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Geopolitica 2012 Dispensa per il corso di Geopolitica Prof. Giuseppe BETTONI Pagina 1 DISPENSA DI GEOPOLITICA: AREA MEDITERRANEA Corso di “Geopolitica” Prof. Giuseppe BETTONI Facoltà di Lettere Filosofia Università di Roma “Tor Vergata” A/A 2011/2012

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Geopolitica 2012

Dispensa per il corso di Geopolitica Prof. Giuseppe BETTONI Pagina 1

DISPENSA DI GEOPOLITICA:

AREA MEDITERRANEA

Corso di “Geopolitica”

Prof. Giuseppe BETTONI

Facoltà di Lettere Filosofia

Università di Roma “Tor Vergata”

A/A 2011/2012

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Prima di cominciare è bene cercare di spiegare, seppur rapidamente, quello che qui si

intende per geografia. Questo proprio perché nelle pagine che seguiranno si passerà

continuamente da spiegazioni storiche a spiegazioni geografiche. Ma è bene ricordare, per non

fare confusione, che geografia e storia sono i due risvolti dello stesso oggetto di studio:

l’uomo, nella sua struttura sociale, e la sua azione sui territorî. Coniugare l’evoluzione

dell’azione dell’uomo nel tempo e soprattutto le trasformazione che egli apporta ai suoi

territorî, così come i territorî che influenzano e modificano l’azione dell’uomo, sotto ogni suo

aspetto: questo è l’oggetto di studio di chi si accinge a raccogliere alcuni spunti sull’area del

Mediterraneo e l’evoluzione che essa ha avuto con tutti i legami con i continenti che vi si

affacciano: Africa, Europa e Asia.

Molto semplicemente ricordiamo le parole che il geografo francese Pierre George usa

nel suo lavoro, oramai quasi dimenticato, dato che risale alla metà degli anni’60, “Géographie

active” : un sapere globale che unisce tutto quello che nella storia, nelle scienze naturali e le

scienze umane forma e trasforma le distese terrestri. Il vero oggetto di studio della geografia è

lo studio delle situazioni - considerato dai punti di vista fisico e umano – in una visione

prospettica. Non poteva quindi mancare una citazione di Yves Lacoste, tra gli allievi di George,

secondo il quale la geografia si colloca all’incrocio di diverse scienze e saperi, permettendo la

combinazione , su spazi grandi e piccoli, diverse forme di fenomeni, naturali e umani. Questo

perché, sempre secondo Lacoste, “il territorio non deve essere considerato come una

superficie astratta misurabile in migliaia di Km quadrati. Si tratta in realtà di insiemi geografici

complessi, dove si incrociano forme di rilievo e distese più o meno popolate, reti di trasporto e

zone urbane, zone agricole e risorse del sottosuolo, ma anche aree culturali particolari,

specialmente linguistiche e religiose”.

È tenendo ben in mente queste poche righe che si deve cominciare a leggere questo

lavoro che partirà da un insieme di Stati che si affaccia su due mari: Atlantico e Mediterraneo e

che tanto influenza la nostra vita di oggi. Per farlo dobbiamo prima di tutto inquadrare il

motivo che diede vita alla NATO per poter meglio capire in che modo questa struttura è

cambiata e soprattutto ha modificato le sue strategie, nonché i suoi equilibri interni. Per farlo

sarà fondamentale fare un breve passaggio attraverso i giorni della “guerra fredda”.

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1. La guerra fredda

Nei nostri giorni si descrive spesso la potenza degli USA come se la guerra fredda con

l’Unione Sovietica non avesse mai avuto luogo.

I giovani di oggi non avevano che pochi anni quando la rivalità tra Est e Ovest prese

fine e quando, nel 1991, l’Unione Sovietica è implosa. Non si può capire l’enorme potenza

militare degli USA di oggi se non si tiene conto di questo lungo periodo, quasi 40 anni, durante

il quale gli USA si sono opposti a quello che loro consideravano, giusto o sbagliato che potesse

essere, come il rischio di espansione del comunismo sovietico in Europa e nelle altri parti del

mondo.

Fortunatamente, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica non si sono mai fatti la guerra

direttamente. Queste due potenze detengono entrambe l’arma atomica e questo avrebbe

avuto certamente conseguenze spaventose sull’insieme stesso dell’umanità visto che

potevano lanciare testate nucleari a migliaia di chilometri di distanza. La distruzione di una

gran parte dell’Europa, delle grandi città della Russia, ma anche indirettamente le ricadute

radioattive che avrebbero avuto luogo avrebbero praticamente reso invivibile il pianeta. I

dirigenti Americani e Sovietici hanno avuto la saggezza di non scatenare questa guerra,

malgrado i pericoli ai quali essi stessi hanno dovuto far fronte in diverse circostanze.

È per questo motivo che si è parlato di “guerra fredda” basata su quello che

chiamavamo l’”equilibrio del terrore”: grazie ai radar situati nell’Artico, il lancio dei missili da

uno di due campi avrebbe significato sicuramente la risposta immediata dell’altro. Ma questa

“guerra fredda” non ha escluso delle manovre geopolitiche indirette; ciascuna delle due

superpotenze si è impegnata in conflitti locali di cui alcuni sono diventati delle vere e proprie

guerre, ma senza che l’altro avversario intervenisse direttamente, per evitare una guerra

mondiale.

1.1 Perché la guerra fredda?

Retrospettivamente, non è inutile in effetti chiedersi perché USA e URSS si sono

opposti per decenni. Certo, l’ideologia dei bolscevichi che nel 1917 prendono il potere in

Russia predicava la rivoluzione proletaria a livello mondiale contro il capitalismo e gli USA,

all’inizio degli anni ’20, apparivano come il Paese dove questo capitalismo era in piena

fioritura. Ma a differenza della maggior parte dei dirigenti Inglesi e Francesi, che dopo la prima

guerra mondiale desideravano una grande crociata contro il bolscevismo, i dirigenti Americani

si opponevano perché non condividevano questo punto di vista.

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Rockefeller approfitta così della scomparsa del petrolio di Baku sul mercato europeo

per esportare il suo petrolio in Europa. Delle grandi aziende americane hanno anche apportato

il loro aiuto all’URSS, notoriamente per la costruzione di fabbriche di automobili di grandi

dighe. È anche vero che negli USA la classe operaia, senza dubbio in ragione anche delle sue

convinzioni religiose in seno alla società americana, appariva molto meno sensibile al

marxismo di quanto invece non lo potesse essere negli altri Paesi europei.

Quanto ai dirigenti Sovietici, firmando il Patto germano-sovietico dell’agosto del ’39,

mostravano che non rifiutarono un’intesa con una potenza capitalista che fino a quel

momento si era proclamata avversaria del più radicale comunismo. È stato l’improvviso

attacco tedesco nel giugno del ’41 che obbligò Stalin a rinunciare a questa che possiamo

definire un’illusione.

Nel dicembre del ’41, dopo il Giappone, Hitler ha dichiarato guerra agli USA, e questi

si trovano alleati senza volerlo dell’URSS e che aiutavano già comunque nello sforzo bellico.

Alla conferenza di Yalta del febbraio del ’45, le relazioni tra Americani e Sovietici sono

sufficientemente buone perché questi possano intendersi sull’entrata in guerra dell’URSS

contro il Giappone nei tre mesi successivi, come anche sono d’accordo sulle nuove frontiere

con la Polonia. L’accordo non portava come si è sempre detto dopo sulla divisione dell’Europa,

ma sulla messa in moto di governi democratici nelle zone di occupazioni delle differenti eserciti

alleati in Europa. Nei Paesi che erano stati occupati dall’armata rossa, i Sovietici trasformano

immediatamente la nozione di “regime democratico” in regime controllato da un solo partito,

il partito comunista che era d’obbedienza sovietica e che annunciava il regime di “democrazia

popolare”.

Nel marzo del ’46, Winston Churchill nel suo discorso agli Stati Uniti, aveva

denunciato quello che chiamò la “cortina di ferro” che i Sovietici avevano appena stabilito

attraverso tutta l’Europa per impedire i contatti tra Est e Ovest. Ma gli americano

continuavano a mantenere delle relazioni relativamente cortesi con l’URSS, dato che all’inizio

del ’48 proponevano loro, come ai Paesi “occupati”, di godere dell’aiuto americano per la

ricostruzione: il famoso piano Marshall. Stalin si oppone e vieta agli Stati dell’Europa centrale

che ormai erano suoi vassalli di accettare questo piano.

La rottura tra Americani e Sovietici, che porterà in seguito al conflitto di dimensioni

planetarie che durò decenni, si scatena in realtà a causa di poste in gioco territoriali di piccola

o piccolissima dimensione: la Cecoslovacchia e Berlino Ovest. Alla conferenza di Yalta e a

quella di Potsdam era stato convenuto che la Cecoslovacchia la cui parte occidentale era stata

liberata dagli Americani, sarebbe stata gestita da un governo di unione nazionale che avrebbe

associato comunisti con membri del governo ceco che si erano nel frattempo rifugiati a Londra

dal 1939. L’esclusione progressiva di questi ultimi sotto la pressione di manifestazioni

comuniste (quello che si chiama il colpo di Praga del febbraio-giugno del ’48) segna l’inizio

della rottura tra Americani e Sovietici, rottura consumata qualche giorno più tardi quando

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questi ultimi decidono di impedire, attraverso il corridoio che attraversava le zone di

occupazione, il trasporto di ogni merce tra la parte occidentale della Germania e Berlino Ovest,

cioè le zone di occupazione Americane, Britanniche e Francesi di Berlino, come erano state

definite alla conferenza di Potsdam. Per i Sovietici questo blocco di Berlino doveva logicamente

condurre gli occidentali a rinunciare alla loro presenza nella vecchia capitale tedesca. Gli

Americani decidono di raccogliere la sfida e con un vero e proprio tour de force logistico

realizzano un ponte aereo militare che approvvigionerà Berlino Ovest a partire dal giugno del

’48 fino a maggio del ’49.

Ci si può chiedere quello che sarebbe accaduto se l’Europa Occidentale e i suoi

dirigenti Americani, compreso il Presidente Truman, avessero rinunciato ad approvvigionare

Berlino per via aerea malgrado i rischi e le spese enormi che questo aveva rappresentato. Una

parte dell’opinione americana considerava che ci si dava troppo da fare per i tedeschi, i quali

erano pur sempre i nemici di tre anni prima. È verosimile immaginare che tutta l’Europa

Occidentale poteva in realtà finire sotto influenza sovietica se gli Americani non avessero

appunto imposto quel famoso ponte aereo marcando un po’ il limite della possibilità di

occupazione dei Sovietici. Soprattutto considerando quanto tutto il mondo intellettuale

europeo, particolarmente in Italia, si interessasse o fosse comunque filocomunista, all’inizio

sicuramente filosovietico. Il vero volto dell’URSS arriva nel mondo occidentale non tanto con il

processo di destalinizzazione, quanto con la pubblicazione di Arcipelago gulag dello scrittore

russo Aleksandr Solzenicyn.

È questo il dato geopolitico essenziale: quello che ha permesso di sviluppare la

cosiddetta democrazia sia sul piano sociale che culturale, nei Paesi dell’Europa occidentale

sotto la protezione degli USA, nonostante l’opinione pubblica spesso abbia manifestato la sua

ritenzione contro un’America considerata troppo presente e troppo direttiva.

Le società dell’Europa orientale, ivi compresa l’ex Unione Sovietica, non hanno avuto

questa possibilità e, dato geopolitico fondamentale, presentano ancora oggi rispetto all’Europa

occidentale numerosi ritardi e difficoltà che derivano da quello che viene designato come

“post-comunismo”.

2. Gli Stati Uniti e la NATO: sicurezza collettiva o protezione di una potenza?

Possiamo considerare che le relazioni degli USA con i Paesi della NATO siano

decisamente dei rapporti geopolitici, la costituzione di questa organizzazione politica e militare

nel 1949, all’inizio della guerra fredda, era chiaramente in funzione di un rapporto di forza dato

che aveva come missione effettiva di opporsi all’espansione sovietica nell’Europa occidentale.

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In effetti, all’indomani della seconda guerra mondiale, l’URSS aveva imposto il potere dei

partiti comunisti come sua diretta emanazione in sei Paesi europei che erano occupati

dall’armata rossa: Polonia, Cecoslovacchia, Germania orientale, Ungheria, Romania, Bulgaria.

La NATO era destinata a riparare l’Europa da un eventuale attacco sovietico e l’elemento

essenziale di questa struttura erano sicuramente gli USA.

Il ruolo del Canada, questo immenso Stato subpolare quasi vuoto per 4/5 della sua

dimensione (uno dei più vasti Stati del mondo, con quasi 10 milioni di Km², per soli 30 milioni

di abitanti), era quello di un ghiacciaio situato al di là dell’Oceano Glaciale Artico e al di sopra

del quale i radar avrebbero avuto il tempo di individuare i missili Sovietici prima che potessero

raggiungere gli Stati Uniti. Questi due grandi Stati dell’America del Nord da una parte e

dall’altra di una frontiera di 6.000 Km quasi tutti rettilinei, sono praticamente inseparabili:

parlano la stessa lingua (ad eccezione del Québec che è francofono), storie e culture molto

comparabili, importantissimi scambi tra loro due, esportazione di petrolio canadese, ecc.

Era completamente diverso il discorso dell’Europa dall’altro lato dell’Atlantico, dove i

primi Paesi membri della NATO (Regno Unito, Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo,

Portogallo, Danimarca, Norvegia, Islanda, seguiti dalla Grecia e la Turchia nel 1955) sono molto

diversi gli uni dagli altri per lingua e tradizioni politiche, non hanno molti rapporti con gli Stati

Uniti almeno all’epoca, eccezion fatta delle isole Britanniche. Ma sono per la maggior parte dei

Paesi che un’offensiva sovietica poteva invadere in qualche giorno e che facilmente si

trovavano a portata di bombardieri e di missili Sovietici. E quella che si chiama allora Germania

Ovest, attraversata dalla “cortina di ferro”, che sembrava essere la più vulnerabile. Ecco

perché l’essenziale delle forze militari della NATO stazionavano su quel territorio. Non è poi

altro se non l’ennesimo paradosso tedesco, dato che questi Paesi si ricostruivano dalle rovine

di una guerra (come il Giappone) grazie all’aiuto degli Americani, per ridiventare in seguito la

terza potenza economica mondiale.

2.1 Dopo la fine della guerra fredda

Dopo l’implosione dell’URSS e la scomparsa dei regimi comunisti che le erano stati

fedeli, il ruolo geopolitico della NATO era molto meno chiaro, dato che l’antagonismo di queste

due potenze su tutta una parte dell’Europa non esisteva più. Nei Paesi Europei,

particolarmente in Francia e Italia dove le idee marxiste avevano avuto grande riscontro, una

parte notevole dell’opinione pubblica vedeva in realtà nella NATO una delle forme di

dominazione americana sull’Europa. Fin dal 1966, il Generale De Gaulle aveva deciso, senza

trovare alcun tipo di obiezione nei suoi connazionali, che la Francia si sarebbe ritirata dalla

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NATO, cioè dal dispositivo militare (pur restando membro dell’Alleanza Atlantica), dato che la

Francia ormai aveva la propria potenza nucleare.

All’inizio degli anni ’80, con la crisi detta degli “euromissili” (cioè l’istallazione di

missili nucleari Americani in Germania, in risposta all’istallazione di missili Sovietici a media

portata nei Paesi dell’Europa orientale), si è posta la questione tra i dirigenti Americani della

ripartizione degli interessi strategici maggiori negli USA con il mantenimento dello status quo

in Europa contro l’Unione Sovietica. Una volta che questa era implosa, alcuni dirigenti hanno

dichiarato che era ora di ridurre l’enorme costo che gli Stati Uniti investivano nella difesa in

Europa. Pensiamo ad esempio alla permanenza di 100 mila soldati Americani in Germania.

Eppure ancora oggi, nel 2012, la NATO esiste ancora.

Nel 1999, per la prima volta dalla sua creazione, l’organizzazione ha anche

ufficialmente fatto una guerra contro uno Stato europeo, la Serbia. D'altronde, fu soprattutto

su richiesta degli Europei che il ruolo degli Americani è stato decisivo per mettere fine a quel

dramma jugoslavo. Ma ancora di più, il numero degli Stati europei che hanno chiesto di aderire

alla NATO è aumentato: oramai ci sono Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, e in seguito

Bulgaria, Romania, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia.

A causa dell’implosione nel 1991 della Federazione comunista jugoslava, l’esplosione

di combattimenti tra nazionalisti Serbi e Croati, poi in Bosnia tra Cattolici, Ortodossi e

Musulmani, ha fatto temere alcuni dirigenti dei Paesi dell’Unione Europea che tali conflitti

potessero moltiplicarsi in quella che Lacoste definisce Europa mediana, nei Paesi che erano

stati liberati dalla dominazione comunista e le cui frontiere erano oggetto di diverse contese.

Così la Francia e il Regno Unito hanno inviato, sotto l’egida delle Nazioni Unite, delle forze di

interposizione in Jugoslavia, ma queste si trovarono ben presto prese in trappola tra i

combattimenti. Gli Americani, sollecitati a intervenire, dichiararono prima di tutto di non voler

implicare la loro potenza in questo conflitto che non era di rilievo della NATO, dato che

nessuno degli Stati membri era minacciato. Dopo aver creduto giusto, su richiesta della Turchia

e dell’Arabia Saudita, di fornire delle armi ai musulmani Bosniaci, il governo americano (sotto

la presidenza Clinton), su richiesta dei Francesi e dei Britannici, obbligò i Serbi a togliere

l’assedio di Sarajevo e, nel 1995, impose ai belligeranti quelli che vennero chiamati gli Accordi

di Daytona per una ripartizione della Bosnia in tre zone autonome sotto il controllo della

NATO.

Nel 1999, il conflitto in Kosovo tra Serbi e Albanesi prese una forma purtroppo

spettacolare di esodo di massa di musulmani che fuggivano dalla minaccia di un vero e proprio

genocidio fatto governo serbo. Questa situazione aveva provocato grande emozione in Europa

occidentale: la NATO e soprattutto l’aviazione americana decisero di intervenire effettuando

dei bombardamenti massicci sulla Serbia, malgrado le proteste della Russia. A dispetto delle

rivendicazioni di indipendenza dei Kosovari, il territorio del Kosovo è sotto il controllo di diversi

contingenti forniti da Stati Europei membri della NATO e degli Americani, le cui forze sono

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anche posizionate in Macedonia, altra Repubblica ex-jugoslava minacciata di ripartizione

etnica.

2.2 la NATO dopo l’11 settembre

Immediatamente dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, tutti gli Stati

europei membri della NATO hanno sostenuto gli USA, dichiarando che si sentivano tutti sotto

mira tramite questa aggressione e quindi solidali con gli USA. Detto ciò il governo americano

ha voluto agire solo con le proprie forze quando decise di colpire tutti i covi terroristici che si

trovavano in Afghanistan. Gli strateghi Americani non volevano essere obbligati a discutere i

loro piani con partner della NATO, come avevano dovuto fare regolarmente nel 1999 al

momento della guerra nel Kosovo.

Nel 2003, la guerra di Iraq ha provocato una grave crisi tra USA e alcuni Paesi che

facevano parte della NATO e dell’Unione Europea. Se il governo britannico, così come quello

italiano e spagnolo, malgrado l’opposizione delle loro opinioni pubbliche, sostennero l’azione

condotta da Washington, la Germania e la Francia si sono assolutamente opposte. La Turchia,

che comunque è anch’essa membro della NATO e vicina dell’Iraq, e che doveva inizialmente far

parte della coalizione, decise infine di rifiutare. Viceversa, i nuovi membri della NATO e

dell’Unione Europea, più particolarmente la Polonia, hanno sostenuto con forza la politica del

Presidente americano. Il Segretario della Difesa americana dell’epoca, Donald Rumsfeld, ha

potuto così opporre nel suo discorso una “vecchia Europa” timorosa (i più vecchi membri della

Comunità Europa a parte l’Italia berlusconiana) a una “nuova Europa” giudicata piena di

ardore, formata soprattutto da tutti i nuovi membri ex-comunisti dell’Unione Europea e dal

Regno Unito. La posizione dei vecchi Paesi comunisti dell’Europa centrale e orientale si spiega

in parte per il timore antico rispetto alla Russia e per la loro volontà di avvicinarsi sempre di più

al nuovo alleato americano.

2.3 L’Europa, tra Washington e il mondo musulmano

La crisi suscitata dall’intervento americano in Iraq pone la questione delle relazioni di

lungo periodo tra gli USA e taluni Paesi della UE dalla fine della guerra fredda. Quando il Regno

Unito, che rifiuta la moneta comune, cerca di fare della UE una semplice zona di libero scambio

e la più estesa possibile (posizione uguale a quella dei Paesi Scandinavi), la Francia e la

Germania desiderano che la UE mantenga anche un insieme geopolitico coerente, malgrado la

sua estensione, con una diplomazia comune e con un’autonoma potenza rispetto agli USA.

Questi ultimi sono, al contrario, favorevoli alla strategia britannica di libero scambio come

all’ingresso di nuovi membri nell’UE, trasformandola così in un’entità sempre meno coerente

e governabile. Ecco perché la diplomazia americana fa da sempre campagna per l’accettazione

dell’ingresso della Turchia nella UE.

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L’estensione dell’Unione Europea verso Est aumenta il numero di Stati vicini della

Russia (tra cui l’Ucraina candidato potenziale all’integrazione europea). Questi Paesi temono

un ritorno della Russia a potenza di oppressione e quindi cercano di mettersi sotto tutela

americana. Washington disporrebbe così, molto più della NATO, di una vera influenza

determinante in seno all’Unione Europea, annichilendo così tutte le velleità di potenza di

quest’ultima.

Oggi un grande problema geopolitico degli USA non è una futura salita di potenza

dell’Unione Europea, ancor meno di quella della Russia, ma l’aggravarsi dei suoi rapporti con il

mondo musulmano, a questo proposito il dato geografico è evidente: è l’Europa, dal

Mediterraneo alla Russia meridionale che è direttamente in contatto con l’essenziale del modo

musulmano e che dovrà preparasi a far fronte ai contraccolpi del conflitto israelo-palestinese e

al confronto tra gli islamisti e gli Americani.

3. Stati Uniti e mondo musulmano

Nel contesto della guerra che gli Americani portano avanti dal 2003 in Iraq non è

inutile ricordare che è in questo Paese che è cominciata la prima guerra mondiale, uno dei

primi insediamenti Americani in Medio Oriente.

Si trattava prima di tutto di petrolio e della costituzione, nel 1928, della Iraq

Petroleum Company per riprendere l’attività della Turkish Petroleum, la compagnia germano-

turca che aveva cominciato, prima del conflitto, lo sfruttamento dei giacimenti di Kirkuk e

Mossul. Ma, a quest’epoca, in materia di petrolio e di Medio Oriente, il contesto geopolitico è

quello di una grande rivalità anglo-americana.

Dalla fine della prima guerra mondiale, gli Americani cercano di sfruttare le ricchezze

petrolifere del Medio Oriente. Ma per questo devono prima liberarsi dei Britannici. Ci

riusciranno nel 1945. Seguiranno i tempi del nazionalismo arabo quindi dell’islamismo.

Negli anni ‘80, spingendo alla lotta l’Iraq di Saddam Hussein contro l’Iran di Khomeini,

gli occidentali hanno aperto il vaso di Pandora che, dalla guerra del golfo alla guerra d’Iraq

passando per la guerra d’Afghanistan, non smette di minacciare gli equilibri internazionali.

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3.2 L’America e il Medio Oriente: dall’inizio un affare di petrolio

I Britannici avevano un vantaggio: quello che ormai si chiama Iraq era occupato dalle

loro truppe, le truppe indiane, arrivato durante la prima guerra mondiale per combattere

l’esercito turco in quella che era chiamata Mesopotamia. Intendono controllarci i giacimenti

petroliferi (quelli d’Arabia non erano stati ancora scoperti), ma possiedono già quelli dell’Iran,

sfruttati dalla Anglo-Persian Oil Company (divenuta in seguito Anglo-Iranian e oggi la BP,

British Petroleum). L’argomentazione britannica era che i beni della Turkish Petroleum

Company costituivano un bottino di guerra da dividere tra vincitori, gli Americani fecero

pressione per accedere al petrolio iracheno. Il capitale della Iraq Petroleum Company è diviso

in quattro parti da 23,75%: le grandi compagnie britanniche la Anglo-Persian e la Shell, ne

hanno due; la Compagnia francese dei petroli, creata espressamente, ne ha una, così come il

Consorzio americano. Ma, nel 1934, gli Americani, più particolarmente la Gulf, hanno la metà

della concessione del Kuwait e, soprattutto, nel 1933, quella che diverrà la Arammo ottiene la

concessione per 60 anni sulla metà del territorio saudita.

Nel Medio Oriente l’immagine dell’America, è allora molto buona agli occhi dei

nazionalisti arabi, perché questa non ha partecipato alla spartizione dei territori sotto mandato

tra “colonialisti” Inglesi e Francesi (Iraq, Giordania, Palestina per i primi, Siria e Libano per i

secondi), sotto l’egida della Società delle Nazioni.

Nel 1945, il Presidente Roosevelt di ritorno da Yalta, incontra il Re Abd al-Aziz ibn

Saud e suggellano l’accordo storico che garantisce il sostegno degli USA all’Arabia Saudita.

L’anno dopo è inaugurata la base americana di Dahran, in piena zona petrolifera. Due anni più

tardi, all’arrivare della prima guerra arabo-israeliana, il governo americano resta relativamente

neutro. Certo, riconosce Israele, ma l’URSS l’aveva anticipato e la Francia sarebbe presto

divenuta il principale sostegno militare degli Israeliani.

Nel 1952, la Turchia aderisce alla NATO e si avvicina agli Stati Uniti per proteggersi

dalle rivendicazioni di Stalin sulla regione di Trebisonda nel Mar Nero che era stata occupata in

passato dalle truppe zariste.

Nel 1951, la crisi della nazionalizzazione della Iran Petroleum Company avrà grandi

conseguenze geopolitiche. In effetti la Gran Bretagna aveva organizzato il boicotto delle

esportazioni del petrolio iraniano. Il Primo Ministro iraniano Mossadegh, che ha l’appoggio del

partito di sinistra Toudeh, si avvicina all’URSS e cerca di far destituire il giovane Shah. I Servizi

Segreti Americani organizzano un colpo di Stato che metterà Mossadegh fuori gioco. Nel ’54, lo

Shah, senza ritornare sul principio di nazionalizzazione del petrolio, ne affida lo sfruttamento

così come la distribuzione a un Consorzio che unisce le otto grandi compagnie dell’epoca:

cinque americane, due britanniche e una francese. Da quel giorno e per 25 anni i rapporti

economici e militari saranno molto stretti tra Stati Uniti e Iran in piena espansione.

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3.3 Una nuova minaccia di grandi dimensione: il terrorismo islamista

Per gli Americani le conseguenze della “guerra del Golfo” si sono rilevate essere

molto pericolose. La prima risiede nel fatto che la maggior parte degli arabi hanno giudicato gli

USA come se avessero voluto aggredire il mondo arabo in maniera deliberata, nella misura in

cui l’Iraq baasista era il solo Paese a volere ancora fare l’unità e anche il solo a poter

veramente combattere Israele. Una conseguenza molto meno evidente, ma che si rileverà

dieci anni più tardi la più pericolosa per gli Americani, fu che un certo numero di sauditi, e

particolarmente la potente confraternita Wahhabite (movimento politico e religioso

conservatore), stimò che la guerra del Golfo era stata per gli Americani un pretesto e un modo

di insediarsi in Arabia, cioè sul territorio sacro all’Islam.

L’Arabia tutta intera è, in effetti, considerata come Horm -sacra- e non solamente la

Mecca e Medina, che sono completamente vietate ai non musulmani e, a fortiori, ai cristiani e

agli ebrei. Osama bin Laden, forte del suo prestigio di jihadista e ricchissimo oltretutto, ha

dunque richiesto alla dinastia saudita la partenza delle basi americane insediate in Arabia dal

1990. A discapito di aver ragione, decide quindi di condurre una lunga lotta contro

l’”imperialismo giudeo-cristiano” per cacciare gli Americani dall’Arabia e gli ebrei da

Gerusalemme. Passando ad un nuovo livello di azione, Osama bin Laden USA la sua fortuna e

le sue conoscenze dell’Afghanistan per insediare il suo rifugio e i campi di addestramento di Al-

Qaeda, con l’appoggio dei talebani, arrivati al potere a Kabul dopo il 1996, e dei servizi segreti

pakistani.

Questo era risaputo dalla CIA. Al-Qaeda (cioè la “base”, quella delle molteplici reti

islamiche) aveva già realizzato dei gravi attentati, quali quelli contro l’ambasciata americana in

Kenya nel 1998 o contro una nave USA ad Aden nel 2000 e il governo americano aveva invano

richiesto al regime dei talebani, al potere a Kabul, l’estradizione di Osama bin Laden

dall’Afghanistan.

Detto ciò questo non impediva, fino all’estate del 2001, che gli Americani fossero

ancora in fase di negoziazione con i talebani e i servizi segreti pakistani, per la costruzione di

un gasdotto attraverso l’Afghanistan con l’obiettivo di collegare i giacimenti di gas del

Turkmenistan alla costa pakistana dell’Oceano Indiano.

Gli attentati dell’11 settembre 2001 su New York e Washington hanno rilevato agli

Americani la terribile minaccia costituita da Al-Qaeda, l’efficacia delle sue reti costituite

segretamente negli USA e attraverso numerosi Paesi a 15 000 Km di distanza dalle sue basi e la

straordinaria determinazione dei suoi terroristi preparati al suicidio (sauditi erano 15 dei

kamikaze su 19). A partire dal mese di ottobre i bombardamenti Americani sono cominciati

sull’Afghanistan, notoriamente a partire dalla base di Diego Garcia nell’Oceano Indiano e le

basi americane immediatamente insediate, con l’accordo di Vladimir Putin, nell’ex Repubblica

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sovietica dell’Asia centrale. Ma, nell’eliminare Al-Qaeda e i talebani, occorreva ottenere

l’accordo del Pakistan che li aveva fin là sostenuti.

Una gran parte dell’esercito pakistano, particolarmente durante la guerra

dell’Afghanistan, aveva aderito alle tesi islamiste, i suoi quadri dirigenti e i suoi servizi segreti

avevano, oltretutto, largamente approfittato delle consegne di armi americane per i diversi

partiti islamisti afgani. Dopo il primo bombardamento militare sull’Afghanistan, numerosi

partiti pakistani hanno chiamato dei volontari per la jihad per andare a combattere accanto ai

talebani. Il Presidente pakistano dell’epoca, il Generale Pervez Musharraf, che aveva preso il

potere con un colpo di Stato nel 1999, era, come la maggior parte dei quadri superiori

dell’esercito, in contatto stretto con il Pentagono. È lui che ha preso quindi il rischio

(ottenendo un sostanzioso finanziamento per il suo Paese), di allearsi in qualche modo agli

Americani, quanto meno chiudendo la frontiera con l’Afghanistan per impedire il ripiego dei

talebani. Il rischio non era piccolo e il Generale Pervez Musharraf sfuggì a diversi attentati che

venivano condotti dalla rete degli islamisti, più o meno clandestini.

Se i militari islamisti avessero preso ufficialmente il potere in Pakistan e se la

situazione in Afghanistan si fosse dovuta aggravare, l’India non sarebbe rimasta senza dubbio

impotente. Perché sono proprio quei militari Pakistani di tendenza islamista che hanno sempre

alimentato il conflitto con l’esercito indiano nel Kashmir. I due Stati, ricordiamolo, dispongono

entrambi dell’arma nucleare.

3.4 Il contraccolpo degli attentati dell’11 settembre 2001

Le cause della guerra nella quale gli USA si sono lanciati in Iraq nel 2003 sono

molteplici, ma vanno considerate come un contraccolpo di quegli attentati, purtroppo,

spettacolari condotti dai kamikaze islamisti per via aerea a New York e a Washington. Le due

torri gemelle colpite successivamente in pieno giorno, distrutte dall’incendio, crollanti l’una

dopo l’altra in diretta TV in mondovisione, furono un dramma che ha condizionato dall’ora in

poi ogni azione degli Americani, più dell’attacco aereo giapponese di Pearl Harbor del 7

dicembre 1941.

Occorre oramai considerare nei ragionamenti geopolitici il fatto che la reazione di

tutta la Nazione americana è in larga misura determinata, e senza dubbio ancora per anni, dal

trauma del World Trade Center e dalla preoccupazione che quell’evento possa in qualche

modo riprodursi.

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Gorge W. Bush, appena eletto presidente e tra l’altro in modo anche incerto, aveva in

realtà un programma “isolazionista”, dato che durante la sua campagna elettorale, accusava il

suo concorrente democratico Al Gore di perseguire la linea del suo predecessore: Bill Clinton.

Lo shock degli attentati dell’11 settembre trasforma il personaggio Bush, persuaso,

dalle sue convinzioni religiose evangeliste, nell’incarico di lanciare una nuova “crociata” contro

il terrorismo islamista. È stato ancor di più spinto in questa direzione dal fatto che buona parte

delle personalità del partito repubblicano che lo consigliavano erano quei neoconservatori

partigiani della cosiddetta “maniera forte”. La stessa che secondo loro aveva provocato la

caduta del comunismo.

Questo argomento è sbagliato: Ronald Reagan non aveva replicato con una prova di

forza all’invasione sovietica dell’Afghanistan, ma lo aveva fatto con delle strategie indirette,

accelerando la corsa all’armamento e fornendo, via Pakistan e Arabia Saudita, dei missili terra-

aria ai combattenti afgani, facendo così perdere ai Sovietici il controllo dei cieli afgani.

In compenso, sono numerosi quelli che in Europa e nell’insieme del mondo credono

che la guerra in Iraq si spieghi fondamentalmente con il desiderio delle compagnie americane

di accedere ai giacimenti petroliferi iracheni. Probabilmente, ma questo non implica il voler

fare una guerra. In effetti per avere del petrolio, bastava ai dirigenti Americani, eliminare

l’embargo al quale l’Iraq era sottomesso fin dal 1991 dato che Saddam Hussein non chiedeva

di meglio se non vendere i propri idrocarburi. Senza dubbio avrebbe accettato degli accordi

che permettevano alle compagnie occidentali di partecipare alle ricerche petrolifere. Questo

avrebbe permesso di far togliere quel boicottaggio internazionale che lo colpiva fin dal 1990.

L’America ne avrebbe tratto gran profitto, ma non avrebbe potuto sbarazzarsi della sua

persona.

Il concatenarsi dei fatti e delle convinzioni ideologiche ha spinto i dirigenti Americani

a distogliere la loro attenzione verso un altro nemico dopo Bil Laden : Saddam Hussein,

Presidente dell’Iraq, accusato di opprimere il suo popolo e di minacciare la pace mondiale,

peggio, era persino sospettato di avere rapporti con lo stesso Bin Laden, che non era stato nel

frattempo possibile eliminare in Afghanistan. Molto bene orchestrati, questi pretesti potevano

sembrare plausibili. Saddam Hussein, malgrado la sconfitta nel ’91, era pur sempre al potere e

disponeva di armi, si credeva, di distruzione di massa. Probabilmente avrebbe avuto la

possibilità di procurarsele in segreto via Corea del Nord o Pakistan così come avrebbe potuto

stabilire un’alleanza con Al-Qaeda in modo da vendicarsi degli Americani stessi.

In compenso, le conseguenze pericolose che questa guerra avrebbe potuto avere

furono passate sotto silenzio dagli Stati Uniti, e questo nonostante la messa in guardia da parte

delle Nazioni Unite e di governi come la Francia e la Germania; persino a dispetto di riserve

molto discrete di alcuni Generali Americani i quali si preoccupavano di impegnarsi in un

conflitto in un Paese così vasto e con un numero inizialmente limitato di effettivi.

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Non ci fu nulla da fare. L’amministrazione repubblicana di George W. Bush rimase

imperterrita, convinta della superiorità militare degli USA e del sostegno popolare che gli

abitanti dell’Iraq gli avrebbero portato, non appena eliminato Saddam Hussein.

3.5 La proiezione della potenza americana in Iraq provoca, in una gran parte del

mondo, una fase grave di tensione geopolitica

Si sa che principalmente usando la loro potenza aerea unita alle tecniche di radar o

comunque di mira molto sofisticate, gli Stati Uniti hanno riportato in Iraq una vittoria molto

rapida impiegando tutto sommato delle forze relativamente poco numerose. Agli occhi degli

strateghi del Pentagono, queste forze dovevano essere sufficienti, soprattutto se teniamo

conto della capacità tecnica ultra sofisticata di cui questo esercito americano disponeva.

In realtà noi sappiamo quanto è stato lungo il processo di occupazione e di “bonifica”

del territorio iracheno. Fin dall’inizio spazzato via Saddam Hussein il disordine si è subito

rivelato essere un grosso problema dell’Iraq. I rappresentanti Americani a Baghdad evocavano

fin da maggio 2004 l’eventualità un ritiro delle truppe americane, anche se l’Onu in realtà ha

sempre cercato di continuare a rimanere in Iraq sapendo bene il tipo di complessità della

situazione sul territorio.

La sovranità irachena è stata rimessa sulla carta nel giugno del 2004 a un governo

formato da personaggi più o meno legati agli Americani; fino al 2005 ancora non c’erano dei

mezzi veri e propri per questo governo di poter assicurare il controllo e l’ordine in Iraq.

Immaginare, anche solo in modo parziale, un ritiro completo delle forze NATO o

legate all’Onu, suscitava non poche preoccupazioni e soprattutto delle grandi conseguenze

geopolitiche nel Medio Oriente. Effettivamente una sconfitta occidentale in Iraq, cioè una

caduta dell’Iraq nel caos, un’eventuale esplosione in tre parti del suo territorio (una curda, una

sciita, una sunnita) significherebbe una grande vittoria per tutto il movimento integralista

islamico nel mondo.

La guerra lanciata dagli Americani in Iraq nel 2003 rappresenta per gli islamisti una

formidabile opportunità per la lotta che essi conducono contro tutti quei musulmani che

rifiutano di aderire alla causa integralista, una causa che ricordiamolo desidera un’applicazione

della Shari’a, a fini politici.

Gli eventi quindi dell’Iraq, costituiscono un capitolo di questa grande lotta che si

sfoggia ormai da anni nei Paesi musulmani, tra islamisti e musulmani democratici, lotta non

sprovvista di contraddizioni dato che, per mantenersi al potere, le strutture di Stato mettono

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in opera, come in Algeria, delle forme di repressione così violenta che diventano degli alibi per

i campioni dell’integralismo.

È questa situazione che deve essere tenuta presente per la lettura dei fenomeni della

cosiddetta “primavera araba”. Primavera che ricordiamo ha toccato diversi Paesi, tra cui Libia e

Egitto che hanno perso entrambi i propri dittatori, ma anche Algeria e Marocco hanno dovuto

far fronte a delle forti pressioni popolari per vedere ridotto questo potere non democratico.

Ancora oggi la Siria rischia di esplodere in una forma di guerra civile. E, infatti, in

questa chiave di lettura che deve essere presa in considerazione la situazione che noi

chiamiamo di “Medio Oriente”, ma che in realtà riguarda tutta una serie di Paesi musulmani

che avevano una struttura di Stato certamente non democratica, come Marocco, Algeria,

Tunisia, Libia, Egitto per il Nord Africa, ma anche quello che chiamiamo “vicino oriente” e cioè

Libano, Siria, Arabia Saudita e tutti gli Emirati Arabi ma anche Iraq, Iran, fino all’Afghanistan. Si

tratta di quella fascia islamica che va dall’Oceano Atlantico fino a tutta l’Asia centrale andando

ben oltre l’Afghanistan con il problema della Valle del Fergana che riguarda appunto le ex

Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale.

La rivolta della primavera araba ha portato la riforma costituzionale relativamente

importante in Marocco. Per quanto riguarda Tunisia, Libia, Egitto vediamo invece che si tratta

di un vero e proprio cambiamento epocale. In Tunisia il dittatore Ben Ali è stato cacciato ed è

potuto salvarsi perché fuggito per tempo in Arabia Saudita, ma in questo momento c’è un

grosso problema di gestione di potere in Tunisia. Anche qui alcuni movimenti religiosi islamisti

cercano di prendere il potere facendosi eleggere democraticamente, a scapito di partiti di

opposizione che secondo alcuni però sono colpevoli di aver fatto compromessi con il regime

precedente. Ad oggi la Tunisia non è definitivamente uscita dalla propria situazione di crisi

post-rivoluzionaria e certamente non può essere definita una vera e propria democrazia.

Per la Libia e l’Egitto il discorso è molto diverso. L’Egitto, ricordiamo, era la patria del

movimento integralista più antico che esista nel mondo arabo, e comunque musulmano: i

Fratelli Musulmani. La caduta di Mubarak ha comunque sollevato un grosso problema di

gestione tra corpo dei militari quello, che difendeva Mubarak, il corpo laico ma non militare

dello Stato che si opponeva a Mubarak e, in ultimo, il movimento più integralista legato ai

Fratelli Musulmani. Ad oggi l’Egitto non è ancora riuscito a superare la fase Mubarak, c’è una

giunta militare che gestisce il potere e non riesce ancora a transitare definitivamente verso la

struttura parlamentare compiuta, evitando inoltre rischi di guerra civile soprattutto se

ricordiamo che il 10% della popolazione egiziana è cristiana di confessione copta. Per quanto

riguarda la Libia la situazione è ancora più delicata dopo la tragica guerra civile scatenata da

Gheddafi e il bombardamento fatto dai Britannici, Francesi ma anche Americani. La morte del

dittatore ha condotto ad una vera e propria confusione. La dittatura di Gheddafi riusciva a

tenere insieme le tre diverse parti delle culture tribali libiche. Oggi la Libia ha un potere ancora

completamente di transizione, sono le diverse bande armate che hanno fatto la guerra a

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Gheddafi che in realtà detengono il potere, senza essere riusciti ad accordarsi su una

transizione, seppur tribale, verso un potere istituzionale corretto e legale.

Resta ancora la questione del Vicino Oriente, particolarmente quella della Siria. Il

dittatore Bashar al-Assad, che è uno dei punti chiave del potere nel vicino Oriente, ad oggi è

abbandonato completamente dalla Lega Araba, continua a bombardare i suoi stessi cittadini

nelle città di Homs e Hama, senza però riuscire a trovare un’eventuale via di sbocco. Sembra

ragionevole immaginare che Bashar al-Assad lascerà il potere. Non si sa quando e con quali

conseguenze. Occorre ricordare che la Siria ha un problema enorme di frontiere con la Turchia,

con Israele, ma soprattutto, è il finanziatore principale di buona parte dei movimenti

integralisti degli hezbollah del Sud del Libano.

In poche parole la Siria insieme all’Iran rappresentano oggi i punti più delicati e meno

prevedibili dell’evoluzione futura di tutto il sistema islamico che va dall’Asia centrale

all’Atlantico.

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4. Geopolitica del Mediterraneo

L’importanza e la storicità delle relazioni tra i differenti settori delle due grandi facciate

del Mediterraneo euro-arabo, l’antico confronto tra l’uno e l’altro, ma anche questo tanto

discusso rilancio di un grande conflitto tra civiltà (cosa che non esclude gli sforzi destinati a

stabilire una complementarità tra Nord e Sud): tutto questo incita a ragionare in modo globale,

ma analizzando l’estrema diversità delle situazioni geopolitiche in essere.

Il Mediterraneo è in qualche sorta per ogni cittadino un eccellente campo di

allenamento alla geopolitica, dato che il suo studio ci obbliga a tener conto della localizzazione

di una grande diversità di eredità storica e a far combinare dei rapporti di forza di dimensioni

molto diverse, partendo da conflitti locali e arrivando a conflitti planetari; basti pensare al

conflitto per il petrolio oggi.

Vedremo che occorre anche prevedere un insieme Geopolitico Mediterraneo ben più

esteso in modo da includere i Paesi del Medio Oriente e le lotte che sono ancora in corso.

Questo ampliamento a Est, di quello che possiamo chiamare, in senso geopolitico, il mondo

Mediterraneo, non fa altro che ricordarci l’estensione dei grandi imperi fin dall’antichità, come

quello dei Persiani o quello di Alessandro, ma anche gli Abbasidi e quello Ottomano con la sua

implosione nel 1920 e la sua frammentazione nelle frontiere attuali. Tuttavia, se il

ragionamento geopolitico permette retrospettivamente di meglio comprendere le rivalità di

potere, la difficoltà è ancor più grande per i problemi geopolitici attuali, che sono in piena

evoluzione e dove possono prodursi cambiamenti inattesi.

La maggior parte delle numerose tensioni geopolitiche che si manifestano nel

mediterraneo sono quelle che derivano da rivalità tra poteri territorialmente vicini gli uni agli

altri (Israeliani e Palestinesi, Turchi e Curdi, Catalani e Castigliani, Serbi e Bosniaci). Non

corrisponde molto all’immagine geopolitica che spesso abbiamo del Mediterraneo. Esso

sarebbe luogo di un grande scontro tra Nord e Sud, quest’ultimo dovrebbe essere “sotto-

sviluppato” in seguito alla dominazione coloniale esercitata in quell’area dai Paesi del Nord.

Le conseguenze di questa colonizzazione non sarebbero mai scomparse. In realtà

questa rappresentazione è considerata solo da islamisti integralisti o dai “neo-conservatori”

americani dall’altra, un Mediterraneo parte del mondo dove si consumerebbe quello scontro

tra civiltà.

4.1 Il Mediterraneo insieme geopolitico molto particolare

Il Mediterraneo è mondialmente conosciuto in quanto insieme geopolitico ed è

d’altronde il solo grande insieme geopolitico che sia designato dal nome di una distesa marina.

Questo è il quadro naturale dove funziona da secoli oramai un vero e proprio sistema che

possiamo chiamare “fenomeno mediterraneo”. Può essere definito dalla molteplicità delle

interazioni dirette per via marittima tra i numerosi Paesi situati intorno a questa stessa distesa

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di mare, passaggi verso gli Oceani ne facilitano, inoltre, gli interventi navali venuti da altre

parti del mondo. E’ ispirata da questo modello l’espressione “Mediterraneo americano” che è

sicuramente meno conosciuto, lo chiamiamo più facilmente Mediterraneo delle Antille o

dell’America Centrale. Quanto all’espressione “Mediteranno asiatico” (entrambi definiti da

Yves Lacoste oramai diversi anni fa e frequentemente argomentati in diversi suoi lavori), essa

suscita la collera del governo cinese che esige che si parli solo di Mar della Cina del sud. Questi

due sistemi mediterranei hanno però due caratteristiche che li distinguono dam Mar

Mediterraneo vero e proprio: si trovano ai bordi di un insieme continentali e sono composti da

un numero incomparabilmente minore di Stati che vi si affacciano. Oltretutto le diversità

interne di questi due “sistemi mediterranei” sono estremamente ridotte se paragonate a

quelle del sistema dove bagna l’Italia, sia per confessioni religiose sia per cultura e lingue

usate. Negli altri due i punti in comune sono certamente maggiori e in uno di esso (quello delle

Antille) addirittura vi sono solo Paesi di confessione Cristiana.

Anche il Baltico è un mare quasi completamente chiuso, ma è sette volte più piccolo e

non si estende che tra Paesi Europei le cui culture sono molto simili, mentre il Mediterraneo è

lungo quattromila chilometri e si trova chiuso tra tre continenti. E’ questo che noi chiamiamo

Mediterraneo euro-arabo o euro-musulmano.

Con Stati di diversa dimensione, il Mediterraneo è considerato oggi come un insieme

geopolitico. Tuttavia, si tratta di un insieme geopolitico molto particolare, dovuto al fatto non

solo di questa stessa distesa di mare che ne occupa il centro, ma anche e soprattutto in

ragione delle grandi differenze che oppongono la parte nord alla parte sud delle sue rive.

Queste sono molto diverse dato che a nord, l’Europa, oggi Unione Europea, e a sud l’Africa, il

mondo arabo e più in maniera generale in mondo musulmano. Ciascuna di queste rive fa parte

dell’insieme continentale o geopolitico di cui è bordo marino, ma è anche frontiera della

distesa di mare. In tutto il mondo gli altri grandi insiemi geopolitici sono principalmente

terrestri; non sono continui intorno a una grande distesa marina e soprattutto non includono

più delle periferie di insiemi tanto diversi, persino antagonisti (come accadeva negli antichi

imperi). E’ esattamente il contrario per quanto riguarda il Mediterraneo che è nei fatti un

insieme formato intorno al mare da parti terrestri molto diverse geograficamente (a

esclusione della somiglianza climatica). Certo abbiamo delle rappresentazioni che sono

soggettive, ma in geopolitica questi tipi di grandi discorsi che invocano la Storia, la religione e

la civiltà hanno una grande importanza. Il Mediterraneo può essere concepito come un

insieme antagonistico, formato dalle relazioni conflittuali permanenti che esistono tra due o

più sottoinsiemi: un fronte tra due eserciti o un fronte tra due masse d’aria sono anche

considerati come degli insiemi.

Per vedere più chiaramente il tutto, possiamo fare riferimento al ragionamento di base

dei matematici, ai rudimenti della teoria degli insieme e applicarla particolarmente a degli

insiemi spaziali. E’ intellettualmente legittimo immagine di comporre con dei paesi situati

intorno al Mediterraneo, un insieme più vasto nominandolo Mediterraneo o insieme

Mediterraneo: il mare a quel punto ne diventa il sottoinsieme. Ciò detto, esiste un altro

insieme geopolitico che è stato ufficialmente costituito da una parte e dall’altra di una distesa

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marina ancor più vasta. Si tratta della NATO che è un insieme geopolitico, più particolarmente

militare, associante degli Stati situati da parte ed altra dell’Atlantico del Nord. Ma questi

diversi Stati sono alleati e condividono dei valori comuni o, almeno, un’opposizione

fondamentale a un avversario comune. Non è per niente il caso del Mediterraneo i cui gli Stati

della facciata Nord, ivi compresa la Turchia, fanno tutti parte della NATO a eccezione

dell’Albania; gli Stati della ex- Jugoslavia erano sotto controllo o protezione delle truppe della

NATO. Costituito contro l’Unione Sovietica all’inizio della Guerra Fredda, la NATO guarda oggi

verso Sud e verso il Medio Oriente, verso il mondo arabo e musulmano. Le forze della NATO

sono oramai ufficialmente impegnate in Afganistan contro i talebani. Il Mediterraneo è una

zona di contatto, più o meno conflittuale, tra alcune aree di civiltà diverse, seppur in realtà

queste zone di contatto riguardino solo le loro rispettive periferie. Il mondo musulmano che si

distende per la parte più importante sulla parte nord dell’Africa e sud dell’Asia, su un arco di

dodicimila chilometri che va dall’Atlantico al Pacifico, è più in contatto (anche conflittuale) con

il mondo indiano e il mondo cinese e su un arco di cinquemila chilometri con l’Africa nera.

Mentre l’area della civiltà europea (quella chiamata mondo cristiano) è, come sappiamo,

formato di due grandi sottoinsiemi, da una parte l’America del nord e sud ed è lontano dal

mondo musulmano, e dell’altra parte l’Europa che invece è vicina su uno dei suoi lati col

mondo musulmano. Se rappresentiamo in modo schematico l’Europa con un rettangolo, il lato

sud corrisponde al Mediterraneo e al Mar Nero. Occorre notare che il lato est del rettangolo,

quello che va dagli Urali al Caucaso, è segnato (cosa raramente ricordata) da una grande

avanzata verso nord del mondo musulmano, cosa che potrebbe tagliare in due l’immenso stato

della Russia. Certo, soprattutto nei giorni nostri dove delle violente proiezioni di potenza

possono farsi a migliaia di chilometri, le grandi distanze che separano i grandi insiemi

geopolitici non significano assenza di conflitto tra forze politiche ufficiali o clandestine che

pretendono essere o di un lato o dell’altro lato. Ne sono la prova la Guerra del Golfo (1991), gli

attentati del 11 settembre e soprattutto la guerra d’Iraq dal 2003.

4.2 Lo scontro delle civiltà

Prendendo pretesto dal conflitto israelo–arabo a proposito delle Palestina, il quale

riguarda solo una parte dei suoi territori, seppur carichi di valore geopolitico ma di dimensioni

minuscole comparate alle dimensioni del mondo arabo, le imprecazioni e le minacce dei

movimenti islamisti contro gli ebrei e i cristiani hanno riportato alla memoria conflitti religiosi

del Medioevo. Questi sono stati modernizzati nel concetto e rilanciati sotto una forma

laicizzata di conflitto tra civiltà. Questo è il termine neutrale scelto dal politologo americano

Samuel Huntington per trattare, in linea di massima sul piano planetario, delle religioni e dei

conflitti nel suo testo. Un’opera che ha provocato grande emozione in tutto il mondo. Gli

attentati del World trade Center sono stati considerati come illustrazione drammatica di quello

che veniva teorizzato da Huntington quattro anni prima.

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Le sue tesi furono prima di tutto rifiutate nel mondo intellettuale europeo e americano

che preferivano invece parlare dell’unità delle “religioni del libro”. Ma anche la diplomazia

americana, che giudicava fastidioso l’evocare nei media una specie di scontro tra cristiani e

musulmani cinque anni dopo la Guerra del Golfo, era in realtà contro questo libro. Dopo gli

attentati le tesi di Huntington furono giudicate premonitrici, ma soprattutto fin dall’inizio

avevano suscitato negli ambienti islamisti integralisti grande entusiasmo. Secondo questi,

avevano così la conferma che il mondo giudeo-cristiano conducesse una guerra di lungo

periodo contro il mondo musulmano. Così avevano il diritto di controbattere.

Va ricordato che questa formula famosa, “scontro di civiltà” lascia intendere che in

realtà le due civiltà fossero unite e compatte, una contro l’altra. Da notare che Huntington

passa quasi sotto silenzio, nel suo libro, il conflitto tra Israeliani e Palestinesi. Allo stesso modo

non tratta quasi per nulla dei conflitti tra India e Pakistan, dove i musulmani sono numerosi. In

realtà Huntington parla particolarmente di un conflitto tra mondo musulmano/mondo

cristiano, che considera in realtà come conseguenza del sempre più grande numero di giovani

musulmani, legato alla grande crescita demografica delle società musulmane. E’ questo quindi

lo shock delle civiltà che dovrebbe portare a un nuovo modello mondiale: un sovraccarico

demografico del mondo musulmano, che è effettivamente triplicato negli ultimi quarant’anni.

Sarebbe la causa della spinta che si eserciterebbe sul mondo cristiano. Come una placca

tettonica, l’islam sovraccarico e sovrappopolato respingerebbe quindi la placca della civiltà

europea chiamata civiltà nord americana.

Il cosiddetto “scontro delle civiltà” sarebbe quindi dovuto alla pressione demografica

ineguale. Ma il mondo musulmano, con oltre 1,5 miliardi di abitanti, la cui superficie è

considerevole (soprattutto in Africa), ha una densità Km2 ancora molto debole (salvo il caso di

Java e del Bangladesh), cosa spiegata dalle enormi distese desertiche o di steppe, facendo

concentrare la popolazione in spazi relativamente ridotti come la vallata del Nilo. Ma il Mondo

Arabo, cioè la parte della popolazione musulmana maggiormente coinvolta dal fenomeno

dell’aridità, è molto ridotto contando poco più di 250 milioni di abitanti. Una dimensione

debole per poter giustificare l’espansione di tutto il mondo musulmano il quale invece è

toccato più nella sua parte ricca di acqua e tropicale (Pakistan, Bangladesh, Indonesia, Nigeria).

Ma cosa ancora più importante, le risorse del mondo arabo non sono legate solo all’agricoltura

dato che dispone delle riserve di idrocarburi più ricche del mondo. Addirittura alcuni, nel

mondo musulmano, le chiamano “dono di dio”. Questo permette al mondo arabo delle entrate

sostanziose: la tesi secondo la quale quel reddito sarebbe accaparrato dalle compagnie

petrolifere occidentali è falsa. Infatti quel petrolio è stato nazionalizzato da oltre vent’anni in

tutti i Paesi Arabi (e sono i più ricchi di questi Paesi che finanziano i terroristi musulmani).

Huntington, nella sua spiegazione dello scontro delle civiltà, ripone tutto sul sotto-

insieme arabo e in parte iraniano (anche questo Paese ricco di idrocarburi): ben poca cosa, con

il suo quarto di miliardo, per poter spiegare tutta la sua dinamica di conflitto di civiltà: non più

del 20% di tutto il mondo musulmano!

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I segni di questa conflittualità esistono, ma sono più che altro presenti nella periferia di

quest’insieme musulmano, laddove c’è contatto con altre civiltà e soprattutto sul fronte

settentrionale del mondo Arabo, cioè proprio nell’insieme geopolitico Mediterraneo.

Quindi, piuttosto che evocare le cause generali di una espansione del mondo

musulmano, è necessario analizzare precisamente i diversi problemi geopolitici che si hanno

nel Mediterraneo, dato che molti di questi si ripercuotono tra loro e si accavallano. E

soprattutto non dobbiamo dimenticare che numerosi di questi conflitti si svolgono all’interno

degli stessi Paesi Arabi (come nel caso dell’Algeria con la guerra civile del 1992-2002). Seppur

non dobbiamo trascurare l’eco mondiale e l’effetto di questo concetto di “scontro delle

civiltà”.

4.3 Una serie di conflitti geopolitici all’interno del mondo musulmano tra Stato e

movimenti islamisti.

Il libro di Huntington è stato oggetto di commenti molto favorevoli nell’ambiente degli

integralisti islamici di tutti i paesi. Infatti rafforza implicitamente il loro discorso quanto

all’opposizione fondamentale tra le due “civiltà” dei due “mondi”, il mondo” giudeo-cristiano”

che avrebbe secondo loro l’obiettivo di nuocere sistematicamente al mondo musulmano in

tutti i modi, attizzandone le divisioni e combattendolo con la guerra, come in Iraq, soprattutto

pervertendolo. Questo discorso islamista ha come obiettivo prima di tutto di convincere e di

obbligare l’insieme dei musulmani al fatto che devono conformarsi alla shari’a (la legge

coranica) e che devono allontanarsi da ogni forma di modernizzazione occidentale (al di fuori

dei mezzi tecnici). A seconda dei vari paesi a cui facciamo riferimento, esistono diversi

movimenti integralisti islamici, il più antico dei quali è senza dubbio quello dei Fratelli

Musulmani nato in Egitto nel 1928 e divenuto il suo principale protagonista fin dall’inizio.

Questo movimento alla sua nascita si batteva contro l’influenza occidentale in Egitto. Ma c’è

stata anche una conseguenza legata ai cambiamenti politici che si sono prodotti in Turchia

dopo la sconfitta della Prima Guerra mondiale. I Fratelli Musulmani denunciarono l’abolizione

del califfato fatta da Mustafa Kemal, il quale decise di laicizzare la società turca e di rompere

con i paesi arabi del Medio Oriente, colpevoli per Kemal di aver tradito l’Impero Ottomano

durante la Guerra Mondiale, prendendo parte alla “ rivolta araba” (1916) fomentata dai

Britannici. Il movimento dei Fratelli Musulmani, dopo la Seconda Guerra mondiale agli inizi

degli anni cinquanta, entra in conflitto con il regime egiziano del colonnello Nasser colpevole

per loro di combinare nazionalismo arabo con socialismo. La dura repressione di cui furono

vittime i Fratelli Musulmani, diede loro l’immagine di democratici ingiustamente oppressi da

un regime. E fu in quel periodo che gli slogan che spingevano a imporre la shari’a come sola

forma di organizzazione della società musulmana, che iniziarono ad avere eco all’interno del

mondo intellettuale egiziano, più di quanto ormai non riuscissero gli slogan marxisti. Ma

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ancora di più fu lo stimolo nell’Islam sciita della rivoluzione radicale del 1979, condotta dal

clero iraniano, contro lo shah dell’Iran, colpevole di modernizzare in modo autoritario il

proprio paese. Questo spinse gli islamisti anche sunniti a portare avanti una politica di

islamizzazione nella propria azione politica. Ma la massa dei Musulmani soprattutto delle città

(2/3 della popolazione) e degli intellettuali non intendevano rinunciare, per conformarsi alla

shari’a, a tutta una serie di idee e di pratiche sociali che, non esistendo all’inizio dei tempi

dell’Islam, non erano interdette direttamente dal Corano, imponendosi progressivamente con

la diffusione della cultura occidentale all’epoca della colonizzazione. Si viene così a creare una

sorta di concorrenza che prende delle forme sempre più violente per il controllo delle

istituzioni statali tra gli intellettuali musulmani “occidentalizzati” e modernizzatori, ma che

denunciano l’imperialismo occidentale, e quegli intellettuali islamisti che usano come un

dogma politico la lettura che essi fanno del Corano, per imporre la loro autorità alla

popolazione. Il grande argomento degli islamisti è: denunciare le manifestazioni

dell’imperialismo occidentale, il suo sostegno a Israele, l’invasione dell’Iraq e, d’altra parte,

accusare i media occidentali e le idee che diffondono di pervertire le donne musulmane

incitandole a non rispettare in modo stretto le regole della shari’a.

Altro argomento che sviluppano gli islamisti: vogliono ristabilite il califfato, il comando

di tutti i Musulmani abolito da Mustafa Kemal nel 1923; ma soprattutto vorrebbero ricostruire

l’identità geopolitica dell’”umma” cioè la comunità dei Musulmani, unità che sarebbe stata,

secondo loro, sistematicamente distrutta dalle colonizzazioni per indebolire il mondo

musulmano. Certamente questa tesi si basa, giustamente, sulla ripartizione tra Britannici e

Francesi del Medio Oriente all’indomani dell’implosione dell’Impero Ottomano, trovando

pretesto nei “mandati” che erano affidati loro dalla Società delle Nazioni. Al contrario le

frontiere dei vari stati del Maghreb (a esclusione delle regioni sahariane) sono estremamente

antiche; tra l’altro avallate dall’Impero Ottomano, sono state semplicemente recuperate dal

colonizzatore francese. Detto ciò il discorso degli islamisti sul ristabilire l’unità geopolitica

dell’umma cade sull’esistenza, ormai da diversi anni, di Stati diversi che sono divenuti membri

dell’ONU. L’importanza dei movimenti islamisti è diversa da paese a paese, secondo le loro

caratteristiche geopolitiche, e si scontra a una diversa resistenza da parte del sistema statale.

Era il caso sicuramente per l’Egitto e la Tunisia. Resta ora da vedere come riusciranno ad

evolvere questi due Paesi. La Tunisia ha dato per ora una maggioranza relativa al partito

islamista nella gestione del proprio potere, senza però scivolare verso una dittatura di tipo

iraniano. L’Egitto resta ad oggi privo di Mubarak, sotto il controllo di una giunta militare.

L’obiettivo sarebbe quello di giungere a delle elezioni democratiche. Occorre però porsi il

problema sulla carta dei limiti geopolitici di questi due mondi: quello arabo-musulmano, quello

giudeo-cristiano. In effetti, spazialmente, i problemi non sono semplici, oltretutto carichi di

valore; ciascuno di loro è oggetto di sentimenti e di discorsi contraddittori. Mentre si discute

correntemente in termini di insiemi spaziali, mondo musulmano e mondo cristiano o mondo

europeo, limitandosi a schizzare delle delimitazioni schematiche, tracciarne sulla carta del

Mediterraneo i limiti precisi è un’operazione ben più delicata, ma è indispensabile. In effetti, il

mare non è una sorta di no man’s land, non lo è mai stato e negli ultimi decenni del ventesimo

secolo, i movimenti migratori da Sud verso Nord, hanno assunto dimensioni considerevoli. A

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Sud una gran parte della popolazione, soprattutto urbana, usa quotidianamente delle vestigia

positive o negative delle colonizzazioni (a cominciare dall’uso della lingua) e attraverso la radio

e la televisione, la popolazione è informata su quello che accade in Europa, dove vivono molte

delle loro famiglie. Oggi decine di milioni di uomini e donne di cultura musulmana vivono nel

nord del Mediterraneo. Alcuni sono ormai Europei veri e propri potremmo dire, perché sono

nati come i loro antenati su quella terra, per esempio nei Balcani (Bosnia, Albania) o nei

quartieri di Istanbul, la parte europea di questa Turchia, la cui domanda di adesione all’UE

solleva tanti dibattiti. Ma sono nati anche in Europa occidentale sei milioni circa di persone di

cultura musulmana, con genitori venuti da Maghreb, Turchia, Medio Oriente oppure Pakistan

e Bangladesh. A questi dobbiamo aggiungere almeno altri sei milioni di Musulmani che sono

immigrati in tempi recenti. Oltretutto in Europa queste persone si concentrano

prevalentemente in grandi agglomerazioni urbane e ancora più precisamente in certi quartieri

del centro o della periferia.

Questo solleva non pochi problemi geopolitici e a livello locale anche molto gravi; non

solo per i cosiddetti europei di origine, ma anche e soprattutto per gli islamisti. In effetti questi

ultimi temono che nelle grandi città Europee, i Musulmani pratichino sempre meno la loro

religione, lasciandosi andare a dei costumi di tipo occidentale. E’ un pericolo molto alto,

secondo loro, anche perché avrebbe un’eco molto importante nei Paesi da cui queste persone

vengono. Così gli islamisti non sono favorevoli all’immigrazione dei Musulmani in paesi che

non lo sono. Detto ciò sempre più Musulmani emigrano, e la soluzione islamista consiste nel

favorire il loro raggruppamento in quartieri dove sono sempre più maggioritari e dove la

shari’a potrebbe essere addirittura praticata di fatto a discapito di non poterla applicare

legalmente. Già oggi questo pone un grosso problema geopolitico che, pur ponendosi su

territorî ridotti, riguardano una quantità molto importante di popolazione.

5. Questione di Metodo

Occorre chiaramente distinguere il mar Mediterraneo, la distesa marina con le sue rive

e dal tracciato più o meno complicato , da ciò che correntemente nei media e nelle riflessioni

di geopolitica viene indicato come “il Mediterraneo” e cioè l’insieme dei Paesi che lo

circondano. Questo insieme mediterraneo e ben più esteso che la semplice distesa marina e le

regioni più vicine alle sponde. Prima di tutto perché alcuni di questi Stati si affacciano anche

sull’Atlantico (Marocco, Spagna, Francia). I loro territorî si estendono fino a migliaia di

chilometri lontano dalle coste mediterranee e, se sembra evidente distinguere una Francia ,

per esempio, mediterranea da una Francia atlantica a causa di clima, paesaggio, cultura, ecc.,

occorre considerare il peso complessivo dello stesso Paese. Allo stesso tempo occorre

considerare implicitamente l’insieme mediterraneo fino a 2.000 Km all’interno del Sahara, per

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tener conto dei giacimenti petroliferi che sono una caratteristica geopolitica dell’Algeria, della

Libia.

Questo Mar Mediterraneo i cui contorni complessi, soprattutto al Nord, sono il frutto

di scontri tettonici, è un dato della Geologia. Si tratta di un insieme naturale dai limiti ben

precisi e di cui noi non possiamo, su di una carta, modificarne i contorni.

5.1 Formare degli insiemi mediterranei più o meno estesi

Sulla carta, intorno al Mediterraneo, possiamo raggruppare dei Paesi dando vita a

degli insiemi, almeno nella nostra immaginazione, più o meno estesi in funzione dei punti di

vista e dei diversi ragionamenti (per esempio in funzione d’una caratteristica climatica

comune, come l’aridità estiva). A quel punto otterremmo, sempre sulla carta, degli insiemi

accavallati gli uni agli altri e che, a titolo diverso, definiremo come Mediterranei.

Ma possiamo anche formare un insieme prendendo non solo in considerazione gli stati

che sono direttamente sulle rive del Mediterraneo. Per esempio possiamo considerare anche

gli Stati e le forze che vi hanno una grande importanza nelle situazioni geopolitiche situate

sulle sponde di questa distesa marina. Per meglio comprendere il ruolo dei piccoli stati costieri

del vicino oriente, come Libano, ma anche Siria, Giordania, è indispensabile considerare gli

Stati situati ben più all’Est: l’Iraq con le conseguenze possibili del suo conflitto, ma anche l’Iran,

questo stato islamico il cui presidente dichiara apertamente che “occorre cancellare Israele

dalla Carta geografica”. Occorre considerare l’Arabia Saudita la cui frontiera più occidentale

(nel Golfo di Aqaba) è solo a 200 Km dalle coste del Mediterraneo e a 250 Km dal Canale di

Suez. Kabul certo si trova a 4.000 Km dal Mediterraneo, ma sappiamo tutti che quello che vi

sta accadendo dal 2001 ha un’importanza enorme per il Mediterraneo e per l’Europa. Questo

per il ruolo dei Talebani, per al-Qaida, ma soprattutto perché il 90% della produzione mondiale

di eroina viene dall’Afghanistan e giunge a noi attraverso un circuito mafioso che parte dalle

catene montuose del Sud dell’Asia centrale, passando per il Caucaso, la Turchia e i Balcani .

Va sempre tenuto presente, nella costruzione di un grande insieme geopolitico

Mediterraneo, il fatto che questi diversi Stati del Medio Oriente, che non sono direttamente

affacciati sul Mar Mediterraneo, ma che invece fanno parte del mondo Arabo e musulmano,

detengono un dato geologico e geopolitico capitale: la ricchezza degli idrocarburi. La più

importante riserva si trova nella zona di subduzione Mesopotamica, dove quella placca che è

l’Arabia sprofonda sotto quella iraniana.

I Paesi che noi possiamo includere nell’insieme Mediterraneo possono essere

caratterizzati da dati climatici molto comparabili: lungo periodo di aridità e forte caldo in

estate. Sono le caratteristiche del clima che i geografi chiamano “mediterraneo”e che si

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estende dal Sud della Spagna e del Portogallo e che arriva fino all’Afghanistan, cioè una zona

climatica di 8.000 Km di estensione. Oltre Jalalabad, vicina al Pakistan, cominciano i Paesi dei

Monsoni, dove l’estate è la stagione della pioggia. A questo proposito occorrerebbe

considerare meglio gli effetti provocati dal riscaldamento climatico del pianeta. In questa

parte del mondo questo probabilmente aumenterebbe l’effetto dell’aridità, della siccità. Le

regioni meridionali che devono già far fronte a un’estate senza pioggia e molto calda, l’aridità

diventerebbe ancora più forte e questo mentre il peso demografico sta aumentando. Delle

rivalità geopolitiche nuove, legate al controllo dell’acqua (già scarsa) aumenterebbero tra i

diversi Stati e molto probabilmente anche tra i loro stessi territori interni.

Ma sempre parlando di clima dovremmo riflettere sul considerare anche il Mar Nero. Il

suo clima in effetti è piovoso in estate, in opposizione a quello Mediterraneo. Ma il fatto che

sia in gran parte occupato da un importante stato Mediterraneo, la Turchia, e che il suo punto

di passaggio si fa solo attraverso il Mar Mediterraneo, altrimenti via terra o per via fluviale, lo

rendono un’area completamente dipendente dalla situazione e dal sistema Mediterraneo.

Questo insieme Mediterraneo ci spinge a considerare anche il Portogallo, benché i

Portoghesi amino definirsi unicamente come Atlantici. La siccità estiva del Mediterraneo

colpisce fortemente anche la parte meridionale del loro Paese. I portoghesi, grazie alle loro

importanti spedizioni navali, hanno sempre giocato un ruolo importante nel Mediterraneo,

trascinando con loro, oltretutto, Castigliani e Italiani alla scoperta del mondo attraverso

l’Atlantico. Alla fine, da una parte all’altra del Mediterraneo che conta 4.000 Km, è utile per

vederci più chiaro, estendere a più di 7.000 Km la dimensione del grande insieme geopolitico

Mediterraneo. Dobbiamo quindi contare una trentina di Stati diversi.

5.2 IL VICINO ORIENTE

Che cosa chiamiamo oggi “Vicino Oriente”? Fermo restando il punto che si tratta di

una definizione fatta rispetto ad un altro luogo, un centro. In questo caso il Vicino Oriente è la

posizione intermedia tra il Bacino del Mediterraneo e particolarmente i Paesi Europei, da una

parte, mentre all’opposto vi sarebbero il Medio Oriente (Insieme più vasto che includerebbe

anche il Vicino Oriente e che includerebbe quindi anche Iran, Iraq, Arabia Saudita, Afganistan),

l’Oriente (Pakistan, India,…) e l’Estremo Oriente (Cina, Giappone,…). Con questa

rappresentazione il “centro” è identificato nell’Europa. Per questo motivo molto spesso gli

abitanti di quelle aree (Libano, Giordania, Israele, Siria, …) non gradiscono questa sorta di

identificazione geografica perché fatta come considerandoli “accessori”, “marginali” rispetto a

una centralità.

Come Vicino Oriente noi indichiamo quella fascia costiera che corre verticalmente dal

Nord (Turchia) a Sud (Egitto) per circa 800 Km. Formalmente sia Egitto che Turchia potrebbero

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essere considerati come Vicino Oriente ma in realtà si tratta di grandi Stati con delle tradizioni

e delle caratteristiche ben riconosciute. Vedremo invece come le caratteristiche dei Paesi che

qui si vorrebbero inclusi nell’insieme “Vicino Oriente” (da qui in poi: VO) siano molto più

confuse, quanto meno non si tratta di grandi Stati i cui passati siano non solo antichi ma anche

chiaramente definiti nelle loro identità. Stiamo parlando di tre Stati Arabi (Siria, Libano e

Giordania), una nazione che, riconosciuta internazionalmente, non ha però un proprio Stato (la

nazione Palestinese) e di uno stato laico ma a forte connotazione religiosa e più precisamente

ebraico: Israele. Quest’ultimo è molto mal percepito dagli Stati che abbiamo appena citato,

considerato addirittura come la punta estrema, la linea di frontiera di quel capitalismo

imperialista che caratterizzerebbe l’Occidente, secondo la vulgata di quei Paesi Arabi.

Quest’ultimi hanno a loro volta dei rapporti estremamente stretti quanto a volte difficili,

secondo i periodi della loro Storia, con i loro vicini orientali (Iran, Iraq e Arabia Saudita), vicini

che hanno la caratteristica di possedere la larga maggioranza del patrimonio d’idrocarburi del

Pianeta e che hanno al tempo stesso una storia ben più importante dei piccoli Paesi che

abbiamo appena citato.

Possiamo coinvolgere nelle nostre considerazioni sul Medio e Vicino Oriente dei Paesi

che si spingono molto lontano dal Mediterraneo? Possiamo addirittura considerare anche

l’Afganistan? In realtà questi legami tra queste aree e il Bacino del Mediterraneo sono molto

più solidi e antichi di quanto noi stessi non consideriamo. Non è forse Alessandro a fare questo

legame fin dall’antichità a farci capire quanto quelle aree dell’Asia che arrivano fino

all’Afganistan possono essere aree d’influenza Mediterranea? E non è forse da un quarto di

secolo che gli eventi che si svolgono in Afganistan interessano in modo diretto o indiretto

l’area del Mediterraneo? E non è forse vero che esiste in quell’area intermedia che c’è tra noi

nel Mediterraneo e il sub-continente indiano un’arte greco-buddista e che ha come punto

nevralgico proprio quell’Afganistan dove più che mai le forze della NATO sono in azione?

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L’insieme che abbiamo denominato come Vicino Oriente rientra in quell’area racchiusa

da una sorta di “rift” (Frattura o spaccatura sotto la crosta terrestre) a Est e il Mar

Mediterraneo a Ovest. Questo rift comincia con il Golfo di Aqaba, l’altro golfo che insieme a

quello di Suez delimita la Penisola del Sinai e correndo lungo il fossato del Mar Morto (ben 407

m al disotto del livello del mare) sale lungo il fiume Giordano e entra nella valle della Beqā tra i

Monti Libano a ovest e l’Anti Libano a Est. Questa sorta di Frattura geologica che comincia dal

Golfo di Aqaba e che in realtà è la continuazione obliqua di un altro “fossato”, il Mar Rosso.

Quest’ultimo non smette di allargarsi sempre più allontanando le due placche, quella africana

da quella arabica. Il Sinai, gli altipiani della Cisgiordania e i Monti Libano sarebbero una

continuazione della placca africana. La placca arabica comincerebbe all’est della fossa del mar

Morto con l’altipiano della Giordania, l’altipiano del Golan ei monti dell’Anti-Libano. All’Est di

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questa linea d’altitudine che comincia quello che noi chiamiamo Medio Oriente con la placca

Arabica che si inabissa lentamente verso l’area della Mesopotamia e del Golfo Persico,

penetrando sotto la placca Iraniana. È sotto questa zona di subduzione che si trovano la

maggior parte degli idrocarburi del pianeta.

Questo ci deve far capire il ruolo importantissimo di questo “Vicino Oriente” che da

oltre duemila anni è oggetto di contesa tra numerosi popoli e regnanti. Infatti è per questa via

che passano oggi, dall’inizio del XX secolo, tutti gli idrocarburi che vengono da Iran e Arabia

Saudita e questo nonostante ci sia stato un forte aumento delle esportazioni da questi Paesi

verso Cina, India e Giappone, cioè in direzione opposta al Mediterraneo. Quello che viene

chiamato l’”Istmo Siriano” e che comprende un territorio ben più esteso dell’attuale Siria e che

va dal Mediterraneo e il Golfo Persico e che conduce all’Oceano Indiano, deve il suo nome

all’antico impero Assiro che si sviluppo oltre duemila anni prima della nostra era nella parte

settentrionale della Mesopotamia fino ai Monti Tauri in Turchia e da cui discendono sia Tigre

che Eufrate. È importante capire l’origine storica di riferimento, la rappresentazione che

ancora oggi è utilizzata dai popoli Arabi e ancora più particolarmente nella Siria attuale. Se

pensiamo alla recente storia dell’economia del petrolio (tutta legata al XX secolo) sbagliamo,

perché in realtà quest’area era già punto di rottura di carico tra carovane e navi per i traffici

che andavano dall’India all’Europa. E insieme alle merci transitavano anche cultura e idee. Da

oltre 2000 anni e particolarmente dal Medio Evo, il Vicino Oriente è fonte di grande

antagonismi per il contendersi di questi territorî. Fin d’Alessandro Magno (che con grande

fatica riuscì a battere i Fenici) questi porti e queste piste sono ambiti da tutti quelli che

vorrebbero influenzare sia l’area Mediterranea e Europea sia il subcontinente indiano e l’Asia

Centrale.

Ma cerchiamo anche di inquadrare questo insieme territoriale non solo da un punto di

vista geologico, quando abbiamo parlato della spaccatura che va da Mar Rosso fino quasi alla

Turchia. Cerchiamo di sottolineare un’altra caratteristica che lo rende molto importante in

questa parte della Terra. Gli Inglesi definirono una sua parte come “mezzaluna fertile”. In

realtà la fertilità è semplicemente dovuta alla sua alta umidità rispetto ai dintorni aridi e

secchi. Questa mezzaluna fertile parte proprio dal golfo di Aqaba e costeggia verso nord,

includendo tutti gli altipiani Palestinesi o i Monti del Libano, che hanno un forte livello di

precipitazioni, soprattutto se lo paragoniamo alle aree circostanti. La parte orientale di questa

Mezzaluna fertile sarebbe quella che una volta si chiamava Mesopotamia e si tratta di quella

ampia vallata compresa tra i due grandi fiumi che dalla Turchia sfociano nel Golfo Persico: il

Tigre e l’Eufrate. Ma se entriamo più nel dettaglio le aree più fertili di tutta questa parte

dell’Asia, continuano verso sud, oltre il Golfo di Aqaba. Salendo verso le oasi che arrivano fino

a 1.000 metri d’altezza, con picchi che superano i 2.000 metri di altitudine e che passano per

La Mecca, continuando verso lo Yemen e quindi verso le acque del Golfo Persico. Questa sorta

di “anello” che circonda i deserti che oggi compongono maggiormente l’Arabia Saudita, hanno

rappresentato un vero centro di interesse per diverse dinastie di diversi regni sia per il

passaggio dal Golfo Persico e dalla Persia verso il Mediterraneo, sia per le carovane che

costeggiando il Mar Rosso, dall’alto, attraversando città come Medina e La Mecca, viaggiavano

anch’esse verso il Mediterraneo. Questo insieme di traffici quindi era un vero e proprio punto

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nevralgico, molto prima che il petrolio diventasse quel bene prezioso che noi oggi sappiamo. È

infatti da qui che cominciano le dinastie arabe, dalla Mecca nel VI secolo, per poi spostarsi con

le dinastie degli Omayyadi, VII e VIII secolo, verso Damasco. Infine gli Abbasidi che

governarono da Bagdad fino al secolo XI.

Diciamo pure serenamente che non è strano che le tre religioni monoteiste siano nate

proprio a questo crocevia che è il Vicino Oriente e che spinse infatti i Cristiani (non certamente

per questioni religiose) a voler riconquistare la “terra santa” attraverso le Crociate.

Senza voler ora tracciare una “storia delle Crociate”1, diciamo semplicemente che dalla

conquista di Maometto e conversione dei pagani (630 d.C.), praticamente non si è mai

interrotta una contesa violenta, forte, che andava dall’Egitto fino alla Turchia e che era il punto

nevralgico di Regni che estendevano i loro territorî dalla Spagna fino al Pakistan (è stato il caso

proprio degli Omeyyadi). Questo punto nevralgico era la chiave che permetteva il controllo di

imperi che si estendevano su tre continenti. Le Crociate hanno rappresentato lo stesso

tentativo da parte dei regni Europei e non si è mai interrotta questa situazione, a parte la

“pace ottomana” fino alla prima guerra Mondiale. E fu proprio in quel preciso momento che gli

Arabi dei diversi territorî, oramai frammentati come vedremo tra poco, fondano a Parigi la

Lega della Patria Arabe nel 1903, Lega che proprio durante un congresso a Parigi, del 1913,

chiede l’autonomia della Siria.

Ricordiamo come si è giunti alle frontiere attuali del Vicino Oriente, frontiere molto

recenti e ritagliate da attori che non avevano origine da quei territorî. È interessante farlo

perché oggi quando ci interroghiamo su quest’area del mondo, essendoci delle

rappresentazioni religiose e storiche molto antiche (la Bibbia, il Corano e i luoghi santi dei

Musulmani, ecc.) ci verrebbe quasi da pensare che si tratti di delimitazioni antichissime, ma in

realtà datano quasi tutte del XX secolo e più particolarmente della prima Guerra Mondiale.

5.3 Delle frontiere molto recenti

In effetti già nel 1914 i Britannici cercarono di cacciare i Turchi entrando nella

Mesopotamia dal Golfo Persico, ma questa manovra non riuscì e furono respinti in buona

parte. Per questo motivo i sevizi segreti Inglesi spinsero lo Sceriffo della Mecca, Al-Husayn ibn

Alī Himmat, a ribellarsi con le sue tribù e attaccare i Turchi, promettendo in cambio la

creazione di un “grande regno Arabo” sotto protettorato inglese, da destinare ai suoi stessi

figli. Questi accettò e diede vita alla grande rivolta Araba che cacciò gli Ottomani dal Vicino

Oriente ma, alla fine, i Francesi, che non avevano firmato nessun accordo, non accettarono di

dar nessun Regno Arabo. Questi infatti invocarono gli accordi pre-esistenti che davano agli

Inglesi le terre in cui avevano i loro interessi, compreso il corridoio che da Haifa andava a

Kuwait. Mentre il Libano (i Francesi avevano importanti legami perché avevano difeso i

1 Ottimo è il libro di Amin Maalouf, Le Crociate viste dagli Arabi, del 2001, editore SEI.

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cristiani Maroniti, di obbedienza Cattolica, contro i Drusi, già nel XIX secolo) e la Siria,

frontaliera del Libano, doveva andare ai Francesi.

Questo non piacque al figlio Al-Husayn ibn Alī Himmat, Faysal, il quale si insediò a

Damasco, antica capitale degli Omeyyadi nominandosi “re della Grande Siria” e non a Bagdad,

che dalla sconfitta inflitta dai Mongoli non riuscì mai a risollevarsi per ritrovare l’antico

splendore. I Francesi sbarcarono a Beirut e arrivarono a Damasco, e lo cacciarono. Faysal allora

andò a Bagdad e si fece incoronare re dell’Iraq (come gli inglesi chiamarono l’antica

Mesopotamia) dai Britannici.

Abbandonato così il progetto del Grande regno Arabo la neonata Società delle Nazioni

diede vita a un progetto che certo non piacque agli Arabi: quello di un protettorato, come

sopra indicato nelle aree d’influenza, tenuto da Francesi e Inglesi. L’obiettivo sarebbe stato

quello di controllare il territorio fino a un’evoluzione del tessuto arabo che avrebbe permesso

alle popolazioni locali di governarsi da sole, senza protettorato esterno. Gli Arabi erano

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contrari per diverse ragioni e la prima fu proprio quella del tracciato delle frontiere fatto nel

1922 dal Primo Ministro britannico, Lloyd George, e il Presidente del Consiglio francese,

Clémenceau, senza consultare nessuno degli attori della regione interessata.

Occorre a questo punto sottolineare che quel tracciato non venne modificato ed è

quello ancora in vigore oggi. Una cosa importate fu la divisione di quella che all’epoca era la

“Transgiordania”, data al fratello del Re Faysal, in due parti. I Britannici decisero di far

diventare la parte all’Ovest del Giordano, Palestina , dal nome che usavano da tempo i Cristiani

e che faceva riferimento ai Filistei, grandi avversari degli Ebrei della Bibbia. Questa divisione,

per i Britannici, era fatta nell’obbiettivo di gestire i sempre più numerosi coloni Ebrei che

cominciavano ad affluire sulle coste di questo territorio e cominciavano a rappresentare per

loro un problema da gestire in questo protettorato, con quelle che già allora si chiamavano

“colonie ebraiche”.

Per quel che riguarda le frontiere Orientali della Giordania e dell’Iraq, non sono il

risultato di accordi con i Francesi o con gli Inglesi. Si tratta invece delle azioni del nuovo

“leader” di quell’area, dopo la cacciata degli Hascemiti: Ibn Saūd e le sue forze wahhabite. In

effetti prima ancora del petrolio, durante la Prima Guerra Mondiale, Saūd, già Re dell’Arabia

Saudita (appunto perché dei Saūd), spinge le sue truppe ultrareligiose wahhabite ben a Nord

per sbarazzarsi delle guarnigioni Turche che ancora restavano sul territorio. Se non fosse

intervenuta la stessa Royal Air Force, probabilmente sarebbe arrivato fino alle sponde del

Mediterraneo. Lo stesso Saūd ridurra ad un terzo della dimensione iniziale, l’area del Kuwait

inizialmente disegnata dagli Inglesi e, come abbiamo già scritto sopra, occuperà tutto l’Hedjaz,

compresi Medina e La Mecca, nel 1924 cacciandone gli Hachemiti e dando inizio alla

dominazione wahhabita che ancora continua.

La situazione Geopolitica del Vicino Oriente potrebbe sembrare fin qua relativamente

semplice e comunque già delimitata nel campo degli attori, ma in realtà la situazione si

aggraverà e non di poco per due nuovi dati: a) aumento esponenziale del ruolo del petrolio , b)

nascita dello Stato di Israele. Soprattutto la seconda risulterà abbastanza improvvisa,

trattandosi del seguito di un movimento che trova le sue origini (il sionismo) nel cuore della

vecchia Europa e che non interagisce con tutta la comunità di confessione ebraica e che abita

le sponde del nord africa (la comunità Sefardita, mentre quella che arriverà in Israele a partire

dalla fine della seconda guerra mondiale è Askenazita). Ricordiamo che la nascita di Israele nel

1948 lasciava titubanti moltissimi Stati della comunità internazionale, quasi tutti credevano

che sarebbe scomparso da lì a pochissimo tempo. Senza avere petrolio e di dimensioni

estremamente piccole è riuscito a vincere diverse guerre, a estendersi, a aumentare la propria

popolazione diventando forse il più potente degli Stati del Vicino Oriente suscitando odio e ira

in quasi tutti gli Stati del Medio Oriente (a eccezione della Turchia) e persino con l’Afganistan

con il quale non ha pertanto nessun tipo di contenzioso territoriale.

Il conflitto che tutti conosciamo da decenni oramai tra arabi/palestinesi e Israeliani

sembrerebbe essere molto semplice: gli Ebrei Sionisti tolgono la terra ai Palestinesi e danno

vita al loro Stato. Ovviamente gli Arabi Palestinesi vogliono riprendersi quella terra e si

alimenta così un conflitto che dura da decenni.

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Geopolitica 2012

Dispensa per il corso di Geopolitica Prof. Giuseppe BETTONI Pagina 32

Oggi tutti gli analisti concordano sulla definizione dell’importanza di quel conflitto in

scala planetaria e di quanto, oggi, il “sacro” abbia un ruolo importante in un conflitto il cui

ordine di grandezza non supera i pochi chilometri ma con un’eco di livello planetario. Eppure

tutti gli storici concordano che quello stesso conflitto, fino a pochi decenni fa di “sacro” non

aveva proprio nulla per il fatto che gli Arabi non accordavano una grande importanza religiosa

ai luoghi del Vicino Oriente e più particolarmente a quei luoghi che oggi si trovano nello stato

di Israele. Ricordiamolo che non fanno parte neanche del territorio horm (sacro) come invece,

per esempio, lo sono La Mecca e tutto il territorio dell’Arabia Saudita. Al tempo stesso

dobbiamo ricordare che gli Ebrei Sionisti che nel 1948 diedero vita allo Stato di Israele non

erano dei religiosi. Quelli veramente Religiosi, sia che si trovassero già in quello che sarà

Israele, pochissimi, sia che fossero ancora sulle coste del nord-Africa o in Europa, la maggior

parte, consideravano addirittura empio il fatto di voler dar vita a uno stato di Israele prima

dell’arrivo del Messia.

La vera difficoltà comincio nel 1967 quando Israele, nella guerra dei sei giorni volle

prendersi anche il resto del territorio e cioè la Cisgiordania, le alture del Golan (Siriane e da

dove si controlla il Lago di Tiberiade) e il Sinai. Ma l’obiettivo non era quello di occuparli per

aumentare il territorio di Israele, anche perché in quel modo la popolazione dello Stato di

Israele avrebbe avuto una popolazione al 40% araba e questo sarebbe stato abbastanza

pericoloso. L’obiettivo era di usarlo come moneta di scambio e di pressione con i diversi Stati

circostanti e potersi far riconoscere ufficialmente negoziando un vero e proprio trattato di

pace. Ma solo l’Egitto (e solo nel 1979) accettò di farlo, mentre gli altri Paesi si rifiutarono. Non

solo. Anche gli Ebrei più religiosi e che respingevano il Sionismo videro nella guerra dei sei

giorni quasi una sorta di prova della volontà divina, una volontà di affermare lo Stato di Israele.

Addirittura per alcuni di loro il Messia sarebbe tornato sulla terra solo quando Israele avesse

rioccupato tutti i territorî che biblicamente aveva all’origine Israele. Il ruolo della minoranza

religiosa, per quanto frammentata e distribuita particolarmente in alcune aree del Paese, è

sempre più importante. Fin dall’inizio essi hanno partecipato alla formazione di diversi governi,

sia Laburisti che del Likud e in entrambi i casi hanno sempre “monetizzato” la propria

partecipazione con le concessioni a degli insediamenti colonici tra i quali spiccano gli

insediamenti fatti nelle aree in territorio che non era Israeliano prima del 1967 (Cisgiordania e

Gerusalemme est in particolar modo). Occorre ricordare che ciascuno di questi insediamenti

rappresenta in media una popolazione di 50.000 abitanti e che anche volendo, a questo punto,

tornare indietro sarà sempre più difficile. Le evacuazioni fatte dalla striscia di Gaza, da parte

del governo Israeliano, richiesero interventi massicci delle forze dell’ordine israeliane sui coloni

ebrei che vi risiedevano. Scene che furono trasmesse in tutto il mondo con forti proteste

interne allo stesso Stato di Israele. Pensare di evacuare allo stesso modo tutti gli insediamenti

che oggi toccano la Cisgiordania o, ancora di più, che si spingono abbondantemente nella

Gerusalemme Est che in teoria sarebbe completamente araba/palestinese, sembra alquanto

impensabile.

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5.4 I PALESTINESI TRA IL RESTO DEGLI ARABI E QUINDI LA SIRIA

Se oggi sappiamo che tutti i Paesi Arabi del Vicino e medio Oriente difendono il ruolo

dei Palestinesi in quanto vittime della occupazione Israeliana, in realtà la cosa è meno chiara di

quanto non sembri. In effetti l’insuccesso Palestinese nel far fronte a Israele e cercare di

ottenere nuovamente almeno i territorî che furono tolti loro nella guerra dei sei giorni del

1967 è legato non solo alla forza di Israele ma anche agli ostacoli che i Paesi Arabi circostanti

hanno saputo creare proprio contro quei Palestinesi che sembrano tanto star loro a cuore.

Tanto per cominciare dovremmo ricordare che già nel 1951 i Palestinesi si rivoltarono contro il

re della Giordania dell’epoca, uno dei figlio dell’ultimo sceriffo della Mecca, uccidendolo

proprio perché decise di non combattere più gli Israeliani che avevano dichiarato la nascita

dello stato di Israele, tre anni prima. Questa rivolta in realtà arrivo al suo punto culminante nel

1970 con il famoso “settembre nero”. Fu in quella data che in effetti i Palestinesi, oramai

diventati milioni a causa dell’esodo provocato dalla guerra dei sei giorni, cercarono di

abbattere il Regno del Re Husayn, nipote del Re Abdullah, ucciso dai Palestinesi quasi

vent’anni prima. La rivolta palestinese (i Palestinesi rappresentavano oramai il 40% della

popolazione della Giordania) fu bloccata e schiacciata solo grazie all’intervento delle truppe

beduine del Re di Giordania, la famosa “legione araba”. Il gruppo principale delle

organizzazioni Palestinesi fu costretto a fuggire la Giordania verso il Libano, dove si insediarono

nel Sud, proprio in quel territorio che oggi sappiamo essere dominio degli sciiti di Hezbollah.

Ma in realtà negli anni ’70 era conosciuto cole “fathaland” per quanto la presenza di

Palestinesi e soprattutto delle principali organizzazioni di resistenza, fosse importante. Da

questo territorio oggi Hezbollah lancia razzi sul territorio israeliano, esattamente come lo

facevano i Palestinesi negli anni ’70. Furono gli stessi Palestinesi all’origine del conflitto

libanese, cominciato da uno scontro tra famiglie Maronite e Palestinesi in seguito a un diverbio

di traffico, a Beirut. In ogni caso quel conflitto spinse i Palestinesi a prendere il potere in Libano

approfittando della storica debolezza della struttura statale, essendo ripartita per confessione

religiosa. Questo tentativo quasi riuscì ai Palestinesi, se non fosse stato per la richiesta di aiuto

da parte del Presidente Libanese fatta al governo siriano. Le truppe siriane entrarono nel

Libano il 1976 per andare a soccorrere i Maroniti libanesi accerchiati dai Palestinesi, a Beirut.

Questa situazione sappiamo che degenerò in una vera e propria guerra civile tra le diverse

confessioni religiose Libanesi, alle quali si aggiunsero i Palestinesi. Una guerra lunga quindici

anni, con incredibili cambiamenti di alleanze e di situazioni. Una guerra terribile che distrusse

un’intera città senza risparmiare lo stesso Paese. Durante questi quindici anni basta ricordare il

1982, anno in cui Israele decise di cancellare il “fatahland” entrando in Libano e arrivando oltre

Beirut. I Siriani in questa situazione ancora una volta dimostrarono quanto in realtà non

tengano, ancora oggi, ai Palestinesi ritirando le proprie truppe verso Nord e lasciando campo

libero agli Israeliani (e evitando in questo modo di doversi scontrare direttamente con loro).

Israele accerchiò Yasser Arafat nella città di Tripoli e questi riuscì a salvarsi solo grazie a un

intervento navale delle forze speciali Francesi che lo portarono in salvo.

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Da quanto scritto sopra, seppur in modo sintetico, è facile cogliere quanto in realtà i

diversi Paesi Arabi dell’area (tutti e tre i Paesi del Vicino Oriente certamente) non hanno tanto

a cuore la causa dei Palestinesi. Oltre questo va anche detto che le Organizzazioni Palestinesi,

le diverse, visto che ce ne sono almeno quattro che sono state storicamente le più importanti,

sono sempre state contrarie alla partenza dei Palestinesi perché si temeva la “diluizione” della

comunità Palestinese nei vari Paesi in cui sarebbero emigrati. Al contrario, negli ultimi decenni,

nonostante le condizioni difficili se non, a volte, inumane, la popolazione Palestinese nei campi

profughi sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza è aumentata. Questa popolazione è

sempre più “politicizzata” tramite la gestione delle diverse organizzazioni politiche che

operano nei campi. Dopo la disaffezione dei movimenti marxisti degli anni ’60 e ’70 e

soprattutto dopo la scomparsa dell’URSS l’attenzione si è rivolta verso le organizzazioni

religiose e in particolare Ḥamās fondata nel 1987 dallo sceicco palestinese Ahmed Yassin che

verrà ucciso dall’aviazione Israeliana il 22 marzo del 2004. Questa organizzazione, fondata nel

1987 ha come riferimento il movimento dei Fratelli Musulmani e riesce a conquistare la

popolazione di Gaza, a differenza di quella della Cisgiordania, grazie a una sorta d’intervento

sociale, con la creazione di scuole e sistemi di assistenza a una popolazione Palestinese stanca

delle inefficienze e della corruzione delle tradizionali organizzazioni Palestinesi. Sarà proprio a

partire dagli anni ’90 che il conflitto arabo-israeliano (come era chiamato in passato) diventerà

un conflitto in cui la rappresentazione principale sarà quella religiosa: i musulmani contro

l’imperialismo ebraico-occidentale. È questa rappresentazione che oggi meglio permette agli

estremisti di Ḥamās di intercettare la maggior parte delle preferenze, anche di quelle persone

che non sarebbero normalmente attirate dall’integralismo musulmano. Ed è proprio questa

rappresentazione che viene alimentata dallo cosiddetto “scontro delle civiltà”. Uno scontro

che non esiste e che invece è fatto di conflitti locali che hanno ragioni ben localizzate e

soprattutto ben territorializzate.

Ritornando alla popolazione Palestinese va sottolineato il ruolo estremamente

ambiguo che ha giocato in questo senso la Siria.

5.5 La Siria

C’è da chiedersi perché uno stato come la Siria, che non possiede grandi risorse idriche

e nulla in materia di idrocarburi, ricopra da sempre un ruolo così importante nello scacchiere

del Vicino Oriente. In realtà questo ruolo prominente è dovuto alla rappresentazione che

questo Stato, non meno artificiale dei suoi vicini nella sua delimitazione, promuove fin dalla

fine dell’impero Ottomano. In effetti sarà a Damasco che Faisal verrà a insediarsi con il suo

progetto del grande Stato Arabo che avrebbe dovuto riprodurre quello delle prime dinastie

Omayyadi. Sappiamo che Faisal verrà cacciato dai Francesi e questi continueranno a governare

la Siria fino al 1945. A questa data i Francesi verranno a loro volta (e molto malamente) cacciati

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dai Siriani : anche allora il sogno della Grande Siria non scomparve. In effetti questa sorta di

superiorità geopolitica della classe politica Siriana guidò tutte le azioni, fin dall’inizio e

soprattutto è il principio stesso della nascita del partito Baas (o Baʿth) e del suo progetto di

“resurrezione” della nazione araba ( Baʿth, عث ossia "Resurrezione"). Il progetto di una grande ,ب

nazione sembrò quasi riuscire con l’unione di Siria e Egitto nel 1958 (la Repubblica Araba

Unita). Il progetto del partito Baas prese una deriva socialista, sotto Nasser, e questo scatenò

le contrarietà di buona parte del partito. Il partito a un certo punto si oppose a questo

progetto e provocò la rottura di questa unione tra i due Stati nel 1961 diventando

anticomunista e condannando la formazione di una figura troppo predominante di un leader

(paradossale se pensiamo che tutti i Paesi in cui esiste questo partito esiste anche un

dittatore), cosa secondo la nuova visione del partito Baas contraria all’obiettivo della

realizzazione di un grande Stato arabo. Fu questo approccio che portò il gruppo dei militari,

per la maggior parte della minoranza alauita (sciita), a prendere il potere in Siria e soprattutto

all’insediarsi di Hafiz al-Assad che governerà come un vero dittatore questo Stato fino alla sua

morte il 10 giugno del 2000 e al quale successe il figlio Bashar al-Assad. Hafiz al-Assad riuscirà a

gestire questo Stato, sprovvisto di grandi punti di forza oggettivi, con grande capacità

strategica attraverso i conflitti frontalieri con la Turchia, la questione delle alture del Golan con

Israele ma soprattutto la delicata questione del sostegno ai Palestinesi cercando di ostacolarne

il successo in tutti modi. Questa strategia aveva solo un obiettivo: impedire l’affermarsi di

qualunque potenza locale sperando a un certo punto di unire tutti i territorî Arabi del Vicino e

Medio Oriente e realizzare così quel sogno del Panarabismo.

Anche il contenzioso di Alessandretta sembra oramai definitivamente abbandonato,

nonostante in Siria si continui ad insegnare a Scuola che quel territorio appartenga allo Stato

siriano. In Effetti il territorio di Alessandretta (Iskundurun in turco), importante porto sul

Mediterraneo, rientrava nei territorî Siriani essendo stato occupato dalle truppe Inglesi alla

firma dell’armistizio nel 1918 (la posizione delle truppe inglesi a quel momento doveva infatti

rappresentare la linea di confine tra Turchia e possedimenti Inglesi. Ma, in seguito, rientrando

nel protettorato francese, questi lo cedettero alla Turchia che lo richiedeva essendo la

popolazione a maggioranza turcofona. Questa cessione, fatta nel 1939, era fatta in prospettiva

di un eventuale aiuto dei Turchi in una guerra contro l’URSS e poter quindi bombardare Baku.

La guerra prese poi un’altra piega ma alla fine di questa, la cessione venne confermata dai

Francesi alla Turchia. Questa cessione non venne mai riconosciuta dal governo di Damasco. I

Siriani hanno sempre cercato di fare pressione per riottenere Alessandretta e in particolare

accogliendo gli oppositori Curdi al governo di Ankara. Il loro leader, Ocalan, era infatti in Siria

ma a un certo punto la Turchia minacciò un conflitto armato se Ocalan non fosse stato espulso.

Di fronte questo rischio di guerra che Damasco non poteva affrontare (a dimostrazione della

relativa debolezza militare della Siria rispetto agli attori più importanti del Medio Oriente)

Ocalan venne espulso, proprio nel 1998. Allo stesso modo l’occupazione delle alture del Golan

da parte di Israele, per poter controllare il Lago di Tiberiade, importante fonte d’acqua per lo

stato ebraico, è un altro elemento di pressione internazionale a livello diplomatico. Tutto

questo per dimostrare quanto in realtà la Siria si muova in molte direzioni nel Vicino e Medio

oriente, primo obiettivo dei quali è quello di evitare l’imporsi di un altro stato arabo nell’area,

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sperando con questo di riuscire a unificare questi diversi territorî e realizzare quel famoso

sogno di grande Nazione araba. È sempre Damasco infatti la prima a essere contenta per

un’eventuale esplosione dell’Iraq in tre parti perché così la parte Nord, curda, potrebbe essere

facilmente assorbita da questo progetto. Allo stesso modo una nazione palestinese che si

imponesse con un suo stato vero e proprio potrebbe essere un ostacolo a questo progetto (a

meno che questo stato non decidesse autonomamente di confluire in questa sorta di grande

unione). Il Libano non fa eccezione a questo progetto, da qui la volontà di essere presente e di

disfarlo per assorbirlo definitivamente.

Ma oramai aldilà dei tentativi di Bashar al-Assad di stabilire un legame con il mondo

occidentale per cercare d’imporsi come attore principale a livello locale (e il supporto della

Siria contro Saddam Hussein in Iraq è una evidente prova in questo senso) sembrano vanificati.

In seguito alla primavera araba del 2011, vi è oramai una vera rivolta che oramai potrebbe già

essere definita guerra civile e particolarmente nelle città di Hama e Homs, città sunnite del Sud

della Siria da sempre opposte al regime laico degli alauiti della famiglia al-Assad. La situazione

sembra essere arrivata a un punto di non ritorno e difficilmente il regime potrà uscirne

indenne. Molto probabilmente dopo un’eventuale caduta di Bashar al-Assad si potrebbe avere

un governo molto vicino ai Fratelli Musulmani Egiziani. Sarà per questo la fine del sogno della

grande nazione araba con capitale Damasco?

20 aprile 2012