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Diritto Penale Aprile 2013

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Diritto Penale

Aprile 2013

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DIRITTO PENALE

Reato circostanziato

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DDoottttrriinnaa

Le circostanze del reato SOMMARIO 1. La nozione. – 2. La distinzione tra elementi accidentali e costitutivi. – 3. La classificazione. – 4. La valutazione delle circostanze. – 5. Il concorso di circostanze aggravanti e attenuanti.

1. La nozione

Il codice penale dedica alle circostanze del reato un intero capo – il II del titolo III del libro I – ma non definisce la categoria. Nondimeno, se nell’art. 59 cod. pen. (e probabilmente anche nell’art. 70 cod. pen.) la nozione di circostanza é utilizzata in modo lato – come comprensiva anche di elementi che, occasionalmente, si “congiungono” al reato, in modo da incidere sull’an, non solo sul quantum

di responsabilità (“cause di non punibilità” in senso lato) – nelle disposizioni seguenti, invece dedicate alle circostanze in senso stretto, espresse cioè nei termini di attenuanti o aggravanti, si delinea un tipo di disciplina che lascia intendere la tipologia di fenomeno presupposta. In particolare, il capo in questione é in larga misura dedicato ai criteri di ponderazione delle modifiche quantitative e qualitative, derivanti dall’applicazione delle circostanze, sulla pena già idealmente riferibile ad uno specifico reato (v. in particolare l’art. 63, primo comma, cod. pen., secondo il quale la circostanza aumenta o diminuisce la pena “base” previamente determinata all’interno dei margini edittali applicando i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.; con l’eccezione delle circostanze autonome e indipendenti, che prima ancora incidono sulla stessa pena edittale). Per circostanza, quindi, si intende una fattispecie prevista dalla legge allo scopo precipuo di incidere sulla dosimetria sanzionatoria (Melchionda), anche oltre i limiti edittali – come ben si evince dagli artt. 63 ss. cod. pen. – senza alterare il titolo di responsabilità; nel senso che la figura che si va a regolamentare presuppone già l’integrazione di un reato a tutti gli effetti e non comporta il venir meno di quel reato, né l’integrazione di un reato diverso: gli artt. 61 e 62, primo comma, cod. pen., d’altronde, chiaramente distinguono tra “circostanza” ed “elemento costitutivo”. Tanto premesso, si può brevemente definire la circostanza nei termini di un elemento accidentale o accessorio di un reato già perfezionato (si parla così di accidentalia delicti) i cui effetti si riverberano sul quantum e sul quomodo della risposta sanzionatoria (precisa il concetto di “accessorietà”, come riferito alla disposizione normativa che prevede la circostanza, non necessariamente al contenuto tipico: Padovani). Che la circostanza sia elemento accidentale del reato, nel senso precisato, é pacifico per la giurisprudenza, tanto che la stessa normalmente non spende tempo in definizioni generali della categoria, ma casomai in precisazioni di dettaglio laddove utili per definire singoli problemi interpretativi, in particolare quanto ai criteri di distinzione dagli elementi costitutivi. Una definizione generale é offerta dalla risalente Cass. pen., sez. V, 2 dicembre 1966, Bianco: “Costituiscono circostanze del reato in senso proprio (accidentalia delicti) quelle che si aggiungono agli elementi costitutivi dell’azione vietata fissata dal precetto primario e influiscono sulla sanzione tipica contenuta nel precetto secondario nel senso di variarne in più o in meno la entità; hanno cioè come

effetto, per volontà espressa dal legislatore, di modificare la sanzione e si differenziano da quell’elemento che l’art. 133 cod. pen. sottopone all’attenzione del giudice per disciplinarne il potere discrezionale di determinare in concreto la entità della pena, stabilita dal legislatore in astratto in un minimo ed un massimo». In dottrina taluno contesta la natura accidentale della circostanza, ritenendo il reato circostanziato una fattispecie in sé autonoma, rispetto alla quale, dunque, la circostanza sarebbe elemento essenziale (da ultimo, ampiamente e per tutti, Spena). La questione non é tuttavia di grande interesse per il pratico (Fiandaca-Musco) se non forse nella misura in cui condiziona la configurabilità di un “delitto circostanziato tentato”; importa invece distinguere un’ipotesi non circostanziata di reato da una forma di manifestazione, in termini circostanziati, di altro reato. A questo specifico fine, peraltro, a poco serve verificare il carattere “accidentale” o essenziale di un dato elemento, essendo questo attributo una conseguenza, non già una premessa, della qualificazione di un coefficiente come costitutivo o circostanziale. In questa prospettiva, si può sin da subito chiarire che il rapporto tra reato base non circostanziato e reato circostanziato é altro rispetto a quello intercorrente tra due titoli autonomi di reato (anche chi considera fattispecie autonoma quella circostanziata, la considera tuttavia particolarmente “dipendente” dalla fattispecie base: Spena; cfr. altresì Melchionda), e che per altro verso le circostanze di cui si tratta – c.d. proprie – sono diverse da quelle cui fa riferimento l’art. 133 cod. pen. – c.d. improprie – le quali guidano il giudice nella determinazione in concreto, entro i limiti edittali, della pena applicabile ad un dato reato in quanto integrato nei suoi estremi costitutivi essenziali; inoltre, ciascun fattore cui fa riferimento l’art. 133 cod. pen. può operare, nel singolo caso, in termini di estensione della pena verso il massimo edittale o di limitazione verso il minimo, mentre la singola circostanza propria o é aggravante, o é attenuante: la disciplina del capo in esame non considera l’ipotesi di circostanze idonee ad operare in entrambe le direzioni.

2. La distinzione tra elementi accidentali e costitutivi

Una corretta definizione di circostanza aiuta ad orientarsi riguardo al problema, poco sopra accennato, della distinzione rispetto ad un elemento costitutivo (in dottrina v. in particolare (Bartoli; Concas; Padovani; Guerrini). La questione ha un notevole impatto applicativo (v. sul punto Marinucci-Dolcini). Si considerino, ad es.: la possibilità di bilanciamento delle circostanze con conseguente, eventuale “elisione” dei relativi effetti; i peculiari criteri soggettivi di imputazione delle attenuanti e delle aggravanti e la disciplina dell’erronea supposizione (art. 59, primo, secondo e terzo comma, cod. pen.); l’irrilevanza delle circostanze – almeno di quelle ad effetto comune –

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per il computo del termine utile a prescrivere ex art. 157, secondo comma, cod. pen.; in materia di concorso di persone, l’applicazione degli artt. 116 e 117, ovvero dell’art. 118 cod. pen. Significative anche le implicazioni processuali, ad es. in tema di competenza (art. 4 cod. proc. pen.), di modifica dell’imputazione ex art. 423 cod. proc. pen., di individuazione – in taluni casi – dei termini massimi di custodia cautelare. Il problema neppure si pone rispetto a circostanze c.d. “estrinseche”, «basate su fatti successivi alla consumazione del reato, e che quindi per loro stessa essenza risultano meramente eventuali rispetto al reato stesso» (Cadoppi; Veneziani). Se la circostanza svolge la specifica funzione di modificare tipologia o entità della risposta sanzionatoria riferibile ad un reato già integrato in ogni aspetto, evidentemente la fattispecie circostanziata non può che essere costituita, appunto, da tutti gli elementi tipici di una data figura criminosa (ché altrimenti, in relazione a un fatto atipico, non vi sarebbe alcuna pena base da “modificare”), alcuni dei quali vengono poi ad essere specificati, o rispetto ai quali altri ne vengono aggiunti Zuccalà; Padovani). Due fattispecie tra di loro incompatibili – per diversità necessaria dei requisiti caratterizzanti – non possono dunque costituire forme di manifestazione – circostanziata e non circostanziata – del medesimo reato. Se fosse vero il contrario, se cioè potesse essere ad es. una fattispecie aggravata strutturalmente differente dalla fattispecie base, ne deriverebbero conseguenze assurde; per dirne una, in caso di inapplicabilità dell’aggravante in seguito al bilanciamento con una o più attenuanti ai sensi dell’art. 69 cod. pen., nel fatto dell’agente non sarebbe riconoscibile alcuna “fattispecie non circostanziata”, sicché egli, lungi dal vedersi applicata una pena “non aumentata”, o “la pena che sarebbe inflitta se non concorresse” alcuna circostanza – come richiesto dallo stesso art. 69 commi 2 e 3 cod. pen. – andrebbe in realtà esente da qualsiasi responsabilità. Contrariamente a quanto é stato scritto (Pistorelli), dunque, la nuova ipotesi di deturpamento e imbrattamento di cose immobili altrui, inserita nel comma 2 dell’art. 639 cod. pen. dall’art. 3 comma 3 lett. a) legge 15.7.2009, n. 94, non é una aggravante della fattispecie di deturpamento o imbrattamento di cose mobili altrui di cui tratta il comma 1, stante l’evidente incompatibilità tra le due figure quanto ad oggetto materiale. Per gli stessi motivi, ci pare superfluo dilungarsi in un’indagine testuale e teleologica circa i rapporti tra artt. 609-bis e 609-quater cod. pen., come fa invece Cass., Sez. III, 23.3.2007, Tomasetti: per escludere che la seconda fattispecie possa essere forma di manifestazione circostanziale della prima, basta rilevare (come pure la sentenza fa) il difetto di un rapporto di specialità unilaterale, posto che gli atti sessuali con minorenne si caratterizzano per la mancanza di costrizione della vittima invece tipica della violenza sessuale. Ancora, il comma 2 dell’art. 346 cod. pen. non é circostanza aggravante del comma 1, perché tra le due ipotesi di millantato credito sussiste difformità strutturale: «infatti, mentre nella previsione del comma primo il raggiro consiste nel presentare il pubblico ufficiale, destinatario di pressioni amicali, come arrendevole, in quella del comma secondo il pubblico ufficiale é prospettato dall’agente come persona corrotta o corruttibile» (Cass. pen., sez. VI, 20 febbraio 2006, Ippaso). Il suddetto rapporto di specialità, nondimeno, se é necessario, non é tuttavia sufficiente ad individuare un’ipotesi circostanziale (per tutti Melchionda), dato che pure tra figure autonome può intercorrere la medesima relazione. Altrettanto può dirsi rispetto all’incidenza d’un

certo elemento aggiuntivo sulla gravità del reato e perciò sulla pena: tale elemento, difatti, non necessariamente é circostanziale, ben potendo implicare un mutamento del titolo di reato (così, ad es., non v’é dubbio che la violenza sessuale, di cui all’art. 609-bis, sia fattispecie autonoma rispetto alla violenza privata descritta nell’art. 610 cod. pen., pur costituendo dal punto di vista strutturale un’ipotesi speciale di violenza privata connotata per una particolare gravità). Non vi sono, insomma, elementi “ontologicamente” circostanziali o costitutivi in ragione delle loro caratteristiche strutturali; tanto che uno stesso elemento, già circostanziale, con un sol tratto di penna del legislatore può divenire indicativo d’un diverso titolo di reato (così é accaduto per le ipotesi di furto in abitazione e di furto con strappo, un tempo aggravanti del furto di cui all’art. 624 cod. pen., confluite come reati autonomi nell’art. 624-bis cod. pen. per l’intervento dell’art. 2 comma 2 legge 26.3.2001, n. 128) (per tutti Zaza). Si tratta di intendere, piuttosto, a quale disciplina il legislatore abbia voluto sottoporre una certa figura penalmente rilevante. Per sciogliere il dilemma, decisiva é cioè l’intentio legis, che potrà essere ricostruita valutando gli “indizi” – sia di carattere valoriale che formale – reperibili nelle disposizioni oggetto della querelle (Vassalli; Gallo; Cass. pen., sez. un., 26 febbraio 2002); avendo ben cura a non sovrapporre, a tale indagine, le personali convinzioni o “impressioni” dell’interprete circa la scarsa adeguatezza o, piuttosto, l’eccessivo rigore del regime sanzionatorio che potrebbe derivare adottando l’una o l’altra opzione. Piaccia o non piaccia, l’art. 25 comma 2 Cost. rimette al legislatore, non al giudice, il compito di far corrispondere la pena ritenuta opportuna al disvalore astratto del fatto criminoso. In linea di principio, dunque, é un’inversione logica ritenere preferibili certi effetti e, di conseguenza, scegliere la qualifica del fatto più consona. A meno che, anche in ragione di un’interpretazione storica, non risulti la chiara intenzione del legislatore di preferire, appunto, una certa disciplina: detta interpretazione, se coerente con altri indici, consentirà di risolvere la questione della intentio legis. Così, ad es., é indubbio che la riconduzione delle ipotesi di furto in abitazione e furto con strappo, già elencate tra le aggravanti dell’art. 625 cod. pen., nel contesto della nuova ed autonoma disposizione dell’art. 624-bis, sia stata compiuta al fine specifico di sottrarre quelle fattispecie alla disciplina caratteristica delle circostanze, ed in particolare alla possibilità di un bilanciamento con attenuanti. A volte il testo di legge può contenere indicazioni dirimenti. Tanto accade non solo quando espressamente, nel testo della norma, si qualifica un fatto come circostanziale, come ad es. negli stessi artt. 61 e 62 cod. pen. (altra cosa é quando detta denominazione é operata dalla rubrica, di per sé, come noto, non vincolante), ma anche quando la disciplina della fattispecie non può non essere quella propria delle circostanze. Così, ad es., ove prescriva un “aumento” o una “diminuzione” di pena”, senza specificarne l’entità, la legge compie per forza di cose un rinvio implicito agli artt. 64 e 65 cod. pen., norme appunto dedicate a precisare l’entità di aumenti o diminuzioni conseguenti all’applicazione di circostanze indeterminate. Si pensi, altresì, ai sempre più frequenti casi in cui la natura circostanziale del precetto é dimostrata proprio dalla previsione di un regime derogatorio rispetto a quello proprio delle circostanze, ad es. rispetto ai criteri di cui all’art. 69 cod. pen. (Marinucci-Dolcini). Particolarmente indicativa dell’intentio legis, ma non

determinante, é poi una rubrica che espressamente parli di “circostanze” (per contro, la presenza di uno specifico

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nomen iuris nella rubrica lascerà propendere per

l’individuazione di un’autonoma figura di reato: Marinucci-Dolcini). In questo caso, fin dove possibile la relativa fattispecie dovrà essere interpretata come se effettivamente fosse una circostanza – quindi, tra l’altro, un’ipotesi speciale rispetto a quella base – mentre l’intitolazione della norma potrà essere tenuta in non cale solo se il tipo di struttura del fatto, o la sua disciplina, risultino necessariamente incompatibili con l’opzione circostanziale (Marinucci-Dolcini). Così, per intendersi, invece che ritenere ipotesi autonoma di reato la fattispecie di cui all’art. 583 comma 1 n. 1 – chiaramente rubricata come “circostanza aggravante” – sol perché l’elemento dell’“incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni” sarebbe diverso, non specializzante, rispetto alla “malattia” quale evento tipico delle lesioni, si impone di valutare se quella norma possa essere interpretata come circostanziale; come in effetti accade, perché il disposto normativo ben può essere riferito al caso in cui, pur non seguendo alla lesione una malattia per un tempo superiore ai quaranta giorni, bensì una malattia più breve, ciò nondimeno a quest’ultima si aggiunga un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni della stessa durata. L’indicazione della rubrica non é tuttavia probante quando controbilanciata da dichiarazioni di intenti di segno contrario. Così, se l’art. 640-bis é rubricato come “truffa aggravata”, l’art. 7 della legge 31.5.1965, n. 575 (disposizioni contro la mafia), come modificato dal d.l. n. 152/1992, convertito in legge 12.7.1991, n. 203, fa riferimento ai “delitti previsti” dall’art. 640-bis: Cass., Sez. Un., 26.2.2002, Fedi, cit.. Da segnalare, tuttavia, che la rubrica dell’art. 640-bis cod. pen. é in sé ambigua, perché non parla di “circostanza” – nozione che rimanda immediatamente, ed etimologicamente, alla natura “accidentale” dell’elemento specializzante – ma allude solo ad un “aggravamento”, fenomeno che potrebbe dirsi sussistente anche nel caso di reato autonomo speciale unilateralmente caratterizzato da più elevati margini edittali rispetto all’ipotesi generale. Poco probante il criterio topografico: come vi possono essere circostanze sicuramente tali stabilite in norme autonome rispetto all’ipotesi criminosa cui accedono, così una stessa norma può prevedere più fattispecie autonome di reato (c.d. “fattispecie a più norme”). Suggestivi, ma anch’essi non decisivi, dati strutturali (ad es. Cass., Sez. I, 8.11.1990, Filomeno), inerenti alla sanzione o al precetto. Lasciamo parlare le Sezioni Unite: «In certi casi il legislatore determina la pena richiamando quella prevista in altra norma e applicando sulla stessa una variazione frazionaria in aumento o in diminuzione. Nonostante la determinazione per relationem possa far pensare alla configurazione di una circostanza, sono però frequenti i casi in cui é indubbia la previsione di uno autonomo reato: così per la corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 cod. pen.); per la subornazione (art. 377), la cui pena é stabilita in relazione a quelle previste per la falsa testimonianza e la falsa perizia o interpretazione; per i […] delitti colposi contro la salute pubblica di cui al secondo comma dell’art. 452. In altri casi invece il legislatore determina la pena modificandone la specie o mutando la cornice edittale rispetto alla pena di riferimento. Anche in questi casi in genere l’indizio non é univoco, perché, con siffatte variazioni del trattamento sanzionatorio, talvolta il legislatore ha inteso configurare una figura nuova di reato e talaltra ha semplicemente previsto una circostanza c.d. autonoma o indipendente». Per quanto riguarda, poi, la costruzione del precetto «si sostiene che quando la fattispecie é descritta attraverso un mero rinvio al fatto-reato tipizzato in altra disposizione

di legge, ci si trova in presenza di una circostanza aggravante [una proposta di questo tenore é quella di Melchionda). Si replica in contrario che vi sono casi in cui un reato sicuramente autonomo é descritto solo per relationem. Così per il reato di cui all’art. 251 comma 2

cod. pen., nel quale l’inadempimento colposo di contratti di fornitura in tempo di guerra é indicato richiamando l’inadempimento doloso di cui al comma 1 dello stesso articolo (“se l’inadempimento del contratto, totale o parziale, é dovuto a colpa”). […] Altro esempio si può ravvisare nei delitti colposi contro la salute pubblica di cui all’art. 452 cod. pen., individuati richiamando semplicemente i “fatti” preveduti dagli artt. 438 e 439 cod. pen.». Nondimeno, é proprio in considerazione del rapporto strutturale tra gli artt. 640 e 640-bis cod. pen. che le stesse Sezioni Unite arrivano ad affermare la natura circostanziale della seconda fattispecie, dato che il rinvio al “fatto” dell’art. 640 cod. pen., operato dall’art. 640-bis cod. pen., sarebbe volto a costruire una fattispecie davvero strutturalmente corrispondente a quella richiamata, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, salva l’aggiunta dell’elemento specializzante; mentre i richiami contenuti nell’art. 251 comma 2 e nell’art. 452 cod. pen., non potrebbero essere indice di un’ipotesi circostanziale per il semplice fatto che dette norme delineano ipotesi colpose che rinviano, per la costruzione del fatto tipico, a corrispondenti ipotesi dolose, come tali intrinsecamente eterogenee (Cass., Sez. Un., 26.2.2002, Fedi, cit.). Solo in virtù di una petizione di principio, peraltro, si può sostenere che la strutturazione di una fattispecie mediante il rinvio agli elementi costitutivi di altra fattispecie caratterizzi indubbiamente la prima nei termini di una circostanza; una tale, “economica” tecnica normativa sarebbe in realtà perfettamente consentita ad un legislatore intenzionato a descrivere un’ipotesi autonoma di reato. Contraddicendo in parte il rigore della sua mirabile pars destruens, dunque, la sentenza delle Sezioni Unite alla fine attribuisce anch’essa valore decisivo ad un elemento al più puramente indiziario; anzi, a conti fatti, ad essere enfatizzata é unicamente la relazione di specialità unilaterale tra le due figure criminose, la quale, come si é visto, é il punto di partenza, non certo la méta, d’ogni tentativo di soluzione del problema. Spesso, peraltro, le motivazioni delle sentenze tese ad affermare la natura circostanziale d’una certa fattispecie, una volta private d’ogni orpello privo di effettiva capacità esplicativa – ad es., appunto, il riferimento al “bene giuridico” inteso come mera perifrasi delle caratteristiche strutturali della fattispecie – si scoprono fondate prevalentemente sull’accertamento di un rapporto di specialità unilaterale, nel senso che, a conti fatti, attribuiscono la natura di elemento accidentale ad un elemento aggiuntivo o specializzante in quanto tale: v. ad es., in materia di contrabbando di tabacchi esteri in quantitativi superiori ai quindici chilogrammi, di cui all’art. 2 legge 18.1.1994, n. 50: Cass., Sez. III, 22.5.1996, Stella, in Cass. pen., 1996, 525 («che si tratti di circostanza aggravante é comprovato dalla considerazione che la fattispecie tipica di cui all’art. 2 l. n. 50/94 comprende tutti gli elementi essenziali del delitto di contrabbando semplice previsto dal d.P.R. n. 43/73 e vi aggiunge due elementi specifici, cioè l’oggetto del contrabbando (tabacco estero) e la quantità minima») o riguardo all’ipotesi di favoreggiamento personale allo scopo specifico di aiutare taluno ad eludere le investigazioni o le ricerche in relazione ad un delitto di associazione mafiosa, di cui all’art. 378 comma 2 cod. pen.: Cass., Sez. VI, 22.3.1996, Vinci, in Cass. pen., 1997, 1723. Mancando, dunque, quegli elementi probanti che si son

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detti decisivi, ed essendo ambigue (perché poche, o non concordanti) le indicazioni fornite da profili meramente indizianti, la soluzione, secondo ampia giurisprudenza, dovrebbe essere affidata ad una considerazione teleologica. In particolare, essendo la circostanza un mero elemento accidentale, essa non potrebbe “mutare” l’obiettività giuridica della fattispecie; ove, perciò, si possa ritenere che le due ipotesi poste a confronto tutelano un bene giuridico differente, esse sicuramente non costituiscono, l’una, circostanza dell’altra (Cass., Sez. Un., 19.6.1982, Greco, in CED, 1982/11399; Cass., Sez. Un., 31.5.1991, Parisi, in CED, 1991/9148; Cass., Sez. Un., 20.4.1994, Petrongari, in CED, 1994/6; Cass., Sez. Un., 29.10.1997, Deutsch, in CED, 1998/119; in dottrina, ampiamente, e con numerosi riferimenti alla giurisprudenza: Zaza). Autorevole dottrina (Padovani) individua invece il criterio risolutore nel principio di legalità. Poiché la Costituzione pretende che il legislatore stabilisca ciò che é reato con norma di legge determinata, le perplessità circa la natura di un fatto penalmente rilevante sarebbero, di per sé, indice di indeterminatezza, dunque di una norma inadatta a delineare un fatto tipico criminoso; per esclusione, tale norma dovrebbe dunque intendersi come circostanziale. A questa impostazione la giurisprudenza più informata ha obiettato che l’art. 25 comma 2 Cost. vale anche per le circostanze del reato, le quali, dunque, devono essere previste dalla legge e in modo determinato tanto quanto gli elementi costitutivi (Cass., Sez. Un., 26.2.2002, Fedi, cit.). La dottrina ora evocata richiamava peraltro non solo la citata disposizione costituzionale, ma anche l’art. 1 cod. pen. Quest’ultima norma, in effetti, può oggi guadagnare un senso specifico ed autonomo, rispetto all’art. 25 Cost., se in essa si legge la pretesa di un coefficiente qualificato di “certezza” per quanto riguarda la classificazione d’un fatto come reato, rispetto ad altre attribuzioni (unicamente di “reato” e di “pena”, non di “circostanze”, la norma parla). Sicché, in conclusione, ferma restando la garanzia della legalità predisposta dalla Costituzione, valida anche per gli accidentalia delicti, l’art. 1 cod. pen. può suonare come una sorta di disposizione di carattere interpretativo, appunto volta a stabilire come non possa scorgersi una figura criminosa (ma casomai una circostanza) in un precetto penalmente sanzionato non chiaramente volto a configurare un titolo autonomo di reato; l’art. 1 cod. pen., così inteso, verrebbe a costituire una peculiare espressione del principio di determinatezza, impedendo il verificarsi di dubbi irresolubili, inammissibili ex art. 25 Cost., riguardo alla natura specifica di certe norme penali (nel dubbio suggerisce di operare per la qualifica circostanziale, stante la ratio del codice Rocco, prima, della riforma del ’74, poi, anche Contento).

3. La classificazione

Le circostanze si dividono in: - attenuanti (determinano una minore gravità del reato comportando una diminuzione della pena), e aggravanti (determinano una maggiore gravità del reato e, conseguentemente, un aumento della pena); - comuni (si trovano nella parte generale del Codice Penale e sono applicabili a tutti i tipi di reato) e speciali (sono applicabili solo a determinate fattispecie di reato es. 576 e 625 cod. pen.); - intrinseche (riguardano la condotta illecita) ed estrinseche (sono estranee all’esecuzione e/o consumazione del reato e riguardano i cd. fatti successivi); - a efficacia comune (determinano un aumento o una diminuzione della pena fino a 1/3) e a efficacia speciale (possono comportare a seconda dei casi, a) l’applicazione

di una pena diversa da quella prevista dal Codice penale per il reato non circostanziato; b) la determinazione di una pena in maniera indipendente da quella ordinaria del reato; c) l’applicazione di un aumento e/o diminuzione della pena superiore a 1/3 della pena base); - oggettive (riguardano la natura, l’oggetto, il tempo, il luogo dell’azione, nonché la gravità del danno o del pericolo e le condizioni e qualità personali della persona dell’offeso) e soggettive (riguardano le condizioni o qualità personali del colpevole, l’intensità del dolo o il grado della colpa e i rapporti tra agente e soggetto passivo del reato). Quest’ultima distinzione assume rilevanza soprattutto in ambito di concorso di persone con riferimento al problema della loro applicabilità a tutti i correi. L. 288/1944 ha introdotto l’art. 62 bis cod. pen. che, nel 2005 é stato sostituito dalla L. 251 (meglio conosciuta come Legge Cirielli) con la attuale disposizione. Il primo comma di detto articolo, stabilisce che “il giudice, indipendentemente dalle circostanze previste nell’articolo 62, può prendere in considerazione altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini dell’applicazione di questo capo, coma una sola circostanza, la quale può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate nel predetto articolo 62”. La legge Cirielli ha quindi previsto l’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche (ovvero delle circostanze diverse da quelle previste dall’art. 62 cod. pen.) nel caso in cui il giudice le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena. Tra gli elementi a disposizione del giudice ai fini della valutazione vi é la gravità del reato, la capacità di delinquere del reo, ecc.

4. La valutazione delle circostanze

Nella vecchia formulazione dell’art. 59 cod. pen. “Circostanze non conosciute o erroneamente supposte” (rimasta in vigore fino al 1990) le circostanze venivano attribuite in base a un criterio obiettivo per cui esse, sostanzialmente, venivano riconosciute e ciò a prescindere dall’effettiva conoscenza (o meno) del soggetto agente e se il soggetto si rappresentava per errore come esistente una circostanza, questa non veniva valutata né a suo carico né a suo favore. Si trattava di una disciplina rigida che prevedeva l’applicazione di tali circostanze per il solo fatto di esistere. Nel 1990 poi é entrata in vigore la Legge 7 febbraio 1990 n. 19 “Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale e destituzione dei pubblici dipendenti” che ha riformulato (modificandolo) l’art. 59 del cod. pen. e ha stabilito che “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa”. Il legislatore ha quindi previsto un nuovo criterio di imputazione delle circostanze, più precisamente per quelle aggravanti, che da oggettivo é stato modificato in soggettivo. Pertanto, perché tali circostanze possano essere riconosciute, occorre un coefficiente soggettivo rispettivamente costituito o dallo loro effettiva conoscenza o dallo loro colpevole ignoranza. Inalterata é invece rimasta la disciplina per l’applicazione delle circostanze attenuanti (imputazione obiettiva). Pertanto l’applicazione delle circostanze aggravanti dipende dall’effettiva conoscenza delle stesse da parte del reo al momento della commissione del reato (o comunque dal fatto che le stesse sono state ignorate per colpa o per errore determinato da colpa) mentre l’applicazione delle circostanze attenuanti non dipende dall’effettiva conoscenza del soggetto.

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La modifica introdotta trova ispirazione al principio (tutelato dalla Costituzione) della colpevolezza e per la soggettività della responsabilità penale. Una disciplina particolare é prevista per l’ipotesi di errore sulla persona offesa da un reato. Il primo comma dell’art. 60 cod. pen. “Errore sulla persona dell’offeso” stabilisce infatti che “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti, che riguardano le condizioni o qualità della persona offesa, o i rapporti tra offeso e colpevole” e al secondo comma “sono invece valutate a suo favore le circostanze attenuanti, erroneamente supposte, che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti”. Il tipico caso é quello di un uomo che convinto di uccidere il suo nemico, per un errore di percezione, uccide un uomo che in realtà é il padre. Di certo l’uomo risponderà di omicidio semplice ma non certo di parricidio giacché per la contestazione di tale tipo di reato occorre la effettiva consapevolezza da parte del soggetto agente di uccidere il proprio padre.

5. Il concorso di circostanze aggravanti e attenuanti

L’art. 63 cod. pen. “applicazione degli aumenti o delle diminuzioni di pena” stabilisce le modalità di aumento e/o diminuzione della pena nel caso in cui in un medesimo contesto del reato si verificano più circostanze attenuanti e aggravanti. In particolare, il Codice prevede che se le circostanze sono omogenee (ovvero tutte aggravanti e/o tutte attenuanti), si verifica un aumento o una diminuzione della pena quante sono le circostanze concorrenti. Per converso, se le circostanze sono eterogenee (contemporaneamente aggravanti e attenuanti), si deve procedere a un giudizio di comparazione tra tutte, secondo il libero apprezzamento del giudice. Si potrà quindi giungere a un giudizio di prevalenza delle circostanze aggravanti e/o di quelle attenuanti o comunque a un giudizio di equivalenza per cui si procede al reciproco annullamento e alla semplice applicazione della pena base prevista dal Codice penale per quelle fattispecie di reato. La disciplina del concorso omogeneo si distingue poi a seconda che le circostanze siano ad efficacia comune e/o ad efficacia speciale. Nel primo caso (efficacia comune), l’art. 63, secondo comma, cod. pen. stabilisce che “se concorrono più circostanze aggravanti, ovvero più circostanze attenuanti, l’aumento o la diminuzione di pena si opera sulla quantità di essa risultante dall’aumento o dalla diminuzione precedente”. Nella fattispecie occorre però far salvo quanto disposto dall’articolo 66 cod. pen. che stabilisce “se concorrono più circostanze aggravanti, la pena da applicare per effetto degli aumenti non può superare il triplo del massimo stabilito dalla legge per il reato […] né comunque eccedere: 1) gli anni trenta, se si tratta della reclusione; 2) gli anni cinque, se si tratta dell’arresto; […]”. Per quanto attiene al concorso di circostanze attenuanti, l’art. 67 cod. pen. stabilisce che la pena da applicare non può essere inferiore a dieci anni se la pena prevista per il delitto é l’ergastolo mentre negli altri casi non può essere inferiore a un quarto. Nel secondo caso (efficacia speciale), l’art. 63, quarto comma, cod. pen. stabilisce che “se concorrono più circostanze aggravanti tra quelle indicate nel secondo capoverso di questo articolo, si applica soltanto la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla”.

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Massima

La circostanza aggravante di avere adoperato sevizie e di avere agito con crudeltà verso le persone é volta a

consentire di punire con maggior rigore comportamenti nei quali la finalità ultima di provocare la morte della

vittima si accompagni alla volontà di arrecare sofferenze non direttamente collegate alla causazione dell’evento

morte e non finalizzate a tale ultimo scopo; deve quindi trattarsi di comportamenti con cui il soggetto agente,

una volta deliberato di causare la morte della vittima, intenda altresì protrarne nel tempo lo stato di disagio e di

sofferenza, arrecandole sensazioni dolorose “eccentriche” rispetto all’evento deliberato. (Cass. pen., sez. I, 25

maggio 2012, n. 25835).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. I, 25 maggio 2012, n. 25835

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 31 maggio 2011 la Corte d'Assise d'Appello di Bari ha confermato la pena dell'ergastolo, inflitta col rito abbreviato a V.G. dal G.U.P. del Tribunale di Trani con sentenza del 10 marzo 2010 per avere cagionato, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, la morte della moglie D. M.L. e della suocera P.M.G., agendo con estrema crudeltà, avendole colpite selvaggiamente e ripetutamente alla testa con un martello, peraltro mai ritrovato, determinandone il decesso quasi immediato per gravissimo traumatismo fratturativo cranio-encefalico (art. 81 cpv. c.p., art. 575c.p., art. 577 c.p., u.c., art. 61 c.p., n. 4); esclusa l'aggravante dell'avere approfittato della minorata difesa delle vittime (art. 61 c.p., n. 5), negate le attenuanti generiche e ridotta la pena per il rito abbreviato prescelto. 2. Il grave fatto di sangue in esame é avvenuto in (OMISSIS), nell'abitazione dove l'imputato viveva con la propria moglie D.M.L., con la quale era in fase di separazione, poco dopo le ore 11,30 di sabato (OMISSIS) ed é stato ricostruito sulla base della piena confessione resa dall'imputato, rintracciato dai carabinieri poco dopo i fatti nei locali dove esercitava l'attività di commercio di prodotti ortofrutticoli. Era emerso che il matrimonio fra l'imputato e la vittima D.M. L., celebrato solo il (OMISSIS), era entrato in crisi fin dall'inizio per il carattere aggressivo e violento dell'imputato, che spesso picchiava la moglie non tollerando di essere contraddetto; pertanto la D.M. aveva deciso di separarsi, tornando a vivere presso i suoi genitori; ed il giorno dell'omicidio era appunto tornata con sua madre nella casa coniugale per riprendere alcuni suoi effetti personali. L'iniziativa, vista dall'imputato come una vera e propria spoliazione della casa coniugale, aveva determinato la sua violenta reazione, culminata con il massacro delle due donne; di esse la P. era stata colpita con almeno nove martellate infette in rapida successione, sei delle quali erano giunte a segno e di esse una l'aveva colpita al capo e le altre cinque l'avevano attinta al volto; la D.M. era stata a sua volta colpita con almeno quindici martellate, di cui sei erano giunte a segno, tre dirette al volto mentre era ancora in piedi, mentre le restanti tre l'avevano colpita al capo quando era riversa a terra. 3. Avverso detta sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Bari ricorre per cassazione V.G. per il tramite dei suoi difensori, che hanno dedotto tre motivi di ricorso. Col primo motivo lamentano motivazione carente ed illogica in ordine al diniego dell'attenuante della provocazione, in quanto non era stato tenuto nel debito conto la situazione di umiliazione in cui egli versava, atteso il divario sociale fra la sua famiglia di origine e quella di sua moglie; e le perizie psichiatriche svolte avevano messo in luce la sua personalità afflitta da un disturbo border line di tipo narcisistico con tratti paranoidali ed antisociali, tale da avergli fatto vivere con sofferta emotività i difficili rapporti con la famiglia della moglie ed in particolare con sua suocera, che gli era stata sempre ostile e con la quale aveva avuto in precedenza numerosi scontri verbali, nel corso dei quali la donna le aveva più volte rinfacciato la sua inferiorità sociale e culturale. Era da ritenere pertanto provocatoria e tracotante la presenza della suocera che, il giorno del delitto, aveva accompagnato sua moglie nella casa coniugale per ritirare i suoi effetti personali, nonostante che il giorno precedente, quando sua moglie in compagnia di sua madre aveva portato via dalla casa coniugale stoviglie ed altri oggetti, egli avesse vietato a sua suocera di fare ingresso nella casa coniugale; e la sentenza impugnata aveva escluso che, nella specie, potesse parlarsi di violazione di domicilio da parte della suocera, essendo stata la stessa aggredita sul pianerottolo di casa; tuttavia era pur sempre ravvisabile nel comportamento della suocera un fatto ingiusto, siccome almeno incauto e pervicace, tale da poter essere interpretato come oppressivo. D'altra parte la Corte territoriale aveva ammesso che il comportamento della suocera avrebbe potuto essere qualificato come ingiusto ed aveva fatto riferimento al diverso argomento della sproporzione fra l'offesa e la reazione, requisito questo non richiesto dalla legge, in quanto non poteva essere chiesta, ad un soggetto sconvolto dall'ira, una reazione misurata; comunque la Corte territoriale aveva escluso il suo stato d'ira, in contrasto con quanto ritenuto dal primo giudice, che l'aveva invece ammessa, siccome accumulatasi nel tempo a seguito di più atti ostili commessi dalla suocera e dalla moglie, che aveva rifiutato di tornare alla casa coniugale. Col secondo motivo lamentano motivazione carente ed illogica circa la ritenuta sussistenza a suo carico dell'aggravante della crudeltà.

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La Corte territoriale aveva desunto la sussistenza di detta aggravante dalla circostanza che entrambe le vittime erano state colpite anche quando esse erano riverse a terra; tuttavia non era stato tenuto conto del fatto che l'azione era avvenuta in stato di assoluta concitazione, mentre si trovava in un incontenibile stato d'ira, si che la rapida successione delle martellate era avvenuta senza soluzione di continuità in un impeto d'ira; non era pertanto ravvisabile nel suo comportamento un qualcosa di più rispetto all'ordinaria esplicazione dell'attività necessaria per commettere un omicidio, in quanto la reiterazione dei colpi di martello era stata sempre finalizzata alla commissione degli omicidi e non era stata tale da denotare una sua particolare malvagità e spietatezza, si da essere trasmodata in manifestazione di efferatezza. Col terzo motivo lamentano carenza di motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche, in quanto erroneamente la Corte territoriale aveva escluso che il disturbo della personalità da lui patito consentisse la concessione di dette attenuanti generiche. Al contrario, il disturbo anzidetto, quale peculiare caratterizzazione della sua personalità, aveva inciso sulle sue scelte e pertanto ben avrebbe potuto influire sulla commissione del duplice omicidio, trattandosi di elemento valutabile ex art. 133 c.p..

Considerato in diritto

1. E' infondato il primo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta la mancata concessione in suo favore dell'attenuante della provocazione, di cui all'art. 62 c.p., n. 2. E' noto che, per la configurabilità di tale attenuante, occorrono: a) - uno stato d'ira, consistente in una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, tale da determinare la perdita dei normali poteri di autocontrollo e da generare un forte turbamento, connotato da impulsi aggressivi; b) - un fatto ingiusto altrui, che può consistere sia in un comportamento antigiuridico in senso stretto, sia in un agire che si ponga in contrasto con le fondamentali regole di convivenza e di rapporti interpersonali, quali percepite da un'intera collettività in una determinata epoca storica; c) - un rapporto di causalità psicologica fra l'offesa e la reazione, che può anche prescindere dalla sussistenza di una proporzionalità fra di esse (cfr. Cass. 5^ 13.2.04 n. 12558; Cass. 1^ 1.2.08 n. 9775). Correttamente i giudici di merito hanno ritenuto priva di riscontri obiettivi la tesi prospettata dal ricorrente, di avere cioè agito in stato d'ira determinato dal comportamento provocatorio tenuto principalmente da una delle due vittime e cioè dalla suocera P.M.G., la quale, sebbene formalmente diffidata dal farlo, la mattina del duplice omicidio si sarebbe nuovamente presentata presso la sua abitazione coniugale, in compagnia di sua moglie, per aiutare quest'ultima a ritirare alcuni effetti personali dall'appartamento, non avendo più intenzione di convivere con il ricorrente. Pienamente condivisibile é la motivazione addotta dalla sentenza impugnata per ritenere che, nella specie, la P. non abbia tenuto un comportamento intollerabile e provocatorio, tale da potersi qualificare come ingiusto ed idoneo pertanto a scatenare il comportamento gravemente violento tenuto dal ricorrente, avendo rilevato come la stessa si fosse limitata, in modo pienamente comprensibile, ad aiutare sua figlia nel trasporto dei suoi oggetti personali dalla casa coniugale, onde fornire sostegno morale ad una figlia in un frangente difficile, qual'era la sua recentissima separazione dal marito, alla quale sua figlia era stata costretta per ben validi motivi, avendo quest'ultima sperimentato sulla sua persona l'indole violenta del marito, che più volte l'aveva picchiata e malmenata; comprensibilmente pertanto D.M.L. aveva chiesto a sua madre di accompagnarla, essendo ben consapevole dell'indole violenta del ricorrente e ritenendo che, assieme a sua madre, avrebbe potuto meglio fronteggiare le possibili reazioni violente di quest'ultimo. Considerati dunque i più che giustificati motivi che aveva indotto la P. ad accompagnare sua figlia nella casa coniugale per ritirare i suoi effetti personali, non può parlarsi di alcun fatto ingiusto commesso dalla P. e meno che mai può ipotizzarsi, a carico della stessa, il reato di cui all'art. 614 c.p. (violazione di domicilio), dovendosi al contrario ritenere, conformemente a quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, che lo stato d'ira in cui versava il ricorrente non poteva essere messo in relazione con eventuali fatti ingiusti posti in essere dalle due donne, ma doveva piuttosto collegarsi esclusivamente all'indole violenta e prevaricatrice del ricorrente, tale da averlo indotto a commettere il duplice efferato delitto in esame (cfr. Cass. n. 29384 del 2006, rv. 235005; Cass. 1^, 8.4.08 n. 16790, rv. 240283). 2.E1 invece fondato il secondo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente lamenta l'erronea contestazione a suo carico dell'aggravante dell'avere agito con crudeltà verso le persone. La giurisprudenza di questa Corte ritiene che la circostanza aggravante da ultimo citata, prevista dall'art. 61 c.p., n. 4, ricorre quando le modalità della condotta rendono evidente in modo obiettivo e conclamato la volontà dell'agente di infliggere alla vittima sofferenze gratuite, inutili, ulteriori e non collegabili al normale processo di causazione dell'evento morte, si da costituire un qualcosa che va oltre l'attività necessaria per consumare il reato, in tal modo rendendo la condotta dell'agente particolarmente riprovevole e ripugnante agli occhi della collettività per la gratuità e superfluità dei patimenti cagionati alla vittima con un'azione efferata, rivelatrice di un'indole malvagia e priva dei più elementari sentimenti di umana pietà (cfr., in termini, Cass. Sez. 1 n. 25276 del 27/05/2008, dep. 20/06/2008, imp. Potenza, Rv. 240908). Non si ritiene che, nella specie, i giudici di merito abbiano fatto puntuale applicazione della giurisprudenza di legittimità sopra riferita. Secondo il ricorrente l'aggravante della crudeltà era da escludere in quanto la rapida reiterazione dei colpi di martello sulle due vittime era avvenuta per lo stato di parossistico furore nel quale si trovava, tale da non avergli consentito la percezione di quanto stava compiendo. La Corte territoriale ha invece ritenuto sussistere l'aggravante anzidetta in quanto, per portare a compimento l'omicidio delle due donne, sarebbe stato sufficiente un più limitato numero di colpi di martello, ed Inoltre in quanto non sarebbe stato necessario infierire col martello sul volto delle stesse, quando erano entrambe già riverse a terra agonizzanti; l'aggravante della crudeltà é stata quindi ravvisata per avere il ricorrente infierito con il martello sui volti delle due donne, sgretolandoli e sfigurandoli senza alcuna necessità e perché, inoltre, gli accertamenti di natura psichiatrica svolti sul ricorrente ne avevano evidenziato la piena capacità di intendere e volere, si da escludere che il ricorrente avesse reiterato i colpi di martello in

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rapida sequenza senza essersene reso conto, siccome in preda ad un parossistico furore omicida. Si ritiene invece che il legislatore abbia configurato l'aggravante in esame allo scopo di punire con maggior rigore comportamenti nei quali la finalità ultima di provocare la morte della vittima si accompagni alla volontà di arrecare sofferenze non direttamente collegate alla causazione dell'evento morte, e non finalizzate a tale ultimo scopo. Deve quindi trattarsi di comportamenti con i quali il soggetto, una volta deliberato di causare la morte della vittima, intende altresì protrarne nel tempo lo stato di disagio e di sofferenza, arrecandole sensazioni dolorose per così dire "eccentriche", siccome non direttamente finalizzate a procurare il già deliberato evento morte. Nella specie in esame risulta invece che il ricorrente abbia solo ed esclusivamente colpito ripetutamele le due vittime in parti vitali (la testa ed il volto) con un martello, continuando a ripetere con veemenza e furore solo gesti pienamente compatibili con la deliberata finalità di uccidere le due vittime, si che il suo comportamento non può obiettivamente ritenersi caratterizzato dalla crudeltà, nel senso sopra delineato, atteso che le numerose martellate inferte alle due donne hanno avuto tutte solo ed esclusivamente la finalità di togliere loro la vita. 3. Da quanto sopra consegue l'annullamento dell'impugnata sentenza limitatamente alla sussistenza dell'aggravante della crudeltà, con rinvio degli atti alla Corte d'assise d'appello di Bari in diversa composizione affinché, in piena autonomia di giudizio, provveda nuovamente ad esaminare sul punto la sentenza impugnata, adeguandosi ai principi di diritto sopra indicati; ed é evidente che, in esito a detta nuova valutazione, ben potrebbe essere modificato il trattamento sanzionatorio inflitto al ricorrente, per cui va ritenuto assorbito il motivo di ricorso attinente al diniego delle attenuanti generiche. 4. Il ricorso proposto da V.G. va respinto nel resto. 5.Le spese sostenute dalla parte civile nel presente grado andranno liquidate in esito al giudizio di rinvio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla circostanza aggravante della crudeltà ed al trattamento sanzionatorio e rinvia per nuovo giudizio al riguardo ad altra sezione della Corte d'assise d'appello di Bari; rigetta nel resto il ricorso. Così deciso in Roma, il 25 maggio 2012. Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2012.

Massima

La circostanza attenuante della partecipazione di minima importanza al fatto, prevista dall'art. 114 cod. pen.,

non trova applicazione quando il numero dei partecipanti al reato sia considerato come circostanza aggravante

speciale, come nell'ipotesi prevista dall'art. 73, comma sesto, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309. (Cass. pen., sez.

III, 19 aprile 2012, n. 19096).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. III, 19 aprile 2012, n. 19096

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 25.3.2011 il GIP del Tribunale di Venezia applicava a J.H.E.S., previo riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p., e ritenuta la diminuente per la scelta del rito, la pena concordata ex art. 444 c.p.p. di anni 1, mesi 8 di reclusione ed Euro 7.295,00 di multa per il reato di cui all'art. 110 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1; pena sospesa. 2. Ricorre per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia, denunciando, con il primo motivo, l'erronea applicazione della legge penale in relazione alla ritenuta sussistenza della circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p., essendo pacifico che essa non sia configurabile quando ricorra una delle circostanze aggravanti di cui all'art. 112 c.p. Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge in relazione all'art. 65 c.p., n. 3, essendo la riduzione di pena effettuata per la concessa attenuante di cui all'art. 114 c.p. superiore al massimo di un terzo consentito. 3. Ricorre, a sua volta, per cassazione J.H.E. S., a mezzo del difensore, denunciando la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla congruità della sanzione, alla qualificazione giuridica del fatto ed alla comparazione delle circostanze.

Considerato in diritto

1. Va premesso che l'applicazione della pena su richiesta delle parti é un meccanismo processuale in virtù del quale l'imputato ed il pubblico ministero si accordano sulla qualificazione giuridica della condotta contestata, sulla concorrenza di circostanze, sulla comparazione delle stesse, sull'entità della pena, su eventuali benefici. Da parte sua il giudice ha il potere-dovere di controllare l'esattezza dei menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta e di applicarla dopo aver accertato che non emerga in modo evidente una della cause di non punibilità previste dall'art. 129 cpv. c.p.p.. Ne consegue che, una volta ottenuta l'applicazione di una determinata pena ex art. 444 c.p.p., non possano essere rimessi in discussione profili oggettivi o soggettivi della fattispecie perché essi sono coperti dal patteggiamento. Il patteggiamento comporta altresì la rinuncia a far valere eccezioni e difese di natura sostanziale (nei limiti dell'art. 129 c.p.p.) e processuale (nei limiti dell'art. 179 c.p.p.) salvo che si tratti di eccezioni attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso prestato (cfr. Cass. sez. 4 n. 16832 dell'11.4.2008; conf. Cass. sez. 6 n. 32391 del 25.6.2003; Cass. sez. 2 n. 6383 del 29.1.2008). Tra i vizi che possono essere dedotti rientrano le violazioni di legge in ordine alla determinazione della pena e la mancata applicazione del disposto di cui all'art. 129 cpv. c.p.p.. 2. Il ricorso di J. é manifestamente infondato. 2.1. Quanto alla motivazione in ordine alla mancata applicazione dell'art. 129 cpv. c.p., questa Corte ha costantemente affermato che occorre una specifica indicazione "soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano

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concreti elementi circa la possibile applicazione di cause di non punibilità, dovendo invece ritenersi sufficiente in caso contrario, una motivazione consistente nella enunciazione anche implicita che é stata compiuta la verifica richiesta dalla legge e che non ricorrono le condizioni per la pronuncia di proscioglimento ex art. 129 c.p.p." (ex multis sez.un.27.3.1992- Di Benedetto; sez.un.27.9.1995 n. 18-Serafino). Il GIP ha effettuato la necessaria verifica, evidenziando che "dal complesso dell'attività di indagine, in particolare dalle risultanze compendiate nelle plurime informative della polizia giudiziaria, dall'analisi dei tabulati e delle intercettazioni telefoniche, nonché dalle dichiarazioni stesse rese dagli imputati, emergono elementi probatori che escludono la possibilità di una sentenza di proscioglimento nel merito". 2.2. In ordine alla lamentata omessa motivazione sulla congruità della pena, secondo la giurisprudenza di questa Corte "In mancanza di elementi macroscopicamente rivelatori di incongruità, per eccesso o per difetto, il giudizio in ordine alla ritenuta congruità della pena patteggiata nei limiti di cui all'art. 27 Cost., comma 3, può dirsi adeguatamente motivato, quando il giudice si limiti ad esplicitare la propria valutazione in tal senso, allorché risulti dal contesto dell'intera decisione che, nella valutazione complessiva, egli ha tenuto presenti quegli elementi che possono assumere rilevanza determinante, come le circostanze del reato e la condizione personale dell'imputato" (cfr. Cass. sez. 6, ord. n. 549 dell'11.2.1994). Sicché "Nella motivazione della sentenza applicativa della pena richiesta dalle parti appare sufficiente il rilievo che detta pena, ricompresa nei limiti di legge inderogabili, é congrua: ciò dimostra l'avvenuto controllo da parte del giudice di tale rilevante elemento dell'accordo intervenuto tra imputato e P.M. e la valutazone favorevole operata ai fini dell'art. 27 Cost., comma 3" (Cass.sez.1 n.1878 del 28.3.1995). Il GIP ha effettuato il controllo richiesto ed ha ritenuto congrua la pena concordata tra le parti "avuto riguardo a tutti i criteri di cui all'art. 133 c.p., con riferimento all'entità del fatto ed alla condotta..". 2.3. Infine, secondo la giurisprudenza di questa Corte "In tema di patteggiamento, la possibilità di ricorrere per cassazione deducendo l'erronea qualificazione del fatto contenuta in sentenza deve essere limitata ai casi di errore manifesto, ossia ai casi in cui sussiste l'eventualità che l'accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, mentre deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità "(ex plurimis Cass.pen. sez.4 n. 10692 dell'11.3.2010; sez.6 n.45688 del 20.11.2008; sez.3 n.44278 del 23.10.2007). 2.4. Il ricorso di J. deve quindi essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende della somma che pare congruo determinare in Euro 1.500,00 ai sensi dell'art. 616 c.p.p.. 3. Il ricorso del P.G. é, invece, fondato. Il GIP, nel ratificare l'accordo delle parti, é incorso in una "duplice illegalità". Ha innanzitutto concesso la circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p., pur risultando dalla contestazione che il reato era stato commesso in "concorso con L.G.D.F. e con altre persone allo stato non compiutamente identificate". A norma del medesimo art. 114, comma 2 la circostanza attenuante non trova applicazione nei casi indicati nell'art. 112 c.p. (vale a dire quando il numero delle persone sia superiore a cinque ovvero quando il numero delle persone concorrenti nel reato sia posto a base di un aggravamento in forza di disposizioni specifiche del reato medesimo). Secondo pacifica giurisprudenza di questa Corte la circostanza attenuante della minima partecipazione al fatto non é applicabile quando il numero dei partecipanti al reato sia considerato come circostanza aggravante speciale, in quanto la riserva "salvo che la legge disponga altrimenti" contenuta nell'art. 112 c.p. non solo sta ad indicare la prevalenza delle norme speciali sulla regola generale, ma esclude pure l'applicabilità dell'attenuante anche in presenza di siffatte norme speciali (giurisprudenza consolidata a partire da Cass.sez.2, 28.7.1987 n.8750; conf. Cass.sez.6 n.11338 del 10.11.1994; Cass.pea sez.2 n.6382 dell'8.5.1996; Cass. Sez.6 n.6250 del 17.10.2002). E, nel caso di specie, risulta contestata, in fatto, la circostanza aggravante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 6. In secondo luogo é stata apportata per la concessa (erroneamente) circostanza attenuante di cui all'art. 114 c.p., una riduzione superiore al massimo di un terzo consentito (art. 65 c.p., comma 1, n. 3): la pena base indicata in anni 6 di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa risulta, infatti, ridotta ex art. 114 c.p. ad anni 3, mesi 9 di reclusione ed Euro 16.250,00 di multa (la riduzione massima consentita comportava una pena di anni 4 di reclusione ed Euro 17,333,00 di multa). 4. L'applicazione di una pena illegale travolge l'intero concordato, per cui, previo annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, gli atti vanno rimessi al Tribunale di Venezia per l'ulteriore corso. Le parti dovranno, eventualmente, rivalutare i termini dell'accordo e l'interesse ad un nuovo patteggiamento secondo una pena conforme alle prescrizioni di legge.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso dell'imputato, che condanna al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento alla cassa delle ammende della somma di Euro 1.500,00. In accoglimento del ricorso del P.G., annulla senza rinvio la sentenza impugnata ed ordina trasmettersi gli atti al Tribunale di Venezia. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2012. Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2012

Massima

Quando il reato di truffa viene commesso con l'artificio rappresentato dall'aver costituito una parvenza di

legittima operatività di uno studio professionale, il reato é da ritenere aggravato dall'abuso della relazione

qualificata di prestazione d'opera professionale. Tale aggravante non può caratterizzare il delitto di lesioni

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colpose. L'aver agito arrecando lesioni a titolo di semplice colpa non é compatibile con la circostanza

aggravante dell'abuso della prestazione d'opera, non potendosi plausibilmente innestare sopra una condotta

colposa una circostanza aggravante costituita da un atteggiamento abusivo; ossia da un atteggiamento

mentale doloso, nel caso concreto volto ad approfittare di un rapporto di fiducia non meramente occasionale o

estemporaneo (nella specie, l'imputata aveva abusivamente esercitato la professione medica con ciò

arrecando lesioni colpose alle parti offese). (Cass. pen., sez. II, 29 febbraio 2012, n. 15463).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. II, 29 febbraio 2012, n. 15463

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Roma ha riformato la sentenza emessa dal Tribunale della medesima città il 12.3.2008, di condanna dell'imputata V.G., rideterminando la pena inflitta per i delitti di truffa, lesioni ed abusivo esercizio di una professione. 2. Avverso la pronunzia ricorre l'imputata sollevando, in un unico motivo, difetto di motivazione (mancante, illogica o contraddittoria) e violazione di legge (in relazione all'art. 61 cod. pen., n. 11)- Ciò per avere la Corte di merito affermato la sussistenza dell'aggravante dell'abuso di prestazione d'opera per avere l'imputata abusivamente esercitato la professione medica con ciò arrecando lesioni colpose alle parti offese senza avvedersi dell'incompatibilità logica tra tale aggravante (che presuppone un atteggiamento mentale doloso, concretizzantesi nell'abuso) e la natura colposa del reato; e inoltre, per aver ritenuto l'aggravante anche con riguardo al reato di truffa, pur costituendo la falsa qualifica di dottoressa elemento costitutivo del reato e pur disponendosi, nell'art. 61 cod. pen., n. 11, che la circostanza può rilevare solo in quanto non integra elemento costitutivo del reato: come invece é nel caso in esame, consistendo l'artifizio truffaldino proprio nella falsa qualifica professionale.

Considerato in diritto

1. Il ricorso é parzialmente fondato. Deve rammentarsi l'avviso giurisprudenziale secondo cui, premesso che l'aggravante dell'abuso di prestazione di opera concerne tutti i rapporti giuridici che comportano un obbligo di fare e instaurino tra le parti un rapporto di fiducia non meramente occasionale o estemporaneo, ovvero di semplice amicizia o favore, il quale comunque agevoli la commissione del fatto (Cass., sez. 2^, 12.10.2000, n. 11078), allorquando il reato di truffa venga commesso con l'artificio rappresentato dall'aver costituito una parvenza di legittima operatività di uno studio professionale, ciò non toglie che detto studio professionale, nella sua fisicità e concretezza, sia esistito e abbia operato come se fosse legittimamente istituito e che, pertanto, i clienti si siano affidati allo stesso e al suo titolare con una "minorata cautela". Ne deriva che, indipendentemente dall'invalidità del contratto di prestazione professionale, la truffa in tal modo commessa legittimamente é da ritenere aggravata dall'abuso della relazione qualificata di prestazione d'opera professionale (Cass., sez. 6^, 8.6.06, n. 37252). Conseguentemente, la Corte di appello ha correttamente ritenuto integrata, in relazione al reato di truffa - commesso dall'imputato dichiarandosi falsamente "dottoressa" - la circostanza aggravante di aver agito con abuso della relazione fiduciaria derivante dalla prestazione di opera professionale. Sotto tale profilo, il ricorso é dunque infondato. Diversamente, l'aggravante in oggetto non può caratterizzare il delitto di lesioni colpose. L'aver agito arrecando lesioni a titolo di semplice colpa non é compatibile con la circostanza aggravante dell'abuso della prestazione d'opera, non potendosi plausibilmente innestare sopra una condotta colposa una circostanza aggravante costituita da un atteggiamento abusivo; ossia da un atteggiamento mentale doloso, nel caso concreto volto ad approfittare di un rapporto di fiducia non meramente occasionale o estemporaneo. Poiché il trattamento sanzionatorio é stato determinato computando l'aggravante con riguardo anche al delitto di lesioni colpose, (a sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per la rideterminazione della pena ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che procederà al computo escludendo l'aggravante con riguardo al delitto in oggetto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla ritenuta circostanza aggravante prevista dall'art. 61 cod. pen., n. 11, in relazione al reato di lesioni personali colpose. Rinvia per la rideterminazione della pena ad altra sezione della Corte di Appello di Roma. Dichiara irrevocabile la sentenza per le restanti statuizioni in punto di responsabilità. Così deciso in Roma, il 29 febbraio 2012. Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2012

Massima Nel caso di sentenza di condanna che abbia applicato la circostanza aggravante della clandestinità, prevista dall'art. 61, n. 11 bis, c.p., poi dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza della Corte costituzionale n. 249 dell'8 luglio 2010, non può essere eseguito il giudicato per la parte in cui é stata fatta applicazione della circostanza colpita dalla declaratoria di illegittimità costituzionale. (Cass. pen., sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. I, 24 febbraio 2012, n. 19361

Ritenuto in fatto

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Con ordinanza in data 13.6.2011 il Tribunale di Modena, in veste di giudice dell'esecuzione, rigettava l'istanza di revoca parziale della sentenza del Tribunale di Reggio Emilia in data 9.2.2009 con la quale T.A.B. era stato condannato, previo giudizio di equivalenza tra le attenuanti generiche e l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 11 bis, alla pena di mesi sei di reclusione per il delitto di cui all'art. 337 c.p. (sentenza divenuta irrevocabile il 24.7.2009). Dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.249 dell'8.7.2010, che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'aggravante introdotta con l'art. 61 c.p., n. 11 bis, era stata presentata dal difensore del predetto condannato ai giudice dell'esecuzione istanza di revoca parziale della menzionata sentenza del Tribunale di Reggio Emilia, chiedendo di eliminare la parte di pena applicata per effetto dell'aggravante de qua, essendo stata la stessa dichiarata incompatibile con i principi della Costituzione. Il giudice dell'esecuzione riteneva che non fosse applicabile l'art. 2 c.p., comma 2, che prevede la cessazione dell'esecuzione e degli effetti penali se il fatto giudicato cessa di costituire reato, ma dovesse applicarsi l'art. 2 c.p., comma 4 che prevede l'applicazione delle disposizioni più favorevoli, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. La dichiarazione di incostituzionalità di una circostanza aggravante non incideva sulla illiceità penale del fatto, ma solo sul trattamento sanzionatorio, e quindi incontrava il limite invalicabile del giudicato, espressamente previsto dall'art. 2 c.p., comma 4. Non essendo la fattispecie riconducibile all'ipotesi di abolitio criminis prevista dall'art. 2 c.p., comma 2, non era proponibile l'incidente di esecuzione ex art. 673 c.p.p. al fine di ottenere l'eliminazione della pena inflitta in relazione alla suddetta aggravante dichiarata incostituzionale. Avverso l'ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi. Il giudice dell'esecuzione aveva dato una interpretazione rigida del giudicato, non condivisa neppure dal legislatore che, con la L. n. 85 del 2006 che aveva inserito l'art. 2 c.p., comma 3, aveva previsto modificabili le statuizioni di una sentenza passata in giudicato, anche nel caso in cui non vi era stata una abolitio criminis. La L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 4 prevede che, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale, le norme non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, e quindi sarebbe contrario al principio di uguaglianza che un soggetto continui a scontare una parte di pena detentiva in esecuzione di una disposizione penale che non deve avere alcuna efficacia nel nostro ordinamento, essendo stata dichiarata contraria ai principi della nostra Costituzione. Secondo il ricorrente, quindi, dovrebbe trovare applicazione nel caso di specie, in via analogica, l'art. 673 c.p.p., come del resto avevano già ritenuto alcuni giudici di merito.

Considerato in diritto

Il ricorso é fondato. T.A.B. é stato definitivamente condannato dal Tribunale di Reggio Emilia, con sentenza in data 9.2.2009, alla pena di mesi sei di reclusione per il delitto di resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), previa concessione delle attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.) ritenute equivalenti all'aggravante di avere commesso il fatto mentre si trovava illegalmente sul territorio nazionale (art. 61 c.p., n. 11 bis). La Corte Costituzionale, con sentenza n. 249 del 2010 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della predetta aggravante - introdotta dal D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito nella L. 24 luglio 2008, n. 125 - eliminandola dall'ordinamento e rendendola inapplicabile ai rapporti giuridici in corso, con conseguenze invalidanti assimilabili all'annullamento e con incidenza, quindi, anche sulle situazioni pregresse. Il ricorrente, dopo aver premesso che sarebbe contrario al principio di uguaglianza che un soggetto continui a scontare una parte di pena detentiva in esecuzione di una disposizione penale che é stata dichiarata contraria ai principi della Costituzione, ha chiesto di eliminare gli effetti penali dell'aggravamento di pena stabilito dal giudice in conseguenza della menzionata aggravante dichiarata costituzionalmente illegittima, applicando in via analogica l'art. 673 c.p.p., che prevede, nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, l'obbligo del giudice dell'esecuzione di revocare la sentenza di condanna e di adottare i provvedimenti conseguenti. Questa Corte in alcune recenti pronunce ha interpretato in via estensiva la previsione di cui all'art. 673 c.p.p., ritenendo che dovesse procedersi a revoca della sentenza di condanna anche nel caso di incompatibilità della norma incriminatrice con il recepimento nel nostro ordinamento di direttive del Parlamento Europeo (V. Sez. 1 sent. n. 20130 del 29.4.2011, Rv. 250041), ma ha costantemente ritenuto che la suddetta norma consente una revoca parziale della sentenza di condanna solo nel caso di eliminazione della condanna per uno o più fatti reato giudicati, in considerazione del tenore letterale della norma che si riferisce solo alla "norma incriminatrice"; non ha mai ritenuto, quindi, che potesse procedersi a scissione del singolo capo di accusa, eliminando un aggravante, dovendosi peraltro considerare che la norma di cui all'art. 673 c.p.p. é strettamente correlata all'art. 2 c.p., di cui attua i principi. E l'art. 2 c.p., comma 4 detta il principio che se vi é diversità tra la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile. Si deve, però, accogliere la richiesta del ricorrente, applicando al caso di specie la L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30 che, nel dettare le norme attuative delle sentenze della Corte Costituzionale, non si riferisce alle sole norme incriminatrici, ma genericamente alle norme dichiarate incostituzionali. In particolare, nel suddetto art. 30, commi 3 e 4 é stabilito che: "le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale é stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali". Il dettato letterale della norma consente di impedire che sia data esecuzione anche solo alla parte di pena conseguente ad una norma penale dichiarata incostituzionale, e l'eliminazione di questa parte di pena risponde alle esigenze di giustizia,

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poiché non é accettabile che un soggetto debba scontare anche solo una porzione di pena in conseguenza di una norma che é contraria ai principi della Costituzione. Nel caso di specie, la porzione di pena da eliminare in conseguenza della dichiarata illegittimità costituzionale della norma deve essere stabilita dal giudice dell'esecuzione, che, venuto meno il giudizio di comparazione tra attenuante e aggravante per la dichiarata illegittimità di quest'ultima, dovrà ridurre la pena inflitta, nella misura che riterrà di giustizia, per effetto delle già concesse attenuanti generiche.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata relativamente alla sentenza emessa il 9.2.2009 dal Tribunale di Reggio Emilia nei confronti di T.A. B. e, dichiarata la non eseguibilità di detta sentenza nella parte in cui ha applicato l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11-bis c.p., rinvia al Tribunale di Modena per la rideterminazione della pena da eseguire. Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2012. Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2012

Massima Per l'applicazione della circostanza aggravante prevista dall'art. 628, comma terzo n. 3, cod. pen. é necessario che sia accertata l'appartenenza dell'agente a un'associazione di tipo mafioso, ma non che via sia stata una sentenza di condanna o una formale imputazione in ordine al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. (Cass. pen., sez. I, 1 febbraio 2012, n. 6533).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. I, 1 febbraio 2012, n. 6533

Rilevato in fatto

1. Con ordinanza del 9 agosto 2011 il Tribunale di Catania, in funzione di giudice del riesame, rigettava il ricorso proposto da S.G., indagata per il reato di estorsione aggravata ai sensi dell'art. 628 c.p., comma 3, n. 3. e della L. n. 203 del 1991, art. 7 avverso l'ordinanza con la quale il GIP del tribunale catanese, in data 23.7.2011, aveva disposto in suo danno la misura cautelare della custodia in carcere. A sostegno della misura i giudici di merito richiamavano le dichiarazioni del collaboratore di giustizia D.E., legato sentimentalmente per un certo periodo con la figlia della ricorrente e di A.S., personaggio di spicco del clan mafioso dei Santapaola con a capo S.B., cugino della istante, e le univoche dichiarazioni di An.Ga., titolare di una rivendita di tabacchi posta nel quartiere (OMISSIS), il quale ha indicato nella ricorrente la persona alla quale ha consegnato tra il (OMISSIS) somme di denaro per la subita estorsione. 2. Avverso detto provvedimento ricorre per cassazione la S., assistita dal difensore di fiducia, che ne denuncia l'illegittimità illustrando quattro motivi di impugnazione. 2.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente mancanza di motivazione in ordine alla impugnazione ed alla gravità indiziaria posta a fondamento della misura, in particolare osservando: - la persona offesa ha reso un racconto pieno di lacune, come dimostrato dalla circostanza che, ad esempio, dopo aver ricordato nomi ed episodi risalenti al periodo (OMISSIS), nulla ricorda degli anni successivi e soprattutto nulla dice circa le persone che hanno ritirato il "pizzo" negli anni (OMISSIS), posto che, per sue stesse ammissioni, la ricorrente saltuariamente lo avrebbe fatto e precisamente quando doveva ritirare vincite rinvenienti dal gioco del lotto; - nessuna indagine risulta eseguita per colmare queste rilevantissime lacune; - palese la genericità delle accuse della p.o., la quale non ha chiarito termini e modalità dei versamenti e, nello specifico, se i versamenti venivano richiesta dalla ricorrente e se venivano incassati per conto terzi; - i rilievi appena illustrati sono stati proposti in sede di riesame senza alcuna replica motiva da parte del Tribunale adito; - le dichiarazioni della p.l. sono state "stravolte, travisate e machiavellicamente asservite ad una presunzione di colpevolezza", come quando é stato ritenuto irrilevante accertare se la ricorrente abbia o meno conseguito vincite al lotto. 2.2 Col secondo motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente difetto di motivazione in relazione alle esigenze cautelari ed ai motivi di impugnazione per questo illustrati in sede di riesame, là dove la difesa impugnante aveva rilevato la disparità di trattamento rispetto ad altri coindagati, per i quali la episodicità delle condotte, analoga a quelle ascrivibili per l'accusa alla istante, era stata valorizzata in loro favore. 2.3 Col terzo motivo di ricorso denuncia ancora la difesa ricorrente violazione di legge sulla contestata aggravante di appartenenza al clan malavitoso dei Santapaola e difetto di motivazione sul punto, sul rilievo che la S. é stata assolta dall'accusa di partecipazione associativa ex art. 416-bis c.p., e che non può ritenersi l'aggravante in parola solo per precedenti condanne o per formali imputazioni. 2.4 Col quarto motivo di ricorso denuncia la difesa ricorrente la mancanza di motivazione in relazione alla contestata aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 sul rilievo che la genericità delle accuse e delle dichiarazioni accusatorie in ordine alle modalità del pagamento del "pizzo", impedisce di apprezzare e conoscere gli elementi in base ai quali é stato ritenuto provato il metodo mafioso, ovvero la valenza agevolatrice della condotta in favore del clan.

Considerato in diritto

1. Ai fini dell'emissione di una misura cautelare personale, giova ribadirlo, per "gravi indizi di colpevolezza" ex art. 273 c.p.p., devono intendersi tutti quegli elementi a carico, di natura logica o rappresentativa, che, contenendo in nuce tutti o soltanto alcuni degli elementi strutturali della corrispondente prova, non valgono di per sé a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell'indagato ai fini della pronuncia di una sentenza di condanna, e tuttavia consentono, per la loro consistenza, di prevedere che, attraverso il prosieguo delle indagini, saranno idonei a dimostrare tale responsabilità, fondando nel frattempo una qualificata probabilità di colpevolezza (principio ampiamente consolidato; tra le tante: Cass., Sez. 6, 06/07/2004, n. 35671). Nel caso di specie il Tribunale ha richiamato, da una parte le dichiarazioni rese dal

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collaboratore di giustizia D.E., già fidanzato della figlia della ricorrente e di S.A., figura importante del clan Santapaola, e quelle della vittima dell'estorsione per cui é causa. Il primo ha riferito di essere stato parte dell'associazione malavitosa coinvolta nel procedimento e di aver personalmente riscosso il "pizzo" dai titolari di diversi esercizi commerciali ed il secondo ha raccontato la sua storia di estorto, della protezione, risalente nel tempo, accordatagli dal clan dietro versamento di Euro 130 mensili, nonché dei versamenti eseguiti nelle mani della ricorrente, in occasione degli accessi alla sua ricevitoria della stessa in occasione delle sue vincite al lotto. Al quadro probatorio in tal guisa delineato, coerente e logico nella sua elaborazione e nella sua valutazione critica, soprattutto se inserito nella presente fase processuale, la difesa istante ha opposto ragioni di merito, incentrate sullo svilimento indiziario delle circostanze viceversa valorizzate dai giudicanti, eppertanto non proponibili in questa sede. In tale prospettiva giova sottolineare la sufficienza del racconto della parte offesa, la quale ha indicato una triste vicenda estorsiva risalente nel tempo, ed alla quale ha partecipato negli anni (OMISSIS) la ricorrente, poco importa se sistematicamente ovvero saltuariamente, se in prima persona ovvero come collettrice, giacché si appalesano queste circostanze affidate agli accertamenti ulteriori delle indagini in corso. Infondato é pertanto il primo motivo di ricorso. 2. Quanto al secondo motivo di impugnazione occorre rilevarne la palese genericità e la manifesta infondatezza, giacché non valutabile da parte di questa istanza di giustizia la denunciata disparità di trattamento con altra posizione processuale, peraltro denunciata in palese violazione del principio di autosufficienza. 3. Non condivisibile appare anche il quarto motivo di censura. Il racconto della p.o., infatti, e le dichiarazioni del collaboratore di giustizia evidenziano la ricorrenza sia del metodo mafioso nell'esercizio dell' attività estorsiva, giacché esplicitamente riconosciuto che il "pizzo" veniva versato per ottenere la tutela mafiosa (espressione tipica di metodo mafioso) sia che le somme estorte agevolavano il clan malavitoso, egemone sul quel territorio e percettore del profitto rinveniente dal reato. 4. E' viceversa fondato, infine, il terzo motivo di impugnazione. Quanto all'aggravante di cui all'art. 628 c.p., comma 3, n. 3, richiamato dall'art. 629 c.p., comma 2, ha sottolineato il Tribunale l'inserimento familiare della ricorrente in un noto ed attivo clan mafioso (cugina del capo, moglie di un esponete apicale del gruppo) responsabile, per la vittima, dell'estorsione dedotta nel processo e della pratica del pizzo da anni ed anni. E' noto peraltro l'insegnamento di questa Corte, che ha avuto più volte occasione di affermare il principio secondo cui, per la ricorrenza dell'aggravante in parola, é necessario che sia accertata l'appartenenza dell'agente ad un'associazione di tipo mafioso, anche se non é poi richiesto che vi sia stata una sentenza di condanna o una formale imputazione in ordine al reato di cui all'art. 416 bis cod. pen. (Cass. Sez. 5, 08/04/2009, n. 26542; Cass., Sez. 6, 22/01/2008, n. 270409. Nel caso di specie una sentenza sul punto vi é stata ed é stata di contenuto assolutorio rispetto all'accusa di cui all'art. 416-bis c.p. mossa alla ricorrente, circostanza questa non considerata dal tribunale, ma decisiva ai fini della ipotizzabilità dell'aggravante in esame secondo insegnamento di legittimità. 5. L'ordinanza va, conclusivamente, annullata limitatamente a detta aggravante, con rinvio al Tribunale di Catania affinché provveda, in piena libertà di giudizio, ad un nuovo esame al riguardo, in esso considerando il dato assolutorio innanzi indicato.

P.Q.M.

la Corte annulla l'ordinanza impugnata limitatamente all'aggravante di cui all'art. 628 c.p., comma 3, n. 3 e rinvia per nuovo esame sul punto al tribunale di Catania. Rigetta nel resto il ricorso. DISPONE trasmettersi a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter. Così deciso in Roma, il 1 febbraio 2012. Depositato in Cancelleria il 17 febbraio 2012

Massima In tema di minaccia, la norma incriminatrice di cui all'art. 612 c.p. non richiede che il male minacciato debba essere notevole, dovendosi peraltro giungere alla conclusione opposta, considerato che la gravità della minaccia é oggetto di specifica previsione nel secondo comma che, infatti, le assegna il valore di circostanza aggravante (cassata la decisione dei giudici del merito che avevano escluso la configurabilità del reato perché l'espressione utilizzata "te la faccio pagare" non presentava i connotati della prospettazione di un male ingiusto e notevole). (Cass. pen., sez. V, 31 gennaio 2012, n. 18730).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. V, 31 gennaio 2012, n. 18730

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 16 settembre 2010 il Tribunale di Lanciano, così riformando la decisione assunta dal locale giudice di pace, ha assolto D.L.M. dall'imputazione di minaccia in danno di L.L. per insussistenza del fatto e dall'imputazione di ingiuria per non aver commesso il fatto. Ha ritenuto il giudice di appello che l'espressione "te la faccio pagare", utilizzata dalla D. L. nelle circostanze di cui all'imputazione, non presentasse i connotati della prospettazione di un male ingiusto e notevole, sia per la sua genericità, sia perché non proveniente da soggetto di riconosciuta pericolosità; quanto al biglietto recante il termine "bugiarda", rinvenuto dalla persona offesa sotto la porta della sua abitazione, ha ritenuto il giudicante che non ne fosse certa la provenienza dall'imputata, essendo mancato qualsiasi accertamento grafologico e non risultando che la L. fosse in possesso delle cognizioni tecniche per attribuire la paternità di un manoscritto. 2. Hanno proposto separati ricorsi per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello dell'Aquila e la parte civile, deducendo due motivi sostanzialmente coincidenti. 2.1. Col primo motivo ambedue i ricorrenti impugnano il giudizio negativo espresso dal Tribunale in ordine alla

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configurabilità del delitto di minaccia; osservano che la giurisprudenza di legittimità esclude a tal fine che sia necessaria una effettiva intimidazione della persona offesa, bastando l'attitudine ad intimorire, quando il male ingiusto può essere dedotto dalla situazione contingente. 2.2. Col secondo motivo censurano la ratio decidendi posta a base dell'assoluzione dall'imputazione di ingiuria; osservano che, se il giudice di merito riteneva indispensabile un accertamento di natura tecnica per l'individuazione dell'autore dello scritto, aveva il potere-dovere di provvedere egli stesso all'espletamento di una perizia, anziché limitarsi a constatarne la mancanza.

Considerato in diritto

1. Il primo motivo d'impugnazione, comune ai due ricorsi proposti dall'accusa pubblica e privata, é fondato e meritevole di accoglimento. 1.1. Il Tribunale ha negato valenza intimidatoria all'espressione "te la faccio pagare", sul presupposto che ad integrare il delitto di minaccia fosse indispensabile la prospettazione di un male non solo ingiusto, ma anche "notevole"; e ha ricollegato siffatto requisito alla personalità dell'agente, del quale dovrebbe esigersi la notoria pericolosità, negando conseguentemente la configurabilità del reato nella contraria ipotesi. 1.2. La tesi giuridica che struttura la suesposta linea argomentativa é contraria al diritto, per due concorrenti ragioni. In primo luogo la norma incriminatrice non richiede affatto che il male minacciato debba essere "notevole"; analizzando, anzi, il testo dell'art. 612 cod. pen. si perviene a conclusione opposta, considerando che la gravità della minaccia é oggetto di specifica previsione nel comma 2, che infatti le assegna il valore di circostanza aggravante; mentre nessuna particolare qualificazione del male minacciato é richiesta dal comma 1, nel quale la tenuità della pena edittale ben si attaglia alla repressione di fatti di modesta entità. In secondo luogo nulla autorizza a ritenere che per la penale perseguibilità del fatto sia richiesta la notoria pericolosità dell'autore della minaccia. Una tale interpretazione - che indurrebbe ad escludere assurdamente la punibilità di qualsiasi minaccia, se rivolta da soggetto sconosciuto alla persona offesa - non trova alcun sostegno nella lettera della norma, né nella ratio che la sostiene. E' appena il caso di aggiungere - a confutazione di un incidentale rilievo che é dato cogliere nella motivazione - che neppure il carattere generico del male minacciato esclude la punibilità, alla stregua di un principio già enunciato dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema (Sez. 5, n. 31693 del 07/06/2001, Tretter, Rv. 219851). 2. Fondato é anche il secondo motivo. 2.1. La prova della riconducibilità alla mano dell'imputata dello scritto offensivo, rinvenuto dalla L. sotto la porta della sua abitazione, é stata ravvisata dal giudice di primo grado nella deposizione della stessa L., la quale aveva affermato di avervi riconosciuto la grafia dell'imputata, ad essa nota. Il giudice di appello, per poter motivatamente pervenire a conclusione diversa, avrebbe dovuto argomentare il giudizio di inattendibilità della persona offesa, che nella sentenza neppure é esplicitamente formulato; certamente non poteva sorreggere la decisione in base alta mera constatazione della mancanza di un accertamento grafologico, atteso che l'eventuale incertezza avrebbe potuto essere da lui rimossa attraverso l'espletamento di una perizia, nell'esercizio del relativo potere-dovere riconosciutogli dall'ordinamento. 2.2. Alla luce di quanto suesposto, la pronuncia di assoluzione della D.L. dall'imputazione di ingiuria si rivela priva di logica motivazione. 3. La sentenza impugnata deve essere, conseguentemente, annullata in ogni sua parte. Il giudice di rinvio, che si designa nello stesso Tribunale di Lanciano (in persona di altro magistrato), sottoporrà la vicenda a rinnovata disamina nell'osservanza dei principi suesposti. 4. La pronuncia sulle spese di parte civile seguirà al definitivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Lanciano. Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2012. Depositato in Cancelleria il 16 maggio 2012

Massima La circostanza aggravante prevista dall'art. 7 D.L. n. 152 del 1991, conv. nella legge n. 203 del 1991, può trovare applicazione anche in relazione al delitto di trasferimento fraudolento di valori (art. 12 quinquies D.L. n. 306 del 1992, conv. in legge n. 356 del 1992), in quanto l'occultamento giuridico di un'attività imprenditoriale (nella specie un supermercato), attraverso la fittizia intestazione ad altri, implementa la forza del sodalizio di stampo mafioso, determinando un accrescimento della sua posizione sul territorio attraverso il controllo di un'attività economica. (Cass. pen., sez. VI, 25 gennaio 2012, n. 9185).

Sentenza per esteso Cass. pen., sez. VI, 25 gennaio 2012, n. 9185

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 15 luglio 2010, la Corte di Appello di Palermo ha sostanzialmente confermato, in punto di responsabilità, la sentenza emessa dal Gup di quel Tribunale in data 7 agosto 2008 in danno degli odierni ricorrenti, imputati di associazione a delinquere di stampo mafioso e di numerosi delitti di danneggiamento, estorsione, riciclaggio, trasferimento fraudolento di valori, aggravati L. n. 201 del 1991, ex art. 7 come dettagliatamente descritti per ciascuno degli imputati nei rispettivi capi di imputazione, ed esclusa nei confronti del Pe. la aggravante speciale, riconosciuto per alcuni imputati il vincolo della continuazione con pregresse condanne, ha proceduto per costoro alla nuova determinazione della pena; ha confermato, anche, le statuizioni di condanna in favore delle costituite parti civili. In breve, l'impianto probatorio

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riguardante la cosca ed di San Lorenzo, dal nome dell'omonima borgata di Palermo, soggetta al potere della famiglia mafiosa dei Lo Piccolo, era costituito dalle intercettazioni di dialoghi fra malavitosi svoltisi nei locali della società S.B.S di Gottuso Salvatore, che avevano consentito di ricostruire l'organigramma del gruppo, le attività criminali intraprese, le dinamiche interne alla famiglia ed a quelle viciniori; alle acquisizioni si affiancavano le propalazioni di recenti collaboratori di giustizia, da coordinare e confrontare con dati precedenti; inoltre le indagini erano implementate dai riscontri e da indagini, compendiate in precedenti procedimenti, e da sentenze irrevocabili. Per ciascuno dei condannati la corte ha dettagliatamente indicato le fonti probatorie ed esaminato in relazione ad essa le doglianze proposte. 2. Ricorrono 16 imputati: 2.1. B.C., condannato ad anni tre di reclusione ed Euro 900 di multa, per il delitto di estorsione commesso ai danni di Ca.Cr. (capo 27) sino al (OMISSIS) (in concorso con Go.Sa.) deduce che, in violazione dei criteri di cui all'art. 192 cpp.la sua condanna poggia su un elemento non certo, ossia sulla sua identificazione con un certo c. o c. più volte richiamato nei dialoghi intercettati nel magazzino del Go.. Egli pone l'accento sulle incongruenze della sentenza, che non ha risposto alle censure enunciate con il gravame, posto che i conversanti, in un dialogo intercettato non avevano affatto usato il solo nome proprio, ma lo avevano identificato anche con il cognome e con riferimento ad attività lecite, sicché non si poteva desumere da tali dati che egli fosse il c. e che si dedicasse ad estorsioni; inoltre contenuto delle conversazioni che riguardavano il C. era distoniche rispetto la sua persona, dato che non era riscontrato che egli frequentasse quei locali, dove invece lo si dava per presente; inoltre la Corte non aveva tenuto conto dei numerosi ed indicati elementi di segno contrario che rendevano quanto meno dubbia la ritenuta identificazione nell'esattore di nome c., appellativo che, nella sua versione dialettale, era peraltro riferibile anche ad un altro imputato. 2.2 Go.Sa. é stato condannato per il medesimo capo 27, concernente l'estorsione ai danni del commerciante Ca. C., in concorso con C.B.. L'impugnazione denuncia illogicità e contraddittorietà della motivazione, posto che era dimostrato che tra il ricorrente ed il Ca. intercorreva un rapporto amicale e che lo stesso Ca. aveva escluso di aver mai pagato il pizzo, per suo tramite alla cosca di San Lorenzo, di cui egli, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbe un collaboratore o intermediario. In subordine denuncia che la motivazione del diniego delle generiche é meramente apparente e che, comunque, la pena é eccessiva. 2.3. Br.Gi., 2.4 Br.An. e 2.5 P. D.. Le posizioni possono essere esaminate congiuntamente, poiché i ricorsi, proposti dai detti imputati, pur avendo ciascuno la propria autonomia, sono fra loro connessi, specie per quanto concerne alcuni elementi di fatto. I tre, rispettivamente fra loro fratelli e cognato, sono al centro di una vicenda che riguarda un negozio di generi alimentari, in realtà appartenente ad An., ma fittiziamente intestato prima a Ga.Fr., genero di un altro esponente di cosa nostra, L.S. e, poi, al loro cognato Pe.: i due ossia An. e Pe. sono stati giudicati responsabili del delitto di intestazione fittizia di beni L. n. 356 del 1992, ex art. 12 quinquies; Br.Gi. é stato dichiarato responsabile del delitto di cui all'art. 416 bis c.p. commesso sino al (OMISSIS). La Corte ha confermato la pronuncia di primo grado, rilevando che la ricostruzione dei fatti consentiva di affermare che Gi.Br., anche dopo aver scontato una condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso, aveva mantenuto la qualità di associato, dato che aveva risolto i contrasti insorti con altra fazione, relativi, appunto, alla intestazione fittizia dell'esercizio commerciale, utilizzando il metodo mafioso (a lui era infatti ascrivibile il cambio dei catenacci al supermercato avvenuto durante la ed gestione Ga.); per tale azione, il Gi. aveva ottenuto la autorizzazione del suo superiore referente e ciò per tutelare la posizione economica del fratello, An., reale intestatario del supermercato, cui non venivano corrisposti i dovuti ricavi. Alla estromissione del gestore non gradito era seguita la immissione sempre fittizia del Pe.. Br.Gi. deduce violazione di legge e difetto di motivazione in quanto difetterebbe la individuazione del ruolo da lui concretamente svolto nella associazione, non essendo sufficiente la mera condivisione psicologica del programma criminoso, la esistenza di un solo datato fatto criminoso, a fronte di una contestazione temporale riferita agli anni 2001-2007, la irrilevanza delle sue conoscenze di personaggi mafiosi e della autorizzazione preventiva alla intimidazione chiesta al capo Lo Piccolo, la inadeguata analisi delle dichiarazioni dei collaboratori, che attestavano l'ostracismo nei suoi confronti da parte degli associati, del tutto incompatibile con la partecipazione; con altro motivo si duole della eccessività della pena. Br.An. rileva, sotto il profilo della erronea valutazione della prova, che egli né oggettivamente era intestatario del bene, né soggettivamente aveva condiviso le azioni del fratello, né aveva il dolo specifico richiesto dalla norma contestata; con il secondo motivo nega la sussistenza della aggravante speciale in entrambi i profili contestati. Pe.Da., con unico motivo, denuncia violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla affermata responsabilità per il delitto contestatogli, in quanto non sarebbe stata data alcuna risposta alle sue deduzioni difensive, in specie in ordine all'elemento soggettivo del reato, avendo egli accettato la intestazione fittizia solo al fine di salvaguardare le pretese economiche del cognato, illegittimamente estromesso. 2.6 C.M. e 2.7 V.F.. I ricorrenti rispondono di riciclaggio aggravato per avere investito denaro di provenienza dalla famiglia mafiosa di Carini nella società GIELLEI Electro TRADING SRL in concorso con i detti esponenti della famiglia, giudicati separatamente. Il C., che ha ammesso di aver agito come prestanome di certo Cu.Vi., anch'esso imputato nel reato, e di aver effettuato, per il compenso di 250 Euro settimanali operazioni di trasferimento fondi, nega che sia stata individuata la sua consapevolezza della illiceità delle transazioni. Il V., che ha ammesso anch'egli di essere stato, in un primo tempo, un semplice dipendente della soc. Giellei e, poi, di aver assunto, quale prestanome, la posizione di titolare di un'altra società, nata dalla esigenza di scongiurare la chiusura dell'azienda, minacciata da D.M., impiegato come semplice magazziniere, ma vero titolare della stessa. Deduce che un'unica conversazione telefonica con la moglie, nel corso della quale si dichiarava disponibile nei confronti dei titolari reali della GIELLEI Electro, pur di avere lo stipendio,é stata illogicamente sopravalutata; gli sarebbe stata attribuita una posizione strategica, mentre egli era un semplice dipendente, sicché non poteva riconoscersi né il riciclaggio né la aggravante speciale, esclusa peraltro per il C.. 2.8 Co.Ro., é stato condannato per il delitto associativo, in quanto associato alla famiglia di Partanna; gli elementi a suo

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carico sono costituti dal ritrovamento di un "pizzino"- ossia un foglietto, in possesso del F. al momento dell'arresto, dove veniva indicato come un soggetto abilitato alla riscossione del pizzo; con la impugnazione deduce violazione di legge e mancanza di motivazione; vengono messe in evidenza le falle del percorso argomentativo adottato dalla Corte, che non avrebbe tenuto conto delle deduzioni difensive depositate, relative: 1. alla irrilevanza penale del comportamento tenuto dall'imputato nel corso delle conversazioni intercettate, 2. alla mancata disamina della attendibilità del Gu., soggetto aduso a millantare ed a vantarsi di conoscenze altisonanti; 3. alla erroneità dal profilo logico della interpretazione dei dialoghi 4. alla irrilevanza probatoria delle dichiarazioni dei collaboratori e ciò in relazione alle tre vicende riportate in sentenza (ossia la conoscenza di contrasti interni a cosa nostra, la piena informazione sulle vicende del supermercato appartenente ad Br.An., il suo interessamento per l'estorsione in danno dell'imprenditore Ve.) che attesterebbero, secondo l'impianto accusatorio, la intraneità al sodalizio. Invece, il Co. sarebbe solo un soggetto informato delle vicende della borgata in cui abita, al pari di tutti coloro che vi risiedono e niente affatto in possesso di informazioni riservate, sicché nessun elemento militerebbe per la configurabilità della condotta associativa. 2.9. Pi.An.. Il Pi. é stato dichiarato responsabile del delitto di associazione a delinquere - capo 1 - quale appartenente alla famiglia mafiosa di Carini, per la quale svolgeva principalmente il compito di imporre agli imprenditori il pagamento di tangenti, nonché di due estorsioni rispettivamente in danno dell'impresa Priano (capo 12) e dell'impresa Scalici (capo 10). Propone due distinti ricorsi, che possono essere così sintetizzati. Contesta, in relazione al capo 1, che il compendio indiziario costituto dalla intercettazione in cui uno zio, Pi.Vi., anch'esso imputato nel processo odierno, lo definisce esperto con gli imprenditori e la sua semplice partecipazione a due riunioni esclusivamente conviviali con soggetti appartenenti ad opposte fazioni, asseritamente mafiose, é stato sopravvalutato, senza individuare un suo concreto apporto partecipativo, e sopratutto senza tener conto delle dichiarazioni liberatorie del collaboratore Pu., così ignorando le specifiche censure poste con l'appello. Analoghe violazioni di legge ed illogicità della motivazione vengono sottolineate in merito alla estorsione in danno dell'imprenditore S.. Infatti, costui non aveva affatto subito la imposizione di una fornitura, da eseguirsi a cura della EdiliPomice, società facente capo ai fratelli c., appoggiati a loro volta-secondo la impostazione accusatoria - da D.B.F., soggetto di spicco della famiglia mafiosa di San Lorenzo Invece, come risultava dai dialoghi intercettati, l'imprenditore aveva egli stesso determinato il prezzo delle forniture, peraltro modestissime e detto comportamento spontaneo eliderebbe, in concreto, gli elementi della violenza e dell'ingiusto profitto, necessari per configurare il reato. Sarebbe, poi, illogica la ricostruzione di un colloquio tra i due fratelli c., che invocherebbero l'intervento sullo S. di un certo N. da chiamare tramite T.; nell'uno né l'altro sarebbero personaggi mafiosi, ma solo il padre dello S. il primo, vero titolare della impresa, che deve essere contattato dal secondo, comune ex compagno di scuota. Occorre al riguardo considerare che il N. che si sarebbe recato in cantiere per definire la questione non era certo il ricorrente, posto che la descrizione fisica data dal c. presente all'incontro, non era coincidente con le caratteristiche somatiche del Pi.. Per quanto riguarda l'altro reato, l'estorto, ossia il Pr., non aveva subito alcuna intimidazione, come si desumeva dai dialoghi, in cui egli si pone alla pari con i suoi interlocutori; inoltre difetterebbe l'ingiusto profitto, trattandosi di lavori regolarmente concessi in sub appalto, ad una ditta, quella di ca.gi. di cui il Pi. non era socio. In pratica, si sostiene che, mancando la prova; 1. dell'interessamento diretto del Pi., 2. della sua sicura identificazione nell' An. che appare nei dialoghi, 3. della irregolarità dei contratti stipulati con gli estorto, anche di quello di subentro del Pi. al ca., 4. della violenza esercitata sul Pr., non é possibile configurare alcuna estorsione. Il secondo ricorso, presentato da altro difensore, riprende analoghi argomenti sia per le estorsioni, per le quali, inoltre, non sarebbe configurabile la aggravante speciale, sia per il reato associativo, per il quale richiama i principali arresti in tema di valutazione delle prove: in detto ricorso, infine, si insiste per la rivalutazione in melius del trattamento sanzionatorio, non adeguatamente motivato. 2.10. D.B.F. é coimputato nella vicenda dell'estorsione ai danni dello S., in cui avrebbe svolto il ruolo di intermediario fra la famiglia territoriale di Carini ed i Cusimano, intervenendo a loro favore. Con la impugnazione, rileva che la condanna si basa su mere petizioni di principio, senza neanche avere accertato quale fosse la sua posizione in seno alla vicenda e senza tener conto che il L.P. era stato assolto dalla imputazione de qua, per cui verrebbe meno il suo ruolo di tramite tra il capo locale ei gli imprenditori c.. Inoltre non si sarebbe tenuto conto del valore liberatorio del dialogo registrato tra coimputati che acclarava la estraneità del D.B.. 2.11 D.N.P. é stato condannato per il delitto di tentata estorsione ai danni dell'imprenditore Bi., poiché, secondo la sentenza, si sarebbe intromesso per consentire all'imprenditore, che aveva avviato un progetto di costruzione nel territorio di pertinenza della famiglia di Carini, la ed messa a posto a favore dei Pi.. L'impugnazione denuncia, sotto il profilo della violazione di legge e del difetto di motivazione, che la condotta tenuta non ha superato la soglia dell'ideazione, e pertanto difetta il presupposto della punibilità. Infatti, manca la prova che grazie al suo intervento, il Pi. abbia accettato la controfferta sulla tangente da versare; inoltre gli accordi in questione erano soggetti a condizioni legate alla effettiva realizzazione del progetto, che in realtà non si erano avverate; il D.N. non aveva comunque posto in essere una condotta causalmente rilevante, poiché egli era intervenuto dopo che i Pi. della famiglia di Carini avevano richiesto la tangente; difetta, ancora, l'elemento soggettivo, in quanto il suo intento era quello di attenuare l'onere del Bi. che proprio per questo si era a lui rivolto. 2.12. L.D.G. é stato ritenuto responsabile del delitto di associazione mafiosa, in quanto affiliato alla famiglia di Carini e di distinte ipotesi di danneggiamento ai danni della ditta RCS Officine, e della Ditta di Gelardi Vincenzo, e di tentata estorsione ai danni di detto imprenditore, di detenzione e porto d'armi, di danneggiamento aggravato di un cassonetto per la raccolta dei rifiuti, appartenente al Comune di Carini, e di incendio di una zona di macchia mediterranea. L'impugnazione denuncia, sotto il profilo della violazione di legge e del difetto di motivazione che: a) la sola partecipazione a due sporadici episodi di danneggiamento, avvenuti tra il (OMISSIS), per i quali, come si evince dai dialoghi intercettati, il L.D. ha prestato solo occasionale collaborazione, senza alcuna conoscenza dei luoghi e delle persone danneggiate, non integrerebbe la condotta

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partecipativa stabile e consapevole richiesta per la configurabilità del delitto associativo; tantomeno, due soli fatti del (OMISSIS) potrebbero giustificare l'adesione alla consorteria sino al 2007; b) non é configurabile il metodo mafioso per i singoli danneggiamenti; c) la tentata estorsione é stata affermata in considerazione di una espressione pronunciata dal correo Pu., senza alcuna adeguata analisi dei parametri indicati dal legislatore per configurare il delitto; d) non vi é prova né motivazione sul punto che l'incendio abbia avuto caratteristiche tali da integrare il requisito della offensività penalmente rilevante; e) i danneggiamenti di cui ai capi 3, 5 e 7 della rubrica difettano della condizione di procedibilità. 2.13. P.G., condannato per il delitto associativo, si duole che la qualità di associato sia stata desunta da comportamenti non univoci, quali la partecipazione ad un evento conviviale con altri uomini d'onore, che seppure riuniti per dirimere una questione che io vedeva implicato, non importava alcuna assunzione di ruolo all'interno della società: egli si era rivolto al capo mafia per un mero aiuto, con un comportamento non commendevole, ma non illecito. Del pari, la registrazione di un dialogo in cui egli discute di vicende avvenute all'interno della associazione non é significativa di intraneità, in quanto avente ad oggetto notizie dì nessun rilievo. 2.14. G.A. risponde del delitto di associazione di tipo mafioso per aver fatto parte del gruppo Gallina, contrapposto ai Pipitone nel controllo del territorio di Carini. Con l'impugnazione, si duole che il giudice distrettuale, in violazione di legge e con motivazione apparente, abbia valorizzato una chiamata in correità, del collaboratore di giustizia Pu., priva di riscontri, avvallandola con congetture ed indizi privi di ogni consistenza, solo in base al vincolo di parentela che lo lega ad altri mafiosi. Viceversa, la chiamata del Pu., contraddetta dagli altri imputati di reato connesso p. e F. era aspecifica; le conversazioni intercettate lambivano la sua figura e contenevano banali commenti; le riunioni con altri esponenti erano destinate a risolvere conflitti con altri soggetti ed alle stesse egli non era intervenuto; il giudice di merito avrebbe, infine, sopravvalutato la vicenda di riciclaggio compiuta in tesi da certo Al., senza tener conto della sua intervenuta assoluzione. 2.15 Pi.An.An. dichiarato responsabile per il delitto associativo, ha eccepito la non utilizzabilità delle intercettazioni disposte per la ricerca del latitante sotto il profilo che le stesse sono sfornite di attitudine probatoria e di conseguenza non possono valere né nel procedimento in cui sono state disposte ne nell'ambito di altri procedimenti. Il ricorrente ribadisce di non condividere il contrario orientamento giurisprudenziale, cui la corte si é richiamata, e sviluppa osservazioni sulla portata dell'art. 295 c.p.p. comma 3 e sulla rilevata omissione del richiamo dell'art. 271 c.p.p. in detto comma, opponendo che la mancanza é logicamente spiegata dall'essere le captazioni di per sé prive di valore probatorio. Ciò importa che tutto il materiale raccolto a cascata é viziato ed inutilizzabile. In ogni caso, le intercettazioni non potevano trasmigrare ed avere valore nel procedimento del Pi., che era stato archiviato, se non previa anteriore riapertura delle indagini nei di lui confronti, cosa nella specie non avvenuta. Le intercettazioni avvenute tra la archiviazione e la riapertura, pertanto, andrebbero elise dal compendio, in quanto suscettibili di pregiudicare la posizione di un soggetto formalmente non sottoposto a procedimento penale. Nel merito, dopo una premessa di metodo ( il ricorrente contesta che la corte non ha mantenuto distinto il contesto di ricerca della prova da quello di giustificazione), il ricorrente si duole che sia stata data una lettura sociologica della sua affiliazione, senza adeguata giustificazione e con evidente travisamento delle risultanze probatorie, che vengono, dettagliatamente riprese ed analizzate, mettendo in luce le aporie del ragionamento giustificativo adottato dal giudice di merito. Il ricorso presentato dal secondo difensore é sovrapponibile a quello testé esposto. Afferma in particolare l'identità del procedimento archiviato con quello riaperto e che la pronuncia impugnata manca di adeguata motivazione. 2.16 Pu.Ga., collaboratore di giustizia, lamenta che gli sia stata riconosciuta la attenuante speciale di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 in misura equivalente alle contestate aggravanti, in violazione di legge, posto che il legislatore ha esplicitamente escluso che il detto beneficio sia soggetto al giudizio di bilanciamento. Invoca sul punto la giurisprudenza di questa corte, mettendo in evidenza la necessità di incentivare mediante il regime premiale lo strumento della collaborazione.

Considerato in diritto

1. Gli annullamenti: La sentenza impugnata é da annullare in relazione nei confronti di B.C., D.N.P., G.A. e P. G., per quest'ultimo limitatamente alla misura della pena, per le ragioni che saranno di seguito enunciare e si impone pertanto il rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo per nuovo giudizio. 1.1. B.C.. Il ricorso é incentrato sulla identificazione della sua persona nel c. o c., cui fanno riferimento nelle intercettazioni peraltro svoltesi tra terze persone e cui egli non ha partecipato. La sentenza sul punto, che é, evidentemente, lo snodo fondamentale, per interpretare in senso accusatorio, gli elementi indiziari raccolti a carico del B. e conferire loro dignità probatoria, non risponde alle obbiezioni, posto che non tiene conto e non spiega, conseguentemente, come sia al là di ogni dubbio, sicura che detto dispregiativo del prenome si riferisca esclusivamente al B.. Vale mettere in luce che con lo stesso appellativo viene indicato anche un altro appartenente alla cosca, certo M.C., dedito anch'esso ad attività estorsiva, e la corte esclude che tale omonimia renda dubbia la identificazione in base alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia F., che aveva negato che a tale ultimo soggetto si potesse riferire il nome nella suddetta forma distorta. Tale ragionamento é però fallace, perché se esclude il M., non per questo include il B., tanto più che proprio il detto F., per come ammesso dalla Corte in sentenza, riferisce elementi circostanziali specifici sulla persona dell'imputato risultati erronei. Infatti, al B. viene attribuita una attività lavorativa, mai svolta, e tale sbaglio non é asintomatico, ma al contrario, fa venir meno un valido riscontro esterno individualizzante, in presenza di un mero soprannome, posseduto da più soggetti e come tale di dubbia valenza. Né tale incertezza é superata dal restante materiale probatorio esaminato; la indicazione fornita dal Nu., sul medesimo nome, é invero illogicamente contraddetta dal mancato riconoscimento fotografico del B. e la sentenza non spiega le ragioni della irrilevanza di tale discrasia, che pure suscita dubbi sulla fonte e sul potenziale riscontro al F.; inoltre, la Corte valorizza due conversazioni in cui gli aderenti alla cosca di San Lorenzo indicano come loro conoscente e presumibilmente quale

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appartenente alla consorteria "Carmelo Biondo", ma l'ambito dei discorsi nel corso dei quali viene esplicitamente citato non contiene riferimenti specifici o individualizzanti rispetto alla vicenda di cui al capo 27 dell'epigrafe e pertanto non si risolve in conferma dell'esplicita indicazione di c., quale soggetto collettore dell'estorsione in danno di Ca.. La vicenda ricostruita nel dialogo tra i due coimputati Gu. e Ma., poggia su una asserita coincidenza tra l'arresto del c., di cui parlano i due interlocutori, ed una carcerazione del B., ma i tempi di restrizione di quest'ultimo a ben vedere non risolvono in alcun modo il nodo della identificazione, giacché resta pur sempre una deduzione che egli sia il c. che si é intromesso nella iniziale messa a posto del Ca., mentre avrebbe valenza centrale come riscontro se anche tutti gli altri argomenti portassero al Biondo, quale unico utilizzatore di detto prenome. Le indicate aporie, pertanto, impongono una nuova valutazione degli elementi in atti, da rimettere al giudice di merito, che potrà valutare la catena inferenziale alla luce dei rilievi formulati ed acclarare la riferibilità del soprannome all'imputato e la consequenziale sua intromissione nel fatto estorsivo per cui é processo. 1.2 D.N.P.. Il ricorso é fondato in punto di accertamento di configurazione della partecipazione dell'imputato. Al di là della questione circa la configurabilità del tentativo punibile, che appare infondata ictu oculi, dato che non é contestato, se non con argomentazioni di fatto, non verificabili in questa sede, che la famiglia di Carini esercitò pressioni sul costruttore per portarlo a pagare una tangente sulle ville in corso di costruzione, al punto che ne venne pure determinato l'importo non corrisposto per sopravvenuti impedimenti, le doglianze pongono in luce sostanzialmente un vizio di fondo della sentenza. Può condividersi la premessa maggiore di responsabilità, ma non ne risultano tratte le dovute implicazioni probatorie. Infatti, la sentenza, pur dando atto che il D.N., non appena uscito dal carcere nel 2003, quando la ed vertenza con il Bi. era già stata aperta e le trattative si erano arenate sulla quantificazione della tangente, intervenne sui referenti della famiglia di Carini e ottenne una riduzione in favore del costruttore, ha ritenuto che non avesse agito in aiuto dell'estorto, ma solo per tornaconto personale. Ora é indubbio che la determinazione del quantum in nome dell'offeso, implica obiettivo contributo alla causazione dell'evento. Ma perché si ravvisi in tal caso il concorso ai sensi dell'art. 110 c.p., e cioè si ritenga che l'azione descritta sia frutto di volontaria adesione alla condotta tipica altrui ( cfr. S.U. Sormani, 22.11.00 e di recente sent. 5 n. 30080/2009), bisogna che il soggetto passivo non abbia chiesto ausilio all'ipotizzato concorrente nel reato, o che gli abbia dato un mandato di cui il mandatario abbia abusato, o almeno ne sia stato dissuaso dal sottrarsi alla minaccia. Di prova certa ed univoca in un senso o nell'altro, la sentenza non da conto evidente. Difatti la trae per un verso dalle affermazioni dello stesso D.N., che in una conversazione registrata si é offerto come garante del Bi., in una posizione probatoriamente neutra, in quanto compatibile con entrambe le posizione o di vessatore o di amico dell'imprenditore, e da una discussione animata del ricorrente con altro esponente mafioso, in cui ribadiva che il Bi. doveva pagare, e non si s'intende se si tratti d'impegno o di un espediente dialettico; entrambe le conversazioni lasciano aperto il tema della effettiva consapevolezza o meno del Bi. e quindi dall'apporto cosciente e volontario del D.N.; sul punto la motivazione svolge una analisi dei contenuti, che non si sofferma affatto sulla evidenziata amicizia tra i due uomini, pure risultante dalla dichiarazione di Pu.Ga., richiamata nell'atto di appello e nelle premesse della decisione, e del tutto trascurata ai fini che qui ci occupano. Né può considerarsi adeguata la motivazione della responsabilità desunta dall'atteggiamento del D. N. che aveva invitato l'imprenditore a pagare, perché il punto centrale é se l'intervento sia stato provocato o meno dallo stesso Bi., e non se costui avesse o meno cercato di sottrarsi alla estorsione. Su tale aspetto é, dunque, necessaria compiuta verifica e conseguente adeguata risposta, per risolvere il nodo, sollecitato anche in appello e ribadito in questa sede, se la condotta del D. N. fosse di complicità o di connivenza. La sentenza é da annullare per tale profilo e gli atti sono da rimettere per nuovo giudizio di merito. 1.3. G.A.. In tema di associazione di tipo mafioso, la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d'affari, ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti, non costituiscono elementi di per sé sintomatici dell'appartenenza all'associazione, ma possono essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell'art. 192 c.p.p., comma 3, quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante. (Sez. 6, Sentenza n. 24469 del 05/05/2009). Tale principio non ha trovato esatta e condivisibile applicazione nella sentenza in esame. Infatti, il giudice di merito muove dalla premessa che il ricorrente sia inserito nel clan Gallina, composto da persone con cui ha rapporti di parentela, sia perché tale lo ha definito il Pu., sia perché implicato in vicende che lo avevano visto contrapposto ad un altro esponente, certo P., in quota al clan Di Maggio, e che avevano determinato una riunione tra vertici per comporre la questione e si dilunga nell'analisi delle conversazioni che riguardano la organizzazione e lo svolgimento di dette riunioni, per le quali si mobilitano i capi famiglia e gli interessati. Tutti i detti elementi non reggono alla verifica logica e non integrano una serie indiziaria sicura. Infatti, il giudicante non chiarisce se l'intervento conciliativo sia stato sollecitato dall'imputato, la cui parentela con l'omonimo clan, inizialmente sottolineata, nel successivo svolgimento della motivazione viene definita lontana rispetto al capo clan Totò Gallina. Viceversa, la vicenda appare interessare non tanto il G., odierno imputato, che come é pacifico non partecipa al summit, quanto la parte avversa, di cui sono riportate le conversazioni più significative e dalla cui lettura emerge, e significativamente, che era stato il suo antagonista, ossia il P., a chiedere l'intervento dei capi mafia e che questi si erano mossi, spinti più che dalla importanza in sé dell'episodio, dalla preesistenza di contrapposizioni che riguardavano la leadership. A fronte,dunque di una lettura dell'episodio che suscita perplessità sulla consapevolezza ed adesione del G. alla regola di sottomissione ed accettazione delle decisioni assunte nel contesto associativo, il giudice di merito non ha individuato specifici elementi individualizzanti; tale non può essere la chiamata in reità del collaboratore Pu.Ga., che si é limitato ad una indicazione della sua qualità di associato, di per sé generica e non confortata né da analoghe dichiarazioni rese dagli altri collaboratori, Nu. e F., né dalla indicazioni di condotte tenute dal G., sintomatiche della sua adesione. Né é

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dirimente in senso accusatorio l'episodio ed Al., ossia la vicenda di un riciclaggio, in cui il G. avrebbe avuto un ruolo, posto che egli é stato dichiarato estraneo al fattole proprio per la impossibilità di accertare se egli avesse agito a tutela di propri interessi leciti o se avesse aderito alla iniziativa illegale degli altri uomini di onore; é apodittica la imputazione del suo comportamento alla condotta di partecipazione, per l'asserito rispetto della gerarchia mafiosa, in quanto non motivata in relazione ad un dato di fatto specifico ed anzi contraddetta dalla notazione che egli con ogni probabilità nella vicenda aveva inteso tutelare interessi personali. (pag. 447 della sentenza). Le rilevate pecche della motivazione impongono il rinvio al giudice di merito, che potrà in forza dei dati di fatto raccolti, rivalutare la posizione ed colmare i vuoti della serie indiziaria di: 1.4. Pu.Ga.. Il motivo posto a sostegno del ricorso é fondato. La circostanza attenuante in esame, come affermato dalla giurisprudenza delle sezioni unite di questa Corte, ha la propria ragione nella volontà del legislatore di assicurare un premio particolarmente significativo per la dissociazione cd. attuosa o collaborativa. E' stato perciò affermato con la nota sentenza n. 10713 del 2010 che l'attenuante ad effetto speciale della cosiddetta "dissociazione attuosa", prevista dal D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8 convertito in L. 12 luglio 1991, n. 203 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attività amministrativa), non é soggetta al giudizio di bilanciamento tra circostanze. Tanto importa che per il calcolo della pena, in presenza di attenuanti comune, soggette al giudizio previsto dall'art. 69 c.p. e di quella speciale, sia seguita una sequenza di operazioni invero, di coniugare premialità, personalizzazione del trattamento sanzionatorio e proporzionalità del medesimo rispetto alla misura di lesività effettiva del fatto costitutivo del reato; secondo le indicazioni enunciate nella citata pronuncia, che questa corte condivide, é necessario che venga determinata la pena effettuando subito il giudizio di comparazione tra le attenuanti comuni e le aggravanti contestate e sul risultato che ne consegue, sia poi applicata l'attenuante speciale. A detto criterio non si sono attenuti i giudici di merito, nonostante le sollecitazioni avanzate in tal senso dal ricorrente e pertanto, limitatamente a tale punto, la pronuncia é da annullare con rinvio al giudice di appello, in diversa composizione, che adeguandosi a quanto sopra esposto provvedere al computo della pena. 2. Sono da dichiarare inammissibili i ricorsi presentati dai sotto elencati imputati: 2.1. Go.Sa.. Il ricorrente muove dalla analisi di una conversazione, nel corso della quale l'estorto, ossia il commerciante Ca., convocato dal D.N. nel magazzino-deposito di esso Gu., avrebbe negato di aver fatto dei pagamenti per la messa a posto dei negozi, per inferirne che é esatta la sua tesi di aver agito quale amico e non quale intermediario. Tale versione dei fatti del tutto alternativa a quella esposta in motivazione dai giudici di merito, non può trovare ingresso in questa sede di legittimità, dove non é consentita alcuna rivisitazione del fatto, ma solo il controllo sul ragionamento seguito nella sentenza impugnata, al fine di verificare che la stessa risponda ai canoni di completezza e logicità intrinseca. Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione é riservata in via esclusiva al Giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv. 207944, Dessimone). Ciò posto, nessun vizio é riscontrabile nella sentenza impugnata che é pervenuta alla conferma della statuizione di primo grado, attraverso la considerazione delle varie prove acquisite, che avevano messo in evidenza come il Gu. si fosse effettivamente attivato per far sì che il commerciante pagasse per i suoi punti vendita e ne avesse raccolto il denaro, consegnato nel suo deposito ad un esponente della cosca di San Lorenzo. Questo fatto, emerso univocamente dalle confidenze fatte dal Gu. ad altro sodale, oggetto di colloquio registrato, sono state, poi, logicamente coordinate con la attività, susseguente, parimenti monitorata, dalla quale emergeva che l'imputato, a fronte delle sollecitazione del D. N., che pretendeva pari pagamento dal Ca. per un negozio sito nella zona di pertinenza del suo clan, si era mosso sia per convocare l'estorto sia per mitigare le pretese del D.N.; inoltre, in diversi colloqui, egli aveva sempre esplicitamente ammesso che il Ca. aveva pagato quanto preteso e si era doluto della inopportunità della iniziativa del D.N., che metteva in discussione una prassi consolidata. Ancora, la pronuncia ha, logicamente, spiegato il comportamento tenuto dal Ca., la cui negazione dei versamenti era da mettere in relazione a ragioni di opportunismo, tese ad ottenere una riduzione delle pretese. Ora, a fronte di tale solido impianto probatorio, é evidente che il dinamismo mostrato dal Gu. nella vicenda, emerso da un'ampia serie di elementi, é stato adeguatamente e logicamente valutato e che le alcune frasi di una conversazione, estrapolate da un più ampio contesto, non possono ribaltare detto giudizio, immune da vizi. Parimenti inammissibili sono le doglianze in ordine al riconoscimento delle attenuanti generiche ed alla determinazione della pena, perché implicano una valutazione di merito che é preclusa al giudice di legittimità. Motivando sul punto, la Corte ha fatto riferimento sia alla assenza di elementi di meritevolezza, sia al ruolo di protagonista nella esecuzione della estorsione, in posizione centrale, che non giustificava alcuna riduzione di pena. Questa motivazione é incensurabile in quanto non manifesta alcuna illogicità ed esprime con riferimento ai parametri di legge le ragioni della scelta discrezionale operata. 2.2 Br.Gi.: Il Br., che in concreto non contesta i fatti come descritti nella impugnata sentenza ossia il suo intervento violento per dirimere la contesa sulla proprietà di un supermercato, intestato ad un prestanome, ma in realtà appartenente al fratello, propone una lettura riduttiva delle emergenze probatorie, che escluderebbero la sua partecipazione alla associazione mafiosa, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo. Il ricorso, oltre che generico, é manifestamente infondato. E' generico poiché si limita ad una mera elencazione di massime giurisprudenziali, senza confrontarsi dialetticamente con la struttura argomentativa adottata dal giudice; inoltre, investe questa corte di una rilettura dei dati acquisiti, che presuppone

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una valutazione di merito degli stessi del tutto inibita in questa sede. Vale ribadire che non rispetta il requisito previsto dall'art. 581 c.p.p. il richiamo dei principi di diritto espressi dalla giurisprudenza senza un adeguato richiamo alla concreta applicazione fattane dal giudice di merito, essendo evidente che le mera citazione di massime, elaborate con riferimento ad un indeterminato numero di ipotesi, al fine di delineare i paradigmi interpretativi delle norme, non ha di per sé alcuna correlazione con i capi o punti della pronuncia che si intende contestare. Quanto, poi, alla lagnanza circa la valutazione dei fatti e delle prove, il Br. non prospetta errori di logica o di travisamento, ma fornisce una diversa lettura delle risultanze, poiché esclude che la sua reazione all'impossessamento di fatto del negozio in danno del fratello, costituita da atti violenti, assentiti dal capo mafia della zona, integri la condotta di partecipazione ed insiste nel delineare una sua emarginazione, incompatibile con la affectio societatis. Si tratta, all'evidenza, di una mera rielaborazione della motivazione del giudice di appello, che, contrariamente, al suo assunto ha, invece, svolto un ragionamento adeguato al fatto e lo univocamente ricondotto al reato, senza errori di diritto e senza manifesti salti logico. Il giudice di merito ha infatti logicamente che l'azione violenta era connessa al clima creatosi con gli antagonisti del Br., ha verificato come le condotte di costoro fossero state sottoposte al vaglio dei referenti territoriali, ne ha di conseguenza inferito che il Br., pelaltro già condannato per il delitto associativo, avesse mantenuto una posizione associativa, anche dopo la carcerazione ed avesse esercitato, comunque, una condotta di sopraffazione e controllo sul territorio; il fatto, poi, che lo stesso era in contatto con i vertici della famiglia mafiosa é stato considerato più che sufficiente per la dimostrazione della sua intraneità e la esclusione della sua espulsione o emarginazione. Tali conclusioni, che non manifestano alcuno dei vizi denunciati di insufficienza e di illogicità, esulano, dunque, dal controllo di questa corte. Parimenti, non ha fondamento alcuno la doglianza, relativa alla quantificazione della pena; la commisurazione dell'aumento di pena per la ritenuta continuazione con altra precedente condanna é, invero, adeguatamente motivata, in termini generali, con riferimento alle modalità dei fatti ed alla pervicacia della condotta criminale, violenta e posta in essere subito dopo la uscita dal carcere; quanto al profilo di irragionevolezza per essere il disposto aumento superiore alla quantificazione della pena-base, é da rilevare che quest'ultima é superiore ai quattro anni che sono stati riconosciuti ex art. 81 c.p. e che il Br. equivoca sulla pena base, non tenendo conto che in entrambi i giudizi é stata applicata la diminuente del rito prescelto, sicché solo apparentemente la seconda pena (6 anni nell'intero) supera la prima (anni 4 e mesi 6 già - diminuita). 2.3 Br.An.. L'imputato invoca il vizio di travisamento della prova ex art. 606 c.p.p., lett. e in quanto sostiene che egli non fosse né il proprietario occulto del supermercato, in realtà di altro soggetto, certo Sp., né che fosse mosso dalla necessità di intestare i propri beni al cognato per sottrarsi a possibili provvedimenti ablativi. Ora, detto ricorso non deduce il travisamento di una prova decisiva, ovvero l'omessa valutazione di circostanze risolutive, risultanti da atti specificamente indicati, che, peraltro, non indica con specificità, sì da imporre di verificare l'eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare l'esistenza della decisiva difformità; i motivi sollecitano una diversa ricostruzione del fatto, su elementi privi di significato indiscutibilmente univoco, quali sono il contenuto dei dialoghi intercettati , le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la esistenza di procedimenti penali in corso, che la corte ha sottoposto ad una valutazione ben calibrata ed esposto con motivazione esauriente e non contraddittoria o manifestamente illogica. Il vizio invocato, introdotto dalia novella n. 46 del 2006, opera, quando si é di fronte a prove inesistenti o su elementi il cui risultato probatorio é inequivocabilmente e incontestabilmente diverso da quello ritenuto dal giudice di merito. Sono i casi classici della "prova inventata" (il giudice utilizza come prova decisiva le dichiarazioni di un teste che non é mai stato esaminato) o della prova che il giudice interpreta erroneamente e al di fuori di dette ipotesi non é consentito al giudice di legittimità interpretare l'atto diversamente da quanto compiuto dal giudice di merito, ma soltanto di verificare se il testo dell'atto, di per sé soltanto, sia idoneo ad inficiare il ragionamento del giudice. Nel caso di specie, invero, vale osservare che la corte non solo ha rintracciato nelle conversazioni i passi significativi per ricondurre il bene alla sua sfera patrimoniale, ma ha logicamente desunto dall'intervento del fratello un ulteriore elemento di appartenenza, essendo logico, secondo il criterio del cui prodest, che la salvaguardia dell'attività commerciale rispondesse ad una sua esigenza; inoltre, il legame parentale con il Pedalino componeva il quadro indiziario a suo carico, secondo il paradigma delineato dalla norma violata, poiché ne indicava la specifica volontà di sottrarre i beni ad eventuali espropri affidandoli a persona di fiducia. Né ha alcun fondamento il secondo motivo di lagnanza, concernente la applicabilità della aggravante speciale di cui al D.L. n. 152 del 1992, art. 7 posto che al di là dei profili di merito proposti, concernenti la interpretazione delle dichiarazioni del F. e dei dialoghi intercettati, come tali insindacabili, nella fattispecie ricorre ed é stato ben individuato nel contesto delle argomentazioni svolte, il dato tipico della condotta; infatti, il nascondimento del bene implementava la associazione, determinando un accrescimento della sua posizione sul territorio, attraverso il controllo di una attività economica, ossia proprio quel risultato di agevolazione della intera associazione che la norma reprime. 2.4 Pe.Da.. Il ricorso é connotato da estrema schematicità che non consente di individuare le doglianze proposte. Innanzi tutto, non sono richiamate le deduzioni difensive cui la Corte non avrebbe dato risposta, né sono indicati se non per temi generali e generici i punti non esaurientemente decisi. E' evidente che dolersi superficialmente della mancanza di motivazione del dolo e accreditare la diversa tesi della fittizia intestazione per salvaguardare il cognato illegittimamente estromesso dalla gestione del supermercato, non si confronta con gli espliciti passaggi della motivazione della Corte, cui si é fatto riferimento, e relativi all'impossessamento violento dell'attività, al cambio della gestione, alla collocazione del parente, in sostituzione dell'effettivo titolare, alla necessità di costui di non apparire a causa dei suoi procedimenti penali in corso. Inoltre, propone una versione alternativa, come già puntualizzato, non esaminabile in questa sede. Il ricorso é pertanto da dichiarare inammissibile. 2.5 C.M. e 2.6 V.F..

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Le posizioni, che riguardano la medesima imputazione di cui al capo 17 - riciclaggio - possono essere esaminate congiuntamente. Entrambe sono connotate da censure che non superano la soglia di ammissibilità innanzi a questo giudice di legittimità. Il Cardinale ha, infatti, dedotto la erronea applicazione della legge penale, non risultando affatto l'elemento soggettivo a suo carico, sotto il profilo della conoscenza della provenienza illecita dei capitali. Tale posizione é manifestamente infondata, posto che la Corte, in risposta alla lagnanza relativa all'elemento soggettivo, ha messo in evidenza la serie di elementi da cui desumere la piena consapevolezza da parte del C. della provenienza illecita dei capitali, sia per la conoscenza che egli aveva del Cu., soggetto pluri- pregiudicato per reati di mafia, sia per la tipicità stessa della condotta posta in essere, consistente nella passiva intestazione della società, con percezione di un compenso mensile. Detti elementi, uniti alla inverosimiglianza delle giustificazioni offerte, soddisfano la individuazione del dolo del reato a poiché la questione é stata risolta su una base fattuale, coerentemente motivata, deve escludersi che essa possa essere oggetto di critica in sede di legittimità. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi per le doglianze svolte dal Vitale in punto di responsabilità: costui, invero, propone una mera rilettura delle intercettazioni che lo riguardano, e che privilegiano ai fini dell'esclusione del necessario elemento soggettivo, la sua posizione di mero dipendente. Vale osservare che i giudici di merito hanno compiutamente risposto a tali censure, (peraltro quelle odierne ne rappresentano una mera iterazione, di per sé inammissibile) ed hanno rilevato che t'imputato ben conosceva la posizione apicale del D.M., tant'é che nei colloqui da atto della capacità di incidere sulle sorti della società; inoltre,egli svolgeva le mansioni di contabile e dunque sapeva dell'incidenza della sua opera di fittizia intestazione sulla azienda ed era anche in grado di rintracciare la provenienza dei capitali investiti, nel senso quantomeno di controllare quanta parte provenisse dall'esercizio di impresa e quanto ne fosse estranea. Tale ragionamento, elaborato con adeguatezza agli atti e con logicità, é dunque intangibile in questa sede. Né miglior sorte può avere il motivo con cui il V. nega la configurabilità della aggravante speciale; la spinta criminale a favorire ed ad agevolare la associazione mafiosa non é, invero, annullata dalla sua posizione di stipendiato, ma come esattamente messo in luce, con argomento valido e condivisibile, le ragioni personali ed utilitaristiche coesistevano con la consapevolezza che la posizione formale assunta consentisse all'associato D.M., di cui era riconosciuta la qualità di capo, il perseguimento di scopi sociali di accrescimento e tutela del patrimonio illegale. La motivazione é, dunque, in linea con i principi espressi in materia da questa corte, che ha riconosciuto la sussistenza della circostanza aggravante speciale dell'aver commesso il fatto, al fine di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, quando la condotta abbia quale beneficiario un soggetto che riveste un ruolo apicale all'interno della struttura associativa, dal momento che la condotta diretta alla agevolazione finisce col favorire l'intera associazione. Non ha, infine, alcuna incidenza sulla posizione del V., la ritenuta esclusione dell'aggravante per il C., posto che si tratta di differenti posizione di fatto, oggetto di specifica e distinta valutazione di merito. 2.8 Co.Ro.. Il ricorso é manifestamente infondato. E' assodato che in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione é riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno "status" di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato "prende parte" al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. (per tutte Sez. 1, Sentenza n. 1470 del 11/12/2007). In particolare, é stato sempre ribadito che "sul piano della dimensione probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve, dunque, trattarsi di indizi gravi e precisi (trai quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di uomo d'onore, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, messa a disposizione della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall'imputazione". In relazione a tali principi, la Corte di merito ha sottolineato che a carico del Co. era riscontrabile una serie concordane di elementi, costituiti: 1. dalle dichiarazioni del collaboratore F., circa la sua adibizione alla riscossione del pizzo, confortato dalla inclusione del suo nome in un elenco ricognitivo, soggetti abilitati alla raccolta del denaro per conto della cosca, stilato dal F. stesso, anteriormente alla sua cattura e perciò genuino; 2. dal contenuto dei dialoghi intercettati, con altri esponenti mafiosi, che ne attestavano il fattivo interessamento all'assetto dei poteri all'interno del mandamento, la sue necessità personali di risolvere conflitti insorti on altri mafiosi, che lo danneggiavano nello svolgimento delle sue attività; 3. nell'intromissione in una vicenda estorsiva, riguardante l'azienda di tale Ve., i cui terreni erano in vendita e contesi fra opposte fazioni; 4. nella altrettanto significativa intromissione, nel contrasto cagionato dalla iniziativa condotta da Br.Gi., per il recupero del bene appartenente al fratello An., di cui si é detto al punto n. che precede, in cui é svolge le funzioni di tramite tra il Br. ed il Gu.; 5 nelle propalazioni di altro collaboratore, del tutto conformi a quelle del F.. Ora tali dati di fatto attestano la esistenza di un fattivo organico inserimento, come logicamente e correttamente desunto dalla corte distrettuale, con un ruolo dinamico, a prescindere dalla formale affiliazione. L'impugnazione del Co. é invece connotata dall'introduzione di valutazioni di merito in ordine al contenuto delle intercettazioni e sulla interpretazioni di parole e frasi, il cui valore indiziario viene contestato, ovvero sul difetto di attendibilità del Gu., che in realtà si traducono in meri apprezzamenti antagonisti a quelli ritenuti dal giudice distrettuale, non sottoponibili a questa corte, ed in ordine ai quali vale brevemente e conclusivamente osservare, come in realtà essi esprimano in modo

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del tutto perplesso dubbi sulla sua responsabilità, a fronte di una doppia conforme. 2.9 Pi.An. classe (OMISSIS). Con la impugnazione, il Pi. ha sostanzialmente riletto tutti i passaggi che lo riguardano,offrendo ora una diversa ricostruzione dei colloqui intercettati, analizzati dal giudice di merito ai fini dell'accertamento della sua responsabilità, ora parcellizzando e frammentando le acquisizioni probatorie, allo scopo di metter in dubbio la bontà del complessivo argomentare esposto nella sentenza. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente analizzato e descritto le coordinate ed i limiti entro cui deve svolgersi il controllo sulla motivazione dei provvedimenti giudiziari (cfr. al riguardo tra le sole pronunce delle Sezioni Unite: sent. n. 12 del 23.6.2000; sent. n. 6402 del 2.7.1997; sent. n. 930 del 29.1.1996). In particolare, é stato più volte chiarito che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato é - per espressa disposizione legislativa - rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il "senso della realtà" degli appartenenti alla collettività ed infine esenti da vistose ed insormontabili incongruenze tra di loro. In altri termini - in aderenza alla previsione normativa che attribuisce rilievo solo al vizio della motivazione che risulti "dal testo del provvedimento impugnato" - il controllo di legittimità si appunta esclusivamente sulla coerenza strutturale "interna" della decisione, di cui saggia la oggettiva "tenuta" sotto il profilo logico-argomentativo e, tramite questo controllo, anche l'accettabilità da parte di un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento e da osservatori disinteressati della vicenda processuale. Al giudice di legittimità é invece preclusa - in sede di controllo sulla motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa). Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione (assegnatale dal legislatore) di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Esaminato sulla base di queste coordinate, il ricorso é inammissibile in quanto tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all'apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito e non indica in maniera specifica vizi di legittimità o profili di illogicità della motivazione della decisione impugnata ma mira solo a prospettare una ricostruzione alternativa dei fatti, suggerita come preferibile rispetto a quella adottata dai giudici del merito, ricostruzione che é insuscettibile di valutazione in sede di controllo di legittimità. In realtà, il giudice del merito ha correttamente specificato che la responsabilità dell'imputato per i reati a lui ascritti emergeva con chiarezza dalle deposizioni dei testi escussi e dai colloqui captati, in base alle quali poteva dirsi accertato: 1. per quanto riguarda la condotta associativa, il Pi. aveva una collocazione di ruolo ben determinata, quella di soggetto esperto in estorsioni e addetto ai rapporti con le "fabbriche", ossia con le imprese; il tenore del dialogo intrattenuto dallo zio del Pi. con altro associato certo c., di per sé esplicito ed intrinsecamente credibile, data la qualità e lo spessore criminale dei due intercettati, aveva trovato conferma nella dimestichezza mostrata dal Pi. con altri associati, di cui era sintomo la sua attiva partecipazione ai summit di mafia tenuti presso due distinti ristoranti; era logicamente da escludere che si trattasse di riunioni conviviali, essendo invece certo, per come risultante dalla analisi delle conversazioni svoltesi tra altri protagonisti di detti congressi, che le stesse avevano la specifica funzione di dirimere questioni interne fra contrapposte funzioni; a riprova dell'inserimento ufficioso, per facta, a prescindere dalla formale investitura, era richiamata la partecipazione ad altre riunioni con esponenti della cosca mafiosa presso un complesso di villette in costruzione, nonché la sicura gestione ad opera del Pi. delle due estorsioni in danno di S. e Pr.; inoltre, il giudice di appello, non sottraendosi affatto all'esame dei motivi, ha escluso la rilevanza della dichiarazione del Pu. circa la natura esclusivamente ludica delle riunioni presso i ristoranti, di cui sopra, richiamando le precisazioni fatte dal collaboratore, che, ancora non intraneo, non era stato ammesso alle discussioni seguite al pranzo e perciò non aveva potuto offrire alcun elemento circa la natura dell'intervento del Pi., né in senso accusatorio né in senso liberatorio. Ne deriva con tutta evidenza che la sentenza censurata non presenta affatto quella carenza o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito che, alla stregua dei principi affermati da questa Corte (v. da ultimo: S.U., 24-9-2003, Petrella, rv. 226074), può indurre a ritenere sussistente il vizio denunciato, poiché non si basa su meri sospetti, ma pone in adeguata considerazione logica una serie indiziaria con motivata progressione. 2. Per quanto riguarda le due estorsioni contestate, fra loro connesse quanto a contesto ambientale, il giudice di merito ha messo in evidenza, esaminando accuratamente tutti i dialoghi intercettati e la sequenza degli stessi, come fosse sicuro che il Pi. aveva ottenuto dal Pr., imprenditore edile che stava realizzando degli alloggi in territorio di Carini, il pagamento del " pizzo" mediante l'affidamento dei lavori di sbancamento ad una impresa a lui vicina, e ha desunto che il Pr. avesse subito e non scelto tale appalto, in quanto dai colloqui risultava che non gli era stata lasciata alcuna scelta se aderire o meno, essendo considerato del tutto irrilevante il suo intendimento. Né la soggezione era da escludere per la avere le parti assunto gli obblighi, con un regolare contratto, poiché, come é logico, l'adozione di una formalizzazione non escludeva a monte la coazione. Era, poi, certo che la ditta appaltatrice era collegata al Pi., sia perché tutti i protagonisti della vicenda ne riconoscevano la riconducibilità alla sua persona, sia perché lo stesso Pi. ne parlava come di cosa propria. Tale argomentato percorso, che non manifesta pecche evidenti, non resta compromesso dalla asserita mancanza di ingiusto profitto, negato dal ricorrente sotto il profilo della sinallagmaticità delle prestazioni, viziate comunque nella loro origine, non essendo quelle del Pr. frutto di una libera scelta né tantomento quelle del Pi. un vantaggio legittimamente acquisito. Né possono trovare ingresso le peraltro generiche lagnanze su deficit investigativi, circa la identificazione del Pi., che peraltro il giudice di merito ha risolto, richiamando i testi delle conversazioni e la riconducibilità oggettiva delle situazioni esposte alla persona dell'imputato.

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Parimenti, la ricostruzione della estorsione ai danni dell'imprenditore S. non presenta alcuna inconguenza o non adeguata disamina degli atti e la versione alternativa offerta dal ricorrente in ordine alle pressioni esercitate sul costruttore, che vengono attribuite ad altri soggetti, previa reinterpretazione dei dialoghi intercettati, non rientra nei poteri valutativi di questa Corte. A fronte delle coerenti conclusioni della Corte di Appello, il ricorrente, come si é visto, si é sostanzialmente limitato ad offrire una lettura alternativa delle risultanze processuali, dilungandosi in considerazioni in fatto, che non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, neppure in virtù delle recenti modifiche all'art. 606 c.p.p., lett. e) apportate dalla L. n. 46 del 2006. Infatti, neanche la possibilità di desumere la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, oltre che dal testo del provvedimento impugnato anche "da altri atti del processo", può nel caso di specie "salvare" le censure proposte dal ricorrente dalla declaratoria di inammissibilità. Il riferimento agli altri atti del processo può essere utilizzato unicamente per contestare la correttezza dell'iter logico-argomentativo, utilizzato dal giudice di merito, non già per confutare, in punto di fatto, la valutazione dal medesimo offerta del materiale istruttorio allegato a fondamento della ipotesi accusatoria. Ma, nel caso in esame, non di elementi non valutati si tratta, ma solo di difetti nella interpretazione, del tutto al di fuori dai parametri di questo giudizio. Vale, poi, quanto già sopra considerato in tema di ingiustizia del profitto anche per il caso dello S. che privo di libertà contrattuale ha dovuto soggiacere alle richieste e fare una scelta solo formale del contraente e della fornitura. Ed ancora le medesime considerazioni svolte in tema di identificazione di N. nel Pi. per il caso del Pr. valgono per quello ora in esame, a prescindere dalla considerazioni che le censure sviluppate sul punto attengono alla valutazione anche delle dichiarazioni di un teste, cui la Corte ha dato adeguata risposta, rilevando che la presenza del N. il (OMISSIS) ad un incontro preparatorio della estorsione non era esclusa dalla attestata co-presenza dello zio Vi. e di una altra persona. In ultimo, la censura sulla entità della pena, infine, non svolge alcuna critica, ma si limita a proporre una diversa quantificazione, senza indicare le ragioni per cui il giudice di merito avrebbe dovuto applicare una pena più contenuta. 2.10 D.B.F.. L'unica censura, relativa alla nullità della sentenza per violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. E), in realtà, si traduce in una contestazione, nel merito, della serie di elementi indicativi del contributo causale apportato dal D.B. alla vicenda estorsiva in danno dell'imprenditore S. e si incentra non tanto nelle individuazione di aporie che rendano manifesta la illogicità della motivazione o di mancanze nella disamina delle questioni poste con il gravame, quanto nella lettura in senso a sé favorevole delle singole prove raccolte. Si tratta, come già enunciato nei passi di questa pronunzia che precedono, di argomentazioni che esulano dal controllo di legittimità: peraltro, la sentenza di merito ha un adeguato sviluppo argomentativo, traendo la convinzione del sicuro intervento estorsivo del D.B. in favore dei fratelli c., affinché questi ottenessero la commessa di merce dallo S., dall'attività di intermediario svolto presso i P., Vi. e N., che in quel momento governavano la famiglia mafiosa di Carini, direttamente interessata alla sfruttamento parassitario delle risorse investite dall'imprenditore nel loro territorio. Tale condotta é stata logicamente desunta dai dialoghi intercettati, da cui di desumeva che il D.B. aveva anche sollecitato il capo mafia L.P. per ottenere in favore dei suoi protetti una deroga alle regole territoriali, nonché dai resoconti che egli stesso faceva ai suoi protetti per rassicurarli del buon esito dell'affare e per consigliarli sui passi da intraprendere presso lo S.. Tanto basta per individuare la forma concorsuale contestata, dato che l'apporto del D.B. e delle sue conoscenze ha avuto un effetto determinate sulla realizzazione della estorsione. Di contro, il ricorrente oppone la sua estraneità, soprattutto, invocando un passo di una conversazione, per il vero neanche riportata sommariamente nella impugnazione, che a suo dire ne dimostrerebbe la estraneità e che di certo questa corte non può rileggere e valutare autonomamente, trasformandosi in un terzo giudice di merito, specie se si considera la linearità e la completezza della pronuncia del giudice distrettuale. 2.11 L.D.G.. Il primo motivo concernente la configurabiiita della condotta partecipativa é manifestamente infondato. Valgono anche per il L.D. le considerazioni sopra svolte, in relazione alla posizione dell'imputato Co.Ro. in tema di adesione alla associazione a delinquere di stampo mafioso, che non si caratterizza per la messa a disposizione della propria persona per il compimento di un indistinto numero di azioni, idonee ad accrescere la supremazia del clan, compiute in piena consapevolezza della propria posizione all'interno dello stesso. Il tribunale, prima e la Corte, dopo, hanno tratto, senza incorrere in patenti vizi motivazionali e quindi con motivazione in questa sede insindacabile, che il L.D. era sicuramente uno stabile componente della cosca di Carini, sia per la tipologia dei reati di danneggiamento, eseguiti per stessa ammissione dell'imputato, come registrata nei dialoghi in corso, intercettati contestualmente alla commissione dei fatti, al fine di portare a termine progetti estorsivi in danno dei colpiti, sia per l'esplicito riconoscimento, anch'esso rinvenibile nelle tracce foniche, della sua subordinazione agli ordini del capo cosca Di Maggio, sia per l'evidente conoscenza mostrata, sempre nel corso delle registrazioni, delle dinamiche interne alla cosca e delle regole da seguire nell'ambito della sua attività criminale, in modo da allinearsi all'interesse generale degli associati. Queste valutazioni di merito hanno centrato correttamente il concetto di disponibilità dell'associato, cui il L.D. oppone considerazioni in ordine alla pochezza degli episodi malavitosi riscontrati, in un lungo arco di tempo, che non immutano i termini della questione, trattandosi di una questio facti non incompatibile con il vincolo associativo, che si integra anche nella generica adesione e possibilità di impiego, e viene eliso solo nel caso di effettiva dissociazione o espulsione. Meramente generico é poi il motivo relativo alla circostanza aggravante speciale contestata per i singoli danneggiamenti, poiché il L.D. non si confronta con la esauriente argomentazione offerta dal giudice di merito ed affida le sue doglianze ad un asserito difetto di stabilità e permanenza del vincolo, la cui esistenza,come detto, é invece stata riscontrata pienamente. Non é apparente la motivazione offerta dalla Corte sulla ravvisabilità della estorsione tentata ai danni dell'imprenditore Ge.: infatti, nella sentenza, si ripercorrono le sequenze del danneggiamento e le conversazioni a esse contestuali, per inferirne logicamente che la frase pronunciata dal Pu. "far correre l'imprenditore" altro non era, in quel contesto, che l'esecuzione del

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danneggiamento era sufficiente ad avvertire il Ge. della necessità di pagare il pizzo alla cosca. Di contro, il ricorrente estrapola la frase, limitandosi ad una assertiva censura che non tiene conto della elaborata ed esaustiva ricostruzione del raid notturno compiuto dal L.D. ed i suoi sodali. Palesemente inammissibile é la doglianza concernente il delitto di incendio, di cui si contestano gli elementi costitutivi, senza alcun riferimento alle caratteristiche riscontrate dai Vigili del Fuoco, accorsi per lo spegnimento, riportate in sentenza, da cui risulta che le fiamme si erano propagate su un costone montuoso, ove erano situate delle abitazioni. Il L.D. non tiene conto di tale risultanze e si limita a negare la diffusività e la pericolosità del fuoco, affidandosi a personali constatazioni di fatto, che non possono essere valutate in questa fase. Infine, l'ultimo motivo relativo al difetto di querela é infondato; nella specie, ricorrono ipotesi di procedibilità di ufficio per tutte le tre ipotesi, in quanto le prime due eseguite con minaccia, come si evince dalle specifiche modalità di compimento ossia dall'uso di liquido infiammabile nella prima e dall'esplosione di colpi di armi da fuoco nella seconda; nella terza, poi, ricorre la aggravante di cui all'art. 625 c.p., n. 7 essendo stati i colpi d'arma diretti a danneggiare un bene di pubblica utilità. 2.12. P.G.. Il ricorso, sotto il profilo della erronea applicazione della legge penale, in realtà reinveste questa corte della lettura o meglio della rilettura delle emergenze probatorie che lo riguardano, puntando ad un ridimensionamento dello spessore loro attribuito dal giudice di merito. Questi, con andamento argomentativo lineare, ha individuato una serie di condotte e comportamenti che, collegati fra loro logicamente, offrivano la prova dell'inserimento nel contesto associativo mafioso; va premesso che nella loro storicità i fatti e gli atteggiamenti ascritti al P. non sono contestati e consistono 1. nella sua conoscenza delle dinamiche della consorteria, in particolare dei meccanismi estorsivi in atto a cura del clan ai danni di imprenditori nel territorio palermitano. 2. nel rispetto delle regole mafiose, attestato dalla partecipazione a riunioni con altri associati e soprattutto nella richiesta di intervento degli esponenti di vertice per la composizione di suoi personali contrasti con altri appartenenti alla consorteria, 3. nel riscontro fornito dalle dichiarazioni del Pu., che ne aveva indicato la sua contrapposizione al clan facente capo al Pi., 4. Nel contenuto di numerose intercettazioni in cui lo stesso imputato ripercorreva le sue vicende e si diceva sicuro dell'intervento dei vertici della famiglia a suo favore, 5. Nell'offerta di un casolare ove ospitare un latitante, attestata da un colloquio registrato tra l'imputato ed il suo referente D.M.A.. A fronte di tale apparato, che la corte ha ritenuto sintomatico della condotta partecipativa, in quanto il P. ha aderito, sia pure senza formale investitura, alla organizzazione mafiosa, sia ponendo in essere contributi attivi sia mettendo a disposizione del clan le sue energie, con ciò dimostrando l'adesione permanente e volontaria ad esso per ogni fine illecito suo proprio, il ricorso si limita alla negazione della responsabilità e non specifica, in maniera attendibile e decisiva incongruenze o contraddizioni, ma si ferma a considerazioni alternative di merito, cui la corte distrettuale ha risposto. Il rigetto. Il ricorso di Pi.An.An. é da rigettare. E' infondato il primo motivo di gravame relativo alla inutilizzabilità delle intercettazioni perché disposte in un procedimento diverso da quello attuale, relativo alla cattura dei latitanti L.P.. La giurisprudenza prevalente di questa corte é attestata sul principio, contrario a quello richiamato dal ricorrente che i risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni disposte per la ricerca di latitanti possono essere utilizzati anche in procedimenti diversi da quello in cui sono state eseguite e, con riferimento ad essi, non operano i divieti di utilizzazione previsti dall'art. 271 cod. proc. pen.. E' da ritenere che le intercettazioni disposte, come nel caso in esame, per la ricerca di un latitante, oltre a non richiedere una particolare motivazione, in relazione alle indilazionabili ragioni di urgenza, connesse alle finalità che tali tipi di intercettazione perseguono, ben possono essere utilizzate anche in procedimenti diversi. E', infatti, da rilevare che il rinvio operato dall'art. 295 c.p.p., comma 3, dettato in tema di ricerche dei latitanti, all'art. 270 c.p.p., dettato in tema di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in altri procedimenti, ha un senso solo se riferito al comma 1 di tale ultimo articolo e cioè se riferito alla utilizzabiltà probatoria in altri procedimenti e non può essere interpretato solo come richiamo alle garanzie, di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo in esame. Inoltre; in forza del principio di conservazione degli atti e della tassatività delle previsioni normative che ne contemplano l'inutilizzabilità, le intercettazioni disposte per la cattura di un latitante possono essere utilizzate in altri procedimenti anche al di fuori dei limiti di legge, tenuto conto dell'omesso richiamo all'art. 271 c.p.p. ravvisarle nell'art. 295 c.p.p., comma 3, dettato in materia di ricerche di latitanti (cfr., Cass. 6A 29.10.2003 n. 44756, rv. 227158; Cass. 1, 7.6.07 n. 24178, in termini. Massime precedenti Conformi: N. 44756 del 2003 Rv. 227158, N. 24178 del 2007 Rv. 0, N. 39285 del 2009 Rv. 245181, N. 44522 del 2009 Rv. 245166). E' perciò condivisibile quanto ritenuto dal giudice distrettuale che si é adeguato a tale principio, né il ricorrente ha apportato argomenti tali da ritenere la prevalenza della invocata minoritaria giurisprudenza elaborata sul punto, rispetto la maggioritaria sopra indicata. Parimenti non ha fondamento la susseguente eccezione di inutilizzabilità delle dette intercettazioni, perché afferenti ad un periodo temporale coperto da archiviazione; i difensori del Pi. invocano cioè l'effetto preclusivo del provvedimento e deducono che tutte le captazioni anteriori alla riapertura (inerenti cioè al periodo 22 settembre 2003-17 marzo 2006) non possono trovare ingresso nel procedimento ed avere valore probatorio. Il ricorso si ancora ai principi espressi dalla nota sentenza a sez. un 22 marzo 2000 Finocchiaro per mettere in evidenza che, nel caso del Pi., il fatto nelle sue componenti oggettive fosse identico a quello archiviato, le indagini fossero condotte dal medesimo PM e dunque non fosse possibile alcuna utilizzazione probatoria di intercettazioni eseguite nel procedimento a quo (ossia quello originato dalla ricerca del latitante). Tale impostazione, non tiene conto dei seguenti importanti passaggi: 1. Innanzi tutto é acquisito in diritto che l'autorizzazione alla riapertura delle indagini, concessa dalla medesima Autorità giudiziaria che ha emesso il provvedimento di archiviazione e inerente ad un sindacato sul potere di esercizio dell'azione

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penale di cui é titolare il pubblico ministero presso quell'ufficio giudiziario, rimuove gli effetti della precedente valutazione di infondatezza della notizia di reato e, quindi, si pone giuridicamente come atto equipollente alla revoca. 2. Solo la mancanza del provvedimento di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. determina la inutilizzabilità degli atti di indagine eventualmente compiuti dopo il provvedimento di archiviazione e la preclusione all'esercizio dell'azione penale per quello stesso fatto- reato, oggetti va mente e soggettivamente considerato, da parte del medesimo ufficio del pubblico ministero (Cass Sez. un del 24-6-2010 Giuliani). 3. La "diversità" del procedimento che, ai sensi dell'art. 270 cod. proc. pen., comma 1 impedisce l'utilizzazione dei risultati delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (salvo che risultino indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali é obbligatorio l'arresto in flagranza), assume, per gli effetti che ne derivano sul piano della prova rilievo di carattere sostanziale e non può quindi ricollegarsi a un dato di ordine meramente formale quale il numero di iscrizione, nell'apposito registro della notizia di reato; la distinzione, pertanto, va riferita al contenuto dì quest'ultima, vale a dire al fatto-reato in relazione ai quale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale con la conseguenza che ove il pubblico ministero, opportunamente autorizzato alla riapertura delle indagini provveda ad una nuova iscrizione ai sensi dell'art. 414 c.p.p., comma 2, e art. 335 cod. proc. pen., non si instaura un procedimento diverso e possono legittimamente essere utilizzati i risultati delle indagini già svolte, compresi gli esiti delle intercettazioni. 4. Occorre infine ricordare che a norma dell'art. 414 c.p.p., perché il P.M. possa richiedere e il Giudice autorizzare la riapertura delle indagini non occorre - diversamente da quanto é stabilito dall'art. 434 c.p.p., ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere - che sopravvengano o si scoprano nuove fonti di prova, ma solamente che si presenti la "esigenza di nuove investigazioni", il che nel caso di specie, si é verificato proprio attraverso le nuove acquisizioni, che ponevano in luce il contesto in cui si muoveva l'indagato, con modalità che apparivano in prospettiva suscettibili, secondo una valutazione che va effettuata con giudizio ex ante, di portare ad approfondimenti e integrazioni e a una migliore comprensione del materiale già acquisito. Le elencate premesse, ricorrenti nella fattispecie del Pi., escludono, dunque, la fondatezza della sua eccezione procedurale, poiché la preclusione ben può essere invocata per gli elementi indiziari connessi alle investigazioni anteriori alla archiviazione del 2003, ma non per quelli successivi, che hanno consentito la riapertura, in quanto attinenti alla attualità della sua condizione di associato. Nel merito, i rimanenti motivi di gravame relativi alla metodologia di lettura delle risultanze di causa da parte del giudice di merito, non possono trovare accoglimento. La motivazione della sentenza d'appello si sottrae alle critiche di parte, poiché affronta l'interpretazione delle emergenze processuali secondo corretti metodi di approccio, del tutto rispettosi dei parametri di legge, e segnatamente di quelli dettati dall'art. 192 c.p.p.. Il percorso argomentativo ha preso le mosse dal tenore delle conversazioni captate, che, ancorché intercorse tra terze persone, sono state ritenute significative, in ragione della qualità degli interlocutori e del grado di conoscenza che gli stessi mostravano degli affari dell'organizzazione familiare-mafiosa. La lettura del contenuto di tali comunicazioni non é, ovviamente, sindacabile in questa sede di legittimità, in quanto espressione di tipico apprezzamento di merito che risulta adeguatamente motivato. Ciò vale sia per le conversazioni intrattenute da Pi.En., fratello dell'imputato, sulla collocazione di quest'ultimo nella famiglia territoriale di Torretta, da Br.Vi., che ne forniva esplicita conferma, dal N.D.M., che riscontravano sia la esistenza di contrasti fra diverse fazioni, sia la posizione di avversione al gruppo Gallina assunta dall'imputato, elementi che denotavano una condotta partecipativa attiva, in quanto funzionle alla esistenza della associazione ed alla coesistenza pacifica tra gruppi. Il secondo momento logico, nel processo inferenziale seguito dalla Corte di merito, é quello afferente al contributo dichiarativo dei collaboratori di giustizia, le cui propalazioni, dunque, non hanno assunto ruoto centrale ed esaustivo dell'accusa a carico del Pi.. Le propalazioni del Pu. hanno rilevanza significativa, sia in quanto attestano la diretta conoscenza della qualità di uomo d'onore del Pi. sia in quanto confermano, nel patrimonio conoscitivo della consorteria, il peso specifico, dell'imputato, considerato anche da altri associati esponente di spicco della famiglia di Carini. La coincidenza delle dichiarazioni dello stesso tenore del F. é stata ritenuta ulteriormente dimostrativa della adesione ed il relativo apprezzamento, sfugge ovviamente al sindacato di legittimità. Non merita censura, infine, la motivazione oggi censurata nella parte esclude che vi sia incompatibilità tra il mantenimento della sua posizione di associati e gli intervallati ma lunghi periodi di detenzioni subiti, giacché da un canto la Corte distrettuale ha adeguatamente dimostrato come il periodo di restrizione in carcere non aveva affatto allentato i preesistenti vincoli associativi, come dimostrato dal fatto che all'uscita dal carcere il Pi. era stato subito collocato all'interno della famiglia di Torretta, e tale accertamento di merito non può essere posto in discussione in questa sede. Dall'altro, la Corte non si é affatto accontentata di ritenere immutabile la pregressa qualità di uomo d'onere, ma ha individuato come forme comportamentali tratte non solo dai conclamati rapporti di consanguineità e parentela con esponenti mafiosi della zona, ma dal suo attivismo, osservando che contrasti con il gruppo dominante o lagnanze sul suo agire provenienti dal suo stesso clan non ne attestavano la estraneità, in quanto rientranti in una usuale dinamica di rapporti e confronti. Nessuna aporia logica inficia, dunque, il ragionamento dei giudici di appello, che risulta, invece, corretto e conforme, non solo a canoni ordinari della logica, ma anche a consolidate regole di esperienza acquisite attraverso la conoscenza delle peculiarità della fenomenologia mafiosa; tanto meno può farsi carico alla pronuncia di aver valutato elementi ambigui, o incerti, che tali appaiono solo dalla lettura parcellizzata e personale offerta nella impugnazione. Statuizioni sulle spese: In conclusione, ciascuno dei nominati imputati, eccezion fatta per quelli la cui pronuncia é stata annullata con rinvio, sono da condannare al pagamento delle spese processuali; i ricorrenti, i cui ricorsi sono stati dichiarati inammissibili, sono altresì da condannare al versamento, ciascuno di Euro mille a favore della cassa delle ammende. Inoltre, gli imputati GO.Sa., BR.Gi., Br.An., PE.Da., C.M., V. F., CO.Ro., PI.An. classe (OMISSIS), D.B.F., L.D.G., P.G. e PI.An.An., classe (OMISSIS), sono tenuti a rifondere le spese sostenute in questo grado dalle parti civili Confindustria

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Palermo, F.A.I., Comitato Addio Pizzo Palermo, Confcommercio Palermo, e S.O.S impresa Palermo: a favore di ciascuna delle parti civili é da liquidare, a tale titolo, la somma di euro tremila, oltre accessori di legge.

P.Q.M.

Annulla l'impugnata sentenza nei confronti di B.C., D. N.P., G.A. e PU.Ga., per quest'ultimo limitatamente alla misura della pena,e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo. Dichiara inammissibili i ricorsi di GO.Sa., B. G., Br.An., PE.Da., C.M., V.F., CO.Ro., PI.An. classe (OMISSIS), D.B.F., L.D.G. e P. G. e condanna ciascuno dei predetti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla cassa delle ammende. Rigetta il ricorso di PI.An.An., classe (OMISSIS), che condanna al pagamento delle spese processuali. Condanna altresì GO.Sa., BR.Gi., B. A., PE.Da., C.M., V.F., CO.Ro., PI.An. classe (OMISSIS), D.B. F., L.D.G., P.G. e P. A.A., classe (OMISSIS), alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalle parti civili Confindustria Palermo, F.A.I., Comitato Addio Pizzo Palermo, Confcommercio Palermo, e S.O.S impresa Palermo, spese che liquida per ciascuna di esse nella somma di Euro tremila oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2012. Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2012