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Modellazione delle Conseguenze di Incidenti Industriali Prof. Renato Rota, ing. Valentina Busini 2009

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Modellazione delle Conseguenze di Incidenti Industriali

Prof. Renato Rota, ing. Valentina Busini 2009

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Valutazione delle conseguenze di incidenti rilevanti – Prof. R. Rota – 2004

Sommario

1 Introduzione ___________________________________________________________ 3

2 Modelli di sorgente ______________________________________________________ 4

2.1 Efflusso monofase liquido____________________________________________ 6

2.2 Efflusso monofase gassoso ___________________________________________ 7

2.3 Efflusso bifase _____________________________________________________ 8

2.4 Flash ____________________________________________________________ 14

2.5 Formazione di aerosol e rain-out _____________________________________ 15

2.6 Evaporazione da pozza _____________________________________________ 18

2.7 Dimensione della pozza_____________________________________________ 21

3 Dispersione ___________________________________________________________ 24

3.1 Modelli di simulazione: generalità____________________________________ 26

3.2 Cenni di fisica dell’atmosfera________________________________________ 27

3.3 Modelli gaussiani__________________________________________________ 32

3.4 Modelli integrali __________________________________________________ 37

3.5 Modelli tridimensionali_____________________________________________ 44

3.6 Rilasci sottomarini_________________________________________________ 48

4 Esplosioni ed incendi ___________________________________________________ 56

4.1 Esplosioni di nubi inconfinate (UVCE) ________________________________ 70 4.1.1 Metodo del TNT equivalente _____________________________________ 70 4.1.2 Modello TNO _________________________________________________ 75 4.1.3 Modello Multi – Energy _________________________________________ 76 4.1.4 Metodo di Baker – Strehlow ______________________________________ 78 4.1.5 Confronto tra i diversi approcci ___________________________________ 80

4.2 Esplosioni puntuali ________________________________________________ 84

4.3 Esplosioni fisiche __________________________________________________ 85

4.4 Incendi da pozza (pool fire) _________________________________________ 86

4.5 Fiamme da getti turbolenti (jet flame) ________________________________ 98 4.5.1 Confronto tra le previsioni dei diversi modelli. ______________________ 112

4.6 Sfere di fuoco (fireball) ____________________________________________ 114

5 Conclusioni__________________________________________________________ 120

6 Bibliografia__________________________________________________________ 121

2

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1 Introduzione L’analisi delle conseguenze di incidenti industriali riveste un’importanza molto rilevante nell’analisi di rischio di un insediamento industriale. Infatti, l’estensione dei danni conseguenti ad un evento incidentale può essere quantificato solo sulla base di una modellazione delle conseguenze dell’evento stesso. Purtroppo, i risultati di queste valutazioni hanno un certo grado di incertezza a causa della natura stessa dell’evento incidentale. Infatti è solitamente possibile effettuare solo una stima abbastanza grossolana di alcuni fattori che determinano l’entità delle conseguenze. I principali di questi fattori si riferiscono a:

• caratteristiche geometriche del rilascio in ambiente (per esempio le dimensione della rottura di una tubazione);

• proprietà del materiale rilasciato in ambiente a seguito dell’incidente (per esempio, temperatura, pressione, composizione);

• incompleta rappresentazione dei fenomeni chimico – fisici descritti nel modello di simulazione utilizzato.

La breve discussione riportata in questa relazione non vuole essere un’illustrazione dettagliata ed esaustiva dei modelli disponibili. Si presuppone infatti una conoscenza almeno di base dei principali modelli di simulazione delle conseguenze di eventi incidentali, che non verranno quindi discussi in questa nota. Rassegne anche abbastanza recenti sono reperibili in Crowl e Louvar (1990), TNO (1997), Fthenakis (1993), Lees (1996), CCPS (2000). L’obiettivo è piuttosto quello di richiamare l’attenzione dell’utilizzatore di questi modelli di simulazione sulle problematiche, a volte nascoste, che possono condizionare in modo significativo i risultati della simulazione e quindi, in ultima analisi, dell’analisi di rischio. Le incertezze insite nella stima delle conseguenze di un evento incidentale vengono infatti solitamente gestite assegnando dei valori conservativi ad alcuni parametri presenti nei modelli di simulazioni in modo tale che il risultato finale del calcolo sia conservativo. Ne risulta che la scelta oculata di tali parametri è fondamentale non solo per evitare una sottostima delle conseguenze, ma anche un’eccessiva sovrastima delle conseguenze stesse che porterebbe a un inutile spreco di risorse.

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2 Modelli di sorgente Molti incidenti in ambito industriale iniziano con il rilascio di una certa quantità di sostanze tossiche o infiammabili in atmosfera. Il calcolo della portata scaricata a seguito di un incidente, della quantità totale rilasciata, della durata dello scarico e della fase in cui la sostanza scaricata si trova (cioè, complessivamente, la valutazione del termine di sorgente di un incidente) è una delle fasi più critiche per la stima delle conseguenze degli eventi seguenti, quali la dispersione in atmosfera, l’incendio o l’esplosione della sostanza scaricata. Ai fini della modellazione, i rilasci in atmosfera possono essere suddivisi in due tipologie: istantanei e continui. Ovviamente, nessun fenomeno è realmente istantaneo, ma può essere così approssimato quando la durata dello scarico è molto inferiore ai tempi caratteristici dei fenomeni successivi, tipicamente la dispersione in atmosfera il cui tempo caratteristico può essere stimato come il rapporto tra la distanza della sorgente dal ricettore e la velocità del vento. Quindi, mentre il collasso di un recipiente viene solitamente modellato come un rilascio istantaneo, il rilascio da una rottura non catastrofica viene considerato istantaneo se tS<<d/uv (dove tS è la durata dello scarico, d la distanza tra la sorgente e il ricettore considerato e uv la velocità media del vento) e continuo se tS>>d/uv. I rilasci continui possono a loro volta essere suddivisi in rilasci stazionari e transitori. Anche in questo caso ovviamente la distinzione deve essere intesa dal punto di vista del modello utilizzato per la stima del termine di sorgente, in quanto tutti i rilasci sono intrinsecamente non stazionari. D’altro canto, un rilascio attraverso una piccola apertura che non modifica significativamente le condizioni operative nelle apparecchiature a monte può essere ragionevolmente considerato stazionario. In generale i modelli di sorgente sono utilizzati per stimare la portata e la quantità totale scaricata, la frazione di flash e la formazione di aerosol, la portata di evaporazione da una pozza di liquido. Questi dati sono necessari per la successiva valutazione della dispersione in atmosfera, come riassunto nella Figura 1. La prima valutazione da effettuare riguarda la fase che viene scaricata: liquido, gas o miscela bifase. La fase della sostanza scaricata non dipende in modo univoco dalla posizione della rottura ma anche dalle condizioni operative all’interno del recipiente. Nel caso di un recipiente pieno di gas pressurizzato si avrà il rilascio di una fase gassosa, che può eventualmente condensare parzialmente a seguito dell’espansione, qualunque sia la posizione della rottura. Viceversa, in presenza di due fasi all’interno del recipiente (liquido e vapore) nel caso di rottura nella parte alta del recipiente a contatto con la fase gassosa si potrà avere l’efflusso non solo di una fase vapore ma anche di una miscela di liquido e vapore, cioè di un fluido bifase. Questo avviene quando si ha lo sviluppo di una gran quantità di bolle di gas o vapore all’interno della fase liquida con la conseguente formazione di una schiuma. Se la schiuma che si forma raggiunge il punto di efflusso si ha lo scarico di una miscela bifase. Analogamente, il fatto che l’efflusso avvenga in corrispondenza della parete bagnata del liquido, cioè nella parte bassa del recipiente, non garantisce che il materiale scaricato sia in fase liquida. Se la temperatura di ebollizione normale (cioè a pressione ambiente) del liquido scaricato è inferiore alla temperatura ambiente si ha una rapida evaporazione di parte del liquido (flash) con conseguente scarico di una miscela bifase. Testi di termodinamica dell’ingegneria chimica o un qualsiasi software commerciale di simulazione di processo possono fornire le informazioni necessarie sul comportamento di fase di un fluido, sia puro sia in miscela. Per valutare le condizioni del fluido scaricato è necessario conoscere la trasformazione termodinamica che il fluido compie durante il processo di scarico, partendo dalle condizioni all’interno dell’unità di processo fino a uno stato finale, solitamente a pressione atmosferica.

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Figura 1: diagramma logico relativo al rilascio e dispersione di una sostanza.

Lo stato finale dipende dall’analisi che si vuole effettuare: se si considera come stato finale il getto di fluido in movimento (per esempio lo scarico di un gas attraverso una valvola di sicurezza che va a formare un getto) la trasformazione può solitamente essere considerata isoentropica, mentre se lo stato finale viene considerato in quiete (per esempio una pozza di liquido) la trasformazione può essere approssimata come isoentalpica. In ogni caso un bilancio di energia, accoppiato con delle relazioni di equilibrio termodinamico nel caso in cui si abbia la presenza di una miscela bifase (un fluido puro è in condizioni di equilibrio alla temperatura di ebollizione normale, mentre una miscela cambia continuamente la sua composizione dalla temperatura di bolla a quella di rugiada; la presenza di una miscela bifase si può avere per l’evaporazione di parte di un liquido o per la condensazione di parte di un vapore durante il processo di scarico), consentono la valutazione dello stato del fluido scaricato.

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A parte le condizioni del fluido scaricato, la valutazione della portata scaricata richiede l’assunzione di una sezione di scarico. Se il rilascio avviene attraverso un dispositivo di scarico di emergenza la sezione è nota, mentre se si ipotizza una rottura la dimensione deve essere ipotizzata sulla base della tipologia di incidente analizzata (per esempio, rottura di un tronchetto di tubazione, perdita da flangia, collasso catastrofico di un recipiente). Non vi è un consenso generale sulla sezione di rottura da ipotizzare. Alcuni dei suggerimenti proposti per il caso di rottura di tubazioni (si veda per esempio World Bank, 1985) sono i seguenti:

• 20% e 100% del diametro della tubazione;

• 2” e 4” per la rottura di una qualsiasi tubazione;

• 0.2”, 1”, 4” e 6” per tubazioni di diametro inferiore ai 6”;

• a seconda del diametro della tubazione:

o per tubazioni fino a 1.5” assumere un foro di 5 mm e 100% del diametro;

o per tubazioni da 2” a 6” assumere un foro di 5 mm, 25 mm e 100% del diametro;

o per tubazioni da 8” a 12” assumere un foro di 5 mm, 25 mm, 100 mm e 100% del diametro;

Si vede come le assunzioni possono essere anche marcatamente differenti, portando di conseguenza a significative differenze nella stima finale delle conseguenze. Considerazioni analoghe valgono per la rottura di recipienti o perdite da flange. Purtroppo, come detto, non vi è un consenso unanime sulle ipotesi migliori per definire la sezione di scarico. L’analista deve quindi effettuare una scelta e motivarla adeguatamente sulla base delle ipotesi incidentali effettuate. Analoghi problemi nascono nella definizione della durata del rilascio. Nonostante siano molto utilizzate delle assunzioni generali (tipo 3 o 10 minuti) per tutte le situazioni, poiché le conseguenze finali possono essere condizionate in modo significativo dalla durata del rilascio esso dovrebbe essere stimato sulla base dei tempi caratteristici dei sistemi di rilevazione della perdita e di intervento per l’isolamento della sezione interessata dalla perdita realmente esistenti nell’impianto analizzato. Un’altra assunzione usuale è quella di calcolare la portata scaricata nelle condizioni iniziali, trascurando il fatto che solitamente si ha un rilascio non stazionario la cui portata diminuisce col passare del tempo a causa della depressurizzazione delle unità d’impianto a monte e valle della rottura. Il considerare solo la portata iniziale conduce a valutazioni conservative, che possono però essere eccessivamente gravose. Analoghe considerazioni valgono per la presenza sulla linea di collegamento tra il punto di rottura e l’unità d’impianto di pompe, valvole o altre restrizioni che possono limitare la portata scaricata

2.1 Efflusso monofase liquido Seguendo lo schema logico riassunto in Figura 1, consideriamo come primo caso l’efflusso di un liquido sotto raffreddato, cioè tale che la sua temperatura di ebollizione normale sia superiore sia alla temperatura ambiente sia alla temperatura del fluido. Il fluido scaricato rimane quindi liquido, e la sua portata è definita da diverse variabili in funzione della posizione dell’efflusso. Se si tratta di un foro in un recipiente la portata viene definita dalla pressione nel serbatoio, dal battente di liquido e dalla dimensione del foro. Se viceversa la rottura avviene in una tubazione, la portata dipende dalla configurazione del sistema a monte. L’equazione di partenza in tutti i casi è il bilancio di energia meccanica in regime stazionario:

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022

22

=+Δ+⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛Δ+ ∑∫

uKzgudPfρ

dove Δ indica una differenza tra una sezione dell’impianto e la sezione a valle della perdita, P è la pressione, ρ la densità, u la velocità, z la quota e la sommatoria rappresenta le perdite di carico per attrito, cioè la velocità di trasformazione irreversibile di energia meccanica in energia termica, dovuta al flusso lungo le tubazioni, gomiti, valvole, orifizi, entrata e uscita dalle tubazioni, ecc. I valori dei coefficienti Kf possono essere calcolati attraverso il fattore di attrito di Fanning per il flusso nelle tubazioni e con metodi analoghi per ciascun raccordo (si veda per esempio Perry e Green, 1998; Hooper, 1981; 1988). Per il caso di liquidi incomprimibili (in cui quindi l’integrale presente nel bilancio di energia meccanica può essere facilmente risolto essendo la densità costante), approssimando le perdite di carico attraverso un coefficiente di efflusso CD, costante e definito come:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛Δ+=+Δ+ ∫∑∫ zgdPCuKzgdP

Df ρρ2

2

2

si giunge alla classica espressione per la portata massica scaricata, Q, attraverso un foro in un serbatoio di sezione A:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛Δ+

Δ== zgPACAuQ D ρ

ρρ 2

Il coefficiente di efflusso per moto pienamente turbolento (Re > 30000) attraverso un orifizio a spigolo vivo assume valori compresi tra 0.6 e 0.64; il valore usualmente impiegato è 0.61. In situazioni in cui il valore del coefficiente di efflusso non è noto o calcolabile in modo affidabile è opportuno scegliere un valore unitario per massimizzare la portata scaricata e quindi ottenere risultati conservativi.

2.2 Efflusso monofase gassoso Anche nel caso di efflusso gassoso la portata scaricata è definita da diverse variabili in funzione della posizione dell’efflusso. Se si tratta di un foro in un recipiente la portata viene definita dalla pressione nel serbatoio e dalla dimensione del foro. Se viceversa la rottura avviene in una tubazione, la portata dipende dalla configurazione del sistema a monte. In questo caso per risolvere l’integrale presente nel bilancio di energia meccanica è necessario definire il legame tra P e ρ nella trasformazione termodinamica che il fluido compie durante il processo di scarico. Assumendo che tale legame sia quello di una trasformazione isoentropica,

, è possibile ottenere semplici relazioni per l’efflusso attraverso un orifizio. La portata scaricata attraverso un orifizio aumenta al diminuire della pressione a valle dell'apertura fino a raggiungere un valore massimo in corrispondenza di un valore critico di P:

cost/ =γρP

11

00 12 −

+

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛+

=γγ

γργPACQ D

dove il pedice 0 indica le condizioni all'interno del recipiente. Per un gas perfetto una pressione interna di circa 2 bar è sufficiente per raggiungere le condizioni di scarico sonico all’atmosfera, mentre per un gas reale servono circa 2.4 bar. Per un gas perfetto il coefficiente γ è pari a 1.67 per gas monoatomici, 1.4 per biatomici e 1.32 per triatomici. Per gas reali l'esponente che mette in relazione pressione e densità in una trasformazione isoentropica è diverso da tale rapporto e varia solitamente tra 1.1 e 1.8.

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Come valore di prima approssimazione viene solitamente utilizzato un valore di 1.4. L’influenza del coefficiente di efflusso sulla portata scaricata in realtà non è eccessivo, come mostrato in Figura 2. Per il coefficiente di efflusso valgono le stesse considerazioni fatte per il caso di scarico di fluidi incomprimibili. L’efflusso lungo un tubazione può essere valutato considerando due situazioni limite: efflusso isotermo e adiabatico. La scelta più opportuna è quella adiabatica, poiché porta a una sovrastima della reale portata scaricata.

2.3 Efflusso bifase L’efflusso di una miscela liquido – vapore può essere originato da due diversi fenomeni: una parziale evaporazione della fase liquida che viene scaricata (flash) o un rigonfiamento del volume della fase liquida nel recipiente dovuta alla formazione di schiuma che raggiunge il punto di efflusso. Il primo fenomeno è tipico dei gas liquefatti per compressione che, durante lo scarico, sperimentano pressioni via via decrescenti fino al valore ambiente. Il secondo fenomeno può avvenire quando si ha lo sviluppo di una gran quantità di bolle di gas o vapore all’interno della fase liquida con la conseguente formazione di una schiuma sopra l’interfaccia tra il liquido e il vapore. La rapida formazione di bolle in seno al liquido può avvenire o a causa di una reazione chimica (esotermica, con formazione quindi di vapore, o con prodotti di reazione incondensabili) o a causa di una vivace ebollizione del liquido contenuto a seguito di una rapida depressurizazione. In entrambi i casi, la presenza di liquidi intrinsecamente schiumosi (quali quelli contenenti tensioattivi anche in tracce) o viscosi (con viscosità superiore ai 500 cP) esalta la probabilità di avere un efflusso bifase.

1.1 1.2 1.3 1.4 1.5 1.6 1.7 1.80.9

0.92

0.94

0.96

0.98

1

1.02

1.04

1.06

1.08

1.1

γ

Q( γ

) / Q

( γ =

1.4

)

Figura 2: rapporto tra la portata calcolata per un efflusso gassoso sonico al variare di γ e quella calcolata per γ = 1.4.

Il moto di una miscela bifase ha molti aspetti comuni al moto di un gas. In particolare, in entrambi i casi si deve tenere conto della compressibilità del fluido e la portata massica scaricata presenta un massimo al diminuire della pressione esterna in condizioni critiche.

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Il calcolo della portata bifase scaricata attraverso un orifizio o una tubazione presenta però un elevato grado di complessità correlato con il grande numero di fenomeni coinvolti (trasferimento di energia, materia e quantità di moto tra le fasi, raggiungimento o meno dell’equilibrio termodinamico, presenza di fenomeni di attrito) e con la difficoltà di elaborare modelli matematici in grado di descrivere ciò che accade in maniera sufficientemente precisa ed essere, al contempo, facilmente gestibili. In letteratura esistono diversi schemi di calcolo che forniscono la portata specifica massima, in corrispondenza cioè delle condizioni di efflusso critiche. A questo proposito è importante sottolineare che il calcolo della massima portata scaricabile in determinate condizioni, e quindi rappresenta una ipotesi conservativa se si vuole valutare il termine di sorgente di un incidente, ma non è viceversa conservativa se si vuole calcolare la portata scaricata da una valvola di sicurezza. In quest’ultimo caso la situazione più conservativa è quella che implica la minima portata scaricata, e quindi la massima pressurizzazione del recipiente protetto dalla valvola di sicurezza. Poiché i modelli di efflusso bifase più utilizzati sono stati sviluppati per il dimensionamento dei dispositivi di scarico di emergenza (si vedano per esempio quelli sviluppati all’interno del progetto DIERS, Fisher et al., 1992; Boicurt, 1995), essi devono essere utilizzati con cautela in quanto tendono a sottostimare la portata scaricata. I diversi modelli di calcolo per moto bifase possono essere classificati in funzione di diversi aspetti del fenomeno (per esempio, presenza di flash o meno; velocità relativa tra gas e liquido; ecc.), ma la suddivisione più significativa è quella tra le seguenti due categorie: modelli di equilibrio e modelli di non equilibrio. Ai modelli del primo tipo si ricorre nel caso in cui sia accettabile l’ipotesi che lo scarico avvenga in condizioni di equilibrio termico, meccanico e di trasporto di materia tra le fasi, mentre, quando non si possa ritenere che le condizioni di equilibrio vengono raggiunte, occorre tenere in conto la velocità del trasporto tra le fasi di calore, materia e quantità di moto, il che complica di molto la struttura del modello. Per gli studi di sicurezza i modelli di equilibrio (quale l’HEM, Homogeneous Equilibrium Model) sono generalmente utilizzati. Le equazioni che costituiscono il modello sono i bilanci di materia, energia e quantità di moto, che per il caso di una miscela bifase possono essere scritti come:

cost/ === vuuG ρ 22

0 )(21

21 Gvhuhh +=+=

02

)(4coscos2

22

2

=+++=++⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛+

GvDdzfdzgvdvGvdPdFdzguddP ϑϑ

ρ

dove si sono utilizzate le grandezze massiche medie della miscela liquido -vapore, quali il volume specifico v=vL+x(vG-vL) e l’entalpia specifica h=hL+x(hG-hL), essendo x la frazione massica di vapore. Il volume specifico e l’entalpia del liquido e del vapore possono essere calcolate sulla base di una equazione di stato in funzione di temperatura, pressione e composizione. Le tre equazioni sopra contengono quindi le seguenti incognite: G, T, P, x e composizione delle due fasi, in numero pari a 2NC+2 considerando le equazioni stechiometriche di normalizzazione delle frazioni molari. Mancano perciò 2NC-1 equazioni, cioè una sola equazione nel caso monocomponente. Queste relazioni sono le condizioni di equilibrio tra le fasi, date dalla semplice P=P0(T) per il caso monocomponente. Il modello HEM è raccomandato per il dimensionamento dei sistemi di scarico di emergenza in quanto tende a sottostimare la portata scaricata. Nell’ambito della valutazione delle conseguenze di un incidente questo porta viceversa a sottostimarne l’entità.

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La risoluzione del sistema di equazioni sopra riportato è inoltre abbastanza onerosa e vengono quindi solitamente utilizzati approcci semplificati. Nel caso in cui la pressione allo scarico sia superiore alla tensione di vapore del composto alla temperatura del recipiente (liquido sottoraffreddato) il flash non avviene lungo lo scarico ma nella gola, e quindi alla pressione atmosferica, producendo l’unico effetto di mantenere la pressione in gola pari a PV(T0). Il fenomeno si può quindi approssimare come uno scarico liquido tra la pressione interna (P0) e la tensione di vapore alla temperatura ambiente (pari a quella del recipiente):

( ) LVsub TPPG ρ)(2 00 −= in cui si è assunto un coefficiente di efflusso unitario. Nel caso di scarico di liquido saturo (tale cioè per cui la pressione allo scarico sia pari alla tensione di vapore) e considerando un orifizio o un corta tubazione è ragionevole assumere che non vi sia evaporazione fino alla gola in cui si raggiungono le condizioni di efflusso critico. In questo caso, le equazioni del modello HEM possono essere ricondotte alla forma (assumendo che la variazione di volume specifico nell’efflusso sia principalmente dovuta alla variazione di titolo del vapore e utilizzando la relazione di Clapeyron):

PLG

ev

PLGL

evERM TCv

HTCv

HG 11 Δ≈

Δ=

Questa relazione è una forma semplificata del cosiddetto modello ERM (Equilibrium Rate Model) e fornisce valori di G leggermente superiori al modello HEM. Se la lunghezza della tubazione di scarico è molto breve (dell’ordine di alcuni millimetri) il liquido non ha il tempo di evaporare lungo il tratto di tubazione e la portata scaricata viene calcolata utilizzando semplicemente la relazione di Bernoulli tra la pressione interna e quella esterna:

( ) Lab PPG ρ−= 02 Queste due equazioni possono essere interpolate per fornire una relazione generale:

NGG ERM

22 =

dove N è un parametro che tiene conto della lunghezza della regione di efflusso. Come detto, se la lunghezza della tubazione attraverso cui il fluido viene scaricato è molto breve (come nel caso di efflusso da un foro in un serbatoio) il liquido non ha tempo di evaporare nemmeno in gola ed il flash avviene dopo lo scarico in atmosfera. In questo caso la portata di efflusso può essere calcolata come quella di un liquido incomprimibile e la definizione di N è tale per cui la relazione sopra si riconduce, in queste condizioni, all’equazione di Bernoulli. L’influenza della distanza di scarico sulla portata scaricata è schematizzata nella Figura 3. Si nota come la massima portata scaricata la si ha nel caso di efflusso di solo liquido, in condizioni cioè di piccola distanza di scarico (inferiore a 100 mm). Le equazioni viste in precedenza possono essere combinate per fornire una relazione generale nella forma (detta di Fauske e Epstein):

NGGAQ ERM

sub

22 +=

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L’approccio precedente non consente di tenere conto della presenza di composti incondensabili, come avviene per esempio nel caso di reazioni chimiche con produzione di gas. In questo caso, un approccio più generale è simile a quello per lo scarico di una fase gassosa e prende origine dalla equazione di bilancio di energia meccanica scritta a cavallo

Figura 3: Influenza della lunghezza del tratto di scarico sulla portata di efflusso di una miscela in grado di dare flash. (- -) equazione di efflusso bifase; (---) equazione di Bernoulli.

della sezione di scarico. Questo, come discusso in precedenza, fornisce la portata specifica scaricata, G, pur di introdurre nell’integrale una relazione tra la pressione e la densità in grado di rappresentare la trasformazione termodinamica nel processo di rilascio di una miscela bifase. Assumendo che tale relazione sia quella ottenibile dalle equazioni caratteristiche di un flash isoentalpico si può ottenere una relazione generale approssimata del tipo:

1111 +⎟⎠⎞

⎜⎝⎛ −=

PPω

ρρ

basata sulle seguenti ipotesi: le proprietà fisiche sono valutate alle condizioni di ristagno; il titolo del vapore non varia durante l’efflusso; νG>>νL (che è sempre ragionevole lontano dal punto critico, cioè per T/TC<0.9 e P/PC<0.5 dove in questo caso il pedice C indica il punto critico termodinamico del fluido in esame); il calore di evaporazione e il calore specifico del liquido sono assunti costanti. Per ω=0 si ritrova l’equazione di un liquido incomprimibile, mentre per ω=1 quella di un gas perfetto soggetto a una trasformazione isoterma. Per ω>1 si hanno sistemi che evaporano (cioè liquido-vapore, il cui volume specifico, a causa della evaporazione, aumenta più di quello di un gas soggetto alla stessa diminuzione di pressione isoterma) e per ω<1 si hanno sistemi che non evaporano (cioè liquido - gas, il cui volume specifico, a causa della presenza del liquido incomprimibile, aumenta meno di quello di un gas soggetto alla stessa diminuzione di pressione isoterma). Il valore del parametro ω può essere stimato utilizzando i risultati di calcoli di flash isontalpico per il sistema in esame:

1/1),(/),(

−−

≈A

AA

PPPTvPTvω

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dove le condizioni nel punto “A” sono quelle calcolate da un flash isoentalpico a PA=(0.8÷0.9)P. In alternativa, ω può anche essere calcolato in prima approssimazione tramite le proprietà della sostanza scaricata alle condizioni iniziali P0 e T0 (entalpia di evaporazione, Hfg,0, calore specifico del liquido, Cpl, variazione di volume specifico tra liquido e gas, νfg,0, densità, ρ0, e grado di vuoto, α0). La Tabella 1 riassume le relazioni da utilizzarsi per le differenti condizioni. Tabella 1: espressioni per ω nei diversi casi.

Inserendo questa relazione nel bilancio di energia e risolvendo l’integrale (in pratica quindi il metodo omega non è altro che un modello HEM semplificato attraverso l’uso dell’equazione che rappresenta la trasformazione isoentalpica, e quindi conserva tutte le caratteristiche, positive e negative, del modello HEM) si può ottenere una relazione che, analogamente al caso di efflusso di gas, presenta un massimo in condizioni critiche. Tali condizioni sono raggiunte per un valore di CPP ηη == 0 che può essere approssimato dalla relazione:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛ −−−⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛

−≈

sVC ωη

ωω

ωηη2

121112

2

dove 00 )( PTPVV =η . La relazione precedente ammette soluzioni reali solo per valori di ( ) ωωη 212 −≥V . In queste condizioni (di “basso sottoraffreddamento”) il fluido evapora prima di raggiungere la sezione di gola e la portata specifica scaricata in condizioni critiche può essere calcolata come:

ωη

ρ cPG 00=

Per valori di ( ) ωωη 212 −<V il fluido risulta eccessivamente sottoraffreddato e non ha il tempo di evaporare prima di raggiungere le condizioni di gola. In questo caso la portata scaricata può essere posta pari al valore Gsub discusso in precedenza. Un confronto tra i valori ottenuti con le relazioni precedenti è riportato in Figura 4. La tendenza del modello HEM implementato secondo il metodo omega a sottostimare la portata scaricata è riassunta nella Figura 5 per il caso di scarico di freon 12.

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Figura 4: confronto tra i valori della portata scaricata stimati con diverse relazioni per un efflusso di cloro. Bernoulli si riferisce a uno scarico liquido; VP limited a Gsub; LG low al metodo omega; FE combination al modello di Fauske e Epstein.

Figura 5: rapporto tra le portate di freon 12 calcolate col metodo omega e quelle scaricate.

La presenza di tubazioni di una lunghezza non trascurabile tra il recipiente e lo scarico richiede la soluzione numerica del modello HEM lungo la tubazione. Come prima approssimazione, è possibile utilizzare le equazioni precedenti valide per fluidi non eccessivamente sottoraffreddati con un coefficiente correttivo funzione del rapporto lunghezza/diametro della tubazione. Per esempio, si introduce un coefficiente di efflusso nella relazione GERM:

PLG

evD TCv

HCG 1Δ≈

i cui valori sono riportati in Tabella 2. Anche il metodo omega può essere utilizzato in forma approssimata in presenza di tubazioni. Una volta calcolata la portata specifica scaricata in assenza di tubazioni in condizioni critiche, e assumendo un valore costante del fattore di attrito (f~0.005 è un valore spesso adeguato per

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moto turbolento; non si considera quindi il caso di fluidi particolarmente viscosi), il grafico riportato in Figura 6 consente la valutazione delle perdite di carico. Tabella 2: valori del coefficiente di efflusso in presenza di tubazioni.

L/D 0 50 100 200 400 CD 1 0.85 0.75 0.65 0.55 Lo stesso grafico riporta i valori della Tabella 2 calcolati assumendo un valore di f=0.005. si nota come la riduzione della portata prevista dal modello ERM coincide praticamente con quella prevista dal metodo omega per un valore di ω=5. Tutti questi approcci semplificati si basano sull’ipotesi che il fluido scaricato sia assimilabile a un composto puro, nel senso che la tensione di vapore sia univocamente correlata alla temperatura da una relazione tipo Clapeyron. La presenza di miscele richiede la soluzione del modello HEM, complicando significativamente i conti. La portata scaricata in caso di efflusso bifase sarà sempre compresa tra quelle calcolate assumendo lo scarico monofase, vapore e liquido rispettivamente. La stima effettuata considerando uno scarico liquido rappresenta quindi la situazione più conservativa dal punto di vista della stima delle conseguenze.

Figura 6: rapporto tra la portata scaricata in presenza di una tubazione orizzontale a valle dell’orifizio e la portata scaricata da un orifizio secondo il metodo “omega” (---) e il metodo di Fauske e Epstein (o).

Il calcolo della portata scaricata nel caso di efflusso monofase stazionario è possibile utilizzando un simulatore di processo. Anche pacchetti di simulazione delle conseguenze (SAFIRE, AIChE; EFFECTS4, TNO; PHAST, DNV; SUPERCHEMS, Arthur D. Little; ecc.) contengono sottocodici per la stima della portata di efflusso.

2.4 Flash Quando un liquido surriscaldato viene rilasciato in atmosfera si trova in una condizione instabile che provoca una rapida evaporazione. Lo stato finale della trasformazione dipende dall’analisi che si vuole effettuare: se si considera come stato finale il getto di fluido in movimento la trasformazione può solitamente essere considerata isoentropica, mentre se lo

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stato finale viene considerato in quiete la trasformazione può essere approssimata come isoentalpica. Solitamente, anche se non sempre, le differenze tra le due situazioni sono trascurabili. La frazione evaporata può essere calcolata sulla base dei bilanci di materia ed energia, e delle relazioni di equilibrio liquido – vapore. Simulatori di processo standard (per esempio, PRO-II, HY-SYS, ASPEN PLUS, ecc.) possono essere utilizzati per calcolare la frazione di materiale evaporata anche nel caso si miscele complesse. Una prima stima, considerando composti puri con grandezze chimico – fisiche costanti con la temperatura, può essere effettuata con la relazione (TNO, 1992):

( )⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛−

Δ−=

−= 0

0

0 exp1 TTHC

mLmx eb

ev

LP

2.5 Formazione di aerosol e rain-out La frazione di flash rappresenta una sottostima della portata di vapori che si possono generare a seguito di un rilascio in atmosfera. Il principale motivo è rappresentato dalla formazione di goccioline che, se abbastanza piccole, possono formare una nebbia ed evaporare rapidamente a causa dell’aria richiamata nella nube o, nel caso contrario, ricadere al suolo e formare una pozza. Quest’ultima situazione si presenta per esempio quando il getto bifase va ad impattare contro una superficie e/o il suolo posta in prossimità dell’efflusso; si verifica una inibizione nell’evaporazione delle goccioline a causa del limitato richiamo di aria e del raffreddamento, che favoriscono la ricaduta (rain-out) del liquido. Il bilancio di materia totale per il fluido rilasciato è il seguente:

Mtotale = Mflash + Maerosol + Mrain-out da cui, noti due dei termini a destra (Mflash = xv Mtotale), si può ricavare il terzo, solitamente Maerosol o Mrain-out. Le goccioline si possono formare meccanicamente o termicamente. Il primo meccanismo nasce dallo sforzo di taglio tra un getto di liquido scaricato ad alta velocità e l’aria circostante ed è quindi attivo anche per liquidi non surriscaldati. Il secondo meccanismo è basato sulla violenta evaporazione di parte del liquido a causa del flash che causa la formazione di goccioline. Il principale problema in questo caso è rappresentato dalla stima della dimensione delle gocce che si formano. Infatti la dimensione determina la possibilità per la goccia di rimanere sospesa in aria per un tempo sufficiente ad evaporare; indicativamente questo avviene per gocce di dimensioni inferiori ai 100 μm se la velocità del vento è superiore ai 2 m/s e il rilascio avviene ad almeno 1 – 2 m dal suolo. Purtroppo non vi è ancora un generale consenso sulle metodologie da utilizzare per la stima del diametro. Generalmente tali metodologie prevedono la stima del diametro medio delle gocce che si formano sulla base di un numero critico di Weber, eventualmente modificato per tener conto dell’energia contenuta nel liquido, pari a 10 – 20 (Fthenakis, 1993), seguita dalla valutazione della velocità di sedimentazione di tali gocce e quindi dal calcolo del tempo che tali gocce rimangono nella nube. La metodologia descritta è simile a quella su cui si basa il codice RELEASE del CCPS (1999) che però porta a determinare una frazione di rain-out maggiore di 4-5 volte rispetto a quella osservata sperimentalmente. Per questo motivo si è proposto recentemente un diverso modello (De Vaull & King, 1992) che dà risultati più vicini all’evidenza sperimentale. In esso si definisce la sostanza volatile se:

14,0≥−

amb

asamb

TTT

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dove Tas è la temperatura di saturazione adiabatica, stimata considerando una miscela bifase all’equilibrio e calcolando la temperatura che si raggiunge durante il miscelamento con aria finché esiste l’ultima goccia di liquido. La frazione di rain-out viene definita nel modo seguente: • per sostanze non volatili:

( ) ( )⎥⎥⎦

⎢⎢⎣

Δ

−−−=

⎥⎥⎦

⎢⎢⎣

Δ

−−=

vap

asBplP

vap

aslPOR H

TTcx

HTTc ,0,

. 11η

con T0 = temperatura di stoccaggio e x = frazione (massica) di flash • per sostanze volatili

( )⎪⎭

⎪⎬⎫

⎪⎩

⎪⎨⎧

⎥⎥⎦

⎢⎢⎣

Δ

−−=

8,1

0,. 145.0

11Vap

BplPIOR H

TTcηη

valida se ( )

145,00, <

Δ

vap

BplP H

TTc

Altrimenti ηR.O = 0 Nelle relazioni precedenti ηI = 1 - 2,33 ((Tamb-Tas)/Tamb) e TBp è la temperatura di ebollizione normale. Utilizzando queste relazioni si ottengono buoni risultati nel caso di rilascio di cloro, come mostrato nella Figura 7.

Figura 7: Confronto tra i valori misurati e quelli calcolati per la frazione di rain-out.

Da notare che questa correlazione non porta al 100% di Rain-out man mano che il grado di surriscaldamento (T – TBp) 0 per le sostanze volatili, mentre per le sostanze non volatili si comporta meglio poiché non risente del peso del fattore di scala ηI . Tutte le correlazioni riportate in precedenza scontano la grossa limitazione di essere state sviluppate sulla base di un solo set di risultati sperimentali. Non è quindi detto che abbiano una validità generale. Un modello senz’altro più accurato (implementato per esempio in PHAST) risolve le equazioni che descrivono la traiettoria e l’evaporazione per la singola goccia, ma richiede di

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analizzare un certo numero di diametri della goccia rappresentativi dell’effettiva distribuzione delle dimensioni delle gocce. L’incertezza ancora insita nella stima della frazione di liquido che rimane nella nube si scontra con l’importanza che tale stima ha nella valutazione delle conseguenze successive. Infatti la presenza di aerosol non solo aumenta la portata di vapori presente nella nube, ma soprattutto ne aumenta la densità sia per la presenza di goccioline, sia per l’abbassamento della temperatura della nube causata dall’evaporazione del liquido (che può eventualmente portare a una condensazione dell’umidità atmosferica con un’ulteriore aumento della densità della nube). Come conseguenza, nubi di gas che normalmente sarebbero più leggere dell’aria si comportano viceversa come gas densi. Da questo punto di vista, considerare una frazione di aerosol che venga inglobata nella nube ed evapori istantaneamente a contatto con l’aria non porta a risultati conservativi. Un approccio molto utilizzato è quello di assumere che una massa pari a 1 – 2 volte quella evaporata rimanga inglobata nella nube come aerosol. Questo approccio purtroppo non solo non ha alcuna base teorica, ma è anche molto probabilmente poco accurato. Esso può condurre anche a sottostime grossolane della quantità di vapore presente nella nube, visto che si è notato sperimentalmente che solo una piccola parte delle goccioline formatesi a seguito del flash ricadono al suolo. Questo è vero anche per frazioni di flash contenute, dell’ordine del 10%. Alcune delle correlazioni semiempiriche proposte per la stima della frazione di rain-out sono riassunte nella Tabella 3. Tabella 3: correlazioni per la stima della frazione di rain-out.

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2.6 Evaporazione da pozza La frazione di liquido che non evapora istantaneamente e non rimane inglobata nella nube come aerosol forma una pozza che evapora. A seconda delle proprietà chimico fisiche del composto diversi fenomeni controllano la velocità di evaporazione. Nel complesso, i fenomeni che causano la evaporazione di un liquido sono il trasporto di materia, legato ai gradienti di concentrazione tra la superficie del liquido e l’atmosfera circostante, e il riscaldamento dovuto allo scambio termico con l’atmosfera, all’irraggiamento solare e allo scambio termico col terreno sottostante. Questi scambi termici sono bilanciati dal calore necessario al liquido per la sua parziale evaporazione. Il trasporto di materia è il fenomeno controllante nel caso di liquidi non bollenti, caratterizzati cioè da una temperatura di ebollizione normale superiore alla temperatura ambiente, mentre gli scambi termici di varia natura controllano la evaporazione di gas liquefatti per raffreddamento, come il GNL. Una terza situazione è rappresentata dai gas liquefatti per compressione (per esempio, GPL) che allo scarico vaporizzano parzialmente (flash), trascinando con sé una considerevole quantità di liquido sotto forma di aerosol. Il liquido non trascinato, giunto alla sua temperatura di ebollizione, forma una pozza che evapora. Nel caso di liquidi non bollenti, cioè caratterizzati da una temperatura di ebollizione normale superiore alla temperatura ambiente, la portata di evaporazione è determinata dal trasporto di materia dalla superficie del liquido all’atmosfera, in quanto essendo le portate in gioco piccole lo scambio termico con l’ambiente non è solitamente un fattore limitante.

Figura 8: Errore relativo nel calcolo della portata evaporante con la formula valida per bassi flussi.

La portata evaporante si calcola utilizzando un coefficiente fenomenologico di trasporto di materia e assumendo che all’interfaccia tra il liquido e l’atmosfera vi sia equilibrio tra il liquido e il vapore. Per basse portate evaporanti, quale è solitamente il caso per liquidi non bollenti, la portata può essere calcolata come:

( )RT

TMPAKQ LVC=

dove M è il peso molecolare, R la costante dei gas perfetti, TL la temperatura del liquido, PV la tensione di vapore e KC il coefficiente di trasporto di materia. L’errore commesso utilizzando questa formula al variare della tensione di vapore del composto è riportato in

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Figura 8. In assenza di vento il coefficiente di trasporto può essere stimato sulla base del valore noto di quello di un composto, solitamente l’acqua (KC=0.83 cm/s):

3/11883.0

⎟⎠⎞

⎜⎝⎛≈

MKC

In presenza di vento si possono utilizzare le classiche relazioni basate sui numeri adimensionali:

⎩⎨⎧

>−<

=320000Re)15200(Re037.0320000ReRe664.0

8.03/1

2/13/1

ScSc

Sh

dove Sc=ν/D è il numero di Schmidt (ν è la viscosità cinematica), Re=uL/ ν il numero di Reynolds (u è la velocità del vento e L la dimensione caratteristica della pozza) e Sh=KCL/D il numero di Sherwood. Sono disponibili anche correlazioni empiriche basate su esperimenti in scala reale del tipo (McKay e Matsuga, 1973):

11.078.010002.0 −= LuKC

dove u=velocità del vento a 10 m di quota [m/s] e L dimensione caratteristica della pozza [m] per ottenere il coefficiente in [m/s]. Un confronto tra i due approcci è presentato in Figura 9. Si nota come le stime fornite dalle due relazioni sono praticamente coincidenti per dimensioni superiori ai 5 m. Per piccole pozze le differenze sono percentualmente elevate, ma piccole in valore assoluto. Nel caso multicomponente la stima si complica a causa dell’evaporazione preferenziale dei composti più volatili e richiede la caratterizzazione delle condizioni di equilibrio liquido – vapore della miscela. Assumendo che valga la legge di Raoult e che la pozza liquida sia ben miscelata, si può estendere la precedente formula alle miscele. Dividendo la portata di evaporazione per il peso molecolare del componente i e sapendo che la sua frazione molare in fase liquida è xi = ni/nT, si ottiene la portata molare di evaporazione del singolo componente:

( )iii

i

gi

t

Cii nkn

MT

nkA

dtdnQ =−==

ρ

ove ki è il coefficiente (empirico) di trasferimento di materia. Integrando si ottiene la quantità di ciascun composto che rimane in fase liquida dopo un certo tempo (e, per differenza, quella evaporata):

)exp(0 tknn iii −= Per miscele di prodotti petroliferi, aventi un ampio intervallo di ebollizione, la portata di evaporazione e la conseguente quantità Fliquid rimanente al tempo t dall’inizio dello sversamento può essere stimata dalla curva di distillazione ASTM della miscela, mediante la seguente relazione:

)exp(N

i

tkfF iiliquid −= ∑

ove i è la percentuale volumetrica del “taglio” sulla curva di distillazione, fi è la frazione volumetrica di materiale distillato prima/dopo il taglio i-esimo e ki è la costante di evaporazione della frazione i-esima alla temperatura di ebollizione media del taglio.

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0 5 100

2

4

6

velocita vento, m/s

porta

ta, k

g/h

0 5 100

50

100

150

velocita vento, m/s

porta

ta, k

g/h

0 5 100

200

400

600

velocita vento, m/s

porta

ta, k

g/h

0 5 100

500

1000

1500

velocita vento, m/s

porta

ta, k

g/h

Figura 9: portata evaporante al variare della dimensione caratteristica della pozza. Tratto continuo: relazione empirica; tratto discontinuo: relazione basata sul numero di Sherwood. In senso orario: L=1, 5, 10 e 20 m.

Solitamente, da 5 a 11 punti sulla curva di distillazione sono sufficienti per avere una stima accurata della portata di evaporazione. Se la curva di distillazione non fosse disponibile ci si può riferire alla temperatura alla quale il 30% del materiale distilla e determinare il corrispondente valore di k. Nel caso di pozze di composti ad una temperatura pari alla temperatura di ebollizione normale, la portata di evaporazione è determinata dal trasporto di calore dall’ambiente circostante alla pozza di liquido, in quanto essendo le portate in gioco elevate il trasporto materiale non associato al trasporto di calore non è solitamente significativo, almeno nelle prime fasi dell’evaporazione. La portata evaporante si calcola in questo caso sulla base della potenza termica trasmessa al fluido utilizzando un bilancio di energia sulla pozza:

evP HQHdtdTmC Δ−=

dove H è la potenza termica trasmessa alla pozza dall’ambiente circostante (convezione e conduzione dall’aria, conduzione dal terreno, irraggiamento solare o da un incendio vicino, ecc.) e Q la portata evaporante. Nel primo periodo dopo il rilascio il termine dominante è solitamente il trasporto di calore per conduzione dal terreno sottostante. Man mano che il tempo passa il terreno si raffredda sempre più in profondità, lo scambio termico con la pozza di liquido diminuisce e gli altri contributi possono diventare dominanti. La potenza termica trasmessa per conduzione dal terreno viene solitamente stimata approssimando il terreno stesso a un mezzo semi infinito, anche se questo approccio non viene unanimemente considerato conservativo. Per liquidi criogenici sversati su terreno si ottiene la seguente semplice relazione dalla risoluzione dell’equazione di Fourier:

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( ) 212

112

Lgev

evap TTHXkQ −⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛

Δ=

πα

Ove k è la conducibilità termica del substrato, α è la diffusività termica del substrato, ΔHev è l’entalpia di vaporizzazione, TL è la temperatura iniziale della sostanza e Tg quella del suolo. X è un parametro correttivo che tiene conto delle caratteristiche di porosità del suolo e vale 1 per suolo non poroso e 3 per suolo poroso (es. ghiaia, sabbia, etc.) a causa della maggiore area che contribuisce al trasferimento di calore. Proprio le caratteristiche termiche del terreno sono molto variabili e spesso incognite. A titolo di esempio, la Figura 10 riporta un confronto tra le portate evaporanti da una pozza di GNL su due diverse superficie. Si nota come le differenze indotte dalle caratteristiche termiche del terreno non sono trascurabili. Qualora lo sversamento avvenga su acqua e non su terreno (e non si abbia il congelamento) la portata di evaporazione specifica dovuta allo scambio termico è molto superiore e può ritenersi costante a causa dell’elevata capacità termica del substrato e dei moti convettivi che evitano il suo progressivo raffreddamento (il valore della portata di evaporazione specifica per il GNL su acqua è di 0.175 kg/m2/s che corrisponde ad una velocità di regressione della superficie liquida di 4.2 E-4 m/s).

2.7 Dimensione della pozza Nel caso di rilasci, sia continui sia istantanei, gioca un ruolo fondamentale la dimensione della pozza, che è nota solo nel caso di rilascio in un bacino di contenimento (almeno se il volume rilasciato è in grado di coprire l’intera superficie del bacino). La dimensione della pozza compare direttamente nella relazione per il calcolo della portata evaporante di fluidi non bollenti e indirettamente, in quanto definisce il termine di scambio termico, H, nell’equazione di bilancio di energia sulla pozza di liquidi bollenti. Infatti, la maggior parte dei codici sofisticati risolve simultaneamente le equazioni che governano lo spandimento e l’evaporazione dei liquidi; tra questi è da annoverare il codice GASP dell’AEA (ex SRD).

0 20 40 60 80 10010

1

102

103

tempo, s

port

ata,

kg/

s

Figura 10: confronto tra le portate evaporanti da una pozza di 500 m2 di GNL su terreno (- -) e calcestruzzo (---).

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Per rilasci non confinati la dimensione della pozza si allarga fino a quando lo spessore della pozza non raggiunge un valore limite che dipende sia dalle caratteristiche del composto scaricato, sia dalle caratteristiche del terreno. La stima di questa dimensione limite rappresenta il principale limite in queste valutazioni. Valori tipicamente utilizzati variano da 5 a 10 mm, ma questi valori, oltre ad essere fortemente influenzati dalla rugosità del terreno, non hanno fondamenti teorici. Le dimensioni della pozza al variare del tempo possono essere stimate con relazioni semiempiriche derivate dalla equazione di conservazione dell’energia. Per rilasci continui completamente inconfinati, su di una superficie liscia e che si espandono radialmente in tutte le direzioni, la dimensione della pozza in funzione del tempo può essere stimata con la relazione:

4/1

23

23 sincos6)( ⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛≈

μπββρ

CQgttR

dove Q è la portata volumetrica scaricata, R è il raggio della pozza, t il tempo, C è una costante empirica il cui valore (tra 2 e 5) dipende da un numero di Reynolds modificato e β è l’angolo sulla verticale della superficie della pozza. Tale relazione fornisce risultati simili alla seguente (come mostrato nella Figura 11), che può essere derivata sempre dal bilancio di energia sulla pozza introducendo approssimazioni più drastiche:

4/34/1

34)( tCgQtR ⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛≈

π

dove Q è la portata volumetrica scaricata, R è il raggio della pozza, t il tempo, C è una costante empirica del valore di 1.08 e g l’accelerazione di gravità. Queste relazioni assumono che lo spandimento avvenga su di una superficie liscia e quindi forniscono una sovrastima della dimensione della pozza. La dimensione di una pozza originatasi da un rilascio istantaneo può essere stimata con una relazione analoga:

20

20)( tCghRtR +≈

dove R è il raggio della pozza, t il tempo, il pedice 0 indica le condizioni iniziali, C è una costante empirica del valore di 1.08, g l’accelerazione di gravità e h l’altezza della pozza. Il principale problema nell’utilizzo di questa relazione è la necessità di ipotizzare una forma e una dimensione iniziale della pozza, di solito assunta cilindrica con dimensioni simili a quelle del recipiente che collassando origina il rilascio istantaneo. La dimensione finale della pozza risulta limitata da impedimenti fisici (ostacoli), quali i muri dei bacini di contenimento, o dal raggiungimento di un minimo spessore in relazione alle caratteristiche di rugosità del substrato (quest’ultimo è varia da pochi mm, se su acqua, fino a 25 mm, se trattasi di sabbione).

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0 50 100 150 200 250 300 350 400 45010

-1

100

101

102

tempo, s

ragg

io, m

Figura 11: confronto tra le dimensioni di una pozza di acqua su di una superficie liscia calcolate con le due relazioni precedenti.

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3 Dispersione In funzione di parametri legati alle caratteristiche chimico fisiche dell’inquinante emesso, alle caratteristiche dell’immissione e, infine, alle caratteristiche meteorologiche e topografiche della zona, l’inquinante si “disperde” nell’atmosfera, cioè si diluisce con l’aria riducendo la propria concentrazione. Le problematiche legate alla diluizione di specie inquinanti nell'atmosfera vengono genericamente raccolte sotto la denominazione di “dispersione in atmosfera”. Il termine dispersione non corrisponde ad un preciso meccanismo di trasporto, ma riassume la molteplicità degli eventi attraversati dall'inquinante nell'atmosfera. Dopo l'immissione nell'atmosfera le specie inquinanti percorrono una certa distanza basata principalmente sul trasporto da parte del vento. Durante questo spostamento le specie possono reagire per trasformarsi chimicamente. In presenza di gocce o particelle si possono determinare fenomeni di adsorbimento e assorbimento con la possibilità di una successiva reazione. Il trasporto può condurre gli inquinanti a quote sempre più elevate ovvero terminare per diversi fenomeni di interazione con la superficie terrestre. Le specie inquinanti possono trovarsi anche in fase condensata (liquido o solido) già all'emissione. In tal caso assumono rilevanza i fenomeni di coalescenza, inerziali, gravitazionali e di transizione di fase. Come detto in precedenza, uno scarico è assimilato a un’emissione continua (che forma cioè un pennacchio) o istantanea (che forma una nube trasportata dal vento) in funzione del rapporto tra il tempo che l’inquinante impiega a coprire la distanza tra la sorgente e il ricettore (stimato pari al rapporto tra la distanza sorgente - ricettore e la velocità del vento) e la durata dello scarico. Nel caso di emissione continua un dato ricettore è esposto a una concentrazione costante nel tempo (se sono costanti le caratteristiche meteorologiche e dello scarico), mentre per un’emissione istantanea un ricettore è esposto a una concentrazione che inizialmente cresce nel tempo, per raggiungere un valore massimo e poi ritornare a zero dopo il passaggio della nube. In entrambi i casi, se il rapporto tra la dimensione della sorgente e la distanza del ricettore dalla sorgente è piccolo è possibile considerare la sorgente come puntuale, cioè priva di dimensioni. Viceversa è necessario tenere conto delle reali dimensioni della sorgente. Nella zona vicino alla sorgente le caratteristiche del pennacchio (o della nube) risentono fortemente delle modalità di emissione (quali il tipo di gas scaricato, o la direzione, velocità e temperatura dello scarico), mentre allontanandosi dalla sorgente la quantità di aria inglobata diviene predominante e le caratteristiche del pennacchio o della nube risultano definite prevalentemente dalle caratteristiche dell’aria inglobata. Più in dettaglio, si possono distinguere tre regioni a valle dello scarico in atmosfera: una prima regione, in prossimità dello scarico dove possono prevalere le forze inerziali, una seconda dove possono prevalere le forze di galleggiamento, e una terza dove il pennacchio è ormai così diluito da non avere più memoria della sorgente che lo ha originato se non per la presenza dell’inquinante che viene man mano diluito grazie ai moti turbolenti dell’atmosfera. La prima e la seconda regione possono essere presenti o meno a seguito di un rilascio in funzione delle caratteristiche della sorgente, mentre la terza regione è sempre presente. Le caratteristiche della sorgente che influenzano la prima regione sono essenzialmente la velocità dello scarico (che fornisce una certa quantità di moto al pennacchio o alla nube che si forma) e la sua direzione. Nel caso in cui il rilascio sia diretto verso l’alto la quantità di moto tende a trascinare il pennacchio o la nube verso quote più elevate. Un fenomeno analogo avviene nel caso in cui la densità del gas sia inferiore a quella dell’aria, quando cioè siano significativi gli effetti di galleggiamento legati alle forze gravitazionali. Anche in questo caso l’effetto che ne consegue è un innalzamento dei fumi fino al

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raggiungimento di una situazione di equilibrio termico (gas “leggeri”). Entrambi questi contributi portano a conseguenze analoghe a quelle che si hanno aumentando la quota di emissione, si ha cioè una riduzione della ricaduta al suolo in quanto aumenta il cammino che l’inquinante deve percorrere prima di arrivare al suolo e quindi il tempo a disposizione per diluirsi con l’aria ambiente. Maggiori ricadute si riscontrano viceversa quando la sorgente scarica verso il basso, quando la densità è superiore a quella dell’aria (gas “pesanti”), e in generale quando esso è trascinato verso il suolo. Questo può accadere anche nel caso in cui il camino sia in prossimità (o sopra) edifici, in quanto a valle dell’edificio il vento forma una scia che tende a catturare il pennacchio e a trascinarlo verso terra, oppure quando la velocità di scarico è insufficiente rapportata alla velocità del vento. In questo ultimo caso i fumi rimangono intrappolati nella scia del camino stesso. Esauriti gli effetti legati alla sorgente, cosa che sempre accade quando il pennacchio o la nube sono sufficientemente diluiti dall’aria dell’atmosfera, il fenomeno di diluizione dell’inquinante è dominata dai moti turbolenti dell’atmosfera che provocano un ingresso di aria all'interno del pennacchio o della nube e, di conseguenza, un aumento delle sue dimensioni e una diminuzione dei valori di concentrazione al suo interno. La meteorologia gioca un ruolo fondamentale nella dispersione degli inquinanti, in quanto definisce l’intensità della turbolenza e quindi la velocità del trasporto materiale nell’ultima fase della dispersione, solitamente indicata come dispersione “passiva”. In particolare, la direzione e velocità del vento sono tra i fattori più importanti. La direzione del vento determina la direzione verso cui si muove il pennacchio o la nube, e quindi la regione interessata dalla ricaduta dell’inquinante. L’influenza della velocità del vento può essere intuita schematizzando in maniera grossolana il fenomeno della dispersione atmosferica come una miscelazione tra la corrente scaricata dalla sorgente e la corrente di aria portata dal vento: tanto maggiore è la velocità del vento, tanto maggiore è la portata di aria e quindi la diluizione del composto scaricato. Come detto, il terzo fattore di grande importanza è la turbolenza atmosferica: infatti, la dispersione dell’inquinante in atmosfera non avviene per diffusione molecolare (che è un fenomeno estremamente lento), ma attraverso il movimento di vortici di aria che nel loro moto trasportano energia, quantità di moto e l’inquinante immesso dalla sorgente. La capacità complessiva di una condizione meteorologica di disperdere un inquinante è chiamata “stabilità”. Un’atmosfera “stabile” tende a smorzare i movimenti di un volumetto di aria, mentre un’atmosfera “instabile” tende a esaltarne gli spostamenti favorendo di conseguenza la dispersione. Infine, sia la topografia sia la presenza di ostacoli in prossimità della sorgente possono influenzare marcatamente la dispersione. Nei modelli più semplici si considera la sorgente localizzata a una certa quota su di una superficie piana. Questo caso limite è ben approssimato da molte situazioni reali, in quanto rispetto alle distanze caratteristiche di un pennacchio o di una nube la presenza di edifici o di piccole variazioni di quota del terreno rappresenta semplicemente una rugosità superficiale, in grado cioè di influenzare marginalmente alcuni fenomeni (quali il profilo verticale di velocità del vento) ma non le caratteristiche principali della dispersione. Inoltre, esiste sempre la possibilità di reazioni chimiche tra il composto scaricato e i componenti l’atmosfera. La esatta valutazione degli effetti di una reazione chimica sulla dispersione dell’inquinante va pesata con la cinetica delle potenziali reazioni. Se la velocità di trasformazione risulta sufficientemente lenta in relazione al tempo medio di permanenza della specie inquinante in atmosfera, è ragionevole ignorare le reazioni eventuali. Un parametro fondamentale per valutare la rilevanza delle trasformazioni chimiche è quindi la vita media della specie in atmosfera. Per tutti gli scopi pratici vale la conclusione che le trasformazioni

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chimiche, salvo eccezionali condizioni atmosferiche o specie particolarmente reattive (oligomerizzazione di HF, idratazione di SO3, ecc.), sono fenomeni che si manifestano su una scala temporale di giorni, e quindi sono problemi di interesse solo per i trasporti di media e grande scala, nei quali la permanenza della specie inquinante nell'atmosfera si protrae per lungo tempo. Infine, la presenza dell'inquinante in condizioni di liquido o di solido modifica in modo sostanziale la sua dispersione. In primo luogo si usa distinguere fra aerosol, intesi come sospensioni di particelle solide o liquide in aria, e particelle o gocce le cui dimensioni non consentono lo stabilirsi di una sospensione. Per questo secondo caso la dispersione viene regolata da meccanismi macroscopici tipici della meccanica, quali la spinta del vento opposta alle resistenze inerziali. Per entrambe le categorie la dimensione della singola particella è un parametro che ne determina il comportamento in atmosfera. Non si può tuttavia parlare in maniera univoca di diametri poiché sono simultaneamente presenti particelle di svariate dimensioni. Nel caso di fasi condensate è quindi inevitabile una descrizione statistica che utilizza il concetto di distribuzione. La distribuzione che qui interessa è proprio quella delle dimensioni, rappresentate dal volume, dalla massa, ovvero da una lunghezza convenzionale, di cui la più usata è il diametro aerodinamico. Per distribuzione si intende una curva che descrive l'abbondanza relativa di particelle con una certa dimensione. Il solo fatto che, al momento dell'emissione, si presentino particelle con svariati diametri possibili fa intuire che la dispersione in atmosfera produrrà effetti differenziati per ogni frazione di particelle di analoga dimensione. In altri termini, anche in un moto completamente segregato (che prescinda cioè dalla ridistribuzione che l'atmosfera invariabilmente opera), si deve attendere una distribuzione dell'inquinante al suolo non uniforme, come diretta conseguenza della distribuzione di particelle già presente all'emissione. Una ulteriore peculiarità della dispersione di aerosol è costituita dai fenomeni di nucleazione, crescita, e coagulazione. La nucleazione si riferisce al caso molto comune di formazione di particelle per condensazione di gas attorno a certi nuclei, mentre la successiva crescita è conseguenza di due meccanismi alternativi, quello più graduale della continua condensazione sulla superficie e quello della coagulazione di due particelle. Per quanto detto precedentemente, questi meccanismi condizionano la dispersione in atmosfera, incidendo sulla dimensione delle particelle e quindi modificando continuamente la distribuzione dei volumi.

3.1 Modelli di simulazione: generalità I modelli disponibili per la simulazione della dispersione in atmosfera (si veda per esempio Zannetti, 1990; EPSC, 1999) possono essere classificati essenzialmente in tre tipologie:

• modelli tridimensionali (CFD);

• modelli integrali (a tubo di flusso);

• modelli gaussiani.

Mentre i modelli CFD (acronimo di Computational Fluid Dynamic) implementano le equazione cardinali del moto dei fluidi e di conservazione della materia, accoppiate a opportuni modelli di turbolenza e a condizioni al contorno per rappresentare la topografia della zona e le caratteristiche della sorgente, i rimanenti modelli derivano in qualche modo dalle stesse equazioni sulla base di differenti approcci e/o ipotesi semplificative. I modelli CFD (che matematicamente originano un sistema di equazioni differenziali alle derivate parziali) sono stati sviluppati all’interno della fluidodinamica computazionale e sono

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in grado di rappresentare in modo realistico l’effetto della turbolenza atmosferica sulla dispersione dell’inquinante. Possono inoltre rappresentare in maniera concettualmente semplice condizioni meteorologiche estreme e qualsiasi tipo di ostacolo o di topografia. Analogamente, sono in grado di tenere in conto la reale densità dei composti scaricati così come le reali condizioni di scarico. D’altro canto, questi modelli richiedono un elevato tempo di calcolo, sono complicati da utilizzare richiedendo l’intervento di personale esperto contrariamente alle altre tipologie di modelli più semplici. I modelli a tubo di flusso cercano di rappresentare l’intera “storia” del pennacchio o della nube, dalla sorgente fino al ricettore, utilizzando le stesse equazioni di bilancio dei modelli CFD integrate su una sezione generica del tubo di flusso cui si assimila il pennacchio o al volume occupato dalla nube. I termini di scambio con l'esterno sono regolati sia dalla turbolenza interna al pennacchio stesso, sia dalla turbolenza atmosferica. Questo tipo di modelli non possono essere risolti analiticamente per fornire formule di facile impiego e matematicamente originano un sistema di equazioni differenziali ordinarie. Le principali differenze tra i diversi modelli di questo tipo risiedono nella approssimazione usata per la descrizione del profilo all'interno del pennacchio (gaussiana o uniforme, per esempio), nella descrizione dei processi di inclusione di aria nel pennacchio e nelle approssimazioni introdotte per la descrizione dei fenomeni coinvolti nelle immediate vicinanze della sorgente. Questi modelli sono in grado di rappresentare la dispersione di inquinanti in atmosfera considerando anche gli effetti inerziali, di galleggiamento o legati alla densità della corrente scaricata. D’altro canto, essi non sono solitamente in grado di tenere in conto la presenza di ostacoli di rilevanti dimensioni o di un’orografia complessa, così come di condizioni meteorologiche o di scarico estreme. Di più semplice utilizzo sono invece i modelli gaussiani. Questi modelli rinunciano a descrivere l’evoluzione del fenomeno in prossimità della sorgente e si limitano a descrivere l’ultima fase della dispersione del composto, cioè quella in cui gli effetti inerziali, di galleggiamento, o comunque legati alle peculiarità della sorgente divengono trascurabili. Questo implica che tali modelli devono essere associati ad altri modelli in grado di simulare la prima parte del fenomeno (per esempio, i modelli di innalzamento del pennacchio). Per ottenere delle soluzioni analitiche delle equazioni di partenza è necessario introdurre delle assunzioni semplificative: a diverse ipotesi corrispondono diversi modelli gaussiani. L'apparente diversità dei modelli nasce quindi dalle diverse assunzioni che sono fatte al fine di ottenere delle soluzioni analitiche. Nonostante le assunzioni necessarie per giungere alle semplici formule gaussiane siano molto stringenti, e spesso solo parzialmente soddisfatte nella pratica, esse sono ampiamente utilizzate grazie al fatto che i parametri di dispersione sono stati derivati dal confronto tra le previsioni dei modelli gaussiani e i risultati di misure sperimentali, anziché essere calcolati partendo da considerazioni teoriche. Questo conferisce una ragionevole affidabilità a questo tipo di modelli quando sono utilizzati in situazioni analoghe a quelle per cui sono stati sviluppati. I risultati dei modelli gaussiani sono in grado di fornire correttamente l’ordine di grandezza della concentrazione, solitamente sovrastimando il valore reale. I principali vantaggi e svantaggi delle diverse tipologie di modelli sono riassunte nella Tabella 4.

3.2 Cenni di fisica dell’atmosfera Come detto in precedenza, la dispersione di inquinanti si basa sulla capacità dell'atmosfera di diluire la specie inquinante fino a livelli di concentrazione non più pericolosi. Questa capacità dell'atmosfera è in gran parte basata sulla turbolenza che caratterizza le circolazioni d'aria, già a bassi valori di velocità.

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Il moto delle masse d'aria nell'atmosfera varia con la posizione sulla superficie e con la quota. In particolare, il vento negli strati più bassi dell’atmosfera mostra andamenti generalmente poco regolari nelle sue caratteristiche principali, che sono la direzione e l'intensità. A questo fatto si possono ascrivere molte delle difficoltà della valutazione a priori degli effetti dell'introduzione di inquinanti nell'atmosfera. Il vento determina prevalentemente la direzione orizzontale di allontanamento delle specie inquinanti, mentre la variazione di temperatura con la quota influisce sulla dispersione verticale dei fumi. La variazione di temperatura con la quota è determinata da molteplici fattori fra cui la temperatura del suolo, conseguenza degli scambi di calore per irraggiamento (dal sole di giorno, verso il cielo di notte), la variazione di pressione con la quota, il grado di umidità, la circolazione locale delle masse d'aria. Tabella 4: vantaggi e svantaggi delle diverse tipologie di modelli di dispersione atmosferica.

Il concetto di stabilità dell'atmosfera ha un'importanza chiave per la dispersione degli inquinanti. Esso trae origine dalla possibilità o meno di instaurarsi moti di circolazione verticali nell’atmosfera; questo può essere previsto con riferimento al profilo di temperatura potenziale, cioè del profilo di temperatura che si avrebbe a seguito di una trasformazione adiabatica di un volumetto di aria secondo l’andamento della pressione atmosferica con la quota. La ragione di questo riferimento nasce da una semplice considerazione: spostando una porzione di aria verticalmente (a causa per esempio di un vortice turbolento) questa viene a trovarsi istantaneamente a una pressione diversa (la propagazione della pressione è immediata), ma risulta circondata da aria a una temperatura diversa. Infatti, per adeguarsi alla temperatura circostante è necessario un scambio termico, tipicamente lento per gas. Quindi la porzione di aria si porta alla temperatura corrispondente ad una trasformazione adiabatica, dalla pressione a cui si trovava inizialmente alla nuova. A seconda che la variazione di temperatura (adiabatica, quindi) della porzione d'aria sia stata maggiore o minore di quella dell'atmosfera circostante, si può avere una tendenza a riacquisire la quota iniziale ovvero a variarla ulteriormente. In altri termini, a seconda del gradiente reale di temperatura rispetto al

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gradiente adiabatico una porzione di aria si può trovare in condizioni di equilibrio stabile (nel qual caso qualsiasi allontanamento dalle condizioni iniziali viene impedito) o instabili (in cui a una perturbazione infinitesimale delle condizioni iniziali corrisponde un allontanamento dalla posizione iniziale non correlato in alcun modo all’entità della perturbazione). In condizioni instabili si innescano moti di circolazione verticale, che sono viceversa impediti in condizioni stabili. Le possibili situazioni di stabilità dipendono da diversi altri fattori quando si considera un'atmosfera non in quiete. Una quantificazione del grado di stabilità può essere fatta attraverso diversi parametri, ma nessuno di questi è facilmente misurabile. Per questa ragione si è imposta una classificazione delle condizioni di stabilità proposta da Pasquill, secondo il quale le condizioni di stabilità dell'atmosfera possono essere ricondotte a sei macro categorie (indicate con le lettere da A a F, da “ Estremamente instabile” a “Moderatamente stabile”, rispettivamente). Successivamente diversi autori hanno convenuto sulla importanza pratica di questa classificazione (che consente tra l’altro di racchiudere in un numero finito di “classi” le infinite possibili situazioni con diverse tendenze dell’atmosfera a disperdere un inquinante immesso in essa), e hanno proposto diversi criteri per stimare la classe di stabilità sulla base di fenomeni macroscopici facilmente misurabili. La Tabella 5 riporta i criteri proposti da Turner. Tabella 5: classi di stabilità in relazione alla velocità del vento, al grado di insolazione e di copertura del cielo.

Velocità del vento a 10 m [m/s]

Irraggiamento solare [W/m2] Frazione di copertura notturna del cielo

>700 350-700 <350 >1/2 <3/8 <2 A A-B B ⎯ ⎯ 2-3 A-B B C E F 3-5 B B-C C D E 5-6 C C-D D D D > 6 C D D D D

Una classificazione alterativa è quella proposta da Doury (EPSC, 1999) che comprende solo due classi: condizioni di diffusione normale (ND) che combina le classi di Pasquill da A a D, e condizioni di diffusione debole, simile alla classe F di Pasquill. Le condizioni di occorrenza delle diverse classi sono riassunte in Tabella 6. Tabella 6: classi di stabilità in relazione alla velocità del vento.

Velocità del vento [m/s] Giorno Notte < 3 ND WD > 3 ND ND

È possibile ottenere una espressione analitica per la variazione della velocità del vento con la quota sulla base dell'analisi dimensionale. Le evidenze da rispettare sono un aumento della velocità media del vento ed una diminuzione del gradiente con la quota. In altri termini il vento cresce sempre con la distanza dal suolo e le variazioni più sensibili sono in prossimità della superficie, dove la velocità deve annullarsi. Inoltre, è stato osservato che le variazioni

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sono tanto più concentrate verso il suolo quanto più questo è “liscio”, cioè tanto più piccoli sono gli ostacoli al suolo. Per contro, in presenza di ostacoli di altezza significativa (per esempio, costruzioni), la variazione di intensità si distribuisce su uno spessore maggiore. L'analisi dimensionale parte dalla equazione di bilancio di quantità di moto nella direzione verticale, mediata nel tempo e semplificata utilizzando l'approssimazione di Boussinesq, per il caso monodimensionale (uy=uz=0) stazionario e in atmosfera adiabatica, assumendo che la derivata della pressione lungo x sia indipendente da z:

0)0()0()( ττττ ==≈∂∂

+== zzzPzz xzxzxz

Questo è un legame tra 0τ e ( ) dz/Kdudz/duK xxxz ≈+= μτ ; poiché K (il tensore dei coefficienti di diffusione turbolenta) a sua volta dipende da variabili quali la rugosità superficiale, la densità e la quota, la equazione sopra è un legame tra cinque variabili che coinvolgono tre grandezze fondamentali. Con alcuni passaggi e utilizzando il teorema Π è possibile riassume le evidenze sperimentali discusse in precedenza nella seguente legge di variazione logaritmica, valida nel caso di atmosfera adiabatica:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛=→⎟⎟

⎞⎜⎜⎝

⎛=

000

* lnln)()(ln)(zz

zzzuzu

zz

kuzu r

r

in cui k è la costante di von Kàrmàn che vale circa 0.41, mentre u* è una velocità caratteristica, detta di attrito (friction velocity), legata allo sforzo di taglio al suolo secondo la relazione ρτ /u 0* = . Si tratta di una grandezza sperimentalmente misurabile sulla base della velocità del vento a una data quota. Il profilo logaritmico non può, matematicamente, essere definito fino al suolo (z = 0). La quota z0 di riferimento a cui il vento si annulla viene assunta in funzione della rugosità del suolo, come riassunto per alcune situazioni tipiche nella Figura 12. Si vede che esiste una certa incertezza sul valore da utilizzare in una data situazione, pari mediamente a un fattore di circa 3 (a parte alcune situazioni limite). Un’incertezza di questo tipo comporta una differenza nella stima della velocità del vento con la formula precedente a una certa quota dell’ordine di circa il 10%. Bisogna anche sottolineare che la valutazione del profilo verticale del vento con una legge logaritmica e un valore di rugosità superficiale si applica ovviamente per quote superiori alla rugosità superficiale stessa. Questo non è un problema quando le dimensioni verticali della nube (o la sua quota) sono superiori al valore della rugosità superficiale. Viceversa, se esistono ostacoli la cui dimensione è superiore a quella verticale della nube (come spesso accade nel caso di rilascio di gas densi in aree industriali) si possono avere situazioni marcatamente differenti da quelle caratterizzate da un profilo logaritmico del vento. Il vento stesso può essere canalizzato dagli ostacoli, e la presenza di scie a valle degli edifici può portare a concentrazioni decisamente maggiori di inquinanti nella regione a valle degli edifici stessi. Qualora le condizioni dell'atmosfera non siano quelle adiabatiche, il profilo di velocità si modifica. L'analisi dimensionale fornisce anche per il caso generale una relazione approssimata, che mostra come in atmosfera stabile la velocità del vento cresce più rapidamente con l'altezza e viceversa in condizioni di instabilità. Questo corrisponde all'effetto di livellamento della velocità operato dagli scambi di quantità di moto turbolenta lungo la verticale. In questo caso la relazione precedente si modifica con l’introduzione di un parametro caratteristico delle condizioni di stabilità dell’atmosfera, la lunghezza di Monin – Obukhov, L:

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⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛+=

Lz

zz

ku

zu 5.4ln)(0

*

Il parametro L può essere stimato sulla base dei valori riportati in Tabella 7.

Figura 12: valori di rugosità superficiale, z0, suggeriti da diverse fonti.

Molto utilizzata nella pratica, e in particolare con riferimento ai modelli di dispersione di inquinanti, è la rappresentazione della velocità media del vento con la quota attraverso una legge empirica (di potenza) del tipo:

P

rr z

zzuzu ⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛= )()(

basata su un valore di velocità, u(zr), a una quota di riferimento, zr. In essa il parametro P viene determinato sulla base delle condizioni atmosferiche, nota la natura del suolo. Per una rapida valutazione si possono utilizzare i valori riportati nella

Tabella 8. Questi valori sono stati stimati per emissioni da ciminiere e non dovrebbero quindi essere utilizzati per quote inferiori a quella di riferimento. Le previsioni delle diverse relazioni sono riportate per alcuni casi nella Figura 13. Si nota che le maggiori differenze si riscontrano nel caso di atmosfera instabile, mentre nel caso di atmosfera neutra non si riscontrano differenze apprezzabili. Un discorso a parte merita il caso

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di atmosfera instabile, dove i valori più elevati dell’esponente P portano a previsioni poco credibili del profilo di velocità del vento. Non si riscontrano infine grosse differenze legate all’utilizzo del parametro L, cosa che giustifica l’approccio usuale che porta ad utilizzare la relazione più semplice che ne ignora l’effetto. Tabella 7: classificazione delle condizioni di stabilità atmosferica.

Classe di stabilità Lunghezza di Monin – Obukhov, m A - 10 B - 50 C - 50 D > 100 E 50 F 10

Tabella 8: esponenti per la relazione della velocità del vento in funzione della quota proposti da diverse fonti.

Classe A B C D E F Riferimento Terreno CCPS, 2000 Urbano 0.15 0.15 0.20 0.25 0.40 0.60 Rurale 0.07 0.07 0.10 0.15 0.35 0.55 EPSC, 1999 Urbano 0.10 0.15 0.20 0.25 0.30 0.30

3.3 Modelli gaussiani I modelli gaussiani possono essere utilizzati per simulare la fase di dispersione passiva, cioè quella prevalente quando sia gli effetti inerziali sia quelli gravitazionali si sono esauriti. Come detto in precedenza, questa terza fase è sempre presente, e può risultare l’unica nel caso di emissione di un gas neutro (cioè con densità simile a quella dell’aria) e senza apprezzabili componenti della velocità in uscita. Possono rappresentare ragionevolmente anche il caso di dispersione di una piccola quantità di gas densi, in cui la fase legata alla densità del gas è relativamente breve e poco importante. Nel caso di emissione continua da una sorgente “puntiforme” (le cui dimensioni siano cioè trascurabili rispetto alla scala spaziale su cui si vuole simulare il fenomeno, tipicamente dell’ordine della distanza tra sorgente e ricettore) l’inquinante viene trasportato dal vento formando un pennacchio parallelo al suolo. La concentrazione di inquinante a una certa distanza dalla sorgente risulterà quindi massima in corrispondenza dell’asse del pennacchio, diminuendo progressivamente man mano che ci si allontana. Analogamente, in corrispondenza dell’asse del pennacchio la concentrazione diminuirà all’aumentare della distanza per effetto della diluizione progressiva. Per emissioni in quota la concentrazione al suolo viceversa normalmente sarà nulla in prossimità dell’emissione in quanto l’inquinante non ha ancora raggiunto il suolo, per poi aumentare gradualmente all’aumentare della distanza fino a un valore massimo. A distanze maggiori l’effetto della diluizione prevale e la concentrazione al suolo diminuisce. Le caratteristiche fondamentali della dispersione di un gas neutro da una sorgente continua possono essere derivate dalla equazione di bilancio materiale dell’inquinante, che può essere scritta come:

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SCDCutC

+∇=∇+∂∂ 2

0 2 4 60

50

100

150

u, m/s

z, m

A, z0=1 m

0 2 4 60

50

100

150

u, m/s

F, z0=1 m

0 5 10 150

50

100

150

u, m/s

D, z0=1 m

0 2 4 60

50

100

150

u, m/s

z, m

A, z0=0.1 m

0 2 4 60

50

100

150

u, m/s

F, z0=0.1 m

0 5 10 150

50

100

150

u, m/s

D, z0=0.1 m

Figura 13: velocità del vento in funzione della quota calcolate per una velocità del vento a 10 m pari a 2 m/s per le classi A e F, 5 m/s per la classe D. (---) relazione col parametro L; (…) relazione senza il parametro L; (- -) relazione empirica coi valori di P secondo CCPS, (2000); (- .) relazione empirica coi valori di P secondo EPSC (1999).

Essendo la concentrazione dell’inquinante in aria solitamente molto bassa, è possibile assumere che la sua presenza non influenzi il campo termico e di moto dell’atmosfera. In questo modo, assunta nota la distribuzione di velocità e temperatura, non è necessario accoppiare il bilancio materiale della specie inquinante alle equazioni di bilancio di energia e di quantità di moto. Il termine S rappresenta le sorgenti della specie inquinante, dovute a reazioni chimiche o a immissioni dall’esterno del dominio di integrazione. In assenza di reazioni chimiche e effettuando la usuale operazione di mediazione si ottiene la equazione mediata:

SCDKCutC

+∇+=∇+∂∂ 2)(

dove K è il tensore dei coefficienti di diffusione turbolenta e si sono introdotti i valori medi di velocità e concentrazione. Trattandosi di un moto turbolento, non solo la velocità ma anche la concentrazione della specie inquinante ha un andamento erratico, tipico di una variabile casuale. In altri termini, la mediazione dell’equazione di bilancio materiale e la conseguente introduzione di un modello di turbolenza per risolvere il problema della chiusura delle

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equazioni impedisce di calcolare il valore istantaneo della concentrazione, limitandosi a fornire un valore medio. Questo da un lato non è un grosso problema in quanto anche sperimentalmente siamo in grado di misurare solo valori medi di concentrazione (su intervalli più o meno lunghi a seconda dello strumento utilizzato), ma dall’altro pone il problema della scelta dell’intervallo di mediazione (averaging time). Infatti, per una assegnata distribuzione della concentrazione, i malori massimi e minimi (misurati o calcolati) dipendono dal valore dell’intervallo di tempo scelto per la operazione di media. Ne consegue che un valore di concentrazione (misurato o calcolato) non ha senso se non è associato alla definizione del tempo di mediazione utilizzato. Sulla base di diverse assunzioni semplificative si possono ricavare formule diverse, la più utilizzata delle quali è la seguente:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛ +−+⎟⎟

⎞⎜⎜⎝

⎛ −−⎟

⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛−= 2

2

2

2

2

2

2)(exp

2)(exp

2exp

2 zzyzy

hzhzyu

qCσ

ασσσσπ

dove α è il coefficiente di riflessione dell’inquinante al suolo (pari a 1 per riflessione completa, come nel caso di suolo non poroso e di inquinante che non si adsorbe sulla vegetazione, e pari a 0 per assorbimento completo, come nel caso di HF + acqua). Questo modello non è applicabile in condizioni di calma di vento (cioè per velocità medie del vento inferiori a un dato valore, pari a 0.5 – 2 m/s a seconda degli autori) in quanto non è in grado di simulare la retrodiffusione presente nelle immediate vicinanze della sorgente come illustrato in Figura 14.

Figura 14: fenomeni di retrodiffusione a bassa velocità del vento.

Esistono diverse correlazioni per la stima di σy e σz in funzione della distanza dalla sorgente, x, e delle condizioni di stabilità atmosferica. Ciascuna di queste correlazioni differisce dalle altre per le condizioni in cui sono state effettuate le misure sperimentali utilizzate per ricavare una particolare formula (tipo e altezza del rilascio, orografia, intervallo di tempo su cui viene mediata la misura della concentrazione, ecc.). Un confronto tra i valori di Pasquill – Gifford e quelli di Doury è riportato in Figura 15. Si nota come nel caso di dispersione orizzontale la differenza tra le diverse classi di stabilità è piccola e le curve di Pasquill – Gifford sono essenzialmente le stesse di quelle di Doury. Nel caso invece di dispersione verticale, le curve sono differenti per le diverse classi di stabilità. I due approcci forniscono comunque valori simili, eccetto che per le classi A e B dove le curve di Pasquill – Gifford tendono a divergere per tempi di trasferimento dell’ordine dei 1000 s.

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Questo comportamento appare ragionevole solo in condizioni eccezionali legate alla presenza di forti correnti convettive. Sulla base di diverse assunzioni semplificative si possono ricavare formule diverse anche per rilasci istantanei, la più utilizzata delle quali è la seguente:

( )( )

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛ +−+⎟⎟

⎞⎜⎜⎝

⎛ −−⎟

⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛−

−−= 2

2

2

2

2

2

2

2

2/3 2)(exp

2)(exp

22exp

2 zzyxzyx

hzhzytuxqCσ

ασσσσσσπ

dove α è sempre il coefficiente di riflessione dell’inquinante al suolo e q la quantità di inquinante scaricata. I valori dei coefficienti di dispersione nel caso di rilasci istantanei sono differenti da quelli per il caso di rilasci continui, anche se il limitato numero di informazioni sperimentali disponibili rende difficile una loro stima affidabile. Un approccio utilizzato è quello di considerare yx σσ = pari alla metà del valore corrispondente per rilasci continui, e di considerare viceversa inalterato il valore di zσ .Al variare del tempo di mediazione cambia il valore di concentrazione (sia misurato, sia calcolato). I valori riportati in letteratura per i coefficienti di dispersione sono solitamente relativi a tempi di mediazione di 10 minuti. Questo può essere adeguato per valutare le conseguenze di molti rilasci tossici, ma non lo è per la stima dei limiti di infiammabilità, dove si è interessati a valori di concentrazione essenzialmente istantanei ed in prossimità del punto di rilascio ove sono maggiormente rilevanti altri meccanismi di diluizione legati alla densità/velocità dell’effluente.

Figura 15: confronto tra valori di σy e σz in funzione del tempo di trasferimento dalla sorgente al ricettore, definito come rapporto tra la distanza e la velocità media del vento.

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In prima approssimazione è possibile stimare l’effetto del tempo di mediazione utilizzando la relazione:

( )min10

10/=

=tz

qtz t σσ

con t espresso in minuti. Per tempi di mediazione inferiori ai 10 minuti q = 0.2, mentre per tempi compresi tra 1 e 100 h si assume solitamente q = 0.25 - 0.3. Perché il nuovo valore non sia inferiore a quello caratteristico di una emissione istantanea il fattore correttivo non può essere inferiore a circa 0.5 (il che equivale ad assumere che un rilascio “istantaneo” avvenga in circa 20 s). Questa relazione fornisce risultati sostanzialmente coincidenti con la:

( ) min102.010 =

−= tt CtC L’effetto del tempo di mediazione è schematizzato in Figura 16.

0 10 20 30 40 50 600.6

0.8

1

1.2

1.4

1.6

1.8

2

tempo di mediazione, min

Ct /

Ct=

10 m

in

Figura 16: confronto tra valori di concentrazione al variare del tempo di mediazione.

Le assunzioni necessarie per giungere alle semplici formule gaussiane sono molto stringenti, e spesso sono solo parzialmente soddisfatte nella pratica. Ciò nonostante, proprio grazie alla loro semplicità, i modelli gaussiani sono ampiamente utilizzati. La ragione del loro successo risiede nel fatto che tali modelli sono in grado di rappresentare correttamente i principali comportamenti qualitativi (per esempio la distribuzione gaussiana della concentrazione all’interno del pennacchio o della nube), e che un accordo quantitativo con la realtà viene ottenuto tarando i parametri di dispersione presenti nei modelli (σy e σz) per confronto tra le previsioni dei modelli gaussiani e i risultati di misure sperimentali, anziché essere calcolati partendo da considerazioni teoriche come sarebbe viceversa possibile. Ciò nonostante vi sono delle chiare limitazioni all’uso dei modelli gaussiani, quali la presenza di orografie complesse o ostacoli di dimensioni comparabili all’altezza del pennacchio, condizioni meteorologiche variabili tra la sorgente e il ricettore, calma di vento, regione vicina all’emissione (fino a 100 m). In particolare, il limitare l’uso di questi modelli a distanze superiori a 100 m dal punto di rilascio consente al flusso scaricato di stabilizzarsi in un pennacchio (o in una nube) con distribuzione della concentrazione gaussiana. Dalla Figura 16 si nota come l’assunzione di considerare infiammabile la nube fino a una concentrazione media su 10 minuti pari a 1/2

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LFL corrisponde a considerare infiammabile la nube fino a una concentrazione media su 20 secondi pari al LFL.

3.4 Modelli integrali Un gran numero di incidenti industriali coinvolge la dispersione di gas più densi dell’aria. In questo caso l’effetto della gravità può giocare un ruolo determinante nelle prime fasi della dispersione e l’utilizzo di modelli gaussiani non è corretto. In questo caso è necessario tenere espressamente in conto gli scambi di energia e quantità di moto della nube o del pennacchio con l’ambiente, oltre che di materia. Ciò può essere fatto utilizzando le equazioni di conservazione di queste grandezze scritte per un certo volume di controllo (a cui viene assimilata la nube nel caso di rilasci istantaneii) o per un tubo di flusso (a cui viene assimilato il pennacchio nel caso di rilasci continui). I modelli integrali vengono solitamente utilizzati accoppiati ai modelli gaussiani. Questi ultimi descrivono la fase di dispersione passiva della nube o del pennacchio, quando cioè l’inquinante si e’ diluito abbastanza da rendere trascurabili gli effetti gravitazionali. Ne consegue che tutte le limitazioni e i problemi discussi in precedenza per i modelli gaussiani sono presenti anche nei modelli integrali. Nel caso di emissioni di gas pesanti si possono identificare quattro fasi successive: 1. creazione della nube o del pennacchio;

2. collasso;

3. spargimento al suolo;

4. dispersione passiva.

La prima fase, come sempre nel caso di emissioni istantanee, richiede un’assunzione sulla forma e dimensione della nube. La seconda e terza sono quelle descritta dai modelli integrali, mentre la quarta viene simulata coi modelli gaussiani. Le diverse fasi sono rappresentate nella Figura 17. Nella forma più semplice, i modelli integrali per emissioni istantanee simulano la caduta della nube utilizzando le equazioni di Navier – Stokes nella forma semplificata di Bernoulli. Introducendo alcune ipotesi semplificative (velocità di caduta della parte superiore del cilindro – forma a cui solitamente si approssima la nube – trascurabile; velocità di spargimento laterale della nube uniforme; equilibrio tra la sovrapressione media nella nube e resistenza dell’aria all’avanzamento del fronte della nube) si ottiene una relazione del tipo:

5.0

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛ −= HgK

dtdR

a

a

ρρρ

dove R ed H sono il raggio e l’altezza della nube, e K è un parametro. La diluizione della nube a seguito dell’ingresso dell’aria viene rappresentata attraverso delle velocità di ingresso dai bordi e dalla parte superiore della nube:

( )221 2 R

RiU

dtdRRH

dtdM t

aaa πραπρα +⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛=

dove Ma è la massa di aria trascinata nella nube e α1 e α2 sono due parametri. Alcuni modelli tengono anche conto degli scambi termici con l’ambiente attraverso relazioni del tipo:

( ) ( ) ( )dt

dMTTCTT

dtdTCMCM a

aPasuologagaPaa −+−=+ 3α

dove α3 è un altro parametro. Complessivamente, i fenomeni tenuti in conto da un modello integrale di questo tipo sono riassunti in Figura 18. Altri fenomeni, come per esempio la

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presenza di umidità, possono essere inclusi in questo approccio, ma il principale problema risulta evidente anche dalle equazioni riportate: per poter ricondurre le equazioni di conservazione a una forma matematicamente semplice è necessario introdurre numerose semplificazioni che vengono recuperate nel modello introducendo dei parametri adattivi. Il valore di tali parametri deve essere stimato per confronto con dati sperimentali. Questo rappresenta il principale limite dei modelli integrali: essendo disponibile solo un numero limitato di dati sperimentali in scala reale, l’affidabilità dei parametri stimati utilizzando tali dati non è garantita, specie in condizioni diverse da quelle indagate sperimentalmente.

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Figura 17: Diverse fasi della simulazione di una dispersione di un gas pesante.

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Figura 18: meccanismi considerati durante la simulazione della fase di caduta di una nube con un modello integrale.

Vi è poi il problema di legare i risultati del modello integrale a quelli del modello gaussiano nel momento in cui la densità della nube approssima quella dell’aria. A parte la discontinuità che si può avere nel profilo di concentrazione passando da un profilo top-hat a uno gaussiano (come mostrato in Figura 17), il principale problema è la definizione di un criterio per la transizione dalla fase rappresentata dal modello integrale a quella rappresentata dal modello gaussiano. Si utilizzano solitamente criteri basati su diverse verifiche, quali la differenza di densità tra la nube e l’aria, la velocità del fronte della nube, la penetrazione della turbolenza atmosferica nella nube, ecc. Nessuno di questi approcci è migliore degli altri, nel senso che tutti basano la loro validità sulla capacità di riprodurre ragionevolmente le evidenze sperimentali. Nel caso di rilasci continui a bassa velocità (in cui quindi la componente inerziale sia trascurabile) la modellazione è analoga, come mostrato nella Figura 19. Anche le equazioni risultanti sono simili, originandosi sempre dalle equazioni di Navier – Stokes fortemente semplificate per ricondurre il modello alla forma a parametri concentrati, e quindi le equazioni a un sistema di equazioni differenziali ordinarie.

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Figura 19: modellazione di un rilascio continuo con un modello integrale.

Il discorso risulta analogo anche per il caso di rilasci continui in cui la componente inerziale non sia trascurabile. In questo caso è possibile modellare separatamente la fase di getto turbolento iniziale (in cui lo scarico si diluisce molto più rapidamente che durante la fase di dispersione passiva a causa dell’elevata differenza di velocità del getto rispetto all’aria ambiente). I modelli integrali applicati al tubo di flusso sono in grado, sempre sulla base di parametri stimati sulla base del confronto coi dati sperimentali disponibili, di rappresentare anche la fase iniziale di getto (almeno oltre la zona di stabilizzazione del flusso, mostrata in Figura 20 che si estende per alcuni diametri e richiede di essere caratterizzata in modo differente per fornire le condizioni iniziali al modello integrale), oltre che la fase in cui prevalgono gli effetti inerziale quelli di dispersione passiva. Contrariamente ai modelli discussi in precedenza, in questo caso di solito i modelli integrali non si collegano ad un modello gaussiano per simulare l’ultima fase della dispersione, ma il modello integrale ingloba anche una parte di dispersione legata alla turbolenza atmosferica. Questi modelli riproducono correttamente la fase dominata dalla quantità di moto iniziale o dagli effetti gravitazionali, ma rappresentano il pennacchio con una sezione circolare anche nella regione di dispersione passiva, in contrasto con le evidenze sperimentali che mostrano una maggior dispersione laterale rispetto a quella verticale. Questo produce un pennacchio a sezione ellittica, come correttamente riprodotto dai modelli gaussiani.

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Figura 20: Modellazione di un rilascio continuo a getto con un modello integrale.

Poiché tutti i modelli integrali sono stati tarati sugli stessi (pochi) dati sperimentali disponibili, essi sono sostanzialmente in grado di riprodurli correttamente. In altri termini, non è agevole discriminare tra tali modelli quale sia il migliore, ma soprattutto quale sia il più affidabile in condizioni diverse da quelle utilizzate per la sua taratura (per esempio, rilasci di composti tossici che raggiungono valori di concentrazione pericolosi anche a grandi distanze dalla sorgente). Elenchi di codici disponibili per la simulazione della dispersione in atmosfera, così come confronti dettagliati tra i risultati di diversi codici sono discussi in dettaglio in numerose rassegne di letteratura (si veda per esempio CCPS, 1996; EPSC, 1999). I modelli integrali e quelli gaussiani condividono l’incapacità di rappresentare l’influenza di ostacoli presenti nelle vicinanze del punto di rilascio. La Figura 21 mostra alcune di queste situazioni. Un confronto con dati sperimentali in larga scala riportato in Figura 22 mostra con chiarezza l’effetto di quanto schematizzato nella Figura 21. La soluzione più ragionevole a questi problemi è data dall’utilizzo di modelli tridimensionali discussi nella sezione seguente.

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Figura 21: esempi di situazioni non correttamente modellate dai modelli integrali e gaussiani.

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Figura 22: confronto tra dati sperimentali in larga scala e previsione di differenti modelli: gaussiani, integrali e tridimensionali. La figura a sinistra si riferisce ad una situazione con ostacoli, quella a destra senza.

3.5 Modelli tridimensionali I modelli tridimensionali (o CFD) implementano le equazione cardinali del moto dei fluidi e di conservazione della materia e dell’energia, accoppiate a opportuni modelli di turbolenza e a condizioni al contorno per rappresentare la topografia della zona e le caratteristiche della sorgente. Essi matematicamente originano un sistema di equazioni differenziali alle derivate parziali che possono essere complessivamente rappresentate con la relazione generale:

( ) SUΦ=Φ∇Γ−Φ⋅∇+

∂ρ∂ ρt

Nella relazione precedente U rappresenta il vettore velocità, Φ è una generica variabile associata al moto del fluido (quantità di moto, energia, concentrazione di una specie inquinante), Γ è il coefficiente di diffusione della variabile Φ, ρ e t indicano rispettivamente la densità del fluido e la variabile temporale, S è il termine di generazione o di scomparsa relativo al bilancio che stiamo considerando. Tali equazioni descrivono completamente il moto di un fluido e la dispersione di un inquinante in esso, ma la possibilità di risolvere numericamente il problema dipende fortemente dalle condizioni di moto in cui il fluido si trova. Infatti, come ripetutamente detto, nel caso di moti in atmosfera si è in presenza di condizioni di moto turbolente. Volendo risolvere le equazioni come scritte in precedenza, in questo caso le scale di tempo e di lunghezza sarebbero fortemente ridotte, rappresentando un problema insolubile per le capacità di calcolo attuali. Come detto in precedenza, un modo per superare questo problema è quello di considerare una media temporale delle grandezze che descrivono il moto del fluido, e non la loro quantità istantanea. In questo modo però le equazioni di conservazione generano due “nuove” quantità: lo sforzo di Reynolds uu ⊗= ρ e il flusso di Reynolds φρu= . Queste due quantità, a priori sconosciute, possono essere calcolate attraverso l’ipotesi di lavoro nota come

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ipotesi di viscosità turbolenta. L’idea alla base di questo modello è che gli sforzi di Reynolds siano correlati linearmente ai gradienti medi di velocità, in modo analogo a quanto succede per la relazione sforzi - deformazioni nel caso di fluido newtoniano in moto laminare:

( )( )TTT UUUkuu ∇+∇+⋅∇−−=⊗− μδμδρρ

32

32

dove μ T è la viscosità turbolenta e k è l’energia cinetica turbolenta. Analogamente si può definire una relazione tra i flussi di Reynolds e il gradiente medio della variabile Φ:

Φ∇Γ=− Tuφρ

dove Γ T rappresenta il coefficiente di diffusività turbolenta calcolato come T

TT σ

μΓ = , con σ T

pari al numero di Prandtl turbolento. I diversi modelli basati sull’ipotesi di viscosità turbolenta si distinguono nel modo in cui calcolano la viscosità turbolenta e la diffusività turbolenta. Il modello più conosciuto, grazie alla sua ampia applicabilità, è il modello k-ε. Come detto, i modelli tridimensionali sono stati sviluppati all’interno della fluidodinamica computazionale e sono in grado di rappresentare in modo realistico l’effetto della turbolenza atmosferica sulla dispersione dell’inquinante. Possono inoltre rappresentare in maniera concettualmente semplice condizioni meteorologiche estreme e qualsiasi tipo di ostacolo o di orografia. Analogamente, sono in grado di tenere in conto la reale densità dei composti scaricati così come le reali condizioni di scarico. D’altro canto, questi modelli richiedono un elevato tempo di calcolo, sono complicati da utilizzare richiedendo l’intervento di personale esperto nell’utilizzo di codici fluidodinamici.

Figura 23: confronto tra misure sperimentali e predizioni di modelli CFD e gaussiani per un rilascio di ammoniaca all’interno di un complesso industriale.

A titolo di esempio la Figura 23 riporta i risultati di una simulazione della dispersione di un rilascio accidentale di ammoniaca all’interno di un complesso industriale caratterizzato dalla presenza di numerosi edifici. Si può notare come il modello di tipo CFD sia in grado di ben rappresentare la reale dispersione, al contrario di un più semplice modello gaussiano.

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Il principale vantaggio di questo tipo di modelli è che non contenendo, almeno in linea di principio, dei parametri tarati su dati sperimentali di dispersione, la loro validità non è condizionata dall’intervallo delle variabili considerati nella procedura di convalida. Alcuni esempi di confronto tra i dati sperimentali e le previsioni di un modello tridimensionale sono riportate in Figura 23 e in Figura 24. In queste figure, oltre che nella Figura 22, si nota come i modelli tridimensionali siano in grado di rappresentare correttamente anche l’effetto della presenza di ostacoli. Questa proprietà è anche dovuta alla capacità di questi modelli di riprodurre il campo di moto in situazioni complesse, come mostrato a titolo di esempio in Figura 25. I due principali limiti all’utilizzo di questi modelli sono da un lato il costo (in termini di tempo macchina e di tempo uomo) necessario a ottenere i risultati di una simulazione, e dall’altro la mancanza di una estesa convalida per confronto coi dati sperimentali disponibili. D’altro canto, le loro potenzialità sono indubbie, e il loro uso ottimale è quindi mirato a un numero limitato e selezionato di situazioni.

Figura 24: esempi di confronto tra dati sperimentali e previsioni di un modello tridimensionale.

Un esempio di questo tipo è rappresentato dalla dispersione di un gas freddo (metano) rilasciato da un vent in condizioni di calma di vento (velocità del vento pari a 0.1 m/s). Questa situazione potrebbe verificarsi durante lo scarico di emergenza da una cosiddetta “candela fredda” di un impianto che tratta GNL. Considerando una temperatura del metano all’emissione in atmosfera pari a 144 K, la Figura 26 mostra le curve di isoconcentrazione verticale ottenute dalla simulazione numerica col codice CFD KFX-99; queste riproducono fedelmente alcune risultanze sperimentali che evidenziano una ricaduta al suolo della nube infiammabile (involucro con concentrazione pari al 5% vol.) nelle vicinanze della base del camino. Questa situazione è chiaramente pericolosa e non prevedibile con codici di calcolo gaussiani o integrali a causa della caratteristica di gas freddo (avente quindi densità maggiore di quella dell’aria) e la contemporanea condizione di assenza di vento. I modelli gaussiani, come detto,

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non sono validi per rilasci di gas pesanti e basse velocità del vento, mentre le relazioni di “entrainment” utilizzate nei modelli integrali non sono accurate vicino all’emissione, dove si registrano condizioni estreme di bassa temperatura ed elevata densità che inibiscono la diluizione.

Figura 25: campo di moto previsto da un modello tridimensionale per la situazione rappresentata in Figura 23.

Figura 26: valori di concentrazione in un piano verticale contenente il camino.

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3.6 Rilasci sottomarini Tutti i modelli proposti in letteratura, pur nella diversità degli approcci e delle metodologie di risoluzione, si inseriscono in uno schema comunemente accettato che approssima il comportamento di un rilascio in profondità suddividendo in tre regioni il percorso compiuto, dalla sorgente fino alla superficie. La prima zona si situa in prossimità dell’orifizio, dove si attua la stabilizzazione del flusso (ZOFE, Zone Of Flow Establishment) e in cui è controllante la velocità di rilascio: si tratta di una regione interessata da forti turbolenze, che non viene simulata da nessun modello, in quanto viene ritenuta relativamente poco influente sui risultati finali della simulazione. La ZOFE si estende per un breve tratto dalla sorgente, fintanto che si possa trascurare l’effetto della spinta di galleggiamento sul movimento del flusso, e il sistema abbia dunque il carattere di getto, cioè sia controllato solo dalla velocità di efflusso. Nella ZOFE il rilascio perde la sua energia iniziale e rallenta, per passare quindi nella zona di flusso stabilizzato (ZOEF, Zone Of Established Flow), dove la quantità di moto non dipende solo dalla velocità dello scarico, ma anche dalla spinta di galleggiamento, generata dalla minore densità del gas e dell’olio rispetto all’acqua di mare. Questa regione caratterizza quasi completamente il fenomeno, arrivando a pochi metri dalla superficie: lungo tutto questo tratto lo scarico viene considerato un ‘plume’, cioè un pennacchio guidato e controllato nel suo movimento più dalla spinta di Archimede che dalla quantità di moto del rilascio, che si sta esaurendo. La terza zona interessa l’area di incontro con la superficie, dove comincia la dispersione in atmosfera del gas e la generazione di una corrente superficiale, legata al liquido trascinato. Questa regione viene definita zona di flusso superficiale (ZOSF, Zone Of Surface Flow) e non tutti i modelli elencati in precedenza la trattano. Lo schema descritto fin qui è ritenuto valido limitatamente a un rilascio in condizione stazionarie, per cui la portata all’efflusso è costante nel tempo, così come i risultati ottenuti dalla simulazione. Inoltre si può puntualizzare che gli scarichi di idrocarburi in mare vengono trattati come ‘buoyant jet’, ovvero ‘getto galleggiante’, in quanto assumono globalmente sia un carattere di ‘jet’ che le proprietà tipiche di un ‘plume’. I modelli elaborati sinora simulano quasi esclusivamente solo la ZOEF in cui spicca il carattere di pennacchio, e possono essere raggruppati in tre categorie in base alla loro affidabilità e applicabilità. I più semplici e meno dispendiosi in termini di utilizzo sono quelli empirici, che però sono meno precisi, seguono i metodi integrali (semi-empirici) che risultano più affidabili dei precedenti, e infine si hanno i codici fluido-dinamici (CFD), più rigorosi ma anche più onerosi, per i tempi lunghi di risoluzione di cui hanno bisogno. I modelli empirici si riferiscono a una trattazione della realtà semplificata, che permette di stimare grossolanamente la sezione di uscita (boil area) del gas in superficie: si assume che lo scarico gassoso formi un pennacchio conico (cone model), il cui raggio dipenda solo dalla profondità e non dalla portata volumetrica rilasciata, fissando l’angolo conico normalmente tra i 10-12°. Si ottengono risultati in prima approssimazione accettabili se questi modelli vengono utilizzati all’interno di certi intervalli di applicabilità, ma al di fuori hanno una bassa attendibilità, mancando di considerazioni legate ai processi fisici in atto. I modelli integrali seguono lo sviluppo del rilascio dalla sorgente fino alla superficie, integrando l’equazione di conservazione della materia e della quantità di moto nella coordinata della profondità (modelli Euleriani), o nella variabile temporale (modelli Lagrangiani), supponendo la sorgente in condizioni stazionarie. Rispetto a quelli empirici sono più fedeli alla realtà e permettono di conoscere informazioni più dettagliate, relative a velocità, concentrazione e posizione del rilascio in funzione dello spazio (Euleriani) o del tempo (Lagrangiani). Però hanno limiti intrinseci, essendo sensibili a coefficienti di natura empirica che variano con la velocità di scarico, con la profondità e con parametri fluidodinamici locali. I codici fluido-dinamici (CFD) si basano sulla risoluzione delle equazioni di conservazione della materia (equazione di continuità) e di conservazione della quantità di moto (equazione di Navier–Stokes) espresse in condizioni non stazionarie. In questo modo si risolve il problema dei modelli

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integrali relativo alla stima di coefficienti empirici, poiché nei modelli CFD sono modellati direttamente. Quindi i modelli CFD sono più affidabili, ma allo stesso tempo richiedono consistenti informazioni relative all’inizializzazione della sorgente e alla caratterizzazione dello scenario, la cui determinazione è spesso troppo dispendiosa. I modelli integrali si basano sull’approssimare il fenomeno del pennacchio con una serie di volumi di controllo che si susseguono dalla sorgente fino alla superficie (ZOEF), imponendo che per ciascuno siano rispettate l’equazione di continuità e l’equazione di conservazione della quantità di moto. Di fatto il pennacchio è influenzato dall’acqua che viene richiamata nel pennacchio per effetto dell’azione di taglio, tra il fluido rilasciato e l’ambiente circostante in quiete: si determina infatti un continuo richiamo di acqua (entrainment) che rallenta progressivamente il pennacchio. Di ciò se ne tiene conto applicando l’equazione di continuità alla massa liquida, e considerando l’acqua richiamata da ciascun volume di controllo come una vera e propria portata entrante (2αbω), dipendente dalle dimensioni (b) e dalla velocità (ω) del volume di controllo considerato, oltre che da un opportuno coefficiente empirico (α):

ωαω bdzbd 2)( 2

=

Col procedere del pennacchio, l’acqua continuamente risucchiata ha un’azione frenante sul sistema che viene controbilanciata dalla spinta di galleggiamento, di cui si tiene conto mediante la conservazione della quantità di moto:

( ) gbdzbd

a2

22 )( ρρωρ−=

Le equazioni scritte in questo modo appartengono a quei modelli integrali definiti Euleriani, che integrano il sistema nella coordinata verticale (z), considerando che i volumi di controllo si mantengano fissi nello spazio: tutte le variabili caratterizzanti il modello dipendono da questa coordinata, quindi anche i risultati ottenuti saranno in funzione della posizione lungo lo sviluppo del pennacchio. Uno di questi modelli è quello sviluppato da Fannelop e Sjoen (1980). Questo modello classifica il fenomeno come un ‘buoyant jet’, cioè un efflusso che porta con sé il carattere di ‘jet’ e di ‘plume’, in quanto, accanto alla velocità di rilascio, anche la spinta di galleggiamento è controllante sulla quantità di moto del sistema. Per simulare ciò, si considera un tratto prossimo alla sorgente (ZOFE) come un getto, trascurando l’azione della spinta di Archimede, e il percorso successivo (ZOEF) fino alla superficie come un pennacchio, in cui si ritiene che la quantità di moto sia principalmente indotta dalla differenza di densità tra il gas e l’ambiente esterno. In realtà la regione iniziale non viene considerata nel modello, in quanto è caratteristica di un breve tratto di simulazione che, su una profondità dell’ordine di decine di metri, è trascurabile. Un calcolo approssimativo delle condizioni iniziali del pennacchio determina qualche anomalia nei primi metri della simulazione, ma nel successivo sviluppo i risultati seguono in modo soddisfacente i dati sperimentali, indipendentemente dai valori iniziali utilizzati. Quindi il modello segue lo schema di risoluzione di un pennacchio, costituito dalle equazioni di conservazione della materia, sia per la fase liquida sia per quella gassosa e dall’equazione di conservazione della quantità di moto:

abdzbd αωρπωρπ 2)( 2

=

( )( )0=

+

dzAd sgg ωωρ

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( )ρρπωρπ−= agb

dzbd 2

2 )(

In queste equazioni gioca un ruolo fondamentale il valore della portata di acqua risucchiata dal pennacchio nel suo movimento verso la superficie, che viene calcolata mediante il coefficiente empirico α. Le equazioni tengono conto dell’azione della spinta di galleggiamento sulla quantità di moto del sistema e impongono che la massa gassosa rilasciata si conservi, durante tutto il percorso del pennacchio, considerando nullo il gas risucchiato dall’esterno, e trascurabile la diffusione di questo nell’ambiente. Inoltre la fase gassosa non occupa tutta la sezione del pennacchio (πb2) ma una frazione di questa (πb2λ2) nella quale si trova a una percentuale volumetrica pari alla frazione di vuoto (Ag/πb2λ2): Ag è la sezione attraversata solo dal gas, λ è un fattore che riduce il diametro totale del pennacchio all’80%, corrispondente alla dimensione del cuore gassoso. Si assume che la densità dell’ambiente (ρa) sia costante e che sia valida l’approssimazione di Boussinesq: questa trascura, nel calcolo della densità del pennacchio (ρ), la densità della fase gas (ρg) rispetto alla densità del liquido (ρl=ρa), tranne nel caso della spinta (ρa-ρ≠0). Un’altra assunzione cruciale è relativa al comportamento del gas: viene trattato come un gas ideale e si approssima il fenomeno di espansione a una trasformazione isoterma, poiché è lecito ritenere che il gas, a stretto contatto con un ambiente a temperatura costante, abbia tale temperatura lungo tutto il pennacchio. Quindi la densità gassosa è espressa in funzione della coordinata verticale (z) e in base alla profondità della sorgente (H):

HzHz

g

g −=

)0()(

ρρ

Infine in profondità maggiori di 20 m, il contributo di velocità di scorrimento (ωs) tra la fase liquida e gassosa viene trascurato. Dal modello di partenza si ottiene, con opportune sostituzioni, un sistema di due equazioni che risolte danno un valore del raggio (b) e della velocità (ω) del pennacchio per ogni intervallo della coordinata verticale (z), nonché la possibilità di calcolare la frazione di vuoto (ε) mediante la conservazione della materia gassosa:

( ) ωαω bbdzd 22 =

( )22

0 1)(0

λπωρρ

εbz

V

g

g

=

( ))()0(022

zVg

bdzd

g

g

ρρ

ωπλω

=

Il problema può essere adimensionalizzato utilizzando le seguenti definizioni:

HzZ =

HbB

α2=

MW ω

=

con 31

2

20

21

)()0(

⎥⎥

⎢⎢

⎡ +=

HzVg

Mg

g

αλ

ρρ

π

Dalle equazioni precedenti è possibile ricavare due soluzioni analitiche per B e W, in funzione di Z:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛⎟⎠⎞

⎜⎝⎛−−=

2

137

131

53 ZZZB

50

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⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛⎟⎠⎞

⎜⎝⎛++⎟

⎠⎞

⎜⎝⎛=

231

392511

39111

1225 ZZ

ZW

Quindi a partire da una serie di valori di Z si calcolano W e B: da queste soluzioni, che non sono vincolate a uno scenario particolare, essendo espresse in forma adimensionale, è possibile ottenere la simulazione di un rilascio qualsiasi, introducendo i valori iniziali di profondità (z), velocità (ω) e dimensione del pennacchio (b). I risultati così ottenuti si riferiscono alle grandezze che le variabili assumono sull’asse del pennacchio, cioè rappresentano il valore centrale di una distribuzione gaussiana sulla sezione del pennacchio. Così la velocità (ω) e la frazione di vuoto (ε) per un determinato valore di z seguiranno lungo la coordinata radiale (r), il seguente andamento:

2

2

)(),( br

ezzr−

= ωω

22

2

)(),( br

ezzr λεε−

= Esiste anche un’altra categoria di modelli integrali, in alternativa a quelli Euleriani, introdotta originariamente per simulare rilasci liquidi in mare: si tratta di modelli integrali di tipo Lagrangiano, che seguono lo sviluppo dell’efflusso nel tempo, approssimandolo al moto di una serie di volumi di controllo che si muovono nello spazio lungo il percorso del pennacchio senza interferire tra loro. Ognuno di questi volumi di controllo è considerato una realtà a sé stante, a cui sono applicate le leggi fisiche necessarie per descrivere il rilascio: principalmente si tratta dell’equazione di continuità e della conservazione della quantità di moto. Un approccio di questo tipo permette di descrivere la traiettoria del pennacchio nelle tre dimensioni dello spazio, consentendo di considerare in maniera più realistica l’azione delle correnti diretta lungo le tre coordinate spaziali. In questo caso la variabile di integrazione è il tempo, e i risultati che si ottengono dalla simulazione sono espressi in funzione del tempo trascorso dall’istante in cui è cominciato il rilascio. Uno dei primi modelli Lagrangiani proposti è quello di Lee e Cheung (1990). Il fenomeno viene analizzato scomponendolo in una serie di volumi di controllo, ciascuno dei quali viene considerato una parte del pennacchio, caratterizzata dalla sua posizione individuata dalle tre coordinate x, y e z, dalla propria velocità media ( ), dalla concentrazione di inquinante (C), dalla temperatura (T), dalla salinità (S), e dalla sua geometria. Il volume di controllo è approssimato a un cilindro, definito da un raggio (b) e da uno spessore (h), la cui area di base rappresenta la sezione del pennacchio perpendicolare al proprio asse, in quella posizione (x, y, z): la direzione dell’asse del pennacchio viene definita mediante due angoli, quello che misura l’inclinazione rispetto al piano orizzontale (φ) e un altro che si forma tra la proiezione dell’asse su detto piano e la direzione della coordinata x (θ). Il modello studia come queste proprietà variano in un incremento di tempo dt, tenendo conto che il movimento della massa liquida emessa richiama acqua, diluendo l’elemento inquinante scaricato, con un conseguente effetto sulla temperatura, velocità, e geometria del pennacchio. In caso di assenza di correnti, questo risucchio di acqua (entrainment) è dovuto unicamente allo sforzo di taglio tra il liquido e l’ambiente: il liquido, avendo una velocità maggiore rispetto all’acqua circostante, tende a trasferire il proprio movimento, trascinandola con sé. Invece in un ambiente agitato si deve tener conto dell’azione della corrente, che causa il piegamento del pennacchio e determina un ulteriore contributo all’entrainment: in tal caso si parla di entrainment forzato legato all’acqua, che, spinta dal movimento della corrente, si introduce dall’area laterale del volume di controllo.

V

Il termine di entrainment legato allo sforzo di taglio (Qes) viene definito mediante l’espressione già utilizzata per i modelli integrali Euleriani,

51

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θϕαπ coscos2 aes uVbhQ −=→

in cui compare l’area laterale del cilindro di controllo (2πbh), il modulo della velocità del pennacchio ( ) parallela alla tangente della traiettoria, e il termine uacosφcosθ, che rappresenta la velocità della corrente proiettata lungo l’asse del pennacchio: il valore ua è la componente lungo x della velocità della corrente, considerata unidirezionale.

V

In questa equazione, α è il coefficiente di entrainment, che a differenza del modello di Fannelop e Sjoen (1980), non viene considerato costante ma si calcola sulla base di un’equazione in cui compare il numero di Froude (F): questo viene definito in funzione della densità del pennacchio (ρ), del termine di densità dell’ambiente (ρa), del valore dell’accelerazione di gravità (g) e di una costante di proporzionalità (E)

θϕ

θϕ

ϕ

α

coscos

coscos51

sin554.0057.02

2

a

a

uV

uF

+

+=

bg

uVEF

a

a

a

ρρρ

θϕ

=

→coscos

Si osserva che il numero di Froude rappresenta un parametro che fornisce una prima informazione sul carattere del sistema. Infatti non è altro che il rapporto tra la quantità di moto e la spinta di galleggiamento del fluido considerato, quindi permette di capire quando domina un effetto piuttosto che un altro: con Fr≈1 l’azione della spinta e della quantità di moto sono confrontabili, per Fr>>1 il flusso assume un carattere di un getto, mentre per Fr<<1 il sistema può considerarsi un pennacchio. A differenza del modello di Fannelop e Sjoen (1980), il coefficiente di entrainment è più flessibile, in quanto capace di adattarsi ai due regimi possibili, di getto o di pennacchio: allo stesso tempo però, non perde il carattere empirico, che viene trasferito sulla costante di proporzionalità (E). Il termine di entrainment forzato (Qef) viene espresso mediante la teoria della Projected Area Entrainment (PAE) che permette di calcolare l’area del volume di controllo del pennacchio proiettata in direzione della corrente. In pratica questa sezione rappresenta quella che l’ambiente ‘vede’ per introdurre, nella porzione considerata del pennacchio, l’acqua esterna quando si verifica l’entrainment forzato. Questa teoria si basa nel considerare la variazione della sezione laterale osservata in direzione della corrente: infatti, per effetto dell’entrainment, si registra, da un intervallo di tempo all’altro, un aumento del raggio, una conseguente crescita della sezione laterale e un aumento dell’inclinazione. A ciascuno dei tre effetti enunciati corrisponde un termine che contribuisce nel calcolo della PEA: rispettivamente il termine di crescita (Aw), il termine di proiezione (Ap) e quello di curvatura (Ac). L’area cercata si può dunque esprimere secondo la seguente equazione:

⎥⎦

⎤⎢⎣

⎡+−+=

dsdb

dsdbhbdA

)cos(cos2

coscos12coscos 22 θϕπθϕθϕπ

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Valutazione delle conseguenze di incidenti rilevanti – Prof. R. Rota – 2004

Conoscendo la sezione da cui entra l’acqua trascinata dalla corrente (dA) e l’intensità di quest’ultima (ua), si può ottenere la portata legata all’entrainment forzato (Qef):

dAuQ aef =

Quindi viene definito un termine globale di entrainment (Qe), considerando quale dei due contributi (Qes e Qef), domina e caratterizza l’evento: Lee e Cheung (1990) optano per il valore massimo:

( )efese QQQ ,max=

La portata di entrainment globale (Qe) in entrata al singolo elemento del pennacchio, viene quindi implementato nell’equazione di continuità (equazione 2. 21).

eaQdtdm ρ=

Sapendo come varia la massa del sistema in un intervallo di tempo dt si possono aggiornare tutte le altre variabili, che evolvono in seguito a questo cambiamento, ovvero temperatura, concentrazione, salinità, velocità del pennacchio, densità, geometria e posizione. Ciò viene fatto imponendo che ciascun volume di controllo rispetti alcune leggi fisiche fondamentali, quali il bilancio di energia, la conservazione dalla materia per ognuna delle specie in gioco (sale ed elemento inquinante), la conservazione della quantità di moto, l’equazione di stato dei fluidi. E’ possibile raggruppare le prime tre di queste equazioni ed esprimerle in maniera comune, considerando che le proprietà del sistema (T, S, C) risentono dell’entrata di acqua risucchiata dall’esterno, che si trova alle condizioni ambientali (Ta, Sa, Ca): si può quindi scrivere l’equazione seguente dove I può essere sostituito con T, S, C.

eaQIdt

dmI=

Il principio di conservazione della quantità di moto viene espresso lungo le tre coordinate spaziali (x, y, z) per le tre componenti della velocità del pennacchio rispettivamente u, v, w: l’equazione seguente corrisponde al calcolo della quantità di moto diretto lungo l’asse x, che è condizionato dall’agitazione dell’ambiente esterno (ua).

( )eaa Qu

dtmud ρ=

Le equazioni seguenti esprimono la componente della quantità di moto diretta rispettivamente come l’asse y e l’asse z: nella direzione y non si hanno contributi, mentre nella direzione z compare il termine della spinta verticale di galleggiamento dovuto alla differenza di densità (Δρ) tra l’acqua dell’ambiente e il fluido rilasciato (ρ).

( ) 0=dtmvd

( ) mgdtmwd

ρρΔ

=

Infine si inserisce nel modello un’equazione di stato capace di calcolare in base ai valori di temperatura (T) e salinità (S), la densità dell’elemento del pennacchio (ρ).

( )ST ,ρρ =

Dunque per ogni valore del tempo è possibile caratterizzare il sistema e descrivere il fenomeno in atto: si osserva che il valore delle variabili corrisponde alla media delle proprietà del pennacchio

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Valutazione delle conseguenze di incidenti rilevanti – Prof. R. Rota – 2004

sulla sezione di passaggio, rispettando una distribuzione di tipo ‘top-hat’. E’ possibile convertire questi termini per una distribuzione gaussiana mediante le seguenti relazioni, con λ=1.16:

2bbg = uug 2=

2

21λ

λ+= ccg

Il modello di Lee e Cheung (1990) è stato successivamente sviluppato da Yapa e Zheng (1997; 1998; 1999; 2002) con lo scopo di adattarlo a un rilascio di petrolio e ad ambienti più complessi, in cui si possano considerare correnti nelle tre direzioni dello spazio. Infatti il modello di Lee e Cheung (1990) considera la presenza dell’inquinante solo in termini di concentrazione senza trattarlo nel calcolo della densità del pennacchio, che viene approssimata a quella dell’acqua, nelle condizioni di temperatura (T) e salinità del sistema (S). Ciò può essere accettabile se la densità dell’elemento scaricato è confrontabile con quella dell’acqua di mare, ma nel caso di un rilascio di olio la differenza di densità diviene importante. Le modifiche al modello originale consistono nell’assumere che l’acqua sia immiscibile nell’olio fuoriuscito; quindi i due fluidi vengono trattati con due differenti equazioni di stato, e dalle loro densità, viene calcolata la densità totale della massa liquida, mediante la concentrazione dell’olio. Quindi l’equazione di stato precedente viene sostituita con la seguente:

( )CST ,,ρρ =

Inoltre si introduce la possibilità che l’olio, lungo la risalita verso la superficie, in parte si perda per dissoluzione e per diffusione nell’ambiente esterno: la massa di olio che si scioglie (mi), viene calcolata sulla base di una costante cinetica di dissoluzione (Kr), di una costante empirica (γ) pari a 0.7, dell’area laterale del volume di controllo (A=2πbh) e della solubilità dell’olio in acqua (Si).

iri ASK

dtdm

γ=

Il termine relativo alla quantità di olio perso per diffusione (md) si ottiene mediante la legge di Fick, a partire dalla diffusività dell’olio (Kc), dal gradiente di concentrazione tra l’ambiente esterno e il pennacchio (∂C/∂r), e dall’area laterale dell’elemento del pennacchio (A=2πbh).

rCAK

dtdm

Cad

∂∂

= ρ

I due contributi (mi e md ) relativi all’olio perso dal pennacchio vengono considerati nell’equazione di continuità come segue:

dtdm

dtdm

Qdtdm di

ea −−= ρ

Si introduce inoltre la possibilità di trattare la corrente nelle tre direzioni dello spazio, considerandola composta da tre contributi ua, va, wa rispettivamente lungo x, y e z. Quindi il termine uacosφcosθ viene sostituito in tutte le equazioni precedenti dal valore di Va’ che rappresenta in modo completo la proiezione delle tre componenti della corrente sull’asse del pennacchio:

ϕθϕθϕ sinsincoscoscos' aaaa wvuV ++=

Inoltre vengono aggiunte altre due equazioni, per tener conto dell’entrainment forzato dovuto alla corrente lungo y (Qefy) e lungo z (Qefz):

⎥⎦

⎤⎢⎣

⎡+−+=

dsdb

dsdbhbvQ aefy

)sin(cos2

sincos12sincos 22 θϕπθϕθϕπ

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⎥⎦

⎤⎢⎣

⎡++=

dsdb

dsdbhbwQ aefz

)(sin2

cos2sinϕπϕϕπ

Quindi ritenendo che il temine considerato nel modello precedente coincida con l’entrainment forzato diretto lungo x (Qefx), il valore globale (Qef) dell’acqua risucchiata per azione della corrente si può scrivere come:

efzefyefxef QQQQ ++=

Inoltre viene considerato un contributo che considera per le variabili T, S, C l’influenza della diffusione verso l’ambiente esterno di calore, salinità e olio: per la conservazione della massa di olio, si deve anche aggiungere un termine relativo alla perdita per dissoluzione ovvero (dmi/dt).

rIKAQI

dtdmI

aea ∂∂

−= ρ

Infine viene estesa l’applicabilità del modello alla simulazione di rilasci gassosi, proponendo un unico schema risolutivo per le diverse tipologie di scarichi. Per realizzare ciò, si utilizzano gli studi precedenti di Fannelop e Sjoen (1980), introducendo la conservazione della massa gassosa mb e la frazione di vuoto (ε) relativa al cuore di gas di sezione πλ2b2:

0=dt

dmb

bl

l

ρρρρ

ε−−

=

Un’altra modifica è inoltre necessaria per trattare il rilascio di gas: l’equazione di conservazione della quantità di moto diretto lungo la coordinata verticale z deve considerare la velocità di scorrimento (wb) tra liquido e gas, e il contributo alla spinta della massa gassosa. Quindi si ottiene:

[ ] hbghbgdt

dmdt

dmQwwmwwmdtd

balad

i

ieaalbb ελπρρελπρρρ 2222 )()1()()( −+−−+⎥

⎤⎢⎣

⎡−−=++ ∑

in cui si nota che la massa totale del pennacchio (m) è data dalla somma di una quantità di liquido (ml) e una massa gassosa (mb): in realtà la velocità di scorrimento viene trascurata in questo modello, sulla base degli studi di Fannelop e Sjoen (1980) che ritengono accettabile tale approssimazione, per rilasci effettuati a elevate profondità. Il bilancio di energia e la conservazione di salinità e della massa dell’olio si mantengono inalterate, con l’unica variante che la massa m si fa coincidere con la sola massa liquida (ml). Ne deriva che nel bilancio di energia viene trascurata la quantità di calore associata al gas rispetto a quella della fase liquida.

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4 Esplosioni ed incendi Esplosioni ed incendi hanno alcune caratteristiche fenomenologiche in comune, nel senso che alcune tipologie di esplosioni derivano dalla rapida combustione di un combustibile. Lo stesso combustibile, nel caso di combustione più lenta, origina invece un incendio. Oltre a questi fenomeni comuni vi sono anche delle ovvie differenze, nel senso che esistono alcune tipologie di esplosioni che non coinvolgono la combustione di alcun combustibile, così come vi sono incendi che non possono generare in alcuna condizione delle esplosioni. L’interconnessione tra i fenomeni esplosivi e gli incendi è riassunta nei diagrammi di flusso riportati in Figura 27, Figura 29, Figura 38 e Figura 40.

figura D

Figura 27 – Diagramma logico per la generazione di un’esplosione o di un incendio a partire dal cedimento di un’apparecchiatura (esplosione fisica).

L’origine di ogni incidente rilevante è il rilascio all’esterno di un’unità di impianto (serbatoio, reattore, apparecchiatura, tubazione, …) del suo contenuto. Questo fenomeno può avvenire in modo catastrofico e generare un’esplosione fisica, nel senso che la sovrappressione generata per una causa incidentale all’interno dell’unità ne provoca il collasso strutturale (Figura 27).

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Se il contenuto dell’apparecchiatura era in fase gassosa, il gas si espande istantaneamente dalla pressione di collasso dell’apparecchiatura alla pressione ambiente e genera un’esplosione. Infatti, un’esplosione può essere definita, convenzionalmente, come il rilascio di una certa quantità di energia in atmosfera in un tempo abbastanza breve e in un volume abbastanza piccolo da generare un’onda di pressione di entità finita che si allontana dalla sorgente e può essere sentita (onda d’urto); l’energia rilasciata può essere immagazzinata nel sistema come energia nucleare, chimica, elettrica, di pressione, …. Il modo più semplice per generare un’onda d’urto (caratteristica saliente di un’esplosione) è il movimento di un pistone che accelera in un cilindro, come mostrato in Figura 28. Le onde di pressione generate man mano dal pistone che si muove a velocità crescente si propagano nell’atmosfera davanti al pistone alla velocità del suono, pari, per un gas perfetto, a

MRTc γ= , dove γ è il rapporto tra i calori specifici, R la costante dei gas perfetti, T la temperatura e M il peso molecolare. Le onde di pressione generate più tardi si trovano quindi a propagarsi in un’atmosfera a pressione maggiore (a causa della precedente propagazione delle onde di pressione generate prima) e quindi, essendo la compressione isoentropica, a temperatura maggiore. Ne consegue che le onde di pressione generate successivamente si propagano a una velocità superiore rispetto a quelle generate precedentemente e tendono quindi a sovrapporsi. La discontinuità dei valori di tutte le variabili di stato (pressione, temperatura, …, che cambiano in modo brusco a cavallo dell’onda di pressione) tende a diventare sempre più grande fino a generare un’onda d’urto (o shock). Le conseguenze di un’esplosione fisica sono quindi la generazione di un’onda di pressione che si propaga nell’ambiente dissipando man mano la sua energia e la proiezione di frammenti dell’unità d’impianto che collassa.

up upw u=0

Pistone che

accelera Onda di

pressione

up upw u=0

Pistone che

accelera Onda di

pressione Figura 28- generazione di un’onda di pressione da parte di un pistone in movimento.

Il gas liberato nell’ambiente formerà quindi una nube che si disperderà secondo i meccanismi discussi in precedenza. Come mostrato in Figura 29, in assenza di ignizione (o nel caso di gas non infiammabili) si avrà la semplice dispersione in atmosfera con conseguenze legate all’eventuale tossicità del composto. In presenza di un’immediata ignizione la piccola porzione di gas infiammabile che si è miscelato con l’aria per formare una miscela con concentrazione interna ai limiti di infiammabilità prenderà fuoco generando una fiamma che si propaga eventualmente poi, non più come una fiamma premiscelata ma come una fiamma diffusiva, nella regione della nube con concentrazione superiore al limite superiore di

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infiammabilità (il cosiddetto flash – fire, Figura 30). In questo caso le conseguenze più gravi riguardano il coinvolgimento delle persone nell’area interessata dalla fiamma e l’irraggiamento termico nell’ambiente circostante.

D

Figura 29 – Diagramma logico per la generazione di un’esplosione o di un incendio a partire dalla dispersione di una nube di gas infiammabile.

Se invece l’innesco non è immediato la nube ha tempo di disperdersi e quindi di creare una quantità significativa di miscela gas – aria con concentrazione interna ai limiti di infiammabilità. In questo caso, a seguito di un innesco si può avere non solo un flash fire, ma anche un’esplosione (UVCE, Unconfined Vapor Cloud Explosion) le cui conseguenze principali sono legate, oltre che alla presenza di una regione investita dalla fiamma, alla sovrappressione generata. Il motivo per cui è necessario che una quantità significativa di miscela gas –aria abbia una concentrazione interna ai limiti di infiammabilità per originare un’esplosione (da cui deriva che piccoli rilasci di gas infiammabile, generalmente inferiori a 1000 kg di gas –eccetto composti particolarmente reattivi quali idrogeno, acetilene, ossido di etilene, …– non possono esplodere, così come non possono esplodere nubi innescate immediatamente dopo il rilascio) può essere spiegata considerando il meccanismo con cui una fiamma che si propaga in una miscela infiammabile può generare un’onda di pressione. Consideriamo l’analogia tra un tubo riempito di miscela infiammabile ignita ad un'estremità e il moto di un pistone discusso in precedenza (Figura 31). Se la tubazione è aperta su entrambi i lati i gas combusti (che si trovano a una temperatura molto maggiore di quelli incombusti e quindi hanno una densità molto minore) si espandono e si scaricano dall’apertura vicina al punto di innesco. La fiamma (cioè l’onda di combustione) si propaga nei gas incombusti in quiete. Se invece il tubo è chiuso all’estremità vicina al punto di innesco, i gas combusti che si espandono non possono scaricarsi e di conseguenza si spostano verso i gas incombusti, che vengono quindi messi in movimento. L’espansione dei gas combusti si comporta quindi in

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modo assolutamente analogo ad un pistone che spinge i gas incombusti e genera un’onda di pressione. Una nube innescata al centro si comporta in modo analogo, essendo l’unica differenza la geometria sferica del pistone che accelera. Perché l’onda di pressione assuma valori significativi è necessario che l’onda di combustione acceleri significativamente, così da consentire la formazione di un’onda d’urto come conseguenza del meccanismo discusso in precedenza di sovrapposizione delle onde di compressione generate da un pistone che accelera. La velocità con cui il fronte di fiamma avanza non dipende solo dalle caratteristiche chimico fisiche della miscela infiammabile (riassunte nel parametro chiamato velocità laminare di fiamma), ma anche dalla fluidodinamica che determina il livello di turbolenza della miscela infiammabile in cui si propaga la fiamma.

Figura 30 – Flash - fire.

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up upw u=0

Pistone Onda di pressione

ucw u=0

Onda di combustione

incombusticombusti

ucw u=0

Onda di combustione

upw

Onda di pressione

incombusticombusti

Possono scaricarsi

Non possono scaricarsi: agiscono come un pistone

up upw u=0

Pistone Onda di pressione

ucw u=0

Onda di combustione

ucw u=0

Onda di combustione

incombusticombusti

ucw u=0

Onda di combustione

upw

Onda di pressione

incombusticombusti ucw u=0

Onda di combustione

upw

Onda di pressione

incombusticombusti

Possono scaricarsi

Non possono scaricarsi: agiscono come un pistone

Figura 31 – Propagazione di un’onda di combustione in una tubazione.

La propagazione del fronte di fiamma nei gas incombusti è guidata dal trasporto di calore e di specie radicaliche dai gas combusti ad alta temperatura agli incombusti a bassa temperatura, come schematizzato in Figura 32. Se la fiamma si propaga in gas incombusti in quiete i fenomeni di trasporto di calore e materia sono determinati dai coefficienti efficaci di trasporto (diffusività molecolare e conducibilità termica) secondo le leggi di Fick e di Fourier e la fiamma si propaga con una ben determinata velocità, solitamente inferiore a 1 m/s.

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Lo scambio termico coi gas incombusti provoca l’ignizione

Lo scambio termico coi gas incombusti provoca l’ignizione

Figura 32 – Schematizzazione del fronte di fiamma.

Se però il fronte di fiamma agisce come un pistone che mette in movimento i gas incombusti, all’aumentare della velocità di questi gas aumenta anche il livello di turbolenza. Inoltre, la presenza di ostacoli investiti dal moto dei gas incombusti provoca un ulteriore aumento della turbolenza. L’effetto principale di un moto non più laminare ma turbolento dei gas incombusti risiede nell’aumento della velocità di trasferimento di calore e materia dalla fiamma ai gas incombusti. Infatti, il valore dei coefficienti efficaci di trasferimento di calore e materia (diffusività materiale e termica turbolenta) è solitamente molto maggiore degli analoghi valori caratteristici dei fenomeni molecolari. Questo aumento della velocità di trasporto di materia e calore si riflette su un analogo aumento della velocità della fiamma (cioè dell’onda di combustione) e quindi in un sempre più marcato aumento dell’accelerazione del fronte di fiamma (analogo del pistone) e infine nella generazione di onde di pressione di entità sempre maggiore. In conclusione, perché l’esplosione di una nube di vapori possa generare una sovrappressione significativa (ma comunque limitata al valore massimo di circa 1 bar) è necessario che la fiamma acceleri significativamente. Perché questo avvenga è necessario da un lato che siano presenti degli ostacoli per aumentare il livello di turbolenza nei gas incombusti, e dall’altro che la nube si estenda su un’area sufficientemente grande da dare il tempo ai meccanismi di accelerazione del fronte di fiamma di diventare efficaci. Se l’accelerazione della fiamma diventa notevole, è possibile che l’onda d’urto generata provochi un aumento di temperatura dei gas incombusti attraverso cui si propaga tale da innescarli. In questo caso non è più l’onda di combustione che, col meccanismo del pistone che accelera, genera l’onda di pressione che si propaga davanti ad essa, ma è il passaggio dell’onda di pressione che innesca la miscela infiammabile e genera l’onda di combustione. L’energia liberata dalla combustione consente poi all’onda di pressione di sostenersi.

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I due fenomeni sono marcatamente diversi. Nel primo caso (onda di combustione che genera l’onda di pressione) le due onde (di pressione e di combustione) sono disgiunte e la velocità dell’onda di combustione è subsonica (dell’ordine di alcuni m/s) rispetto alle condizioni dei gas incombusti davanti al fronte di fiamma. I valori di sovrappressione a cavallo dell’onda di pressione sono modesti (al massimo alcuni bar, 1 bar nel caso di UVCE) e pressione e densità diminuiscono attraverso l’onda di combustione. Si parla in questo caso di deflagrazioni (Figura 33).

ucw u=0

Onda di combustione

upw

Onda di pressione

incombusticombusti ucw u=0

Onda di combustione

upw

Onda di pressione

incombusticombusti

Figura 33 – Deflagrazioni.

Nel secondo caso (onda di pressione che genera l’onda di combustione) le due onde (di pressione e di combustione) sono accoppiate e la velocità dell’onda di combustione è supersonica (dell’ordine di alcune migliaia di m/s) rispetto alle condizioni del gas incombusti davanti al fronte di fiamma. I valori di sovrappressione a cavallo dell’onda di pressione sono elevati (alcune decine di bar) e pressione e densità aumentano attraverso l’onda di pressione e combustione accoppiate. Si parla in questo caso di detonazioni (Figura 34).

u=0

Onda di combustione

upw

Onda di pressione

incombusticombusti u=0

Onda di combustione

upw

Onda di pressione

incombusticombusti

Figura 34 - Detonazioni

La transizione da deflagrazione a detonazione (DDT, Deflagration to Detonation Transition) richiede accelerazioni molto marcate del fronte di fiamma che non è solitamente possibile raggiungere nel caso di esplosioni in campo aperto (UVCE). Viceversa, è un fenomeno abbastanza comune nel caso di esplosioni in tubazioni a causa della turbolenza generata dal moto dei gas incombusti nelle tubazioni. Tornando allo schema logico riportato nella Figura 27, se il recipiente che collassa contiene anche una fase liquida si possono distinguere due situazioni, in funzione del valore della temperatura di ebollizione normale del liquido rispetto alla temperatura ambiente. Se la temperatura di ebollizione normale del liquido è superiore alla temperatura ambiente il liquido risulta sottoraffreddato e non si può avere il fenomeno di flash discusso in precedenza. In questo caso l’espansione della fase vapore potrà provocare i fenomeni discussi in precedenza, mentre la fase liquida, se infiammabile, potrà dar luogo ad un incendio da pozza (pool fire).

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Se invece la temperatura di ebollizione normale del liquido è inferiore alla temperatura ambiente il liquido risulta surriscaldato (e quindi in condizioni di non equilibrio) e si può avere il fenomeno di flash. Questo provoca la formazione di un’ulteriore quantità di vapore, la cui espansione provoca un’esplosione fisica solitamente di entità limitata a meno che le condizioni non siano tali da innescare il fenomeno noto come BLEVE (Boiling Liquid Expanding Vapor Explosion). La teoria classica del BLEVE prevede che l’innesco del fenomeno di nucleazione omogenea (cioè la formazione di bolle in seno al liquido in assenza di centri di nucleazione, solitamente forniti dalle asperità presenti sulle pareti del recipiente) renda il fenomeno del flash molto più rapido e quindi l’entità dell’onda d’urto generata molto più intensa. Nel caso in cui il recipiente non collassi completamente ma, come avviene più comunemente, semplicemente si fessuri con una conseguente rapida depressurizzazione, l’estrema rapidità dell’evaporazione non consente al vapore formatosi di scaricarsi attraverso la fessura presente nel recipiente senza pressurizzare ulteriormente il recipiente che quindi solitamente collassa in modo catastrofico proiettando frammenti nell’ambiente circostante. La nucleazione omogenea può aver luogo solo se il liquido è sufficientemente surriscaldato. Non è quindi sufficiente che la temperatura del liquido sia superiore alla sua temperatura di ebollizione normale (come per esempio nel caso di propano liquido a temperatura ambiente), ma deve anche essere superiore a un valore limite caratteristico di ciascun composto. Riassumendo, perché si possa avere un BLEVE è necessario per prima cosa surriscaldare il liquido, cioè portarlo rapidamente in condizioni di non equilibrio (la rapidità è necessaria a impedire che il liquido si porti dolcemente nelle condizioni di equilibrio) caratterizzate da una temperatura superiore alla temperatura di ebollizione normale (liquido surriscaldato). Questo può avvenire per rapida depressurizzazione di un gas liquefatto per compressione (collasso di un serbatoio di GPL), ma anche per contatto di un liquido freddo con un corpo molto caldo (acqua su metalli fusi; LNG su acqua). La seconda condizione necessaria per avere un BLEVE è che il surriscaldamento sia sufficiente, che cioè la temperatura sia superiore a quella limite per l’innesco della nucleazione omogenea. Il valore della temperatura critica per l’innesco della nucleazione omogenea, TSL, in funzione della pressione può essere stimata dalla relazione ( ) CRCSL TPTT 895.089.011.0 ≈+= dove TC è la temperatura critica in K e PR è la pressione ridotta, cioè il rapporto tra la pressione e la pressione critica. Questo può essere schematizzato sul grafico di Figura 35, dove sono riportate le curve della tensione di vapore e quella limite di surriscaldamento per l’innesco della nucleazione omogenea. Assumendo che il fluido contenuto in un recipiente si trovi nel punto A (che si trova sulla curva della tensione di vapore, essendo il liquido in equilibrio col suo vapore), un riscaldamento accidentale del serbatoio può portare le condizioni del fluido nel punto B. Se a questa pressione il contenitore cede, la pressione crolla istantaneamente al valore atmosferico rappresentato dal punto E. Il liquido si trova quindi, per un breve istante, in condizioni di non equilibrio (la sua temperatura è superiore a quella di ebollizione normale) e quindi evaporerà più o meno rapidamente (flash). Non può però innescarsi il fenomeno della nucleazione omogenea perché il surriscaldamento non è sufficiente. Se invece il collasso del serbatoio avviene quando il liquido è arrivato al punto C, la brusca depressurizzazione lo porta al punto D, attraversando il confine per la nucleazione omogenea: è possibile l’innesco di un BLEVE. In realtà alcune recenti sperimentazioni hanno messo in evidenza che si sono prodotti BLEVE anche a seguito di brusche depressurizzazioni di recipienti ad una temperatura inferiore a quella limite per la nucleazione omogenea. Ciò significa che le considerazioni precedenti non consentono di definire in modo univoco il fenomeno del BLEVE, ma è necessario distinguere due tipologie di BLEVE, dette BLEVE caldo (quando la temperatura del liquido è superiore

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al limite di surriscaldamento per la nucleazione omogenea) e BLEVE freddo (quando è inferiore). Nel caso di BLEVE freddi si hanno conseguenze analoghe per certi versi a quelle tipiche dei BLEVE caldi (distruzione completa del contenitore di un liquido la cui temperatura di ebollizione normale è molto inferiore a quella atmosferica, con susseguente formazione di una palla di fuoco, come discusso in seguito), ma con sovrappressioni minori. La spiegazione della natura dei BLEVE freddi non è ancora chiara; alcune ipotesi coinvolgono la stratificazione termica all’interno della massa del liquido che porterebbe solo una parte del liquido al di sopra della temperatura limite per la nucleazione omogenea; altre coinvolgono la dinamica di depressurizzazione e depressurizzazione del recipiente tra la fessurazione ed il collasso completo; inoltre i fenomeni descritti (e in particolare la debole sovrappressione generata e la formazione di una palla di fuoco) possono anche essere spiegati in termini di flash con trascinamento in fase vapore di una quantità consistente di aerosol. Uno schema di massima che rappresenta l’evoluzione dei fenomeni dalla rottura iniziale del contenitore fino a BLEVE (caldo, freddo o intermedio) è mostrata in Figura 36. SI noti che mentre nel caso di BLEVE caldi l’intero contenuto del serbatoio viene aerodispersore coinvolto nella successiva formazione di una palla di fuoco, nel caso di BLEVE freddi si ha un consistente rain out con la formazione di una pozza ed un possibile incendio da pozza.

Figura 35 – Curva della tensione di vapore e della temperatura limite per la nucleazione omogenea.

Come discusso in precedenza, la quantità di rain out è solitamente limitata. In caso di liquido infiammabile, il liquido ricaduto al suolo potrà dar luogo ad un incendio da pozza (pool fire). Il vapore invece segue la stessa fenomenologia discussa in precedenza nel caso di composti non infiammabili o di innesco ritardato. Se invece l’innesco è immediato si può innescare il fenomeno della palla di fuoco (fireball). Un’evaporazione molto veloce di una gran massa di liquido infiammabile genera infatti una nube di vapore di cui inizialmente solo una piccola parte, sul bordo esterno, ha una concentrazione interna ai limiti di infiammabilità. La presenza di un innesco immediato provoca la formazione di una fiamma localizzata sulla superficie della nube, come schematizzato in Figura 37. Poiché la nube di combustibile è interna alla fiamma, si stabilizza una fiamma diffusiva sulla superficie della nube stessa. La velocità del fronte di fiamma in questo caso è limitato dai fenomeni di diffusione del combustibile (dall’interno della nube) e del comburente (dall’esterno) verso il fronte di fiamma. Inoltre, man mano che la combustione procede la nube di combustibile da un lato si consuma e

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dall’altro si riscalda, diminuendo di conseguenza la propria densità e muovendosi quindi per effetto della spinta di galleggiamento verso l’alto. Un’esplosione può anche originarsi all’interno di un’unità d’impianto, come indicato nello schema di Figura 38 col termine di esplosione confinata. L’unità d’impianto può essere una struttura poco resistente meccanicamente (forni, serbatoi atmosferici, essiccatori, …) nel qual caso l’esplosione è solitamente dovuta all’innesco di una miscela esplosiva formatasi al suo interno.

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Figura 36 – Diagramma logico per la formazione di un BLEVE.

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Figura 37- Schematizzazione di un fireball.

100% fuel0% fuel

UFL

LFL

100% fuel0% fuel

UFL

LFL

100% fuel0% fuel

UFL

LFL

B

fig. C

Figura 38 – Diagramma logico per la generazione di un’esplosione o di un incendio a partire da un’esplosione confinata.

Il meccanismo per cui aumenta la pressione nel caso di innesco di miscele infiammabili in ambienti confinati è differente rispetto a quello discusso in precedenza per il caso di esplosioni di nubi di gas non confinate ed è schematizzato nella Figura 39. Nel caso di

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deflagrazioni di gas inconfinate la combustione avviene a pressione all’incirca costante. A causa della temperatura maggiore dei gas combusti rispetto agli incombusti (circa 8 volte maggiore per miscele stechiometriche di idrocarburi in aria) il volume dei gas combusti aumenta (di circa 8 volte per miscele stechiometriche di idrocarburi in aria, sulla base della legge dei gas perfetti) e si può generare un’onda di pressione secondo il meccanismo del pistone che accelera discusso in precedenza. Se invece la deflagrazione è completamente confinata la combustione avviene a volume costante e in questo caso l’aumento di temperatura risulta inevitabilmente in un aumento di pressione (di circa 8 volte per miscele stechiometriche di idrocarburi in aria, sempre sulla base della legge dei gas perfetti). In questo caso la velocità con cui evolve il fenomeno (cioè la velocità del fronte di fiamma) non gioca alcun ruolo sul livello di pressione generato, che risulta unicamente dal vincolo di volume costante.

Figura 39 – Meccanismi di aumento della pressione per deflagrazioni di gas confinate o inconfinate.

Se l’unità d’impianto in cui avviene la deflagrazione non è fornita di dispositivi di scarico di emergenza (pannelli di scoppio) l’aumento di pressione provoca il collasso dell’apparecchiatura con conseguenze analoghe a quelle discusse in precedenza. In caso contrario, se i pannelli di scoppio sono correttamente dimensionati l’apparecchiatura non collassa e si ha lo scarico di gas combusti ed incombusti attraverso i portelli di scoppio. Fenomeni analoghi si possono avere anche in apparecchiature meccanicamente più resistenti, quali serbatoi, reattori chimici, colonne di distillazione, … Inoltre, in queste apparecchiature si può avere un’esplosione anche a seguito di altre cause di processo, quali reazioni runaway o decomposizione di composti instabili che possono portare al collasso dell’apparecchiatura, con conseguenze analoghe a quelle discusse in precedenza, in assenza di dispositivi di scarico di emergenza (dischi di rottura) correttamente dimensionati. Ovviamente, dischi di rottura o pannelli di scoppio sono efficaci solamente contro le deflagrazioni. Nelle detonazioni l’onda di pressione si propaga ad una velocità supersonica e raggiunge quindi le pareti del recipiente prima che l’informazione che nell’apparecchiatura sta aumentando la pressione (informazione che si propaga alla velocità del suono) possa raggiungere il dispositivo di emergenza.

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Il fluido rilasciato attraverso il dispositivo di emergenza deve essere convogliato ad un impianto di contenimento e/o abbattimento. Se questo impianto non risulta in grado di contenere tutto il fluido rilasciato, parte di questo viene scaricato in atmosfera. Le conseguenze di un rilascio in atmosfera di un composto infiammabile (proveniente da un dispositivo di emergenza, da una fessurazione in un recipiente o in una linea, da una perdita da una flangia, …) sono schematizzate nel diagramma di Figura 40.

C

fig.

Figura 40 – Diagramma logico per la generazione di un’esplosione o di un incendio a partire da uno scarico in atmosfera.

In funzione della fase del rilascio (gassosa, liquida o bifase) si ha la dispersione del composto secondo le modalità discusse in precedenza. L’unica variante riguarda il caso dell’innesco immediato di un getto gassoso o bifase che può originare un getto incendiato (jet fire) le cui principali conseguenze sono al solito di tipo termico (riscaldamento delle pareti di un’apparecchiatura colpita dal getto o irraggiamento sull’ambiente circostante).

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4.1 Esplosioni di nubi inconfinate (UVCE) La principale conseguenza di una UVCE è l’effetto domino. Circa il 65% delle UVCE avvenute ha causato effetti domino, solitamente con conseguenze più gravose rispetto all’effetto diretto termico o di sovrappressione. Questo è una diretta conseguenza del fatto che gli impianti sono vulnerabili alle sovrappressioni, come riassunto nella Figura 41. Il calcolo delle sovrappressioni generate da una UVCE richiede la conoscenza di alcuni parametri chiave, tra cui la massa di gas coinvolta nell’esplosione e il punto di ignizione. Per il calcolo della massa di gas coinvolta nell’esplosione si possono utilizzare dei modelli di dispersione che forniscono la quantità di gas presente con una concentrazione compresa tra i limiti di infiammabilità. Un metodo short – cut è quello di assumere che il 10% della massa di gas rilasciata sia nella regione infiammabile; l’effetto di tale assunzione è ovviamente molto diverso a seconda delle condizioni meteorologiche e del rilascio considerate. Viceversa l’influenza del punto di ignizione, che può giocare un ruolo importante nell’evoluzione dell’UVCE, essendo essenzialmente impredicibile non viene solitamente considerato nei modelli utilizzati per la simulazione del fenomeno.

Figura 41 – Effetti delle sovrappressioni sugli impianti.

4.1.1 Metodo del TNT equivalente Il metodo del TNT equivalente approssima gli effetti della deflagrazione di una nube di gas con quelli di una detonazione ideale di un esplosivo solido. La detonazione di un esplosivo solido viene solitamente chiamata ideale in quanto ben approssimabile con un’esplosione puntiforme; l’onda d’urto viene generata dall’espansione praticamente istantanea dei gas generati dalla decomposizione dell’esplosivo solido.

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In realtà i due fenomeni sono marcatamente diversi, come è evidente anche dalla Figura 42 che riporta l’andamento nel tempo della sovrappressione ad una data distanza per i due fenomeni esplosivi. D’altro canto la teoria delle esplosioni ideali è ben consolidata e confermata da un gran numero di dati sperimentali di origine militare, e quindi l’utilizzo di questo semplice modello almeno come prima approssimazione è molto diffuso. Il problema del campo di pressione generato da un pistone sferico che accelera può essere formalizzato nei bilanci di materia, energia e quantità di moto a cavallo dell’onda d’urto. Assumendo che la pressione generata sia molto maggiore di quella atmosferica, che il gas segua l’equazione di stato dei gas perfetti e che l’esplosione sia ideale, le equazioni di bilancio possono essere risolte analiticamente per fornire la soluzione generale:

( ) ⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛−==

3/1

3

ln3lncostQR

PQRP shock

shockshockshock a

da cui si vede che i valori di pressione raggiunti ad una certa distanza a seguito della detonazione di una certa quantità di esplosivo solido si devono allineare su di una retta in un grafico bilogaritmico che riporti la pressione in ordinata e il rapporto 3/ QR in ascissa, essendo R la distanza e Q la quantità di esplosivo (e, equivalentemente, l’energia rilasciata dalla sua esplosione). Figura 42 – Andamento della pressione nel tempo per una detonazione (in alto) e una deflagrazione (in basso).

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I dati sperimentali si allineano bene secondo questa relazione, come mostrato nella Figura 43. Il metodo del TNT equivalente si basa sull’assunzione che esplosioni che coinvolgono il rilascio di una certa quantità di energia abbiano effetti analoghi, almeno nel campo lontano dal centro dell’esplosione (cioè laddove l’esplosione possa essere effettivamente considerata puntiforme). L’applicazione di questo metodo al caso di una UVCE richiede quindi la valutazione della quantità di TNT equivalente, dal punto di vista dell’energia immessa nell’esplosione, con la relazione:

EHH

MMTNTc

gascgasTNT

,

,

Δ

Δ=

Il rapporto tra le energie rilasciate dalla combustione di 1 kg di gas infiammabile e da 1 kg di TNT (4377-4765 kJ/kg) è pari a circa 10 per molti idrocarburi. La principale incertezza nell’utilizzo di questo metodo risiede nella stima della massa di gas (come detto in precedenza) e dell’efficienza dell’esplosione, E. Quest’ultimo parametro racchiude tutte le differenze tra un’esplosione ideale e una UVCE e può essere stimato solo sulla base di esperienze storiche. Per tali dati non è solitamente disponibile la massa di gas presente all’interno dei limiti di infiammabilità e quindi il valore dell’efficienza dell’esplosione viene solitamente stimato sulla base dell’intera massa rilasciata. Purtroppo tale efficienza risente di numerosi parametri tipici del singolo episodio (condizioni meteorologiche, orografiche, del rilascio, …) che si riflettono su una grande variabilità dell’efficienza di esplosione, come mostrato nella Figura 44.

Figura 43 – Diagramma del TNT equivalente.

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Si nota che il valore centrale della distribuzione è pari a circa il 3%, anche se valori superiori sono stati sporadicamente riscontrati. Il 97% dei casi presenta comunque un valore inferiore al 10%. Utilizzando un valore del 3% e considerando il rapporto tra le energie rilasciate pari a 10, la massa di TNT equivalente risulta pari a circa il 30% della massa totale di gas rilasciata. Se si effettua un calcolo di dispersione per valutare la reale quantità di gas nella regione di infiammabilità, da tale massa si può ricavare una massa di TNT equivalente moltiplicando per 3 invece che per 0.3, sulla base dell’assunzione che mediamente il 10% della massa di gas rilasciata risulta essere all’interno dell’intervallo di infiammabilità. L’influenza del valore assunto per l’efficienza di esplosione sulla distanza a cui si riscontra un certo valore di pressione è riassunto nella Figura 45.

Figura 44 – Efficienza di esplosione.

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00,20,40,60,8

11,21,41,61,8

2

0 5 10 15 20

efficienza, %

x(E)

/ x(

E=3

%)

Figura 45 – Effetto del valore di efficienza di esplosione sulla distanza a cui si ha un cero valore di sovrappressione.

Si vede come aumentando il valore dell’efficienza dal 3% al 15% (massimo valore ragionevole) la distanza a cui si ha una data sovrappressione aumenta di circa il 70%. Un effetto analogo si ah per la stima della massa di gas: incrementando di 5 volte il valore della massa di gas la distanza a cui si riscontra una data sovrappressione aumenta di circa il 70%. Questo metodo non è applicabile in prossimità del centro della nube esplosiva, in quanto fornirebbe valori irrealisticamente elevati di sovrappressione. Una modifica solitamente utilizzata è quella di considerare il massimo valore di sovrappressione raggiungibile da una UVCE pari a 1 bar e limitare così superiormente la curva base del TNT, come mostrato in Figura 46 dove la quantità di esplosivo presente in ascissa è relativa al gas rilasciato. Assumendo un’efficienza pari al 10% e un rapporto tra le energie del gas e del TNT pari a 10 le quantità di gas e di TNT equivalente ovviamente coincidono, mentre assumendo un’efficienza minore la curva risulta traslata verso sinistra.

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Figura 46 – Curva di sovrappressione per una UVCE in funzione della quantità di gas rilasciata.

4.1.2 Modello TNO Il modello proposto dal TNO fino al 1997 (o modello di Wiekema) assimila la deflagrazione di una nube all’espansione di un pistone emisferico che si muove con una data velocità media definita, con riferimento alla Figura 47, come il rapporto tra r1 e il tempo della deflagrazione. Velocità medie di deflagrazione elevate sono caratteristiche di composti molto reattivi e/o la cui velocità di fiamma è molto sensibile alle accelerazioni causate dalla turbolenza (per esempio ossido di etilene), mentre il contrario è vero per bassi valori della velocità media di deflagrazione (per esempio, metano). Risolvendo il modello di un pistone emisferiche che accelera per diversi valori della velocità media il modello fornisce diverse correlazioni (una per ciascuna velocità media) tra la sovrappressione adimensionalizzata rispetto al valore atmosferico (P-Po/Po) e il rapporto adimensionalizzato tra la distanza e la radice cubica dell’energia contenuta inizialmente nella nube, 3 / oco PEVr . In questa relazione Vo è il volume iniziale della nube in zona infiammabile, mentre Ec=3.5 106 J/m3 rappresenta un valore medio dell’energia di combustione contenuta in un metro cubo di miscele stechiometriche di idrocarburi in aria. Si nota come, in accordo con quanto discusso in precedenza per esplosioni ideali, la Figura 47 prevede un andamento lineare su di un diagramma bilogaritmico della sovrappressione in funzione del rapporto tra la distanza e la radice cubica dell’energia rilasciata dall’esplosione.

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Figura 47 – Diagramma per l’uso del metodo di Wiekema.

Il metodo fornisce quattro curve che delimitano tre intervalli, ciascuno caratteristico di un dato intervallo di velocità media di deflagrazione. La principale novità introdotta da questo metodo è stata quella di parametrizzare diversi composti infiammabili in funzione proprio della loro reattività e tendenza ad accelerare il fronte di fiamma in tre categorie di reattività: bassa, media ed alta. In questo modo si è associato a ciascun composto un intervallo di sovrappressioni in funzione della distanza sul diagramma di Figura 47. In altri termini, si è risolto a priori il problema della scelta del valore dell’efficienza di esplosione nel modello del TNT equivalente. Più precisamente, si è ristretto il campo di variabilità di tale parametro. Infatti il metodo fornisce per ciascuna classe di reattività, e quindi per ciascun composto infiammabile, un intervallo di sovrappressioni per una data distanza che rappresenta l’influenza della presenza di ostacoli, e quindi dell’accelerazione che la fiamma può subire a causa della turbolenza, sulla sovrappressione. Il valore inferiore è caratteristico di esplosioni in aree poco congestionate, mentre il valore superiore è caratteristico di aree molto congestionate. Il metodo fornisce tipicamente un rapporto 2 – 3 tra il valore della distanza a cui si ha una certa sovrappressione utilizzando il limite inferiore e quello superiore. Questa incertezza non è molto differente da quella riscontrabile nella scelta del valore di efficienza col modello del TNT equivalente, come riassunto nella Figura 45. Prendendo un valore medio nell’intervallo la variabilità si riduce a un valore analogo a quanto visto col metodo del TNT equivalente.

4.1.3 Modello Multi – Energy L’idea di base del modello Multi-Energy è che perché una nube di gas infiammabile possa originare una UVCE è necessario che l’innesco avvenga in un’area sufficientemente

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congestionata da causare un significativo aumento della velocità del fronte di fiamma secondo i meccanismi discussi in precedenza. Di conseguenza non tutto il gas rilasciato partecipa all’esplosione, e nemmeno tutto il gas presente nel campo di infiammabilità, ma solo quello appunto all’interno di aree congestionate (o, in aggiunta, in regioni con turbolenza particolarmente elevata, come per esempio quelle in prossimità di un rilascio ad alta velocità). La violenza dell’esplosione dipende infine, secondo un approccio analogo a quello di Wiekema discusso in precedenza, sia dal tipo di gas sia dal grado di congestione dell’area. Ne consegue che la nube di gas rilasciata solitamente non origina una sola esplosione ma più esplosioni, i cui effetti devono essere considerati separatamente, localizzate nelle diverse aree congestionate dell’impianto. L’effetto delle diverse esplosioni viene riprodotto con un approccio del tutto analogo quello del precedente modello di Wiekema, parametrizzato questa volta su una scala di 10 diverse velocità medie della deflagrazione come riportato nella Figura 48.

Figura 48 – Diagrammi per la valutazione dei parametri dell’esplosione col metodo Multy - Energy

Le linee a tratto contino sono caratteristiche di una detonazione con un fronte d’urto verticale, mentre le linee tratteggiate rappresentano onde d’urto più graduali, caratteristiche delle deflagrazioni. I valori dei parametri sugli assi dei diagrammi sono adimensionalizzati come per il precedente metodo di Wiekema. Per quanto cerchi di rappresentare più correttamente la fenomenologia di una UVCE, anche questo metodo come i precedenti sconta la scelta arbitraria di alcuni parametri che, in ultima analisi, sono riconducibili allo stesso senso fisico dell’efficienza nel metodo del TNT equivalente. In particolare, è necessario definire quali sono le zone di un impianto che si devono considerare “congestionate” e quali no, è necessario definire oltre quale distanza due aree congestionate generano due esplosioni indipendenti (25 m è un suggerimento comune ma arbitrario) ed infine è necessario definire la classe dell’esplosione, da 1 a 10.

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Mentre la suddivisione delle aree congestionate o meno può essere ragionevolmente intuitiva, la scelta della classe dell’esplosione è l’aspetto cruciale. Il valore 10 fornisce risultati analoghi all’applicazione del metodo del TNT equivalente (limitato ovviamente al gas presente in una data regione congestionata) con un’efficienza del 20% (simile al valore del 30% relativo alla sola massa di gas presente nella regione infiammabile discusso per il metodo del TNT equivalente). Il valore 7 sembra essere ragionevole per molte situazioni pratiche; si nota anche per valori tra 6 e 7 non c’è differenza nei valori di sovrappressione inferiori a 0.1 bar e la massima pressione è 1 bar. Per aree non congestionate e miscela quiescente un valore 1 appare adeguato, mentre per aree non congestionate e miscela non quiescente un valore 3 può essere più adeguato. Una guida per la definizione della classe della deflagrazione è riportata in Figura 49. Il livello di congestione si può considerare alto quando se il grado di pieno (rapporto tra il volume degli ostacoli e il volume totale della zona congestionata) è maggiore del 30% e lo spazio tra gli ostacoli inferiore a 3 m. Il confinamento esiste se, oltre al suolo, la regione è confinata da una o due altre superfici piane. L’energia di ignizione è alta se viene causata, per esempio, da un’esplosione confinata all’interno dell’area, mentre è bassa per scintille, fiamme, zone calde, …

Figura 49 – Criteri per la definizione della classe di deflagrazione.

Una differenza di due ordini di grandezza nella sovrappressione a una data distanza si può originare dalla scelta di una classe di deflagrazione 1 o 10.

4.1.4 Metodo di Baker – Strehlow Questo metodo riprende l’idea di Wiekema di utilizzare una reattività dei composti combinandola con l’approccio del metodo Multi – Energy, che considera la deflagrazione solo di quella parte di nube presente in zone congestionate dell’impianto, per definire per velocità caratteristica della deflagrazione e quindi un diagramma di sovrappressione in funzione della distanza (parametrizzato questa volta sulla massima velocità raggiunta del fronte di fiamma nel corso della deflagrazione) come mostrato nella Figura 50. Analogamente ai modelli precedenti il problema viene spostato alla scelta della curva più opportuna per la situazione in esame. Anche in questo caso la scelta può essere guidata dal grado di congestione dell’area considerata, come riassunto, per il caso di ignizione non violenta, nella Figura 51. La tipologia di espansione (analoga al confinamento da piani paralleli per il metodo Multi –

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Energy) viene calcolata sulla base delle considerazioni riportate in Figura 52, mentre il grado di congestione viene stimato come riassunto in Figura 53. La reattività della miscela infiammabile viene classificata con considerazioni analoghe a quelle utilizzate dal metodo di Wiekema: è considerata alta per esempio, per l’idrogeno, bassa per il CO e il metano e media per la maggior parte dei gas.

Figura 50 – Diagramma di Baker - Strehlow

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Figura 51 – Velocità di fiamma caratteristiche (in termini di numero dio Mach) da utilizzare col metodo di Baker – Strehlow.

4.1.5 Confronto tra i diversi approcci I tre diversi approcci utilizzano dei grafici adimensionali (le cosiddette coordinate di Sach) parametrizzati su una variabile che definisce l’intensità della deflagrazione. Anche il metodo del TNT equivalente può essere parametrizzato sulla base dell’efficienza dell’esplosione. Un confronto tra i tre metodi su grafici con coordinate uniformi è mostrato in Figura 54. Appare evidente che, pur di selezionare opportunamente il parametro utilizzato dai diversi metodi, è praticamente sempre possibile ottenere risultati analoghi.

Figura 52 – Tipologie di espansione della fiamma per il modello di Baker – Strehlow..

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Figura 53 – Definizione del grado di congestione per il modello di Baker – Strehlow.

Selezionando come parametri rappresentativi di una deflagrazione non eccessivamente violenta un’efficienza del 10% per il metodo del TNT equivalente, una classe 5 per il metodo Multi – Energy e una velocità di fiamma di 0.25 Mach per il metodo di Baker – Strehlow, le curve relative possono essere poste su un unico diagramma come mostrato in Figura 55. Si vede come, a parte il campo vicino al centro dell’esplosione dove ovviamente il metodo del TNT equivalente sovrastima gli effetti, le curve tendono a collassare in un’unica correlazione. Applicando queste relazioni alla deflagrazione di 1000 kg di propano in uno spazio congestionato si ottengono coi diversi metodi i risultati riassunti in Figura 56 in forma grafica e in Figura 57. in forma numerica. Si può notare anche in questo caso che, a parte la zona di campo vicino alla sorgente dell’esplosione, le differenze tra i metodi sono comprese in un fattore 2 in termini di distanza a cui sono attesi determinate conseguenze, che è essenzialmente lo stesso ordine di incertezza derivante dalla scelta (ragionevole) del singolo parametro utilizzato dai diversi metodi.

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Figura 54 – Confronto tra i diversi metodi su scale omogenee.

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Figura 55 – Confronto tra i vari modelli per il caso di deflagrazione di media – bassa intensità.

Figura 56 – Risultati dei diversi modelli per la deflagrazione di 1000 kg di propano.

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Figura 57 – Distanze a cui si prevedono gli stessi valori di sovrappressione

In linea di principio solo i modelli avanzati possono essere considerati realmente predittivi, in quanto i modelli semplificati contengono alcuni sottomodelli tarati su alcuni set di dati sperimentali. D’altro canto, il principale problema dei modelli avanzati (a parte la grande quantità di risorse richiesta, sia in termini di esperienza dell’operatore sia in termini di prestazioni delle macchine, che ne limita l’applicazione a geometrie relativamente semplici), è la rappresentazione dell’interazione tra la turbolenza e la reazione di combustione che rende i modelli CFD in questo settore meno affidabili che non, per esempio, nel caso della dispersione in ambiente dove la complicazione legata alla presenza di reazioni chimiche non è presente. Per contro, come mostrato a titolo di esempio in Figura 58, il grado di dettaglio ottenibile da questo approccio è estremamente più elevato rispetto ai metodi discussi in precedenza.

Figura 58 – Esempio di simulazione CFD di una deflagrazione.

4.2 Esplosioni puntuali Si intendono con questo termine esplosioni che coinvolgono un piccolo volume di esplosivo, quali tipicamente le esplosioni di composti instabili o di esplosivi solidi. In questo caso l’approccio del TNT equivalente discusso in precedenza risulta adeguato con un’efficienza unitaria; l’unico fattore di scala da considerare è il valore dell’energia liberata dall’esplosione del composto considerato rispetto a quella del TNT. Un elemento di incertezza è la quantità di

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composto che realmente partecipa alla formazione dell’onda d’urto: non sempre tutta la quantità presente si decompone così rapidamente da contribuire all’esplosione.

4.3 Esplosioni fisiche Si riassumono con questo termine tutte le esplosioni generate da una rapida espansione di un composto in fase liquida o vapore senza che vi sia alcuna reazione chimica collegata alla formazione dell’onda d’urto, quale quella di combustione coinvolta nelle UVCE. Una reazione potrebbe essere coinvolta nella fase di pressurizzazione di un recipiente, come per esempio nel caso di una deflagrazione confinata che aumenta la pressione in un recipiente che poi collassa. Tipicamente si hanno infatti esplosioni fisiche a seguito del collasso di un recipiente, col conseguente rilascio in ambiente sia della massa, sia dell’energia interna contenuta. La differenza tra l’energia interna posseduta dal composto nel recipiente e nell’ambiente rappresenta la massima energia disponibile per generare l’esplosione. In realtà non tutta l’energia disponibile viene utilizzata per generare l’onda d’urto: una parte viene trasformata in energia cinetica dei frammenti del recipiente che vengono proiettati anche a grande distanza (e spesso rappresentano la principale fonte di pericolo in caso di collasso del recipiente per i possibili effetti domino che può innescare); una parte può essere utilizzata per deformare il recipiente prima della rottura; una parte viene dissipata nel riscaldamento dell’aria durante l’espansione. La parte di energia interna che invece viene utilizzata per espandere il fluido forma un’onda d’urto le cui caratteristiche dipendono dalla velocità caratteristica del fenomeno di espansione: maggiore è la velocità del fenomeno, tanto più le caratteristiche dell’onda d’urto generata assomigliano a quelle generate dall’esplosione di un esplosivo solido (TNT). La frazione di energia che può formare l’onda d’urto è di difficile quantificazione: può essere stimata tra il 40% e l’80% dell’energia disponibile. Fratture fragili forniscono valori maggiori. Un approccio conservativo (ragionevole in quanto le sovrappressioni generate dal collasso di un recipiente non sono solitamente così elevate da generare effetti disastrosi a grandi distanze) prevede di considerare che tutta l’energia disponibile vada a formare l’onda d’urto. L’onda d’urto viene quindi generata dalla trasformazione di parte dell’energia interna del fluido in energia meccanica. L’energia interna del fluido disponibile per la formazione dell’onda d’urto dipende quindi dallo stato termodinamico del fluido, che a sua volta dipende dal tipo di fluido contenuto nel recipiente e dalle condizioni a cui il recipiente stesso collassa. Il calcolo dell’energia interna posseduta dal fluido al momento del collasso può essere effettuata in modo differente a seconda dello scenario coinvolto: espansione di un gas ideale o non ideale, di un liquido che evapora (flash o BLEVE, caldo o freddo), deflagrazione confinata, … Analogamente a quanto discusso in precedenza per il caso di UVCE, i metodi più utilizzati sono delle varianti del metodo del TNT equivalente, che può a sua volta essere utilizzato direttamente. Anche in questo caso le previsioni risultano poco accurate nella regione prossima al recipiente (fino a circa 10 – 20 diametri), mentre risultano ragionevoli a distanze superiori. La valutazione della proiezione di frammenti è viceversa molto aleatoria stante l’incertezza legata al modo di rottura del recipiente. Questo tipo di analisi viene solitamente utilizzato per investigare incidenti più che per prevederne gli effetti nell’analisi di rischio, anche se come detto l’effetto principale del collasso di un recipiente può essere proprio l’effetto domino innescato dai frammenti.

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L’utilizzo del metodo del TNT equivalente (o di altri, che prevedono delle correzioni per la regione prossima alla sorgente) richiede la stima dell’energia rilasciata. Se il recipiente contiene del gas assimilabile a un gas ideale la differenza di energia interna tra lo stato iniziale prima del collasso e quello finale in condizioni ambiente si può calcolare come:

( )11

11

−−

VPPE a

dove il pedice 1 si riferisce alle condizioni del gas nel recipiente prima della rottura, Pa è la pressione ambiente, V il volume e γ il rapporto tra i calori specifici. Se il recipiente contiene anche liquido bisogna verificare se può dare flash o BLEVE confrontando la temperatura ambiente con la temperatura di ebollizione normale e con quella limite per la nucleazione omogenea. Se il liquido non può dare flash si ha l’espansione del solo vapore. Se può dare BLEVE anche l’espansione del liquido evaporato contribuisce alla formazione dell’onda d’urto, se può dare flash l’espansione del liquido evaporato può contribuire alla formazione dell’onda d’urto. In questo caso un approccio conservativo è quello di considerare anche la frazione di liquido evaporata per il calcolo dell’energia disponibile. In tutti i casi la variazione di energia interna può essere effettuata utilizzando un diagramma termodinamico per il fluido in esame o effettuando un calcolo di flash isoentropico con un simulatore di processo. Nel caso di utilizzo di diagrammi di stato nelle condizioni di temperatura e pressione del recipiente prima del collasso si leggono sul diagramma i valori di entalpia specifica, h, e di volume specifico, v. Seguendo una linea isoentropica si calcolano le stesse grandezze a pressione ambiente. L’energia interna specifica viene calcolata come u = h –Pv. Nel caso in cui lo stato finale sia costituito da una miscela di liquido e vapore saturo, le grandezze specifiche della miscela si calcolano come mmix = (1-x)mL + x mV. In questa relazione m è una grandezza specifica qualsiasi, L e V si riferiscono al liquido e al vapore saturo, mentre x è il titolo in vapore, anch’esso fornito dal diagramma di stato.

4.4 Incendi da pozza (pool fire) Un incendio da pozza può essere definito come una fiamma diffusiva turbolenta sopra la superficie orizzontale di un combustile liquido che evapora così lentamente da avere una quantità di moto iniziale sostanzialmente nulla. Una caratteristica fondamentale di questo tipo di incendi è la presenza di un feedback tra la fiamma e il combustibile in quanto, in misura più o meno importante, il trasferimento di calore dalla fiamma alla pozza di liquido influenza (e al limite controlla) la velocità di evaporazione del combustibile e quindi in ultima analisi le dimensioni della fiamma. La variabile principale che influenza le dimensioni di un pool fire, e quindi sia la possibilità che la fiamma avvolga delle unità d’impianto vicine sia l’irraggiamento nelle aree circostanti, è il diametro della pozza. Per diametri inferiori al metro la fenomenologia dell’incendio è differente che per diametri maggiori, che sono però quelli di interesse per gli incidenti industriali . La temperatura del rilascio determina essenzialmente la possibilità che parte del liquido dia origine a un flash e l’importanza relativa del trasferimento di calore dal terreno (che risulta importante per liquidi criogenici). In questo caso, come discusso per il caso dell’evaporazione da pozza, anche le caratteristiche del terreno possono influenzare la velocità di evaporazione del liquido. Infine la velocità del vento ha un’importanza non trascurabile sulla lunghezza e inclinazione (tilt) della fiamma, nonché sul possibile trascinamento della fiamma nella direzione del vento (drag).

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La modellazione di un incendio da pozza utilizza solitamente diversi sottomodelli per ciascuno dei fenomeni coinvolti: velocità di bruciamento, diametro della pozza, geometria della fiamma, fattore di vista, trasmissività atmosferica e potenza emessa dalla fiamma. Il calcolo del diametro della pozza è il primo parametro da determinare in quanto determina la geometria della fiamma. La velocità di bruciamento determina invece la massima potenza complessivamente emessa dalla fiamma nell’ipotesi che il combustibile bruci con una quantità stechiometrica di aria (in realtà, trattandosi di una fiamma diffusiva, le condizioni sono fortemente non stechiometriche e inoltre l’energia fornita dalla combustione incompleta del combustibile in parte viene irraggiata e in parte viene dispersa coi fumi caldi). La velocità di bruciamento è però comunque correlata alla potenza realmente irraggiata dalla fiamma. Il flusso termico che colpisce un ricettore è infine determinato non solo dalla potenza irraggiata dalla fiamma, ma anche dalla trasmissività dell’atmosfera (che determina la frazione di energia irraggiata che non viene assorbita dall’anidride carbonica e dall’umidità dell’atmosfera) e da fattore di vista (che determina la frazione dell’energia emessa dalla superficie della fiamma che viene intercettata dal ricettore). Le dimensioni della fiamma possono essere imposte dal confinamento, per esempio un bacino di contenimento, oppure essere definite dal bilanciamento tra la portata scaricata di combustibile e la sua velocità di consumo per opera della fiamma. Si noti che anche nel caso in cui sia presente un confinamento, le massime dimensioni della pozza possono essere inferiori a quello del bacino di contenimento se la perdita di combustibile è di limitata entità. Il rilascio del combustibile può essere schematizzato come istantaneo o continuo in funzione del valore della durata del rilascio, tR, rispetto a un tempo caratteristico della combustione, tC. Quest’ultimo può essere stimato come il rapporto tra una dimensione caratteristica dello scarico (pari per esempio alla radice cubica del volume di liquido combustibile rilasciato, VL) e la velocità lineare di bruciamento, y in m/s. La schematizzazione del fenomeno come continuo o istantaneo viene quindi fatta sulla base del valore del rapporto tra i tempi caratteristici:

⎩⎨⎧

→<→>

=istantaneo002.0continuo002.0

3 yVt

L

Nel caso di rilascio istantaneo le dimensioni della pozza non confinata dipendono dallo spessore limite assunto, come discusso precedentemente. Nel caso invece di rilascio continuo la pozza si espande finché la velocità con cui il combustibile viene consumato dalla fiamma bilancia la portata volumetrica rilasciata, mL:

4

2DymLπ

=

In realtà il massimo valore del diametro della pozza risulta superiore a quello calcolabile con la relazione precedente in quanto nel periodo di tempo tra l’inizio dello scarico e il raggiungimento del valore di equilibrio la portata di combustibile bruciato è inferiore a quella riportata nella formula precedente. Si ha così che una parte del liquido scaricato si accumula e provoca un piccolo aumento del diametro della pozza incendiata (stimabile in un fattore pari a

2 ), che poi si contrae per raggiungere il valore di equilibrio. La velocità di bruciamento è il risultato di un bilancio tra l'energia scambiata dalla pozza di liquido con l’ambiente e l’energia necessaria per evaporare il liquido, come mostrato nella Figura 59.

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88

Irraggiamento∝D2

Conduzione conla fiamma ∝D2

Conduzione dalterreno ∝D2

Scambio conl’ambiente ∝D

Importante per liquidi criogenici

Importante per piccoli diametri

o alti ΔT

Irraggiamento∝D2

Conduzione conla fiamma ∝D2

Conduzione dalterreno ∝D2

Scambio conl’ambiente ∝D

Importante per liquidi criogenici

Importante per piccoli diametri

o alti ΔT

Figura 59 – Scambi termici tra la pozza di liquido combustibile e l’ambiente che determinano la velocità di bruciamento.

Si vede come tutti i contributi dipendono dal quadrato delle dimensioni della pozza tranne il termine di scambio termico con l’ambiente, che quindi diviene importante solo per bassi diametri (inferiori al metro) o per alte differenze di temperatura tra il combustibile e l’ambiente (cosa impossibile per combustibili liquidi caratterizzati da una bassa temperatura di ebollizione, ma molto comune per combustibili solidi, che devono raggiungere temperature elevate per emettere gas combustibili). Questo, insieme ai diversi regimi fluidodinamici che si instaurano al variare delle dimensioni della pozza, spiega l’andamento sperimentale della velocità di combustione dei liquidi riportato nella Figura 60 che evidenzia come per dimensioni superiori a circa 1 m la velocità di combustione assume un valore all’incirca costante. Questo valore asintotico è riassunto per alcuni combustibili tipici in Tabella 9.

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Figura 60 – Andamento della velocità di combustione di combustibili liquidi con le dimensioni della pozza.

Tabella 9 – Velocità di bruciamento su terreno di alcuni combustibili liquidi.

combustibile velocità di bruciamento, kg/(m2 s)

idrogeno liquido 0.169 LNG 0.078 LPG 0.099 butano 0.078 esano 0.074 eptano 0.101 benzene 0.085 xilene 0.090 benzina 0.055 kerosene 0.039 JP-5 0.054 metanolo 0.015 etanolo 0.015

Si deve tener conto che si tratta comunque di un dato sperimentale soggetto a notevoli incertezze, come mostrato nella Figura 61, che mostra anche come il termine di scambio termico col terreno può diventare importante per pozze di combustibili a bassa temperatura, come LNG o LPG. I dati sperimentali possono essere rappresentati dalla retta riportata nella stessa figura:

89

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]/[1027.1 6 smdTCH

Hy

b

a

T

T Pev

comb

∫+Δ

Δ⋅= −

Assumendo una densità media paria 787 kg/m3 la relazione precedente fornisce un’equazione per la stima della velocità di bruciamento ponderale:

)]/([10 23 smkgdTCH

Hm

b

a

T

T Pev

combb

∫+Δ

Δ= −

che, confrontata coi dati sperimentali in Figura 62 mostra una buona capacità previsionale.

Scambio termico col terreno

Scambio termico col terreno

Figura 61 – Andamento delle velocità lineari di bruciamento su terreno.

Più complicato è il caso di rilasci su acqua. Per combustibili liquidi sottoraffreddati la velocità di bruciamento su acqua non differisce sostanzialmente da quella su terreno, mentre per quei combustibili per cui lo scambio termico col terreno o con l’acqua gioca un ruolo importante nell’evaporazione del combustibile (come per esempio LNG o LPG) la velocità di bruciamento può essere molto superiore (per esempio, di circa un fattore 2 per LPG e di un fattore 3 per LNG), come mostrato nella Tabella 10. La geometria della fiamma è importante sia per definire la superficie irraggiante sia per verificare la possibilità che apparecchiature vicine vengano a contatto con le fiamme. Le principali caratteristiche geometriche di una fiamma da pozza sono riassunte in Figura 63, dove viene anche evidenziato il carattere non geometricamente ben definito della fiamma. Infatti, le correlazioni utilizzate solitamente per calcolare la lunghezza della fiamma si riferiscono alla parte visibile della fiamma stessa. Normalmente, trattandosi di fiamme diffusive turbolente, vi è una gran quantità di particolato carbonioso presente nella fiamma che scherma gran parte della superficie esterna, come mostrato in Figura 64. Ne consegue che l’altezza a cui i fenomeni di combustione cessano è ben maggiore dell’altezza della fiamma visibile, e di questo si dovrebbe tener conto nell’analisi di eventuali effetti domino su parti sensibili dell’impianto. Inoltre la configurazione geometrica di una fiamma presenta un effetto pulsante con periodo di circa 1 secondo in cui grosse fiamme raggiungono la superficie

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esterna della fiamma. I valori stimati dalle correlazioni disponibili rappresentano quindi dei valori medi nel tempo, così come i seguenti valori stimati dell’irraggiamento che da tali fiamme proviene.

Figura 62 – Velocità di bruciamento ponderale di combustibili liquidi su terreno.

Esistono numerose correlazioni per calcolare la massima altezza della parte visibile della fiamma ed alcune di esse sono riportate in Figura 65. Si nota come non vi sia una marcata differenza tra le diverse relazioni, se utilizzate in intervalli ragionevoli dei diversi parametri coinvolti. Analogamente, il trascinamento della fiamma nella direzione del vento comporta che la dimensione caratteristica della pozza (solitamente assunta di forma circolare) sia maggiore nella direzione del vento che perpendicolarmente ad esso, facendo così assumere alla base della fiamma una forma ellittica. Il rapporto tra le due dimensioni in funzione della velocità del vento può essere espresso in funzione di un numero di Froude (che compara i termini inerziali del vento con quelli gravitazionali di galleggiamento, gDuFr 2

10= ) come:

91

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48.0069.02

25.1'

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛=

a

V

gDu

DD

ρ

ρ

L’influenza della velocità del vento è riportata in Figura 66, da cui si vede che come stima di massima anche una modesta velocità del vento può incrementare la dimensione nella direzione del vento della pozza infiammata del 50%. Questo può essere importante, più che per il calcolo dell’irraggiamento sull’ambiente circostante, per valutare la possibilità che la fiamma coinvolga apparecchiature poste nelle vicinanze. Appare evidente che valori del rapporto tra le dimensioni inferiori a 1 non hanno alcun significato. Tabella 10 – Confronto tra le velocità di bruciamento su terreno e su acqua.

Analogamente anche l’inclinazione della fiamma per opera del vento può essere stimata sulla base del numero di Froude precedente come:

117.0333.0 Re66.0)cos()tan( Fr=

ϑϑ

dove sia il numero di Reynolds sia quello di Froude sono basati sulla velocità del vento a 10 m e sul diametro della pozza. In alternativa, la stessa inclinazione può essere stimata come:

( ) 3/1**

5.06.1*,

*

111

cosVmgD

uuuuu

ρϑ =

⎩⎨⎧

><

= −

92

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Un confronto tra le due relazioni mostrato in Figura 68 mostra come, a parte la zona a bassa velocità di vento che, essendo caratterizzata da un’intrinseca elevata variabilità non consente una stima accurata dell’inclinazione della fiamma, per velocità del vento superiori a 1 m/s le due correlazioni convergono su valori simili. Analogamente alla stima del drag, anche la stima del tilt di una fiamma da pozza può essere importante, più che per il calcolo dell’irraggiamento sull’ambiente circostante, per valutare la possibilità che la fiamma coinvolga apparecchiature poste nelle vicinanze. Nota la geometria della fiamma, assimilata a un tronco di cono con le dimensioni calcolate in precedenza, è necessario stimare l’emissività specifica della superficie, cioè la potenza emessa per unità di superficie. Il principale problema consiste nel fatto che la fiamma non è un emettitore superficiale ma volumetrico. In altri termini, sono i gas caldi e le particelle incandescenti all’interno della fiamma che irraggiano; le particelle solide che raggiungono la superficie esterna viceversa ne oscurano l’emissione.

Figura 63 – principali parametri geometrici di una fiamma.

Poiché le fiamme da pozza sono fiamme a diffusione, il diametro della pozza gioca un ruolo fondamentale sulla possibilità che l’aria richiamata dall’ambiente possa miscelarsi correttamente anche con i vapori emessi nella parte centrale della pozza. A bassi valori del diametro della pozza si ha una piccola produzione di particolato e la fiamma risulta pulita. Aumentando viceversa il diametro della fiamma la quantità di particolato incombusto via via aumenta riducendo l’emissività della fiamma stessa. Ovviamente il tipo di combustibile gioca

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un ruolo fondamentale: idrogeno, propano, etano, LNG e altri composti idrocarburici leggeri non formano particolato. L’approccio più semplice è quello di dividere la potenza emessa dalla fiamma per la superficie del cilindro a cui la fiamma viene assimilata. Se l’intera portata evaporante di combustibile bruciasse stechiometricamente con aria e tutta l’energia liberata dalla combustione venisse irraggiata dalla fiamma, la potenza emessa sarebbe facilmente calcolata moltiplicando la portata di combustibile evaporante per il calore di combustione. Ovviamente ciò non è vero, sia per la parziale combustione del combustibile dovuta alla natura diffusiva della fiamma, sia per il parziale oscuramento della fiamma stessa per opera del particolato. Di questo si può tener conto, in modo del tutto analogo a quanto fatto nel caso delle esplosioni per il metodo del TNT equivalente, con un fattore di efficienza che dia conto della frazione di energia disponibile che viene effettivamente irraggiata, η. Noto questo valore la potenza irraggiata dalla fiamma può essere calcolata come:

Figura 64 – Schematizzazione di una fiamma fumosa.

ηcpoolb HAmQ Δ= mentre l’emissività superficiale può essere calcolata dividendo tale potenza emessa per la superficie del cilindro equivalente, le cui dimensioni sono state calcolate in precedenza, come:

DHQE

π≈

Valori tipici dell’efficienza di irraggiamento, tipicamente dell’ordine di 0.15 – 0.4, sono riportati in Tabella 11. Esistono anche altri approcci per la stima dell’emissività superficiale. Per idrocarburi che formano fiamme fumose l’emissività superficiale può essere stimata come una media pesata

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sul diametro della pozza tra l’emissività massima della zona luminosa della fiamma (Em, circa 140 kW/m2) e quella del particolato (Es, circa 20 kW/m2):

( )Ds

Dm eEeEE 12.012.0 1 −− −+=

In alternativa, nota la temperatura di ebollizione normale di un idrocarburo, l’emissività superficiale della fiamma può essere stimata anche come:

bTE 313.0117 −= Un confronto tra le diverse correlazioni per un incendio di una pozza di benzina è mostrato in Figura 69. Si nota che l’emissività superficiale può variare anche significativamente col diametro, coerentemente con le osservazioni sperimentali che mostrano come, per un incendio da pozza di kerosene, si possa passare dai 130 kW/m2 di una pozza di 2 m, ai 60 kW/m2 di una pozza di 10 m, fino ai 35 kW/m2 di una pozza di 20 m. D’altro canto questo è vero per fiamme fumose. Fiamme di LNG presentano per esempio valori dell’ordine dei 140 kW/m2 anche per diametri elevati.

1

2

3

4

5

6

7

0 1 2 3 4 5

vel vento, m/s

H/D

61.0

42⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

gDm

044.010*,

254.0

2.6 −⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛u

gDm

21.010*,

67.0

55 −⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛u

gDm

aρ( ) 3/1*

VmgDuuρ

=

( )02.126.0

5/2

−Δ

DAHm c

thomas

1

2

3

4

5

6

7

0 1 2 3 4 5

vel vento, m/s

H/D

61.0

42⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

gDm

044.010*,

254.0

2.6 −⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛u

gDm

21.010*,

67.0

55 −⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛u

gDm

aρ( ) 3/1*

VmgDuuρ

=

( )02.126.0

5/2

−Δ

DAHm c

thomas Figura 65 – confronto tra diversi modelli per la stima della lunghezza di una fiamma da pozza.

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0,6

0,8

1

1,2

1,4

1,6

0 1 2 3 4 5

vel vento, m/s

D'/D

0,6

0,8

1

1,2

1,4

1,6

0 1 2 3 4 5

vel vento, m/s

D'/D

Figura 66 – Effetto della velocità del vento sulla dimensione prevalente della pozza incendiata.

Definita l’emissività superficiale l’ultimo passo è la stima dell’irraggiamento su di un dato recettore. Per fare questo bisogna tener conto del fatto che una frazione dell’energia irraggiata viene assorbita dall’umidità e dall’anidride carbonica presente nell’atmosfera. La frazione assorbita tipicamente non è trascurabile, essendo solitamente dell’ordine del 20 – 40%, e può essere stimata in funzione dell’umidità atmosferica e della distanza tra emettitore e ricettore, X, come:

( ) 09.002.2 −= XPwAτ

Il termine ⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛−=

Aw T

RHP 53284114.14exp25.1013 rappresenta l’influenza dell’umidità

relativa percentuale dell’atmosfera, RH. Il modello più semplice per il calcolo del flusso di energia che colpisce un dato ricettore, come sempre, è di tipo puntuale e assume che tutta l’energia venga irraggiata dal centro geometrico della fiamma distribuendosi quindi su di una superficie sferica, Figura 67. Il fattore di vista in questo caso, cioè la frazione di energia irraggiata che viene intercettata dal recettore, è semplicemente il reciproco della superficie della sfera con raggio pari alla distanza tra il centro della fiamma e il ricettore e l’irraggiamento sul ricettore, I, si calcola semplicemente come:

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]/[4

22

mkWXQI Aτ

π=

Figura 67 – Modello di fiamma puntiforme.

L’incertezza nell’utilizzo di questo approccio è essenzialmente confinata nella stima dell’efficienza di irraggiamento. Se invece si considera la fiamma come un emettitore solido di geometria definita (il cilindro di cui si sono calcolate le dimensioni precedentemente) è necessari calcolare il fattore di vista, F, di un recettore con una data inclinazione relativa rispetto all’orizzontale e posto ad una certa distanza dal cilindro inclinato come integrale sulla superficie dei fattori di vista infinitesimali della superficie del cilindro. La soluzione di questo integrale di superficie è solitamente analitica ed è disponibile per un certo numero di inclinazioni relative fiamma – recettore. In questo caso l’irraggiamento sul recettore si calcola come:

]/[ 2mkWFEI Aτ= L’incertezza nell’utilizzo di questo approccio è essenzialmente confinata nella stima dell’emissività superficiale, analogamente a quanto avviene per il modello puntiforme dove l’incertezza risulta concentrata nella stima dell’efficienza di irraggiamento.

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0

10

20

30

40

50

60

70

0 1 2 3 4 5

vel vento, m/s

θ, g

radi

Figura 68 – Influenza della velocità del vento sull’inclinazione della fiamma.

4.5 Fiamme da getti turbolenti (jet flame) Una fiamma da getto turbolento è una fiamma diffusiva risultante dalla combustione di un combustibile (liquido o gassoso) rilasciato in modo continuo con una quantità di moto non trascurabile in una ben definita direzione.

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Tabella 11 – Efficienza di irraggiamento.

99

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50

75

100

125

150

0 2 4 6 8 10

Diametro, m

E,kW

/m2

( )Ds

Dm eEeEE 12.012.0 1 −− −+=

DHQE

π≈

bTE 313.0117 −=

50

75

100

125

150

0 2 4 6 8 10

Diametro, m

E,kW

/m2

( )Ds

Dm eEeEE 12.012.0 1 −− −+=

DHQE

π≈

bTE 313.0117 −=

Figura 69 – Stima dell’emissività superficiale in funzione del diametro della pozza.

La principale differenza tra questo tipo di incendi e gli incendi da pozza è che non esiste alcun feedback dalla fiamma al combustibile che determina circolarmente la velocità di bruciamento e quindi la potenza emessa dalla fiamma e la sua geometria. Nel caso di getti turbolenti la velocità di bruciamento è pari alla portata di combustibile scaricato e la geometria della fiamma è interamente determinata dalle caratteristiche fluidodinamiche del getto. Getti turbolenti non si originano necessariamente da scarichi sonici. Jet fire originati dall’innesco di scarichi gassosi subsonici sono molto influenzati dalla velocità del vento e dalla spinta di galleggiamento dopo la zona iniziale della fiamma che viceversa è dominata dalla quantità di moto del getto scaricato. Il richiamo di aria nei getti subsonici non è particolarmente elevato e quindi presentano tutte le caratteristiche tipiche delle fiamme diffusive risultando relativamente lunghe , fumose ed emissive. Analogamente, lo scarico di gas liquefatti origina un jet fire di goccioline di combustibile che possono dare flash e sono quindi anch’essi solitamente caratterizzati da una bassa velocità come i getti subsonici. Il richiamo di aria è viceversa molto maggiore nei getti sonici, generando fiamme con caratteristiche più simili alle fiamme premiscelate e risultano quindi relativamente corte, poco fumose e poco emissive (l’irraggiamento proviene principalmente da anidride carbonica e acqua piuttosto che dal particolato incandescente). Infine, jet fire si possono originare anche dallo scarico di liquidi meno volatili a pressioni che generano uno spray. In questo caso le goccioline che evaporano persistono nella fiamma per una lunga distanza e il richiamo di aria e la velocità dei gas risulta simile a quella presente in un pool fire. I numeri adimensionali che caratterizzano i diversi regimi delle fiamme sono il numero di Reynolds basato sul diametro dell’orifizio e sulla velocità di scarico del getto, νuD=Re , il

100

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numero di Froude che compara i termini inerziali con quelli gravitazionali di galleggiamento, gDuFr 2= (o. analogamente il numero di Richardson, 31 FrRi = ), e un flusso termico

adimensionale, ( )2* DgDTCQQ aaPaρ= dove si è indicata con Q la potenza termica generata dalla combustione del getto di combustibile scaricato. Le caratteristiche geometriche dei diversi tipi di fiamma a diffusione possono essere classificate in funzione di Fr, come mostrato nella Figura 70 per il rapporto lunghezza della fiamma sul diametro dell’orifizio di scarico.

Figura 70 - Classificazione delle fiamme in funzione del numero di Froude

Le regioni I e II di questa figura corrispondono a fiamme a diffusione turbolente dominate dalla convezione naturale, come tipicamente avviene per gli incendi di pozze di liquido o di materiali solidi. Viceversa, la regione V caratterizzata da alti numeri di Froude corrisponde a jet fire pienamente turbolenti. L’effetto della velocità di scarico del getto sulla geometria della fiamma al variare della velocità di scarico è rappresentato invece nella Figura 71.

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Figura 71 – Andamento qualitativo dell’altezza di una fiamma diffusiva verticale in aria calma al variare della velocità di scarico.

Si nota che a basse velocità di scarico la fiamma risulta laminare all’aumentare della velocità di scarico aumenta anche la lunghezza della fiamma che può raggiungere valori considerevoli. Ad un certo punto si innescano i meccanismi turbolenti che richiamano aria in maggior quantità all’interno della fiamma. Questo porta a ridurre la lunghezza della fiamma in quanto i meccanismi di combustione risultano accelerati dalla presenza di una maggiore quantità di aria che si miscela col combustibile scaricato. Oltre un certo valore della velocità di scarico la lunghezza della fiamma non varia più significativamente. Il valore critico della velocità oltre la quale il getto diventa turbolento è definito da un valore critico del numero di Reynolds basato sul diametro dello scarico e dipendente dal tipo di combustibile. Valori tipici variano da circa 2000 per l’idrogeno a circa 9000 per il propano; ne consegue che rilasci di interesse dal punto di vista degli incidenti rilevanti originano sempre fiamme turbolente. L’approccio alla modellazione dei jet fire è analogo a quello seguito per i pool fire: determinata la geometria della fiamma si prosegue con la stima dell’emissività superficiale e quindi del fattore di vista per giungere alla valutazione dell’irraggiamento su di un dato recettore, come mostrato nella Figura 72. Più che nel caso dei pool fire, il problema del coinvolgimento di apparecchiature vicine nella fiamma con conseguente effetto domino è importante nel caso dei jet fire a causa della loro direzionalità che può portare la fiamma anche a distanze considerevoli dal punto di emissione, per esempio nel caso di getti orizzontali. La definizione della geometria dei jet fire incontra problemi analoghi a quella dei pool fire. L’aspetto delle fiamme di jet fire varia da fiamme praticamente invisibili, come quelle caratteristiche della regione vicino al punto di rilascio di gas naturale scaricato ad alta pressione, a fiamme molto fumose, come la parte lontana dal punto di scarico di rilasci di idrocarburi più pesanti. Analogamente al caso dei pool fire , la fiamma viene solitamente definita come la regione visibile, trascurando quindi la zona oscurata dai fumi. Inoltre, la traiettoria della fiamma è sempre, in modo più o meno accentuato, curvilinea in quanto risulta dal bilancio delle azioni della quantità di moto iniziale, del vento e della spinta di galleggiamento. La definizione di una lunghezza di fiamma è quindi soggetta ad alcune ambiguità. Come i pool fire, anche i jet fire sono fenomeni pulsanti ed intrinsecamente non stazionari: le previsioni dei modelli sono sempre quantità mediate nel tempo.

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Complessivamente lo sviluppo di modelli di simulazione per jet fire segue lo stesso percorso seguito per il pool fire, anche se la maggior varietà delle casistiche che si possono incontrare (getti di gas subsonici e sonici, getti bifase, getti liquidi soggetti a flash, getti liquidi sottoraffreddati, ...) porta a risultati meno consolidati. Analogamente al caso dei pool fire, i modelli di simulazione della geometria dei jet fire si possono dividere in due categorie: quelli che determinano solo la lunghezza della fiamma ed applicano poi un modello puntiforme, assumendo che l’intera energia venga rilasciata dal centro della fiamma, e quelli che rappresentano la fiamma come un tronco di cono con una data emissività superficiale. Per entrambi gli approcci esistono diversi modelli per la stima delle caratteristiche geometriche della fiamma. Un principio generale di una certa rilevanza è quello di non utilizzare delle correlazioni proposte nell’ambito di un certo modello per caratterizzare la geometria della fiamma per poi utilizzare correlazioni per il calcolo dell’irraggiamento sviluppate nell’ambito di un diverso modello. Le due fasi della modellazione (calcolo della geometria e dell’irraggiamento) sono intrinsecamente correlate e la convalida di ciascun modello riguarda (essendo solitamente effettuato sul risultato finale: l’irraggiamento al suolo) l’insieme dei due sottomodelli.

Figura 72 – Schematizzazione di un jet fire.

Le fiamme turbolente tendono a produrre un mescolamento tra combustibile e aria molto più efficace e quindi a ridurre la formazione di particolato carbonioso. Di conseguenza le fiamme laminari tendono ad essere più luminosi e ad avere un’emissività più elevata, anche se questo effetto dipende ovviamente dal combustibile. Indicativamente, la frazione di energia irraggiata da una fiamma a diffusione di metano o propano è circa il 30% per una fiamma laminare, ma si riduce a circa il 20% per una fiamma turbolenta. La situazione più semplice, anche se di scarso interesse per il caso di eventi incidentali, è rappresentata da una fiamma laminare verticale in aria calma. In questo caso, per jet fire di

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idrocarburi la lunghezza della fiamma, L, può essere calcolata con la relazione di Hottel e Hawthorne:

TT

oV

j DCDCQ

dL

π4=

dove dj è il diametro dell’orifizio da cui viene scaricato il getto, QV la portata volumetrica del getto, Co la frazione molare del combustibile nel getto, CT la frazione molare del combustibile per una miscela stechiometrica con aria e DT la diffusività termica. Analogamente semplice, ma di maggior interesse, è il caso di una fiamma turbolente verticale in aria calma. Per questa situazione sono disponibili diverse correlazioni per stimare la lunghezza della fiamma in funzione di diverse variabili: concentrazione stechiometrica del combustibile, limite inferiore di infiammabilità, quantità di moto del getto, spinta di galleggiamento della fiamma, potenza rilasciata dalla fiamma, velocità di ingrasso dell’aria ambiente, ... Una delle prime relazioni sviluppate è quella di Howthorne:

( ) ⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛−+=

F

aTT

jT

F

Tj MM

CCT

TCd

L 13.5α

dove L è la lunghezza della parte visibile della fiamma turbolenta (a partire cioè dal punto in cui la fiamma laminare diviene instabile), TF la temperatura adiabatica di fiamma, Tj la temperatura del getto, Ma e MF il peso molecolare dell’aria e del combustibile e αT il rapporto molare tra reagenti e prodotti di combustione per una miscela stechiometrica. Questa relazione è applicabile per jet fire dominati dalla quantità di moto, e quindi per alti numeri di Froude. Questa relazione è in buon accordo con diverse osservazioni sperimentali e mostra come la lunghezza della fiamma dipenda linearmente dal diametro dell’orifizio ma sia indipendente dalla portata volumetrica del getto. Per getti di idrocarburi a temperatura ambiente i parametri presenti nella relazione precedente assumono dei valori all’incirca costanti e tali per cui CT<<1, αT ≈1 e TF / Tj ≈ 8. La relazione precedente si approssima quindi con la seguente:

F

a

j MM

CdL

T

15≈

Un altro modello analogo è quello di Brzustowski che si basa sull’assunzione che la fiamma, per getti fortemente turbolenti caratterizzati da numeri di Reynolds molto elevati, termini laddove, sull’asse del getto la concentrazione del combustibile è pari al limite inferiore di infiammabilità. Utilizzando la teoria dei getti liberi turbolenti in atmosfera calma, è possibile derivare una relazione per valutare la distanza a cui si raggiunge sull’asse di un getto turbolento non reagente una concentrazione pari al limite inferiore di infiammabilità e ottenere quindi una stima della lunghezza della fiamma:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛−+= 1

297.011

32.0 LF

a

a

j

j CMMY

dL

ρρ

dove M rappresenta il peso molecolare, dell’aria e del combustibile, rispettivamente, CL il limite inferiore di infiammabilità come frazione volumetrica, Y la frazione massica del combustibile nel getto e ρ la densità, dell’aria e del getto, rispettivamente. Anche questa relazione può essere semplificata per getti di idrocarburi puri a temperatura ambiente considerando che i parametri presenti nella relazione precedente assumono dei valori all’incirca costanti e tali per cui Y=1, aFaj MM≈ρρ e 01 ≈− aF MM :

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F

a

j MM

CdL

L

5.10≈

Il rapporto tra le due relazioni approssimate è peri, per idrocarburi, a circa 0.8 e sono quindi essenzialmente equivalenti, nel senso che la differenza tra le previsioni dei due modelli è dello stesso ordine di grandezza dell’incertezza nella stima della lunghezza della fiamma. Un approccio ancora più immediato per getti di combustibile gassoso è proposto nelle norme API RP 521 e prevede di correlare la lunghezza della fiamma alla potenza termica del getto come mostrato nella Figura 73. Questa correlazione può essere rappresentata, per potenze Q=30-10000 MW, dall’equazione:

QL 31023.2 −= Un’ultima correlazione utilizzata è quella di Baker e Kalghatgi basata sull’assunzione che la lunghezza della fiamma dipende dalla distanza sull’asse della fiamma stessa dove il combustibile e l’aria formano una miscela stechiometrica. Il principale parametro coinvolto in questa correlazione è un numero di Richardson che definisce la transizione tra i regimi dominati dalla quantità di moto (getti ad alta velocità) e quelli dominati dalla spinta di galleggiamento (getti a bassa velocità). Il numero di Richardson può essere visto come

l’inverso della radice cubica del numero di Froude: ( ) ( )( ) DDugugDRi3/123/12 == .

Normalmente si utilizzano nella definizione di Ri per la correlazione della lunghezza di fiamma due lunghezze caratteristiche, il diametro del getto e la lunghezza della fiamma:

( )( ) LudgRi j3/12= , come evidente dalla seguente equazione:

Ludg

LWd

oo

o3/1

22

3/2

024.02.085.2

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛+=⎟

⎞⎜⎝

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Figura 73 – Correlazione tra la lunghezza della fiamma e la potenza del jet fire.

La lunghezza della fiamma è ricavata dalla soluzione di questa equazione dove W è la frazione massica stechiometrica del combustibile e il pedice o si riferisce alla sezione di getto espanso dopo lo scarico, le cui condizioni devono quindi essere caratterizzate. Nel caso di efflusso sonico di un gas perfetto, la temperatura del getto nella sezione espansa può essere stimata assumendo una trasformazione isoentropica tra l’interno del recipiente e la sezione del getto espanso come ( ) γγ 1−= SaSo PPTT , avendo indicato col pedice S le condizioni iniziali del getto. La pressione viceversa viene assunta pari al valore critico

( )( ) 112 −−= γγγSo PP . Con questi valori di pressione e temperatura si determina il numero di Mach del getto espanso e quindi, attraverso la velocità del suono nelle condizioni del getto espanso, la sua velocità:

( )( )j

ooo

aoo M

RTMu

PPM

γγ

γ γγ

=⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

−−+

=−

a1

21 1

Il diametro effettivo del getto espanso viene definito come il diametro di un getto virtuale in grado di scaricare una portata di aria pari a quella del getto alla velocità uo:

a

jjoj

ja

o ddud

ud

mρρ

ρπ

ρπ

=== a0

2

0

2

44

Nel caso di efflusso liquido o bifase, la relazione precedente viene modificata come (Cook et al., 1990):

a

vjjo dd

ρ

ρρ=

avendo indicato col pedice v le condizioni del vapore.

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Figura 74 – Influenza del vento sulla geometria della fiamma.

La presenza di vento modifica sostanzialmente la geometria della fiamma. A basse velocità del vento la fiamma si inclina leggermente, ma soprattutto si ha un marcato aumento della velocità di ingresso dell’aria nella fiamma in quanto in vento incontra tutta la sezione laterale della fiamma. Questo provoca al solito una migliore combustione e quindi un accorciamento della lunghezza della fiamma, come mostrato in Figura 74. Un ulteriore aumento della velocità del vento provoca una marcata inclinazione della fiamma che diviene quasi parallela alla direzione del vento. la lunghezza torna ad aumentare in quanto prevale inizialmente l’effetto di trascinamento del vento, per poi riprendere a diminuire quando torna a prevalere l’effetto della diluizione: Elevate velocità del vento strappano infine la fiamma, provocandone lo spegnimento. Di tutti questi fenomeni i modelli disponibili in generale rappresentano solo la riduzione della lunghezza della fiamma per opera del vento e la sua inclinazione sulla verticale, oltre che eventualmente le dimensioni della base maggiore e minore del tronco di cono a cui la fiamma viene assimilata, come mostrato nella Figura 75. Una stima delle dimensioni di un jet fire derivante dallo scarico di un liquido in grado di dare flash può essere effettuata in funzione della potenza del jet fire con la relazione di Clay et al., 1988:

66.161

444.0QL =

Il metodo di Brzustowski può essere modificato per tener conto della presenza del vento introducendo delle coordinate adimensionali (con origine all’orifizio di scarico del getto come mostrato nella Figura 75) contenenti il rapporto tra le velocità del getto, u, e del vento, w (anche se in realtà il parametro che più correttamente tiene conto dell’influenza relativa delle velocità del getto e del vento è il rapporto tra le relative quantità di moto):

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⎪⎪⎩

⎪⎪⎨

=

=→=

RdZ

Z

RdX

X

uwR

j

LL

j

LL

j

a

ρρ

che vengono utilizzate per correlare le osservazioni sperimentali, come mostrato nella Figura 76.

Figura 75 – Effetto del vento sulla geometria di un jet fire.

La lunghezza e l’inclinazione della fiamma in presenza di vento può essere valutata calcolando in sequenza alcuni parametri:

⎟⎟⎠

⎞⎜⎜⎝

⎛=+=

⎩⎨⎧

==

=

⎩⎨⎧

−=>=−+<

⎩⎨⎧

=>=<

=−

L

LLL

LL

LLLL

LL

LLLL

LL

LL

a

FLL

ZX

ZXLRdjZZRdjXX

XZ

SXSXXS

CSCS

MM

wuCC

arctan04.2

65.135.2005.204.135.2

71.25.004.25.0

2228.0

28.02

625.0

03.1

βaaaa

aa

aa

a

a

Anche la lunghezza della fiamma calcolata con il modello di Baker e Kalghatki può essere modificata per tener conto della presenza del vento come segue:

( ) 49.04.0exp51.0)0(

)(+−=

=w

wLwL

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Figura 76 - Correlazione dei dati sperimentali con coordinate adimensionali. Nel caso di scarico non verticale (che formi cioè un angolo θ con l’orizzontale nella direzione del vento) questa relazione può essere ulteriormente modificata come segue:

( )( ) ( )( )°−−+−==

− 901007.6149.04.0exp51.0)0(

)( 3 ϑwwL

wL

Il modello più diffuso per rappresentare la fiamma come un tronco di cono è quello Chamberlain (1987). Questo modello richiede, per caratterizzare la geometria della fiamma, una preventiva caratterizzazione del getto scaricato in termini di velocità e diametro della sezione espansa, come discusso in precedenza per il modello di Baker e Kalghatki. Sulla base della lunghezza della fiamma così calcolata e utilizzando una serie di relazioni semiempiriche è possibile calcolare l’inclinazione e le dimensioni del tronco di cono a cui viene approssimata la fiamma, come mostrato nella Figura 77 per il caso generale di scarico non verticale in presenza di vento. Si noti che il tronco di cono è distanziato dal punto di scarico del getto di una distanza indicata con b.

Figura 77 – Approssimazione della fiamma di un jet fire con un tronco di cono.

Analogamente al caso del pool fire, il modello più semplice per il calcolo dell’irraggiamento su di un ricettore è quello della fiamma puntiforme schematizzata in Figura 78.

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Figura 78 – Modello puntiforme per un jet fire.

Nota la geometria della fiamma l’emettitore viene localizzato nel baricentro del solido approssimante la fiamma. Se l’intera portata di combustibile scaricata bruciasse stechiometricamente con aria e tutta l’energia liberata dalla combustione venisse irraggiata dalla fiamma, la potenza emessa sarebbe facilmente calcolata moltiplicando la portata di combustibile per il calore di combustione. Ovviamente ciò non è vero, sia per la parziale combustione del combustibile dovuta alla natura diffusiva della fiamma, sia per il parziale oscuramento della fiamma stessa per opera del particolato. Di questo si può tener conto, in modo del tutto analogo a quanto fatto nel caso del pool fire con un fattore di efficienza che dia conto della frazione di energia disponibile che viene effettivamente irraggiata, η. Noto questo valore la potenza irraggiata dalla fiamma può essere calcolata come:

ηcHmQ Δ= mentre l’emissività superficiale può essere calcolata dividendo tale potenza emessa per la superficie del tronco di cono a cui viene assimilata la fiamma. Ai fini del calcolo dell’irraggiamento è anche possibile approssimare il tronco di cono con un cilindro equivalente, come mostrato nella Figura 79.

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Figura 79 – Approssimazione dell’area laterale della fiamma con un cilindro equivalente.

Date le dimensioni del cilindro equivalente, l’emissività superficiale si calcola come:

DHQE

π≈

Valori tipici dell’efficienza di irraggiamento, tipicamente dell’ordine di 0.15 – 0.4, sono riportati in Figura 80.

Figura 80 – Fattori di efficienza di irraggiamento per jet fire.

Il fattore di efficienza radiativa può anche essere stimato con relazioni semiempiriche quale: ( ) 11.000323.0exp21.0 +−= juη

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eventualmente moltiplicato per un fattore correttivo funzione del peso molecolare del combustibile (Cook et al., 1987):

[ ]⎪⎩

⎪⎨

=>=−∈=<

69.1)(6021)(6021

1)(21

F

FF

F

F

MFMMF

MFM

a

a

a

Definita l’emissività superficiale l’ultimo passo è la stima dell’irraggiamento su di un dato recettore. Per fare questo bisogna, analogamente al caso del pool fire, tener conto del fatto che una frazione dell’energia irraggiata viene assorbita dall’umidità e dall’anidride carbonica presente nell’atmosfera. Nel caso di fiamma puntiforme, il fattore di vista, cioè la frazione di energia irraggiata che viene intercettata dal recettore, è semplicemente il reciproco della superficie della sfera con raggio pari alla distanza tra il centro della fiamma e il ricettore, e l’irraggiamento sul ricettore, I, si calcola semplicemente come:

]/[4

22

mkWXQI Aτ

π=

L’incertezza nell’utilizzo di questo approccio è essenzialmente confinata nella stima dell’efficienza di irraggiamento. Se invece si considera la fiamma come un emettitore solido di geometria definita (il tronco di cono o il cilindro equivalente di cui si sono calcolate le dimensioni precedentemente) è necessari calcolare il fattore di vista, F, di un recettore con una data inclinazione relativa rispetto all’orizzontale e posto ad una certa distanza dal solido inclinato come integrale sulla superficie dei fattori di vista infinitesimali della superficie del solido, Figura 81. La soluzione di questo integrale di superficie è solitamente analitica ed è disponibile per un certo numero di inclinazioni relative fiamma – recettore. In questo caso l’irraggiamento sul recettore si calcola come:

]/[ 2mkWFEI Aτ= Si noti che nel caso di jet fire orizzontale il fattore di vista da utilizzare è quello di una superficie circolare, come mostrato nella Figura 82.

4.5.1 Confronto tra le previsioni dei diversi modelli. Un confronto tra le previsioni dei diversi modelli precedentemente discussi è stato effettuato considerando la rottura a ghigliottina di una tubazione da 20 cm di metano a 40 bar di pressione diretta verticalmente verso l’alto. La temperatura del gas è pari a 15 °C e la portata scaricata a 132 kg/s in assenza di vento. Utilizzando le relazioni discusse in precedenza si possono calcolare i risultati riassunti nella Tabella 12 (il modello denominato SHELL è quello di Chamberlain). Si nota come il modello SHELL e quello di Brzustowski forniscano risultati analoghi, mentre il modello API 521 sovrastima la lunghezza della fiamma ma sottostima l’irraggiamento al suolo. Si noti infatti che sovrastimare la lunghezza della fiamma può essere conservativo per la valutazione di eventuali effetti domino (coinvolgimento di apparecchiature vicine nella fiamma, soprattutto nel caso di getti orizzontali), ma sottostima l’irraggiamento al suolo nel caso di getti verticali se si utilizza il metodo della fiamma puntiforme. Infatti in questo caso la sorgente radiante viene posta al centro della fiamma: una fiamma più lunga allontana quindi la sorgente radiante dal suolo e riduce quindi l’irraggiamento su di un ricettore al suolo.

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Figura 81 – Calcolo dell’irraggiamento da jet fire col metodo della fiamma come emettitore solido.

Figura 82 – Fattore di vista per un jet fire orizzontale.

Analogamente, in presenza di un vento con una velocità di 10 m/s i risultati dei diversi modelli sono riassunti nella Tabella 13. Tabella 12 – Risultati delle comparazioni in assenza di vento.

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Tabella 13 – Risultati delle comparazioni in presenza di vento.

Si nota ancora come i due modelli siano in buon accordo, ma soprattutto come la presenza di vento aumenti significativamente la distanza di danno al suolo.

4.6 Sfere di fuoco (fireball) La formazione di un fireball può essere la conseguenza più importante di un BLEVE. La modellazione degli effetti di una palla di fuoco seguono solitamente i seguenti passi sequenziali: determinazione del diametro della sfera di fuoco; determinazione della durata dell’incendio; determinazione dell’innalzamento della sfera di fuoco; calcolo dell’irraggiamento; determinazione degli effetti sulle persone esposte. Si tratta di un approccio del tutto analogo a quello seguito per i pool fire e per i jet fire: prima si determina la geometria della fiamma e poi si calcola l’irraggiamento su di un dato ricettore. La differenza più importante rispetto ai fenomeni termici legati ai pool fire e ai jet fire è l’intensità e la durata del fenomeno. Pur essendo ben noto che l’effetto dell’esposizione del corpo umano all’irraggiamento dipende sia dall’intensità dell’irraggiamento, sia dal tempo di esposizione, nel caso di fenomeni di lunga durata (quali i pool fire e i jet fire) si assumono solitamente delle soglie di irraggiamento indipendenti dal tempo e pari per esempio a 5 kW/m2 per gli effetti letali e a 3 kW/m2 per gli effetti significativi sulle persone. Questi valori derivano dal fatto che l’irraggiamento necessario per fornire una dose legata a effetti letali o significativi non aumenta indefinitamente col tempo ma tende ad un valore asintotico all’aumentare del tempo; per un tempo di esposizione superiore al minuto (che può essere considerato convenzionalmente dello stesso ordine di grandezza del tempo necessario ad una persona per mettersi al riparo dall’irraggiamento) i valori di irraggiamento che causano dati effetti sono praticamente indipendenti dal tempo. In pratica però la durata di un fireball è spesso inferiore al minuto e quindi risulta necessario calcolare la dose correlata all’esposizione di durata finita. Questa è solitamente esprimibile come l’integrale dell’irraggiamento elevato ad un certo esponente (solitamente pari a 4/3) nel tempo. Assumendo l’irraggiamento costante, la dose si riduce semplicemente al prodotto dell’irraggiamento alla 4/3 per il tempo di esposizione: I4/3t. I valori soglia della dose per effetti letali e per effetti significativi possono essere stimati pari a circa 1000 e 600 (kW/m2)4/3s. Gli effetti termici del fireball sono stati investigati essenzialmente solo per idrocarburi. Sono disponibili diversi modelli, tutti di origine empiriche, che forniscono la geometria del fireball e delle linee guida per la stima dell’irraggiamento. Analogamente al caso dei pool fire, anche in questo caso è bene considerare ciascun modello come un unicum, evitando di utilizzare la

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correlazione proposta da un modello per la stima di una proprietà geometrica insieme a quella proposta da un diverso modello per la stima di una differente proprietà. Il modello proposto dal CCPS (1994) consente il calcolo del diametro massimo, d, e della durata del fireball, t, sulla base della massa coinvolta nel fenomeno, m:

⎩⎨⎧

><

=

=

kgmsemkgmsemt

md

300006.23000045.0

8.5

6/1

3/1

3/1

L’irraggiamento viene poi valutato con un modello a fiamma solida utilizzando l’usuale relazione:

]/[ 2mkWFEI Aτ= Il fattore di vista viene calcolato assumendo che la sfera di fuoco non si alzi dal suolo, cioè che il centro della sfera si ad un’altezza pari a metà del diametro massimo. L’emissività superficiale viene invece posta pari a 350 kW/m2 che rappresenta un valore decisamente conservativo. Un secondo modello viene proposto nello Yellow Book del TNO, in due versioni leggermente diverse nell’edizione del 1992 e in quella del 1997. In entrambe le versioni la geometria viene calcolata con le relazioni:

26.0

325.0

825.0

48.6

mt

md

=

=

L’irraggiamento invece viene calcolato sulla base sempre di un modello di fiamma solida, ma con assunzioni leggermente differenti. In particolare, la versione del 1992 assume, come il modello del CCPS, che la sfera di fuoco rimanga al suolo (cioè che il centro della sfera si ad un’altezza pari a metà del diametro massimo), mentre la versione del 1997 assume che la sfera si sollevi da terra in modo tale che il suo centro raggiunga una quota pari al diametro. Inoltre, l’emissività superficiale viene assunta, nella versione del 1992, pari ai valori riportati nella Tabella 14, mentre nella versione del 1997 utilizza un valore calcolato dividendo la potenza totale irraggiata per la superficie della sfera di fuoco. Come per i casi del pool fire e del jet fire, se l’intera massa coinvolta nel fireball bruciasse stechiometricamente con aria e tutta l’energia liberata dalla combustione venisse irraggiata dalla fiamma, l’energia totale irraggiata lungo l’intera durata del fenomeno sarebbe calcolata moltiplicando la quantità di combustibile per il calore di combustione. Anche in questo caso si utilizza, in modo del tutto analogo a quanto fatto nel caso del pool fire e del jet fire, con un fattore di efficienza che dà conto della frazione di energia disponibile che viene effettivamente irraggiata, η. Noto questo valore la potenza irraggiata dalla fiamma lungo l’intera durata del fenomeno può essere calcolata come:

tHm

Q cηΔ=

L’emissività superficiale può essere calcolata dividendo tale potenza emessa per la superficie della sfera a cui viene assimilata la fiamma:

2dQE

π≈

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Tabella 14 – Valori di emissività superficiali suggeriti da TNO (1992) per il fireball

Il valore tipici dell’efficienza di irraggiamento, che fornisce valori di emissività superficiale dell’ordine di 300 – 350 kW/m2, viene stimato con la relazione:

32.000325.0 VP=η dove PV è la tensione di vapore del fluido nel contenitore in Pa. Un approccio differente è quello sviluppato dalla TRC (SHIELD, 1993 e 1995) sulla base di alcuni dati sperimentali riguardanti il collasso di serbatoi da 5 –10 m3 contenenti propano e butano. La principale differenza rispetto agli altri modelli è il tentativo di modellare la fenomenologia del fireball come una serie di eventi transitori invece che come una situazione pseudostazionaria. In particolare viene considerata una prima fase (di espansione) in cui si ha la formazione della sfera di fuoco e la sua espansione fino al massimo valore del diametro. In questa fase il raggio e l’irraggiamento della sfera di fuoco crescono linearmente col tempo fino al loro valore massimo. La seconda fase considerata è quella di combustione. La durata della sfera di fuoco, dall’ignizione fino all’inizio dell’estinzione, viene posta uguale al tempo di combustione delle goccioline formatesi a seguito dell’evaporazione violenta del gas liquefatto. Durante questa fase la temperatura della sfera di fuoco viene assunta diminuire dal suo valore massimo fino al valore di estinzione. Durante questa fase la velocità ascensionale e la dimensione della sfera sono costanti. Nella terza fase (di estinzione) il diametro della sfera diminuisce linearmente col tempo e l’altezza della sfera rimane costante. Nonostante una maggior congruenza con i fenomeni realmente osservati nel corso della formazione di un fireball (come mostrato per esempio nella Figura 83), l’accuratezza di questo modello (o più precisamente, dei sottomodelli che rappresentano ciascuna delle fasi descritte) si basa su una serie di relazioni semiempiriche tarate sui dati sperimentali considerati. Dal punto di vista del suo campo di validità, questo modello non risulta quindi significativamente superiore rispetto agli atri due precedentemente discussi.

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Si deve sottolineare che tutti questi modelli rappresentano le conseguenze di un fireball a seguito di un BLEVE caldo. Non esistono modelli disponibili per la modellazione del fireball e del pool fire seguenti un BLEVE freddo.

Figura 83 – Sviluppo della quota di un fireball.

Rispetto ai dati sperimentali disponibili, tutti i modelli sono in grado di prevedere valori corretti (come ordine di grandezza) per il diametro e la durata del fenomeno. Viceversa l’altezza della sfera di fuoco (che è un parametro importante per la definizione delle distanze di danno) assunta dal modello TNO 1997 non è conservativa. Il modello CPCCS conduce alle maggiori distanze di danno, principalmente a causa della scelta del valore di emissività superficiale. Il modello TRC è l’unico che segue le diverse fasi del fenomeno e fornisce in generale risultati in ragionevole accordo coi dati disponibili.

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Tabella 15 – Sensibilità dei risultati dei modelli al variare di alcuni parametri.

Un confronto tra i risultati dei diversi modelli sono riassunti nella Figura 84 in termini di valori previsti al variare della massa di combustibile coinvolta nel fireball, e nella Tabella 15 in termini di sensibilità dei risultati del modello (distanze di danno) al variare di alcuni parametri. Si vede che ingenerale la sensibilità è abbastanza bassa ed uniforme tra i vari modelli.

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Figura 84 – Confronto tra le previsioni dei diversi modelli di fireball.

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5 Conclusioni In conclusione, valori tipici delle incertezze correlate alla scelta di alcuni parametri chiave nei modelli di simulazione discussi in precedenza sono riassunti nella Tabella 16.

Tabella 16 – Valori tipici delle incertezze legati ad alcuni parametri.

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