i rapporti sociali, è inevitabile che la devozione a questa essenza, l’autorità che la rappresenta, le eccezioni al diritto e al dovere che essa crea, gli interessi che essa fa nascere, abbiano la meglio, nei cuori, sul rispetto della fede pubbli­ca: il che vuol dire che, essendo violata la ragione pub­blica, la fede pubblica è nulla.

Questo è l’ultimo grado di depravazione al quale possa giungere una società.

È già un male assai grande — i nostri Studi precedenti sono serviti a farlo capire — che, in conseguenza dell’in­vasione dell’assoluto, ogni Giustizia si trovi distrutta nelle relazioni umane, nella economia, nel governo, nell'educazio- ne, nel lavoro. Ma l’im m oralità non si arresta qui: in una società abbandonata di fatto al probabilismo, la fedeltà agli impegni, la costanza nelle massime e nella condotta, diven­gono sempre più rare; in modo che all’iniquità generale delle situazioni si aggiungono, con quanto hanno di più odioso, la menzogna, il tradimento, la venalità, e per con­traccolpo, il sospetto ingiusto e la calunnia.

Chi potrebbe vivere in una società dalla quale fosse bandita ogni fede?... Orbene, quando mai la fede pubblica fu più indegnamente violata, quando mai il disprezzo dei principi e dei giuramenti fu praticato su una scala più grande, che dopo la Rivoluzione?

Quando, in seguito alle giornate del luglio 1830, si scrisse sulla nuova carta che non c’era più ima religione d i Stato, tu tti compresero immediatamente la portata di questo emendamento. Scomparso dalla costituzione l ’asso­luto teologico, nel corpo politico non potevano più esistere né partiti, né antagonismo, fondati su di esso, e perciò né ipocrisia, né apostasia e nemmeno favoritismo o martirio. Non c'era nulla da guadagnare o da perdere, davanti allo Stato, nel seguire una religione piuttosto che un’altra, e non si era affatto biasimati se non se ne professava alcuna. Rispetto alla cosa pubblica, la costanza o la defezione nella fede religiosa erano orm ai un non senso. Il tradimento non poteva più esistere che fra zelatori dello stesso culto e per le cose del culto; fuori della sua Chiesa, se apparte­neva a una Chiesa, il cittadino non era tenuto che ad essere onesto.

Orbene, quanto ha fatto per l’assoluto teologico, la Rivoluzione tende a farlo per l’assoluto politico ed econo­mico: innalzandosi al di sopra di ogni forma esteriore di governo, come di ogni classificazione, essa tende ad assicu­rare la libertà ed il benessere di tu tti per mezzo dell’equa-

Page 116: Berti, Proudhon

124 Testi

zione dei rapporti, che noi abbiamo altrove chiamata bilan­cia dei servizi e dei prodotti.

Essendo dunque il rapporto o la ragione delle cose, l ’equilibrio delle forze e degli interessi, in una parola il d iritto puro, astrazion fatta da ogni elemento assolutistico, ciò che la Rivoluzione cerca come il proprio oggetto, le opinioni extra-giuridiche in fatto di governo e di organiz­zazione sociale cadono, davanti ad essa, come le opinioni religiose; essa non se ne preoccupa più. Nei confronti dei p a r titi e delle scuole, sempre formati con un fine assolu­tistico , e che essa, d’altra parte, si guarda bene dal p ro ib ire in quanto costituiscono la vita stessa della società, la Rivoluzione professa la stessa imparzialità o indiffe­re n z a che nei confronti delle Chiese: il solo punto a proposito del quale essa si mostra intollerante è il rispetto della G iustizia, che essa rappresenta in modo esclusivo.

I n queste condizioni la fede pubblica è assicurata, a lm en o per ciò che riguarda gli interessi generali del paese. Effettivam ente, dal momento in cui il governo si lim ita a determ inare e ad assicurare dei rapporti, senza par­z ia l i tà per alcuna opinione o per alcun partito, per lo s te s s o governo come per tu tti non c’è più da temere a lc u n tradimento, né da esigere alcun giuramento*.

* Da P.-J. P roudhon , La giustizia nella rivoluzione e n e l la Chiesa, a cura di Mario Albertini, Utet, Torino 1968, p p . 757-771.

Page 117: Berti, Proudhon

V. CRITICA DEL PRINCIPIO DI AUTORITÀ

I. Negazione tradizionale del Governo. Emergenza del­l ’idea che gli succede.

La form a sotto la quale i primi uomini hanno concepito l ’ordine nella Società, è la forma patriarcale o gerarchica, cioè, in teoria l’Autorità, in pratica il Governo. La Giusti­zia, che più tardi è stata distinta in distributiva e commu­tativa, dapprima è apparsa loro solo sotto il primo aspetto: un su per io r e che dà a degli Inferiori ciò che ad ognuno di essi spetta.

L’idea di governo nacque dunque dai costumi della fami­glia e dall’esperienza domestica: allora non ci fu nessuna protesta, perché alla Società l’esistenza del Governo pareva un fatto naturale come il rapporto di subordinazione che nella famiglia si stabilisce tra padre e figli. Sicché il signor di Bonald ha potuto affermare, a ragione, che la famiglia è l’embrione dello Stato, del quale essa riproduce le categorie essenziali: il re nel padre, il ministro nella ma­dre, il suddito nel figlio. Anche per questo i socialisti della fratellanza, che considerano la famiglia come un elemento della Società, arrivano tu tti alla dittatura, la forma più esagerata di Governo. L’amministrazione del signor Cabet, nei suoi Stati di Nauvoo, ne è un bell'esempio.

Quanto tempo ancora ci occorrerà per comprendere questa filiazione di idee?

La concezione primitiva dell’ordine che discende dal Governo appartiene a tu tti i popoli: e se, fin dall’origine, gli sforzi che sono stati compiuti per organizzare, limitare, modificare l’azione del potere, per adeguarla ai bisogni generali e alle circostanze, pure dimostrano che c’era una negazione implicita nell’affermazione, è certo però che nessuna ipotesi antagonistica è s ta ta espressa; lo spirito è ovunque rimasto lo stesso. A mano a mano che le nazioni sono uscite dallo stato selvaggio e dalla barbarie, hanno imboccato immediatamente la strada del governo e seguito tutte lo stesso ciclo istituzionale: sono passate, tanto per usare categorie ormai comuni a tu tti gli storici e ai pubbli­cisti, dalla Monarchia, all’Aristocrazia, alla Democrazia.

Page 118: Berti, Proudhon

126 Testi

Ma c’è qualcosa di più grave ancora.. Il pregiudizio del governo è penetrato fin nel più prò- ?ndo delle coscienze, ha modellato la ragione a sua imma­

gine e somiglianza, tanto che qualsiasi concezione diversa Sl è resa per lungo tempo impossibile; e i pensatori più audaci sono arrivati alla conclusione che il Governo era una calamità senza dubbio, un castigo per l’umanità, e Però un male necessario!... _ .

Ecco perché, fino ai nostri giorni, le rivoluzioni più emancipatrici, e tu tti i fermenti di libertà, sono sbocciati c°stantemente in un atto di fede e di sottomissione al Potere; e perché tutte le rivoluzioni non sono servite che a ripristinare la tirannia: io qui non faccio eccezioni né Per la Costituzione del '93 né per quella del 1848, che pure sono le due espressioni più avanzate della democrazia Mancese. Ciò che ha mantenuto questa predisposizione mentale e reso cosi a lungo invincibile l’incanto, è il fatto ^ne, in seguito alla supposta analogia tra la Società e la *amiglia, il Governo si è sempre presentato come l’organo naturale della giustizia, il protettore del debole, il conser­vatore della pace. Considerato come un ente provvidenziale e altamente garante, il Governo è riuscito a radicarsi sia nei cuori che nelle menti! Partecipava dell’anima universale;£ra la fede, la superstizione segreta, invincibile dei cittadini.~e per caso si mostrava debole, di lui si diceva, come della Religione e della Proprietà: non è l’istituzione che è cattiva, e 1 abuso. Non è il re che è cattivo, sono i suoi ministri. Ah!Se venisse a saperlo il re!...

Cosi, al dato della gerarchia, dell’assolutismo, dell’au­torità governante, si aggiungeva un ideale intimo e m 9°stante contraddizione con l’istinto di eguaglianza e di 1''dipendenza: m entre il popolo, ad ogni rivoluzione, se- Buendo le ispirazioni del suo cuore, credeva di correggere ì vizi del suo Governo, veniva invece tradito dalle sue stesse 'dee; credendo di ripristinare il Potere a suo favore, in realtà se lo ritrovava sempre contro; invece che a un protet­tore, esso si consegnava a un tiranno.

L’esperienza mostra, in realtà, che, per quanto popolare Possa essere stata la sua origine, il Governo si è schierato sempre o ovunque dalla parte della classe più colta e più ricca contro quella più povera e più numerosa; che, dopo essersi mostrato per un po’ di tempo liberale, a poco a P°co è diventato governo d’eccezione, esclusivo; che, infine, invece di sostenere la libertà e l’eguaglianza fra tu tti, ha tatto di tu tto per distruggerle, in virtù della sua inclina­zione naturale al privilegio.

Page 119: Berti, Proudhon

Critica del principio di autorità 127

Noi abbiamo mostrato, in un altro studio, come, dal 1789, la Rivoluzione non abbia fondato nulla; la società, secondo l’espressione del signor Royer-Collard, sia stata ridotta in polvere; la distribuzione delle fortune affidata al caso; e, come di conseguenza, il Governo, che ha la missione di proteggere sia le proprietà che le persone, di fatto fosse istituito per i ricchi contro i poveri. Chi può negare adesso che questa anomalia, che pure si è pensato fosse specifica della costituzione politica del nostro paese, è comune a tu tti i governi? Mai si è vista la proprietà dipendere esclusi­vamente dal lavoro; in nessuna epoca il lavoro è stato garantito dall’equilibrio delle forze economiche: da questo punto di vista, la civiltà del XIX secolo non è più avanzata della barbarie delle prime età. L’autorità, difendendo i diritti di fatto stabiliti, proteggendo gli interessi acquisiti, si è schierata allora sempre dalla parte della ricchezza e contro la povertà: la storia dei governi è il martirologio del proletariato.

Questa inevitabile defezione del potere dalla causa popo­lare va analizzata soprattutto nel caso della democrazia, ultimo termine dell’evoluzione del principio di governo.

Cosa fa il popolo, quando, stanco dei suoi aristocratici, indignato per la corruzione dei suoi principi, proclama la propria sovranità, ovvero l’autorità dei propri suffragi?

Esso si dice:Innanzitutto, nella società ci vuole ordine. Custode di

questo ordine, che deve essere per noi la libertà e l’egua­glianza, è il Governo. Ebbene: controlliamo il Governo; la costituzione e le leggi diventino l’espressione della nostra volontà; facciamo in modo che funzionari e magistrati, eletti da noi al nostro servizio e revocabili in qualunque mo­mento, non possano mai intraprendere qualcosa di diverso da quello che la volontà del popolo avrà stabilito. Possiamo essere sicuri allora, a condizione che la nostra sorveglianza non si allenti mai, che il Governo curerà i nostri interessi; che non servirà soltanto ai ricchi, non sarà più preda di ambiziosi e intriganti; le cose andranno avanti a nostro piacimento e a nostro vantaggio.

Cosi ragiona la massa in tutte le epoche di oppressione. Ragionamento semplice, di una logica elementarissima, e che riesce sempre a produrre il suo risultato. Anche se questa massa, d ’accordo con i signori Considérant e Rittin- ghausen, arrivasse fino ad affermare: I nostri nemici sono quelli stessi che noi mandiamo al governo; quindi, gover­niamoci da noi, e saremo liberi; la logica non cambierebbe. Se non cambia il principio, cioè il Governo, non può cam­biare neppure la conclusione.

Page 120: Berti, Proudhon

128 Testi

Sono ormai mille anni che questa teoria risarcisce le classi oppresse e gli oratori che le difendono. Il governo diretto non risale né a Francoforte, né alla Convenzione, ne a Rousseau: ha la stessa età del governo indiretto, risale alla fondazione delle società.

« Niente monarchia ereditaria,Niente presidenza,Niente rappresentanza.Niente delega,Niente alienazione del potere,Governo diretto,i l popolo! nell’esercizio permanente della sua sovranità ».

. Che c’è dunque alla base di questo ritornello che si è ripreso come se fosse una tesi nuova e rivoluzionaria, e che Ateniesi, Beoti, Lacedemoni, Romani, ecc., non abbiano g>à conosciuto, praticato, molto prima della nostra èra? Non si tratta sempre dello stesso circolo vizioso, sempre dello stesso precipitare verso l’assurdo, che dopo aver esaurito, eliminato una dopo l’altra monarchie assolute, m onarchie aristocratiche o rappresentative, democrazie, giunge a toccare il limite del governo diretto, per ricomin­ciare daccapo con la dittatura a vita e la monarchia eredi­ta ria? Presso tutte le nazioni, quella del governo diretto è s ta ta l’epoca palingenetica delle aristocrazie d istrutte e d e i troni spezzati: questo tipo di governo non ha potuto reggersi neppure presso popoli, come quelli di Atene e ^ p a r ta , che avevano il vantaggio di ima popolazione mini- jp a e del servizio degli schiavi. Da noi sarebbe il preludio d e l cesarismo, nonostante le nostre ferrovie, le poste, i tele- g ra n ; nonostante la semplificazione delle leggi, la revoca­b il ità dei funzionari, la forma imperativa del mandato.. 1 darebbe precipitare verso la tirannia imperiale tanto più i n fre tta , in quanto i nostri proletari non vogliono più essere s a la r ia ti, i proprietari non sopporterebbero di essere spos­se s sa ti , e i fautori del governo diretto, ponendo ogni cosa s u l piano della politica, sembrano non avere alcuna idea (lelrorganìzzazione economica. Un altro passo in questa d irez io n e , e rispunta l’aurora dell’èra dei Cesari: a una d em o craz ia inestricabile succederà, senza altri passaggi,1 im p ero , con o senza Napoleone.

Occorre uscire da questo cerchio infernale. Occorre tra ­v e r s a r e , da parte a parte, l’idea politica, la vecchia nozione d i giustizia distributiva e giungere a quella di giustizia com­m u ta t iv a , che, nella logica della storia come in quella del d i r i t t o , le succede. Eh! voi che volete non vedere, che cer­c a t e t r a le nuvole qualcosa che già avete sottomano, rileg­g e t e i vostri autori, guardatevi intorno, analizzate le vostre

Page 121: Berti, Proudhon

Critica del principio d i autorità 129

stesse formule, e troverete la soluzione, che si trascina da tempo immemorabile attraverso i secoli, e che voi, insieme con i vostri corifei, non avete mai degnato di imo sguardo.

Nella ragione generale tutte le idee sono coeteme: esse appaiono una dopo l’altra soltanto nella storia, dove, a mano a mano, esse si vengono a mettere alla testa delle cose e in prim a fila. L’operazione con la quale un’idea viene espulsa dal potere, nella logica, si chiama negazione; quel­la con la quale un’altra idea s’insedia, si chiama afferma­zione.

Ogni negazione rivoluzionaria implica dunque una af­fermazione susseguente; questo principio, che la pratica delle rivoluzioni dimostra, riceverà a questo punto una conferma meravigliosa.

La prim a negazione autentica che sia sta ta fatta dell’idea di autorità è quella di Lutero. Questa negazione, tuttavia, non è andata al di là della sfera religiosa: Lutero, come Leibniz, Kant, Hegel, era uno spirito essenzialmente di go­verno. La sua negazione ha preso il nome di libero esame. Ora, che cosa nega il libero esame? L’autorità della Chiesa. Che cosa suppone? L’autorità della ragione. Che cos’è la ragione? Un patto tra l ’intuizione e l’esperienza. L’autorità della ragione: questa è dunque l ’idea positiva, eterna, che la Riforma ha sostituito all’autorità della fede. Se un tempo la filosofia dipendeva dalla rivelazione, sarà ormai la rive­lazione ad essere subordinata alla filosofìa. Sono invertite le parti, il governo della società non è più lo stesso, la mo­rale è cambiata, il destino stesso sembra modificarsi. Già si può scorgere, al punto in cui siamo, la vera portata di quel rinnovamento di sogno caratterizzato dalla successio­ne del verbo dell’uomo alla parola di Dio. Lo stesso movi­mento sta per prodursi nella sfera delle idee politiche.

Dopo Lutero, il principio del libero esame, fu traspor­tato, soprattutto da Jurieu, dallo spirituale al temporale. Alla sovranità del diritto divino, l’avversario di Bossuet oppose la sovranità del popolo; cosa che egli espresse con grandissima precisione, forza, profondità, nell’idea di Pattoo Contratto sociale, ponendola manifestamente in con­traddizione con quelle di potere, autorità, governo, impe­rami, àpx^).

Che cos’è in realtà il Contratto sociale? L’accordo del cittadino con il governo? No: sarebbe come girarsi e rigi­rarsi nella stessa idea. Il contratto sociale è l’accordo del­l’uomo con l’uomo, accordo dal quale deve derivare ciò che noi chiamiamo società. Qui, la nozione di giustizia com­m utativa, posta dal fatto primitivo dello scambio e defi­nita dal diritto romano, viene sostituita a quella di giustizia

Page 122: Berti, Proudhon

130 Testi

distributiva, definitivamente liquidata dalla critica repub­blicana. Traducete queste parole, contratto, giustizia com­mutativa, che appartengono alla lingua giuridica, nella lin­gua degli affari, e avrete il c o m m er c io , cioè, nel significato Più elevato, l’atto attraverso il quale l’uomo e l’altro uomo, ui quanto si dichiarano essenzialmente produttori, rinun­ciano l ’uno nei confronti dell’altro a ogni aspirazione al ooverno.

La giustizia commutativa, il dominio dei contratti, in altri termini, il dominio economico o industriale, questi sono i vari sinonimi dell’idea che, con il suo avvento, deve sopprimere il vecchio sistema della giustizia distributiva, del dominio delle leggi, in termini più concreti, il regime feudale, governativo o militare. L’avvenire dell’umanità sta ln questa sostituzione *.

Da P .-J. P ro u d h o n , Idée générale de la révolution au XIX ora in P . A n s a r t , P.-J. Proudhon (Estratti), La Pietra,

Milano 1978, pp. 155-159.

Page 123: Berti, Proudhon

VI. LA CRITICA DELLO STATO

Noi dunque affermiamo, e finora siamo i soli a farlo, che con la rivoluzione economica, da nessuno ormai rimessa in discussione, lo Stato deve sparire completamente; che tale scomparsa dello Stato è la conseguenza necessaria dell’or­ganizzazione del credito e della riforma dell’imposta; che, in seguito a questa doppia innovazione, il governo diventa del tu tto inutile e impossibile; che, a tal proposito, il go­verno è destinato a fare la stessa fine della proprietà feu­dale, del prestito a interesse, della monarchia assoluta o costituzionale, delle istituzioni giudiziarie, ecc., tutte cose che sono si servite all'educazione della libertà, ma che ca­dono e svaniscono allorquando la libertà ha raggiunto la sua pienezza.

Altri, invece, e tra questi Louis Blanc e Pierre Leroux in prima fila, sostengono che dopo la rivoluzione economica, bisogna mantenere lo Stato, di cui però fino a questo mo­mento non hanno fornito né il principio né il piano. Per essi la questione politica, invece di annullarsi o di identi­ficarsi con la questione economica, continua a sussistere; essi mantengono e allargano ulteriormente lo Stato, il po­tere, l ’autorità, il governo. In effetti, si divertono a cam­biare i nomi; al posto di Stato-padrone, ad esempio, dicono Stato-servitore, come se bastasse cambiare le parole per trasform are le cose! Al di sopra di questo sistema di go­verno, del tutto misterioso, aleggia un sistema religioso, del quale ogni cosa, il dogma, il rito, lo scopo, sulla terra e in cielo, rimangono altrettanto misteriosi.

In un momento come questo, dunque, un momento d'ac­cordo, o quasi, sul resto delle questioni, la domanda su cui si trova divisa la democrazia socialista è la seguente: dovràlo S tato continuare ad esistere una volta risolto il proble­ma del lavoro e del capitale? In altri termini, continueremo ad avere, cosi come l ’abbiamo avuta fino ad ora, ima Co­stituzione politica al di fuori della Costituzione sociale?

Noi rispondiamo di no. Sosteniamo che, una volta iden­tificati il capitale e il lavoro, la società sussiste da sola e non ha più bisogno del governo. Noi siamo, di conseguen­

Page 124: Berti, Proudhon

132 Testi

za , e l’abbiamo proclamato più di una volta, anarchici. Uanarchia è la condizione d’esistenza delle società adulte, cosi come la gerarchia è la condizione d ’esistenza delle so­cietà primitive: nelle società umane, esiste un incessante progresso dalla gerarchia all’anarchia.

Louis Blanc e Pierre Leroux affermano il contrario: ol­t r e alla loro qualità di socialisti, essi conservano quella di po litic i) sono uomini di governo e di autorità, uomini di S ta to .

Per risolvere una volta per tu tte questo contrasto di opi­n ion i, ci sembra allora necessario considerare lo Stato, non p iù dal punto di vista della vecchia società, che lo ha na­tu ralm ente e necessariamente prodotto e che sta per finire; "bensì dal punto di vista della società nuova, cosi come la fa n n o o devono farla le due riforme fondamentali e com­plem entari del credito e dell’imposta.

Ora, se noi proviamo che da quest’ultimo punto di vista,l o Stato, considerato nella sua natura, riposa un un ’ipotesi com pletam ente falsa; che in secondo luogo, considerato nel s u o oggetto, lo Stato giustifica la sua esistenza con una se­co n d a ipotesi, ugualmente falsa; che infine, considerato nel­l ’ottica di ima sua ulteriore prolungazione, lo Stato può con­ta r e ancora e soltanto su ima terza ipotesi, falsa come le p r im e due: una volta chiariti questi tre punti, il nodo della «questione sarà sciolto, lo Stato riconosciuto cosa superflua, «quindi nociva, impossibile; il governo sarà una contraddi­z ione .. Passiamo subito all’analisi:

"I. Della natura dello Stato

« Che cos’è lo Stato? » si domanda Louis Blanc.E risponde:« Lo Stato, in un regime monarchico, è il potere di un

i_iomo, la tirannia in uno solo.Lo Stato, in un regime oligarchico, è il potere di un nu­

m e ro ristretto di uomini, la tirannia in pochi.Lo Stato, in un regime aristocratico, è il potere di una

c la sse , la tirannia in molti.Lo Stato, in un regime anarchico, è il potere del primo

■venuto che è per caso il più intelligente e il più forte; è la t i r a n n ia nel caos.

Lo Stato, in un regime democratico, è il potere di tu tto i l popolo, servito dai suoi eletti; è il regno della Libertà ».

T ra i venticinque o trentamila lettori di Louis Blanc,

Page 125: Berti, Proudhon

La critica dello S tato 133

forse non ce ne sono neppure una decina a cui questa de­finizione dello Stato non sia sembrata dimostrativa, e che non ripetano, seguendo il maestro: lo Stato è il potere di imo, di pochi, di molti, di tu tti o del primo venuto, a se­conda che si aggiunga alla parola Stato uno degli aggettivi seguenti: monarchico, oligarchico, aristocratico, democra­tico o anarchico. I delegati del Luxembourg — che, a quan­to pare, si sentono defraudati se qualcuno si permette di avere una opinione diversa dalla loro sul significato e le tendenze della Rivoluzione di Febbraio —, in una lettera resa pubblica, mi hanno fatto l’onore di informarmi del fatto che essi giudicavano la risposta di Louis Blanc deci­samente vittoriosa, e che io non avevo altro da ribattere. A quanto pare, tra i cittadini delegati, nessuno ha studiato il greco. Perché altrim enti si sarebbero accorti che il loro m aestro e amico Louis Blanc, al posto di dire che cosa èlo Stato, non ha fatto altro che tradurre in francese le pa­role greche monos, uno; oligoi, alcuni; aristoi, i grandi; dem os, il popolo, e a privativo, che indica la negazione. Servendosi esattamente di questi termini qualificativi, Ari­stotele ha potuto distinguere le differenti forme dello Stato, che si esprime a sua volta con arche, autorità, governo, Stato. Chiediamo scusa ai nostri lettori, ma non è affatto colpa nostra se la scienza politica del presidente del Luxem­bourg non va più in là dell'etimologia.

E si noti l’artificio! Nella sua traduzione, è bastato a Louis Blanc introdurre prim a quattro volte la parola ti­rannia, tirannia di uno solo, tirannia di molti, ecc., e poi sopprimerla una volta, potere del popolo, servito dai suoi eletti, per riscuotere a primo colpo gli applausi. È tirannia qualunque tipo di Stato che non sia quello democratico, nel senso in cui l’intende Louis Blanc. Soprattutto l’anar­chia è tra tta ta in un modo particolare: è il potere del primo venuto che è per caso il più intelligente e il più forte-, è la tirannia nel caos. Che mostro questo primo venuto, che, benché sia il primo venuto, è per caso anche il più intelli­gente e il più forte ed esercita la sua tirannia nel caos! Se cosi stanno le cose, chi potrebbe preferire l'anarchia a que­sto affabile governo di tutto il popolo, servito cosi bene, come si sa, dai suoi eletti? Che grande vittoria! E noi per terra, fin dal primo colpo. Ah! retore, ringraziate Iddio d’aver creato apposta per voi, nel XIX secolo, un’idiozia come quella dei vostri cosiddetti delegati delle classi ope­raie, senza di che sareste morto sotto i fischi la prima volta che avete preso in mano una penna.

Che cos’è lo Stato? A questa domanda bisogna dare una risposta: l’enumerazione delle varie specie di Stati che,

Page 126: Berti, Proudhon

134 Testi

sulle orme di Aristotele, ha fatto il cittadino Louis Blanc, non ci ha insegnato nulla. Quanto a Pierre Leroux, non vale la pena interrogarlo: ci risponderebbe che la domanda è indiscreta, che lo Stato è sempre esistito, che esisterà sem­pre: è la ragione ultim a dei conservatori e delle bonnes femmes.

Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.A causa di questa costituzione esterna della sua potenza

e sovranità, il popolo non si governa da sé: c’è sempre qualcuno, a volte un solo individuo, a volte molti, a titolo elettivo o ereditario, incaricato di governarlo, amministra­re i suoi affari, tra ttare e fare compromessi in suo nome, fungere insomma da capofamiglia, tutore, gerente o m an­datario, munito di procura generale, assoluta e irrevocabile.

Questa costituzione esterna della potenza collettiva, che i Greci chiamarono arché, principato, autorità, governo, riposa dunque sull’ipotesi secondo cui un popolo, quell’es­sere collettivo che chiamiamo società, non può governarsi, pensare, agire, esprimersi in modo autonomo, proprio come fanno gli esseri dotati di personalità individuale; e perciò ha bisogno di farsi rappresentare da uno o più individui, i quali, con qualsiasi titolo, sono ritenuti depositari della volontà del popolo e suoi agenti. Secondo tale ipotesi, è impossibile che la potenza collettiva, che appartiene es­senzialmente alla massa, s’esprima e agisca direttamente, senza la mediazione di organi fatti apposta e per cosi dire disposti ad hoc. A quanto pare — il che spiega la forma­zione di tu tte le varietà e specie dello Stato —, l’essere collettivo, la società, proprio perché è un essere razionale, non può rendersi sensibile, esteriorizzarsi, se non tram ite incarnazione monarchica, usurpazione aristocratica o m an­dato democratico; di conseguenza, gli è impedita ogni m a­nifestazione propria e personale.

Ora, è precisamente questa nozione astra tta dell’essere collettivo, della sua vita, della sua azione, della sua unità, della sua individualità, della sua personalità — perché, ca­pite, la società è una persona come è una persona l'umanità tu tt’intera —; è questa nozione dell’essere umano collettivo, come ente di ragione, che noi neghiamo oggi; e perciò ne­ghiamo anche lo Stato, neghiamo il governo, respingiamo dalla società trasform ata dalla rivoluzione economica qual­siasi costituzione della potenza popolare che si ponga al di fuori e al di sopra della massa, assuma essa sembianze di monarchia ereditaria, istituzione feudale o delegazione democratica.

Affermiamo, invece, che il popolo, la società, la massa, può e deve governarsi autonomamente, pensare, agire, al­

Page 127: Berti, Proudhon

La critica dello Stato 135

zarsi e arrestarsi come un uomo, m anifestarsi insomma nella sua individualità fisica, intellettuale e morale, senza l’aiuto di quella specie di sostituti che in passato furono i despoti, adesso sono gli aristocratici, qualche altra volta sono stati i pretesi delegati, devoti o servitori della folla, e che noi chiamiamo puramente e semplicemente agitatori del popolo, Demagoghi.

In due parole; neghiamo il governo e lo Stato perché af­fermiamo — e questo i fondatori di Stato non l’hanno mai creduto — la personalità e l’autonomia delle masse.

Inoltre affermiamo che ogni costituzione di Stato ha il solo scopo di condurre la società a questo stato di auto­nomia; che le varie forme di Stato, dalla monarchia asso­luta fino alla democrazia rappresentativa, sono tutte mezzi termini, posizioni illogiche e instabili, che hanno di volta in volta una funzione transitoria o di tappe verso la libertà, nel senso che formano i gradi della scala politica attraverso cui le società si elevano alla coscienza e al possesso di sé stesse.

Affermiamo, infine, che questa anarchia, che è l’espres­sione, come si vede, del più alto grado di libertà e ordine a cui possa giungere l’umanità, è la vera formula della Re­pubblica, lo scopo verso il quale ci spinge la Rivoluzione di Febbraio; sicché c’è contraddizione tra Repubblica e gover­no, tra il suffragio universale e lo Stato.

Noi fondiamo queste affermazioni sistematiche su due procedimenti: dimostrando in primo luogo, con il metodo storico e negativo, che qualsiasi costituzione di potere, qual­siasi organizzazione della forza collettiva che si basi su un processo di esteriorizzazione, per noi è diventata impos­sibile. È quanto abbiamo incominciato a fare nelle Confes­sioni di un Rivoluzionano, col raccontare la caduta di tu tti i governi che si sono succeduti in Francia da sessantanni a questa parte, mettendo in evidenza la causa della loro abo­lizione, e insistendo alla fine sull’esaurimento e la morte del potere sotto il regno corrotto di Luigi Filippo, durante la dittatura inerte del governo provvisorio e la presidenza insignificante del generale Cavaignac e di Luigi Bonaparte.

In secondo luogo, noi proviamo la nostra tesi, spiegando in quale modo, con la riform a economica, la solidarietà in­dustriale e l’organizzazione del suffragio universale, il po­polo passi dalla spontaneità alla riflessione e alla coscienza; agisca, non più per impulso e fanatismo, ma con intenzione; si muova senza padroni e servitori, senza delegati e aristo­cratici, proprio come farebbe un individuo. In questo modo, la nozione di persona, l’idea dell’io, si estende e generalizza: c’è la persona o l'io individuale, e c’è pure la persona o l’io

Page 128: Berti, Proudhon

136 Testi

collettivo; in tutti e due i casi, la volontà, l’azione, l’anima,lo spirito, la vita — cose del tutto misteriose e inafferrabili per chi ne rincorra il principio o ne ricerchi l’essenza —, sono inseparabili dalla loro esistenza animale e vitale, dal­l’organizzazione. La psicologia delle nazioni e dell’umanità diventa, come la psicologia dell'uomo, una scienza possibile. Noi abbiamo annunciato questo tipo di dimostrazione po­sitiva sia nelle nostre pubblicazioni sulla circolazione e il credito, sia nel capitolo XIV del manifesto de « La Voix du Peuple », riguardante la costituzione.

Sicché, quando Louis Blanc e Pierre Leroux s’erigono a difensori dello Stato, cioè di ima costituzione esterna della potenza pubblica, non fanno che riprodurre, a modo loro e in forme che non ci hanno ancora fatto conoscere, la vec­chia finzione del governo rappresentativo, la cui formula integrale, l’espressione più completa, è ancora quella della m onarchia costituzionale. Perché abbiamo fatto la Rivolu­zione di Febbraio, forse per arrivare a questa contraddizione retrograda?

A noi sembra — voi che ne dite, lettori? — che la que­stione si stia un po’ chiarendo; dopo quello che abbiamo appena detto, i poveri di spirito saranno in grado di farsi u n ’idea dello Stato, di capire perché mai dei repubblicani si chiedono se sia davvero indispensabile, dopo ima rivolu­zione economica che modifica tutti i rapporti sociali, m an­tenere quell’organo parassitario chiamato governo solo per soddisfare la vanità di pretesi uomini di Stato e al prezzo di 2 m iliardi all’anno. E gli onorevoli delegati del Luxem- b ourg che, solo perché occupano qualche poltrona, si cre­dono uomini politici e si aggiudicano risolutamente la com­prensione esclusiva della Rivoluzione, senza dubbio cesse­ran n o di temere che noi, a titolo di più intelligenti e di piti forti, dopo aver soppresso, perché inutile e troppo costoso, il governo, instaureremo la tirannia nel caos. Noi neghiam o lo Stato e il governo; noi affermiamo l’autonomia del Popolo e sosteniamo al tempo stesso la sua maggio­ranza. Potremmo m ai essere fautori della tirannia, aspiranti al m in istero , competitori di Louis Blanc e Pierre Leroux?

I n verità, non riusciamo a capire la logica dei nostri avversari. Essi accettano un principio senza preoccuparsi delle conseguenze; si dichiarano d’accordo, ad esempio, sull'eguaglianza dell’imposta che l’imposta sul capitale rea­lizza; adottano il principio del credito popolare, reciproco e g ra tu ito , perché tu tti questi termini sono sinonimi; appro­vano la decadenza del capitale e l’emancipazione del lavoro; quando poi arriva il momento di dedurre da tali premesse le conseguenze antigovemative, protestano, continuano a

Page 129: Berti, Proudhon

La critica dello Stato 137

parlare di politica e di governo, senza domandarsi se il governo è compatibile con la libertà e l’eguaglianza indu­striale; se è possibile una scienza politica, quando è neces­saria ima scienza economica! [...]. Per loro il governo è l'a priori necessario e immutabile, il principio dei principi, Yarché eterna.

Certo, non scambiamo per prove le nostre affermazioni, sappiamo, come chiunque altro, a quali condizioni si dimo­stra una proposizione. Diremo soltanto che, prima di pas­sare a una nuova costituzione dello Stato, bisognerebbe chiedersi se, proprio per le riforme economiche che la Rivo­luzione ci impone, non debba essere abolito lo Stato in quanto tale; se cioè la fine delle istituzioni politiche non sia implicita già nel senso e nella portata della riforma eco­nomica. Chiediamo se, in realtà, dopo l'esplosione di feb­braio, la instaurazione del suffragio universale, la dichia­razione del potere alla volontà popolare, sia ancora possi­bile un qualunque tipo di governo; se questo governo non si ritroverebbe poi di fronte all’eterna alternativa, o di obbe­dire docilmente alle ingiunzioni cieche e contraddittorie della folla, o di ingannarla deliberatamente, come ha fatto il governo provvisorio, come hanno fatto sempre i dema­goghi. Perlomeno, vorremmo sapere quali delle diverse attribuzioni dello Stato debbano essere conservate e allar­gate, e quali soppresse. Perché, se per caso, cosa del tutto prevedibile, neppure una delle attuali attribuzioni dello Stato sopravvivesse alla riforma economica, si dovrebbe allora ammettere, in base a tale dimostrazione negativa, che, nella nuova condizione sociale, lo Stato non è nulla, non può essere nulla; in due parole, che il solo modo per organizzare il governo democratico, è la soppressione del governo.

Invece di tentare un’analisi positiva, pratica, realistica, del movimento rivoluzionario, che fanno i nostri pretesi promotori? Vanno a consultare Licurgo, Platone, Orfeo e tu tta la saggezza mitologica: interrogano le vecchie leggen­de; si aspettano dai classici antichi la soluzione di pro­blemi assolutamente moderni, e poi per risposta ci pro­pinano le illuminazioni vertiginose del loro cervello.

E, di nuovo, sarebbe questa la scienza della società e della Rivoluzione che doveva, a prima vista, risolvere tutti i problemi, la scienza essenzialmente pratica e immediata; senza dubbio una scienza eminentemente tradizionale, ma sopra ogni cosa progressiva, e nella quale U progresso si realizza attraverso la negazione sistematica della tradi­zione stessa?...

Page 130: Berti, Proudhon

138 Testi

2. Dello scopo o dell’oggetto dello Stato

Abbiamo appena constatato che la nozione dello Stato, visto nella sua natura, si basa per intero su un'ipotesi almeno equivoca, quella dell’impersonalità e dell’inerzia fisica, intellettuale e morale delle masse. Ora proveremo che questa stessa nozione dello Stato, dal punto di vista del suo oggetto, riposa su un ’altra ipotesi, ancora più dubbia della prima, quella della permanenza dell'antago­nismo in seno aU’umanità, ipotesi che a sua volta è una prosecuzione del dogma primitivo della caduta a causa del peccato originale.

Citiamo ancora il Nouveau Monde:« Che cosa succede », si domanda Louis Blanc, « se si

consente al più intelligente o al più forte di ostacolare lo sviluppo delle facoltà di chi è meno forte o meno intelligen­te? Succederà che la libertà andrà distrutta.

Come impedire questo delitto? Intromettendo tra l’op­pressore e l’oppresso tutto il potere del popolo.

Se Jacques opprime Pierre, i trentaquattro milioni di uomini che compongono la società francese accorreranno tu tti in ima volta per proteggere Pierre, per salvaguardare la libertà? Sarebbe ridicolo pretendere una cosa del genere.

Come dovrebbe intervenire allora la società?Per mezzo di chi essa avrà scelto a questo fine come suoi

RAPPRESENTANTI.Ma chi sono questi r a ppresentan ti della società, questi

servitori del popolo? Lo Stato.Dunque lo Stato non è altro che la società stessa, che

agisce come società, per impedire... cosa? l ’oppressione; per mantenere... che cosa? la libertà ».

Adesso è chiaro. Lo Stato è una ra ppresen ta zio n e della società, organizzata esteriormente per proteggere il debole contro il forte; in altri termini, per mettere pace tra i contendenti e fare ordine! Come si vede, Louis Blanc non è andato lontano a cercare lo scopo dello Stato. Esso per­dura in tu tti gli autori che si sono occupati di diritto pubblico, fin da Grotius, Giustiniano, Cicerone, ecc. È la tradizione orfica riportata da Orazio:

Sylvestres homines sacer interpresque deorum, Caedibus et victu foedo deterruit Orpheus,Dictus ob hoc lenire tigres rabidosque leones,Dictus e t Amphion, Trebanae conditor arcis,Saxa m overe sono testudinis, et prece blanda Ducere quo vellet...

Page 131: Berti, Proudhon

La critica dello Stato 139

« Il divino Orfeo, interprete degli dèi, richiamò gli uomini dal fondo delle foreste e inculcò loro l’orrore degli assassinii e della carne umana. Di lui si dice anche che rese più docili i leoni e le tigri, come dopo si racconta di Anfìone, il fondatore di Tebe, che riusciva a smuovere le pietre col suono della sua lira e con l’incantesimo della sua preghiera le portava dove voleva ».

Il socialismo, lo sapevamo, per certuni non richiede gran­di sforzi d’immaginazione. Basta imitare piattamente i vecchi mitologi; copiare il cattolicesimo pur inveendo con­tro di esso; scimmiottare il potere che si brama; gridare poi con tu tte le proprie forze: Libertà, Eguaglianza, Fra­tellanza! e il gioco è fatto. Si diventa rivelatori, riforma­tori, riportatori democratici e sociali; si diventa candidati designati al ministero del progresso, e perfino alla ditta­tu ra della Repubblica!

Cosi, secondo il parere di Louis Blanc, il potere è nato dalla barbarie; la sua organizzazione attesta l’esistenza di uno stato primitivo di ferocia e violenza, effetto della totale assenza di commerci e industria. Lo Stato ha dovuto met­tere fine a questa barbarie, contrapponendo alla forza di ogni individuo una forza superiore, capace, in mancanza d ’altri argomenti, di costringere la sua volontà. La costi­tuzione dello Stato presuppone quindi, lo dicevamo prima, un antagonismo sociale profondo, homo homini lupus: è quanto afferma lo stesso Louis Blanc, quando, dopo aver distinto gli uomini in forti e deboli, impegnati come bestie feroci a contendersi il cibo, fa intervenire tra di essi, in qualità di mediatore, lo Stato.

Dunque lo Stato sarebbe inutile, lo Stato non avrebbe né scopo né motivo d’esistere, lo Stato dovrebbe abrogarsi da solo, se arrivasse un momento in cui, per una causa qualunque, non ci fossero più nella società né forti né deboli, in cui cioè l’ineguaglianza delle forze fisiche e intel­lettuali non potesse essere causa di spoliaziani e oppres­sione, indipendentemente dalla protezione, più fittizia che reale, del resto, dello Stato.

Ora, è esattam ente questa la tesi che sosteniamo noi oggi.Ciò che ingentilisce i costumi, e che a poco a poco fa

regnare il diritto al posto della forza, ciò che fonda la sicurezza, che crea progressivamente la libertà e l’egua­glianza, è, più che la religione e lo Stato, il lavoro; è, in primo luogo, l’industria e il commercio; poi la scienza, chelo spiritualizza; e infine, l’arte, suo fiore immortale. La religione, con le sue promesse e i suoi terrori, lo Stato, con i suoi tribunali e i suoi eserciti, hanno dato al senti­mento del diritto, troppo debole nei primi uomini, l'unica

Page 132: Berti, Proudhon

142 Testi

3. Di una destinazione ulteriore dello Stato

Qui spunta, a favore dello Stato, un’ultim a ipotesi. Giac­che lo Stato, affermano gli pseudodemocratici, fino a questo momento ha svolto soltanto un ruolo parassitario e tiran­nico, non per questo però bisogna negargli una destinazione più nobile e più umana. Lo Stato è destinato a diventare il principale organo della produzione, del consumo e della circolazione; il promotore della libertà e dell’eguaglianza.

Perché la libertà e l’eguaglianza sono lo Stato.Il credito è lo Stato.Il commercio, l’agricoltura e l’industria sono lo Stato.I canali, le ferrovie, le miniere, le assicurazioni, come

pure i tabacchi e le poste, sono lo Stato.L’educazione pubblica è lo Stato.Infine lo Stato, messe da parte le sue funzioni negative,

dovrebbe assumerne altre, positive; da oppressore, impro­duttivo e retrivo, quale è stato, diventare organizzatore, produttore e servitore. Sarebbe, questa, la feudalità rige­nerata, la gerarchia delle associazioni operaie, organizzate e scaglionate secondo una potente formula di cui Pierre Leroux si riserva di rivelarci il segreto..C o s i, gli organizzatori dello Stato suppongono — giac­

ché, m realtà, questi non fanno che andar di supposizione in supposizione — che lo Stato possa cambiar natu ra e, per cosi dire, trasform arsi da sé, tram utarsi da Satana in arcangelo, e dopo aver vissuto, per secoli, di sangue e carneficine come ima bestia feroce, brucare il citiso con le caprette e allattare gli agnelli. Questo ci insegnano Louis Blanc e Pierre Leroux; ed è tutto qui, noi lo dicevamo da molto tem po, il segreto del socialismo.

« Noi amiamo il potere tutelare, generoso, devoto, che assume com e massima queste profonde parole del Vangelo: Il prim o tra di voi sia il servitore di tu tti gli altri, e odiamo invece il potere depravato, corruttore, oppressivo, che fa del popolo la sua preda. L’ammiriamo quando rappresenta la parte generosa e vivente deU’umanità; l’aborriamo quan-

ne rappresen ta ia parte cadaverica. Ci ribelliamo contro tutta 1 insolenza, l’usurpazione, il brigantaggio presenti nel­la nozione di stato-padrone, mentre applaudiamo a quel che di com m ovente, fecondo e nobile è nella nozione di stato- s er v ito r e . Diciamo meglio: c’è una fede alla quale noi teniamo m ille volte di più della vita, ed è la nostra fede nella p rossim a e definitiva tra sfo rm a zio n e del potere. Sta Qin il passaggio trionfale dal vecchio al nuovo mondo. Tutti ì governi dell’Europa di oggi si basano sulla nozione

Page 133: Berti, Proudhon

La critica dello Stato 143

di stato-padrone; ma eccoli danzare, sconvolti, il girotondo dei morti... » (« Le Nouveau Monde », 15 novembre 1849).

Pierre Leroux è immerso completamente in queste teorie. Ciò che vuole, insegna, invoca, è una rigenerazione dello Stato — ma non ha ancora detto come e con chi deve realizzarsi questa rigenerazione —, come pure vuole e invoca ima rigenerazione del cristianesimo, senza aver potuto, finora, formulare il suo dogma e dare il suo Credo.

Contrariamente a Pierre Leroux e Louis Blanc, noi pen­siamo che la teoria dello Stato tutelare, generoso, devoto, produttore, promotore, organizzatore, liberale e progressi­vo, sia una utopia, una pura illusione della loro ottica intellettualistica. Pierre Leroux e Louis Blanc rassomi­gliano, secondo noi, ad un uomo che, stando in piedi su uno specchio e vedendo la sua immagine rovesciata, è sicuro che tale immagine diventerà una realtà e sostituirà un giorno, ci sia concessa l’espressione, la sua persona naturale.

Ecco cosa ci separa da questi due uomini; e, checché ne dicano, non ci siamo mai sognati di negare i loro talenti e servizi, bensì deploriamo la loro ostinata alluci- nazione. Noi non crediamo allo stato-serv ito re : per noi esso è semplicemente una contraddizione.

Servitore e padrone, quando si riferiscono allo Stato, sono termini sinonimi; come piti o meno sono termini iden­tici, quando si riferiscono all’eguaglianza. Il proprietario, con l ’interesse del capitale, chiede più dell’eguaglianza; il comuniSmo, con la formula: A ciascuno secondo i suoi biso­gni, concede meno dell’eguaglianza: si tra tta sempre di ineguaglianza; ed è questa la ragione per la quale noi non siamo né comunisti né proprietari. Similmente, chi dice Stato-padrone, dice usurpazione della potenza pubblica; chi dice Stato-servitore, dice delegazione della potenza pubbli­ca; è sempre u n ’alienazione di questa potenza, sempre una potenza, sempre una autorità esterna, arbitraria, al posto dell’autorità immanente, inalienabile, non trasferibile, dei cittadini: sempre più o meno della libertà. Per questa ragione noi non vogliamo lo Stato. D’altronde, tanto per uscire dalla metafisica e rientrare nel dominio dell’espe­rienza, abbiamo qualcosa da dire a Louis Blanc e a Pierre Leroux.

Voi pretendete e affermate che lo Stato, il governo, possa e debba essere trasform ato integralmente nel suo principio, nella sua essenza, nella sua azione, nei suoi rapporti con i cittadini, nelle sue realizzazioni concrete; e cosi, che lo Stato, bancarottiere e falsario, debba essere la fonte di ogni credito; che ad esso, per tanti secoli awer-

Page 134: Berti, Proudhon

144 Testi

sario dei lumi e ancora oggi ostile all’insegnamento pri­mario e alla libertà di stampa, proprio ad esso spetti provve­dere, d'ufficio, all’istruzione dei cittadini; che, dopo aver lasciato che il commercio, l’industria, l’agricoltura e tu tti gli strumenti della ricchezza si sviluppassero senza il suo intervento e, spesso, anche malgrado la sua resistenza, spetti, allo Stato farsi promotore assoluto del lavoro e delle innovazioni; che, infine, questo eterno avversario della libertà debba, ancora, non già lasciare in pace la libertà, bensì creare, dirigere la libertà. In questa meravigliosa trasformazione dello Stato consisterebbe, secondo voi, la Rivoluzione attuale., dovete, allora, esibire le prove della vostra ipotesi, dedurre la sua legittimità, i suoi titoli storici, esporne la nlosofia; e al tempo stesso metterla in pratica.

Ora, già è evidente che, nella vostra ipotesi, teoria e pratica, tu tto insomma, è in contraddizione formale sia con l’idea stessa, sia con la storia, sia infine con le tenden­ze più autentiche della umanità.

Secondo noi, la vostra teoria è in contraddizione con s.e stessa, poiché pretende di fare della libertà una creazione dello Stato, mentre invece è lo Stato che deve essere ima creazione della libertà. Difatti, se lo Stato s’impone alla rnia volontà, lo Stato è padrone; io non sono libero; la teoria cade.

Essa è in contraddizione con i fatti storici, giacché siete voi i primi a riconoscere che quanto di positivo, di bello e di buono si sia prodotto nella sfera dell’attività umana, è sta to frutto esclusivo della libertà, la quale ha agito indi­pendentem ente dallo Stato e quasi sempre in opposizione con lo Stato; il che conduce direttamente alla conclusione che m anda in rovina il vostro sistema: la libertà basta a se stessa e non ha alcun bisogno dello Stato.

La vostra teoria, infine, è in contraddizione con le ten­denze manifeste della civiltà; poiché, anziché arricchire senza posa la libertà e la dignità individuale, facendo, se­condo il precetto di Kant, di ogni anima umana un esem­plare dell’umanità intera, una delle facce dell’anima collet­tiva, voi subordinate la persona privata alla persona pubbli­ca sottom ettete l’individuo al gruppo, assorbite il cittadino nello Stato.... Tocca a voi superare, con un principio superiore alla libertà e allo Stato, tu tte queste contraddizioni. Quanto a noi, che neghiamo semplicemente lo Stato; che seguiamo con decisione la linea della libertà e restiamo fedeli alla p ra tica rivoluzionaria, non è compito nostro dimostrare la

Page 135: Berti, Proudhon

La critica dello S ta to 145

falsità della vostra ipotesi; le prove le aspettiamo da voi. Lo Stato-padrone è finito, su questo siete d’accordo con noi. Quanto allo Stato-servitore, non abbiamo l’idea di cosa possa essere; m a sospettiamo che si tra tti di ima grandiosa ipocrisia. Anzi, a d ir il vero, questo Stato-servi­tore ci fa pensare a una serva padrona; a noi non piace; preferiamo, fino a prova contraria, prendere come legit­tim a sposa la Libertà. Spiegateci insomma, se vi è possi­bile, per quale ragione, dopo che abbiamo demolito lo Stato p e r amore di questa adorata libertà, noi dovremmo adesso, per effetto dello stesso amore, ripristinare lo Stato. Fino a quando non avrete risolto questo problema, noi continue­rem o a protestare contro qualsiasi governo, qualsiasi auto­rità , qualsiasi potere; sosterremo verso e contro tu tti la prerogativa liberale. Vi diremo: per noi, la libertà è cosa acquisita; ebbene, voi conoscete la regola giuridica: Melior est conditio possidentis. Presentate i vostri diritti alla riorganizzazione del governo; altrimenti, niente governo!

Riassumiamo.Lo Stato è la costituzione esterna della potenza sociale.

Tale costituzione presuppone, per principio, che la società sia un ente privo di spontaneità, governo, unità, e che, per agire, abbia bisogno di essere fittiziamente rappresen­ta ta da uno o più mandatari, a titolo elettivo o ereditario: m a lo sviluppo economico delle società e insieme l’organiz­zazione del suffragio universale dimostrano che questo presupposto è falso.

La Costituzione dello Stato suppone inoltre, quanto al suo oggetto, che l’antagonismo o lo stato di guerra sia la condizione essenziale e indelebile dell'umanità, con­dizione che rende necessario, tra i deboli e i forti, l’inter­vento di una forza coercitiva che, opprimendo tutti, faccia cessare gli antagonismi. Noi sosteniamo che, cosi intesa, la missione dello Stato non ha più ragione di esistere; che ormai, con la divisione del lavoro, la solidarietà industriale, il gusto del benessere, l’eguale ripartizione del capitale e dell'imposta, si offrono alla libertà e alla giustizia garanzie di gran lunga più sicure di quelle che oifrivano loro un tempo la religione e lo Stato.

Per quel che riguarda la trasformazione utilitaria dello Stato, noi la consideriamo un’utopia, contraddetta al tem­po stesso e dalla storia dei governi, e dalla tendenza rivolu­zionaria, e dallo spirito delle riforme economiche ormai accettate. In ogni caso, noi diciamo che solo alla libertà spetterebbe riorganizzare il potere, il che oggi vuol dire eliminare del tutto il potere.

Page 136: Berti, Proudhon

146 Testi

In conclusione, o niente rivoluzione sociale, o niente governo; questa è, sul problema politico, la nostra so­luzione *.

* Da P.-J. P roudhon , in « La Voix du Peuple », 3 dicem­bre 1849, ora in P. A nsart, P.-J. Proudhon (Estratti), La Pie­tra, Milano 1978, pp. 70-84.

Page 137: Berti, Proudhon

VII. LA CRITICA AL COMUNISMO E ALL’INDIVIDUA­LISMO

V. Per stabilire l’equilibrio si fa ricorso a diverse ipotesi.Gli uni, considerando che l’uomo non ha valore che

per la società, e che al di fuori della società esso ricade allo stato bruto, tendono con tutte le loro forze, in nome di tutti gli interessi particolari e sociali, ad assorbire l’individuo nella collettività. Cioè essi non riconoscono altri interessi legittimi che quelli del gruppo sociale, e in con­seguenza non riconoscono a ltra dignità, a ltra inviolabilità che nel gruppo, da cui gli individui traggono in seguito quelli che vengono chiamati, ma molto impropriamente, i loro diritti. In questo sistema, l’individuo non ha esistenza giuridica; non è niente di per se stesso; non può invocare diritti, non ha che doveri. La società lo produce come sua espressione, gli conferisce una specialità, gli assegna una funzione, gli accorda la sua parte di felicità e di gloria: egli le deve tutto, essa non gli deve nulla.

Tale è, in poche parole, il sistema comunista, preco. nizzato da Licurgo, Platone, dai fondatori d’ordini religiosi, e dalla maggior parte dei socialisti contemporanei. Questo sistema, che si potrebbe definire la decadenza della perso ­n alità i n n o m e della società , si ritrova, leggermente modi­ficato, nel dispotismo orientale, nell’autocrazia dei Cesari, e nell'assolutismo di diritto divino. È il fondo di tu tte le religioni. La sua teoria si riduce a questa proposizione con­traddittoria: asservire l’individuo, al fine di rendere libera la massa. Evidentemente la difficoltà non è risolta: è aggi­rata. Si tra tta di tirannia, di tirannia mistica e anonima; non di associazione. Cosi il risultato è stato quello che si poteva prevedere: avendo privato la persona umana delle sue prerogative, la società si è trovata sprovvista del suo principio vitale; non c’è un esempio di comunità che, fon­data sull'entusiasmo, non sia finita nella imbecillità.

VI. Lo spirito va da un estremo all’altro. Resi accorti dall’insuccesso del comuniSmo, si è ricaduti nell’ipotesi di una libertà illimitata. I partigiani di questa opinione sosten­gono che non c’è, in fondo, opposizione tra gli interessi;

Page 138: Berti, Proudhon

148 T esti

che, gli uomini essendo tu tti della stessa natura, avendo tu tti bisogno gli imi degli altri, i loro interessi sono identici, e pertanto facilmente accordabili; che solo l’ignoranza delle l^ggi economiche ha causato questo antagonismo, che spa­rirà il giorno in cui, più illuminati sui nostri rapporti, rito r­neremo alla libertà e alla natura. In breve, si conclude che se vi è disarmonia tra gli uomini, ciò deriva soprattutto dall’ingerenza dell’autorità in cose che non sono di sua competenza, dalla mania di regolamentare e legiferare; che non resta che lasciar agire la libertà, illuminata dalla scien­za, che tu tto rientrerà infallibilmente nell’ordine. Tale è la teoria dei moderni economisti, partigiani del libero scambio, del lasciar fare, lasciar passare, del ciascuno da sé, ciascuno per sé, ecc.

Come si vede, è sempre non risolvere la difficoltà; è negare che essa esista. — Noi non sappiamo che farcene della vostra giustizia, dicono i libertari, dal momento che non ammettiamo la realtà dell’antagonismo. Giustizia e utilità sono per noi sinonimi. È sufficiente che gli interessi, sedicenti opposti, si comprendano perché essi si rispettino: la virtù, nell’uomo sociale, come nell’uomo solitario, non e che egoismo beninteso.

Questa teoria, che fa consistere l’organizzazione sociale juicam ente nello sviluppo della libertà individuale, sarebbe forse vera, e si potrebbe dire che la scienza dei diritti e la scienza degli interessi sono una sola ed identica scienza, se, una volta fatta la scienza degli interessi, o scienza eco­nomica, la sua applicazione non incontrasse alcuna diffi­coltà. Questa teoria, dicevo, sarebbe vera, se gli interessi Potessero essere fissati una volta per tu tte e rigorosamente definiti; se, essendo stati sin dall’inizio uguali e, più tardi, nel loro sviluppo, avendo camminato di pari passo, aves­sero obbedito ad una legge costante; se non fosse neces­sario, nella loro ineguaglianza crescente, attribuire una cosi larga parte al caso ed all’arbitrio; se, malgrado tanto nu­merose e stupefacenti anomalie, il minimo progetto di regolarizzazione non sollevasse da parte degli individui in­teressati proteste cosi vive; se si potesse prevedere sin da ora la fine della ineguaglianza, e proprio a causa dell’anta­gonismo; se, per la loro natura essenzialmente mobile ed evolutiva, gli interessi non giungessero continuamente ad ostacolarsi, a scavare tra di loro delle ineguaglianze nuove; Se non tendessero malgrado tu tto a interferire, a soppian­tarsi; se la missione del legislatore non fosse precisamente, tnfine, quella di consacrare per mezzo delle sue leggi, a mano a m ano che essa si sviluppa, questa scienza degli interessi, dei loro rapporti, del loro equilibrio, della loro

Page 139: Berti, Proudhon

Critica al comunismo 149

solidarietà: scienza che sarebbe la più alta espressione del diritto se la si potesse credere definitiva, m a scienza che, venendo sem pre dopo il fatto, non prevenendo mai le dif­ficoltà, essendo costretta ad imporre le sue decisioni per mezzo deH’autorità pubblica, può ben servire da strumento e da ausilio all’ordine, ma non può affatto essere presa per il principio stesso dell’ordine.

A causa di queste considerazioni, la teoria della libertà,o dell’egoismo beninteso, inconfutabile se la scienza eco­nomica fosse costituita e fosse dimostrata la identità degli interessi, si riduce ad una petizione di principio. Essa sup­pone come realizzate delle cose che non possono mai es­serlo; delle cose la cui realizzazione incessante, approssi­mativa, parziale, variabile, costituisce l’opera interminabile del genere umano. Cosi, m entre l’utopia comunista ha an­cora i suoi praticanti, l’utopia dei libertari non ha potuto ricevere il minimo inizio di esecuzione.

VII. Scartate l’ipotesi comunista e l’ipotesi individuali­stica, la prim a in quanto distruttrice della personalità, la seconda in quanto chimerica, non resta da prenderne in esame che un'ultim a sulla quale del resto la moltitudine dei popoli e la maggioranza dei legislatori sono d’accordo: quella della Giustizia.

La dignità, nell’uomo, è im a qualità altera, assoluta, in­sofferente di qualsiasi dipendenza e di qualsiasi legge, che tende alla dominazione degli a ltri ed all’assorbimento del mondo.

Si am m ette a priori che, davanti alla società di cui fan­no parte, tu tti gli individui, considerati semplicemente come persone morali, e fa tta astrazione dalle capacità, dai ser­vizi resi, dalle mancanze commesse, sono di ugual dignità; di conseguenza essi devono ottenere per le loro persone la stessa considerazione, partecipare allo stesso titolo al governo della società, alla elaborazione delle leggi, all’eser­cizio delle cariche.

Rispetto delle persone, uguale e reciproco, qualunque cosa ciò costi alle antipatie, alle gelosie, alle rivalità, all’op­posizione delle idee e degli interessi: ecco il prim o principio.

Il secondo è una applicazione del primo.La tendenza dell’uomo alla appropriazione è, come la

dignità da cui essa deriva, assoluta e senza limiti. Si è d ’accordo nel riconoscere questa tendenza, in tu tti i sog­getti, ma a certe condizioni che servono ad accertare la proprietà di ciascuno e a distinguerla da quella degli altri. Cosi la proprietà è legittima, e a questo titolo inviolabile

Page 140: Berti, Proudhon

150 Testi

e garantita dal potere pubblico, se essa è determinata nel suo oggetto; se l’occupazione è effettiva; se è sta ta acqui­sita per usucapione, lavoro, acquisto, successione, prescri­zione, ecc. Queste condizioni sono soggette a revisioni; esse possono, a seconda della molteplicità e della complicazione degli interessi, essere ulteriormente regolate; ma cosi come esistono, esse devono essere osservate religiosamente.

Rispetto delle proprietà e degli interessi, uguale e reci­proco, alle condizioni poste dalla legge, e qualunque cosa ciò costi all’invidia, all’avarizia, alla pigrizia, all’incapacità: tale è il secondo principio. In due parole, mutuo riconosci­mento della dignità e degli interessi, cosi come sono deter­minati e condizionati dal patto sociale: ecco, in un primo schizzo, ciò che è il sistema giuridico, la Giustizia. Rispetto P e r rispetto, garanzia per garanzia, servizio per servizio, a condizione di uguaglianza: è tu tto il sistema. Mettiamone in evidenza i vantaggi.

V ili. 1. Per quanto riguarda l’uomo:Abbiamo visto che il comunismo parte dall’idea che

l’uomo è un essere fondamentalmente insocievole e cattivo, homo homini lupus; che non ha nessun diritto da eserci­tare, nessun dovere da compiere verso i suoi simili; che la società sola fa tutto in lui, essa sola gli dà la dignità, e fa di lu i un essere morale. Non è altro che la decadenza umana posta come principio: cosa che ripugna alla nozione dell’essere ed implica contraddizione (def. 1 e 2).

Nel sistem a della libertà pura, la dignità del soggetto, che si credeva di salvaguardare con una esagerazione in senso contrario, non è meno sacrificata. Qui l’uomo non ha più n é virtù, né giustizia, né moralità, né socialità, poi­ché l’interesse solo fa tutto in lui, cosa che ripugna alla coscienza, che non si lascia ridurre al puro egoismo.

L’idea giuridica sembra dunque, da quest’ultimo punto di vista, soddisfare le più nobili aspirazioni della nostra natura: essa ci proclama degni, socievoli, morali; capaci d ’amore, di sacrificio, di virtù; incapaci di conoscere l’odio se non attraverso l’amore, l’avarizia se non attraverso la devozione, la fellonia se non attraverso l'eroismo; e ciò Perché essa si aspetta solo dalla nostra coscienza ciò che le altre concezioni impongono alla nostra sottomissione o sollecitano dal nostro interesse.

2. P er ciò che riguarda la società, noi metteremo in evi­denza delle differenze analoghe:

Nel comunismo, la società, lo Stato, esterno e superiore a ll’individuo, gode da solo dell’iniziativa; al di fuori di lui

Page 141: Berti, Proudhon

Critica al comunismo 151

nessuna libertà d'azione; tutto si assorbe in un'autorità ano­nima, autocratica, indiscutibile, la cui provvidenza benevolao vendicatrice distribuisce dall’alto, sulle teste prostrate, le punizioni e le ricompense. Non è una cité, una società; è un gregge presieduto da un gerarca, al quale solo, per legge, appartengono la ragione, la libertà e la dignità del­l’uomo.

Nel sistema della libertà pura, se fosse possibile am­metterne per un istante la realizzazione, ci sarebbe ancora meno società che nel comuniSmo. Siccome, da un lato, non si riconosce l’esistenza collettiva; e, dall’altro, si pretende che per mantenere la pace non siano necessarie concessioni reciproche, e che tutto si riduca ad un calcolo di interesse, l’azione politica o sociale diviene superflua: non vi è real­mente società. È una agglomerazione di individualità giu­stapposte, che marciano parallelamente, ma senza nulla di organico, senza forza di collettività; dove la cité non ha molla da fare, dove l’associazione, ridotta ad una veri­fica di conti, è, non dico nulla, ma, per cosi dire, illecita.

Perché ci sia società tra creature ragionevoli bisogna che vi sia un ingranaggio delle libertà, una transazione vo­lontaria, un impegno reciproco: cosa che non può farsi senza l’aiuto di un altro principio, il principio mutualista3 del diritto. La giustizia è commutativa per sua natura e forma: cosi la società, ben lungi dal poter essere concepita come esistente al di sopra ed al di fuori degli individui, come accade nella comunità, deriva solo da essi; risulta dalla loro azione reciproca e dalla loro comune energia, essa ne è l’espressione e la sintesi. Grazie a questo orga­nismo, gli individui, simili per la loro indigenza originale, si specializzano per i loro talenti, per le loro industriosità, per le loro funzioni; sviluppano e moltiplicano, ad un grado sconosciuto, la loro azione e la loro libertà. In modo che arriviamo a questo risultato decisivo: volendo far tutto per mezzo della sola libertà la si diminuisce; obbligandola a transigere, la si raddoppia.

3. Per ciò che riguarda il progresso:La comunità, una volta costituita, lo è per sempre. Dun­

que niente rivoluzioni, niente trasformazioni: l’assoluto è immutabile. Il cambiamento le ripugna. Perché cambie- rebbe? Non consiste nell’assorbire sempre più nell’autorità anonima ogni vita, ogni pensiero, ogni azione, nel chiudere gli sbocchi, nell’impedire il lavoro libero, il commercio libero, ed il libero esame? Il progresso qui è un nonsenso.

Con la libertà illimitata è naturale, ovviamente, che il progresso possa manifestarsi nell’industria, ma esso sarà

Page 142: Berti, Proudhon

152 Testi

nullo nella vita pubblica, nullo nelle istituzioni, perche, se­condo l’ipotesi, essendo identici il giusto e l’utile, confon­dendosi la morale e gli interessi, non vi è solidarietà so­ciale, non vi sono interessi comuni, né istituzioni.

Solo la giustizia, dunque, può essere detta progressista, poiché essa suppone un emendamento continuo della legi­slazione, secondo l’esperienza della vita di tu tti i giorni, e pertanto un sistema sempre più fecondo di garanzie.

Del resto, ciò che costituisce il trionfo dell’idea giuridica sulle due forme ipotetiche del comuniSmo e dell’individuah- smo è che, mentre il diritto è sufficiente a se stesso, il co­muniSmo e l'individualismo, incapaci di realizzarsi per la sola virtù del loro principio, non possono fare a meno delle prescrizioni del diritto. Entrambi sono costretti a chiamare la giustizia in loro soccorso, e si condannano cosi da soli, per la loro incongruenza e la loro contraddizione. Il comu­niSmo, obbligato dalla rivolta delle individualità oppresse a fare concessioni e ad allontanarsi dal rigore delle sue massim e, perisce presto o tardi, innanzitutto per il fermento della libertà che esso introduce nel suo seno, poi per 1 isti­tuzione di una m agistratura, arbitra delle transazioni. L in­dividualismo, incapace di risolvere a priori il suo famoso problem a dell’accordo degli interessi, e costretto a stabilire delle leggi almeno provvisorie, abdica a sua volta davanti ?.. Questa forza nuova, che esclude l’esercizio puro dellalibertà.

IX. Delle tre ipotesi che abbiamo visto prodursi allo scopo di trionfare dell’opposizione degli interessi, di creare un o rd ine nell’umanità, e di convertire la moltitudine delle individualità in associazione, non ne sussiste dunque real­m ente che una sola, quella della Giustizia. La Giustizia, Per il suo principio mutuaUsta e commutativo, assicura la lib e rtà e ne aumenta la potenza, crea la società, e le dà, con una fo rza irresistibile, una vita immortale. E come nello stato giuridico, la libertà, elevandosi ad un più alto potere, na cam b ia to carattere; cosi lo Stato, acquistando una forza strao rd in a ria , non è più lo stesso che nella ipotesi comuni­sta: è la risultante, non la dominante, degli interessi.

Da ciò questa conseguenza, che distingue radicalmente a R ivoluzione dall’ancien régime: sebbene lo Stato, con­sidera to com e unità superiore e persona _ collettiva, possa anche av e re una propria dignità, propri interessi, proprie azioni, p ro p r i diritti, non h a più, tuttavia, compito maggio­re di q u e llo di vegliare a che ciascuno rispetti la persona, la p ro p r ie tà e gli interessi di ognuno, in una parola a che tu tti s ia n o fedeli al patto sociale. In ciò consiste la prero-

Page 143: Berti, Proudhon

Critica al comunismo 153

gativa essenziale dello Stato; tutte le sue attribuzioni ne derivano; cosa che significa che, lungi dal dominare gli in­teressi, esso non esiste che per servirli. In quanto l'indivi­duo è tenuto a rispettare il patto, se non vuole perdere l’ap­poggio della cité e incorrere nel suo biasimo, egli sembra subordinato allo Stato; ma in quanto ha il diritto di richia­m are gli altri al rispetto del patto, di richiedere la prote­zione della comunità, è superiore allo Stato ed è lui stesso sovrano. Nell’ordine giuridico, o democratico, l'autorità, di cui oggi si ama tanto abusare, non ha altro significato *.

* Da P .-J . P roudhon , La giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa, a cura di Mario Albertini, Utet, Torino 1968, pp. 127-134.

Page 144: Berti, Proudhon

vili. L’IDEALE DELLA COMUNANZA È L’ASSOLU­TISMO

1. La comunione deriva dall'economia politica

La prim a cosa che mi ha messo in guardia contro l’uto­pia comunista, ma di cui i partigiani più o meno accusati di questa utopia non si danno per intesi, è che la comu­nanza è ima delle categorie dell’economia politica, di questa p re tesa scienza che il socialismo ha per missione di com­battere , e che definisco la descrizione delle consuetudini proprietarie. Come la proprietà è il monopolio elevato alla sua seconda potenza, cosi la comunanza non è altra cosa che l ’esaltazione dello Stato, la glorificazione della polizia. E com e lo Stato si è volto, nella quinta epoca, a reazioneo monopolio, cosi pure, nella fase in cui noi siamo perve­nuti, il comuniSmo appare per dare scaccomatto alla pro­prietà .

Il comuniSmo riproduce, dunque, ma su un piano inver­so, tu t te le contraddizioni dell’economia politica. Il suo se­gre to consiste nel sostituire l’uomo collettivo all’individuo in c iascuna delle funzioni sociali, produzione, scambio, con­sumo, educazione, famiglia. E siccome questa nuova evo­luzione non concilia e non risolve mai niente, essa termina fa ta lm en te , al pari delle precedenti, coll'iniquità e con la m ise ria .

Cosi il destino del socialismo è affatto negativo: l’uto- p ia com unista , sortita dal lato economico dello Stato, è la co n tro p ro v a del costume egoistico e proprietario! Da que­s to p u n to di vista essa non manca, è vero, d’una certa u ti li tà : serve alla scienza sociale, come serve alla filologia l'o p p o siz io n e di niente a qualche cosa.

Il socialism o è una logomachia: sono sorpreso che gli e c o n o m is ti non se ne siano accorti. La comunione, come la concorrenza, l’imposta, la dogana, la banca è di compe­te n z a d e l l ’economia politica; la comunanza è al fondo della te o r ia d e lla divisione del lavoro, della forza collettiva, delle sp e se generali, delle società anonime ed in accomandita, d e lle c a s s e di risparm io e d’assicurazione, delle banche di

Page 145: Berti, Proudhon

L'ideale della comunanza 155

circolazione e di credito, ecc., la comunione, in una parola, è dappertutto, come lo spazio, ed è nulla.

Tutte le utopie socialiste, dall'Atlantide di Platone sino all’Icaria di Cabet, nel loro più stretto significato, si ridu­cono a questa sostituzione, di un'antinomia con un'altra antinomia. Il merito, in tutte, quanto all’invenzione, è zero; l'abbellimento non è che un insignificante accessorio; e per ciò che riguarda la decadenza della facoltà utopistica se­gnalata presso gli autori, essa viene unicamente dalle cor­rezioni che l'esperienza loro impone, e che sono tante apo­stasie da parte loro. Del resto, questi scrittori, di cui non ho riguardo di disconoscere le intenzioni, sono tu tti insipidi plagiari degli economisti, proprietari travestiti che, mentre l:umanità sale penosamente la montagna in cui deve trasfi­gurarsi, si danno l'originalità di ridiscenderla.

Ed è per questo che diventerei comunista? Ma ciò sa­rebbe gettarmi nel chimerico per sfuggire l’impossibile, e per paura di Loyola, abbracciare Cagliostro.

2. Definizione di ciò che è proprio e di ciò che è comune

Il sole, l’aria ed il m are sono comuni: il godimento di questi oggetti presenta il più alto grado di comunismo pos­sibile! Nessuno può piantarvi dei confini, dividerli e deli­mitarli. Si è notato, non senza ragione, che l’immensità della distanza, la profondità impenetrabile, l’instabilità per­petua, avevano potuto solo sottrarli all’appropriazione. Tale e cosi grande è la forza di questo istinto che ci spinge alla divisione ed alla guerra! Il risultato dunque di questa prima osservazione, cosa preziosa per la scienza, è che la proprietà è tu tto ciò che si definisce, la comunanza tutto ciò che non si definisce!... Quale può essere, dopo questo, il punto di partenza del comunismo?

I grandi lavori dell’umanità partecipano a questo carat­tere economico delle potenze della natura. L’uso delle stra­de, delle piazze pubbliche, delle chiese, musei, biblioteche, ecc., è comune. Le spese per la loro costruzione sono fatte in comune, benché la ripartizione di queste spese sia lungi dall’essere eguale, ciascuno contribuendovi in ragione pre­cisamente inversa della sua fortuna. Donde si vede, cosa preziosa a notare, che eguaglianza e comunanza non sono la stessa cosa!... Certi economisti pretendono pure che i lavori d’utilità pubblica dovrebbero essere eseguiti dall’in­dustria privata, più attiva, secondo essi, più diligente e

Page 146: Berti, Proudhon

156 Testi

meno cara; tuttavia non si è d’accordo su questo punto. Quanto all’uso degli oggetti, resta invariabilmente comune; non è mai venuta a nessuno l’idea che questa sorta di cose dovessero essere appropriate.

L’uomo che abbiamo visto nel periodo della sua educa­zione, nel compimento dei suoi doveri civili e religiosi e nell'esercizio delle funzioni pubbliche, semi-comunista, l ’uo­mo diventa nell’industria, nel commercio, nell’agricoltura, affatto proprietario. Produce, cambia e consuma in una m aniera esclusivamente privata, e non conserva che rare relazioni con la comunanza. Per effetto di un istinto irre­sistibile e di un pregiudizio affascinatore che risale ai tempi più lontani della storia, ogni operaio aspira ad intrapren­dere, ogni compagno vuole diventare padrone, ogni gior­naliero sogna di fare fortuna, come altra volta ogni plebeo di d iven tare nobile. E notate una cosa che deve eccitare la vostra impazienza tanto quanto mi stupisce; non c’è alcuno che ignori lo svantaggio dello smembramento, le gravezze della v ita domestica, l’imperfezione della piccola industria, j d an n i dell’isolamento. La personalità è più forte di tu tte le considerazioni; l’egoismo preferisce i rischi della lotteria all’assoggettam ento della comunanza, si ride dei teoremi dell’eco n o m ia politica.

In som m a, la comunione ci coglie all’origine e s’impone fa ta lm en te a noi di fronte alle grandi potenze della natura.

Q u a n to alla sua essenza, la comunione ripugna alla de­finizione; non è la stessa cosa che l’eguaglianza; non è vin­co lata in alcun modo alla m ateria e dipende tu tta dal libero a rb itr io ; si distingue dalla associazione e s'avvicina all'egoi­smo. A p p e n a l'industria comincia a nascere ed il lavoro pro­duce i suoi primi abbozzi, la personalità entra in lotta con la co m u n io n e , che ci appare sin d'allora, sulla soglia do­m e s tic a e persino al letto òoniugale, di già im perfetta e c ro lla n te . Più tardi la troveremo incompatibile con una ed u caz io n e liberale e vigorosa; infine, essa declina rapida­m ente n e lle funzioni salariate e sparisce tutt'affatto nel la­voro l ib e r o . Tutto questo risulta dalla necessità delle cose tanto g u a n to dalla spontaneità della nostra natura: gli e c o n o m is ti l'avevano riconosciuto da lungo tempo.

Page 147: Berti, Proudhon

L'ideale della comunanza 157

3. Posizione del problema comunista

La fratellanza! Ecco dunque, secondo Cabet, il fondo, la forma e la sostanza deH’insegnamento comunista. È giusto riconoscerlo, Cabet, come Saint-Simon e Fourier, è capo-scuola. San Paolo, rispondendo ai giudici increduli che lo interrogavano sulla sua dottrina, diceva loro con una stupenda ironia: « Io non so che im a cosa, Gesù croci­fisso ». Cabet parla come san Paolo, dice ai suoi neofiti:« Io non so che una cosa, la fratellanza ».

[...]•Ora, a questa parola Fratellanza, che contiene tante cose,

sostituite, con Platone, la Repubblica, che non dice meno, oppure con Fourier, la Attrazione, che dice ancora più; oppure con Michelet l 'Amore e l'istinto, che comprendono tutto, oppure con altri, la Solidarietà, che riunisce tutto; oppure infine, con Louis Blanc, la Grande forza d ’iniziativa dello Stato, sinonimo della onnipotenza di Dio; e voi vedrete che tutte queste espressioni sono perfettamente equivalenti, di modo che Cabet, rispondendo dall’alto del suo Popolare alla questione che gli era stata fatta, « la m ia scienza è la Fratellanza », ha parlato per tu tto il socia­lismo. Noi proveremo, infatti, che tu tte le utopie socialiste, senza eccezione, si riducono all’enunciato cosi corto, cosi categorico, cosi esplicito di Cabet: la mia scienza, ecc., è la fratellanza; sicché chiunque osasse aggiungervi una sola parola di commento, cadrebbe tosto nell’apostasia e nell’ere­sia; ciò che vuol dire che né Platone, né gli Gnostici, né i prim i Padri, né i Valdesi, né Moro, né Campanella, né Babeuf, né Owen, né Saint-Simon, né Fourier, né il loro continuatore Cabet, non sono in grado, con l’aiuto del loro principio, di spiegare la società e molto meno ancora di imporle delle leggi.

Ma come mai, fra tutte queste espressioni: Fratellanza, Amore, Attrazione, ecc., che pretendiamo essere di eguale forza, Cabet ha preferito la prima?

Questo m erita una spiegazione.

4. La comunione prende il suo fine per il suo principio

La prim a cosa a cui deve lavorare la comunione, come pure la religione, è di soffocare lo spirito di controversia col quale nessuna istituzione è sicura e definitiva. Io consi­

Page 148: Berti, Proudhon

glio dunP°Polo ¡^Ue Cabet, allorché avrà ricevuto dalle m ani del sotto ia redini dello Stato, e tu tti i partiti si saranno fusi ?duca2j0 Sua dittatura patem a, di cambiare il sistema di1 giov^nj universitaria, questo sistema abbominevole, dove argorne ' apprendono a diventare dottori, interrogatori,

[■••]. at°n senza pietà e senza misericordia.Se V

P si si ^ rogo i diversi riformatori sui mezzi di cui ,or° utQ^roP°ngono di fare uso per la realizzazione delle P.er rige ^le. tutti mi rispondono, in una sintesi unanime: nrrietter 'erare la società ed organizzare il lavoro, bisogna or8aniz? ?gli uomini che possiedono la scienza di questa St?• ^°gin °ne f°rtuna e l’autorità pubblica. Sopra que- salità di essenziale tu tti quanti d’accordo: si ha univer- M te al]a°P 'ni°ni. Gli interminabili appelli delle sètte socia' Ma Pere], - .or?a dei loro avventori partono da quest’idea. c°n ej^c è .i riformatori, divenuti padroni degli affari, usino Srande , cia del potere, conviene dare a questo potere una condÌ2 i0'^JrM d ’iniziativa: sistema di Blanc. Ora, a quale c°ndi?i e potere acquista la sua più grande forza? alla PubblìCa,e d’essere costituito democraticamente o in re- e?c. ‘ sistema di Platone, di Rousseau, del Nazionale, H 'orrr^ ^ fo rm a politica è il preliminare obbligato della rn°nai-cjì?ociale. Ma perché la democrazia piuttosto che la oratici? costituzionale, piuttosto che un Senato di aristo-

P o l;frché, 8^ uomini essendo solidali, conviene ren- ? 1 dali-iJ l.camente e giuridicamente eguali: sistema dei

e gli j / 71*1: istituiti, credo, da Cherbuliez. Donde viene ! 1inPer0 n ù n i sono solidali? dal fatto che vivono sotto1 ° rn Vna legge comune che avvince l’imo aH’altro tutti Questa m ? v'nienti: l'attrazione, sistema di Fourier. Cos’è niente p ^az ione che conosciamo solo da ieri? È precisa- slstem a c(?7or?> è la carità che conosciamo da lungo tempo:? Sl odin 1 Michelet. Come avviene che gli uomini si aminoI .P°H (jj » si attirino e si respingano vicendevolmente come Slsterjla lp a calamita? È che tu tti gli uomini sono fratelli:

La f Cabet. grande f ^ellanza, tale è dunque il fatto primordiale, il politico e n ° naturale e cosmico, fisiologico e patologico,

a su^ d economico al quale si riattacca, come l ’effettoII ^ e to j j a usa, la comunione. L’analogia delle parole, ecco

L..]. » la teoria, la dialettica del socialismo.

c‘ l ? ceìti<r na ' dunque, con questa intelligenza meravigliosa abljità Se e prime, seconde e finali; come mai, con questa m ai Pa r* a infilare delle frasi, il socialismo non è

l *o acj aitro che ad inquietare il mondo, senza poter

158Testi

Page 149: Berti, Proudhon

L’ideale della comunanza 159

rendere gli uomini né migliori né più fortunati? Infine, se l'economia politica ha potuto essere giudicata dalle sue opere, il socialismo corre grande pericolo oggi di essere valutato in ragione della sua impotenza; im porta dunque renderci conto della sterilità dell’utopia, cosi come noi abbiamo fatto per le anomalie della pratica.

Per chiunque ha riflettuto sul progresso della socialità umana, la fratellanza effettiva, quella fratellanza del cuore e della ragione, che sola m erita le cure del legislatore e l’attenzione del materialista, e di cui la fratellanza di razza è la semplice espressioni carnale; questa fratellanza, dico, non è punto, come credono i socialisti, il principio dei per­fezionamenti della società, la regola delle sue evoluzioni: essa ne è lo scopo e il frutto. La questione non è sapere come mai, essendo fratelli di spirito e di cuore, noi vivremo senza farci la guerra e divorarci scambievolmente: questa non sarebbe una questione; m a come mai, essendo fratelli per natura, diventeremo anche tali per i sentimenti; come m ai i nostri interessi, invece di dividerci, ci uniranno. Ecco ciò che il semplice buon senso rivela ad ogni uomo che l’utopia non ha reso miope. Come già abbiamo dimostrato col quadro delle contraddizioni economiche, avendo lo svi­luppo delle istituzioni civilizzatrici per risultato inevitabile di gettare la discordia nelle passioni, d’infiammare negli uomini l’appetito concupiscente e l’appetito irascibile, e di fare di questi angeli di Dio tante bestie feroci, accade che povere creature destinate al piacere, all’amore, si lacerano in furiosi combattimenti, si fanno orribili ferite; e non è cosa facile porre fra essi le basi di un trattato di pace. Come dunque sarà distribuito il lavoro? qual è la legge dello scambio? qual è la sanzione della giustizia? dove co­mincia il possesso esclusivo, dove finisce? sin dove si stende la comunione? dove finisce? In quale proporzione questo elemento fa parte dell’organismo collettivo, sotto quale forma e secondo quale legge? Come mai, in una parola, diventeremo fratelli? Tale è, ad un tempo, la que­stione prima e lo scopo finale della comunione.

Cosi la fratellanza, la solidarietà, l’amore, l’eguaglianza, ecc., non possono risultare che da una conciliazione degli interessi, cioè da ima organizzazione del lavoro e da una teoria dello scambio. La fratellanza è il fine, non il principio della comunione, come lo è di tutte le forme di associazione e di governo; e Platone, Cabet e quelli che in seguito a queste due sommità del socialismo, invece di insegnarci le leggi della produzione e dello scambio, ci chiedono potere e danaro, entrando nell’utopia con la fratellanza, la solida­rietà e l’amore, tu tta codesta gente, dico, prende l’effetto per

Page 150: Berti, Proudhon

160 Testi

la causa, la conclusione per il principio; essi cominciano, come dice il proverbio, la loro casa dagli abbaini. Ancora una volta, chi impedisce ai socialisti di associarsi fra essi se la fratellanza basta? c’è bisogno per questo di un per­messo del ministro, d’una legge delle Camere? Un si com­movente spettacolo edificherebbe il mondo e non compro­metterebbe che l ’utopia: questa devozione sarebbe forse al disopra del coraggio dei comunisti?

Ecco, senza che essi fossero in grado di rendersene conto, ciò che sentivano in fondo al cuore i cittadini che osarono interrogare Cabet. Ma fu pure con una grande superiorità di ta ttica che il maestro loro rispose: Il mio principio è la fratellanza; perché senza questo rovescia­mento, non v’era più comunismo. Cabet era sicuro che, dopo questo colpo decisivo, non gli si sarebbe domandato quale fosse il principio della fratellanza, poiché sarebbe stato gettarsi in un seguito di questioni all’infinito, e ormai con­veniva farla finita.

5. La comunione è impossibile senza una legge di ri­parto, ed essa perisce mediante riparto

[...].Eccoci dunque giunti ai conti correnti, alle necessità di

una regola di ripartizione e di valutazione dei prodotti, ciò che vuol dire alla dissoluzione della comunione. Infatti, ogni conto corrente si bilancia col dare e avere, in altri termini, col tuo e m io; ogni ripartizione è sinonimo di individualismo.

[...].Il socialismo non conta, si rifiuta di contare. Né più

né meno che l’economia politica esso afferma l’incommen­surabilità del valore. Senza questo, comprenderebbe che ciò che rintraccia attraverso le sue utopie è dato dalla legge dello scambio; cercherebbe la formula di questa legge; e, come la teologia, dopo che ha scoperto il senso dei suoi miti, come la filosofia dopo che ha costruito la sua logica, il socialismo, avendo trovato la legge del valore, conosce­rebbe se stesso e cesserebbe di esistere. Il problema della ripartizione non è stato, sino ad ora, attaccato di fronte da nessuno scrittore socialista: la prova è che tu tti hanno concluso, come gli economisti, contro la possibilità di una regola di ripartizione. Gli uni hanno adottato per divisa: a ciascuno secondo la sua attitudine, ad ogni attitudine

Page 151: Berti, Proudhon

L’ideale della comunanza. 161

secondo le sue opere, m a si sono ben guardati dal dire né quale fosse, secondo essi, la misura dell'attitudine né quale fosse la misura del lavoro. Gli altri hanno aggiunto al lavoro e alla attitudine un nuovo elemento di valuta­zione, il capitale, altrim enti detto il monopolio; e hanno cosi provato una volta di più che non erano altro che vili plagiari della civiltà, benché tanto si facciano notare per le loro pretensioni all’imprevisto. Infine, si è formata im a terza opinione che, p er sfuggire a queste transazioni arb i­trarie, sostituisce alla ripartizione la razione e prende per epigrafe: a ciascuno secondo i suoi bisogni nella misura delle risorse sociali. Con ciò il lavoro, il capitale e il talento si trovano eliminati dalla scienza; nello stesso tempo, la gerarchia industriale e la concorrenza sono soppresse; poi la distinzione dei lavoratori in produttivi e im produttivi, essendo tu tti pubblici funzionari, si dilegua; la moneta è definitivamente proscritta, e con essa ogni segno rappresen­tativo del valore; il credito, la circolazione, la bilancia del commercio non sono più che parole prive di senso sotto questo regno della fratellanza universale!

6. La comunità è impossibile senza una legge d'orga­nizzazione e perisce mediante l ’organizzazione

Niente di più facile da fare che un piano di comuniSmo.La repubblica è padrona di tutto: distribuisce i suoi

uomini, dissoda, lavora, costruisce dei magazzini, delle case, dei laboratori; fabbrica palazzi, officine, scuole; fabbrica tu tte le cose necessarie al vestirsi, al nutrimento, all’abita­zione; dà l’istruzione e lo spettacolo, il tu tto gratis, a quanto si crede, e nella m isura delle sue risorse. Ciascuno è operaio nazionale e lavora per conto dello Stato che non paga nessuno, ma che si prende cura di tutti quanti, come un padre di famiglia fa dei suoi figli. Tale è, più o meno, l’utopia di questo eccellente Cabet, utopia tolta, con leggere modificazioni, dai pensatori greci, egiziani, siriaci, indiani, latini, inglesi, francesi, americani, riprodotta con varianti da Pecqueur, e verso la quale gravita, suo malgrado, m a nient’affatto contro sua voglia, il rappresentante della nostra giovane democrazia, Louis Blanc. Semplice e perentorio com ’è, non si può negare che questo meccanismo ha perlo meno il vantaggio di essere alla portata di tutti quanti. Onde si scorge, leggendo gli autori, che essi non si aspet­

Page 152: Berti, Proudhon

162 Testi

tano opposizione che sulle ore di lavoro, la scelta dei co­stumi e altri dettagli di fantasia, che non fanno, aggiungono essi, niente al sistema.

Ma questo sistema, cosi semplice, a dire degli utopisti, diventa tutto ad un tra tto di una inestricabile complica­zione, se si riflette che l ’uomo è un essere libero, refrattario alla polizia e alla comunanza, e che ogni organizzazione violatrice della libertà individuale perirà per opera della libertà individuale. Cosi si vede, nelle utopie socialiste, l'ap- Propriazione ritornare sempre, e, senza rispetto per la fratellanza, disturbare l ’ordine comunitario.

H - •Il prim o ed il più potente espediente dell’organizzazione industriale è la separazione delle industrie, altrimenti detta divisione del lavoro. La natura, con la differenza dei climi, ha preludiato a questa divisione e ne ha determinato a p r io r i tu tte le conseguenze, il genio umano ha fatto il resto. L 'um anità soddisfa i propri bisogni applicando questa grande legge di divisione, dalla quale nascono la circola­zione e lo scambio. Di più, è da questa divisione primor­diale c h e i differenti popoli ricevono la loro originalità ed il loro carattere. La fisionomia delle razze non è, come si po treb b e credere, un tratto indelebile conservato dalla generazione, è un’impronta della natura, capace solo di spa­rire p e r l’effetto dell’emigrazione ed il cambiamento delle abitudini. La divisione del lavoro non agisce dunque sem­plicem ente come organo di produzione, esercita un’influen­za essenziale sullo spirito ed il corpo; è la forma della nostra educazione come del nostro lavoro. Sotto tu tti questi ra p p o rti si può dire che è creatrice dell’uomo come pure d e l la ricchezza, che è necessaria all’individuo tanto quanto la società, e che, a riguardo del primo come della seconda, la divisione del lavoro deve essere applicata con tutta la potenza e l’intensità di cui è suscettibile.

Ma, app lica re la legge di divisione è fomentare l’indivi­dualism o, provocare la dissoluzione della comunità; è im possib ile sfuggire a questa conseguenza. In effetti, poiché in una com unanza ben diretta la quantità di lavoro da for­nire p e r ogni industria è conosciuta, ed il numero dei lav o ra to ri è parimenti conosciuto e che d'altronde il lavoro non si e s ig e da ciascuno, se non come condizione di salario, e g a ra n z ia in faccia di tutti, quale ragione avrebbe la comu­nanza d i resistere ad una legge di natura, di restringerne1 azione, d ’impedirne l’effetto?

Si d i r à che la libertà del lavoro non si può accordare perché im p lica l’appropriazione, e coll'appropriazione il

Page 153: Berti, Proudhon

L'ideale della comunanza 163

monopolio, l’usura, la proprietà, l’usufrutto dell’uomo da parte dell’altro uomo?

Replico che, se la libertà genera questi abusi, è per mancanza d’una legge di scambio, d’una costituzione del valore e d’una teoria di ripartizione che mantiene fra i consumatori l’eguaglianza, fra le funzioni l’equilibrio. Ora, chi è che si oppone alla ripartizione? e chi è che respinge con tu tte le sue forze la teoria del valore e la legge dello scambio? il comunismo. In modo che il comunismo respin­ge la libertà del lavoro, perché gli occorrerebbe una legge di ripartizione, e rigetta in seguito la ripartizione al fine di conservare la comunanza del lavoro: che discorso scon­clusionato!

[...].Ho provato sempre che il lavoro non poteva essere

diviso senza che il consumo lo fosse; in altri termini, che la legge di divisione implicava una legge di ripartizione, e che questa ripartizione, procedendo per dare ed avere, sinonimo di tuo e di mio, era distruggitrice della comu­nanza. Cosi l’individualismo esiste fatalmente in seno della comunanza, nella distribuzione dei prodotti e nella divisione del lavoro: qualsiasi cosa faccia, la comunanza è condannata a perire; non ha che la scelta di abdicare fra le mani della giustizia, risolvendo il problema del valore, oppure di creare, sotto il manto della fratellanza, il dispotismo del numero invece del dispotismo della forza.

Tutto ciò che il socialismo ha messo fuori, dalla morte di Caino sino alle fucilate di Rive-de-Gier, su questo gran­de problema della organizzazione, non è altro che un grido di disperazione e d’impotenza, per non dire ima declama­zione da ciarlatano. Nessuno, oggi più di ieri, né nel socia­lismo, né nella parte proprietaria, ha risolto le contraddi­zioni della economia sociale; e tu tti questi apostoli ¿'orga­nizzazione e di riforma, non faccio che riferire qui quello su cui abbiamo mille volte convenuto, mio caro Villegar- delle, sono utilizzatori della credulità pubblica, scontando, a nome della scienza avvenire, il beneficio d’una verità vec­chia come il mondo, e di cui non sanno nemmeno articolare il nome.

Il produttore sarà egli libero o no del suo lavoro? A questa questione cosi semplice, il socialismo non osa rispon­dere: da qualunque parte si volga è perduto. La divisione del lavoro è avvinta con un legame indissolubile alla ripar­tizione matematica dei prodotti, la libertà del produttore all'indipendenza del consumatore. Togliete la divisione del lavoro, la proporzionalità dei valori, l’uguaglianza delle fortune, ed il globo, capace di nutrire dieci miliardi d’uo-

Page 154: Berti, Proudhon

164 Testi

mini ricchi e forti, basta appena a qualche milione di sel­vaggi; togliete la libertà, e l’uomo non è che un miserabile forzato, che si trascina sino alla tomba la catena delle sue speranze deluse] togliete l’individualismo delle esistenze, e fate dell’umanità un grande polipaio. Ma, affermate la divisione del lavoro, e la comunanza sparisce con lunitor- mità; affermate la libertà, ed i misteri della politica cadono con la religione dello Stato; affermate l’organizzazione, e la comunanza delle persone non è più che uno spavente­vole incubo.

La comunanza con la divisione del lavoro, la comu­nanza con la libertà, la comunanza con l’organizzazione, per­bacco! è il caos con gli attributi della luce, della vita e del- l’intelligenza. E domandate perché non sono comunista. Consultate, di grazia, il dizionario degli antinomi, e saprete perché non sono comunista.

7. La comunità è impossibile senza la giustizia, e peri­sce per la giustizia

Il non-io, diceva un filosofo, è l’io che si obbietta, che s’oppone a se stesso e si prende per un altro, il soggetto e l’oggetto sono identici: A uguale ad A. . .

Questo principio, che serve di base a tutto un sistema di filosofìa, e che nella speculazione si può ancora conside­rare co m e vero, è anche il punto di partenza della scienza economica, il primo assioma della giustizia distributiva, in quest'o rd ine d’idee A è uguale ad A, cioè il lavoro realiz­zato è m atem aticamente uguale al lavoro pensato, per conseguenza, il salario dell’operaio è uguale al suo prodotto, la consum azione uguale alla produzione. Ciò è vero cosi dell’ind ividuo che scambia con altri produttori, come eie lavoro collettivo che non scambia che con se stesso, come dell'uom o sequestrato dai suoi simili e che diventa allora egli so lo tu tta la umanità. Il salario nel lavoratore conet; tivo è u g u a le al prodotto; conseguentemente 1 prodotti ai tutti i lav o ra to ri sono uguali fra essi, ed i loro salari ancora uguali: là è il principio dell’eguaglianza delle condizioni e delle fo r tu n e . . . .. .

Cosi l ’eguaglianza, nell’uomo collettivo, non è altro cne l’eguaglianza del tu tto alla somma delle parti; si stabilisce in seg u ito , a mezzo della libertà, fra le corporazioni indu­striali e le classi dei cittadini; si costituisce infine, lenta­mente e co n oscillazioni infinite, fra gli individui. Ma 1 ugua­

Page 155: Berti, Proudhon

L’ideale della comunanza 165

glianza deve essere alla fine universale, perché ogni indi­viduo rappresenta l’umanità, ed essendo l’uomo uguale all’altro uomo, il prodotto deve diventare, fra tutti, uguale al prodotto.

Tale non è il punto di vista della comunanza. La comu­nanza ha orrore delle cifre, l’aritm etica le è mortale. Essa non ammette che la legge dell’universo, omnia in pondere et numero, et mensura, sia pure la legge della società; la comunanza, in una parola, non accetta l’eguaglianza e nega la giustizia.

Quale è dunque il principio a cui dà la preferenza? Se­condo Cabet, la fratellanza. Bisogna che io confessi, questa scempiaggine conta fra i suoi apologisti uomini di molta minore innocenza dell’onorevole Cabet.

L’eguaglianza e la giustizia, a quel che assicurano questi profondi teoretici, non sono che rapporti di proprietà e di antagonismo che devono sparire sotto la legge d’amore e di devozione. In questo nuovo stato, dare è sinonimo di ricevere; la fortuna consiste nel prodigarsi; all’emulazio­ne degli egoismi succede l’emulazione delle abnegazioni. Tale è l’idea superiore del socialismo, idea che è nostro dovere approfondire in quanto, grazie a quest’idea superiore, per­diamo tu tte le idee inferiori di giusto, e ingiusto, di diritto e di dovere, di obbligazione e di danno, ecc. ecc. Da idea superiore in idea superiore finiremo per non avere più idee.

8. La comunanza eclettica, inintelligente e inintelligi­bile

Come abbiamo detto non c’è niente nell’utopia socia­lista che non si ritrovi nell’uso proprietario, conformemente al principio della scuola: Nihil est in intellectu, quod prius non fuerit in sensu. Il socialismo non possiede niente che gli sia proprio; ciò che lo distingue, lo costituisce, lo fa essere ciò che è, è l’arbitrio e l’assurdità dei suoi prestiti.

Che cos’è la comunanza? È l’idea economica dello Stato spinta sino all'assorbimento della personalità e dell’inizia- tiva individuale. Ora, il comunismo non ha compreso la natura e la destinazione dello Stato. Impadronendosi di questa categoria allo scopo di dare a se stesso corpo e aspetto, non ha preso dell’idea che la parte reazionaria; si è manifestato nella sua impotenza, prendendo per

Page 156: Berti, Proudhon

166 Testi

tipo di organizzazione industriale l’organizzazione della Polizia. Lo Stato, esso dice, dispone sovranamente del ser- vìzio dei suoi impiegati, che in cambio nutre, alloggia e Pensiona; dunque lo Stato può pure esercitare l'agricoltura ® »industria, nutrire e pensionare tu tti i lavoratori. Il ocialismo, più ignorante mille volte che l'economia poli­t a , non ha veduto che, facendo rientrare nello Stato le

. tre categorie del lavoro, per questo solo esso cambiava Produttori in improduttivi; non ha compreso che i servizi

Pubblici, precisamente perché sono pubblici, o eseguiti dallo tato, costano molto di più di ciò che valgono; che la ten- enza della società deve essere di diminuirne incessante­

mente il numero, e che, ben lungi dal subordinare la libertà p iv id u a le aU° Stato, è lo Stato, la comunanza, che biso­gna sottomettere alla libertà individuale.

U socialismo ha proceduto egualmente in tutti i suoi P‘agi. La famiglia gli offriva il tipo d'una comunanza fon-

ata su ll’amore e l’affetto; tosto esso si è vantato di rapportare la famiglia, come l’industria e l’agricoltura, nel-o ¿»tato; e la distinzione delle famiglie ha fatto luogo alla oiriunanza di famiglia, come la distinzione dei monopoli VepK ^a t.to luogo alla comunanza del monopolio.

., Lhe vi era mai nella famiglia prima che il socialismo avesse assorbita nelFindivisione? Vi era il matrimonio, unione dell’uomo con se stesso tram ite la separazione ej sessi, la società nella solitudine, un dialogo in un mo-

sn r ' ^ ra consumazione della personalità umana. Il cialismo non vi ha visto che una derogazione al suo prin- Pio, argom entando dalla lascivia dei selvaggi e dalla equenza degli adulteri in una civiltà in crisi, ha rime-

., ato a tu tto sopprimendo il matrimonio e rimpiazzando nviolabilità dell’amore con la licenza degli accoppiamenti.

la p ressa cosi la personalità dell’uomo, nell’amore e nel lavoro, i l cammino sembrava facile all’organizzazione del avoro e alla ripartizione dei prodotti.„ Organizzare, distribuire il lavoro, che c’è di più facile?

en?a d u b b io la divisione del lavoro è anticomunista, essa PPropria, in un grado, piccolo quanto si voglia, le fun- oni a gruppi, e, nei gruppi, a individui. Senza dubbio c°ra I a. comunanza sarebbe più perfetta se potesse evitare

na simile distribuzione. Ma questo inconveniente dell’ap- P opnazione del lavoro sparirà nella disappropriazione dei Prodotti. Nessuno potendo attribuirsi esclusivamente il pos-

sso deg li strum enti del lavoro, né i prodotti del lavoro, e la lo ro circolazione, né la loro distribuzione, la comu- ,nza r e s t a intatta, e tu tte le cure del governo consistono

Produrre di più e con le minori spese possibili.

Page 157: Berti, Proudhon

L’ideale della comunanza 167

Ma, aveva osservato l’economia politica, il problema del­la divisione del lavoro non consiste solo nel realizzare la più grande somma di prodotti, consiste ancora nel realiz­zare questa quantità senza pregiudizio fisico, m orale o in­tellettuale per il lavoratore. Ora, è provato che l’intelligenza del lavoratore è tanto più proclive all’idiotismo quanto il lavoro è maggiormente diviso; e reciprocamente, che più cose l'uomo abbraccia nelle sue combinazioni, riportando sulle altre i disgusti dell’esecuzione e la cura dei dettagli, più la sua ragione si fortifica, più il suo genio si eleva e domina. Come dunque conciliare la necessità di ima divi­sione parcellare con lo sviluppo integrale delle facoltà, svi­luppo che per ogni cittadino è un diritto e un dovere, e per tutti ima condizione di eguaglianza; ma sviluppo che, esaltando la personalità, è la morte del comuniSmo?

A questo punto, il socialismo si è mostrato cosi povero logico come disprezzabile ciarlatano. Alla divisione parcel­lare ha aggiunto il taglio delle sezioni gettando parcelle su parcelle, incisioni su incisioni, la discordia sulla noia, il tumulto sull’insipidità. Esso non vuole che i lavoratori aspi­rino tutti a diventare generalizzatori e sin tetici; m a riserva questa distinzione per le nature privilegiate di cui ha fatto ora degli usufruenti alla maniera dei proprietari. A ciascu- no secondo la sua attitudine, ad ogni attitudine secondo le sue opere; tra poco degli schiavi, i prim i saranno come gli ultimi e gli ultimi come i primi. Il socialismo non ha visto, o piuttosto ha troppo visto che la divisione del lavoro era lo strumento del progresso e dell’eguaglianza delle in­telligenze nello stesso tempo che del progresso e dell’egua­glianza delle fortune; esso respinge con tutte le sue forze questa eguaglianza che gli ripugna, perché sostituisce al sacrificio obbligatorio il sacrificio libero; ed è per questo che ora pone la capacità al disopra del lavoro parcellare, ora la rigetta al disotto. In Icaria come in Platone, come nel falansterio, dappertutto infine nei libri socialisti, la scienza e l’arte sono trattate come specialità e corpi di mestieri; in nessuna parte si vedono apparire come facoltà che l’edu­cazione deve sviluppare in tu tti gli uomini. Lei conosce il socialismo, mio caro Villegardelle, nel suo personale come pure nei suoi libri. Renda testimonianza alla verità: crede esso all’eguaglianza delle intelligenze? Il socialismo, che esige la devozione, vuole forse l’eguaglianza delle condi­zioni? Ha riscontrato nel socialismo, parlo del socialismo dogmatico, altra cosa fuorché vanità e stupidaggine? Dica se io calunnio.

Page 158: Berti, Proudhon

168 Testi

Volete che prenda confidenza nel lavoro, nella dili­genza, nella delicatezza dei miei fratelli. Non c’è bisogno di organizzare una politica, di creare uno spionaggio mutuo, d altronde ingiurioso, impossibile. Fate che per ognuno di n? 1 11 benessere risulti esclusivamente dal lavoro, in modo

e a misura del lavoro diventi l'esatta misura del benes­sere, e che il prodotto del lavoro sia come una seconda e ncorruttibile coscienza, la cui testimonianza punisca o emuneri, secondo il merito o il demerito, ogni azione dei- uomo. Compilate ima scala o quadro comparativo dei aiori che mostri ad un tempo le oscillazioni anteriori e le sanazioni future, tramite cui il produttore possa sempre

dirigere le sue operazioni nel modo più vantaggioso, senza 1Un f m eFe ^ sovrapproduzione né disastro,

d I n ’ nfine, a tutti i valori un’espressione comune, euotta dal paragone con uno di essi, e che serva di misura

per tutte le transazioni. In tali condizioni il lavoratore, asciato a se stesso, e godendo della più completa indipen­

denza, dà la più perfetta garanzia.

1 ^ c°munismo impone dei limiti a questa varietà del-• na . r a * Egli dice, come l’Eterno all’Oceano: tu verrai n* c'uij non andrai più lontano. L’uomo della comunanza,

eh M f creato> è creato per sempre... Non è punto cosi Ciò h fourierism ° ha preteso immobilizzare la scienza?

° clle Cabet fa per il costume, Fourier l’aveva fatto per deff'10^resso: clua e dei due merita di più la riconoscenza te- urrìan ità? Per arrivare a questi fini con maggior cer-

j a * * lcariano regola lo spirito pubblico, prende le sue ìsurc contro le idee nuove. In Icaria c’è un giornale co-

Chie Uno Provinciale ed uno nazionale; è, come nella icsa, un catechismo, un vangelo, una liturgia. La libertà pensiero è il diritto di fare proposte all'assemblea,

bli opir?°ne della maggioranza è reputata opinione pub- si Ca ? ° stesso modo che nelle nostre Camere la ragione d n0ni a ' ma non si discute. Il giornale, stampato a spese

•° ? ta to , è distribuito gratis, rende conto delle delibe- ziom, fa conoscere la cifra della minoranza, analizza le

leu r a ? loni dopo che tutto è detto. I libri di scienza e di bli > T Ura sono fa tti e pubblicati per delegazione; la pub- an n ° n ® ammessa per niente altro. In effetti, tutto nro& nend° a^ a comunanza, nessuno avendo niente di bil TV i stam Pa di un libro non autorizzato è impossi­si t a ° ra in poi, che si avrebbe a dire? Ogni idea faziosa m_ r° y a dunque arrestata nel suo nascere, e noi non avremo tivà ^ e?*tti di stampa: è l’ideale della politica preven-

vosi, il comuniSmo è condotto dalla logica all'intolle­

Page 159: Berti, Proudhon

L’ideale della comunanza 169

ranza delle idee. Ma, misericordia! L’intolleranza delle idee come l’intolleranza delle persone, è l’esclusione, è la pro­prietà!... La comunanza è la proprietà! Ciò non si capisce più, e non pertanto è indubitabile, lo vedrete.

Di tu tti i pregiudizi inintelligenti e retrogradi, quello che i comunisti accarezzano di più è la dittatura. Ditta­tura dell’industria, dittatura del commercio, dittatura del pensiero, dittatura nella vita sociale e nella vita privata, dittatura dappertutto, tale è il dogma librato, come la nuvola sul Sinai, sopra l’utopia icariana. La rivoluzione sociale Cabet non la concepisce come effetto possibile dello sviluppo delle istituzioni e del concorso delle intelligenze; quest’idea è troppo metafisica per il suo gran cuore. D’accordo con Platone e tu tti i rivelatori, d ’accordo con Robespierre e Napoleone, d ’accordo con Fourier, questo dittatore della scienza sociale, che nulla ha lasciato da scoprire; d’accordo infine con Blanc e la democrazia di Luglio, che vuole procurare la felicità del popolo suo mal­grado e dare al potere la più grande forza d’iniziativa possi­bile, Cabet fa venire la riforma dal consiglio, dalla volontà, dall’alta missione di un personaggio, eroe, messia e rappre­sentante degli Icariani. Cabet si guarda bene di far nascere la legge nuova dalle discussioni di un’assemblea regolar­mente uscita dall’elezione popolare, mezzo troppo lento e che comprometterebbe tutto. Gli abbisogna un uomo. Dopo avere soppresso tu tte le volontà individuali, le concentra in un’individualità suprema che esprime il pensiero col­lettivo, e come il motore immobile d ’Aristotile, dà l’impulso a tutte le attività subalterne. Cosi, dal semplice sviluppo dell’idea si è invincibilmente condotti a concludere che l ’ideale della comunanza è l’assolutismo. Ed invano si di­rebbe che quest'assolutismo sarà transitorio, poiché se una cosa è necessaria un solo istante, lo diventa per sempre, la transizione è eterna.

Il comunismo, prestito disgraziato fatto dall’abituale regime proprietario, è il disgusto del lavoro, la noia della vita, la soppressione del pensiero, la morte dell'io, l’afferma­zione del nulla. Il comunismo, nella scienza come nella natura, è sinonimo di nichilismo, d'indivisione, d’immobi­lità, di notte, di silenzio; è l’opposto del reale, il fondo nero su cui il Creatore, Dio di luce, ha dipinto l’universo *.

* Da P.-J. P ro udhon , Sistema delle contraddizioni eco­nomiche, filosofia della miseria, in Biblioteca dell’cconomi- sta, Torino 1882; opera riedita da Edizioni della Rivista « Anarchismo », Catania 1975, pp. 468498.

Page 160: Berti, Proudhon

IX. LO STATO SECONDO I COMUNISTI

Due correnti, due orientamenti diversi si sono cosi avvicendati all’interno della massa lavoratrice, e ancora oggi vi determinano una certa confusione. Ma il coJso delle conversioni politiche è cosi, simile a quello dello sp - rito umano, simile a quello della scienza. È necessario pas: sare per il pregiudizio, l’abitudine, se si vuole essere sicuri di arrivare alla verità. È ridicolo che gli avversari dell eman­cipazione operaia si rallegrino di queste divisioni, come se esse non fossero la condizione del progresso, la vita stessadeU’um anità. . . . . j :

Il sistem a del Luxembourg, in fondo simile a quello Cabet, di Owen, dei Fratelli Moravi, di Campanella, di M ro, di Platone, dei prim i cristiani, ecc., sistema comunista, governativo, dittatoriale, autoritario, dottrinano, parte aai principio che l’individuo è essenzialmente subordinato alia collettività; che solo ad essa l’individuo deve il suo diritto e la su a vita; che il cittadino appartiene allo Stato comeil bam bino alla famiglia; che esso è sottoposto all autorità sta ta le , è in suo possesso, in manu, e quindi le deve assoluta obbedienza. .*x i

In v ir tù del principio fondamentale della sovranità col­lettiva e della subordinazione individuale, la scuola aei Luxem bourg tende, in teoria e in pratica, a riportare tu tto allo S ta to , o, il che è lo stesso, alla comunità: lavoro, ina stria, p rop rie tà , commercio, istruzione pubblica, ricchezza, come p u re la legislazione, la giustizia, la polizia, 1 lavori pubblici, la diplomazia e la guerra; perché tutto venga poi d is trib u ito e ripartito, in nome della comunità o delio Stato, a ogni cittadino, membro della grande famiglia, se­condo le sue capacità e i suoi bisogni. . .

D icevo poco fa che il primo movimento, il primo pensier della dem ocrazia lavoratrice, impegnata a ricercare la sua legge a p artire da un punto di vista antitetico a queuo della borghesia , doveva consistere nel ritorcere contro quest’u l t im a le sue stesse parole d’ordine: è esattamente q u an to risu lta , alla prima occhiata, dall’esame del sistema co m u n ista .

Page 161: Berti, Proudhon

Lo S tato secondo i comunisti 171

Qual è il principio fondamentale della vecchia società, borghese o feudale, rivoluzionata o di diritto divino? È Yautorità, che la si faccia discendere dal cielo o che la si deduca, con Rousseau, dalla collettività nazionale. Da parte loro, la stessa cosa hanno detto e fatto i comunisti. Essi fanno risalire tutto alla sovranità del popolo, al diritto della collettività; la loro nozione del potere o dello S tato è assolutamente identica a quella dei loro antichi padroni. Che allo Stato si dia il nome di impero, di monarchia, di repubblica, di democrazia o di comunità, è evidentemente sempre la stessa cosa. Per gli uomini di questa scuola, il diritto dell’uomo e del cittadino dipende interamente dalla sovranità del popolo; la sua stessa libertà ne è una emana­zione. I comunisti del Luxembourg, quelli di Icaria ecc., possono prestare giuramento a Napoleone III con la co­scienza tranquilla: la loro professione di fede non è in contrasto, quanto al principio, con la Costituzione del 1852; anzi, è molto meno liberale.

Passiamo ora dall'ordine politico all’ordine economico. Da chi, nella vecchia società, l’individuo, nobile o borghese, riceveva i suoi titoli, i possessi, i privilegi, gli appannaggi e le prerogative? In definitiva, dalla legge del sovrano. Per quanto riguarda la proprietà, ad esempio, prima sottoil regime del diritto romano, poi sotto il sistema feudale, infine sotto l’ispirazione delle idee dell’89, era stato certo possibile addurre ragioni di convenienza, di opportunità, di evoluzione, richiamarsi ai costumi domestici, alla stessa industria e al progresso: la proprietà restava sempre una concessione dello Stato, unico proprietario naturale del suolo, in quanto rappresentante della comunità nazionale.I comunisti hanno impostato le cose nello stesso modo: anche per essi, in linea di principio, l’individuo riceve dallo Stato tu tti i suoi beni, le facoltà, le cariche, gli onori, il benessere, il talento stesso, ecc. L’unica differenza sta nell’applicazione del principio. Secondo i comunisti, l’antico Stato, per ragione o per necessità, più o meno si era disfatto; molte famiglie, nobili e borghesi, erano più o meno uscite dalla proprietà comune primitiva e avevano costituito, per cosi dire, delle piccole sovranità in seno alla grande sovra­nità. I comunisti si sono dati allora il compito di far rien­trare nello Stato tu tti i frammenti sottrattisi al suo domi­nio; si potrebbe perciò concludere che la rivoluzione demo­cratica e sociale, secondo il sistema del Luxembourg, non è altro, in linea di principio, che una restaurazione, che poi significa un ritorno indietro.

Perciò, come un esercito che è riuscito a strappare i cannoni al nemico, il comuniSmo non ha fatto altro che

Page 162: Berti, Proudhon

172 Testi

rivoltare contro l’esercito dei proprietari la sua stessa arti­glieria. Lo schiavo ha sempre scimmiottato il padrone; e il democratico, in fondo, non si è mai distinto nettamente dai-

autocrate. Si possono addurre altre prove al riguardo, r e r realizzare concretamente il suo progetto, a prescin­

dere dalla forza pubblica della quale ancora non poteva aisporre, il partito del Luxembourg sosteneva e raccoman- aava 1 associazione. Nel mondo economico l’idea dell’asse^ ciazione non è nuova; anzi, per essere esatti, proprio gli o tati di diritto divino, antichi e moderni, hanno fondato le Più potenti associazioni e ne hanno elaborato le teorie.

. . n° s tra legislazione borghese (Codice civile e commer­ciate) riconosce vari generi e specie di associazioni. Cosa vi nanno aggiunto di nuovo i teorici del Luxembourg? Asso-

mente nulla. Talvolta l’associazione, per loro, è stata una semplice comunità di beni e guadagni (articoli 1836 e seguenti); qualche altra volta l’hanno intesa come semplice partecipazione o cooperazione, oppure come una società a responsabilità collettiva e in accomandita; più spesso hanno considerato associazioni operaie delle compagnie di lavo-- on potenti e numerose, sovvenzionate, finanziate e di­rette dallo Stato, capaci di attirare a sé la massa operaia, accaparrarsi lavori e imprese, invadere ogni settore indu­striale, coltura, commercio, funzione, proprietà; creare il vuoto nelle aziende e nelle imprese agricole private; schiac­ciale, s trito la re qualsiasi azione individuale, qualsiasi pos­sesso separato , vita, libertà, fortuna, esattamente come

no oggi ie grandi società anonime.1 ne^ e concezioni del Luxembourg, la sfera pub-in eya portare alla fine di ogni proprietà; l’associa-

inrn*2 Pro v °care la fine di tutte le associazioni separate o il nnt r ia sso rbimento in una sola; la concorrenza, rivolta pn • iSe .stessa, portare alla soppressione della concor-

1 e.J:a’ a. libertà collettiva, infine, inglobare tutte le libertà p?ratlV e* locali e particolari.

,r Q uanto riguarda il governo, le sue garanzie e le sue to rm e , la questione era tratta ta in conformità con quella aell'associazione e del diritto dell’uomo: anche in questo c a so , non apportava nulla di nuovo; la formula era sempre quella tradizionale, salvo l’esagerazione comuni-

; | c(9 n .do la teoria del Luxembourg, il sistema politico si può uetin ire; una democrazia compatta, fondata in appa­renza s u lla d itta tu ra delle masse, ma in cui le masse hanno H I? f ^>otere di garantire la servitù universale, secondo delie ro rrn u le e delle parole d’ordine prese in prestito dal veccnio asso lu tism o, e che si possono cosi riassumere:

com unione del potere;

Page 163: Berti, Proudhon

Lo Stato secondo i comunisti 173

— accentramento;— distruzione sistematica d i ogni pensiero individuale, corporativo e locale, ritenuto scissionistico;— polizia inquisitoria;— abolizione o almeno restrizione della famiglia e, a mag­gior ragione, dell’eredità;— il suffragio universale organizzato in modo tale che sanzioni continuam ente questa sorta di anonim a tirannia, che approvi, in altri termini, il prevalere dei soggetti m e­diocri o perfino incapaci, sem pre in maggioranza, sui citta­dini capaci e gli sp iriti indipendenti, denunciati come so­spetti e, naturalm ente, inferiori di num ero *.

* Da P.-J. Proudiion, De la capacitò politique des classes ouvrières, in P. An sa rt , P.-J. Proudhon (Estratti), La Pie­tra, Milano 1978, pp. 233-236.

Page 164: Berti, Proudhon

x. LA TEORIA DELLA GIUSTIZIA

Realismo della Giustizia - La trascendenza e l'imma­nenza

XV. Da quanto precede risulta già un punto essenziale, che possiamo considerare come acquisito, cioè:

Che p e r regolare i rapporti degli individui fra di loro, tarli vivere insieme e l’uno grazie all’altro, e creare cosi la società, è necessario un principio, una forza, una entità, qualche cosa come ciò che noi chiamiamo la Giustizia, che abbia la sua realtà, la sua sede in qualche luogo, dal quale determ ini le volontà ed imponga loro le sue regole.

Quale è questo potere? Dove coglierlo? Come definirlo? eiò sta ora la questione.Si è pre teso che la Giustizia non sia altro che un rap­

porto di equilibrio, concepito dall’intelletto, m a liberamente accettato d alla volontà, come ogni altra speculazione dello spirito, in ragione della utilità che esso vi trova; in modo che la Giustizia, ricondotta alla sua formula, riducendosi a una m isu ra di precauzione e di assicurazione, a un atto di benevolenza, anzi di simpatia, m a sempre in vista del-1 amore di se stesso, non sia, al di fuori di ciò, che una immaginazione, un nulla.

Ma senza contare che quest’opinione è smentita dal sen­timento un iversa le che riconosce ed afferma nella Giustizia ben altro c h e un calcolo di probabilità e una m isura di garanzia, s i può osservare, anzitutto, che in questo siste­ma, che n o n è altro che quello del dubbio morale, la società è im possibile: noi lo proviamo oggi come lo provarono i Greci e i R om ani; inoltre, in secondo luogo, che in assenza di una fo rz a di Giustizia, preponderante nelle anime, sic­come la v io lenza e la frode ridiventerebbero la sola legge, la libertà, m alg rad o tutte le polizie e le garanzie, sarebbe distrutta, e l’um anità diverrebbe una finzione. E ciò fa cadere la c r itic a .

Ritorno d u n q u e al mio proposito e dico:Q ualunque sia la Giustizia, e con qualunque nome la si

Page 165: Berti, Proudhon

La teoria della Giustizia 175

chiami, la necessità di un principio che agisca sulla volontà come una forza, e la determini nel senso del diritto o della reciprocità degli interessi, indipendentemente da ogni con­siderazione di egoismo, questa necessità, dico, è inconte­stabile. La società non può dipendere dai calcoli e dalle convenienze dell’egoismo; gli atti della umanità tu tta intera nelle sue ascensioni e nelle sue degradazioni lo testimoniano. Questo principio, questa forza, si tra tta di constatarlo come esistente, di analizzarne la natura, di darne la formula. Con­statare la realtà della Giustizia e definirla, indicarne le applicazioni generali, è oggi tu tta l ’etica: la filosofia morale, fino a una maggiore manifestazione della coscienza, non può andare oltre.

Orbene vi sono due modi di concepire la realtà della Giustizia:

0 come una pressione esercitata dall’esterno sull’io;0 come una facoltà dell’io, che, senza uscire dalla sua

coscienza, sentirebbe la sua dignità nella persona del pros­simo, con la stessa vivacità con cui la sente nella propria persona; e si troverebbe cosi, pur conservando la sua indi­vidualità, identico e adeguato allo stesso essere collettivo.

Nel primo caso, la Giustizia è esterna e superiore all’in­dividuo, sia che risieda nella collettività sociale, conside­ra ta come un essere sui generis la cui dignità prevale su quella di tutti i membri che la compongono, concezione che rientra nella teoria comunista già esaminata; sia che si metta la Giustizia ancora più in alto, nell’essere trascen­dente assoluto che anima e ispira la società, e che viene chiamato Dio.

Nel secondo caso la Giustizia è nell’intimo dell'indivi­duo, omogenea con la sua dignità, uguale a quella stessa dignità moltiplicata per la somma dei rapporti che la vita sociale com porta4*.

* Da P.-J. P ro udhon , La giustizia nella rivoluzione e nella Chiesa, a cura di Mario Albertini, Utet, Torino 1968, pp. 143-144.

Page 166: Berti, Proudhon

XI. LA TEORIA DEL FEDERALISMO

Posizione del problema politico - Principio dì una soluzione

a) L’ordine politico riposa su due principi strettam ente connessi, opposti e irriducibili: l’Autorità e la Libertà.

b) Da questi due principi, si deducono parallelamente due regimi contrari: il regime assolutista o autoritario, e il regime liberale.

c) Le forme di questi due regimi sono altrettanto diffe­renti fra di loro, incompatibili e logicamente inconciliabili quanto le loro nature; le abbiamo definite con due parole: Indivisione, e Separazione (del Potere).

d) La ragione ci dice che ogni dottrina deve svilupparsi secondo i suoi principi, ogni essere secondo la sua legge: la coerenza è la condizione della vita comune come del pensiero. Ma in politica si verifica esattamente il contrario: né l’Autorità né la Libertà possono costituirsi per conto loro, creare un sistema che sia esclusivamente loro proprio; anzi, sono precisamente condannate, quando vogliono sta­bilire ciascuna il proprio regime, a ricorrere reciprocamente e perpetuamente al principio opposto.

e) La conseguenza che ne risulta è che, siccome la fedeltà ai principi è possibile solo nella politica teorica ma la p ra­tica è obbligata a transazioni d’ogni sorta, ogni governo si riduce — a guardar bene —, malgrado la miglior volontà e la più gran virtù possibile, ad una creazione ibrida, equivoca, ad una prom iscuità di regimi che la logica ripu­dia e davanti alla quale la buona fede arretra spaventata. Nessun governo sfugge a tale contraddizione.

/) In conclusione: la pratica politica divenendo sempre più e fatalmente preda dell'arbitrario, la corruzione si impa­dronisce presto del potere, e la società è trascinata, senza posa e senza risorsa, sul piano inclinato delle rivoluzioni continue.

Page 167: Berti, Proudhon

La teoria del federalismo 177

Il mondo è a questo punto. Né si può dire che ciò sia effetto d 'una malizia satanica, o d’una particolare infermità della nostra natura, d’una condanna provvidenziale o di un capriccio della fortuna o d ’una sentenza del Destino. Le cose stanno cosi, ecco tutto . Sta a noi tra rre il miglior partito possibile da questa situazione singolare. Conside­riamo che da più di ottomila anni (i nostri ricordi storici non vanno più in là) tu tte le forme di governo, tutte le com­binazioni politiche e sociali sono state successivamente messe in opera, abbandonate, riprese, modificate, travestite, spinte alle estreme conseguenze; e che l’insuccesso ha co­stantem ente ricompensato lo zelo dei riformatori e deluso le speranze dei popoli. Sempre la bandiera della libertà ha servito da maschera al dispotismo; sempre le classi privi­legiate si son fatte promotrici, neH’interesse stesso dei loro privilegi, di istituzioni liberali ed egualitarie; sempre i partiti hanno m entito al loro programma; e sempre, l'in­differenza succedendo alla fiducia delusa e la corruzione allo spirito civico, gli Stati sono crollati per le conseguenze dei principi sui quali si erano fondati. Le razze più vigorose ed intelligenti si sono consumate in questo travaglio: la storia è piena del racconto delle loro lotte. Qualche volta una serie di trionfi esterni riuscì ad illudere stilla vitalità di uno Stato, e si potè credere ad una eccellenza di costi­tuzione, ad una saggezza di governo, che in realtà non esi­stevano. Infatti, col sopraggiungere della pace, i difetti del sistema balzavan fuori, e i popoli cercavano nella guerra civile il sollievo delle fatiche della guerra estera. La uma­nità è sempre andata cosi di rivoluzione in rivoluzione: le nazioni più celebrate, quelle che hanno sopravvissuto più a lungo, sono riuscite a durare solo con tal sistema. Fra tu tti i governi noti e praticati fino ad oggi, non se ne trova uno che, se fosse condannato a sussistere per forza propria, durerebbe l’età di un uomo. E, strana cosa, i capi di Stato ei loro ministri sono fra tu tti gli uomini quelli che meno credono alla durata del sistema da loro rappresentato: fino a che non se ne trovi una scienza sicura, i governi si sosten­gono solo sulla fede delle masse. I Greci e i Romani, che ci hanno lasciato in eredità le loro istituzioni coi loro esempi, giunti nel momento più interessante della loro evoluzione politica, si sono inabissati nella disperazione; e la società moderna sembra arrivata anch’essa alla sua crisi d’angoscia. Non prestate fede alle parole di quegli agitatori che gri­dano: Libertà, Eguaglianza, Nazionalità. È gente che non sa nulla: sono m orti che pretendono di risuscitare i morti.Il pubblico si affolla intorno a loro per un istante, come

Page 168: Berti, Proudhon

178 Testi

fa con i buffoni e coi ciarlatani; poi si allontana, col cer­vello vuoto e l’animo desolato.

Presagio sicuro della nostra prossima dissoluzione e del principio di un’èra nuova, la confusione delle lingue e delle idee è arrivata a un tal punto, che il primo venuto può proclamarsi a volontà repubblicano, monarchico, democra­tico, borghese, conservatore, socialista, liberale, tutt’insieme e contemporaneamente, senza aver paura che nessuno possa convincerlo di menzogna né di errore. I principi e i baroni del Primo Impero erano stati gli eroi del sanculottismo; la borghesia del 1814, rimpinzata di idee nazionali (la sola cosa che essa avesse afferrato delle istituzioni dell’Ottan- tanove), era liberale, e persin rivoluzionaria: il 1830 l’ha fatta ritornare consèrvatrice; il 1848 l’ha resa reazionaria, cattolica e più monarchica che mai. Adesso sono i repubbli­cani di febbraio quelli che favoriscono la monarchia di Vittorio Emanuele, mentre i socialisti di giugno si dichia­rano unitari. Vecchi seguaci di Ledru-Rollin si rappacifica­no con l’impero, dicendo che esso è la vera espressione « ri­voluzionaria » e la forma più « paterna » di governo; altri, è vero, li chiamano venduti, ma intanto si scagliano con furore contro il federalismo. È il guazzabuglio eretto a si­stema, la confusione organizzata, l ’apostasia permanente, il tradimento universale.

Si tratta di sapere se la società umana può arrivare ad una certa regolarità, equità, stabilità, che soddisfi la ragio­ne e la coscienza; o se noi siamo proprio condannati per l'eternità a questa ruota di Issione. Il problema è insolu­bile? Chiedo al mio lettore un po’ di pazienza; e se non gli metterò in mano la chiave di questo « imbroglio », allora soltanto avrà il d iritto di dire che la logica è un inganno, il progresso un’illusione, e la libertà un’utopia. Basta che egli si dia la pena di ragionare con me ancora per qualche momento: sebbene in una tal questione ragionare sia un esporsi ad ingannarsi da soli, e a perdere il proprio tempo e il cervello.

1. Dovremo osservare dapprima come i due principi, Autorità e Libertà, dai quali vengono tutte le difficoltà, si mostrano nella storia in una successione logica e cronolo­gica. L’Autorità, come la famiglia, come il padre, genitor, compare per prima: essa ha l’iniziativa, è una affermazione. La Libertà, coi suoi ragionamenti, vien dopo: è la critica, la protesta, la libera decisione. Le ragioni di quest’ordine successivo risultano dai concetti stessi di tali principi e dalla natura delle cose, e la storia conferma questo ragio­namento. In ciò non è possibile il dubbio e nessuna arbi­traria inversione.

Page 169: Berti, Proudhon

La teoria del federalismo 179

2. Un’altra osservazione, non meno importante, è che il regime autoritario, paternalistico e monarchico, si allontana tanto più dal proprio ideale quanto più numerosa diviene la famiglia, tribù o città, e quanto più lo Stato cresce in popolazione e territorio: cosicché più l'Autorità si estende, più diventa intollerabile. Donde le concessioni che essa è obbligata a fare all'opposto principio di Libertà. Inversa­mente, il regime di libertà tanto più si accosta al proprio ideale ed acquista probabilità di successo, in quanto lo Stato cresce in popolazione ed estensione, si moltiplicano i rapporti fra gli uomini e progredisce la scienza. Prima si comincerà a reclamare d’ogni parte la costituzione; più tardi si arriverà alla decentralizzazione. Pazientando un po’, si potrà veder sorgere l’idea della federazione. In conclu­sione, si potrà applicare alla libertà e alla autorità quello che diceva Giovanni il B attista di sé e di Gesù: Illam opor- te t crescere, hanc autem minui.

Questo duplice moto, l’uno retrogrado e l’altro pro­gressivo, e che si risolve in un fenomeno unico, risulta tanto dalla definizione concettuale dei principi, quanto dalla loro posizione reciproca e dalla loro azione. E anche qui non è possibile l’equivoco, e non c’è posto per nessuna interpre­tazione arbitraria: la cosa si impone per evidenza intuitiva e certezza matematica. Siamo in presenza di una legge.

3. La conseguenza di questa legge, che si può chiamare necessaria, è necessaria a sua volta: cioè che il principio d ’autorità, che compare per primo ed è come la materiao il dato da elaborare della Libertà, della ragione e del diritto, viene a poco a poco subordinato dal principio giu­ridico, razionalista e liberale; come il capo dello Stato, che è dapprima inviolabile, irresponsabile, assoluto, vero pater familias, diventa poi giudicabile dalla ragione, primo soggetto di legge, e infine un semplice agente, uno stru­mento o servitore della Libertà.

Questa terza proposizione è altrettanto certa delle due prime, esente d’ogni equivoco e contraddizione, e chiara­mente confermata dalla storia. Nella lotta eterna dei due principi, la Rivoluzione francese, al pari della Riforma, rappresenta una èra di critica: essa ci fa vedere, nell’ordi­ne politico, la Libertà che toglie ufficialmente il primato all’Autorità cosi come la Riforma, nell’ordine religioso, con­trassegnò il momento in cui il libero esame è venuto a prevalere sulla semplice fede. Dopo Lutero infatti ogni cre­denza religiosa si è fatta ragionatrice: l'ortodossia, non meno dell’eresia, ha assunto la pretesa di condurre l ’uomo

Page 170: Berti, Proudhon

180 Testi

alla fede per mezzo della ragione. Il precetto di San Paolo, Rationabile sit obsequium vestrum, è stato sempre più lar­gamente commentato e messo in pratica; Roma si è messa a discutere come Ginevra, e la religione tende ad imporsi come una scienza. La sottomissione alla Chiesa si è coni' plicata di tante condizioni e riserve che, salvo la differenza degli articoli di fede, non c’è più stata differenza di men­talità fra il cristiano e l’incredulo: essi non hanno la stessa opinione, questo è il punto; ma per il resto, modo di pen­sare, di ragionare, coscienza, tutti e due si comportano allo stesso modo. Similmente, dopo la Rivoluzione francese, il prestigio dell’autorità è diminuito: la deferenza agli ordini di un principe è divenuta condizionale, si esige dal sovrano una specie di reciprocità, garanzie. La mentalità politica è cambiata: anche i monarchici più ferventi, hanno voluto avere delle carte costituzionali come i vecchi baroni di Gio­vanni Senzaterra, e i Berryer, i Falloux, i Montalembert, possono chiamarsi altrettanto liberali quanto i nostri de­mocratici. Chateaubriand, il bando della Restaurazione, si vantava d ’essere filosofo repubblicano: per un semplice a tto del suo libero arbitrio, si costituì difensore dell’altare e del trono. E sono note le vicende del cattolicesimo spinto di Lamennais.

Cosi, mentre l ’autorità periclita, si fa di giorno in giorno più precaria, il sentimento del diritto si afferma, e la li­bertà , sempre sospetta, diviene tuttavia sempre più reale e p iù forte. L’assolutismo resiste quanto può, ma batte in ritira ta : sembra che la repu bblica , sempre combattuta, ca­lunniata, tradita, bandita, s’avanzi tuttavia a passi di gi­gante. Qual partito trarrem o noi da un fatto cosi capitale per la costituzione dei governi?

Com e affiora l ’idea della federazione

Considerato che, nell’ordine teorico come nella realtà storica, l’Autorità e la Libertà si succedono come per una specie di polarizzazione;

che la prima cala insensibilmente e si ritira, mentre la seconda cresce e si impone;

che risulta da questo duplice moto una specie di subal- ternizzazione dell’Autorità, che si rimette sempre più alle leggi della Libertà; considerato che, in altri termini, il regim e liberale o contrattuale guadagna ogni di più sul re­gim e autoritario, risulta che dovremo riferirci al concetto

Page 171: Berti, Proudhon

La teoria del federalismo 181

di contratto, come all’idea attualmente dominante nella politica.

• VIl contratto politico non acquista tutta la sua dignità e moralità se non a condizione: 1) d'essere sinallagmatico e commutativo; 2) d'essere circoscritto, riguardo al suo og­getto, entro certi limiti; due condizioni che si presuppon­gono esistenti sotto il regime democratico, m a che anche in esso troppo sovente non sono che una finzione. Possiamo forse dire che in una democrazia rappresentativa e centra- lizzatrice, in una monarchia costituzionale e censitaria, e tanto meno poi in una repupbblica comunistica sul tipo di Platone, il contratto politico che lega il cittadino allo Stato sia perfetto e reciproco? Possiamo forse dire che questo contratto, che toglie ai cittadini la metà o i due terzi della loro sovranità ed il quarto del loro prodotto, sia circoscritto entro giusti limiti? Sarebbe più esatto dire, come l’espe­rienza troppo spesso ci insegna, che il contratto, in tutti questi sistemi è esorbitante, oneroso: essendo, per una parte più o meno considerevole dei cittadini, un impegno senza giusta contropartita; e anche aleatorio : poiché il vantaggio promesso in cambio, già insufficiente, non è nep- pur sicuro.

Affinché il contratto politico risponda alle condizioni sinallagmatica e commutativa che esige l'idea stessa di de­mocrazia, affinché, essendo contenuto in giusti limiti, resti vantaggioso e comodo per tutti, bisogna che il cittadino, entrando in questa società: 1) abbia a ricevere tanto dallo Stato quanto egli sacrifica allo Stato; 2) che egli conservi tutta la propria libertà, la propria sovranità e il diritto di iniziativa, salvo per la parte relativa allo speciale oggetto per il quale si è fatto il contratto e si è chiesta la garanzia allo Stato.

Cosi regolato e inteso in tal senso, il contratto politico diventa quello che io chiamo: una federazione.

F ed era zio n e , dal latino foedus, genitivo foederis, vale a dire fatto, contratto, trattato , convenzione, alleanza, ecc., è una convenzione in v irtù della quale uno o più capi di famiglia, uno o più comuni, uno o più gruppi di comuni e Stati, si obbligano reciprocamente e su un piede d'egua­glianza gli uni verso gli altri, per uno o più scopi particola­ri, che diventano da quel momento particolare ed esclusiva incombenza dei delegati della Federazione5.

Esaminiamo bene questa definizione.Quello che fa l'essenza ed il carattere del contratto fe­

derale, sul quale io richiamo l'attenzione del lettore, è che in tal sistema i contraenti, capi di famiglia o comuni, can­

Page 172: Berti, Proudhon

182 Testi

toni o province o Stati, non solo si impegnano bilateral­mente e commutativamente gli uni verso gli altri, m a si riservano singolarmente, nel formare il patto, una quantità di diritti, di libertà, di autorità, di proprietà, maggiore di quella che essi sacrificano.

Cosi non è, per esempio, nella società universale di beni e prolitti autorizzata dal Codice Civile, detta solitamente «società in comunanza», che è l’immagine in miniatura di tu tti gli Stati assoluti. Colui che si impegna in una as­sociazione di tale specie, soprattutto se essa è perpetua, è limitato da legami, soggetto ad impegni, per una parte maggiore dell’iniziativa che conserva. Ed è questo appunto che rende un tal contratto cosi raro, e che in ogni tempo ha reso generalmente insopportabile la vita cenobitica. Qual­siasi impegno, anche sinallagmatico e commutativo, il qua­le, chiedendo agli associati la totalità dei loro sforzi, non lascia nulla alla loro indipendenza e li fa completamente votati all associazione, è un impegno eccessivo, che ripu­gna egualmente al cittadino come al privato individuo.

In base a tali principi, il contratto di federazione, aven­do per scopo, in linea generale, di garantire agli Stati con­federati la loro sovranità, l’integrità del territorio, la libertà dei cittadini; regolare pacificamente le loro controversie; attuare quei provvedimenti di carattere generale che riguar­dano la sicurezza e la prosperità comune: un tal contratto, dico, malgrado la importanza degli interessi in gioco, è essenzialmente limitato. L'Autorità che ha il compito di m etterlo in esecuzione non potrà mai opprimere le parti associate: vale a dire che le attribuzioni delle autorità fe-

n H°n P°tranno mai prevalere in numero e peso su quelle delle autorità comunali e provinciali, cosi come que­ste non possono indurre eccessivamente i d iritti e le pre­rogative dell’uomo e del cittadino. Perché se cosi non fosse, n com une diventerebbe una comunità, la federazione tor­nerebbe ad essere uno Stato centralizzato di tipo monar­chico, e l’autorità federale, da semplice mandataria subor­dinata alla volontà dei contraenti come deve essere, si pre­senterebbe come preponderante: invece di essere limitata ad u n servizio speciale, sarebbe intesa ad occuparsi di tu tte le a ttiv ità e le iniziative, e gli Stati confederati si trove­rebbero ridotti a prefetture, intendenze, succursali o regie. Tutto il corpo politico cosi ridotto, potrebbe allora chia­m arsi repubblica, o democrazia, o con qualunque altro nome, m a non sarebbe più uno Stato costituito nella pie­nezza delle sue autonomie, non sarebbe più una confede­razione. E la stessa cosa accadrebbe, a maggior ragione, se, p e r qualche errato calcolo d’economia, per deferenza

Page 173: Berti, Proudhon

La teoria del federalismo 183

particolare o per qualunque altra causa, i comuni o cantonio Stati confederati incaricassero imo di loro deH’ammini- strazione e del governo di tutti. La repubblica, da federa­tiva, diventerebbe unitaria: sarebbe sulla via del dispo­tismo *.

* Da P.-J. Proudhon, Du principe fédératif, o ra in P. An- sart, P.-J. Proudhon (Estratti), La Pietra, Milano 1978, pp. 270-277.

Page 174: Berti, Proudhon

XII. IL REGIME POLITICO FEDERALE

Il diritto economico, applicazione della giustizia alla eco­nomia politica, non è nient'altro che il regime di m utua­lità; una volta posto il diritto economico, se ne deduce su­bito il diritto pubblico. Un governo è un sistema di garan­zie: lo stesso principio di mutua garanzia, che deve assi­curare a ciascuno l’istruzione, il lavoro, la libera esplicazio­ne delle sue attitudini, il godimento della sua proprietà elo scambio dei prodotti e dei servizi, assicurerà egualmente a tu tti l’ordine, la giustizia, la pace, l’eguaglianza, la mo­derazione del potere, la fedeltà dei funzionari.

Il territorio è stato diviso dalla natura stessa in regioni, e per un mutuo accordo è stato diviso fra cornimi e suddi­viso tra famiglie; i lavori e le industrie si sono distribuite secondo una legge di divisione organica e hanno formato gruppi e corporazioni permesse; similmente, secondo il nuovo patto, la sovranità politica e l ’autorità civile si coor­dinano fra le regioni, i distretti, i comuni, e in questa coor­dinazione si identificano con la libertà.

La vecchia legge di unità e di indivisione è abrogata: il centro politico è ovunque, la circonferenza non è in alcun punto. Ogni gruppo, ogni razza, ogni lingua è sovrana nel suo territorio: ogni città è regina nel suo raggio d’azione. L’unità resta per queste promesse che si fanno tra loro i gruppi sovrani: 1) di governarsi mutuamente e di tra tta re con i vicini sulla base di certi principi; 2) di proteggersi contro il nemico esterno e la tirannia interna; 3) di pren­dere accordi nell’interesse delle rispettive imprese e di prestarsi assistenza nei loro infortuni: e, come Governo, resta sotto forma di un Consiglio nazionale costituito dai rappresentanti degli Stati e incaricato di vigilare sull’ese­cuzione dei patti e sul migliore andamento degli affari co­muni.

Quello che noi abbiamo chiamato fin qui mutualismo, trasportato nel campo politico prende il nome di federa­lism o : in una semplice sinonimia è espressa completamen­te tu tta la rivoluzione, politica ed economica.

Secondo la Democrazia Operaia, la politica è il corolla­

Page 175: Berti, Proudhon

Il regime politico federale 185

rio dell’economia; entrambe seguono la stessa legge: la re­pubblica unitaria, la monarchia costituzionale e l’autocra­zia accentratrice non hanno per l’avvenire p iù probabilità di riuscita di quello che non ne abbiano la anarchia m er­cantile o la comunità icariana.

L’idea m utualista al suo apparire non poteva non dare luogo ad obiezioni: due accuse si sono mosse ad essa, so­stanzialmente simili e differenti solo per il punto di vista di coloro che le esprimevano.

Gli antichi democratici sembra temano che il m utuali­smo distrugga l’Unità stessa, cioè il legame sociale e la vita collettiva, che danno a un popolo la sua forza di coe­sione e ne assicurano la potenza e la gloria. D’altro canto la borghesia ha espresso la stessa diffidenza, vedendo in questa m utualità senza limiti una tendenza all’anarchia, e in nome della libertà ha protestato contro questa ferocia del Diritto individuale, contro l’esorbitare della personalità.

Alcuni, dotati più di buone intenzioni che di prudenza, hanno prestato il fianco a queste critiche: è dovere quindi della Democrazia operaia il dimostrare che essa col suo principio di mutualità vuol realizzare il motto borghese del 1830 Libertà e Ordine pubblico, tradotto dalla Democrazia repubblicana del 1848 con l’altro m otto Unità e Libertà.

Osserviamo anzitutto che lo spirito umano tende es­senzialmente all’unità, che afferma in tutti i campi: nella Religione, nella Scienza, nel Diritto: a maggior ragione la vuole in Politica. L’Unità è la legge di tutto ciò che ha vita e di tutto ciò che è organizzato: chi sente, chi ama, chi com­batte, chi lavora cerca l’ordine e la felicità. L’assenza di unità è sta ta concepita come il principio proprio del regno satanico; l’anarchia, la dissoluzione è la m orte. Per l’unità si costruiscono le città, si formulano le leggi, si fondano gli Stati; per la paura dei dissolvimenti la polizia dei go­verni perseguita con le sue diffidenze e le sue collere l’in­vestigazione filosofica e l’analisi superba, la negazione empia e l’eresia deicida; per questa unità preziosa le nazioni si rassegnano talvolta alla tirannia più detestabile.

Non c’è Libertà senza Unità, e del pari non c’è Unità senza varietà, pluralità, divergenza. Queste due idee. Li­bertà e Unità (o Ordine) sono addossate l ’una all’altra, come credito e ipoteca, m ateria e spirito, corpo e anima. Non è possibile né separarle né assorbirle l’una nell'altra; bisogna rassegnarsi a farle vivere insieme in equilibrio.

La questione non è quindi di sapere se la Libertà risul­terà daU’Ordine, o se l’Órdine risulterà dalla Libertà; l’uno e l’altra esistono, legati indissolubilmente fra loro per l’eternità. Nessuna forma politica ha dato sinora la vera

Page 176: Berti, Proudhon

186 Testi

Qui la dell’accordo fra le due idee, perchécoercizione- 2 * stata sempre unità artificiale, frutto della setta di nàrtlt« Ji* ^I?°ra D°g.ma. Bandiera, Simbolo di ragione d f Stato’ Chiesa ° di razza, articolo di fede o

1 a n ^ m a ^ d e n ^ ove vogliono una unità che esprima tu tti i poteri runÌC i +Una unità spirituale che congiunga e tuttavia r-ì , . . i lostra. coscienza e della nostra ragione, cuore liherr. r-S'C1 u Pens.ler? libero, la coscienza libera, il giungendosi i ° ggl c* ° 9 c°rre è una unità, che, ag-tifichi di Qni t ? 5 5 nostre libertà, le accresca e si for-

L uniti ? libertà stesse.Poggi sul h?, i-Ca soddisfare a queste esigenze, purché Proprio fondainento della Verità e del Diritto,virtù di esca t mutualità promette di darci, perché in valore npr g, uomini si garantiscono reciprocamentelibertà nm n - f f ' buona fede per buona fede, libertà per Proprietà per nronri^tà *libertà • 5' na fede peertà, proprietà per proprietà *

operaie eriÌÌi« PR9yDH°N, La capacità politica delle classi Città di’ Castello ff£ l2 l! S‘ Pienmgeli’ ‘ 11 Solc° *’

I

Page 177: Berti, Proudhon

XIII. CRITICA DELLA PROPRIETÀ E RIVALUTAZIONE DELLA PROPRIETÀ

Nel 1840, sono più di ventidue anni, feci il mio ingresso nella scienza economica con la pubblicazione di un volume di 250 pagine, intitolato: Che cosa è la proprietà? Non ho bisogno di ricordare quale scandalo abbia causato la mia risposta, scandalo che continuò ad ingigantirsi per dodici anni, fino al colpo di Stato. Oggi che le menti si sono cal­mate, oggi soprattutto che pubblico io stesso ima teoria della proprietà la quale, ho l’orgoglio di dire, può sfidare tu tti gli attacchi, si leggeranno forse con interesse e soprat­tutto si comprenderanno meglio le mie spiegazioni.

Avevo cominciato da tre mesi appena i miei studi di economia politica quando mi accorsi di due cose: la prima che esisteva un intimo rapporto (ma io non sapevo quale) fra la costituzione dello Stato e la proprietà; la seconda, che tutto l’edificio economico e sociale fondava su que- s t’ultima e che tuttavia la relativa istituzione non era data né nell’economia politica né nel diritto naturale. Non datur dominium in oeconomia, dicevo fra me parafrasando l’afo­risma di quel vecchio fisico sul vuoto: la proprietà non è un elemento economico, non è essenziale alla scienza, e niente la giustifica. Donde può derivare? Quale è la sua natura?

Questo fu il soggetto della mia prima Memoria come la chiamai. Prevedevo da allora che la materia sarebbe stata copiosa e che il soggetto era ben lungi dall’essere esaurito.

Ora che non c’è più motivo di tremare per la proprietà, poiché abbiamo fatto apposta un imperatore per difenderla ed io stesso prendo la sua parte, non c’è più, oso lusingarmi, un lettore appena sensato e appena illuminato dalla logica, il quale non riconosca quanto io avessi ragione. La proprietà ha per fondamento il diritto del primo occupante? Ma è assurdo. Deriva dalla conquista? Ma sarebbe immorale.Si deve attribuirla al lavoro? Ma il lavoro non dà diritto che ai prodotti, tu tt’al più ad una indennità per l’adatta­mento del suolo, forse anche ad una preferenza nel pos­

Page 178: Berti, Proudhon

188 Testi

sesso, nel possesso intendiamoci bene; m ai e poi mai il lavoro può dare il diritto alla sovranità del feudo, a ciò che la legge romana chiamava dominio em inente di pro­prietà. Altrimenti bisognerebbe dire che ogni affittuario è, ipso facto, proprietario, e che colui che dà in affitto la sua terra se ne spropria. Tutto ciò che è stato spacciato ai nostri giorni circa le fatiche e i meriti dei colono sonò ciance sentimentali: non è né filosofia né diritto. L’opera pubblicata dal Thiers nel 1848 per la difesa della Proprietà è una mera bucolica. È stato il legislatore che ha creato la proprietà? Ma per quali motivi? In forza di quale autorità? Non se ne sa niente. Se è stato il legislatore che con un atto di suo arbitrio ha istituito la proprietà, lo stesso legislatore può abolirla ed espropriare i patrimoni, come dice il Labou- laye, dal momento che la proprietà è soltanto una finzione legale, un arbitrio; e un arbitrio tanto più odioso in quanto essa lascia fuori di sé la maggioranza del popolo. Bisogna dire, con qualcuno che si picca di metafisica, che la pro­prietà è l ’espressione dell’individualità, delle personalità e dell’io? Ma il possesso basta largamente a questa espres­sione; m a ancora una volta, se basta dire: questo campo è mio, per averne la proprietà, tutti sono proprietari allo stesso titolo. Ecco scoppiata la guerra civile con l’inevita­bile conclusione della schiavitù.

Ora, quando voi avete passato in rassegna la prima occupazione, la conquista, il lavoro, l’autorità del legisla­tore e la metafisica dell’io, voi avete esaurito tu tte le ipotesi dei giuristi suH'origine, sul fondamento della proprietà. Potete chiudere le biblioteche, poiché non c’è nulla di più.O forse dobbiam o credere con il Laboulaye che la proprietà è un artico lo di fede la cui discussione deve essere proibita, perché ag ire altrimenti significherebbe m ettere la società in pericolo? Ma la giustizia è amica della luce, solo il delitto cerca le tenebre. Cur non palam si decenter? La proprietà è dunque il furto?...

Q uesta dialettica — conveniamone poiché lo possiamo senza pericolo — era tanto invincibile quanto inesora­bile e le testimonianze che la legislazione stessa mi dava non erano fatte per sminuirla.

[ - ] .Nello stesso tempo in cui pronunciavo, in virtù della

m ia ana lisi, la condanna della proprietà, come si è svolta nel d ir itto romano, nel diritto francese, nell’economia poli­tica e n e lla storia, io respingevo, in termini non meno energici, l ’ipotesi contraria: la comunità. Questa esclu­sione del com unism o è consegnata nella mia prim a Memo­ria del 1840, capitolo V, e riprodotta con maggiore esten­

Page 179: Berti, Proudhon

Proprietà: critica e rivalutazione 189

sione e forza nel Sistema delle contraddizioni economiche, 1846, capitolo XII.

Qual era allora la mia concezione? Che la proprietà, essendo un assoluto, una nozione che implica due contrari, o, come dicevo con Kant ed Hegel, ima antinomia, doveva essere sintetizzata in una formula superiore che desse pari soddisfazione all’interesse collettivo e all’iniziativa indi­viduale e riunisse tutti i vantaggi della proprietà e del­l’associazione senza alcuno dei loro inconvenienti. Davo a questa formula superiore, preveduta e affermata da me fin dal 1840, in virtù della dialettica hegeliana, ma non ancora chiarita né definita, il nome provvisorio di possesso, termine equivoco, che richiamava una forma di istituzione che io non volevo e che ho abbandonato.

Le cose restarono cosi parecchi anni. Contro tutti gli attacchi che dovetti sopportare da sinistra e da destra mantenevo in tutti i suoi termini la mia critica, annuncian­do una nuova concezione della proprietà con la stessa cer­tezza con cui avevo negato la vecchia, benché non sapessi dire in che consistesse questa nuova concezione. La mia speranza, tu tto sommato, non doveva essere disillusa, come adesso si vede; soltanto la verità che io cercavo non poteva essere afferrata che con una rettificazione di metodo.

[...].Queste delucidazioni erano necessarie per fa r ben com­

prendere che la negazione teorica della proprietà, era la premessa necessaria per la sua conferma pratica e per il suo sviluppo. La proprietà se la si considera nell’origine è un principio intimamente vizioso e antisociale, ma desti­nato a divenire, con la sua generalizzazione e col concorso di altre istituzioni, il perno e la molla dell’intero sistem a sociale. La prim a parte di questa proposizione è stata dimo­strata dalla critica del 184048; spetta ora al lettore giudicare se la seconda sia provata in modo soddisfacente.

È vero che lo Stato, dopo essersi costituito sul prin­cipio della separazione dei poteri, necessita di un contrap­peso che gli impedisca di oscillare e di rendersi ostile alla libertà? È vero che tale contrappeso non può riscon­trarsi né nell’esercizio in comune del suolo, ne nel possessoo nella proprietà condizionata e ristretta, dipendente e feudale, poiché ciò significherebbe sistemare il contrap­peso nella potenza stessa che si ha il compito di contro­bilanciare, il che è manifestamente assurdo? È vero che noi troviamo tale contrappeso nella proprietà assoluta, cioè indipendente, pari in autorità e sovranità allo Stato? È vera la conseguenza che la proprietà, per la funzione essenzial­mente politica che le spetta, appunto perché il suo asso­

Page 180: Berti, Proudhon

190 Testi

lutismo deve opporsi a quello dello Stato, si pone nel sistema sociale come liberale, federativa, decentratrice, re­pubblicana, egualitaria, progressista e amante della giusti­zia? È vero che questi attributi, nessuno dei quali si trova nel principio di proprietà, le vengono a misura che essa si generalizza, cioè a misura che un maggior numero di cittadini arriva alla proprietà? Ed è vero che per operare questa generalizzazione, per assicurarne in seguito l’egua- gliamento, basta organizzare a fianco della proprietà e al suo servizio un certo numero di istituzioni e di servizi pub­blici, trascurati fino ad oggi o abbandonati al monopolio e all’anarchia? Ecco i quesiti su cui il lettore è invitato a pronunciarsi dopo maturo esame e seria riflessione.

Riconosciuta la missione politica e sociale della pro­prietà io vorrei richiamare ancora una volta l ’attenzione del lettore su quella specie d ’incompatibilità che esiste in questo caso fra il principio e i fini, e che fa della proprietà una creazione veramente straordinaria. È vero, domanderò ancora, che questa proprietà che oggi è priva di ogni biasimo, è pur tuttavia la stessa, per natura, per origini, per definizione psicologica, per vigore passionale, che ha subito una critica esatta ed imparziale con tanta sorpresa dell’opinione pubblica? Ed è vero che niente è stato modi­ficato, aggiunto, soppresso o addolcito nella primitiva nozione, e che se la proprietà si è umanizzata, se da scelle­rata è divenuta santa, non è perché noi ne abbiamo cam­biato la essenza, anzi noi l’abbiamo religiosamente rispet­tata, m a perché noi ne abbiamo soltanto ingrandita la sfera e generalizzato il campo?

E vero che in questa natura egoista, satanica e refrat­taria noi abbiamo trovato il mezzo più energico per resistere al dispotismo dello Stato ed uguagliare le fortune senza organizzare le spogliazioni e senza mettere la museruola alla libertà? È vero, dico, poiché io non potrò mai insistere troppo su questa verità alla quale non ci ha abituati la logica delle scuole, che per cambiare gli effetti di una isti­tuzione che nei suoi inizi fu il colmo delle iniquità, per trasform are l’angelo delle tenebre in angelo della luce, noi non abbiamo bisogno che di opporla a se stessa oltre che al potere pubblico, e di circondarla di garanzie e di decuplicare le sue forze, come se noi avessimo voluto esal­tare senza limiti, nella proprietà, proprio l ’assolutismo e1 abuso?

In tal modo, solo a condizione di restare come la natura l’ha fatta, solo a condizione di conservare intatta la sua personalità, indomo il suo io, e il suo spirito di rivoluzione e d’incontinenza, la proprietà può divenire uno strumento

Page 181: Berti, Proudhon

Proprietà: critica e rivalutazione 191

di garanzia, di libertà, di giustizia e di ordine. Non bisogna cambiare le sue tendenze, ma bensì le sue opere; ormai non si può più aspirare a purificare la coscienza um ana combat­tendone la passionalità come facevano i vecchi moralisti. Come l'albero, il cui frutto è aspro e verde da principio ma s’indora col sole e diviene p iù dolce del miele, cosi pro­digando luce, brezza e rugiada alla proprietà noi otterrem o dai suoi germi peccaminosi i fru tti della virtù. Pertanto la nostra critica anteriore sussiste sempre; la visione della proprietà liberale, egualitaria e moralizzatrice, cadrebbe se noi pretendessimo distinguerla dalla proprietà assolutista, accaparratrice ed abusiva. Cosi si è ottenuta per mezzo di una semplice messa a punto, senza alcuna alterazione del principio, quella trasformazione che io cercavo sotto il nome di sintesi.

Conclusioni

Bisogna sempre arrivare a conchiudere che la proprietà è ima autentica finzione legale: solo si può fare in modo che questa finzione sia nei suoi motivi tale da doverla con­siderare legittima. Senza di che non possiamo uscire dal­l’ambito del possesso e ogni nostra argomentazione è sofi­stica e in m ala fede. Si può fare in modo che questa fin­zione, che ci ripugna perché non ne comprendiamo il signi­ficato, divenga tanto sublime, tanto splendida, tanto giusta, che nessuno dei nostri diritti più reali, più positivi, più immediati e immanenti, possa starle al paragone, ed anzi essi sussistano solo per mezzo di questa chiave di volta: vera finzione.

Il principio di proprietà, ultralegale, extragiuridico, an­tieconomico, sovrumano, è pur sempre un prodotto spon­taneo dell’Essere universale e della società, e pertanto dob­biamo cercarne, se non la giustificazione completa, almeno la comprensione.

Il diritto di proprietà è assoluto, jus utendi et abutendi, diritto di usare e di abusare. Esso si oppone ad un altro potere assoluto, quello governativo, che comincia ad im­porgli la restrizione, quatenus juris ratio patitur, « in quan­to lo permette la ragione del diritto ». Dalla ragione del diritto alla ragione dello Stato il passo è breve, e perciò siamo in continuo pericolo di usurpazione e di despotismo. La giustificazione della proprietà che abbiamo ricercato inutilmente nelle sue origini, prima occupazione, usucapione,

Page 182: Berti, Proudhon

192 Testi

conquista, acquisto col lavoro, la troviamo invece nei suoi ;fini: essa è essenzialmente politica. Dove la proprietà appar­tiene alla collettività, senato, aristocrazia, principe o impe­ratore, non vi è che feudalità, vassallaggio, gerarchia e subor­dinazione; e per conseguenza nessuna libertà né autonomia.

Allo scopo di spezzare il fascio della sovranità collet­tiva, cosi esorbitante, cosi ripugnante, gli è stato eretto contro il dominio proprietario, segno concreto della sovra­nità del cittadino, ed è stato attribuito all'individuo, mentre allo Stato non spettano che le parti indivisibili e comuni per il loro uso: corsi d’acqua, laghi, stagni, strade, lande e montagne incolte, foreste e deserti, e tutto ciò che non è suscettibile di appropriazione privata. Per aumentare la possibilità di movimento e circolazione la terra è s ta ta resa liquidabile, alienabile e divisibile, dopo averla resa eredita­ria. La proprietà allodiale è imo smembramento della sovra­nità, perciò è particolarmente odiosa al potere pubblico e alla democrazia. È odiosa al primo in grazia alla sua onni­potenza, ed è l’avversaria dell'autocrazia come la libertà lo è dell’autorità; e non piace alle correnti più democratiche, tu tte infervorate di unità, di centralizzazione e di assoluti­smo. Il popolo è felice quando vede far la guerra ai pro­prietari. E tuttavia l’allodio è la base della repubblica.

La costituzione di una repubblica — mi si perm etta alm eno di impiegare questa parola nella sua alta accezione giuridica — è la condizione sine qua non della sua pro­sperità . Un giorno il generale Lafayette indicando Luigi Filip­po disse: « Egli rappresenta la migliore delle repubbliche »; e il regno costituzionale fu definito: « Una monarchia circon­d a ta d a istituzioni repubblicane ». La parola repubblica non è dunque sediziosa per se stessa e risponde alle vedute della scienza non meno che alle sue aspirazioni.

Le conseguenze dirette della proprietà allodiale sono:1) l ’amministrazione del comune da parte dei proprie­

tari, affittuari e operai riuniti in consiglio e perciò l'indipen­denza comunale e la disponibilità delle proprietà;

2) l ’amministrazione della provincia da parte di chi l ’ab ita . Da ciò deriva il decentramento e un principio di federazione. La funzione regia, come è stabilita dal sistema costituzionale, è qui sostituita da cittadini proprietari, che h an n o tutti gli occhi aperti sugli affari pubblici, senza b iso g n o di mediazione.

L a proprietà feudale non genererà mai una repubblica; e viceversa una repubblica, che lascerà decadere l’allodio a feu d o e che ricondurrà la proprietà al comuniSmo slavo, non p o trà sussistere e si convertirà in autocrazia.

D el pari la vera proprietà non produrrà mai una monar­

]

Page 183: Berti, Proudhon

Proprietà: critica e rivalutazione 193

chia e una vera monarchia non produrrà m ai ima vera proprietà. Se accadesse il contrario e se un insieme di proprietari eleggesse un capo, con questo stesso atto essi rinuncerebbero alla loro parte di sovranità e presto o tardi il principio di proprietà rimarrebbe alterato nelle loro mani; oppure se una monarchia creasse dei proprietari, implici­tamente abdicherebbe e si demolirebbe, a meno di non tra ­sformarsi volontariamente in regno costituzionale, regno più nominale che effettivo, rappresentante dei proprietari. Lo si è visto in Francia, allorquando, sotto Luigi Filippo, liberali e repubblicani fecero la guerra al campanilismo. Si serviva la causa della monarchia.

Cosi l'intera mia critica anteriore, e tutte le conclusioni egualitarie che ne ho dedotte, ricevono una sorprendente conferma.

Il principio di proprietà è ultralegale, extragiuridico, assolutista ed egoista per sua natura, fine all'iniquità, ma bisogna che sia cosi.

Ecco in che modo nelle previsioni della ragione univer­sale il principio dell’egoismo, usurpatore per sua natura ed improbo, diviene uno strumento di giustizia e di ordine, al punto che proprietà e diritto sono idee inseparabili e quasi sinonimi. La proprietà è l'egoismo idealizzato, consacrato e investito di una funzione politica e giuridica.

Bisogna che sia cosi: perché in nessun caso il diritto è tanto osservato come quando trova un difensore nell'egoi­smo e nella coalizione degli egoismi. In nessun caso la libertà sarà difesa contro il potere se essa non dispone di un mezzo di difesa, se essa non ha una sua fortezza ine­spugnabile.

Il lettore si guardi bene dal vedere in questo antago­nismo, in queste opposizioni e in questi equilibri, un mio m ero virtuosismo. So bene che una teoria semplicista come il comuniSmo o l'assolutismo di Stato è una concezione di gran lunga più facile che non lo studio delle antinomie. Ma non è colpa mia, essendo io un semplice osservatore e ricer­catore di serie. Sento dire da certi riformatori: sopprimia­mo tutte queste complicazioni di autorità, libertà, possesso, concorrenza, monopoli, imposte, bilancio commerciale, ser­vizi pubblici; creiamo un piano di società uniforme e tu tto sarà semplificato e risolto.

[ - ] .Il nostro sistema sociale è complicato, molto più che

non si sia creduto. Se oggi siamo in possesso di tu tti gli elementi, essi però hanno bisogno di essere coordinati e sintetizzati secondo le loro proprie leggi. In essi si scopre un'anima e una vita intima collettiva che si evolve al di

Page 184: Berti, Proudhon

194 T esti

fuori delle leggi geometriche e meccaniche, e che è impossi­bile assimilare al movimento rapido, uniforme, infallibile di una cristallizzazione; di cui la logica ordinaria, sillogistica, dommatica e unitaria non può rendere conto ma che si chiarisce meravigliosamente con l'aiuto di una filosofia più jarga, che ammetta nel suo sistema la pluralità dei principi, la lotta degli elementi, l ’opposizione dei contrari, e la sintesi eli tutti gli indefinibili e assoluti.

Ora siccome sappiamo che vi sono differenze nell’intelli- Senza non meno che nella forza: differenze nella memoria, nella riflessione, nell’idealizzazione, nella facoltà inventiva, nell amore, nel pensiero, nella sensibilità e anche nell'io, o coscienza; e siccome è impossibile dire dove cominci e dove unisca ciò che chiamiamo anima, perché dobbiamo rifiutarci ai ammettere che i principi sociali, cosi ben coordinati, e ispirati a tanta ragione, previdenza, sentimento, passione e giustizia siano l’indice di una vera vita, di un disegno supe­riore, di una ragione costituita diversamente dalla nostra?

Perché, se è cosi, non dovremmo vedere in questi fatti attuazione della creazione diretta e automatica della so-

ctet.a’ risultante dal semplice accostamento degli elementi e dal gioco delle forme che costituiscono la società?

Abbiamo scoperto una logica speciale e principi che non sono quelli della nostra ragione individuale, benché questa, studiando la società, possa arrivare a scoprirli e ad appropriarseli. C’è dunque una differenza tra la ragione individuale e quella collettiva.

Inoltre abbiamo potuto osservare, grazie alla proprietà d ‘J! sl,loi c°nnessi, un altro fenomeno e un'altra legge, quella

le forze libere, che vanno e vengono, con approssimazioni indefinite, vastità di azione e reazione, elasticità naturale, d il l.aPason esteso che è proprio della vita, della libertà,

‘Ha fantasia. Proprietà e Stato sono due creazioni sponta­nee di una legge immanente, che ripugna all’idea di inizia- ive dall'esterno, secondo la quale ipotesi ogni gruppo

umano avrebbe avuto bisogno di un iniziatore speciale, come fa un metropolita quando dà l’investitura ad un vescovo e come questo quando impone le mani al curato,

er ? sua volta battezza e governa le sue pecorelle.Ciò compreso, noteremmo che le leggi generali della

s:ona sono le medesime che reggono l’organizzazione so- C1, e‘ Fare la storia della proprietà presso un popolo equi­vale a dire come esso ha traversato le crisi della sua for­mazione politica, come ha prodotto i suoi poteri e i suoi organi, com e ha equilibrato le sue forze, regolato i suoi interessi, dotato i suoi cittadini; come è vissuto, come è

Page 185: Berti, Proudhon

Proprietà: critica e rivalutazione 195

morto. La proprietà è il principio più fondamentale di cui ci si possa servire per comprendere le rivoluzioni della storia. Essa non è ancora esistita nelle condizioni in cui la pone la teoria e nessuna nazione ha mai raggiunto il massimo livello di questa istituzione; ma essa regge positi­vamente la storia, benché assente, e obbliga le nazioni a rico­noscerla, punendole se la tradiscono.

[...].La proprietà non si misura sul merito, poiché essa non

è né salario, né compenso di qualunque genere, né deco­razione, né titolo onorifico; non si misura sulla potenza dell’individuo, poiché il lavoro, la produzione, il credito elo scambio non lo richiedono affatto. Essa è un dono gra­tuito, dato all'uomo per proteggerlo contro i pericoli del potere pubblico e le invasioni dei suoi simili. È la corazza della sua personalità indipendentemente dalle differenze di talento, genio, forza, attività, ecc.

[...].Nel regime comunitario e statalista ci vogliono la poli­

zia e l’autorità per garantire il debole contro l’invadenza del forte, ma sfortunatamente la polizia e l’autorità, da quando esistono, non hanno funzionato che a vantaggio del forte, di cui hanno potenziato i mezzi di usurpazione. La proprietà assoluta e incoercibile si protegge da se stessa. È l’arma difensiva del cittadino, il suo scudo: mentre il lavoro è la sua spada.

[...].L’equilibrio della proprietà richiede ancora garanzie

politiche ed economiche. Proprietà e Stato, tali sono i due poli della società. La teoria della proprietà è simmetrica a quella della discolpa per mezzo dei sacramenti dell’uomo caduto in peccato.

[...]•Noi respingiamo, insieme allo statalismo, il comunismo

in tutte le sue forme; noi vogliamo la determinazione delle funzioni pubbliche e di quelle individuali, dei servizi pub­blici e dei servizi privati. Non vi è che una cosa nuova per noi nella nostra tesi: che questa stessa proprietà il cui principio contraddittorio e pericoloso sollevava la nostra disapprovazione, viene da noi oggi interamente accettata, con la sua riserva parimenti contraddittoria: dominium est jus u tendi et abutendi re sua quatenus juris ratio patitur.

Noi abbiamo compreso che questa opposizione di due assoluti, di cui uno solo sarebbe irremissibilmente da con­dannarsi, e che dovrebbero essere respinti ambedue se vigessero in direzione separata, questa opposizione è il fon-

Page 186: Berti, Proudhon

196 Testi

lamento proprio dell’economia sociale e del diritto pub­blico: restando a noi il compito di governarla e di farla agire secondo le leggi della logica*.

* Da P.-J. Proudhon, La proprietà, trad. di A. Klitsche e La Grange, O.E.T., Bottega dell’antiquario, Roma 1947,

PP- 141-151; 165-171; 177-179; 182.

Page 187: Berti, Proudhon

XIV. LA TEORIA DEL M UTUALISM O

Le parole francesi mutuo, m utualità, m utuazione, che hanno per sinonimi reciproco, reciprocità, provengono dal latino m utuum , che significa prestito (di consumo), e in senso lato, scambio. Si sa che nel prestito di consumo l’oggetto prestato viene consumato da chi prende a prestito, il quale quindi ne restituisce l’equivalente, sia con un oggetto della stessa specie, sia con un oggetto di altra natura. Sup­poniamo che chi dà in prestito diventi a sua volta uno che prende a prestito, avremo una prestazione reciproca, dunque uno scambio: questo è il nesso logico che ci fa chiamare con lo stesso nome due operazioni diverse. Non c’è nulla di più elementare: perciò non vorrei insistere ancora sull’aspetto logico e grammaticale di questa nozione. Ci interessa piuttosto sapere in che modo, a partire dal­l’idea della mutualità, reciprocità, scambio, g iu s t iz ia , sosti­tuita a quella dell’autorità, comunità o carità, sia stato possibile, in politica e in economia politica, costituire un sistema di rapporti che tende addirittura a trasformare da cima a fondo l’ordine sociale.

A che titolo, prima di tutto, e sotto quale influenza l’idea di mutualità si è affermata nelle menti?

Abbiamo prima visto in quale modo la scuola del Luxembourg intende il rapporto dell’uomo e del cittadino con la società e con lo Stato: è un rapporto di subordina­zione. Di qui, l’organizzazione autoritaria e comunista.

Questa concezione governativa si scontra con quella dei fautori della libertà individuale, secondo i quali la società deve essere considerata non come una gerarchia di funzioni e di facoltà, bensì come un sistema equilibrato di libere forze, nel quale ognuno gode degli stessi diritti a patto di adempiere gli stessi doveri, riceve gli stessi benefici in cambio degli stessi servizi; quindi un sistema essenzialmente egualitario e liberale, che prescinde completamente dalle ricchezze, dal rango e dalle classi. Ecco, quindi, il ragiona­mento e le conclusioni a cui giungono questi antiautoritario liberali.

Page 188: Berti, Proudhon

198Testi

t .umana x°ptengono che. aH’interno deH’Universo, la natura zione d li e Pres.sione più elevata, per non dire l’incarna- riceve N ^ tiz ia universale; che l'uomo, e il cittadino, natura S ° diritto direttamente dalla dignità della sua temente0 come P*ù tardi riceverà il suo benessere diret- fecoltà i SH° personale lavoro e dal buon uso delle sue delle «li .stima dal libero esercizio del suo talento e che la ■ Dicono, dunque, che lo Stato non è altroindipenri!511- ante della libera unione fra soggetti eguali, rappres ft1 e capaci tutti di giudicare; che cosi esso non controv 3 c^e libertà e interessi raggruppati; che ogni si ridu(frSla tra Potere e il tale o il talaltro cittadino guenza 6 a Una controversia tra cittadini; che di conse- libertà ’ n°n esist.e> nella società, prerogativa diversa dalla e la car>Fleniaz‘a diversa da quella del Diritto. L’autorità al lorrk ’ dicono, hanno fatto il loro tempo; vogliamo

Da P°sto la giustizia, del Lux UeSKC Premesse, radicalmente contrarie a quelle vasta se ^ our§> passano a una organizzazione su più dicono n PrinciPÌ° rnutualistico. Servizio per servizio, razione °dotto per prodotto, prestito per prestito, assicu- per cau7 ' er assicur.azi°ne. credito per credito, cauzione È rantic101]6’ Saranzia per garanzia, ecc.: questa è la legge. dente v u £6e del taglione, occhio per occhio, dente per tata da] v p e r v \ta>. in 1111 certo senso capovolta, traspor- a* diritte . ltto criminale e dall’atroce pratica della vendetta la libera onornico< nelle opere del lavoro e nei servizi dei- istituti m Ìratellanza. Da questa legge derivano tutti gli insegnarnpUa^stic.i: mutuo soccorso, credito, assicurazione, di lavoto e?r°; reciproche garanzie di scambio, di mercato, ecc- Di n/,- ^u°na qualità e di giusto prezzo delle merci, listico, ng anche, la pretesa di elevare il principio mutua- a ^gge (j r ^ certe istituzioni, a principio di Stato,Stato, a 1 ato> e direi quasi a una sorta di religione di ' c itta d in i3 pratica tanto facile quanto vantaggiosa per rePression ’ U” a Pratica cbe non richiede né polizia, né per nessi ’ .costrizione, e che non può in nessun caso, rovina. °* diventare motivo di delusione e causa di

tito*dall' avoratore non è più un servo dello Stato, inghiot- sovrano °hiìanc! comunitario; è l’uomo libero, realmente responsah r a8is.ce di sua iniziativa e sotto la sua personale dotti un J 1 tà; sicuro di ricevere in cambio dei suoi pro­stabilire czz.° giusto, abbastanza rimunerativo, e di poter scambio ° r n * suo* concittadini, per quel che riguarda lo perfetta m tutti gli oggetti di consumo, rapporti leali e

ente garantiti. Similmente lo Stato, il Governo

Page 189: Berti, Proudhon

La teoria del m utualism o 199

non è più un sovrano; l’autorità non è qui in antitesi con la libertà: Stato, governo, potere, autorità, ecc., sono espres­sioni che servono a designare da un altro punto di vista la libertà stessa; sono formule generali riprese' dalla termi­nologia tradizionale, con le quali si designa, nei casi speci­fici, la somma, l’unione, l’identità e la solidarietà degli interessi particolari.

Sicché non ha più senso chiedersi, come nel sistema borghese o in quello del Luxembourg, se lo Stato, il Governoo la comunità, debbano dominare l’individuo, o se, vice­versa, debbano dipendere da lui; se il principe conta più del cittadino, o il cittadino più del principe; se l’autorità domina la libertà, o se ne è invece serva: tutte queste questioni sono pure assurdità. Governo, autorità, Stato, comunità e corpo- razioni, classi, compagnie, cittadinanze, famiglie, cittadini, in due parole, gruppi e individui, persone morali e persone reali, tutti sono eguali di fronte alla legge, che è la sola a giudicare e a governare, attraverso questo o quel dispo­sitivo, questo o quel ministero: Despotes ho nomos.

Chi dice mutualità, è come se dicesse spartizione della terra, divisione delle proprietà, indipendenza del lavoro, separazione delle industrie, specialità delle funzioni, respon­sabilità individuale e collettiva, a seconda che il lavoro sia individuale o di gruppo; riduzione al minimo delle spese generali, soppressione del parassitismo e della miseria. Chi dice, invece, comunità gerarchica, proprietà indivisa, dice accentramento, presuppone la molteplicità delle com­petenze, la complicazione dei meccanismi, la subordinazione delle volontà, la dispersione delle forze, lo sviluppo delle funzioni improduttive, l’accrescimento indefinito delle spese generali, quindi la creazione del parassitismo e l’avanzare della miseria.

[...]•

Potenza de ll’idea m utualistica; sua universale applica­bilità. Come il principio più elem entare della m orale tenda a diventare il fondam ento del d iritto economico e il cardine di nuove istituzioni. Primo esem pio: le assicurazioni.

Le classi operaie ci hanno svelato il loro segreto. Sono esse a dirci che, dopo essersi fermate un momento nel 1848 alle idee di vita in comune, lavoro in comune. Stato-fami­glia o Stato servitore, hanno abbandonato questa utopia; che, d’altra parte, non si pronunciano con minore energia contro il sistema del giusto mezzo politico e l’anarchia economica dei borghesi, e che la loro riflessione è concen­trata su un principio unico, applicabile ugualmente, secon­

Page 190: Berti, Proudhon

200 Testi

do il loro modo di vedere, tanto all'organizzazione dello Stato, quanto alla regolamentazione degli interessi: il prin­cipio della mutualità.

[...].Osserviamo prima di tutto che c’è mutualità e mutualità.

Ci si può scambiare male per male, ma anche bene per bene: e cosi, rischio per rischio, possibilità per possibilità, con­correnza per concorrenza, indifferenza per indifferenza, elemosina per elemosina, e cosi via. Io considero le società di mutuo soccorso, quali esistono oggi, solo come forme di transizione verso il regime mutualistico, in quanto esse rientrano ancora nella categoria delle opere pie: istitu­zioni che vivono del sovraccarico che deve imporsi il lavo­ratore che desideri non esporsi all’abbandono in caso di malattia e di disoccupazione. Metto sullo stesso piano i monti di pietà, le lotterie di beneficenza, le casse di rispar­mio, le casse pensioni, le assicurazioni sulla vita, i nidi di infanzia, gli asili, gli orfanotrofi, gli ospedali, gli ospizi, le case per trovatelli e per invalidi, i dormitori pubblici, ecc. Già da quanto ha fatto o tentato di fare la carità del Cristo si può capire che compito incombe alla mutualità mo­derna. È prevedibile che queste istituzioni non scompaiono da un giorno all’altro, proprio per la profondità del males­sere sociale e la lentezza delle trasformazioni che hanno per oggetto il miglioramento di masse cosi numerose e povere. Ciò non toglie, però, che queste istituzioni continui­no ad essere dei monumenti di miseria; del resto, il Mani­festo d e i Sessan ta ce l'ha detto: « Noi rifiutiamo l’elemo­sina; n o i vog liam o la giustizia ».

La vera mutualità, l'abbiamo detto, è quella che dà, promette e assicura servizio per servizio, valore per valore, credito per credito, garanzia per garanzia; che, sostituendo ovunque un diritto rigoroso a una carità precaria, la cer­tezza del contratto all'arbitrio degli scambi, scartando ogni velleità, ogni possibile manovra speculativa, riducendo alla sua espressione più semplice ogni elemento aleatorio, facen­do diventare comune il rischio, tende sistematicamente a organizzare il principio stesso della giustizia in ima serie di doveri positivi e, per cosi dire, di garanzie materiali.

[•••]■Essi riconoscono volentieri, insieme con gli economisti

della scu ola puramente liberale, che la libertà è la forza economica principale; che tutto quello che essa può fare da sola, le deve essere permesso; ma che laddove la libertà non riesce ad andare a segno, il buon senso, la giustizia, l'in­teresse generale impongono di far intervenire la forza collettiva, ch e qui non è altro che la mutualità stessa; che

Page 191: Berti, Proudhon

La teoria del m utualismo 201

le funzioni pubbliche sono state fissate apposta per questo tipo di bisogni, e non devono avere altri scopi. Dunque, essi vogliono che il loro principio riguardo all’assicurazione, am­messo in teoria da tutti, ma finora scartato in pratica per la negligenza o la connivenza dei governanti, sia insomma, pienamente e interamente applicato*.

* Da P.-J. P roudhon, De la capacitò politique des classes ouvrières, in P. A n sart, P.-J. Proudhon (Estratti), La Pietra, Milano 1978, pp. 241-250.

Page 192: Berti, Proudhon

XV. L'EMANCIPAZIONE OPERAIA6

La questione delle candidature operaie, risoltasi nega­tivamente con le elezioni del 1863 e 1864, implica quel della capacità politica degli operai, o, per usare un espres­sione più generica, del Popolo. Il Popolo, al quale la zione del 1848 ha accordato la facoltà di votare, e capace,o non, di stare in politica, e cioè: 1) di formarsi, sul questioni che interessano la collettività sociale, un opini in rapporto con la sua condizione, il suo avvenire, 1 suoi interessi; quindi 2) di esprimere sulle stesse questioni, sotto­poste al suo arbitrato diretto o indiretto, un verdetto ragionato; infine 3) di costituire un centro di azione, espres­sione delle sue idee, delle sue mire, delle sue speranze, e impegnato a realizzare i suoi disegni? .

Se si, allora è importante che il Popolo, alla prima occa­sione, dia prova di tale capacità; a) enunciando un princi­pio veramente suo, che riassuma ed esprima in smtesi tutt le sue idee, cosi come hanno sempre fatto tutti ì fondatori di società, e come hanno tentato di fare, da ultimo, gii autori del manifesto; b) attestando tale principio con aei voti conformi; c) all’occorrenza, e nel caso m cui dovess farsi rappresentare nei consigli del Paese, eleggendo come suoi mandatari uomini che sappiano esprimere il suo pen­siero, portare la sua parola, sostenere il suo diritto, cnelo rappresentino anima e corpo, e dei quali esso possa dire, senza il rischio di essere smentito: Questi sono le ossa delle mie ossa e la carne della mia carne. , . . .

Senza tutto questo, farà bene il Popolo a rinchiudersi nel suo mutismo secolare e ad astenersi dal votare; in tal caso farà un favore alla società e al governo. Rinunciare ai poteri conferitigli dall’istituzione del suffragio universale, e dare cosi prova della sua dedizione all’ordine pubblico, sarà certamente più onorevole, più utile, che votare, alia maniera della maggioranza dei borghesi, per illustri prati­canti, che si vantano di dirigere una società che non cono­scono, per m ezzo di formule perfettamente arbitrarie. Giacché, se il popolo non ha una chiara intelligenza della sua idea, o se, avendola acquisita, non riesce a esprimerla per-

9

Page 193: Berti, Proudhon

L'emancipazione operaia 203

fettamente, non ha il diritto di prendere la parola. Lasci pure gli azzurri e i bianchi votare gli uni contro gli altri; da parte sua, simile all’asino della favola, si contenti di portare il suo basto.

Questa è, ripeto, l’inevitabile domanda che le candida­ture operaie pongono e alla quale bisogna assolutamente dare risposta. È capace il popolo, si o no? I Sessanta, occorre congratularsene con loro, si sono pronunziati con coraggio per il si. Ma suscitando forti reazioni, e nei giornali che hanno la pretesa di essere organi della democrazia, e fra i candidati, e, perfino, fra i compagni! Ma più afflig­gente è stato, in un’occasione cosi decisiva, l’atteggiamento della stessa massa operaia. £ apparso un contromanifesto, firmato da ottanta operai7, che protesta con veemenza contro la presunzione dei Sessanta, dichiara che costoro non esprimono affatto il pensiero del popolo, li rimprovera di sollevare a sproposito una questione sociale quando invece il problema è politico, di seminare la divisione invece di predicare l’unione, di ristabilire la distinzione delle caste quando ci si doveva occupare della loro fusione, e conclude dicendo che, per il momento, il solo obiettivo da perseguire è la libertà. « Finché non avrem o la libertà — dicevano — il nostro solo pensiero sarà d i conquistarla ». Voglio credere che questi operai, in quanto cittadini e lavoratori, valessero quanto gli altri; ma sicuramente non ne avevano l’origina­lità, e meno ancora lo slancio. E si è anche visto, a giudicare dalle considerazioni da cui prendevano le mosse, che essi non facevano che ripetere la lezione della « Presse », del « Temps » e del « Siècle ». Non sono venute a mancare loro neppure le felicitazioni del signor di Girardin e soci.

Il popolo francese ha degli accessi di umiltà senza eguali. Suscettibile e vanitoso in modo indescrivibile, quan­do ha a che fare con la moderazione, può giungere perfino all’umiliazione. Come mai, dunque, questa plebe, cosi gelosa della sua sovranità, cosi desiderosa d’esercitare i suoi diritti elettorali, attorno alle quale volteggiano tanti candidati in abito scuro, i suoi adulatori occasionali, come mai, dico, oppone tanta resistenza alla candidatura dei suoi uomini? Come! Ci sono nella Democrazia operaia, e in buon numero, dei soggetti istruiti, capaci di servirsi con efficacia sia della penna che della parola, uomini con una certa esperienza, venti volte più capaci, e soprattutto più degni di rappresen­tarla, degli avvocati, giornalisti, scrittori, pedanti, intrigan­ti e ciarlatani a cui prodiga i suoi suffragi, e questi uomini essa li rifiuta! Non li vuole come suoi mandatari! La Demo­crazia ha orrore dei candidati veramente democratici! È orgogliosa di scegliersi dei capi aristocratici! Pensa, cosi

Page 194: Berti, Proudhon

204 Testi

facendo, di nobilitarsi? Come mai, infine, se il popolo è maturo per la sovranità, esso si dissimula costantemente dietro i suoi ex tutori, che non lo proteggono più e non possono far nulla per lui; come mai, al cospetto di chilo obbliga alla condizione salariata, abbassa gli occhi come ima fanciulla; e, una volta messo in condizione d’esprimere la sua opinione e di agire autonomamente, sa solo seguire la pista dei suoi antichi padroni e ripetere le loro massime?

Tutto questo, bisogna ammetterlo, costituirebbe contro l'emancipazione del proletariato un precedente spiacevole, se la cosa non trovasse una sua spiegazione nella novità stessa della situazione. La classe lavoratrice è vissuta, fin dall'origine della società, alle dipendenze della classe possi­dente, quindi in uno stato di inferiorità intellettuale e morale, del quale essa conserva ancora profondamente il sentimento. Solo da poco, da quando cioè la rivoluzione dell'89 ha messo in crisi le gerarchie, sentendosi isolata, essa ha incominciato a prendere coscienza di sé. Ma conserva, ancora potente, l’istinto di deferenza; l’opinione che essa si è fatta di ciò che si chiama capacità è singolarmente falsa ed esagerata; quelli che erano un tempo suoi padroni, che hanno conservato il privilegio delle professioni cosid­dette lib era li — e che è giusto ormai non chiamare più in questo modo — per essa, è come se avessero 30 centimetri in più degli altri uomini. Si aggiunga quell’oscuro risenti­mento, m isto a invidia, che l’uomo del popolo nutre contro quelli che, suoi simili, aspirano ad elevarsi al di sopra della loro co n d iz io n e : dopo tutto ciò, come stupirsi che il Popolo, per quanto trasformato nella coscienza, nel condizionamento della sua esistenza, nelle idee fondamentali che lo dirigono, abbia conservato la sua abitudine all'abnegazione? Vale per i costum i quanto accade con il linguaggio: essi non si modi­ficano d i pari passo con la coscienza, la legge, il diritto. Noi, per m olto tempo ancora, resteremo gli uni nei confronti degli a ltr i dei Signori e degli Um ilissim i serv ito ri: questo impedisce forse che non ci siano più né signori né servitori?

Allora, al di là delle adorazioni, delle genuflessioni e delle vo lgari superstizioni, sforziamoci di definire, in teoria e in p ratica , quello che noi dobbiamo pensare della capacità e dell’idoneità politica della classe operaia, messa a con­fronto c o n la classe borghese, e del suo futuro avvento.

O sserviam o, prima di tutto, che la parola capacità , rife­rita al cittadino, va considerata da due diversi punti di vista: c'è la cap acità legale, e la capacità reale.

La p r im a è conferita dalla legge e presuppone la seconda. Non si am m ette che il legislatore riconosca dei diritti a dei soggetti ritenuti incapaci per natura. Per esempio, prima

Page 195: Berti, Proudhon

L’emancipazione operaia 205

del 1848, per esercitare il diritto di voto, bisognava pagare 200 franchi di contributi diretti. Si supponeva dunque che la proprietà fosse una garanzia di capacità reale: di conse­guenza quelli che potevano pagare 200 franchi e oltre, circa 250 o 300.000 cittadini, erano ritenuti i veri controllori del Governo, arbitri sovrani della sua politica. Si trattava, evidentemente, di una pura e semplice finzione legale: nulla, in effetti, poteva provare che fra quegli elettori non ce ne fosse neppure uno, o anche più di imo, nonostante la loro quotazione, realmente incapace; come pure nulla autoriz­zava a pensare che al di fuori di quella cerchia, fra tanti milioni di cittadini sottoposti a una semplice tassa perso­nale, non ci fosse una grande massa di capacità intellettuali.

Nel 1848 è stato, per cosi dire, rovesciato il sistema del 1830: è stato introdotto il suffragio universale e diretto, senza alcuna condizione censitaria. Attraverso questa sem­plice riforma, tutta la popolazione maschile, con età non inferiore ai vent’anni, nata e residente in Francia, è stata investita per legge della capacità politica. Si è dunque supposto, questa volta, che il diritto elettorale, e in una certa misura la capacità politica, fosse inerente alla qualità di uomo maschio e di cittadino. Ma è evidente che si tratta ancora una volta di una finzione. Come è possibile che la facoltà elettorale diventi una prerogativa dell’indigenato, dell’età, del sesso, della residenza, piuttosto che della pro­prietà? La dignità di elettore, nella nostra società democra­tica, corrisponde a quella del nobile nel mondo feudale. Come è possibile che essa venga accordata, senza eccezio­ne né distinzione, a tutti, mentre quella di nobile appar­teneva solo a un numero ristretto? Non è il caso di dire che qualunque dignità, non appena sia resa comune, svani­sce, e che ciò che appartiene a tutti non appartiene a nes­suno? Del resto, l’esperienza parla chiaro al riguardo: piùil diritto elettorale si è allargato, più ha perduto l’impor­tanza che gli veniva attribuita. Ne sono una prova il 36 per cento delle astensioni nel 1857, e il 25 per cento nel 1863. Ed è certo che i nostri dieci milioni di elettori si sono dimostrati, dal 1848, quanto a intelligenza e a carattere, inferiori ai 300.000 elettori della Monarchia di Luglio.

Allora, che ci piaccia o no, quando trattiamo da storici e da filosofi della capacità politica, bisogna che usciamo dalle finzioni e che prendiamo in considerazione la capacità reale: che del resto è la sola che possa interessarci.

Perché ci sia in un soggetto, individuo, corporazione o collettività, capacità politica, sono richieste tre condizioni fondamentali:

Page 196: Berti, Proudhon

206 Testi

1. Che il soggetto abbia coscienza di sé, della sua dignità, del suo valore, del posto che occupa nella società, del ruolo che assume, delle cariche a cui ha il diritto di aspirare, degli interessi che rappresenta o personifica.

2. Che, come risultato di questa coscienza di sé in tutte le sue potenzialità, il soggetto in questione affermi la sua idea, che sappia, cioè, cogliere intellettualmente, tradurre verbalmente, spiegare razionalmente, quanto al suo prin­cipio e alle sue conseguenze, la legge del suo essere.

3. Che da tale idea, infine, posta come professione di fede, esso possa, a seconda del bisogno e della diversità delle circostanze, arrivare sempre a conclusioni pratiche.

Si noti che qui non è in questione la quantità. Alcuni uomini sentono più vivamente di altri, hanno un sentimento di sé più o meno esaltato, colgono l’idea e la espongono con maggiore o minore efficacia ed energia, o possono essere dotati di un senso pratico che le più vive intelligenze magari non posseggono. Queste differenze di intensità nella coscien­za, nell’idea e nella sua applicazione, costituiscono dei gradi di capacità, non creano, però, la capacità stessa. Cosi ogni individuo che ha fede in Gesù Cristo, che ne afferma la dottrina con la sua professione di fede e ne pratica la religione, è un cristiano, e come tale capace della salvezza eterna: ciò però non toglie che fra i cristiani ci siano dottori e semplici, asceti e moderati.

Allo stesso modo, essere capaci politicamente, non signi­fica essere dotati di una particolare attitudine a sbrigare gli affari di Stato, a svolgere una determinata funzione pub­blica; e non significa neppure dare prova di una premura più o meno assidua per la cosa pubblica. Tutto questo, ripeto, riguarda il talento e la competenza: e comunque non è questo che fonda nel cittadino, spesso silenzioso, moderato, e non considerato dal punto di vista della sua attività professionale, quello che noi intendiamo qui per capacità politica. Possedere la capacità politica, significa avere la coscienza di sé come membro di una collettività, affermare Videa che ne risulta e portarne avanti la realiz- zazione. Chiunque riunisca queste tre condizioni è capace. Cosi, pure, noi ci sentiamo tutti f r a n c e s i; come tali credia­mo a un a costituzione, a una missione del nostro Paese, e perciò favoriamo, con i nostri voti, la politica che ci pare traduca meglio il nostro sentimento e serva la nostra opi­nione. I l patriottismo può essere più o meno ardente in ognuno di noi; la sua natura non cambia, ma la sua assenza è una mostruosità. Detto in tre parole, noi abbiamo co­scienza, idea, e perseguiamo una realizzazione.

P orsi il problema della capacità politica della classe

Page 197: Berti, Proudhon

L ’emancipazione operaia 207

operaia, come pure della classe borghese e, storicamente, della nobiltà, significa dunque domandarsi: a) se la classe operaia, dal punto di vista dei suoi rapporti con la società e con lo Stato, ha preso coscienza di sé; se, come essere collettivo, morale e libero, essa si distingue dalla classe borghese; se tiene separati i suoi interessi e non li con­fonde con quelli della classe borghese; b) se essa possiede un’idea, cioè se è pervenuta a una nozione esatta della sua costituzione; se conosce le leggi, le condizioni, le formule della sua esistenza; se ne prevede la destinazione, il fine; se riesce a comprendere se stessa nei suoi rapporti con lo Stato, la nazione e l’ordine universale; c) se da quest’idea, infine, la classe operaia è in grado di dedurre, per quanto riguarda l’organizzazione della società, delle conclusioni pratiche appropriate, e, nel caso in cui il potere, per deca­denza o sconfitta della borghesia, gli fosse devoluto, di creare e di sviluppare un nuovo ordine politico.

Ecco che cosa è la capacità politica. Si intende che noi parliamo della capacità reale, collettiva, che riguarda la natura e la società, e che risulta dal movimento dello spirito umano; che, a parte le disuguaglianze del talento e della coscienza, è sempre la stessa in ogni individuo e non può diventare privilegio di nessuno; che è presente in tutte le comunioni religiose, le sètte, le corporazioni, le caste, i partiti, gli Stati, le nazionalità, ecc.; capacità che il legi­slatore non può creare, ma è tenuto invece a ricercare, e che in ogni caso esso suppone.

Ed è in base a questa definizione della capacità che io rispondo, per quanto riguarda le classi operaie, e indipen­dentemente dai cedimenti e dalle manifestazioni di peco­raggine di cui esse offrono ogni giorno ancora il triste spettacolo.

Sul punto p rim o : Si, le classi operaie hanno preso co­scienza di sé, e noi possiamo fissare all’anno 1848 la data di tale avvenimento.

Sul secondo p u n to : Si, le classi operaie hanno un’idea corrispondente alla coscienza che esse hanno di sé, e che contrasta perfettamente con l’idea borghese: solo che, si potrebbe aggiungere, questa idea è stata loro rivelata ancora in maniera incompleta, esse, a loro volta, non ne hanno colte tutte le possibili conseguenze e neppure fornito una formulazione completa.

Sul terzo punto, relativo alle conclusioni politiche da trarre dalla loro idea: No, le classi operaie, pur sicure di sé, e già quasi illuminate sui principi che stanno alla base della loro nuova fede, non sono ancora riuscite a dedurre da questi principi una pratica generale conforme, una poli­

Page 198: Berti, Proudhon

2 0 8 Testi

t ic a appropriata: testimone il loro voto in comune con la borghesia, testimoni anche i pregiudizi politici di ogni sorta ai quali esse sottostanno.

Diciamo, in uno stile meno scolastico, che le classi ope- ~aie sono appena nate alla vita politica; che se, per l’inizia- : iv a che esse hanno intrapreso e per la loro forza numerica, la n n o avuto modo di spostare il centro di gravità nell’ordine colitico e di agitare l’economia sociale, tuttavia, a causa del :a o s intellettuale a cui sono in preda, soprattutto della stra­vaganza governativa che hanno ereditato da una borghesia n ex trem is, esse non sono ancora riuscite a stabilire il loro Predominio, hanno perfino ritardato la loro emancipazione i compromesso fino a un certo punto il loro avvenire *.

* Da P.-J. P roudhon , De la capaciti politique des classes ì i iv r iè r e s , in P. A nsart, P.-J. Proudhon (Estratti), La Pietra, f i la n o 1978, pp. 217-223.

Page 199: Berti, Proudhon

NOTE ALL'INTRODUZIONE

1 Come ha sottolineato L. Pellicani, Prefazione a P. J. Proudhon, Del p r in ­c ip io federativo , Mondo Operaio, Edizioni Avanti, Roma 1979, pp. IX-XXI.

2 Tra le tante si vedano J. Touchard, S toria d e l pensiero politico, Ed. di Comunità, Milano 1963, pp. 456-459; A. Cornu, M arx e E ngels, dal liberali­sm o al com uniSm o, Feltrinelli, Milano 1971, p. 467; G. M. Bravo, S to ria del socialism o. I l pensiero socialista p rim a d i M arx, Editori Riuniti, Roma 1971, pp. 129-141; J. Bruhat, I l socia lism o francese dal 1848 al 1871, in S to ria del Socia lism o, vol. I: Dalle orig in i al 1875, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 456- 457 e 615; G. Lichtheim, Le origini del socia lism o , il Mulino, Bologna 1974, p. 157. Gran parte di queste tesi ricalcano in sostanza il giudizio espresso all’inizio del secolo da A. Berthod, P roudhon e t la p roprié té . Un socia lism e p o u r le paysan , Girar e Briere, Paris 1910, pp. 5-10. Un approccio diverso è stato tentato recentemente da Pierre Ansart. Utilizzando le classiche cate­gorie epistemologiche della sociologia della conoscenza, lo studioso fran­cese ha cercato di stabilire una sorta di om ologia s tru ttu ra le fra il pen­siero proudhoniano e il contesto storico-sociale in cui tale pensiero si è formato e definito. Solo cosi, secondo lui, si può spiegare la multiformità e l’apparente contraddittorietà di Proudhon. P. Ansart, Naissance de l'anar- ch ism e. E sq u isse d 'u n e exp lica tion socio logique du pro u d h o n ism e, PUF, Paris 1970, specialmente pp. 28-29.

3 È bene ricordare che già nel secolo scorso, precisamente nel 1874, un grande socialista come Benoît Malon nel suo Passato, Presente e Avve­n ire del Socia lism o — uno scritto di carattere storiografico pubblicato a puntate nel periodico socialista « La Plebe » — ricordava che il socialismo doveva essere inteso anzitutto come una realtà spirituale connaturata al­l ’uomo e che perciò una sua riduzione dentro una periodizzazione ideolo­gica precisa ne avrebbe limitato l ’intrinseca problematicità. L. Briguglio, B en o it M alon e il soc ia lism o in Ita lia , Centro per la Storia del Movimento operaio nel Veneto, Padova 1979, p. 10.

4 Cf. G. Amato, R ileggendo P roudhon, in « Mondoperaio », n. 9, 1978, pp. 67-75; L. Pellicani, P refazione a P. J. Proudhon, Del princip io federa­tivo ..., pp. IX-XXI.

5 Per una panoramica d ’insieme — da prendere però con beneficio d’in­ventario — su Proudhon quale capostipite dell’anarchismo cf., ad esempio, E. Zoccoli, L ’anarchia, gli agita tori, le idee , i fa tti, Bocca, Milano 1944, pp. 63-86; G. Woodcock, L'anarchia . S toria de lle idee e dei m ovim en ti liber­tari, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 92-125; D. Guerin, L'anarchism o dalla dot­tr in a a ll'azione, Samonà e Savelli, Roma 1969, ad nomen; J. Joll, Gli anar­ch ic i, Il Saggiatore, Milano 1970, pp. 75-103; H. Arvon, L ’anarchism o, D’An­na, Messina-Firenze 1973, pp. 40-47.

6 E con questa chiave che Bouglé interpreta, a nostro avviso giustamente,

Page 200: Berti, Proudhon

210 Note all’introduzione

tutto il pensiero di Proudhon. C. Bouglé, P roudhon, Alcan, Paris 1930, pp. 6-1 1 .

7 Max Nettlau, il maggiore storico dell’anarchismo, vede Proudhon pro­prio da questo punto di vista. M. Nettlau, Breve storia dell'anarchismo, Antistato, Cesena 1964, pp. 47-52. Alcuni studiosi di Proudhon hanno però sottolineato il carattere fortemente polemico delle opere scritte in questo periodo, per cui il suo anarchismo deve essere spiegato con la par­ticolare situazione storica creatasi con lo scoppio rivoluzionario del '48, un anarchismo quindi « contingente » e destinato ad essere in parte superato.G. Gurvitch, L 'idée d u droit social, Sirey, Paris 1932, p. 316; G. Dolleans, P roudhon, Gallimard, Paris 1948, p. 216; E. Mounier, Anarchie e t person- nalistne, in O euvres, Ed. du Seuil, Paris 1961, p. 110; A. Zanfarino, Ordine sociale e lib e r tà in Proudhon, Morano, Napoli 1969, p. 83; P. Ansart, La sociologia d i P roudhon, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 179.

8 Per un panorama d'insieme delle più recenti interpretazioni di Prou­dhon, cf.: L 'a c tu a lité de Proudhon (Colloque de 24 et 25 novembre 1965), Editions de l ’Institut de Sociologie de l’Université Libre de Bruxelles, Bru­xelles 1967; E . Sciacca, L 'a ttua lità di P roudhon, in Anarchici e anarchìa nel m ondo co n tem p o ra n eo (Atti del Convegno promosso dalla Fondazione Luigi E inaudi, Torino 5, 6 e 7 dicembre 1969), Einaudi, Torino 1971, pp. 345-362; S . Rota Ghibaudi, R ecen ti in terpretazion i d i Proudhon, in « Il pensiero po litico» , anno IV, n. 1, 1971, pp. 46-60.

9 F. Della Peruta, I dem ocratici italiani e la rivoluzione italiana. Dibat­titi ideali e c o n tr a s t i politici a ll'indom ani de l 184S, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 125-179; P . C. Masini, D itta tura e rivoluzione nei d ib a ttiti del Risorgi­mento, in « V olontà », n. 1, 1947-1948.

10 P. J. P roudhon, La fédéra tion e t l'u n ité en Italie (1862); Id., Nouvelles observations s u r l 'u n ité italienne (1865), Rivière, Paris 1959, pp. 79-251.

11 B. B runello , Ferrari e P roudhon, in « Rivista Intemazionale di Filo­sofia del D ir itto », 1951, pp. 58-75; F. Della Peruta, L e tte re d ì Ferrari a Proudhon (1851-1861), in «Annali dell’istituto G. Feltrinelli», IV, 1961, pp. 260-291; I d . , Un capitolo d i s to ria del socialism o risorgim entale: Prou­dhon e F e r r a r i , in « Studi storici », 1962, pp. 307-341; S. Rota Ghibaudi, Ferrari e P r o u d h o n , in « Il pensiero politico », I, 1968, pp. 190-207; C. D'Ama­to, La fo r m a z io n e d i G iuseppe Ferrari e la cu ltura italiana nella prim a metà dell'800, in « S tu d i storici », n. 4, 1971.

12 N. R o sse lli, Carlo Pisacane ne l R isorg im ento italiano, Einaudi, To­rino 1977, p. 163; L. Valiani, Q uestion i d i s to ria del socia lism o, Einaudi, Torino 1975, p p . 14 e 59; F. Della Peruta, In fluenze proudhoniane su l gior­nale genovese « L ib e rtà e associazione », in « Movimento operaio e contar dino ligure », n . 3, 1955; F. Battaglia, Le idee sociali e po litiche d i Carlo Pisacane, in « R iv is ta Internazionale di Filosofia del Diritto », 1943, p. 207; L. Russi, P is a c a n e e la rivoluzione fa llita , Jaca Book, Milano 1976, p. 70.

13 F. Della P e ru ta , I l socia lism o risorgim entale di Ferrari, Pisacane e Montanelli, in « Movimento operaio », n. 1-3 1956; L. Valiani, Q uestioni di storia..., p. 53;

H L. V alian i, Q u estio n i di s to r ia ..., p. 75.1S A. Ju tg la r Bem aus, F edera lism o y revolución. Las ideas sociales de

Pi y Margall. P ro lo g o de C. Seco Serrano, Publicaciones de la Cátedra de historia genera l de España, Barcelona 1966, pp. 75-92.

tó R. Carr, S t o r i a della Spagna 1808-1939, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 412-413.

H C. A.M. H e nnessy, The F ederal R epub lic in Spain. Pi y M argall and

Page 201: Berti, Proudhon

N ote all’in troduzione 211

th è Federai R ep u b lica n M ovem ent 1868-1874, At thè Clarendon Press, Ox­ford 1962.

18 G. Brenan, S to ria d e lla Spagna 1874-1936. Le origini socia li e p o litich e della guerra c iv ile , Einaudi, Torino 1970, p. 144.

19 A. Lorenzo, E l pro le tariado m ilitan te . M em orias de u n In tern a tio n a l, Ed. del Movimento Libertario Español, Toulouse 1946.

20 J. Gómez Casas, S to r ia dell'anarsindacalism o spagnolo, Jaca Book, Mi­lano 1975, pp. 51-311; J. Peirats, La C .N .T. nella rivoluzione spagnola, Anti­stato, Milano 1976, vol. I .

21 F. Venturi, I l p o p u lism o russo , Einaudi, Torino 1972, vol. I, p . 28.22 Ibid. p. 31 e pp. 252 , 295. M. Midia, Alle origini del socia lism o russo,

il Mulino, Bologna 1972, pp. 461-465. Per il rapporto Herzen-Proudhon si veda lo studio specifico di M. Mervaud, U erzen et P roudhon, in « Cahier du monde russe et sovietique », vol. XII, fase. 1-2, gennaio-giugno 1971, pp. 110 ss.

23 P. P. Poggio, C o m u n e contadina e rivo luzione in R u ssia , Jaca Book, Milano 1978, pp. 119-237.

24 T. Tornasi, Ideo log ie libertarie e fo rm azione um ana, La Nuova Ita­lia, Firenze 1973, pp. 152-168.

25 Incomprensibile è quindi la tesi di Y. Bourdet, Per l'au togestione, Moiz- zi. Milano 1976, secondo cui Marx ed Engels sarebbero stati i veri fautori dell’autogestione e del decentramento. Com’è noto solo lo scritto su La guerra civile in Francia potrebbe legittimare ima simile ipotesi. Se non che, come ha sostenuto il massimo biografo di Marx, Franz Meringh (F. Me- ringh. Vita d i M arx, Editori Riuniti, 1966, pp. 453-454) si tra tta di uno scrit­to di occasione e di opportunità, come parentesi in una continuità che va in tu tt’altra direzione. Sulle contraddizioni di Marx di fronte alla Comune di Parigi che lo costrinsero appunto a doversi rimangiare quanto, per anni aveva scritto ed affermato, cf., per esempio, S. Avineri, The Socia l and Politicai T h o u g h t o f K . M arx, University Press, Cambridge 1969, p. 239; A. Lehing, A n a rch ism e e t bo lscevism e, in AA. VV., A narchici e anarchia..., pp. 430-434; D. Settembrini, Due ip o tesi p e r il socia lism o..., pp. 255-263. Del resto Bernstein aveva scritto a proposito di questo scritto: « in tutte le sue linee essenziali è straordinariamente simile al federalismo di Prou­dhon ». E. Bernstein, I p re su p p o sti del socia lism o e i c o m p iti della social­dem ocrazia, Laterza, Bari 1974, p. 197. Non occorre dire che Du principe féd éra tif di Proudhon fu pubblicato nel 1863, The c iv il War in France di Marx nel 1871. Sulla influenza determinante che la concezione prou- dhoniana ebbe nella originaria concezione sovietica della democrazia dei consigli, documenta opportunamente O. Anweiler, Storia dei soviet (1905- 1921), Laterza, Bari 1972, pp. 9-12.

26 J. Verdes, Les délégués français aux conférecense e t congrès d e l'As­sociation In tern a tio n a le des Travailleurs, in ,« Cahiers de l’ISEA » (Etude de marxologie), n. 152, Paris 1964, pp. 83-162.

27 E. Dolleans, S to ria del m o v im en to operaio , Edizioni Leonardo, Ro­ma 1946, p. 302; La P rem ière In terna tiona le . Recueil de docum en ts . Publié sous la direction de Jacques Freymond. Textes établis par Henri Burge- lin, Knut Langfeldt et Miklós Molnar. Introduction par J. Freymond, Li­brairie Droz, Genève 1962 - Publications de l ’institut de Hautes Études Internationales, n. 39, vol. I.

28 S. Bernstein, T h e F irst In tern a tio n a l in France 1864-1871, in Id., E ssays in Politicai and In te llec tu a l H isto ry , Paine-Whitman Publishers, New York 1955, pp. 134-149.

29 Ricorda il Cole che « era stata la Francia, e non l’Inghilterra o la

Page 202: Berti, Proudhon

212 Note all’in troduzione

Germania il centro vero dell'attività dell'Internazionale come movimento operaio di massa, con propaggini in Belgio e nella Svizzera francese », e che Marx quindi « non aveva quasi nessun seguito in seno all'Interna­zionale ». G. D.H. Cole, Storia del pensiero socialista. M arxism o e anar­chism o (1850-1890), Laterza, Bari 1967, vol. I I , pp. 150 e 185.-

30 Rimando al mio M arxismo e anarch ism o nella P rim a In tem aziona le: il significato d i uno scontro , in « An. Anarhos », anno I, n. 3, pp. 240-263.

31 La C o m m u n e de 1871 sous la direction de Jean Bruhat, Jean Dautry et Émile Tersen avec la collaboration de Pierre Angrand, Jean Bouvier, Henri Dubief, Jeanne Gaillard et Claude Perrot, Editiones Sociales, Pa­ris 1960, p. 28.

32 G. Borgin, In troduzione a La C om une e la guerra d e l 1871, dalle ope­re di A. Dunois, E. Dolleans, A. Chuquet, P. O. Lissagary, C. Pelletan, E. Reclus, C. Seignobos, M. Villaume, a cura di Georges Bourgin e Max Terrier, Mondadori, Milano 1956, p . 32.

33 Diverse sono a questo proposito le interpretazioni. Secondo Edvard Droz (E. Droz, P roudhon, Librairie des « Pages Libres », Paris 1909) Proudhon doveva essere considerato il padre spirituale del movimento sindacale francese. A questa concezione della filiation, Lucien Febvre op­poneva quella de l rencontre. L. Febvre, Pour u n e h isto ire à part entière, Paris 1962, pp. 772, 786 e 789, mentre Pirou (G. Pirou, P ro u d h o n ism e et syndacalism e révo lu tio n n a ire , Rousseau, Paris 1910, pp. 6-10 e 324-326) si poneva in una posizione intermedia.

34 G. Sorel, E x é g è se s p ro u d hon iennes, in Id ., M atériaux d 'une théorie du prolétariat, Rivière, Paris 1921, pp. 415 ss.; E. Berth, P roudhon e t M arx, in Id., Du c a p i ta l a u x réflections su r la v io lence, Rivière, Paris 1932, pp. 69-168.

35 F. Pelloutier, H isto ire s des bourses du travail: O rigine, In s titu tio n s , Avenir, préface p a r Georges Sorel, Alfred Costes, Paris 1946, pp. 93-102.

36 A. Kriegel, L e syndacalism e révo lu tionnaire et P roudhon , in AA. VV., Actualité de P r o u d h o n . .. , pp. 47-66.

37 Come o sse rv a giustamente E. Sciacca, L ’attualità d i Proudhon..., p. 353.

3« G.D.H. C o le , S to ria del pensiero socialista . C om uniSm o e socia lde­mocrazia 1914-1931, Laterza, Bari 1968, vol. IV, p. 8.

39 C. Rosselli, S o c ia lism o liberale, a cura di John Rosselli, in Opere com plete, E in au d i, Torino 1973, p. 441.

40 P. J. P ro u d h o n , De la célébration du d im anche (1839), Rivière, Pa­ris 1926, p. 31. P i ù avanti scriverà: « La scienza va scoperta, non inven­tata ». Ib id ., p. 8 9 .

41 P. J. P ro u d h o n , S y s tè m e des co n tra d ic tio n s économ iques, ou p h ilo ­sophie de la m i s è r e (1846), Rivière, Paris 1923, vol. II, p. 87.

42 P. J. P ro u d h o n , P hilosophie d u progrès (1853), Rivière, Paris 1946, p. 70. Preciserà q u a lc h e anno dopo: « Il reale è il multiplo, la serie, la sintesi ». P.-J. P ro u d h o n , La pornocra tie ou les fem m es d a n s les tem p s modernes (1875), R iv ière, Paris 1939, p. 396.

43 P. J. P ro u d h o n , T h éo rie de la p ro prié té (1866), Lacroix, Paris 1866, p. 229. Altrove e g l i aveva precisato che « la realtà è complessa per natura: il semplice non p u ò uscire dallo schema dell'ideale, arrivare al concreto ». P. J. Proudhon, D n p r in c ip e féd éra tif e t de la nécessité d e reco n stitu er le parti de la ré v o lu e t io n (1863), Rivière, Paris 1959, p. 287.

44 P. J. P ro u d h o n , D e la ju stice d a n s la révo lu tion et dans ¡'Eglise (1858), Rivière, Paris 1935 , vol. IV, p. 148.

Page 203: Berti, Proudhon

N ote all'introduzione 213

45 P. J. Proudhon, Théorie de la pro p rié té ..., p . 52.•46 « Il sistema di Hegel ha riproposto il dogma della Trinità, panteisti,

idealisti, materialisti sono diventati trinitari; e molta gente ha pensato che il mistero cristiano stesse per diventare assioma di metafisica. Del resto, il sistema di Hegel ha procurato al suo autore gravi critiche; gli si rimproverava che la sua serie era spesso solamente un artificio di lin­gua, in discordia coi fatti; che l’opposizione fra il primo e il secondo termine non era sufficientemente marcata e che il terzo non la sintetiz­zava. Niente ci sorprende in queste critiche: Hegel anticipando i fatti invece di aspettarli, forzava le sue formule e dimenticava che ciò che può essere una legge d'insieme non basta a spiegare i dettagli. Hegel, in una parola, si era imprigionato in una “serie" particolare e pretendeva attra­verso essa spiegare la natura, cosi varia nelle sue serie e nei suoi ele­menti ». P. J. Proudhon, De la création de l 'o rd re dans l'hum an ité , ou p rin c ip es d 'organisation p o litiq u e (1843), Rivière, Paris 1927, pp. 162-163.

47 P. J . Proudhon, De la ju s tic e ..., voi. I, p. 211.48 P. J. Proudhon, De la création ..., p. 214.49 P. J. Proudhon, La gu erre et la paix, rech erch es su r le p rìncipe e t

la co n stitu tio n d u dro it des gens (1861), Rivière, Paris 1927, p. 107. La cri­tica di Proudhon alla dialettica hegeliana attraversa, si può dire, tu tta l'evoluzione del suo pensiero. Ne diamo qui un'idea riportando ancora alcuni giudizi sparsi nelle sue opere. Proudhon considera Hegel prigio­niero di un circolo chiuso. Benché « costeggi perpetuamente l ’esperienza », per costruire la propria logica, il filosofo tedesco ha abbandonato l’espe­rienza e non ha compreso « che la teoria dei contrari, d'una potenza incom­parabile..., non è tuttavia la sola rivelazione della realtà e della ragione » (P. J . Proudhon, S y stèm e d es con trad ic tions..., voi. I, pp. 171-172). Inol­tre l'equilibrio instabile fra i due term ini « non nasce da un terzo termi­ne, ma dalla loro azione reciproca » (P. J. Proudhon, De la ju stice ..., voi. I, pp. 28-29). La sintesi di Hegel essendo « anteriore e superiore ai due termini che unisce », è governativa e perciò conduce « alla prepo­tenza dello Stato » e « al ristabilimento dell’autorità » (P. J. Proudhon, La pornocratie, ou les fe m m e s dans les tem p s m o d e m e s, Lacroix, Pa­ris 1875, p. 91). Sulla dialettica proudhoniana cf. G. Gurvitch, D ialectique et sociologie, Flammarion, Paris 1962, pp. 96-117 (trad. it-. Dialettica e sociologia, Città Nuova Ed., Roma 1968).

50 A. Zanfarino, O rdine sociale..., pp. 51-72; G. Gurvitch, P roudhon..., Guida, Napoli 1974, pp. 19-33.

51 P. J. Proudhon, S y s tè m e des co n tra d ic tio n s ..., voi. II, p. 389.52 A. Zanfarino, Ordine sociale..., pp. 69-72. « La scienza della società

sarà sempre incompiuta; la profondità e la varietà delle questioni che abbraccia sono infinite ». P. J. Proudhon, Q u'est-ce que la propriété? ou recherches su r le princ ipe d u droit e d u governem en t (Premier mémoire), Rivière, Paris 1927, p. 317.

53 « Antinomia, letteralmente contro-legge, vuol dire opposizione nel principio o antagonismo nel rapporto, come la contraddizione o antilogia indica opposizione o contrarietà nel discorso [...]. L'antinomia non fa che esprimere un fatto, e s'impone imperiosamente allo spirito: la con­traddizione propriamente detta è un assurdo ». P. J. Proudhon, S ystèm e des con tra d ic tio n s ..., voi. I , p. 49. Diversamente quindi da tanti critici affrettati che lo hanno accusato di avere malamente assimilato Hegel, Proudhon, pur con qualche incertezza, dimostra invece l’originalità del suo metodo. Fu Marx a vantarsi di avergli insegnato la filosofìa hege-

Page 204: Berti, Proudhon

Note all’introduzione

% rta , che però a suo giudizio, non fu capita dal francese (K. Marx, Let- r a a Schweitzer, 24 gennaio 1865, in K. Marx, M iseria della filosofia, j ì tori Riuniti, Roma 1969, p. 185). Ciò non è vero. Per Cole, infatti, il e t odo di Proudhon non era un hegelismo travisato, « ma una filosofia m p le tam en te diversa che non ha tanto a che fare con Hegel, quanto n la conoscenza kantiana della "socialità asociale degli uomini”. Fu a r~x a fraintendere Proudhon, non Proudhon a non capire le lezioni di = il«ttica hegeliana impartitegli da Marx ». G.D.H. Cole, S toria del pen- r r o socialista, vol. I, I p recursori 1789-1850, Laterza, Bari 1966, p. 243. l c I i c Gurvitch sostiene che Proudhon subì più l’influenza di Kant che

H eg e l. G. Gurvitch, Proudhon..., pp. 20-21, mentre Ansart ribadisce l’ori- î ü l i t à del metodo proudhoniano. P. Ansart, La sociologia di Proudhon,

Saggiatore, Milano 1972, p. 40. Proudhon, comunque, non aveva sem- s ben chiara la differenza fra kantismo e hegelismo. Come documenta n a t a Allio (R. Allio, Le con traddizion i econom iche d i P roudhon nella f t e a d i Marx, Pàtron, Bologna 1978, pp. 16-17) egli sovrapponeva a t e i due sistemi.

.54 « Io costruiscb il sistema delle an tin o m ie della società pressappoco t i c Kant aveva fatto la critica delle antinomie della ragione». Proudhon

Wckerman, 2 luglio 1846, C orrespondance de P.-J. P roudhon, 14 voli., L ac ro ix 1875, tomo II, p. 207.

S S Cit. in G. Guy-Grand, P o u r connaître la pensée de P roudhon, Bor- Paris 1947, p. 44. «La filosofia, basandosi sempre di più sulle scienze

. i tiv e , perde il suo carattere d'a priori, e conserva la sua originalità s n d o la propria critica. La filosofia, nel diciannovesimo secolo, è la s t o -

cte lla filosofìa ». P. J. Proudhon, La révo lu tion sociale d ém on trée par te rp * d 'E ta t du 2 décem bre, Garnier frères, Paris 1852, p. 51.><S Lettera di Proudhon a Guillaumin, 7 novembre 1846, riprodotta da I - t . Picard nella sua Introduzione a S y s tè m e des con trad ic tions..., p. 12.7 7 G. Gurvitch, P roudhon ..., p. 24. Ë con questa stessa chiave di lettura

.Moysset interpreta giustamente, a nostro avviso, la concezione prou-• ix ia n a deU’antagonismo universale in ogni campo dell'esperienza uma-

U . Moysset, In tro d u c tio n a P. J. Proudhon, La guerre et la paix..., XXX-XXXI e LIV-LV1. Cf. pure G. Guy-Grand, Pour connaître ...,

1 7 2 .. 8 p. J. Proudhon, Théorie de l'im pô t (1861), Lacroix, Paris 1868, p. 234.9 P. J. Proudhon, S ystèm e des con trad ic tions..., vol. II, p. 172.0 P. J. Proudhon, De la créa tion ..., p. 132.1 A. Zanfarino, O rdine sociale..., p. 58. Per tutto questo si vedano it_*nque anche le altre fondamentali pagine di Zanfarino a cui ci1 0 costantemente riferiti. A Zanfarino, O rdine sociale..., pp. 51-72.2 Per l ’influenza di Fourier su Proudhon cf. A. Cuvillier, In tro d u c tio n

J. Proudhon, D e la créa tion ..., pp. 21-26.5 P. J. Proudhon, De la créa tion ..., p. 201. Secondo Proudhon, il pri-

è proprio della filosofia, mentre il secondo comincia praticamente F o u rie r . Ib id .

» A . Zanfarino, O rd in e socia le..., p. 59; P. J. Proudhon, De la créa- . . . . P. 215.» P . J. Proudhon, D e la célébra tion d u d im anche..., p. 61.» P . J. Proudhon, S y stèm e des con tra d ic tio n s ..., vol. II, p. 166. r J b id .! « Il fatto e Videa sono realmente inseparabili, il primo percepito i a n t e i sensi, la seconda colta mediante l’intendimento ». P. J. Prou-

Page 205: Berti, Proudhon

N ote all'introduzione 215

dhon. De la ju stice dans la révo lu tion et dans l 'Eglise', trad. it., La g iu sti­zia nella rivoluzione e nella Chiesa, Utet, Torino 1968, p. 585.

69 Perché, egli continua, « se la serie sociale è inattuabile nella sua forma, le sue unità organiche sono allo stesso tempo, viventi, intelligenti e intellegibili ». P. J. Proudhon, D e la créa tio n ..., p. 458.

70 « E un assioma della filosofìa moderna che ogni cosa ha la sua idea, pertanto il suo principio e la sua legge; che ogni fatto è adeguato alla sua idea; che niente si produce nell’universo che non sia l'espressione di u n ’idea ». P. J. Proudhon, La guerre et la pa ix ..., p. 9. « La realtà fisica, ricordate- vene, non vale che tram ite lo spirito, per l'ideale che respira in essa ». P. J. Proudhon, Du p rin c ip e de l 'a r t e t de sa d estin a tio n sociale (1865), Rivière, Paris 1939, p. 189.

71 A. Zanfarino, O rdine socia le ..., p. 64; G. Gurvitch, P roudhon..., pp. 26-27.

72 P. J. Proudhon, D e Ha créa tion ..., p. 458.73 Cf. P. J. Proudhon, Philosophie du p ro g rès ..., p. 58.74 A questo proposito Proudhon richiama per analogia la matematica

affermando, con Newton, che il numero non esprime che un rapporto, per­ciò, secondo lui, la prim a cosa che distingue i matematici è di astenersi da ogni speculazione sulla sostanza e sulla causa. P. J . Proudhon, De la créa tion ..., p . 141. Molto pili tardi continuerà ad affermare: « La verità, dunque, possiede un duplice aspetto, il più chiaro è quello di relazione ». P. J. Proudhon, La p o m o cra tie , ou les fe m m e s .. ., p. 391.

75 « (che vuol dire, in altri termini) eliminare dalla considerazione delle cose l’Assoluto ». P. J. Proudhon, De la ju stice ...; trad. it.. La giu­s tiz ia ..., pp. 565 e 744. « Ogni verità d’insieme implica armonia, simme­tria , serie tra diversi termini, ovvero rapporto ». P. J. Proudhon, La por- nocratie, o u les fe m m es ..., p. 389.

76 P. J. Proudhon, La révo lu tion sociale d ém o n trée ..., p. 43.77 « La coordinazione esclude la gerarchia [...] è sinonimo dell’ugua­

glianza delle funzioni, è l ’essenza della democrazia ». P. J. Proudhon, De la créa tion ..., p. 433. A Zanfarino, O rdine socia le ..., pp. 66-67.

78 Carnets de P. J. P roudhon, Rivière, Paris 1960, vol. I, p. 373.79 P. I. Proudhon, De la créa tion ..., p. 139.80 Per Proudhon, insomma, « la serie è la condizione suprema della

scienza, come della stessa oreazione ». Ib id ., J. Bancal, Pluralism e et autogestion , Aubier-Montaigne, Paris 1970, vol. I, pp. 100-111.

81 « Perché vi sia una scienza universale bisognerebbe che tutte le scienze particolari si concatenassero in modo da formare una serie dimo­strabile con un unico principio, e suscettibile di essere nella sua immen­sa multiplicità analizzato da una stessa legge e riportato agli stessi ele­menti ». Ib id ., p. 152.

82 P. J. Proudhon, Théorie d e la p ro p rié té ..., p. 213; Id., Théorie de l 'im p ô t, p. 239.

83 P. J. Proudhon, E cr its su r la religion (1898), Rivière, Paris 1959, p. 227.

84 P. J. Proudhon, De ta créa tion ..., p. 296.85 Ib id ., p. 421.86 Ib id .87 « Il lavoro, come la libertà, l’amore, l ’ambizione, il genio, è cosa

vaga e indeterminata per sua natura, ma che si definisce qualitativamente per il suo oggetto, vale a dire che diventa una realtà attraverso il suo pro­dotto ». P. J. Proudhon, S y stèm e des con trad ic tions..., vol. I, p. 113.

Page 206: Berti, Proudhon

216 Note all'introduzione

«8 J. Bancal, Pluralism e et au togestion ..., voi. I, p. 63.«9 lb id ., p. 301.90 P. J. Proudhon, Systèm e d es contradictions..., voi. II, p. 106. Questo

concetto dell’essere collettivo attraversa tutta la riflessione proudhoniana fino alle sue ultime opere. « Per me, la società umana è un essere reale, allo stesso titolo dell’uomo, che ne fa parte. Questo essere, costituito da uomini, ma che non è la stessa cosa di un uomo, ha la sua vita , il suo potere, i suoi attributi, la sua ragione, la sua coscienza, le sue passioni ». P. J. Proudhon, La pom ocratie, ou les fem m es ..., pp. 396-397.

91 € Le collettività, gruppi, generi, specie non sono pure finzioni del nostro intelletto, bensì realtà reali quanto le individualità, monadi o molecole che le costituiscono, ed allo stesso titolo di queste ultime ». P. J. Proudhon, La pom ocra tie , ou les fem m es..., p . 395.

92 C. Bouglé, La sociologie d e P roudhon, Colin, Paris 1911, p . XII. Sulla validità scientifica di questa nozione Mario Albertini, riprendendo un giudizio di Ferrarotti (F. Ferrarotti, S to ria della socio log ia , in S toria delle sc ienze, Utet, Torino 1962, voi. I li) , avanza molti dubbi in quanto sarebbero rielaborazioni del vecchio mito organicistico della società come persona umana. M. Albertini, In tro d u zio n e in P. J. Proudhon, L a g iu stiz ia ..., pp. 10-37. Tuttavia sia Ferrarotti che Albertini concordano con Gurvitch, che invece fa proprie queste nozioni, nel considerare Proudhon come uno dei fondatori della sociologia. G. Gurvitch, La vo ca tion a c tu e lle de la sociologie, Paris 1957, tomo I, p. 1; F. Ferrarotti, La sociologia, sto ria , con­cetti e m e to d i, Torino 1961, p. 38; M. Albertini, In tro d u z io n e ..., pp. 34-37.

93 P. J. Proudhon, De la créa tion ..., p. 94.94 * L'ordine si stabilisce nell’umanità per la conoscenza che l'essere col­

lettivo acquista delle proprie leggi ». P. J. Proudhon, D e la c ré a tio n ..., p. 37.95 P. J. Proudhon, De la ju s tic e ..., voi. I l i , p. 258.96 La ragione co lle ttiva è cosi definita da Proudhon: « l’equazione o il

bilanciamento reciproco dei pensieri individuali ». Essa distrugge « me* diante le sue equazioni, il sistema formato dalla coalizione delle ragioni particolari; dunque, essa non è soltanto differente rispetto ad ognuna di queste, è anche superiore a tutte » (P. J. Proudhon, De la ju s tic e ...; trad. it., La g iu stiz ia ..., pp. 764-765). Essendo conforme alla giustizia comanda « l'u ­guaglianza delle condizioni ». P. J. Proudhon, De la céléb ra tio n d u dim an. che..., p. 59.

97 P. J. Proudhon, De la ju stice ...; trad. it.. La g iu s tiz ia ..., p. 765.98 P. J . Proudhon, Q u'est-ce q ue ..., p. 339. A sottolineare la priorità

proudhoniana di questa definizione è stato G. Richard, La q u e s tio n sociale e t le m o u v e m e n t... , P- 204.

99 « Non vi sono che tre sistemi di raggruppamento per gli esseri mo­rali, tre modi o formule di associazione: il comuniSmo, l ’u tilita r ism o e la G iustizia . Il prim o sistema non tiene conto che della società e sacrifica l’in­dividuo. Il secondo accantona la società, non ricerca che la libertà e fa appello al solo interesse; il terzo concilia la società e l ’individuo, accorda a ciascuno la loro p a rte e identificando l ’uomo e l ’umanità fa predominare la giustizia sull'egoismo ». Proudhon a Rolland, 22 marzo 1860, in P. J. Prou­dhon, L e ttr e s a u c ito y e n R o lla n d (5 o c to b re 1858 - 29 ju ille t 1862), Grasset, Paris" 1946, pp. 63-64. J. Bancal, P luralism e et a u to g estio n ..., voi. I, pp. 90-106.

100 P. J . Proudhon, Théorie de la proprié té ..., p. 207; A. Zanfarino, O rdine s o d a te . . . , PP- 66-67.

101 P.-J. Proudhon, S y s tèm e des co n tra d ic tio n s ..., voi. I I , p. 393.

Page 207: Berti, Proudhon

Note all'introduzione 217

102 Jbid.103 Sull’interpretazione della nozione di ragione collettiva divergono le

tesi di Gurvitch e di Ansart. Gurvitch (G. Gurvitch, P roudhon ..., p . 44) af­ferma che essa richiama un po' la « volontà generale » di Rousseau e può perciò essere scambiata per una forma di totalitarismo. Ansart, invece (P. Ansart, La sociologia d i P roudhon ..., p. 34), dice che lo scopo della ragione co lle ttiva è quello di limitare l’invadenza delle ragioni individuali, per loro natura assolutistiche. In effetti Proudhon ha testualmente affer­mato: « Ritengo inutile insistere su questa distinzione fondamentale tra la ragione individuale e la ragione collettiva, la prima essenzialmente assolu­tistica, la seconda ostile ad ogni assolutismo ». P. J. Proudhon, De la ¡usti- ce ..., voi. I l i , p. 253.

104 p. J. Proudhon, De la créa tion ..., p. 421.105 P. J. Proudhon, C onfessions d 'u n révo lu tionnaire (1849), Rivière, Pa­

ris 1929, p. 282. Lo stesso concetto in P. J. Proudhon, La révo lu tion sociale d ém o n trée ..., pp. 37-38.

106 P. J. Proudhon, Q u ’est-ce q u e ..., pp. 214-215. Questo concetto centra­le dell’analisi proudhoniana dello sfruttamento lo ritroviamo più volte. Cosi, in un 'altra occasione, egli ebbe a scrivere: « Cento uomini, che uni­scono o combinano i loro sforzi, producono, in certi casi, non cento volte come uno, ma duecento volte, trecento volte, mille volte. A ciò ho dato il nome di fo rza co lle ttiva . (Quindi) non basta più allora pagare semplicemen­te il salario ad un dato numero di operai per acquistare legittimamente il loro prodotto: bisognerebbe pagare questo salario due, tre, dieci volte di più, oppure rendere a ciascuno di essi, a volta a volta, un servizio ana­logo ». P. J. Proudhon, Idea generale della rivoluzione nel X I X secolo (estratti), in P. Ansart, P. J. P roudhon , La Pietra, Milano 1978, p . 136.

107 Q u'est-ce q u e ..., pp. 268 e 271; Id., A vertissem en t aux propriéta ires, ou lettre a Ai. C onsidérant su r u n e dé fense d e la pro p rié té (Troisième mé- moire) (1842), Rivière, Paris 1938, pp. 194-195.

108 Come riconobbe lo stesso Marx: « Proudhon, facendo del tempo di lavoro, esistenza immediata dell’attività umana in quanto attività, la misura di salario e della determinazione di valore di prodotto, fa del lato umano l'elemento decisivo ». F. Engels - K. Marx, La sacra fam iglia , Editori Riu­niti, Roma 1972, p. 59. Secondo gli studiosi francesi di Proudhon, quando questi afferma che il capitalista si appropria del prodotto della « forza col­lettiva » anticipa i concetti marxiani di plusvalore e di « forze produttive », R. Gonnard, H isto ire des doc tr in es économ iques d ep u is les physiocrates, L. D. J., Paris 1947, p. 303; M. J. Lajugie, Les concep tions économ iques..., p. 122; P. Ansart, M arx e l'anarchism o, il Mulino, Bologna 1969, pp. 397-406; J. Bancal, P lurahsm e e t au togestión , Aubier-Montaigne, Paris 1970, pp. 40-41 e 77; G. Gurvitch, P roudhon ..., p. 37; J. Langlois, A ttu a lità d i Proudhon, Sugarco, Milano 1980, p. 68.

109 P. J. Proudhon, Q u’est-ce que ..., pp. 205 ss.110 « Sostengo che l ’uomo può solo avere il possesso e l'uso, alla condi­

zione permanente che lavori, lasciandogli per intanto la proprietà delle cose che produce ». Ib id ., p. 87.

111 Ib id ., p. 245. Su questa fondamentale distinzione si vedano le osser­vazioni di C. Gide - C. Rist, H isto ire d es doctrines économ iques depu is les physiocra tes ju sq u ’à nos jours, Recueil Sirey, Paris 1913, pp. 342-343.

112 P. J. Proudhon, Systèm e des con trad ic tions..., voi. I l, p. 212. « E so­prattutto in questo, egli aveva precedentemente precisato, che consiste ciò

Page 208: Berti, Proudhon

che è stato cosi ben definito lo sfruttamento deU’uomo sull uomo ».P. J. Proudhon, Qu'est-ce que..., p. 216. ,

i l l Ib id ., p. 208. Id.t Lettre a M. B lanqtii sur la p ro p n é té (deuxième me- moire) (1841), Rivière, Paris 1938, p. 126.

114 P. J. Proudhon, Systèm e des co n trad ic tions ..., vol. I I , p. ¿20.115 M. Albertini, Proudhon, Vallecchi, Firenze 1974, pp. 65-76.116 P. J. Proudhon, Qu'est-ce que...; trad. it.. Che cos'è la P™Pn e tà - 0

ricerche sul principio del d iritto e del governo, Laterza, Bari 1967, p.117 P. J. Proudhon, Systèm e des contrad ic tions..., vol. I I , p . 301.118 P. I. P ro u d h o n , De la justice .... vol. I, p . 299.119 P. J. P ro u d h o n , A vertissem ent aux proprié ta ires.... pp . 243-2«, i ..

Idée générale de la révolution au X lX e siècle, Rivière, Paris 1924, pp. 1M- 159. P. J. Proudhon, Systèrne des co n trad ic tions..., vol. I I , p. 301.

120 C. N apoleoni, Valore, Isedi, Milano 1976, p . 48. . .121 A questo proposito rimandiamo ancora una volta alle osservazioni

di M. Albertini, Proudhon..., pp. 54-66. . ,122 . Qualsiasi capitale, sia materiale che intellettuale, poiché è un opera

collettiva, forma di conseguenza una proprietà collettiva ». P. J. Prouanon, Q u ’est-ce q u e ..., p . 238. . , ,

123 J. Bancal, Proudhon. Pturalism e et au to g estio n ...,. vol. 1, p. « -124 M. I. Lajugie, Les conceptions économ iques de P roudhon , in L a c tu -

lité de P ro u d h o n ..., pp. 121-125.125 R im an d iam o per questo alle osservazioni critich e di M. Albertini,

In tro d u zio n e a P. j . Proudhon, La g iustizia ..., PP- 9-37.126 P. J. P ro u d h o n , S ystèm e des con trad ic tions..., vol. I I , p . 223.127 P. J. Proudhon M élanges, Librairie Internationale, Paris 1870, vol.

I l l , p. 53.128 P. J. Proudhon, S ystèm e des con trad ic tions..., vol. I , p. 73. « ^ella

ragione generale tu tte le idee sono coeterne: esse appaiono una dopo 1 altra soltanto nella sto ria , dove, a mano a mano, esse si vengono a mettere alla testa delle cose e in prima fila ». P. J. Proudhon, Idea generale della rivo­lu zio n e nel X I X seco lo (estratti), in P. Ansart, P. J. P roudhon ..., p. 158.

129 P. J. Proudhon, C arnets..., col. I, p. 133.130 P. J. P roudhon, T h éorie de la proprié té.... pp. 176-177.131 Questo « approccio » dimostrerebbe secondo alcuni studiosi la sostan­

ziale debolezza d e l pensiero economico di Proudhon, il quale deve essere invece visto com e teorico politico o come sociologo. E. James, S to ria del p e n siero e c o n o m ic o , Milano 1963, p. 164; E. Roll, S toria d e l pensiero eco­n o m ico , B oringhieri, Torino 1977, pp. 239-243. . . .

132 «Chi dice società dice insieme di rapporti, in una parola, sistema»P. J. Proudhon, Q u ’est-ce q ue ..., p. 233.

153 P. J. P r o u d h o n , Système des co n trad ic tions..., vol. I , p. 283.134 P. Ansart, L a sociologia ..., pp. 195-219.135 « L 'identità delle leggi della natura e della ragione, dell essere e aei-

l'idea... », I b id ., p. 16 ; p. Ansart, M arx e l'anarchismo..., p. 161.136 P. J. P ro u d h o n , De la c réa tio n ..., p. 286, nota.137 P. J. Proudhon, De la ju stice ...; trad, it.. La g iu stiz ia ..., p. 585.138 P. J, Proudhon, La guerre et la paix..., p. 9.139 « Passare d a lla speculazione all'azione non vuol dire cambiare ruolo:

agire è sempre p e n sa re , dire è fare ». P. 3. Proudhon, Les confessions a un ré v o lu t io n n a ir e . . . , p 193 . p. Ansart, Marx e l ’an a rch ism o ..., pp. 299-313.

1« « Lo scam b io , questo atto per cosi dire assolutamente metafisico, assolutamente a lg eb rico , è l’operazione con cui nell’economia sociale un 1-

218 Note all'introduzione

Page 209: Berti, Proudhon

N ote all'in troduzione 219

dea prende un corpo, una figura e tu tte le proprietà della materia: è la creazione di n ih ilo ». P. J. Proudhon, S y s tè m e des co n tra d ic tio n s ..., voi. I I , p. 71. « La separazione del reale e dell’ideale è dunque impossibile ». P. J. Proudhon, Du p rin c ip e de l ’a r t... , p. 61.

141 « L’azione, sappiatelo, è l'idea », Proudhon a Ch. Edmond, 24 gen­naio 1852, C orrespondance..., voi. IV, p . 197. « In materia di politica, di morale pratica, di scienza sociale, di tu tto quanto attiene alla vita attiva e all’attualità della società, le teorie non sono soltanto idee, astrazioni dello spirito, ma anche interessi, influenze, coalizioni, intrighi, persone ». Proudhon a Bergmann, 4 giugno 1847, C orrespondance ..., voi. II. p. 257.

142 Proudhon, p u r criticando l'apriorism o kantiano (P. J. Proudhon, Les co n fessions d 'u n révo lu tionna ìre ..., pp. 177-178 note) non nega l’esi­stenza di ima verità logica, universale e immutabile. A p ro p o s de L ou is B lanc in « La Voix du Peuple », 11 gennaio 1850, ripubblicato in O euvres co m p lè tes ..., voi. XIX, p. 75. Sull’influenza di Kant si sofferma di sfuggita C. A. Saint-Beuve, P. I. P roudhon . Sa v ie e t sa correspondance (1838-1848), Istituto Editoriale Italiano, Milano 1947, p. 92.

143 fi questa, ad esempio, la tesi di Pierre Haubtmann che accetta in pieno le critiche di Marx al presunto idealismo di Proudhon. P. Haubtmann, M arx e t P roudhon: leurs rapports p erso n n e ls (1844-1847), Economie et Humanisme, Paris-Liège 1947.

144 P. J. Proudhon, D euxièm e m ém o ire su r la pro p rié té ..., p. 181.145 Per esempio questa formula spesso riprodotta: « insomma i fatti

umani sono incarnazione di idee umane; studiare le leggi della economia sociale è quindi come fare la teoria delle leggi della ragione e creare la filosofìa ». P. J. Proudhon, S ystèm e d e s co n trad ic tions..., voi. I, p. 170. Oppure quest’altra « niente si produce nell'universo che non sia l'espres­sione di un’idea ». P. J. Proudhon, La guerre e t la paix..., pp. 9-10.

146 K. Marx, M iseria della filosofia ..., p . 94.147 Queste annotazioni, scritte in margine al suo esemplare della M ise­

ria della filosofia, sono state riprodotte in P. J. Proudhon, Système des c o n tra d ic tio n s ..., voi. II, pp. 416, 418.

148 P. Ansart, M arx e l'a n a rch ism o ..., p. 187.149 Ib id ., pp. 161-162.150 « L'antagonismo dei principi, nella mia concezione, è il fatto che

serve a stabilire la necessità rispettiva e reciproca dei principi ». P. J. Prou­dhon a M. G. Guillaumin, 21 novembre 1846, C orrespondance..., voi. II, p. 228.

151 L’evoluzione sociale distesa nel tempo e nello spazio deve essere ab­bracciata « come se fosse d ’un tratto raccolta e formata su un quadro, che, mostrando la serie delle epoche, ne seguisse il concatenamento e l’unità ». P. J. Proudhon, Systèm e d es con trad ic tions..., voi. I, p. 73.

152 ¡b id ., p. 258.153 Ib id ., p. 211.154 Ib id ., voi. II, p. 301.155 P. J. Proudhon, Idée générale de la révo lu tion ..., p. 300.156 P. J. Proudhon, De la ju stice ...; trad. it.. La g iustizia ..., p. 535.157 « Perché tale è, per le società moderne, la vera tirannia, che non

si potrebbe meglio definire che con questa formula: assorb im en to delle so­vran ità locali in una a u torità centrale, per uno scopo sia d i glorificazione dinastica, sia di s fru tta m e n to nobiliare, borghese, o sanculotto ». P. J. Prou­dhon, C ontrad ictions po litiques: théorie du m o uvem en t co n stitu tio n n e l au X lX e siècle (1870), Rivière, Paris 1952, p. 264.

Page 210: Berti, Proudhon

220 N ote all’introduzione

Proudhon, Idée générale de la révolu tion ..., p. 358. Pertanto noi crediamo che « esiste in politica, sulla questione del governo una for­mula adeguata a quella che abbiamo presentato [...] sulla questione del capitale » Ibid.

159 p. j_ Proudhon, Les co n fe ss io n i d 'u n révolutionnaire..., p. 61. « Ciò che 1 umanità cerca nella religione e che chiama Dio, è essa stessa ». P. J. Proudhon, Porlrait de Jésus, Ed. de Flore, Paris 1951, p. 63. «Non si pratica Dio senza realizzarlo, come in politica non si afferma l'assoluti­smo dello Stato senza creare un despota». P. J. Proudhon, De la justice...;

• 1r\’ Ziustizia - > P- 261. Sul radicale antiteismo proudhoniano,9 e kubac avanza dei dubbi. A suo giudizio, Proudhon, pur criti­

cando ferocemente la religione e ogni forma di teismo, rimase sempre tormentato dal « problema Dio ». In lui il suo prepotente esp rit euclidien non annullò mai i suoi dech irem en ts de conscience. H. De Lubac, Proudhon et le christian ism e. Ed. du Seuil, Paris 1945, pp. 308-314.

160 « Come mai i giacobini, questi epuratori eterni, diventarono dopoil colpo di Stato di brumaio quasi tu tti apostati? Il fatto è che con il loro spiritualismo, con il loro Essere supremo, la loro repubblica una e indivisibile, la loro proprietà romana, la loro sovranità popolare e tutte

,, ~ .ent.'*.k metafisiche riprese da\V ancien rég im e, essi non giuravano sulla Giustizia e sulla Verità, ma sull'assoluto ». P. J. Proudhon, La ju sti­ce...; trad. it.. La g iustiz ia ..., p. 772.

161 Proudhon, M élanges..., pp. 221-249. Una riproposizione contem- dell'analisi dell'interiorizzazione psicosociale del principio di auto­

rità è data dal notevole libro di R. Lourau, Lo S ta to incosciente, Edizioni Antistato, Milano 1980.

^ rouc*^on' M élanges..., p. 42. «Cosi il diritto divino non fece mai difetto al potere. In fatto, come in diritto, è sempre lui, lui solo, che insedia il Governo. La democrazia del diciannovesimo secolo ha gridato, ancor più fortemente del Medio Evo: V o x populi, vo x dei, che Mazzini tra­duce con le parole Dio e popolo . Grazie a questa massima, Napoleone I e Luigi Filippo, pur derivando dalla sovranità nazionale, poterono credersi tanto legittimi quanto Luigi XVIII ed Enrico V: non era cambiato che il modo di investitura». P. J. Proudhon, De la ju stice ...; trad. it., La g iusti­zia..., pp. 455-456.

^ ir Proudhon, De la capacité p o litique des classes ouvrières (1865), Rivière, Paris 1924, p. 297.

164 « O niente libertà o niente governo ». P. J. Proudhon, Les confessions d un révo lu tio n n a ire ..., p. 309. « Governo o non G overno, sottraetevi a tale dilemma, reazionari, e avrete colpito a morte la Rivoluzione ». P. J. Prou­dhon, Id é e générale de la révo lu tion ..., p. 182.

Stato è la costituzione esteriore della forza sociale ». P. J. Prou­dhon. Id é e généra le de la révo lu tion ..., p. 367.

‘ leggi dell’economia politica sono le leggi della storia ». P. J. Proudhon, De la créa tion ..., p. 369. « In ogni epoca, la costituzione politica i M81“ f*flesso dell'organismo economico, e il destino degli stati è difeso dalle qualità e i difetti di questo organismo ». P. J. Proudhon, M anuel du specu la teur à la B o u rse , in P. J. Proudhon, O euvres co m p lè tes ..., voi. XI, p. 25. Ha torto tuttavia il Bouglé ad affermare che in questo testo « si deli­nea una specie di materialismo storico prima di Marx ». C. Bouglé, Socio­logie de P ro u d h o n ..., pp. 108-113. Proudhon annoterà infatti nei suoi Car- nc/s. « Io non dico che l’economia è tu tta la società come non pretendo che una serie sia tu tta la scienza, una formula tu tta la verità. Io dico che

Page 211: Berti, Proudhon

Note all'introduzione 221

la scienza economica è in questo momento la Rivoluzione, ma senza esclu­sione del resto ». P. J . Proudhon, C a rn e ts ..., vol. II, p. 71.

167 P. J. Proudhon, Idée générale de la révo lu tion ..., p. 181.1 168 P. J. Proudhon, Confessions d 'u n révo lu tionna ire ..., p. 284-285.

1M P. J. Proudhon. La révolution socia le d ém on trée ..., p. 43.170 P. J. Proudhon, M élanges..., III, p. 35.171 P. J. Proudhon, Systèm e d es co n trad ic tions ..., vol. I, p. 284.172 P. J . Proudhon, M élanges..., vol. I I I , p. 42.173 P. J. Proudhon, Idée générale de la révo lu tion ..., p. 199.174 p. J . Proudhon, C ontradictions p o litiq u es: th éo rie du m ouvem ent

constitu tionnel..., p. 237; P. J. Proudhon, D e la justice ...; trad. it.. La giu­stizia..., pp. 559-560.

175 P. J. Proudhon, Carnets..., vol. II, p . 275.176 P. J. Proudhon, Idée générale de la révo lu tion ..., p. 193.177 Un confronto fra Proudhon e Rousseau è fatto da Silvia Rota Ghi-

baudi (S. Rota Ghibaudi, P roudhon e R o u ssea u , Giuffrè, Milano 1965), la quale arriva a considerare Proudhon « un continuatore di Rousseau » (p. 158). La tesi, a nostro avviso discutibile, si basa sulla considerazione che sia Rousseau che Proudhon concepiscono come base fondamentale della società il pluralismo che dal primo sarebbe visto come l ’insieme di singole esistenze autonome, mentre dal secondo come l’insieme delle asso­ciazioni naturali autonome (p. 146). Anche A. Noland, P roudhon and R ous­seau, in « Journal of History of Ideas », XXVIII, 1967, pp. 33-54, arriva sostanzialmente ad analoga conclusione. A suo avviso, Rousseau, come già Adam Smith e Saint-Simon, può essere annoverato tra i « maestri » di Proudhon (p. 54). Per un’interpretazione diversa cf. T. Ruyssen, In tro ­duction a P. J. Proudhon, C o n tra d ictio n s po litiques: théorie d u m ouve­m en t..., pp. 117-119.

178 P. J . Proudhon, P hilosophie du pro g rès ..., p. 66. Per la distinzione proudhoniana fra stato di natura e stato sociale, distinzione che evidenzia la distanza fra Proudhon e Rousseau, cf. soprattutto P. J. Proudhon, Con­trad ic tions po litiques: théorie d u m o u v em en t..., pp. 205-303.

179 p. J. Proudhon, Idée générale d e la révo lu tion ..., pp. 189-195. « In­fine, dobbiamo capire che la repubblica può solamente avere lo stesso principio della regalità e che prendere il suffragio universale come base del diritto pubblico, è implicitamente affermare la perpetuità della monar­chia. Noi siamo stati traditi dai nostri stessi principi; noi siamo stati vinti perché, a seguito di Rousseau e dei più detestabili retori del '93, non abbiamo voluto riconoscere nella monarchia il prodotto diretto e quasi infallibile della spontaneità popolare; perché dopo aver abolito il governo fondato sulla grazia d i Dio, abbiamo preteso, con l'aiuto di un’al­tra finzione, costituire il governo fondato sulla grazia del popolo; perciò al posto di essere gli educatori delle masse, ne siamo diventati suoi schiavi ». P. J. Proudhon, La révo lu tion sociale d ém o n trée..., pp. 81-82.

180 P. J. Proudhon, De la créa tion .:., pp. 428 e 239-240; P. J. Proudhon, So lu tion d u p ro b lèm e sociale (marzo 1848) ristampato nel IV volume delle Oeuvres co m p lè tes , A. Lacroix, Verboeckhoven et C., Paris 1868, pp. 48 ss. e M ystifica tion du suffrage u n ive rse l (aprile 1848) ristampato in Id ées révo­lu tio n n a ire s, Garnier frères, Paris 1849, pp. 13-17; P. J. Proudhon, La révo­lution soc ia le d ém o n trée ..., pp. 82-84; P. J. Proudhon, De la ju stic e ...; trad. it., La g iu stiz ia ..., p. 573. Questo rifiuto della democrazia rappresentativa, per quel tanto che di mistificante essa rappresenta ed esprime, è stato interpretato assurdamente da alcuni studiosi come un atteggiamento rea­

Page 212: Berti, Proudhon

222 Mote all'introduzione

zionario. Curioso, per non dire altro, è, ad esempio, quanto scrive J. Sal- wyn Schapiro, su un Proudhon addirittura anticipatore del fascismo. J. Sal- wyn Schapiro, P. J. Proudhon, H arbinger of fascism , in « The American Historical Review », 1945, pp. 714-737.

181 P. J. Proudhon, So lu tion du problèm e, pp. 55-71.Com'è noto fu questa la parola d'ordine della Prima Internazionale.

Essa, come sottolinea il Puech, fu maturata proprio dalle idee proudho- niane. J. L. Puech, Le proudhonism e dans l'association internationale des ‘ravailleurs, Paris 1907, pp. 112-114.

1X3 P. J. Proudhon, Résistance à la révolution. O euvres com plètes..., voi. XIX, p. 12 .

184 P. J. Proudhon, Les con fession i d 'un révolutionnaire..., p. 338; « Noi abbiamo sempre pensato che il proletariato dovesse emanciparsi senza l'aiuto del governo ». Id., Idées révolutionnaires..., p. 6.

**5 Sul rapporto fra Marx e Proudhon oltre all'opera dell'Haubtmann citata, cf. D. Halevy, La vie de Proudhon, Stock, Paris 1948, pp. 373 e 393- 405; G. Gurvitch, P roudhon et Marx: une confrontation, Centre de documen- tation universitaire, Paris 1964; P. Ansart, Marx e l ’anarchism o..., pp. 467- 501. Sia il Gurvitch che l ’Ansart tendono a sottolineare poco, sia pure in modo differente, la radicale differenza fra i due in rapporto alla tematica dello Stato e della dittatura del proletariato, facendo una lettura molto discutibile di un Marx quasi « libertario » perché favorevole all'estinzione dello Stato.

186 Proudhon a Marx, 17 maggio 1846. C orrespondance..., voi. II, pp. 198- 200.

187 « Il popolo francese, ancora per qualche tempo, vuole che lo si B°verni, e non m i costa confessarlo, cerca un uomo fortel ». P. J. Proudhon, La révolution so c ia le dém ontrée..., p. 25; « Il popolo non concede niente alle libertà m unicipali, dipartimentali, corporative, alle garanzie individuali della libertà Ama i pezzi grossi: la centralizzazione, la repubblica indi- visibile, l’im pero unitario. Per la stessa ragione è comunista ». De la ju stice ..., voi. IH, p 470 M Obbedendo al suo istinto di moltitudine asservita, esso (il popolo) bada prim a di tutto a darsi un capo ». P. J. Proudhon, De la capacilé p o l i t iq u e . . . , p. 62.

188 p_ j p ro u d h o n , L es con fessions d 'un révo lu tionnaire..., p. 83.189 P.-J. P ro u d h o n , S y s t im e des con trad ictions..., voi. I I , p. 313.190 Sul p ro b lem a dell'avanguardia rivoluzionaria e dei « rivoluzionari di

professione », si veda la fondamentale opera di L. Pellicani, / rivoluzio- "a ri d i p r o fe s s io n e . Vallecchi, Firenze 1975.

191 P. J. P ro u d h o n , De la capacité politique..., p. 115.192 L’influenza sansimoniana sul pensiero di Proudhon è sottolineata da

M. Leroy, l l ì s t o i r e d es id ées sociales en France, Gallimard, Paris 1954, voi- HI, p. 298, e da P. Ansart, M arx e l'anarchism o..., pp. 16-18; mentre un’intelligente « contestualizzazione » di Proudhon nell’ambito del « socia­lismo utopistico » c i è data dal saggio di S. Rota Ghibaudi, I l « socialism o u top istico », in S t o r i a de lle idee po litiche, econom iche e sociali, diretta da Luigi Firpo, U te t , Torino 1972, voi. V, pp. 182-203.

193 « La sp o n ta n e ità , al minor grado negli esseri non organizzati, a mag­gior grado nelle p ia n te e negli animali, raggiunge, sotto il nome di libertà, la sua pienezza n e l l ’uomo, che solo tenta di liberarsi da ogni fatalismo, tan­to oggettivo c h e soggettivo, ed in effetti se ne libera ». P. J. Proudhon, De 1“ ju s tic e ..., v o i . I l i , p. 403.

194 Carnets d e P . J. P ro u d h o n ..., voi. II, pp. 203-204. Libertà e necessità.

Page 213: Berti, Proudhon

Note all'introduzione 223

egli aveva specificato nelle C ontradictions, sono « inseparabili ma distinte; opposte, antagoniste, ma mai irriducibili ». P. J. Proudhon, S y stèm e des con­tradictions..., voi. II, p. 250.

195 P. J. Proudhon, De la ju stice , voi. I l i , p. 399. A. Zanfarino, Ordine sociale e libertà..., p. 39.

196 P. J. Proudhon, Idées révolutionnaires..., p. 255.197 M. Albertini, Proudhon..., p. 95.198 P. J. Proudhon, De la justice ..., p. 422. « L’uomo in virtù del suo

libero arbitrio, dichiara la natura indegna di lui; la giudica dall’alto, la critica, la condanna o l'approva, la canta o la denigra, ne fa dipinti idealio sarcastici, la denuda o la ricrea, come se volesse ricostruire il mondo su un piano migliore ». Ib id ., voi. I li, p. 414.

199 Ib id ., p. 411.200 « La decadenza, la retrogradazione » sono reali quanto il progresso.

Ib id ., p. 537.201 « Mi sembra che voi dimentichiate totalmente una cosa essenziale, una

cosa che produce tutto il bene e tutto il male del mondo, vale a dire la libertà [...]. Voi avreste ragione, se l’umanità fosse fatalmente e invincibil­mente incatenata alle sue stesse leggi; ma non è affatto cosf. Poiché l'indi­viduo è padrone della sua vita e della sua salute [...], allo stesso modo io concepisco la possibilità per l'intera specie, di una aberrazione definitiva e irrimediabile [...] poiché l’uomo, cioè l’intelligenza libera e progressiva, è eterno e infinito come Dio ». Proudhon a Langlois, 18 maggio 1850, Corrcs- pondance..., voi. I l i , pp. 259-260.

202 Cf. P. J. Proudhon, De la justice...; trad. it., La g iustiz ia ..., pp. 143- 159. Per i fondamenti dell’idea di progresso e di giustizia in Proudhon cf. G. Santonastaso, P roudhon, Laterza, Bari 1935, pp. 22-43. Una conseguente in­terpretazione anarchica dell'idea proudhoniana di giustizia in chiave di uguaglianza si riscontra nel pensiero di Kropotkin. Per Kropotkin, Prou­dhon intende l'idea di giustizia « come il prodotto dell'evo luzione della so­cietà um ana » e perciò come fatto spontaneo e naturale dell'etica sociale. Nessuno, afferma ancora Kropotkin, « ha preparato il terreno cosi bene alla giusta comprensione dell’idea di giustizia in quanto idea fondamen­tale di tutta la morale, come ha fatto Proudhon ». P. Kropotkin, L'etica, Edigraf., Catania 1972, pp. 234 e 235. La ricerca proudhoniana della giusti­zia non deriva dunque, come pretende Gramsci, da una mera concezione giuridica quale sostanza del riformismo piccolo-borghese (A. Gramsci, Qua­derni del carcere, Einaudi, Torino 1975, voi. 2, p. 1497) ma da una vera e propria visione socialista del tutto autonoma da motivazioni sociologiche di classe. A. Zanfarino, O rdine sociale..., pp. 209-227.

203 « L’anima umana è costituita da una sorta di polarità, c o s c i e n z a e Scienza, in altri termini g i u s t i z i a e V erità . Su questo asse fondamen­tale, come sulla loro dominante, gravitano tutte le altre facoltà; la memo­ria, l’immaginazione, il giudizio, la parola, l’amore, la politica, l'industria,il commercio, l'arte ». P. J. Proudhon, Du principe de l'art..., p. 185. B dunque su questa concezione immanente della giustizia che si fonda tutta la morale umana, morale che comporta perciò l’indipendenza politica, eco­nomica e sociale degli individui. L. Duprat, Proudhon sociologue et mora­liste, Alcan, Paris 1929, pp. 4-8 e 67-82.

204 P. J. Proudhon, Les dém ocra tes asserm entés et les réfractaires (1863), Rivière, Paris 1952, pp. 39-40.

205 « Quando si giunge alle spiegazioni [...) la necessità è sempre attra­versata dalla contingenza». P. J. Proudhon, De la ju stice ..., voi. I l i , p. 427.

Page 214: Berti, Proudhon

224 Note all’introduzione

l Per l’idea della radicale contrapposizione fra l'idea di progresso e idea di assoluto in Proudhon si veda T. Ruyssen, In troduction a P. J. Prou-

P hilosophic du progrès..., pp. 5-28 e K. Lowith, Significato e fine s ,oria. Comunità, Milano 1973, pp. 83-88. Uno studio specifico sull'im­

portante concezione proudhoniana del progresso visto come una consape- X? ^infinita liberazione da ogni fatalità e determinismo è dato dal saggio W r liam Harbold che concorda in sostanza con la tesi di Proudhon. W.

arbold, Progressive H um anity: in the P hilosophy o f P. J. Proudhon, in * W7 Rev*ew of Politics », XXXI, 1969, pp. 28-48.

"J* Proudhon a M. Delaragear, 4 m arzo 1843, Correspondance..., vol. Ill, P - 384.

Proudhon a Langlois, dicem bre 1851, C orrespondance..., vol. IV, p. 158.P- J. Proudhon, Philosophie du progrès..., pp. 49-50.

* ° Ib id ., p . 53.2 ! Lb i d - p p - 4 M 9 -* Proudhon a Langlois, dicembre 1951, Correspondance..., vol. IV,5ij * ' Proudhon, De la ju stice ..., vol. I l l , p. 540.

3 P. J. Proudhon, De la ju stice ..., vol. I l l , p. 511.2 « Ib id ., p. 497.

5 * L’idea vagamente concepita sotto la spinta del bisogno, poi diroz- ^ ’ fo rm ulata a ttrav erso la contraddizione, d iv iene rapidam ente un dirit-

° ’ [•••]. Grazie alla persecuzione che ha subito, la rivoluzione oggi si conosce. Può dire la sua ragione di essere; è in grado di definirsi, di d&-

conosce il suo principio, i suoi mezzi; i suoi fini; ha il suo metodo ?2*1 SU° cr*,er'° *• J- Proudhon, Id ée générale de la révolution..., pp. 104,

216 « La causa dei contadini è la stessa di quella dei lavoratori dell'in- ustna; la Marianne dei campi è la controparte della S o d a te delle città ».‘ J-Proudhon, De la capacité po litique..., p. 69.

218 Ibid" P P ' 89' 9 0 ’_ , », Proudhon, Les confessions d ’un révotu tionnaire..., pp. 118-127;'' r >e la capacité p o litique..., pp. 102-118.

p Sul problema della coscienza di classe nel pensiero proudhoniano,■ “ • Canpelli, Classe e coscienza di classe in P roudhon, Altamurgia, ™ 1974-PP- 39-78.r~ P- J. Proudhon, De la ju stice ..., vol. I l l , p. 408.

* J- Proudhon, La révolution sodate dém o n trée ..., p. 55.Per il pensiero pedagogico di Proudhon, cf. le interessanti pagine di

• Tornasi, Ideologie libertarie e form azione umana,.*., pp. 94-125.P- J . Proudhon, De la ju stice ...; trad, it.. La g iustiz ia ..., p. 670.P- J. Proudhon, De la capacité po litique..., p. 95.

, “ 5 Si vedano a questo proposito le pagine di A. Zanfarino, O rdine so- c “ ,e- , Pp. 135-138.r i if?6 Proulhon deve essere riconosciuto come il primo vero teoricoS E r>aUt0^esl'one- Cf. a questo proposito gli studi fondamentali di

- Huncal, Proudhon: u n e sociologie de ia u to g estio n e Proudhon: une pra- tq u e dell'tu togestion. L es rapports critiques, in « Autogestion », mars-

J uin 1968, pp. 149-180 e décembre 1968, pp. 143-169; septembre-décembre 1969, P ? '. 1-250. Cf. pure R. Massari, Le teorie dell'autogestione, Jaca Book,

1 ano 1974, pp. 33-62. Si veda anche il recente P. Ansart, P. I. Proudhon..., P P - 9-47. Sull'attualità generale della tematica autogestionaria cf. A. Ber-

° 0, La gnm igna sovversiva , saggio pubblicato nel numero speciale dedi- <- a 0 dalla rivista anarchica « Interrogations », anno IV, nn. 17-18, 1979,

Page 215: Berti, Proudhon

Note all'introduzione 225

pp. 9-38 a questo argomento. Tutto il fascicolo comunque raccoglie le rela­zioni presentate al Convegno internazionale di studi sull’autogestione tenu­tosi a Venezia nei giorni 24-26 settembre 1979.

227 P. J. Proudhon, De la capacité politique..., p. 94.228 P. J. Proudhon, Systèm e des contradictions..., vol. I, p. 345.229 P. J. Proudhon, Idée générale de la révolu tion ..., p. 302. La super­

fluità del governo diventa per Proudhon del tutto conseguenziale una volta stabilita l’identità degli interessi: « perché vi sia rapporto di interessi, bisogna che gli interessati stessi siano presenti, rispondano, stipulino, si obblighino, agiscano; in modo tale che la ragione sociale e il suo emblema vivente siano una sola e stessa cosa; in ultima analisi, che tu tti essendo governati, non vi sia governo. La negazione del governo segue pertanto da questa sua definizione: chi dice governo rappresentativo, dice rapporto di interessi; chi dice rapporto di interessi, dice assenza di governo ». P. J. Proudhon, La révolution sociale dém ontrée..., pp. 270-271.

230 P. J. Proudhon, Du principe fédéra tif..., p. 271.231 Ib id ,, p. 280.232 Ib id ., pp. 274-275.233 II principio monarchico e quello comunista poggiano entrambi sul

principio dett'autorità paterna. Fino a quando questa è vigente in modo diretto vive il regime il monarchico, quando invece avviene la p o rte del monarca si ha il comuniSmo se i sudditi dichiarano di restare ind iv is i. Ecco perché la monarchia e il comuniSmo sono « due varietà di un medesimo regime ». Ib id ., p. 276.

234 Ib id ., pp. 278-279 e pp. 291-292. .235 P. J. Proudhon, M anuel du spéculateur à la B ourse, Garnier frères,

Paris 1857, p. XI.236 Ib id ., p. VII.237 Ibid.238 Ib id ., p. VIII.239 Come ha giustamente sottolineato Gurvitch, Proudhon ha previsto

in certo senso la trasformazione del capitalismo in totalitarismo fascista. G. Gurvitch, Les fondateurs français de la sociologie contem poraine, C.D.U., Paris 1955, vol. II, p. 54. Per una odierna interpretazione anarchica del fascismo visto come sistema di statalizzazione dell’economia, cf. L. Lanza, E lem en ti tecnoburocratici d e ll’economia fascista , in « Interrogations », n. 5, 1975.

240 Sulle previsioni fatte non solo da Proudhon ma da tutto il pensiero anarchico sull'esito storico del comuniSmo quale ultima forma di dispo­tismo, vale a dire quale portatore di una nuova classe di dominatori, riman­do al mio A ntic ipazioni anarchiche su i nuovi padroni, cit. Per una odierna interpretazione anarchica del dominio tecnoburocratico generato dal comu­niSmo di Stato cf. invece A. Bertolo, Per una definizione dei nuovi padroni, in AA. VV., I nu o v i padroni, Antistato, Milano 1978, pp. 15-54.

241 P. J. Proudhon, M anuel du spécu la teur..., p. 470.242 Cf. il mio La tecnoburocrazia e il pensiero anarchico, in AA. W .,

I nuovi p a dron i..., pp. 149-167.243 p. J. Proudhon, T h éorie de la proprié té...; trad. it.. La proprietà,

O.E.T., Roma s.d. [ma 1947], p. 150.244 Ib id j, p. 127.245 Ib id ., p. 138.246 Ib id ., pp . 79-80.247 Ib id ., p. 138. L’individuazione della mancanza della proprietà privata

Page 216: Berti, Proudhon

226 Note all’introduzione

quale causa del « dispotismo orientale », una individuazione che riaffiora continuamente nel pensiero proudhoniano, è stata confermata recente­mente dall'opera fondamentale di K. A. Wittfogel, II d isp o tism o orientale, Sugarco, Milano 1980.

248 P. J. Proudhon, Théorie de la propriété...; trad, it., La proprie tà ..., p. 166.

249 Ib id ., pp. 125-126.250 ib id . , p. 147.251 Ib id ., p. 140.252 Ib id ., p. 181.253 P. J. Proudhon, Anarchia, voce per il dizionario Larousse, scritta

nel 1864, in Lettres choisies, Paris 1929, p. 350.254 P. J. Proudhon, Du principe fédératif..., pp. 271 e 330.255 P. J. Proudhon, Du principe fédératif..., p. 319. Ê sempre facendo

perno sul principio federativo che si possono porre le basi per rapporti egualitari e liberi fra i popoli e le nazioni. In questo senso Proudhon è stato, secondo Puech, un grande anticipatore dei principi originari della Società delle Nazioni. J. L. Puech, La trad ition socialiste en France et la Société des N ations, Rivière, Paris 1921, pp. 181-201. Cf. pure G. Goriély, Pioudhon e t les na tionalitées, in L ’actualité de P ro u dhon ..., pp. 151-161.

256 P. J. Proudhon, De la capacité..., p. 198.257 P. J. Proudhon, Du principe fédératif..., p. 359.258 P. J. Proudhon, De la justice ...; trad, it.. La g iu stiz ia ..., p. 761.25® P. J. Proudhon, De la création..., pp. 338-339.260 Ib id ., pp. 325-332; J. Bancal, Pluralism e et a u to g es tio n ..., vol. I,

p. 198.2*1 P. J. Proudhon, Théorie de l'im pôt..., p. 234.262 Ib id .263 € l ’an tagon ism o , azione-reazione, legge universale del mondo» P .J.

Proudhon, La guerre e t la pa ix..., p. 489.264 P .J . Proudhon, S ystèm e des contradictions..., vol. I, p. 247.265 P. J. Proudhon, D e la création ..., pp. 433-434; Id ., De la capacité...,

p. 186.26 P. J. Proudhon, De la capacité..., p. 89.267 La proprietà non si giustifica se non « trasportata nel sistema socia­

le • e nei rapporti complessi che la suscitano: « essa può essere un diritto so'amente se è una funzione (sociale) ». P. J. Proudhon, Théorie de la pro­priété..., p. 154.

P. J. Proudhon, D u princ ipe fédéra tif..., p. 359; G. Gurvitch, Prou­dhon..., pp. 62-63.

2W P. J. Proudhon, M a n u e l d u sp écu la teu r ..., p. 474.ZTO « Partecipazione di tutti gli associati alla direzione dell’impresa e

ai benefici, nei limiti e nelle proporzioni determinate dall'atto sociale ». Ibid., p. 477. Insiste su questo aspetto del pensiero di Proudhon A. Berthod, Proudhon e t la p r o p r ié té . . . , pp. 134-157.

711 P. J. Proudhon, L e dro it au travail e t le droit d e p ro prié té (1848), Rivière, Paris 1938, p. 453.

¡72 La proprietà « non costituisce tutto il sistema. Essa vive in un am­biente organizzato, circondata da un certo numero di funzioni analoghe e di istituzioni speciali [ . . .] con le quali, di conseguenza, bisogna che essa faccia i conti ». P. J. P roudhon, Théorie de la pro p rié té ..., pp. 176-177.

Vi « Secondo q u e s ta te o r ia l 'em an cip az io n e dei lav o ra to ri è dunque possibile co n la r iu n io n e in fascio delle fo rze ind iv idua li e dei b isogni; in

Page 217: Berti, Proudhon

Note all'introduzione 227

altri termini, con Vassociazione dei p ro d u tto ri e dei consum atori, che, non avendo più interessi contrapposti, sfuggono irrimediabilmente al dominio del capitale ». P. J. Proudhon, Idea generale della rivoluzione (estratti)..., in P. Ansart, P. 1. Proudhon..., p. 144; G. Gurvitch, P roudhon ..., pp. 261- 263; Bancal, P luralism e et autogestion ..., vol. II, pp. 62-95.

274 P. J. Proudhon, Qu'est-ce que..., pp. 230, 232, 259; Id., A vertissem ent aux proprié ta ires..., pp. 189-199; Id., De la création..., pp. 193-196.

275 p. J. Proudhon, Systèm e des contradictions...; trad. it., S is te m a delle contraddizioni econom iche. F ilosofia della miseria, Anarchismo, Catania 1975, pp. 59-65.

276 Com’è noto, Proudhon pensava alla « costituzione del valore » come effetto del tutto logico dell'abolizione dell’interesse e di ogni altra forma parassitarla presente nella formazione della ricchezza. C. Gide - C. Rist, H istoire des doc tr in es économ iques..., pp. 358-373. W. Oualid, Proudhon banquier, in AA. VV., P roudhon et notre tem ps, Ehiron, Paris 1920, pp. 113- 125; M. Albertini, Proudhon..., pp. 81-83. Sulle vicende della B anque du Peuple da lui fondata, Banca che avrebbe dovuto provare con i fatti questa teoria dell’abolizione deU'interesse, si vedano le pagine di E. Dolleans - J. L. Puech, P roudhon et la révolu tion d e 1848, PUF, Paris 1948, pp. 36-60.

277 Per il confronto e la polemica sul « valore costituito » fra Marx e Proudhon, cf. il puntuale lavoro di R. Allio, Le contradd izion i econom iche di P roudhon ..., pp. 115-138.

278 Per un approccio odierno a questa importante problematica cf. ora L. Pellicani, Il m erca to e i socia lism i, Sugarco, Milano 1979.

279 P. J. Proudhon, Systèm e des contradictions...; trad. it., S is tem a delle contraddizioni..., pp. 164-172; « La concorrenza è la legge stessa del mer­cato, il condimento dello scambio, il sale del lavoro. Sopprimere la con­correnza, significa sopprimere la libertà stessa, avviare dal basso la restau­razione del vecchio regime, rimettendo il lavoro sotto il regime di favori­tismo e di abuso dal quale l ’89 lo aveva affrancato ». P. J. Proudhon, Idea generale della rivoluzione... (estratti), in P. Ansart, P roudhon ..., p. 112.

280 « Il lavoro e lo scambio sono l'alpha e l'omega della rivoluzione » P. J. Proudhon, P hilosophie d u progrès..., p. 81.

281 P. J. Proudhon, De la capacité..., p. 142.282 P. J. Proudhon, S ystèm e des con trad ic tions..., p. 113.283 P. J . Proudhon, De la ju stice ...; trad. it.. La g iustiz ia ..., p . 568.284 P. J . Proudhon, De la capacité..., p. 115.285 J. Bancal, P roudhon. P lura lism e..., II, pp. 96-100.286 p. J. Proudhon, Du p rin c ip e féd éra tif..., p. 330. Per la concezione

proudhoniana del decentramento federalistico basato sulle piccole comu­nità, si vedano le belle pagine di M. Buber, Sentieri in utopia, Ed. di Co­munità, Milano 1967, pp. 35-49.

287 P. J. Proudhon, De la capacité..., p. 198.

Page 218: Berti, Proudhon

NOTE Al TESTI

1 Proudhon usa il termine metafisica in senso improprio. Per lui meta­fisica ha grosso modo il significato di filosofia positiva.

2 Parole di Cristo in Matteo, 18, 20.i Sottolineiamo m utualism o (e derivati) perché si tra tta di uno dei

termini cruciali del linguaggio di Proudhon, che va molto al di là dell'idea del mutuo soccorso che caratterizza le società filantropiche, le cooperative, ecc. e acquista una portata generale, fondata sull'idea che tu tti gli scambi devono avvenire in modo eguale tra eguali. La situazione creata da questo scambio è designata da Proudhon col termine bilancia (balance), spesso contrapposto a bascule.

4 A questo punto Proudhon espone in dettaglio come viene intesa la giustizia nel sistema della Rivelazione e in quello della Rivoluzione. Nel primo — spiega —, il principio della giustizia è in Dio, che ne è soggetto e rivelatore, la forza di realizzazione ancora in Dio, la sanzione sempre in Dio; nel secondo, la giustizia è soltanto umana. Proudhon sostiene que>- st'ultima concezione immanentistica della giustizia, frutto della Rivoluzione francese. Per lui, la giustizia, essendo frutto della coscienza, costituisce ogni individuo giudice, in ultima istanza, del bene e del male. Naturalmente c’è da dire che la concezione della giustizia secondo la dottrina cattolica non è quella descritta da Proudhon, che si rifaceva peraltro a scritti di teologi dell’epoca. È da dire che anche la dottrina cattolica riconosce il primato della coscienza (cf. J. H. Newman), pur affermando il valore ogget­tivo della giustizia fondata sia sulla legge positiva della Rivelazione, sia sul diritto di natura [N.d.E.].

5 Nella dottrina di Giangiacomo Rousseau, che è quella di Robespierre e dei giacobini, il C ontratto sociale è in verità una finzione di legisti, imma­ginata per rendere ragione, senza ricorrere al diritto divino o all’autorità patema o alla necessità sociale, della formazione dello Stato e dei rapporti tra il governo e gli individui. Tale teoria, mutuata dai calvinisti, era nel 1762 un progresso, poiché mirava a ridurre ad un principio razionale quanto fino ad allora era stato considerato come una semplice conseguenza della legge di natura e del sentimento religioso. Nel sistema federativo invece, il contratto sociale è più che una finzione: è un patto positivo, effettivo, che è stato realmente proposto, discusso, votato, adottato, e che si può modifi­care regolarmente a volontà dei contraenti. Fra il contratto federativo e quello di Rousseau e del '93 c’è tu tta la distanza che passa fra la realtà e la ipotesi [no ta d i P rou d h o n ].6 Nel 1864, sessanta operai firmano un M anifesto che afferma la neces­sità, per la classe operaia, di presentare suoi candidati alle elezioni e di sostenerli contro i candidati borghesi, anche contro quelli schierati insieme con l'opposizione. All’invio di questo M anifesto dei sessa n ta , Proudhon, entusiasta, risponde con un lungo commento, Della capacità politica delle classi operaie, in cui si propone di rendere esplicito il senso del movimento propriamente operaio e di mostrare che 1’« idea » della classe operaia è quella del socialismo antistatale e antiautoritario.

7 Al M a n ife s to dei sessan ta aveva risposto un contromanifesto di ispira­zione repubblicana.

Page 219: Berti, Proudhon

234 Indice dei nomi

Venturi F., 211 Verdes J., 211 Villaume M., 212 Villegardelle F., 163, 167

Wittfogel KA ., 226

Woodcock G., 209

Yeroy M., 222Zanfarino A., 210, 213,

215, 216, 223, 224 Zoccoli E., 209

Page 220: Berti, Proudhon

INDICE

P rem essa ......................................................................pag. 9

Introd u zion e............................................................... » 13Il m e to d o ............................................................... » 18I fondamenti sociologici...................................... » 25La critica della proprietà...................................... » 31La critica del comunismo come critica della

proprietà............................................................... » 33I fondamenti « neutri » dell’antinomia . . . » 39Critica del potere p o lit ic o ................................» 45L’autoemancipazione............................................ » 53II socialismo come superamento storico del

lib era lism o .........................................................» 63La società a u to g e s t ita ...................................... » 69

Cenni b iogra fic i.........................................................» 79Nota b ib lio g r a fic a .................................................. » 83

Testi

I. Dialettica s e r ia le .................................................. » 93I fondamenti filosofici del pluralismo » 93 Una dialettica seriale è impossibile? Progressi

compiuti in questa direzione......................... » 95

II. Critica dell’a sso lu to ............................................» 98I fondamenti filosofici del pluralismo » 98

III. La forza collettiva............................................» 102Del potere sociale, considerato in se stesso . » 102 Della appropriazione delle forze collettive, edella corruzione del potere sociale . . » 108

Page 221: Berti, Proudhon

236 Indice

IV. La ragione c o l le t t iv a .....................................La ragione pubblica, condizione e fondamentodella fede pubblica .....................................

V. Critica del principio di autorità . . . .

VI. La critica dello S ta to .........................1. Della natura dello Stato .2. Dello scopo o dell’oggetto dello Stato !3. Di una destinazione ulteriore dello Stato

VII. La critica al comunismo e all'individualismo

V ili. L ideale della comunanza è l’assolutismo1. La comunione deriva dall’economia politica2. Definizione di ciò che è proprio e di ciò

che è com un e...............................3. Posizione del problema comunista ! j !4. La comunione prende il suo fine per il suo

principio . ...................................................5. La comunione è impossibile senza una legge

di riparto, ed essa perisce mediante riparto6. La comunità è impossibile senza una leg­

ge d’organizzazione e perisce mediante l’orga n izzazion e................................

7. La comunità è impossibile senza la giusti zia, e perisce per la giustizia . .

8. La comunanza eclettica, inintelligente e inin t e l l ig ib i le ..................................................

IX. Lo Stato secondo i comunisti . . . .

X. La teoria della g iu s t i z ia .........................Realismo della Giustizia - La trascendenza

l’immanenza . . . .

XI. La teoria del fed e ra lism o . . . . Posizione del p ro b lem a politico - Principiò d

una so luzione..........................Come affiora l’idea della federazione ! !

XII. Il regine politico federale . . . .

XIII. Critica della proprietà e rivalutazione dellaproprietà...................................................Conclusioni .

pag. 115

» 116

» 125

131132 138 142

147

154154

155 157

157

160

161

164

165

170

174

174

176

176180

184

187191

Page 222: Berti, Proudhon

XIV. La teoria del m u tu a lism o ..........................pag. 197XV. L'emancipazione o p e r a ia ................................ » 202Note a ll'in tro d u z io n e .............................................» 209Note ai T e s t i............................................................... » 229Indice dei n o m i.........................................................» 231

Indice 237


Top Related