diritto e società tributi e accertamento fiscale · azione revocatoria e scissione - ordinanza 7...

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Diritto e società La relazione di stima nella scissione: quando è obbligatoria e se sia possibile ricorrere ai metodi alternativi dell’articolo 2343-ter, cod. civ. di Manuela Grassi e Luca Szegö 2 Tributi e accertamento fiscale Il trattamento fiscale della fusione eterogenea di Fabio Giommoni 7 Trattamento Iva dell’assegnazione agevolata di immobili ai soci di Marco Peirolo 16 Prassi contabile Riflessi fiscali della “cancellazione” della sezione straordinaria del Conto economico di Fabio Landuzzi 25 Giurisprudenza Azione revocatoria e scissione - Ordinanza 7 novembre 2016 del Tribunale di Roma di Alberto Bertuzzo 34 Le modifiche di clausole statutarie che dispongono quorum rafforzati richiedono l'approvazione con quorum parimenti rafforzati: la sentenza della Cassazione n. 4967/2016 di Federico Colognato e Valeria Marocchio 42 1 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

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Diritto e società

La relazione di stima nella scissione: quando è obbligatoria e se sia possibile ricorrere ai

metodi alternativi dell’articolo 2343-ter, cod. civ.

di Manuela Grassi e Luca Szegö 2

Tributi e accertamento fiscale

Il trattamento fiscale della fusione eterogenea

di Fabio Giommoni 7

Trattamento Iva dell’assegnazione agevolata di immobili ai soci

di Marco Peirolo 16

Prassi contabile

Riflessi fiscali della “cancellazione” della sezione straordinaria del Conto economico

di Fabio Landuzzi 25

Giurisprudenza

Azione revocatoria e scissione - Ordinanza 7 novembre 2016 del Tribunale di Roma

di Alberto Bertuzzo 34

Le modifiche di clausole statutarie che dispongono quorum rafforzati richiedono

l'approvazione con quorum parimenti rafforzati: la sentenza della Cassazione n. 4967/2016

di Federico Colognato e Valeria Marocchio 42

1 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Diritto e società

2 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La relazione di stima nella scissione:

quando è obbligatoria e se sia possibile

ricorrere ai metodi alternativi

dell’articolo 2343-ter, cod. civ. di Manuela Grassi - avvocato dello studio legale Ichino Brugnatelli e associati

Luca Szegö - avvocato dello studio legale Ichino Brugnatelli e associati

L’articolo si occupa di esaminare se, in caso di scissione, occorra stimare il patrimonio

assegnato alla società beneficiaria; si occupa altresì di esaminare se l’eventuale stima possa

essere effettuata sulla base delle previsioni dell’articolo 2343-ter, cod. civ..

L’articolo 2506-ter, cod. civ. si occupa di individuare le principali norme in tema di fusione di società

applicabili anche alla scissione societaria (sulla scorta di quanto faceva, prima della riforma del 2003,

l’articolo 2504-novies; altre norme sono richiamate dall’articolo 2506-quater, in precedenza articolo

2504-decies) e di descrivere alcuni dei passi da compiere in vista della scissione medesima.

Il suo testo è il seguente:

“1. L'organo amministrativo delle società partecipanti alla scissione redige la situazione patrimoniale

e la relazione illustrativa in conformità agli articoli 2501-quater e 2501-quinquies.

2. La relazione dell'organo amministrativo deve inoltre illustrare i criteri di distribuzione delle azioni

o quote e deve indicare il valore effettivo del patrimonio netto assegnato alle società beneficiarie e di

quello che eventualmente rimanga nella società scissa. Quando la scissione si realizza mediante

aumento di capitale con conferimento di beni in natura o di crediti, la relazione dell'organo

amministrativo menziona, ove prevista, l'elaborazione della relazione di cui all'articolo 2343 e il

registro delle imprese presso il quale tale relazione è depositata.

3. Si applica alla scissione l'articolo 2501-sexies; la situazione patrimoniale prevista dall'articolo 2501-

quater e le relazioni previste dagli articoli 2501-quinquies e 2501-sexies, non sono richieste quando

la scissione avviene mediante la costituzione di una o più nuove società e non siano previsti criteri di

attribuzione delle azioni o quote diversi da quello proporzionale.

Diritto e società

3 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

4. Con il consenso unanime dei soci e dei possessori di altri strumenti finanziari che danno diritto di

voto nelle società partecipanti alla scissione l'organo amministrativo può essere esonerato dalla

redazione dei documenti previsti nei precedenti commi.

5. Sono altresì applicabili alla scissione gli articoli 2501-septies, 2502, 2502-bis, 2503, 2503-bis, 2504,

2504-ter, 2504-quater, 2505, comma 1 e 2, 2505-bis e 2505-ter. Tutti i riferimenti alla fusione

contenuti in detti articoli s'intendono riferiti anche alla scissione”.

Ai fini delle presenti considerazioni, assume rilievo soprattutto il comma 2 e, in particolare, il secondo

periodo, recentemente introdotto dal Legislatore – tramite l’articolo 27, L. 161/2014 – al fine di dare

piena attuazione alla Direttiva 2009/109/UE in materia di relazioni e di documentazione in caso di

fusioni e scissioni.

Il Legislatore si è così direttamente occupato di una questione dibattuta in dottrina e giurisprudenza

dagli anni 90, a seguito dell’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto della scissione1.

Secondo una tesi2, i beni oggetto3 della cessione andrebbero sempre valutati ex articolo 2343, cod. civ.,

a tutela dei soci e dei terzi, onde evitare, nel primo caso, la sopravvalutazione di una partecipazione

rispetto alle altre e, nel secondo caso, che l’effettivo valore dei beni imputati a capitale sia inferiore

all’aumento del medesimo; altra parte della giurisprudenza di merito si è invece espressa in senso

contrario alla relazione di stima ex articolo 2343, cod. civ. nel caso di scissione, salvo che in alcune

ipotesi (sul che infra)4.

1 Avvenuto con il D.Lgs. 22/1991, emanato in attuazione delle Direttive del Consiglio delle Comunità Europee n. 78/855 (cosiddetta Terza

Direttiva del 9 ottobre 1978) e n. 82/891 (cosiddetta Sesta Direttiva del 17 dicembre 1982). 2 Cfr. Tribunale del Salerno, 15 dicembre 2007 (decreto), in Giur. Comm., 1999, pag. 751: “L’operazione di una o più società che intendano conferire

propri rami d’azienda ad altra società ricevendone, in corrispettivo, azioni di quest’ultima, sembra dia luogo a scissioni parziali ex articolo 2506, cod.

civ., per le quali è sempre necessaria la predisposizione della relazione di stima ai sensi dell’articolo 2343, cod. civ.”; Tribunale di Brescia, 11 marzo

1998, in Riv. notariato, 1999, pag. 752 e in Le Società, 1998, pag. 701: “In ipotesi di scissione parziale con costituzione di nuove società di capitali

beneficiarie è necessaria la redazione della perizia di stima di cui all'articolo 2343, cod. civ. in relazione ai beni e crediti conferiti alla nuova società

poiché: a) detta fattispecie non configura una mera vicenda modificativa ed organizzativa della società madre, ma comporta un conferimento da

società madre a società figlia, essendo indubbio che delle obbligazioni sorte dopo la scissione risponde esclusivamente la società figlia; b) la corretta

determinazione dei valori di patrimonio netto in capo alla società scissa non assicura altrettanto automaticamente che siano correttamente formate

anche le frazioni attribuite alle diverse beneficiarie” e Tribunale di Verona, 9 giugno 1994, in Notariato, 1995, pag. 40: “Nell'ipotesi di scissione

societaria, che determini il trasferimento di beni in natura (o di crediti) a favore di una società di nuova costituzione; è necessaria la perizia di stima

ex articolo 2343, cod. civ., onde evitare possibili fenomeni di annacquamento del capitale sociale”. 3 Non è questa la sede per entrare nel merito della questione se tali beni siano trasferiti, quale sorta di conferimento, dalla società scissa alla

società beneficiaria; oppure se il tratto caratteristico della scissione sia piuttosto la sua natura non traslativa, ma evolutiva, con la società

scissa che non conferisce dei beni in un'altra società, ma assegna (così l’articolo 2506, cod. civ.) ad essa una parte del suo patrimonio. Per una

ricognizione sulle varie tesi in merito alla natura della scissione, si veda G. scognamiglio, “La nozione di scissione”, in Trattato Colombo-Portale,

VII, tomo 2, Torino, 2004, pag. 114 ss. e A. Picciau, “sub articolo 2506”, in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi,

Ghezzi e Notari, Milano, Egea-Giuffrè, 2006, pag. 1025 ss.. 4 Tribunale di Torino, 19 maggio 1995, in Giur. comm., 1996, II, pag. 667 e in Le Società 1995, pag. 1479 “La scissione non costituisce nè può

essere assimilata ad un conferimento da società madre a società figlia e la relazione di stima ex articolo 2343, cod. civ. non è necessaria quando la

parte di patrimonio trasferita sia esattamente corrispondente ai valori contabili desunti dal bilancio correttamente redatto” e «La relazione giurata di

un esperto ex articolo 2343, cod. civ., è necessaria nel solo caso di scissione mediante costituzione di società con capitale sociale di valore superiore

al valore contabile del patrimonio netto alla stessa trasferito»; Tribunale di Udine, 23 luglio 1994, in Le Società 1995, pag. 227 “La scissione, in

ogni sua forma, integra una vicenda modificativa dell'originario rapporto sociale, che continua con i conferimenti già effettuati, non riconducibile,

nemmeno in via analogica, ad un'ipotesi di conferimento di beni in natura. Da qui discende la non necessità, nel progetto di scissione parziale, della

relazione di stima di cui all'articolo 2343, cod. civ. neppure al fine di evitare l'annacquamento del capitale la cui integrità è assicurata dall'osservanza

Diritto e società

4 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Di recente, della questione si è occupata anche la Corte di Cassazione, ma in un caso particolare (la

beneficiaria era una società di persone) che non pare consentire generalizzazioni, per non correre il

rischio di dare eccessivo peso a quelli che potrebbero essere degli obiter dicta5.

In questa situazione si inserisce il recente intervento normativo, la cui interpretazione pone tuttavia

alcuni interrogativi.

Il primo e più importante riguarda il significato da dare all’inciso “ove prevista” (“… la relazione

dell'organo amministrativo menziona, ove prevista, l'elaborazione della relazione di cui all'articolo 2343 …”).

Difatti, se si ritenesse che esso vada riferito alla “relazione dell’organo amministrativo”, la stima ex

articolo 2343, cod. civ. sarebbe pressoché sempre necessaria, fatta eccezione per le ipotesi in cui possa

appunto mancare la relazione dell’organo amministrativo (cfr. articolo 2506-ter, comma 3 e 4, cod. civ.);

se, invece, l’inciso viene riferito alla “elaborazione della relazione di cui all'articolo 2343”, si pone la

questione di individuare aliunde i casi in cui essa è necessaria, perché solo in quelle ipotesi tale

relazione dovrà essere menzionata dall’organo amministrativo.

Da un punto di vista sintattico, la seconda soluzione appare preferibile perché, se il Legislatore avesse

voluto riferirsi alla relazione dell'organo amministrativo, avrebbe probabilmente scritto “la relazione

dell'organo amministrativo, ove prevista, menziona …” e non “la relazione dell'organo amministrativo

menziona, ove prevista, l'elaborazione …”. Tale conclusione è poi confermata, sul piano logico,

dall’assenza di ragioni per collegare le ipotesi in cui non occorre la relazione dell’organo amministrativo

ai motivi che rendono opportuna o inutile la stima ex articolo 2343, cod. civ..

Ragionevolmente acquisita questa interpretazione, si tratterà come detto di individuare quali siano le

ipotesi in cui la relazione di stima sia necessaria anche in caso di scissione societaria.

Scartata la soluzione secondo la quale la relazione in parola dovrebbe reputarsi inutile in quanto

logicamente compresa in quella degli esperti incaricati di verificare e attestare la congruità del rapporto

delle norme per la redazione del bilancio da parte della società scissa” Tribunale di Udine, 18 ottobre 1993, in NGCC, 1994, I, pag. 723 “La relazione

di stima di cui all'articolo 2343 cod. civ. non è necessaria nella scissione ogniqualvolta la società scissa e la società beneficiaria o quella risultante

dalla scissione siano tutte società di capitali”; Tribunale di Napoli, 23 luglio 1993, in Le Società, 1994, pag. 73 e Foro it., 1994, I, pag. 235 “La

relazione di stima ex articolo 2343, cod. civ. è necessaria in caso di scissione c.d. eterogenea o, nel caso la società scissa sia una società di capitali,

allorché il capitale della società beneficiaria sia superiore al valore del patrimonio netto trasferitole o se essa comunque proceda ad un aumento del

capitale sociale realizzato mediante conferimenti in natura; qualora, però, dette ipotesi non sussistono, la disciplina dettata per la costituzione della

società scissa, e per la formazione del suo patrimonio sarà più che sufficiente a garantire i creditori sociali”. 5 Cfr. Cassazione, n. 7914/2015 che, in motivazione, afferma quanto segue: “… la relazione di stima predisposta da esperti nominati dal presidente

del Tribunale, prevista dall'articolo 2343, cod. civ., per l'ipotesi di conferimento di beni in natura in una società di capitali, non può ritenersi necessaria

nel caso, qui ricorrente, di trasferimento di beni che trova causa in un atto di scissione parziale in favore di società di persone: la ratio della suddetta

previsione di legge (verificare l'effettiva esistenza della garanzia del capitale sociale indicato nelle società di capitali destinatarie di conferimenti di

beni in natura) non viene evidentemente in gioco quando non di conferimento bensì di trasferimento di beni si tratti, e in favore di una società di

persone. Di ciò del resto si trae conferma nelle norme codicistiche regolanti puntualmente il procedimento necessario per la valida conclusione

dell'atto di scissione, che (cfr. articoli 2504-novies e 2501-ter, cod. civ.) non fanno alcun riferimento alla necessità di una stima del patrimonio trasferito

dalla scissa alla beneficiaria, bensì considerano sufficiente la allegazione di una situazione patrimoniale delle società partecipanti all'operazione

redatta dagli amministratori con l'osservanza delle norme sul bilancio di esercizio …”.

Diritto e società

5 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

di cambio delle azioni o delle quote6, non più sostenibile anche alle luce dell’intervento legislativo in

esame7, le ipotesi individuate già da tempo da dottrina e giurisprudenza sono due8:

a) quella in cui la società scissa sia una società di persone e la società beneficiaria sia una società per

azioni o a responsabilità limitata che, a fronte della scissione, aumenta il proprio capitale (ipotesi

espressamente contemplata dall’articolo 2501-sexies, comma 7, cod. civ. richiamato per la scissione

dall’articolo 2506-ter, comma 3, cod. civ.);

b) quella in cui vi sia un disavanzo da concambio perché la società beneficiaria riceve beni di valore

superiore rispetto a quello registrato nella contabilità della società scissa e tale maggior valore sia

appostato nel capitale della beneficiaria9.

Veniamo ora al tema dell’applicabilità, in caso di scissione societaria, dell’articolo 2343-ter, cod. civ.10

che, come noto, introduce alcune ipotesi in cui non si rende necessaria la stima da parte dell’esperto

nominato dal Tribunale dei beni conferiti in natura.

6 Cfr. P. Marchetti, “Appunti sulla nuova disciplina delle fusioni”, in questa Riv. Notariato, 1991, pag. 38. 7 Tale soluzione era stata criticata già a suo tempo da G. Scognamiglio, “Sulla necessità della perizia di stima ex articolo 2343 nella scissione”, in

Riv. Notariato, 2002, pag. 1. 8 In dottrina, A. Busani e A. Fedi, “La relazione di stima della scissione”, in Le Società, 2015, pag. 5; D. Cillo, “Operazioni straordinarie e valutazione

dei conferimenti in natura”, in Riv. Notariato, 2011, pag. 31; C. Santagata, “Le fusioni”, in Trattato Colombo-Portale, VII, tomo 2, Torino, 2004,

pag. 202; G. Scognamiglio, citata alla nota 6; in giurisprudenza, Tribunale di Torino, 19 maggio 1995, Tribunale di Udine, 18 ottobre 1993 e

Tribunale di Napoli, 23 luglio 1993, citate alla nota 3.

A. Busani e A. Fedi, cit., pag. 10, osservano altresì che le due ipotesi in parola sono quelle in cui può essere valorizzata la locuzione “conferimento

di beni in natura o di crediti” utilizzata dal Legislatore, giacché in quei casi “non si assiste alla sola assegnazione di un patrimonio (che è il tratto

comune delle scissioni) ma anche a un fenomeno economicamente comparabile a un “vero e proprio” conferimento: nel primo caso, il valore del

patrimonio di una società di persone viene utilizzato per formare il capitale di una società di capitali e, dunque, deve necessariamente essere valutato,

mutandone radicalmente la funzione (evenienza che, evidentemente, non si verifica nelle scissioni “omogenee” tra società di capitali); nel secondo

caso, l’aumento di capitale della beneficiaria è “coperto” con una rivalutazione delle poste contabili provenienti dalla società scissa, per cui non si ha

“solo” una assegnazione del patrimonio scisso, ma, come si è detto, si ha pure una rivalutazione del patrimonio oggetto di apporto per scissione”. 9 Ciò nei limiti in cui siffatta “rivalutazione” sia ritenuta ammissibile.

In senso contrario deporrebbe infatti l’articolo 2504-bis, comma 4, prima frase, cod. civ. (richiamato per la scissione dall’articolo 2506-quater,

comma 1, cod. civ.), in forza del quale “nel primo bilancio successivo alla fusione le attività e le passività sono iscritte ai valori risultanti dalle

scritture contabili alla data di efficacia della fusione medesima” (c.d. principio del pooling of interest method), di modo che non sarebbe possibile,

in occasione della scissione, modificare il valore dei beni trasferiti/assegnati per adeguarli a quello corrente.

Secondo un’altra impostazione, invece “il principio della continuità dei bilanci in sede di fusione, sancito dall'articolo 2504-bis, comma 4, cod. civ.,

implica che, di regola, il capitale sociale della società risultante dalla fusione non possa eccedere la somma del capitale sociale e delle riserve delle

società partecipanti alla fusione. Tale assunto è peraltro suscettibile di deroga in caso di disavanzo “da concambio”, dovuto alla differenza tra il

capitale sociale dell'incorporata ante fusione, e l'aumento di capitale sociale deliberato dall'incorporante a servizio della fusione, in misura necessaria

per soddisfare il rapporto di cambio, qualora non vi siano sufficienti riserve (nel patrimonio netto dell'incorporata e/o dell'incorporante) per “coprire”

detta differenza. Deve infatti ritenersi consentita anche in questo caso – oltre che nell'ipotesi di disavanzo “da annullamento”, pacifica in

giurisprudenza e dottrina – l'imputazione del disavanzo da concambio “agli elementi dell'attivo e del passivo delle società partecipanti alla fusione

e, per la differenza e nel rispetto delle condizioni previste dal numero 6 dell'articolo 2426, ad avviamento”, a norma dell'articolo 2504-bis, comma 4,

seconda frase, cod. civ.. Tuttavia, posto che siffatta imputazione del disavanzo da concambio, a differenza di quello da annullamento, comporta la

formazione ex novo di capitale sociale non coperto da valori già risultanti nelle scritture contabili e nei bilanci delle società partecipanti alla fusione,

è in tal caso necessario che venga redatta anche la relazione di stima del patrimonio della società incorporata a norma dell'articolo 2343, cod. civ.,

la quale potrà pertanto essere affidata agli esperti incaricati della relazione sulla congruità del rapporto di cambio, in analogia a quanto dispone

l'articolo 2501-sexies, comma 7, cod. civ.” (cfr. Massima 72 del Consiglio Notarile di Milano). In questo senso si veda anche C. Santagata, cit. alla

nota 7, e Tribunale di Torino, 19 maggio 1995 e Tribunale di Napoli, 23 luglio 1993, cit. alla nota 3. 10 Norma inserita dall’articolo 1, comma 2, D.Lgs. 142/2008 in attuazione della Direttiva 2006/68/CE, di modifica della Direttiva 77/91/CEE,

relativa alla costituzione delle società per azioni, nonché alla salvaguardia e alle modificazioni del capitale sociale delle stesse.

Diritto e società

6 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Nonostante la norma in parola non sia richiamata dall’articolo 2506-ter, comma 2, cod. civ., in dottrina

vi è chi ritiene che sia possibile la sua applicazione quantomeno analogica11, giacché le ipotesi previste

dall’articolo 2343-ter, cod. civ. (conferimento di valori mobiliari ovvero di strumenti del mercato

monetario; conferimento di beni in base al loro “fair value iscritto nel bilancio dell'esercizio precedente

quello nel quale è effettuato il conferimento a condizione che il bilancio sia sottoposto a revisione legale e

la relazione del revisore non esprima rilievi …”; stima effettuata da un esperto indipendente) possono

verificarsi anche in caso di scissione12. Peraltro, se si scegliesse invece di negare l’applicabilità alla

scissione (e alla fusione) dell’articolo 2343-ter, cod. civ. ci si troverebbe nella situazione

apparentemente irragionevole di assoggettare tali operazioni straordinarie a modalità di stima del

capitale più complesse e costose di quelle previste in caso di costituzione ex novo di una società per

azioni, contraddicendo in questo modo anche l’esigenza di semplificazione e contenimento dei costi

espressamente alla base della Direttiva 2006/68/CE.

Altra parte della dottrina ha invece osservato che, in sede di scissione (e fusione), la funzione della

relazione ex articolo 2343, cod. civ. non si riduce alla determinazione del bene oggetto di conferimento,

ma anche ad accertare l’effettiva consistenza del patrimonio trasferito/assegnato alla società

beneficiaria13. Inoltre, ragioni di tutela dei creditori sconsiglierebbero l’applicazione dei metodi previsti

dall’articolo 2343-ter, cod. civ.14, anche perché il meccanismo di formazione progressiva della stima ivi

previsto ridurrebbe sensibilmente i tempi concessi per valutare un’eventuale opposizione alla scissione.

Il medesimo autore ricorda infine che proprio la Direttiva 2006/68/CE, pur essendo volta a modernizzare

i procedimenti di stima, precisava che non ciò sarebbe dovuto avvenire con detrimento delle tutele per

i soci e i creditori.

In difetto di interventi giurisprudenziali sul punto, resta dunque un’incertezza; vale comunque la pena

di segnalare che il Consiglio Nazionale del Notariato, nel suo studio 224-2009/I conclude per

l’applicabilità dell’articolo 2343-ter, cod. civ. anche alle operazioni straordinarie non esplicitamente

previste, sia pur con alcune limitazioni a seconda dei casi particolari che si possono presentare.

11 Laddove si ritenga che il rapporto fra l’articolo 2343, cod. civ. e l’articolo 2343-ter, cod. civ. sia quello di alternanza e non quello di regola

ed eccezione (nel secondo caso l’applicazione analogica delle previsioni dell’articolo 2343-ter, cod. civ. sarebbe infatti proibita dall’articolo 14

preleggi); in tal senso M. Maltoni, “Brevi considerazioni sulla disciplina dell’articolo 2343-ter, cod. civ.”, in Riv. Notariato, 2009, pag. 387; M. Notari,

“Il regime alternativo della valutazione dei conferimenti in natura in società per azioni”, in Riv. Soc., 2009, pag. 54; C. Ibba, “Osservazioni sulla stima

dei così detti conferimenti senza stima”, in Giur. comm., 2009, pag. 929; in senso contrario Ferri jr, “La nuova disciplina dei conferimenti in natura

in società per azioni: considerazioni generali”, in Riv. Soc., 2009, pag. 253 e L. Salamone, “Le verifiche della valutazione semplificata del conferimento

“non in contanti””, in Giur. comm., 2010, pag. 47. 12 Cfr. A. Busani e A. Fedi, cit. pag. 12. 13 Cfr. D. Cillo, cit. alla nota 7. 14 Solo all’esperto nominato dal Tribunale si applica infatti l’articolo 64, c.p.c. sulla responsabilità, anche penale, del consulente tecnico

d’ufficio, senza che un’analoga tutela sia offerta dall’articolo 2632, cod. civ., norma penale che si occupa delle responsabilità degli

amministratori in casi di trasformazione e che non è dunque applicabile analogicamente ex articolo 14 preleggi.

Tributi e accertamento fiscale

7 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Il trattamento fiscale della fusione

eterogenea di Fabio Giommoni - dottore commercialista e revisore legale

In tema di fusione eterogenea, l’Agenzia delle entrate, con la risoluzione n. 27/E/2017, ha

chiarito il trattamento fiscale delle riserve di società commerciali incorporate in enti non

commerciali, precisando meglio le conclusioni già sostenute in passato con la risoluzione n.

102/E/2009, la quale aveva tuttavia lasciato aperti alcuni dubbi interpretativi.

Questi recenti chiarimenti offrono lo spunto per approfondire la complessa disciplina fiscale

delle fusioni eterogenee, tra società di capitali ed enti non commerciali, sia per quanto

riguarda le imposte sui redditi che le imposte indirette.

Premessa: la fusione eterogenea nella normativa civilistica

Prima della riforma del diritto societario di cui al D.Lgs. 6/2003, si riteneva che l’operazione di fusione

fosse consentita solo in ambito societario, nel senso che i partecipanti a tale operazione dovessero

rivestire unicamente la forma di società. Tale interpretazione derivava, in primo luogo, dal tenore

letterale degli articoli 2501 e ss., cod. civ. in cui viene fatto (tuttora) riferimento unicamente alla “fusione

di società”.

In secondo luogo, considerando che la fusione tra società e altri enti associativi implica, nella

sostanza, anche un’operazione di “trasformazione”, si sarebbe potuto aggirare il divieto di

trasformazione “eterogenea” che si riteneva sussistere nella disciplina civilistica previgente alla

riforma societaria del 2003.

Alla luce delle significative modifiche apportate dalla riforma all’istituto della trasformazione, con

ammissibilità della c.d. trasformazione eterogenea, da società di capitali in enti associativi diversi

(articolo 2500-septies, cod. civ.) e da enti associativi diversi in società di capitali (articolo 2500-octies,

cod. civ.), le obiezioni alla liceità della fusione a cui partecipano enti non societari sono state superate.

Infatti, se è possibile la modifica della causa societaria o associativa attraverso il nuovo istituto della

trasformazione, deve ritenersi altresì possibile tale modifica anche nell’ambito di una fusione.

Come chiarito dal Consiglio Notarile di Milano, con la Massima n. 52 del 19 novembre 2004

(“Combinazione dei procedimenti di fusione e di trasformazione eterogenea”), ogni volta che a una

Tributi e accertamento fiscale

8 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

fusione partecipa un soggetto avente forma diversa da quella del soggetto risultante dalla operazione,

ciò implica la sua trasformazione.

Dunque si avrà una preliminare trasformazione dell’entità da fondere o incorporare, nel rispetto dei

limiti previsti dalla disciplina civilistica della trasformazione, e successivamente si procederà alla

fusione.

Così, ad esempio, se una società per azioni intende incorporare un’associazione, sarà necessario

procedere alla trasformazione dell’associazione e successivamente dar luogo alla fusione tra le due

società per azioni.

Ciò premesso, nell’ambito civilistico della classificazione dei vari tipi di fusione, sulla base della natura

dei soggetti partecipanti, si distingue tra fusioni “omogenee” e fusioni “eterogenee”.

La fusione omogenea interviene tra società dello stesso tipo (ad esempio tra società di capitali), mentre

la fusione eterogenea interviene sia tra società di tipo diverso, sia tra società ed enti di tipo diverso.

La categoria delle fusioni eterogenee può essere ulteriormente distinta in 3 sottogruppi1:

1. fusioni cui partecipano società costituite secondo tipi diversi (ovvero tra società di capitali e società

di persone);

2. fusioni a cui partecipano società caratterizzate da una diversa “causa” (ovvero tra società lucrative,

società consortili, società cooperative);

3. fusioni cui partecipano, insieme a società, enti diversi dalle stesse (ad esempio società di capitali e

fondazioni).

L’ammissibilità di fusioni appartenenti al primo gruppo, di cui peraltro in passato non si dubitava, ha

trovato conferma nell'articolo 2501-sexies, penultimo comma, cod. civ. (previsione della redazione della

relazione di stima ex articolo 2343, cod. civ. in ipotesi di fusione cui partecipino società di persone) e

nell'articolo 2504-bis, ultimo comma, cod. civ. (necessità del consenso dei creditori ai fini della

liberazione dei soci dalla responsabilità illimitata cui fossero in precedenza soggetti).

L’ammissibilità di fusioni relative al secondo gruppo, pur in assenza di esplicita previsione normativa, è

indotta dagli articoli 2545-decies e 2500-septies, cod. civ., che consentono, per il tramite di decisione da

assumersi a maggioranza, il superamento della c.d. “barriera causale”.

Le fusioni facenti parte del terzo gruppo sono ritenute ammissibili alla luce degli articoli 2500-septies

e 2500-octies, cod. civ. che disciplinano le trasformazioni eterogenee.

In analogia con la classificazione prevista in tema di trasformazione, si possono distinguere le fusioni

eterogenee della terza tipologia tra “progressive” e “regressive”.

1 Cfr. Massima n. 52 del 19 novembre 2004 del Consiglio Notarile di Milano.

Tributi e accertamento fiscale

9 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Le fusioni eterogenee “progressive” intervengono allorquando enti diversi dalle società (consorzi,

società consortili, associazioni riconosciute e fondazioni) vengono fusi o incorporati in società di

capitali2.

Si è invece in presenza di fusioni eterogenee “regressive” quando una società di capitali è incorporata

o fusa in un ente diverso dalle società (ad esempio una società per azioni che viene incorporata in una

fondazione).

Il trattamento delle fusioni eterogenee ai fini delle imposte sui redditi

Come è noto, il trattamento delle fusioni nell’ambito delle imposte sui redditi è stabilito dall'articolo

172, Tuir il quale, al comma 1, dispone che "la fusione tra più società non costituisce realizzo né

distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni delle società fuse o incorporate, comprese quelle

relative alle rimanenze e il valore di avviamento".

Il comma 2, stabilisce che “nella determinazione del reddito della società risultante dalla fusione o

incorporante non si tiene conto dell’avanzo o disavanzo iscritto in bilancio per effetto del rapporto di

cambio delle azioni o quote o dell’annullamento delle azioni o quote di alcuna delle società fuse

possedute da altre”.

Infine, il comma 3 prevede che il cambio delle partecipazioni originarie non comporta l’insorgenza di

alcun tipo di reddito in capo ai soci delle società fuse o incorporate, salvo eventuali conguagli in denaro.

Queste disposizioni sanciscono il ben noto “principio di neutralità fiscale” della fusione che caratterizza

sia le società fuse o incorporate, sia le società incorporanti o risultanti dalle fusione, sia i soci delle

società partecipanti.

Il successivo articolo 174, Tuir stabilisce che "le disposizioni degli articoli 172 e 173 valgono, in quanto

applicabili, anche nei casi di fusione e scissione di enti diversi dalle società".

Tuttavia, l’applicazione del principio di neutralità alle fusioni eterogenee deve essere valutato alla

luce del fatto che, come indicato in precedenza, tale tipo di operazione comporta anche una

trasformazione.

La disciplina di neutralità fiscale delle operazioni straordinarie contenuta nel Tuir è, infatti, basata sul

presupposto che le società o gli enti interessati dall'operazione producano reddito d'impresa derivante

dall'esercizio di attività “commerciali”.

2 In analogia con quanto previsto dall’articolo 2545-decies, cod. civ. in tema di trasformazione, è ammissibile anche la fusione o l’incorporazione

di una società cooperativa in società di capitali, a condizione però che si tratti di una società cooperativa a mutualità non prevalente.

Tributi e accertamento fiscale

10 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

In altre parole, il principio di neutralità delle fusioni e delle scissioni, in base al quale il passaggio dei

beni dalle società agli enti risultanti dalle citate operazioni non dà luogo a fenomeni realizzativi, implica

che tale passaggio avvenga nell’ambito del reddito di impresa, in un sistema di rilevazione dei valori

basato sul bilancio.

Mentre per le società commerciali tutti i beni ricadono nel regime del reddito di impresa, gli enti non

commerciali possono svolgere sia attività esclusivamente non commerciale che anche attività

commerciale, purché in via non prevalente, cosicché, in questo secondo caso, il loro patrimonio sarà

caratterizzato da beni relatività ad attività di impresa e da beni estranei all’attività di impresa.

Il principio di neutralità fiscale si renderà, pertanto, applicabile unicamente con riferimento al

patrimonio relativo all’attività di impresa che rimane, post fusione, in tale ambito, mentre per i passaggi

di beni da e in favore dell’attività di impresa si renderanno applicabili le disposizioni di cui all’articolo

171, Tuir dettate in tema di trasformazione tra società di capitali ed enti non commerciali.

Ciò premesso, sarà di seguito illustrato il trattamento ai fini delle imposte sui redditi delle fusioni

eterogenee regressive e progressive.

Società di capitali incorporata in ente non commerciale

Nel caso di fusione eterogenea regressiva, che coinvolge una società di capitali che viene fusa o

incorporata in un ente non commerciale, si dovrà tenere conto delle disposizioni, dettate in tema di

trasformazione, dal primo periodo del comma 1 dell’articolo 171, Tuir. Ciò in quanto, come detto in

precedenza, nel caso di specie si realizza, nell’ambito dell’operazione di fusione, anche una

trasformazione di società commerciale in un ente non commerciale.

La predetta norma stabilisce che i beni della società trasformata si considerano realizzati in base al

valore normale, salvo che non siano confluiti nell’azienda o complesso aziendale dell’ente non

commerciale risultante dalla trasformazione.

Ne consegue che solo per i beni della società di capitali incorporata che confluiscono nel patrimonio

(azienda) relativo all’attività di impresa dell’ente non commerciale incorporante viene mantenuto il

regime di neutralità fiscale.

Dunque, l'operazione di fusione rappresentata non è da considerare "realizzativa", ma beneficia della

neutralità fiscale ex articolo 172, comma 1, Tuir limitatamente a quei beni della società di capitali (beni

in regime di impresa) che, dopo la fusione, confluiscono nell'attività d'impresa dell'ente incorporante.

Detti beni dovranno essere indicati nell'inventario, ai sensi dell'articolo 144, comma 3, Tuir.

Tributi e accertamento fiscale

11 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Invece, i beni della società di capitali che, post fusione, vengono acquisiti al patrimonio “non

commerciale” (istituzionale) dell’ente incorporante, si considerano realizzati a valore normale, in

analogia a quanto disposto dall'articolo 171, comma 1, Tuir in materia di trasformazione, generando

plusvalenze ai sensi dell’articolo 86, comma 1, lettera c), Tuir per le ipotesi di destinazione di beni per

finalità estranee all’esercizio dell’attività d’impresa.

Va da sé che se l’ente incorporante non svolge, post fusione, alcuna attività commerciale tutti i beni

della società incorporata saranno da considerare realizzati a valore normale.

Ulteriore questione si pone con riguardo alla sorte delle riserve presenti nel patrimonio della società di

capitali che viene incorporata nell’ente non commerciale.

Mentre le riserve di capitale (costituite da apporti dei soci) non subiranno alcuna tassazione in sede di

fusione, quelle di utili, in analogia con quanto previsto dal secondo periodo del comma 1 dell’articolo

171, Tuir, subiranno il seguente trattamento fiscale:

− se post fusione vengono iscritte nel bilancio dell’ente non commerciale con l’indicazione della loro

origine, si considerano distribuite ai soci o associati (e dunque tassate in capo agli stessi come dividendi)

nel periodo di imposta in cui avrà luogo l’effettiva distribuzione (o l’utilizzo per scopi diversi dalla

copertura di perdite di esercizio);

− se non vengono iscritte nel bilancio dell’ente post fusione con l’indicazione della loro origine, si

considerano distribuite ai soci o associati nel periodo di imposta successivo a quello in cui si è

perferzionata l’operazione di fusione. In tal caso, se si tratta di riserve in sospensione di imposta si

genererà da subito l’ulteriore tassazione in capo alla società incorporata conseguente alla distribuzione

ai soci di tali riserve.

Dunque, la tassazione delle riserve di utili potrà avvenire solo al momento della loro effettiva

distribuzione o utilizzazione per scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio, a condizione che le

stesse vengano inserite in un bilancio con indicazione della loro origine.

Assumerà pertanto fondamentale importanza la presenza di un bilancio dell’ente non commerciale

incorporante che permetta all'Amministrazione finanziaria di controllare le riserve della società formate con

utili prima dell'operazione straordinaria e che non hanno ancora scontato la tassazione in capo ai soci.

Nell’applicare dette disposizioni, previste per le trasformazioni, al caso della fusione, si deve tuttavia

ritenere che (ferma restando, in capo alla società incorporata, la tassazione delle riserve in sospensione

non ricostituite) la tassazione quale dividendo non operi per quelle riserve di utili e in sospensione di

imposta che sono annullate in sede di fusione in contropartita con il costo della partecipazione nella

Tributi e accertamento fiscale

12 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

società incorporata. Detta circostanza si verifica se l’ente non commerciale incorporante detiene una

partecipazione nella società di capitali incorporata.

Del resto tale principio dovrebbe valere anche per le trasformazioni in quanto l’articolo 171, Tuir

richiama l’articolo 170, comma 5 e quindi l’utile imponibile per il socio dovrebbe essere comunque

limitato all’eccedenza rispetto al costo della partecipazione3.

In merito al trattamento delle riserve della società di capitali incorporata l’Agenzia delle entrate ha

fornito importanti chiarimenti con la recente risoluzione n. 27/E/2017.

In tale occasione è stato precisato che la possibilità di sospendere la tassazione delle riserve di utili e

in sospensione della società incorporata, fino al momento in cui saranno distribuite o utilizzate per

scopi diversi dalla copertura delle perdite, iscrivendole nel bilancio dell’ente incorporante, è

ammissibile solo quando l’ente incorporante svolga anche un’attività commerciale.

Infatti, solo ricorrendo tale evenienza sarà possibile che le riserve vengano utilizzate per coprire “perdite

d’esercizio”, come previsto dal comma 1, lettera a) dell’articolo 171, Tuir.

Come evidenziato da alcuni autori, sembrerebbe che la preoccupazione dell’Amministrazione finanziaria

sia che le riserve di utili sfuggano del tutto alla loro naturale tassazione poiché gli enti non commerciali,

di norma, non possono distribuire utili neanche in sede di liquidazione4.

Tuttavia la posizione assunta dall’Agenzia nella citata risoluzione appare criticabile in quanto un

ente non commerciale potrebbe comunque subire “perdite d’esercizio”, di natura civilistica,

derivanti dall’attività non commerciale, le quali potrebbero essere coperte con le riserve di utili o

con quelle in sospensione d’imposta ereditate dalla società incorporata (che in tal caso non

sarebbero tassabili).

Resta il fatto che, secondo la risoluzione n. 27/E/2017, l’incorporazione di una società di capitali in un

ente non commerciale che non eserciti alcuna attività commerciale comporterebbe:

− in capo alla società partecipata che viene incorporata, la tassazione di eventuali riserve in sospensione

di imposta;

− in capo all’ente non commerciale che procede con l’incorporazione, la tassazione (come dividendi)

delle riserve di utili e in sospensione di imposta della società incorporata partecipata che, a seguito

della fusione, sono considerate distribuite al socio (ovvero all’ente non commerciale).5

3 In tal senso M. Folli, M. Piazza, “Nella fusione eterogenea vanno tassate le riserve”, in Il Sole 24 Ore dell’8 marzo 2017. 4 Cfr. M. Folli, M. Piazza, op. cit. 5 Si ricorda che se il socio riveste la forma giuridica di ente non commerciale la percentuale di esclusione dal reddito dei dividendi percepiti

risulta pari al 22,26%, anche se la partecipazione è detenuta nell’ambito dell’attività di impresa esercitata dall’ente non commerciale. Cfr.

comma 655 dell’articolo unico della L. 190/2014 (Legge di Stabilità 2015).

Tributi e accertamento fiscale

13 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Ente non commerciale incorporato in società di capitale

Nel caso di fusione eterogenea progressiva, tra un ente non commerciale che viene incorporato in una

società di capitali, si dovrà tenere conto delle disposizioni di cui al comma 2, dell’articolo 171, Tuir.

Secondo tale norma, in caso di trasformazione di un ente non commerciale in una società, i beni dell’ente

si considerano conferiti nella società (sulla base del loro valore normale ai sensi dell’articolo 9, Tuir), salvo

che non siano relativi all’azienda o complesso aziendale esercitato dall’ente non commerciale.

Pertanto, solo per i beni che ante fusione facevano parte del complesso aziendale (utilizzato dall’ente

non commerciale per l’esercizio di attività commerciale) verrà mantenuto il regime di neutralità fiscale.

Invece, per i beni che facevano parte del patrimonio “non commerciale” dell’ente (ovvero quelli relativi

all'attività istituzionale) è previsto il realizzo dei plusvalori latenti, conformemente a quanto stabilito

dall’articolo 9, comma 2, Tuir per le ipotesi di conferimento di beni in società.

In particolare, i plusvalori realizzati dall’ente non commerciale per effetto del “conferimento”

concorrono a formarne il reddito complessivo come redditi diversi ai sensi della lettera n) del comma 1

dell’articolo 67, Tuir6.

Nel caso di incorporazione di ente non commerciale in società di capitali vi è da chiedersi quale sia la

sorte delle riserve presenti nel bilancio dell’ente incorporato, atteso che nella fattispecie di

trasformazione di ente non commerciale in società la normativa tributaria nulla dispone in merito al

trattamento delle voci del patrimonio netto della società che risulta post trasformazione.

Al riguardo, tenuto conto che l'operazione di trasformazione eterogenea progressiva è fiscalmente

equiparata a un conferimento, si ritiene che la riserva della società trasformata debba essere trattata

fiscalmente come una riserva di capitale, in quanto derivante dal passaggio di beni dal patrimonio non

commerciale dell'ente trasformato al patrimonio sempre considerato “commerciale” della società

risultante dalla trasformazione.

Detto trattamento dovrebbe applicarsi anche alle riserve iscritte nel bilancio della società che ha

incorporato un ente non commerciale.

Il trattamento delle fusioni eterogenee ai fini delle imposte indirette

Nell’ambito dell'imposizione indiretta i passaggi di beni a seguito di atti di fusione o di

trasformazione di società e di analoghe operazioni poste in essere da altri enti non sono soggetti

6 Ciò sempre che sussista il presupposto imponibile che ne determina la tassazione, per cui, ad esempio, un fabbricato dell’ente non

commerciale in sede di fusione eterogenea genererà plusvalenza imponibile quale reddito diverso solo se lo stesso risulta posseduto dall’ente

non commerciale da meno di 5 anni.

Tributi e accertamento fiscale

14 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

all’imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell'articolo 2, comma 3, lettera f), D.P.R. 633/1972, bensì

a imposta di registro.

Peraltro, con la risoluzione n. 152/E/2008 l’Agenzia delle entrate ha sostenuto l’inapplicabilità dell’Iva

senza alcuna ulteriore specificazione in merito al trattamento da riservare all’eventuale passaggio di

beni dal patrimonio “commerciale” a quello “istituzionale”, che si può verificare in sede di fusione di

società commerciale in ente non commerciale.

Secondo i principi dell’Iva, infatti, l’esclusione dall’imposta sarebbe applicabile alle ipotesi di

trasformazione eterogenea senza fuoriuscita dei beni dalla sfera commerciale del soggetto sottoposto

a trasformazione7.

Nella fattispecie di fusione eterogenea regressiva che comporti il passaggio di beni della società

commerciale incorporata nel patrimonio “non commerciale” dall’ente incorporante, dovrebbe, invece,

ritenersi integrata l’ipotesi di tassazione per destinazione dei beni a finalità estranee all’impresa ai sensi

articolo 2, comma 2, n. 5), D.P.R. 633/1972.

Infatti, a seguito della fusione il bene esce dalla sfera dell’attività di impresa confluendo in quello “non

commerciale” dell’ente incorporante.

Ne conseguirebbe l’obbligo di assoggettare detti beni a Iva8, con esclusione di quelli per i quali non

fosse stata operata, all’atto dell’acquisto, la detrazione dell’imposta di cui all’articolo 19, D.P.R.

633/1972.9

Per quanto riguarda l’imposta di registro ci si chiede se nell’ambito delle fusioni eterogenee detta

imposta si applichi in misura fissa, come per le fusioni tra società, oppure in misura proporzionale.

Con la citata risoluzione n. 152/E/2008 l’Agenzia delle entrate ha chiarito che ai sensi dell'articolo 4,

comma 1, lettera b) della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 131/1986 l'applicazione alle operazioni di

fusione dell'imposta in misura fissa è subordinata alla condizione che le stesse avvengano tra società

o enti "aventi per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciale o agricola".

7 Si veda Istituto di Ricerca dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, Documento n. 3, “La trasformazione eterogenea: profili civilistici,

contabili e fiscali”, ottobre 2009. La tassazione quale “autoconsumo” è stata chiarita nell’ambito della trasformazione di società commerciale

in società semplice, la quale, se ha per oggetto esclusivo o principale la gestione di beni non svolge attività rilevante ai fini Iva, a norma

dell'articolo 4, comma 2, n. 2), D.P.R. 633/1972 e pertanto, per effetto della trasformazione, viene persa la natura di soggetto passivo ai fini

dell’Iva (cfr. circolare n. 112/E/1999). 8 Per le operazioni prive di corrispettivo la base imponibile è determinata a norma dell’articolo 13, comma 2, D.P.R. 633/1972, il quale, alla

lettera c), prevede che per le operazioni di destinazione dei beni a finalità estranee all’impresa, la base imponibile è rappresentata dal prezzo

di acquisto o, in mancanza, dal prezzo di costo dei beni o di beni simili, determinati nel momento in cui si effettuano dette operazioni. 9 In particolare, non rientrano nel campo di applicazione dell’Iva i beni che:

- sono stati acquistati da privati;

- sono stati conferiti in società da soci non esercenti attività di impresa o comunque che detenevano il bene al di fuori della sfera di impresa;

- acquistati prima del 1° gennaio 1973.

Si tratta di tutti casi in cui il bene è stato acquistato non in regime di Iva, per cui la destinazione dei beni a finalità estranee all’impresa non

costituisce un presupposto per l’assoggettamento a Iva, come chiarito dalla risoluzione n. 194/E/2002 e dalla circolare n. 112/E/1999.

Tributi e accertamento fiscale

15 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Il periodo introduttivo dell’articolo 4 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 131/1986, con il quale viene

individuato l’ambito di applicazione dell’articolo 4 medesimo, stabilisce infatti che quest’ultimo ha per

oggetto gli “atti propri delle società di qualunque tipo ed oggetto e degli enti diversi dalle società, compresi

i consorzi, le associazioni e le altre organizzazioni di persone o di beni, con o senza personalità giuridica,

aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali o agricole”.

Nel caso di fusione eterogenea, invece, partecipa all’operazione anche un ente non commerciale, per il

quale l'attività commerciale non può mai essere considerata come oggetto esclusivo o principale

dell'attività d'impresa.

Ne consegue, secondo la risoluzione n. 152/E/2008, che l'imposta di registro deve essere applicata nella

misura proporzionale del 3%, così come dispone l'articolo 9, della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R.

131/1986.

Tale conclusione è stata tuttavia criticata da autorevole dottrina10 la quale, pur evidenziando l’esclusione

nel caso di specie della disciplina delle fusioni tra società, ha evidenziato che, tenuto conto che la fusione

è un’operazione che attiene alla sfera soggettiva delle entità che vi partecipano e non invece alla sfera

oggettiva dei relativi patrimoni, pare non condivisibile l’aprioristica individuazione in tali atti di un

contenuto patrimoniale idoneo a determinare la tassazione ai fini dell’imposta di registro con aliquota

proporzionale al 3%, ai sensi dell’articolo 9 della Tariffa, Parte I, allegata al D.P.R. 131/1986.

Secondo detta dottrina parrebbe più appropriato applicare l’articolo 11 della Tariffa, Parte I, allegata al

D.P.R. 131/1986 che prevede la misura fissa per gli atti pubblici e scritture private autenticate non

aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale.

Ciò salvo il caso in cui risultino previsti conguagli in denaro, per i quali si applicherebbe, limitatamente

al loro ammontare, l’imposta proporzionale.

Per quanto riguarda le imposte ipotecarie e catastali, queste sconterebbero, in presenza ovviamente di

beni immobili, in ogni caso la misura fissa, secondo quanto precisato dalla risoluzione n. 162/E/2008.

Ciò anche se i soggetti che partecipano alla fusione sono enti diversi dalle società che non hanno per

oggetto principale o esclusivo l’esercizio di attività commerciale.

In particolare, la misura fissa per quanto riguarda l’imposta ipotecaria è stabilita dall’articolo 4 della

Tariffa allegata al D.Lgs. 347/1990, mentre per l’imposta catastale, dall’articolo 10, comma 2, D.Lgs.

347/1990.

10 Cfr. E. Zanetti, “Aspetti fiscali delle fusioni eterogenee”, in Il Fisco n. 41/2009, pag. 16765.

Tributi e accertamento fiscale

16 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Trattamento Iva dell’assegnazione

agevolata di immobili ai soci di Marco Peirolo - dottore commercialista, revisore legale e componente del Fiscal Committee della

Confédération Fiscale Européenne

La L. 232/2016 (Legge di Bilancio 2017) ha prorogato al 30 settembre 2017 i termini per

avvalersi della disciplina di cui all’articolo 1, commi 115-120, della L. 208/2015 (Legge di

Stabilità 2016), riguardante le assegnazioni e le cessioni agevolate dei beni ai soci, nonché

la trasformazione da società commerciale in società semplice.

Nel presente intervento, dopo avere riepilogato le particolarità che contraddistinguono, dal

punto di vista dell’Iva, le assegnazioni di immobili ai soci, si forniscono alcuni esempi sul

trattamento impositivo applicabile a tali operazioni, distinguendo a seconda della tipologia

di immobile (strumentale o abitativo).

L’assegnazione di beni ai soci, al pari dell’esclusione da parte dell’imprenditore individuale di

immobili strumentali dal patrimonio dell’impresa, realizza un’ipotesi di destinazione a finalità

estranee all’esercizio dell’impresa, che si considera equiparata a una cessione di beni a titolo

oneroso ai sensi dell’articolo 16, comma 1, Direttiva 2006/112/CE, secondo cui “è assimilato a una

cessione di beni a titolo oneroso il prelievo di un bene dalla propria impresa da parte di un soggetto

passivo il quale lo destina al proprio uso privato o all’uso del suo personale, lo trasferisce a titolo

gratuito o, più generalmente, lo destina a fini estranei alla sua impresa, quando detto bene o gli

elementi che lo compongono hanno dato diritto ad una detrazione totale o parziale dell’Iva”.

La norma in esame, come completata dalla previsione dell’articolo 18, lettera c), della stessa Direttiva,

che offre agli Stati membri la possibilità di assimilare a una cessione di beni effettuata a titolo oneroso

“il possesso di beni da parte di un soggetto passivo o dei suoi aventi causa in caso di cessazione della sua

attività economica imponibile, quando detti beni hanno dato diritto ad una detrazione totale o parziale

dell’IVA al momento dell’acquisto …”, è stata recepita dal Legislatore nazionale nell’articolo 2, comma 2,

n. 5) e 6), D.P.R. 633/1972. È previsto, in particolare, che costituiscono cessioni di beni, rispettivamente,

“la destinazione di beni all’uso o al consumo personale o familiare dell’imprenditore o di coloro i quali

esercitano un’arte o una professione o ad altre finalità estranee alla impresa o all’esercizio dell’arte o della

professione, anche se determinata da cessazione dell’attività, con esclusione di quei beni per i quali non è

Tributi e accertamento fiscale

17 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

stata operata, all’atto dell’acquisto, la detrazione dell’imposta di cui all’articolo 19” (articolo 2, comma 2, n.

5) e “le assegnazioni ai soci fatte a qualsiasi titolo da società di ogni tipo e oggetto nonché le assegnazioni

e le analoghe operazioni fatte da altri enti privati o pubblici, compresi i consorzi e le associazioni o altre

organizzazioni senza personalità giuridica” (articolo 2,comma 2, n. 6).

Condizione di detraibilità dell’imposta in sede di acquisto

La qualificazione dell’assegnazione di beni come un’ipotesi di destinazione a finalità estranee

all’esercizio dell’impresa è di fondamentale importanza ai fini della verifica del presupposto oggettivo

dell’imposta, in quanto il n. 6) del secondo comma dell’articolo 2, D.P.R. 633/1972 non ripropone, per

l’assegnazione, la condizione di detraibilità dell’imposta “a monte” prevista, per l’estromissione, dal n.

5) dello stesso secondo comma dell’articolo 2.

Sul punto, la circolare n. 26/E/2016 ha confermato che, alla luce della corrispondente

disposizione comunitaria, come interpretata dalla Corte di Giustizia1, l’assegnazione di beni ai soci

realizza un’ipotesi di destinazione a finalità estranee all’esercizio d’impresa, sicché a essa sono

applicabili le disposizioni in materia di autoconsumo contenute nel citato articolo 2, comma 2, n.

5), D.P.R. 633/1972, laddove stabiliscono la non applicazione dell’Iva per “quei beni per i quali non

è stata operata, all’atto dell’acquisto, la detrazione dell’imposta …”. In pratica, nei casi in cui tali beni

non abbiano consentito la detrazione in ragione del loro acquisto presso un soggetto “privato”,

ovvero poiché l’acquisto è avvenuto prima dell’introduzione dell’Iva nell’ordinamento interno (1°

gennaio 1973), nonché dei casi in cui i beni sono acquistati o importati senza il diritto alla

detrazione, neanche parziale, della relativa imposta, ai sensi degli articoli 19, 19-bis1 e 19-bis2,

D.P.R. 633/1972, l’assegnazione o l’estromissione non configura un’operazione rilevante ai fini

dell’imposta.

Il principio esposto, che si pone in linea con il consolidato orientamento della prassi amministrativa2,

trova applicazione anche nel caso di acquisto dell’immobile senza applicazione dell’imposta al quale

abbiano fatto seguito interventi di riparazione e di recupero edilizio per i quali, invece, si sia provveduto

alla detrazione della relativa imposta. Nell’ipotesi considerata, infatti, la fuoriuscita del bene dalla sfera

giuridica ed economica del soggetto passivo non dà luogo ad una operazione rilevante ai fini dell’Iva,

per cui il cambio di destinazione del bene implica l’obbligo di rettificare la detrazione dell’imposta

1 Cfr. sentenza cause riunite C-322/99 e C-323/99 del 17 maggio 2001,, Fischer e Brandenstein. 2 Cfr. circolare n. 40/E/2002 (§ 1.4.11) e, più recentemente, risoluzioni n. 194/E/2002 e n. 191/E/2009.

Tributi e accertamento fiscale

18 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

assolta per le suddette spese, qualora le stesse siano incrementative del valore dell’immobile e non

abbiano esaurito la loro utilità all’atto dell’assegnazione3.

In definitiva, rilevano, agli effetti dell’imposta, tutte le assegnazioni di beni per le quali l’operatore

abbia detratto, integralmente o parzialmente, l’Iva addebitata in sede di rivalsa al momento

dell’acquisto, dell’importazione o dell’effettuazione degli interventi di riparazione e di recupero

edilizio. Viceversa, sono esclusi dall’ambito applicativo del tributo le fattispecie di assegnazione

in relazione alle quali la detrazione non è stata operata.

Determinazione della base imponibile

La qualificazione dell’assegnazione di beni come un’ipotesi di destinazione a finalità estranee

all’esercizio dell’impresa implica che a essa si applichino le stesse disposizioni che regolano, agli effetti

dell’Iva, la determinazione della base imponibile e la rettifica della detrazione.

Il riferimento normativo è rappresentato dall’articolo 74, Direttiva 2006/112/CE, secondo cui, “per le

operazioni di prelievo o di destinazione da parte di un soggetto passivo di un bene della propria impresa o di

detenzione di beni da parte di un soggetto passivo o da parte dei suoi aventi diritto in caso di cessazione della

sua attività economica imponibile, contemplate agli articoli 16 e 18, la base imponibile è costituita dal prezzo

di acquisto dei beni o di beni simili, o, in mancanza del prezzo di acquisto, dal prezzo di costo, determinati nel

momento in cui si effettuano tali operazioni”. Nella disciplina nazionale, il criterio di determinazione della

base imponibile applicabile nelle ipotesi in considerazione è quello previsto dall’articolo 13, comma 2,

lettera c), D.P.R. 633/1972, nel testo riformulato dalla L. 88/2009 (Comunitaria 2008), che dà rilevanza, in

linea con la corrispondente disposizione comunitaria, “al prezzo di acquisto o, in mancanza, al prezzo di

costo dei beni o di beni simili, determinati nel momento in cui si effettuano tali operazioni …”.

Fermo, quindi, restando che non trova applicazione in ambito Iva la disposizione contenuta nel regime

agevolativo introdotto dalla Legge di Stabilità 2016 che consente di determinare la base imponibile

delle assegnazioni in funzione del valore catastale dell’immobile, la circolare n. 26/E/2016 ha chiarito,

coerentemente all’elaborazione della giurisprudenza comunitaria, che il criterio del prezzo di acquisto

o di costo, in sostituzione di quello del “valore normale”, di cui all’articolo 14, D.P.R. 633/1972, implica

che la base imponibile dell’assegnazione non comprenda il “ricarico” normalmente praticato sul

mercato per quel bene, bensì sia costituita dal prezzo di acquisto del bene “attualizzato” al momento

della fuoriuscita dalla sfera economica e giuridica del soggetto passivo.

3 Cfr. circolare n. 40/E/2002 (§ 1.4.11), cit. e risoluzione n. 194/E/2002, cit..

Tributi e accertamento fiscale

19 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Nello specifico, ripercorrendo le indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia, il prezzo di acquisto

del bene è dato dal suo valore residuo al momento della destinazione estranea all’impresa, che

tiene quindi conto dell’evoluzione del valore del bene tra la data dell’acquisto e quella della

destinazione estranea all’attività, cioè dell’eventuale deprezzamento o apprezzamento

intervenuto rispetto alla data di acquisto4.

Tenuto conto che l’articolo 74 della Direttiva n. 2006/112/CE, a differenza del citato articolo 13, comma

2, lettera c), D.P.R. 633/1972, dà rilevanza al prezzo di acquisto dei beni simili, anziché al prezzo di costo

dei beni simili, i giudici comunitari hanno affermato che il prezzo di costo può essere preso in

considerazione per determinare la base imponibile solo in mancanza del prezzo di acquisto del bene o

di un bene simile5. Nel caso, quindi, dell’immobile che il soggetto passivo non ha acquistato ma

costruito, se esiste un bene simile sul mercato, la base imponibile dell’Iva dovuta in sede di

assegnazione/estromissione è costituita dal prezzo di acquisto, al momento di tale destinazione, di un

immobile simile, vale a dire “la cui situazione, dimensione e altre caratteristiche essenziali siano simili a

quelle dell’immobile di cui trattasi”.

Riguardo, invece, al criterio del prezzo di costo, la Corte ha stabilito che, per prezzo di costo, s’intende

il prezzo di mercato di un bene simile, tenuto conto dei costi di trasformazione di tale bene6.

Tenendo conto delle indicazioni giurisprudenziali richiamate, la circolare n. 26/E/2016 ha precisato che,

ai fini della determinazione della base imponibile, il prezzo di acquisto non può essere limitato

all’importo pagato per acquistare il bene, ma deve comprendere anche tutte le spese sostenute per

riparare e completare il bene stesso durante la sua vita aziendale (sempreché si tratti di spese relative

ad acquisti di beni e servizi in relazione ai quali sia stata applicata l’imposta e sia stata operata la

detrazione della medesima), tenendosi, comunque, conto, anche con riferimento a queste, del

deprezzamento che il bene ha subìto nel tempo.

Restando, tuttavia, da chiarire le modalità che in concreto devono essere adottate per determinare il

deprezzamento, nella successiva circolare n. 37/E/2016, l’Agenzia delle entrate ha specificato che “tale

diminuzione di valore rilevante nel calcolo del valore residuo del bene stesso, nel periodo compreso tra la

data di acquisto e quella di assegnazione, dovrà essere calcolata di volta in volta tenendo conto delle variabili

rilevanti (variazioni significative con effetto negativo sul piano tecnologico, di mercato, economico o

normativo, obsolescenza, o deterioramento fisico per gli immobili, anche in dipendenza del grado di vetustà

4 Cfr. sentenza causa C-142/12, 8 maggio 2013, Marinov e sentenza cause C-322/99 e C-323/99, 17 maggio 2001, cit. 5 Cfr. sentenza, causa C-16/14, 23 aprile 2015, Property Development Company. 6 Cfr. Corte di Giustizia, causa C-299/11, 8 novembre 2012, Gemeente Vlaardingen.

Tributi e accertamento fiscale

20 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

etc.) in base alla tipologia di bene, non essendo possibile fornire delle indicazioni definitive e univoche su un

oggettivo fattore decrementativo suscettibile di applicazione generale”.

Lo stesso criterio, ha precisato l’Agenzia delle entrate nella circolare n. 26/E/2016, deve ritenersi

applicabile nelle ipotesi di assegnazione di beni detenuti in forza di un contratto di leasing per i

quali sia stata esercitata l’opzione di acquisto. Anche in tali casi, il valore dei beni deve

corrispondere al valore residuo degli stessi al momento del prelievo, in modo tale che si tenga

conto, come precedentemente indicato, dell’evoluzione del valore dei beni tra la data della loro

acquisizione e quella della loro assegnazione. Per effetto di tale impostazione, l’assegnazione

dopo il riscatto assume rilevanza, ai fini Iva, non già in funzione del solo prezzo di riscatto, ma di

un valore che, oltre gli apprezzamenti e deprezzamenti, va calcolato tenendo conto anche dei

canoni di leasing pagati prima dell’esercizio del riscatto.

Rettifica della detrazione

Tenuto conto che, ai sensi dell’articolo 19-bis2, comma 8, D.P.R. 633/1972, i fabbricati o porzioni

di fabbricati sono comunque considerati beni ammortizzabili e che, per essi, il periodo di

“osservazione fiscale” è pari a 10 anni, l’obbligo di operare la rettifica dell’Iva detratta al momento

dell’acquisto, con riversamento dell’imposta in un’unica soluzione, per tanti quinti o tanti decimi

quanti sono gli anni mancanti al compimento del periodo quinquennale o decennale di rettifica,

dipende naturalmente dal regime impositivo con il quale i beni ammortizzabili sono assegnati.

La rettifica della detrazione, secondo la procedura dell’articolo 19-bis2, D.P.R. 633/1972, deve essere

operata anche in relazione agli interventi di riparazione e di recupero edilizio relativi agli immobili

acquistati senza esercitare la detrazione, purché si tratti di interventi aventi natura incrementativa del

valore dell’immobile e non abbiano esaurito la loro utilità. A tale proposito, la circolare n. 37/E/2016

ha chiarito che la rettifica della detrazione deve essere effettuata non solo per le assegnazioni in regime

di esenzione, ma anche per quelle “fuori campo Iva”, in quest'ultimo caso limitatamente all’imposta

assolta sugli eventuali interventi incrementativi (che non abbiano esaurito la loro utilità) operati

sull’immobile nel corso del periodo decennale di “tutela fiscale”, dato che lo stesso è stato acquistato

senza esercitare la detrazione. Costituiscono, in particolare, operazioni “fuori campo Iva” sia le

assegnazioni di beni per i quali la detrazione dell’Iva non è avvenuta in ragione del loro acquisto presso

un soggetto “privato”, ovvero poiché l’acquisto è avvenuto prima dell’introduzione del tributo

Tributi e accertamento fiscale

21 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

nell’ordinamento interno, sia le assegnazioni di beni per i quali non è stata detratta integralmente

l’imposta ai sensi degli articoli 19, 19-bis1 e 19-bis2, D.P.R. 633/1972.

La circolare n. 26/E/2016 ha ulteriormente precisato che, in caso di assegnazione di immobili

acquisiti mediante contratto di leasing per i quali sia stata esercitata l’opzione d’acquisto, ai fini

del computo del periodo decennale di rettifica della detrazione occorre, di regola, fare riferimento

alla data di esercizio del diritto di acquisto del bene da parte dell’utilizzatore, essendo da tale

momento che, a norma del citato articolo 19-bis2, comma 8, D.P.R. 633/1972, decorre il periodo

decennale di “tutela fiscale”.

Esemplificazioni

Di seguito, si propongono alcuni esempi pratici riguardanti il trattamento Iva delle assegnazioni di

immobili ai soci.

Assegnazione di immobili strumentali

In base all’articolo 10, comma 1, n. 8-ter), D.P.R. 633/1972, le cessioni di fabbricati strumentali sono

esenti da Iva a eccezione delle cessioni:

− effettuate dalle imprese costruttrici o di ripristino degli stessi, entro cinque anni dalla data di

ultimazione della costruzione o dell’intervento;

− per le quali nel relativo atto il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione.

In sostanza, le cessioni di fabbricati strumentali per natura, imponibili per obbligo di legge, sono solo

quelle poste in essere dall’impresa che li ha costruiti o recuperati entro cinque anni dall’ultimazione

dei lavori. In tutti gli altri casi, le cessioni di immobili strumentali sono esenti da Iva, fermo restando il

diritto del soggetto cedente di optare per l’imponibilità nell’atto di cessione.

Le cessioni di fabbricati strumentali imponibili (per obbligo di legge o su opzione) sono assoggettate a

Iva con applicazione dell’aliquota nella misura ordinaria (attualmente pari al 22%) o, in particolari

ipotesi, nella misura del 10%7.

La disciplina esposta, per quanto precedentemente rilevato, si applica anche in caso di assegnazione di

immobili strumentali, che a loro volta possono essere ammortizzabili o meno.

Occorre prestare particolare attenzione nell’ipotesi in cui l’assegnazione avvenga in regime di

esenzione da Iva ai sensi del citato articolo 10, comma 1, n. 8-ter), D.P.R. 633/1972, nel qual caso è

necessario distinguere a seconda che l’immobile assegnato sia ammortizzabile o meno. In particolare:

7 Si vedano, per esempio, i nn. 127-undecies) e 127-quinquiesdecies) della Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. 633/1972.

Tributi e accertamento fiscale

22 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

− l’assegnazione dell’immobile strumentale ammortizzabile non rileva ai fini del calcolo del

volume d’affari (articolo 20, comma 2, D.P.R. 633/1972) e, quindi, non concorre neppure alla

determinazione del pro rata di detrazione (articolo 19-bis, comma 2, D.P.R. 633/1972). Se

l’immobile è stato acquistato o costruito nel corso degli ultimi dieci anni occorre operare la

rettifica della detrazione per cambio di destinazione, ex articolo 19-bis2, comma 2, D.P.R.

633/1972, riversando all’Erario i decimi mancanti al compimento del periodo di “tutela fiscale”;

− l’assegnazione dell’immobile strumentale non ammortizzabile incide sul calcolo della

percentuale di detrazione dell’anno di effettuazione dell’operazione ed, inoltre, trova

applicazione la rettifica della detrazione per variazione del pro rata, di cui all’articolo 19-bis2,

comma 4, D.P.R. 633/1972, che ha carattere obbligatorio in caso di variazione della percentuale

di detrazione superiore a dieci punti rispetto a quella applicata nell’anno di acquisto o nell’anno

in cui l’imposta è stata detratta inizialmente. Tale rettifica è operata, in un’unica soluzione, per

gli anni mancanti al compimento del periodo decennale di “osservazione fiscale”.

Infine, potrebbe accadere che l’assegnazione sia “fuori campo Iva”. Tale ipotesi, come in precedenza

ricordato, ricorre quando l’immobile che fuoriesce dalla sfera giuridica ed economica del soggetto

passivo non ha dato luogo all’esercizio della detrazione, in ragione del suo acquisto presso un soggetto

“privato”, ovvero poiché l’acquisto è avvenuto prima dell’introduzione del tributo nell’ordinamento

interno o, ancora, quando l’imposta non sia stata detratta integralmente ai sensi degli articoli 19, 19-

bis1 e 19-bis2, D.P.R. 633/1972.

L’assegnazione “fuori campo Iva” non incide sul pro rata di detrazione, in quanto l’operazione è

irrilevante ai fini impositivi e, quindi, non concorre alla determinazione del volume d’affari. La

rettifica della detrazione, invece, opera limitatamente all’imposta assolta sugli eventuali

interventi incrementativi (che non abbiano esaurito la loro utilità) operati sull’immobile nel corso

del periodo decennale di “tutela fiscale”, dato che lo stesso è stato acquistato senza esercitare la

detrazione.

Le condizioni che escludono dal campo di applicazione dell’Iva le assegnazioni da ultimo considerate

sono “assorbenti” del regime di esenzione previsto dall’articolo 10, comma 1, n. 27-quinquies), D.P.R.

633/1972, che fa riferimento alle “cessioni che hanno per oggetto beni acquistati o importati senza il diritto

alla detrazione totale della relativa imposta ai sensi degli articoli 19, 19-bis1 e 19-bis2”, anch’esso irrilevanti

ai fini del calcolo del pro rata di detrazione.

Tributi e accertamento fiscale

23 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

È il caso di osservare, al riguardo, che sia la formulazione della normativa comunitaria che quella

della normativa interna fanno espresso riferimento alle ipotesi di indetraibilità derivanti da

ragioni di natura soggettiva, riferite cioè a soggetti i quali, svolgendo esclusivamente attività

esenti, non acquisiscono il diritto alla detrazione, o da ragioni di natura oggettiva, riferite cioè a

particolari categorie di beni per i quali è previsto uno specifico regime di indetraibilità ai sensi

dell’articolo 19-bis1 (aeromobili, navi e imbarcazioni da diporto, etc.). Ciò non consente di

estendere la previsione esentativa anche alle cessioni di quei beni per i quali la detrazione non è

stata esercitata perché non si è subita la rivalsa dell’imposta; condizione questa che può

verificarsi, a titolo di esempio, qualora l’acquisto dell’immobile è stato effettuato presso un

“privato”, che in quanto tale non ha il potere di esercitare la rivalsa, così come quando l’acquisto

immobiliare è stato effettuato presso un soggetto passivo che non ha applicato l’imposta8.

Assegnazione di immobili abitativi

In base all’articolo 10, comma 1, n. 8-bis), D.P.R. 633/1972, le cessioni di fabbricati diversi da quelli

strumentali sono soggette al regime “naturale” di esenzione da Iva, a eccezione delle:

− cessioni effettuate dalle imprese costruttrici o di ripristino degli stessi entro cinque anni

dall’ultimazione della costruzione o dell’intervento;

− cessioni poste in essere dalle stesse imprese anche successivamente, nel caso in cui nel relativo atto

il cedente abbia espressamente manifestato l’opzione per l’imposizione;

− cessioni di fabbricati abitativi destinati ad alloggi sociali per le quali nel relativo atto il cedente abbia

manifestato espressamente l’opzione per l’imposizione.

In sostanza, l’opzione per l’imponibilità è soggettivamente limitata alle sole imprese costruttrici o

attuatrici degli interventi di recupero specificamente richiamati dalla disposizione. Pertanto, le cessioni

di fabbricati abitativi effettuate da operatori economici diversi restano esenti da Iva.

La disciplina esposta, per quanto precedentemente rilevato, si applica anche in caso di

assegnazione di immobili abitativi, per cui occorre prestare particolare attenzione nell’ipotesi in

cui l’assegnazione avvenga in regime di esenzione da Iva ai sensi del citato articolo 10, comma 1,

n. 8-bis), D.P.R. 633/1972. Se, in particolare, a essere assegnato è un immobile abitativo “merce”

(cioè acquistato o costruito per la rivendita) o “patrimonio” (cioè acquistato o costruito per essere

tenuto a disposizione o per essere locato), l’assegnazione incide sul calcolo della percentuale di

8 Cfr. risoluzione n. 194/E/2002.

Tributi e accertamento fiscale

24 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

detrazione dell’anno di effettuazione dell’operazione ed, inoltre, trova applicazione la rettifica

della detrazione per variazione del pro rata, di cui all’articolo 19-bis2, comma 4, D.P.R. 633/1972,

che ha carattere obbligatorio in caso di variazione della percentuale di detrazione superiore a

dieci punti rispetto a quella applicata nell’anno di acquisto o nell’anno in cui l’imposta è stata

detratta inizialmente. Tale rettifica è operata, in un’unica soluzione, per gli anni mancanti al

compimento del periodo decennale di “osservazione fiscale”.

Infine, nell’ipotesi in cui l’assegnazione sia “fuori campo Iva”, valgono le stesse considerazioni esposte

in merito al caso in cui l’immobile oggetto di assegnazione sia strumentale.

Conseguentemente, l’assegnazione “fuori campo Iva” non incide sul pro rata di detrazione, in

quanto l’operazione è irrilevante ai fini impositivi e, quindi, non concorre alla determinazione del

volume d’affari. La rettifica della detrazione, invece, opera limitatamente all’imposta assolta sugli

eventuali interventi incrementativi (che non abbiano esaurito la loro utilità) operati sull’immobile

nel corso del periodo decennale di “tutela fiscale”.

Prassi contabile

25 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Riflessi fiscali della “cancellazione”

della sezione straordinaria del Conto

economico di Fabio Landuzzi - dottore commercialista, revisore legale

Il nuovo schema di bilancio novellato dal D.Lgs. 139/2015 prevede, come noto,

l’eliminazione dell’area del Conto economico che era deputata ad accogliere i componenti

economici “straordinari”. Il nuovo Principio contabile Oic 12 rimanda al redattore del

bilancio l’individuazione della nuova corretta classificazione di tali componenti economici,

sulla base di un’analisi di volta in volta riferita alla tipologia di evento che ha generato il

costo o il ricavo, proponendo in una tavola la ricollocazione di alcune delle fattispecie più

ricorrenti di operazioni che, nel precedente assetto bilancistico, producevano componenti

“straordinari”. Il Legislatore fiscale, con il Decreto Milleproroghe1, è intervenuto con l’intento

di regolamentare l’impatto fiscale di questa novità civilistica, e lo ha fatto scegliendo una

modalità molto selettiva ispirata al principio generale della “derivazione rafforzata”: in

pratica, si è previsto che ogniqualvolta le norme fiscali si riferiscono ai componenti

economici di cui alle lettere A) e B) dello schema di Conto economico, le stesse sono da

intendere al netto dei soli componenti derivanti dalle operazioni di trasferimento di azienda

e di rami di azienda. Nella pratica, però, sono diverse le implicazioni indotte da questa

modifica dello schema di Conto economico, e in questo contributo cercheremo di cogliere

quelle a prima vista più significative.

L’eliminazione dell’area “straordinaria” del Conto economico: prime implicazioni

bilancistiche

Fra le principali modifiche apportate dal D.Lgs. 139/2015 agli schemi del bilancio, come già

ampiamente osservato e commentato dalla dottrina, vi è la soppressione dell’area “straordinaria” del

Conto economico. A tale modifica ha, quindi, necessariamente fatto seguito la riscrittura del Principio

contabile Oic 122 al fine di disciplinare la ricollocazione di oneri e proventi straordinari nelle

appropriate voci di costo e di ricavo.

1 D.L. 244/2016, e Legge di conversione 19/2017, pubblicata in GU n. 49 del 28 febbraio 2017. 2 Intitolato “Composizione e schemi del bilancio d’esercizio”.

Prassi contabile

26 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Tuttavia, prendendo atto dell’impossibilità di identificare ex ante e univocamente le voci di destinazione

delle diverse possibili transazioni che generavano nel passato componenti “straordinarie”, l’Oic ha

preferito demandare al redattore del bilancio l’analisi della tipologia di evento che genera il costo o il

ricavo e, sulla base degli esiti di tale analisi, individuare la più adeguata classificazione nelle attuali

voci del Conto economico. In questo contesto, l’Oic 12 propone comunque una tabella di raccordo fra

la vecchia versione del documento3 e quella novellata post D.Lgs. 139/2015: in questa tabella si trovano,

quindi, già alcune precise indicazioni riguardo alla collocazione di costi e ricavi che, nella precedente

disciplina, erano classificati nella sezione straordinaria del Conto economico, e che invece ora devono

necessariamente essere riclassificate nelle altre voci dello schema di bilancio.

L’intervento del Legislatore fiscale con il D.L. 244/2016 (Decreto Milleproroghe)

La cancellazione della sezione straordinaria del Conto economico non poteva chiaramente lasciare

intatto il preesistente impianto normativo tributario in quanto sono molteplici e diffuse le disposizioni

di carattere fiscale che rinviano o assumono come riferimento le voci del Conto economico civilistico.

La scelta operata dal Legislatore fiscale, espressa con le disposizioni contenute nel Decreto

Milleproroghe4, si può sintetizzare in modo sistematico nei concetti qui di seguito riportati.

Principio generale5

Si afferma, mediante la modifica dell’articolo 83, comma 1, Tuir, il principio di “derivazione rafforzata” del

reddito imponibile ai fini dell’Ires rispetto al Conto economico civilistico per tutti i soggetti, diversi dalle

micro-imprese di cui all’articolo 2435-ter, cod. civ., che redigono il bilancio in conformità alle disposizioni

del codice civile. Per tali soggetti, quindi, e per quanto strettamente interessa ai fini del tema qui in

discussione, valgono anche ai fini fiscali i “criteri di classificazione” previsti dai rispettivi principi contabili.

Ciò significa che la classificazione del costo e del ricavo compiuta dal redattore del bilancio secondo la

corretta applicazione dei principi contabili vale anche ai fini fiscali, per i componenti reddituali rilevati

a decorrere dall’esercizio successivo a quello in corso al 31 dicembre 2015.

Norma transitoria6

Per le operazioni che risultavano diversamente classificate nel bilancio al 31 dicembre 2015,

continuano a valere le disposizioni fiscali previgenti con riguardo agli effetti reddituali e patrimoniali

che si produrranno, per dette operazioni, anche sui bilanci degli esercizi successivi.

3 Si tratta della versione pubblicata nel 2014. 4 Articolo 13-bis; D.L. 244/2016. 5 Articolo 13-bis, comma 4, D.L. 244/2016. 6 Articolo 13-bis, comma 5, D.L. 244/2016.

Prassi contabile

27 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Identificazione dei “componenti straordinari fiscali”7

Si afferma, quale principio di carattere generale, che ogni qualvolta le norme fiscali fanno riferimento

ai componenti positivi o negativi di cui alle lettere A) e B) dell'articolo 2425, cod. civ., tale riferimento

va inteso come compiuto ai componenti ivi classificati secondo i principi contabili di riferimento, ma gli

stessi ai fini fiscali vanno “assunti al netto dei componenti positivi e negativi di natura straordinaria

derivanti da trasferimenti di azienda o di rami di azienda”.

Quindi, la scelta di campo del Legislatore fiscale è stata molto chiara: le voci A) e B) del Conto

economico sono sempre rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme fiscali che a esse fanno

riferimento, così come le stesse sono determinate applicando i principi contabili di riferimento, fatto

salvo solo per la necessità di espungere, ove esistenti, i componenti positivi e negativi relativi a

“trasferimenti di azienda o di rami di azienda” i quali conservano una sorta di “straordinarietà fiscale”.

Irap8

Tanto il principio generale, quanto la norma transitoria, e infine l’identificazione dei componenti

“fiscalmente straordinari”, valgono a pieno titolo anche ai fini Irap, in forza della modifica apportata al

comma 1 dell'articolo 5, D.Lgs. 446/1997, al fine di prevedere che dal computo della base imponibile

Irap sono esclusi i “componenti positivi e negativi di natura straordinaria derivanti da trasferimenti di

azienda o di rami di azienda”.

Disciplina della deduzione degli interessi passivi ex articolo 96, Tuir9

Stante il principio generale affermato al comma 4 dell’articolo 13-bis del Milleproroghe, non vi sarebbe

stata la necessità di integrare espressamente anche l’articolo 96, Tuir. Tuttavia, il Legislatore ha

preferito probabilmente evitare equivoci e, pertanto, anche ai fini del computo del Rol di cui all’articolo

96, Tuir occorre non tenere conto dei componenti positivi e negativi relativi a “trasferimenti di azienda

o di rami di azienda”.

In via indiretta, la disciplina della deduzione degli interessi passivi di cui all’articolo 96, Tuir potrà essere

negativamente impattata anche dagli effetti delle svalutazioni di perdite durevoli di valore che, sino al

bilancio precedente, qualora indotte da circostanze straordinarie, potevano concretamente essere

classificate nell’area straordinaria del Conto economico. Nel nuovo schema di Conto economico, invece,

tali effetti saranno necessariamente iscritti nella voce B.10.c.) del Conto economico e di conseguenza

7 Articolo 13-bis, comma 4, D.L. 244/2016. 8 Articolo 13-bis, comma 3, D.L. 244/2016. 9 Articolo 13-bis, comma 2, lettera b), D.L. 244/2016.

Prassi contabile

28 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

deprimeranno il Rol fiscale in quanto non è prevista, nel testo dell’articolo 96, Tuir, la loro

sterilizzazione come avviene, invece, nel caso degli ammortamenti e dei canoni di leasing.

Vero è che, all’opposto, rileveranno gli eventuali ripristini di valore classificati ora nella voce A.5 del

Conto economico; tuttavia, l’esperienza insegna che i ripristini di valore sono casi piuttosto rari nella

vita delle imprese e soprattutto essi non possono essere mai ammessi per quanto concerne

l’avviamento, che è invece una delle poste maggiormente sensibili a fenomeni negativi dovuti a

impairment test.

Questo è, quindi, il contesto normativo tracciato dal Legislatore fiscale con l’intento di coordinare la

norma tributaria con il rinnovato schema del Conto economico.

Vi sono certamente alcuni aspetti che meritano un maggiore approfondimento e anche alcune prime

riflessioni con riguardo agli effetti che possono essere indotti dalle modifiche normative, civilistiche e

fiscali, qui in commento.

Dal “principio generale” ad alcuni casi particolari

Il principio generale, come abbiamo evidenziato, è molto chiaro: le componenti economiche di costo e

di ricavo classificate nelle voci A e B del Conto economico valgono anche ai fiscali, ogni qualvolta una

norma tributaria vi faccia riferimento, con la sola esclusione di quelle relative a trasferimenti di azienda

o di rami di azienda.

I componenti economici “relativi” ai trasferimenti di azienda

Una prima questione su cui è lecito interrogarsi attiene alla delimitazione del concetto di componenti

economici “relativi” ai trasferimenti di azienda o di rami di azienda a cui fa riferimento la novellata

norma fiscale.

Il dubbio circa l’esatta perimetrazione di questo concetto deriva dal fatto che il Legislatore non ha

utilizzato i termini “plusvalenze” e “minusvalenze” realizzate da atti di trasferimento di compendi

aziendali, bensì ha fatto riferimento a generici componenti economici per l’appunto “relativi” a detti

trasferimenti. Pertanto, la questione che si potrebbe porre riguarda il trattamento da riservare a

componenti accessorie o comunque connesse alle operazioni di trasferimento di azienda, come ad

esempio gli oneri di transazione, i costi per consulenze, l’imposta di registro, etc..

Al di là della terminologia generalista utilizzata dal Legislatore, parrebbe logico affermare che la natura

“straordinaria” ai fini fiscali del componente economico da espungere ai fini che qui interessano sia solo

relativa alla plus o minusvalenza realizzata dall’operazione. Tutte le altre componenti economiche,

Prassi contabile

29 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

quindi, devono mantenere la loro piena rilevanza fiscale senza essere incise dalla disposizione in

oggetto.

Quanto poi alla tipologia di “trasferimento” da cui derivano i componenti economici qui in rilievo, va da

sé che si tratti di vicende realizzative riconducibili sia alla cessione di azienda o di ramo di azienda, che

al caso del conferimento realizzativo avente per oggetto un compendio aziendale. Infatti, vero è che la

disciplina del conferimento di azienda non è stata modificata, e che è rimasta invariata la disposizione

di cui all’articolo 176, Tuir per cui l’operazione resta soggetta al regime fiscale di “neutralità necessaria”;

nel caso di specie, però, non sarebbe bastato il riferimento all’articolo 176, Tuir per espungere le

plusvalenze e le minusvalenze realizzate da operazioni di conferimento di azienda o di ramo di azienda

dalla rilevanza fiscale delle voci A e B del Conto economico, ove queste vengano richiamate da altre

disposizioni tributarie e per altre finalità rispetto al loro concorso alla formazione del reddito

imponibile.

I componenti economici “eccezionali” non relativi ai trasferimenti di azienda

Quando i componenti economici derivano da operazioni che non hanno per oggetto un compendio

aziendale, sebbene possano essere di entità o incidenza “eccezionale” in quanto non ragionevolmente

ripetibili nelle vicende ordinarie dell’impresa, essi restano pienamente rilevanti ai fini della

composizione anche fiscale delle voci A e B del Conto economico.

Si può trattare, quindi, di cessioni eccezionali di attività immobilizzate, di operazioni straordinarie non

afferenti un compendio aziendale, di ristrutturazioni aziendali, etc.. In tutti questi casi, anche ai fini

della disciplina fiscale, le voci A e B del Conto economico si assumono nella loro corretta e piena

determinazione civilistica.

Il “test di vitalità” nel riporto delle perdite fiscali, delle eccedenze di interessi passivi indeducibili e delle

eccedenze di Ace

Sia l’articolo 84, comma 3, lettera b), che l’articolo 172, comma 7, Tuir (e per mero rimando gli articolo

173, comma 10, e 181, comma 1, Tuir), ai fini del riporto delle perdite fiscali, delle eccedenze di interessi

passivi indeducibili e delle eccedenze di Ace in presenza di vicende straordinarie della società,

sottopongono la possibilità di utilizzare di tali asset fiscali nei successivi periodi di imposta a un test di

vitalità dell’impresa, in cui uno dei parametri è rappresentato dall’ammontare dei “ricavi e proventi

dell’attività caratteristica”.

Prassi contabile

30 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Con riferimento alla nozione di ricavi e proventi caratteristici, si rammenta che la disciplina previgente

alla Riforma fiscale del 200410 faceva esplicito riferimento alla sola voce A.1 “Ricavi delle vendite e

delle prestazioni” dello schema di Conto economico di cui all’articolo 2425, cod. civ..

A seguito delle modifiche intervenute con la citata legge di riforma, è stato cancellato il riferimento

alla voce A.1 dello schema di Conto economico al fine di consentire di prendere in considerazione tutti

i proventi della gestione caratteristica delle società le cui perdite (o meglio, i cui asset fiscali) si

intendono riportare successivamente all’operazione straordinaria (tipicamente la fusione o la scissione).

L’Agenzia delle entrate11 aveva avuto modo di precisare che dovevano essere considerati tutti i

componenti positivi di reddito che, in relazione all’attività svolta dalla società, avevano natura

ricorrente e si contrapponevano ai costi caratteristici.

Ora, alla luce del novellato contesto normativo sia civilistico che fiscale, possiamo quindi assumere che

ai fini dell’effettuazione del test di vitalità avranno rilevanza i componenti economici positivi iscritti,

per le società commerciali, alle voci A.1 e A.5 del Conto economico, fatta sola esclusione di quelli aventi

natura “straordinaria” relativi a operazioni di trasferimento di azienda o di ramo di azienda.

Per esigenze di omogeneità dei termini di raffronto del test di vitalità, lo stesso criterio dovrebbe essere

ragionevolmente assunto anche per determinare i parametri economici degli esercizi precedenti

rientranti nel periodo temporale di riferimento della norma, il che renderà necessario effettuare una

riclassificazione dei conti economici degli anni interessati al fine di ricollocare le componenti

economiche classificate originariamente alle voci E del Conto economico, ed espungere poi quanto

fosse riferito a trasferimenti di azienda o di rami di azienda.

Il “test di operatività” ai fini della disciplina delle società di comodo

Come noto, in base all’articolo 30, comma 1, L. 724/1994, sono considerate “non operative” le società il

cui Conto economico presenta un ammontare complessivo di ricavi, incrementi delle rimanenze e

proventi ordinari, inferiore alla somma degli importi che risultano applicando determinati coefficienti a

taluni asset patrimoniali.

Anche a tale riguardo, nel rinnovato contesto normativo, assumeranno rilevanza per l’esecuzione del

“test di operatività” le componenti economiche positive iscritte nelle voci di cui alla lettera A del Conto

economico, secondo i principi contabili di riferimento, fatta sola esclusione di quelle aventi natura

“straordinaria” relative a trasferimenti di azienda o di rami di azienda.

10 Attuata con il D.Lgs. 344/2003. 11 Risoluzione n. 143/E/2008.

Prassi contabile

31 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Tema del tutto analogo concerne l’ipotesi di cui alla lettera f) del Provvedimento del Direttore

dell’Agenzia delle entrate dell’11 giugno 2012 quale causa di disapplicazione delle disposizioni in

materia di società in perdita sistematica. Infatti, la citata lettera f) del Provvedimento prescrive che tale

disapplicazione ricorra per le società che conseguono “un margine operativo lordo positivo”. Per

margine operativo lordo si intende la differenza tra il valore e i costi della produzione di cui alla lettere

A) e B) dell’articolo 2425, cod. civ.. Il Provvedimento precisa inoltre che tale fine i costi della produzione

rilevano al netto delle voci relative ad ammortamenti, svalutazioni e accantonamenti di cui ai n. 10),

12) e 13) della citata lettera B).

In forza della disposizione in commento, pertanto, nel rinnovato contesto normativo, le componenti

economiche positive e negative iscritte nelle voci del Conto economico menzionate dalla lettera f) del

citato Provvedimento diventano rilevanti secondo i principi contabili di riferimento, fatta sola

esclusione di quelle aventi natura “straordinaria” relative a trasferimenti di azienda o di rami di azienda.

Il plafond di determinazione delle “spese di rappresentanza” deducibili

L'ammontare delle spese di rappresentanza deducibili è commisurato ai ricavi e proventi della gestione

caratteristica "risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa allo stesso periodo". L’Agenzia delle

entrate12 ha avuto modo di precisare che i componenti positivi rilevanti per le società industriali e

commerciali sono quelli iscritti alle voci A.1 e A.5 del Conto economico, mentre le società holding

"potranno considerare a tali fini anche i proventi finanziari iscritti nelle voci C.15 e C.16 del Conto

economico”13.

Pertanto, anche rispetto all’applicazione di questa disciplina, nel rinnovato contesto normativo,

assumeranno rilevanza le componenti economiche positive iscritte nelle voci di cui alle suddette voci

del Conto economico secondo i principi contabili di riferimento, fatta sola esclusione di quelle aventi

natura “straordinaria” relative a trasferimenti di azienda o di rami di azienda.

Alcune riflessioni sull’impatto nella determinazione dell’imponibile Irap

Come si è anticipato, in forza della modifica apportata al comma 1 dell'articolo 5, D.Lgs. 446/1997, nel

computo della base imponibile Irap rilevano le voci classificate nelle poste “Irap sensibili”, secondo i

principi contabili di riferimento, esclusi sempre e solo i “componenti positivi e negativi di natura

straordinaria derivanti da trasferimenti di azienda o di rami di azienda”.

12 Circolare n. 34/E/2009, § 5.1. 13 Risoluzione n. 143/E/2008 e n. 183/E/2009.

Prassi contabile

32 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

È, tuttavia, rimasto immutato il principio di correlazione temporale affermato al comma 4 dell’articolo

5, D.Lgs. 446/1997, così che i componenti positivi e negativi di reddito concorrono comunque a formare

base imponibile Irap, indipendentemente dalla loro classificazione, se sono correlati a componenti

rilevanti Irap di periodi d’imposta precedenti o successivi.

Dunque, a titolo esemplificativo, la sopravvenienza attiva derivante dall’incasso di un credito

precedentemente portato a perdita, rilevata nella voce A.5 del Conto economico, resterà esclusa dalla

base imponibile Irap, in quanto la perdita rilevata nel Conto economico di un esercizio precedente non

era stata a sua volta dedotta nella determinazione dell’imponibile del tributo regionale14.

Tuttavia, per alcune operazioni l’eliminazione della sezione straordinaria del Conto economico produce

certamente un impatto ai fini dell’Irap; a titolo esemplificativo:

4. corresponsione di indennità di perdita dell’avviamento per la cessazione di un contratto di locazione:

benché l’operazione possa presentare caratteri di straordinarietà che, secondo lo schema di Conto

economico previgente, avrebbero indotto a classificare il costo nella sezione straordinaria del Conto

economico, escludendone la rilevanza ai fini dell’Irap, nel novellato schema normativo la posta sarebbe

collocata nella voce B.14 del Conto economico e assumerebbe, quindi, piena valenza ai fini della

determinazione dell’imponibile del tributo regionale;

5. risarcimento danni in sede giudiziaria: il caso era stato oggetto di un documento di prassi emesso

dall’Amministrazione finanziaria15 e aveva avuto per oggetto somme corrisposte dalla società a titolo

di risarcimento danni a seguito del decesso di un dipendente o per accertata malattia contratta nello

svolgimento dell’attività di lavoro. Ebbene, l’Amministrazione aveva risolto il caso escludendo la

deducibilità ai fini dell’Irap di tale costo in considerazione del fatto che esso avrebbe dovuto essere

classificato nella voce E (proventi e oneri straordinari) del Conto economico.

Nell’attuale assetto normativo, venendo meno questa sezione del Conto economico, i costi in oggetto

sono da ritenersi pienamente rilevanti anche ai fini dell’Irap in quanto classificati nella voce B del Conto

economico.

Analoga conclusione deve essere accolta dal lato del componente positivo, qualora in casi differenti il

soggetto beneficiario sia una società che redige il bilancio secondo la disciplina del codice civile;

6. plusvalenze e minusvalenze da atti realizzativi “eccezionali”: al di fuori del trasferimento di azienda

o di rami di azienda, i componenti economici derivanti da atti realizzativi di singoli cespiti aziendali,

14 Analogamente, anche l’indennizzo assicurativo percepito a fronte della perdita di un credito assicurato non è soggetto a Irap in quanto

correlato a un componente non rilevante ai fini del tributo regionale, come confermato dalla Direzione Centrale Normativa in risposta a una

istanza di interpello non pubblica; si veda in proposito Il Sole 24Ore, 2 dicembre 2013. 15 Risoluzione n. 25/E/2009.

Prassi contabile

33 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

quand’anche ritenuti eccezionali, restano rilevanti ai fini dell’Irap non più in forza del principio di

correlazione, bensì per via della derivazione rafforzata dalle risultanze del Conto economico.

Una riflessione ulteriore ai fini Irap la merita anche l’applicazione della disciplina transitoria disposta

al comma 6 dell’articolo 13-bis del Decreto Milleproroghe, laddove si afferma che per le operazioni che

risultavano diversamente classificate nel bilancio al 31 dicembre 2015, continuano a valere le

disposizioni fiscali previgenti con riguardo agli effetti reddituali e patrimoniali che si produrranno, per

dette operazioni, anche sui bilanci degli esercizi successivi.

Facciamo il caso di una prestazione resa da un professionista a fronte di un progetto straordinario di

ristrutturazione aziendale che era stata accantonata per il valore di euro 100.000 con addebito della

voce E.21 del Conto economico nel bilancio al 31 dicembre 2015, stante la natura straordinaria

dell’operazione a cui essa afferiva. Si faccia ora il caso che, nel bilancio al 31 dicembre 2016, la società

abbia concordato con il professionista una riduzione dell’onorario pari a 30.000 euro e che abbia quindi

rilevato la corrispondente sopravvenienza attiva alla voce A.5 del Conto economico dell’esercizio 2016.

In questa circostanza, in forza sia del principio di correlazione temporale che della norma transitoria

sopra richiamata, la sopravvenienza attiva in questione non dovrà concorrere alla formazione

dell’imponibile Irap del 2016 in quanto afferente a un’operazione in essere nel bilancio dell’esercizio

precedente, diversamente classificata e per la quale devono perciò continuare a valere le stesse

considerazioni in ordine al relativo trattamento ai fini dell’Irap.

Giurisprudenza

34 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Azione revocatoria e scissione -

Ordinanza 7 novembre 2016 del

Tribunale di Roma di Alberto Bertuzzo - avvocato

Quando il “debitore” dispone od assegna il proprio patrimonio o parte di esso a terzi, può sorgere

il pericolo, per il “creditore”, che la “garanzia” relativa al soddisfacimento delle proprie ragioni -

costituita proprio da quel patrimonio - si riduca o venga addirittura meno. Tra i “mezzi di

conservazione” del credito - diretti a proteggere il creditore da una simile evenienza - il

Legislatore ha previsto l’“azione revocatoria”: colui che si veda spogliato della “garanzia

patrimoniale”, formata dai beni e diritti del debitore, può agire in giudizio e far dichiarare dal

giudice l’”inefficacia”, nei suoi confronti, dell’atto dispositivo che il debitore abbia posto in essere

con la consapevolezza di ledere le sue ragioni. È controverso se l’azione revocatoria possa essere

esercitata anche in presenza di un atto di scissione: in particolare, può il curatore della società

scissa, in seguito dichiarata fallita, ottenere la revoca dell’atto di scissione perfezionatosi in un

tempo precedente la dichiarazione di fallimento? Può il creditore che non abbia promosso

opposizione durante il procedimento di scissione, avviare l’azione revocatoria in un tempo

successivo al suo perfezionamento? Sul punto la giurisprudenza di merito, mancando una

pronuncia della nostra Suprema Corte sul punto, è divisa. Una parte di essa, ivi inclusa la

decisione in commento, ritiene che l’azione revocatoria non sia esercitabile perché essa è

incompatibile con i principi ed il sistema di garanzie previsto dall’ordinamento giuridico (ossia

con il principio della “irregredibilità” della scissione e del complesso dei rimedi “endosocietari”

già riconosciuti a favore del creditore) e perché non sussistono i presupposti necessari per il suo

esercizio. Altri giudici ritengono, invece - come si vedrà nella trattazione che segue - che, in

realtà, le condizioni per l’avvio dell’azione revocatoria ricorrono tutti e che essa sia, quindi,

esercitabile (e costituisca un utile mezzo di conservazione della “garanzia patrimoniale” per chi,

come ad esempio il curatore fallimentare, non possa far ricorso ad altri strumenti di tutela).

L’azione revocatoria (ordinaria e fallimentare)

Secondo uno dei principi generali del diritto, il debitore risponde dell’adempimento delle proprie

obbligazioni con “tutti i suoi beni presenti e futuri”1. In tale contesto si comprende bene come l’interesse

1 Si veda l’articolo 2740, cod. civ..

Giurisprudenza

35 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

principale del creditore sia proprio quello di mantenere immutata tale garanzia “patrimoniale”, evitando

che siano posti in essere, da parte dello stesso debitore, atti o condotte diretti a depauperare la

consistenza del complesso di beni e diritti a quest’ultimo facenti capo.

Tra i mezzi concessi al creditore per tutelare il diritto a riscuotere il proprio credito, il Legislatore ha

previsto l’“azione revocatoria”2, ossia quell’azione diretta a rendere inefficaci nei suoi confronti gli atti

del debitore volti a sottrarre, in modo fraudolento (i.e. con la consapevolezza di creare del pregiudizio

alle ragioni del creditore), i propri beni alla “garanzia patrimoniale” dello stesso creditore.

Le condizioni per l’esercizio dell’azione revocatoria sono diverse e si distinguono, sostanzialmente, in

condizioni soggettive (i.e. la titolarità del credito, il c.d. “consilium fraudis” del debitore ed,

eventualmente, la “partecipatio fraudis” del terzo avente causa) e condizioni oggettive (i.e. l’”eventus

damni” e la natura di atto dispositivo/traslativo dell’atto revocabile).

In particolare, per quanto riguarda i presupposti soggettivi, chi esercita l’azione revocatoria dovrà

dimostrare:

1. di essere già, al momento della proposizione della domanda, “creditore” (senza che, per altro, sia

necessaria anche l’esigibilità o la liquidità del credito);

2. che il debitore3 “era a conoscenza del pregiudizio che - con l’atto oggetto di revocatoria - arrecava

alle ragioni del creditore” e

3. che, nel caso in cui si sia trattato di un atto a titolo oneroso, il terzo avente causa fosse a conoscenza

del pregiudizio causato al creditore4 (per altro potendosi avvalere, in tali ultimi due casi, di elementi

presuntivi ai fini della prova5).

In merito ai presupposti oggettivi, due sono le condizioni che devono ricorrere (come sopra evidenziato):

1. deve sussistere l’eventus damni, ossia il “pregiudizio” alle ragioni creditorie; tale “pregiudizio” dovrà

manifestarsi non tanto - come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza della Suprema Corte - come

un danno attuale alle ragioni del creditore6, quanto piuttosto come “pericolo” del verificarsi del danno:

sarà, in altre parole, sufficiente per il creditore dimostrare che, con il compimento dell’atto revocabile,

si renderà più complesso e “difficoltoso”7 il recupero di quanto dovuto e

2. l’atto oggetto di revoca deve avere una funzione “dispositiva” e “traslativa”; in altre parole, l’atto

deve essere tale da generare, quale suo effetto, la “fuoriuscita” dal patrimonio del debitore di uno o

2 Si veda l’articolo 2901, cod. civ.. 3 Si veda l’articolo 2901, cod. civ., n. 1). 4 Si veda l’articolo 2901, cod. civ., n. 2). 5 Si vedano Cassazione n. 17327/2011 e n. 22591/2013. 6 Si veda Cassazione, n. 16464/2009. 7 Si veda Cassazione n. 2651/2013.

Giurisprudenza

36 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

più beni e/o diritti (quali sono, ad esempio, una vendita, una donazione e/o, anche la concessione di

una garanzia reale).

Gli effetti dell’azione revocatoria sono quelli propri della declaratoria di inefficacia parziale

dell’atto (revocato) nei confronti del creditore: l’atto di disposizione, oggetto di revoca, rimane

valido ed efficace (e il bene “trasferito” entra nella sfera del terzo avente causa a tutti gli effetti) ;

tuttavia il creditore che abbia promosso l’azione otterrà, in ragione della sentenza di revoca, una

sorta di “diritto di seguito” e potrà esercitare sul bene un’azione esecutiva (ai sensi dell’articolo

602, c.p.c.)8, godendo di una sorta di diritto di prelazione sugli altri creditori (dell’alienante e

dell’avente causa).

Nell’ambito degli strumenti giuridici diretti alla “conservazione” del patrimonio del debitore va

annoverata, quale tipologia particolare di azione revocatoria, anche la c.d. azione revocatoria

“fallimentare”. Tale azione, la cui disciplina è dettata - e non a caso – dall’articolo 64 e ss., R.D. 267/1942

(nota come “Legge Fallimentare”), può essere esercitata una volta dichiarato il fallimento del debitore e

ha la funzione precipua di recuperare alla massa attiva fallimentare tutti i beni del debitore fallito

(anche quelli - per la verità alcuni di quelli - che abbia trasferito prima della dichiarazione di fallimento),

onde garantire la par condicio creditorum (ossia il diritto di tutti i creditori a essere soddisfatti, in parti

uguali, sui beni del fallito, fatti salvi, naturalmente, i diritti di prelazione riconosciuti dalla legge9). A tal

fine, l’articolo 67, L.F. sancisce la revocabilità di una serie di atti dispositivi del debitore, compiuti anche

uno o due anni (a seconda della tipologia dell’atto dispositivo) prima della dichiarazione di fallimento,

sempre a condizione che il terzo fosse a conoscenza (o dovesse essere a conoscenza) dello stato di

insolvenza del debitore.

Revocatoria e atto di scissione – Tribunale di Roma, ordinanza del 7 novembre 2016

Nell’ambito degli atti che possono formare oggetto di azione revocatoria (sia essa ordinaria o

fallimentare) è discusso (ed ampio è il dibattito) se possa rientrarvi anche l’atto di scissione, così come

disciplinato dagli articolo 2506 e ss., cod. civ..

La scissione è quell’operazione finalizzata al “trasferimento”10 di parte o tutto del patrimonio della

società scissa (ossia della società della cui scissione si tratta) ad altra società od ad altre società (di

nuova costituzione o preesistenti, dette “beneficiarie”). In astratto, la scissione sembra poter rientrare a

8 L’articolo 602, c.p.c. regola le modalità di espropriazione contro il terzo proprietario. 9 Ossia i previlegi, il pegno e l’ipoteca. 10 Da leggersi in senso “a-tecnico”, come poi si commenterà.

Giurisprudenza

37 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

pieno titolo tra quegli atti idonei a causare un pregiudizio alle ragioni dei creditori; ciò nella misura in

cui si ritenga che l’assegnazione dei beni e diritti alla società beneficiaria determini una riduzione della

“garanzia patrimoniale” dei creditori della società scissa.

Una recente decisione del Tribunale di Roma11, a parziale riforma di una propria ordinanza12, ha tuttavia

statuito – pur ricordando che sul tema le posizioni della giurisprudenza divergono e che la Corte di

Cassazione non si è ancora pronunciata sul punto - che la scissione societaria non può formare oggetto

di un’azione revocatoria13.

La tesi del Tribunale di Roma

Il Collegio del Tribunale romano fonda la propria tesi sulle seguenti argomentazioni:

1. l’azione revocatoria è incompatibile con il “sistema di garanzie” già previsto dall’ordinamento

giuridico in materia di scissione. Sostiene, il giudice, in particolare che:

c) l’azione revocatoria non è ammissibile in ragione del disposto dell’articolo 2504-quater, cod. civ.,

che stabilisce l’“irregredibilità” della scissione una volta effettuato il deposito dell’atto di scissione

presso il Registro Imprese14;

d) l’ordinamento giuridico già riconosce a favore dei creditori dei rimedi “c.d. “endosocietari”, quali:

− la facoltà (concessa ai creditori) di opporsi alla scissione (così come previsto dall’articolo 2503,

cod. civ.)15;

− il diritto, in ogni caso, al risarcimento del danno di coloro che siano danneggiati dall’operazione

(si veda l’articolo 2504-quater, comma 2, cod. civ.) e

− la responsabilità solidale della società beneficiaria per i debiti della società scissa (così come

previsto dall’articolo 2506-quater, ultimo comma, cod. civ.). Detti rimedi rappresentano un “sistema

chiuso” di tutele, che già soddisfano le stesse esigenze che sono alla base dell’azione revocatoria

(che deve intendersi, quindi, preclusa);

i. la scissione non è né un atto a titolo gratuito né atto dispositivo e traslativo del patrimonio

della società scissa; la scissione va configurata, piuttosto, come “un’operazione societaria tipica

a formazione progressiva” nell’ambito della quale l’identità giuridica sostanziale della società

11 Tribunale di Roma, Sez. Fall., Ord. 7 novembre 2016. 12 Tribunale di Roma, Sez. Fall., Ord. 16 agosto 2016. 13 Si trattava, nella fattispecie, di un’azione revocatoria promossa dalla curatela fallimentare di una società fallita avente ad oggetto l’atto di

scissione parziale con il quale il suo patrimonio era stato suddiviso tra 2 società neocostituite. 14 Secondo l’articolo in commento l’invalidità della scissione, una volta effettuate le formalità pubblicitarie, non può più essere pronunciata

(ciò ai fini di tutelare la certezza dei rapporti giuridici scaturenti dalla stessa operazione). 15 L’articolo 2503, cod. civ. stabilisce che i creditori delle società coinvolte nell’operazione possano opporsi ad essa entro 60 giorni dal deposito

presso il Registro Imprese delle relative deliberazioni delle assemblee dei soci (nel caso in cui vi ravvisino un pregiudizio alle loro ragioni).

Giurisprudenza

38 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

scissa non muta, ma si rinnova e continua a “vivere” nella beneficiaria. In ossequio a tale

orientamento16, sostiene il giudice, viene a mancare uno dei requisiti “oggettivi” per l’esercizio

dell’azione revocatoria (ossia il presupposto della natura dispositiva/traslativa dell’atto

revocabile);

ii. la responsabilità solidale tra la società beneficiaria e la società scissa (per i debiti di

quest’ultima)17 fa venir meno l’eventus damni, ossia il pregiudizio alle ragioni del creditore, che

rappresenta (anch’esso) una condizione necessaria per l’esperimento dell’azione revocatoria.

Le tesi a favore della revocabilità della scissione

Coma ha sottolineato lo stesso giudice romano, la questione è materia di costante discussione e, in più

di un’occasione, le argomentazioni sopra illustrate sono state oggetto di vari approfondimenti (e di

critiche). Qui di seguito, cercheremo di esporre - seguendo lo schema sopra esposto - le obiezioni mosse

alla tesi del Tribunale capitolino:

1. contro la tesi che considera l’irregredibilità degli effetti della scissione quale elemento impeditivo

dell’azione revocatoria si schiera una parte della giurisprudenza18. Detta giurisprudenza ritiene che, se

da una parte, il disposto dell’articolo 2504-quater, cod. civ. abbia l’indubbio effetto di impedire ogni

azione diretta a dichiarare l’“invalidità” dell’atto di scissione (onde evitare ogni pregiudizio alla stabilità

organizzativa delle società scaturenti dalla scissione), dall’altra parte esso, in mancanza di una

previsione espressa, non può essere inteso nel senso di impedire atti volti a far dichiarare l’“inefficacia”

relativa - ossia solamente a favore dei creditori che abbiano esercitato l’azione revocatoria - dell’atto di

scissione, così consentendo ai suddetti creditori di rivalersi sui beni oggetto dell’operazione. In altre

parole, la revocabilità dell’atto di scissione è ammissibile in quanto essa (i.e. l’eventuale revoca) non va

a incidere sull’esistenza dell’operazione in sé che, invece, rimane valida (in ossequio al principio

stabilito dall’articolo 2504-quater, cod. civ.), ma ha ed avrà - solamente - l’effetto di modificare “i

rapporti di preferenza tra creditori” in caso di esercizio della conseguente azione esecutiva (in analogia

con quanto avverrebbe, del resto, nel caso di esercizio dell’azione risarcitoria prevista dallo stesso art.

2504-quater, secondo comma, cod. civ.)19;

16 Si tratta della teoria “modificativa” della scissione, la quale riconosce nella scissione “una complessa modificazione del contratto sociale”

che tuttavia permane e “continua” nella società beneficiaria, senza che ciò porti ad un “trasferimento” del patrimonio della società scissa. Tale

tesi è avvalorata da una decisione della Suprema Corte (si veda Cassazione SS.UU., ordinanza n. 2637/2006). 17 Così come prevista dall’articolo 2506-quater, ultimo comma, cod. civ.. 18 Si veda per tutti Tribunale di Venezia, sentenza 5 febbraio 2006. 19 È curioso notare come tale argomento sia stato utilizzato anche dal giudice di prima istanza del tribunale capitolino nell’ordinanza del 16

agosto 2016 (si veda nota 12).

Giurisprudenza

39 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

2. parte della giurisprudenza contesta anche l’assunto relativo all’esaustività (ed esclusività) dei rimedi

c.d. “endosocietari”20 rispetto all’azione revocatoria. Le critiche mosse a tale tesi possono essere

declinate sotto due distinti profili:

a) non vi è alcuna norma di diritto positivo che consenta all’interprete di considerare in modo tassativo

e privo di “alternative” il sistema delle tutele previsto dagli articolo 2503, 2506-ter e 2506-quater, cod.

civ. (ossia quelle norme che contemplano e disciplinano i rimedi “endosocietari”);

b) i rimedi “endosocietari” e l’azione revocatoria hanno “finalità” ed “effetti” diversi:

l’opposizione (che può esercitare il creditore entro 60 giorni dal deposito della delibera di

scissione) è atto volto a interrompere l’operazione e non, com’è invece la revoca, a renderlo inefficace

“a posteriori”; mentre l’opposizione può essere esercitata solamente dai creditori che siano tali al

momento della scissione, l’azione revocatoria potrà essere intrapresa anche dai creditori successivi

(ed, in particolare, come sovente accade, dal curatore fallimentare della società scissa che sia

dichiarata poi “fallita”);

il diritto al risarcimento del danno (così come riconosciuto dall’articolo 2504-quater, comma 2, cod.

civ.) riguarda, in generale, la lesione della garanzia patrimoniale (ed è azionabile limitatamente

all’ipotesi di invalidità del procedimento di scissione), mentre l’azione revocatoria è rimedio specifico

contro la lesione subita dal singolo creditore21;

il principio di solidarietà tra società scissa e società beneficiaria per i debiti della prima non

garantisce al creditore la stessa tutela che egli, invece, avrebbe con l’esercizio dell’azione

revocatoria: nel primo caso il creditore concorre con tutti gli altri creditori (anche quelli del soggetto

beneficiario) ed “entro i limiti del valore effettivo del patrimonio assegnato”, mentre nell’ipotesi

dell’azione revocatoria il creditore godrebbe di un diritto di preferenza sui beni oggetto di revoca

(rispetto agli altri creditori);

i. l’operazione di scissione va configurata, in realtà, proprio come atto “traslativo” (e, quindi,

rientrante nel perimetro degli atti revocabili) in ragione del fatto, per altro indubbio, che la società

beneficiaria - per effetto della scissione - diviene titolare di beni e diritti che in precedenza non

rientravano nel proprio patrimonio22;

ii. così come ha avuto modo di chiarire la stessa Suprema Corte23, l’eventus damni sussiste anche

nel caso in cui l’atto (oggetto di revoca) “renda più incerta o difficoltosa la realizzazione del

20 Ossia, come qui si ricorda, l’“opposizione” alla scissione, la “risarcibilità del danno” e la “responsabilità solidale” della società beneficiaria. 21 Così si esprime il Tribunale di Palermo, sentenza 25 maggio 2012. 22 Tribunale di Roma, ordinanza del 16 agosto 2016. 23 Si veda nota 7.

Giurisprudenza

40 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

credito”, fatto questo che va accertato caso per caso e non dedotto in modo dogmatico da una

norma di legge (quale quella sulla solidarietà ex articolo 2506-quater, cod. civ.). Va, inoltre,

segnalato che il fatto stesso che il creditore debba agire nei confronti di un soggetto terzo (la

società beneficiaria), dovendo altresì dimostrare la capienza del patrimonio trasferito rispetto al

credito24, è elemento che già di per sé - è stato ritenuto - può configurare la sussistenza del

“pregiudizio” del creditore25.

Conclusioni

In ragione di quanto osservato sopra, non si può che auspicare un intervento della nostra Suprema Corte

al fine di chiarire il contrasto giurisprudenziale sorto sul tema oggetto della presente trattazione.

Nell’attesa ci pare, nondimeno, opportuno svolgere qui di seguito alcune brevi considerazioni di

carattere generale.

Se da una parte risulta lacunosa la tesi dell’esaustività del rimedi “endosocietari”, come sopra descritti,

in mancanza di una espressa norma di legge che lo sancisca, dall’altra non convince appieno, in punta

di diritto, nemmeno la tesi dell’irregredibilità della scissione: se il Legislatore avesse inteso porre un

punto di assoluto “non ritorno” con riferimento all’atto di scissione, probabilmente avrebbe dovuto

estendere anche all’ipotesi di “inefficacia” i limiti previsti dall’articolo 2504-quater, cod. civ.26 in tema

“invalidità”: ma così non è stato, e non è.

In realtà, l’esame dell’intera questione dovrebbe essere affrontata dal punto di vista delle finalità

proprie dell’azione revocatoria. Come si può evincere dal dettato della norma (i.e. l’articolo 2901, cod.

civ.), obiettivo principale della “revocatoria” è consentire al creditore di poter aggredire quei beni del

debitore che quest’ultimo abbia intenso, scientemente, trasferire a terzi al fine di sottrarli all’azione

esecutiva: come già ricordato sopra, è essenziale che l’atto “revocabile” sia un atto di “disposizione” a

favore di un terzo e che, mediante esso, il/i bene/i esca/no dalla sfera di “controllo” del creditore. Ma se

così deve essere, siamo proprio sicuri che l’atto di scissione produca un tale tipo di effetto? Sul punto

ritengo si possa avanzare più di qualche dubbio. L’operazione di scissione, come si può evincere anche

da una decisione della nostra Suprema Corte in tema di fusione27, non porta all’estinzione e/o alla

creazione di società (se non dal punto di vista meramente formale), ma determina “solamente” una

24 Come abbia osservato, ai sensi dell’articolo 2506-quater, cod. civ., la “solidarietà” della società beneficiaria opera “solamente” nei limiti del

valore del patrimonio netto assegnato ad essa e solamente una volta che sia stata esercitata, senza esito, l’azione esecutiva contro la società

scissa (vale in altre parole il principio del c.d. beneficium excussionis). 25 Vedi in questo senso Tribunale di Benevento, sentenza 17 settembre 2012. 26 L’articolo 2504-quater, cod. civ., per intenderci, stabilisce che l’invalidità della scissione non possa essere dichiarata una volta intervenuta

l’iscrizione dell’atto presso il Registro Imprese. 27 Vedi nota 16: tale decisione risulta applicabile, per analogia, anche al fenomeno della scissione.

Giurisprudenza

41 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

modifica del contratto sociale, senza soluzione di continuità (i.e. la società scissa - si sostiene - continua

a “vivere” nelle società beneficiarie): e ciò per effetto del disposto dell’articolo 2506-quater, cod. civ.

(che, ricordiamo, stabilisce il principio di solidarietà della società beneficiaria per i debiti della scissa28).

L’effetto di tale teoria è che il bene continua a rimanere, sostanzialmente, nella disponibilità del

debitore e soprattutto, per quanto qui interessa, del creditore. Tale argomentazione potrebbe (e

dovrebbe) essere utilizzata anche per sostenere e avvalorare la tesi, per altro già fatta propria da parte

della giurisprudenza (come sottolineato nei precedenti paragrafi), che nell’operazione di scissione non

ricorra nemmeno l’eventus damni: tale presupposto, infatti, dovrebbe ricorrere ove la difficoltà nel

recuperare il credito si rivelasse, per causa dell’atto posto in essere, oggettiva ed effettiva e non, invece,

quando il creditore sia comunque in grado di “aggredire” il “patrimonio” del debitore, anche se con una

diversa modalità29 operativa.

Sulla base delle considerazioni sopra svolte, possiamo pertanto concludere rilevando come ci sembri

maggiormente meritoria (e più fondata) la tesi secondo la quale mancherebbero, nel caso della

scissione, alcuni di quei presupposti che sono, invece, necessari e devono sussistere perché l’azione

revocatoria possa essere effettivamente esercitata.

28 Così come l’articolo 2504-bis, cod. civ. (intitolato “Effetti della fusione”) prevede l’assunzione da parte della società risultante dalla fusione

dei diritti ed obblighi delle società partecipanti alla fusione. 29 Ossia attraverso un’azione esecutiva da promuoversi contro la beneficiaria.

Giurisprudenza

42 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Le modifiche di clausole statutarie che

dispongono quorum rafforzati

richiedono l'approvazione con quorum

parimenti rafforzati: la sentenza della

Cassazione n. 4967/2016 di Federico Colognato - avvocato

Valeria Marocchio - dottoressa in giurisprudenza

Con una recente sentenza la Corte di Cassazione, per la prima volta, ha affermato che i criteri di

ermeneutica contrattuale espressi dagli articoli 1362 e ss., cod. civ., in assenza di una diversa

indicazione espressa dello statuto societario, non consentono di ammettere la possibilità che

una clausola statutaria (c.d. di salvaguardia1) - nel richiedere una maggioranza qualificata per

l’adozione di talune delibere - sia modificabile con quorum inferiori.

Introduzione

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 4967/20162 ha affrontato, per la prima volta, la problematica

relativa alla determinazione della maggioranza assembleare necessaria per modificare una clausola

statutaria che preveda, per l'adozione di alcune deliberazioni concernenti specifiche materie, un quorum

qualificato.

Detto in altri termini, la questione affrontata dalla Cassazione era la seguente: qualora sia presente una

clausola statutaria che richieda una maggioranza "rafforzata" per deliberare su determinati argomenti

o materie, nel silenzio dello statuto con quale maggioranza si dovrà modificare la clausola stessa?

1 Con l'espressione “clausola di salvaguardia” si fa riferimento ad una previsione statutaria che richieda per la modifica di quorum rafforzati per

determinati argomenti quorum equivalenti. Si veda C. A. Busi, “I quorum assembleari della Srl e la loro derogabilità”, pag. 49. 2 Cassazione n. 4967/2016, in Riv. Not., II, 2016, pag. 318 ss.. Per un commento alla sentenza de qua, si veda altresì R. Bencini, “Quorum

deliberativi a tutela della minoranza: scacco matto alla maggioranza”, in Il Quotidiano Giuridico, 24 marzo 2016; M. Stella Richter jr., “Può una

norma statutaria riferirsi a sé stessa?”, in Corriere Giur., VII, 2016, pag. 962 ss.; C. Marchetti e G. Terranova, “L'interpretazione delle clausole

statutarie: il recente intervento della Corte di Legittimità nell'ottica del diritto comparato – Il commento, in Notariato”, 2016, V, pag. 479 ss. (nota a

sentenza); N. De Luca, A. Napolitano, “Maggioranze rafforzate e principio di “autoprotezione”. Note sull'interpretazione degli statuti secondo comune

intenzione e buona fede (nota a Cassazione n. 4967/2016)”, in Società, VI, 2016, pag. 683 ss.; E. Ratti, “Le clausole statutarie di salvaguardia e le

maggioranze necessarie per la loro modifica, nota a Cassazione n. 4967/2016”, in Giur. it., 2016, XII, pag. 2666 ss.; A. Ruotolo, D. Boggiali, “La

modifica di clausole che prevedano quorum rafforzati richiede maggioranze parimenti rafforzate” (Cassazione n. 4967/2016), in CNN Notizie del 16

marzo 2016, pag. 2 e ss..

Giurisprudenza

43 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Devono raggiungersi le medesime maggioranze "rafforzate" o sarà possibile procedere a modificarle

con le c.d. maggioranze "ordinarie" previste dal codice civile?

La giurisprudenza di merito (anteriore alla citata pronunzia della Suprema Corte) non era mai approdata

a una soluzione univoca sul punto.

L'analisi delle decisioni di merito, infatti, rivela il formarsi di due orientamenti contrapposti tra loro: da

un lato v'è chi3 concludeva a favore della modificabilità di dette clausole statutarie attraverso

l'applicazione delle maggioranze "ordinarie" previste dalla legge, mentre altre pronunce4 ritenevano

necessaria la medesima maggioranza qualificata prevista dalla clausola, per modificare altresì la

clausola stessa.

La Cassazione è quindi intervenuta, aderendo a tale ultima posizione, conseguentemente deve dirsi che,

qualora non diversamente previsto dallo statuto, le modifiche di una clausola statutaria che preveda un

quorum rafforzato per le deliberazioni concernenti specifiche materie, sono da approvare con le

medesime maggioranze rafforzate previste dalla norma statutaria medesima.

Successivamente sono giunti a sostenere la tesi de qua, altresì i recenti Orientamenti del Comitato

Triveneto dei Notai in materia di atti societari I.F.3 e H.F.4, rispettivamente in tema di Srl e Spa5.

L'orientamento (oggi) superato: modificabilità a maggioranza ordinaria (in assenza di

una diversa espressa previsione)

Come poc'anzi accennato, secondo una prima interpretazione giurisprudenziale6, prevalente in

giurisprudenza e in dottrina7 fino alla pubblicazione della citata sentenza della Corte di Cassazione, le

3 Si veda amplius nota 6. 4 Per tale secondo orientamento, minoritario in giurisprudenza fino alla pubblicazione della citata sentenza della Corte di Cassazione, si veda

Tribunale di Genova, sentenza del 7 maggio 1991, in Società, 1991, pag. 1529r ss.; Tribunale di Napoli, sentenza n. 2516/1981, in Foro Nap., I,

pag. 260 e ss.. 5 Si veda Massima H.F.4 del Triveneto in tema di Spa (Modifiche statutarie di clausole che prevedono quorum rafforzati), pubblicata nel

settembre 2016, rinvenibile in http://www.notaitriveneto.it/dettaglio-massime-triveneto-57-spa---modifiche-dellatto-costitutivo.html;

Massima I.F.3 del Triveneto in tema di Srl (Modifiche statutarie di clausole che prevedono quorum rafforzati), pubblicata nel settembre 2016 e

rinvenibile in http://www.notaitriveneto.it/dettaglio-massime-triveneto-72-srl-modifiche-dellatto-costitutivo-in-generale.html. 6 Per l'orientamento giurisprudenziale prevalente fino alla pubblicazione della citata sentenza della Cassazione si veda in particolare, Tribunale

di Milano, sentenza 8 marzo 2007 in Giur. it., 2007, pag. 2773 ss.; Tribunale di Reggio Emilia, sezione I, sentenza 2 dicembre 2005, in Riv. Not.,

III, 2007, pag. 682 ss., con nota di S. Clericò, “Le clausole di salvaguardia e le maggioranze necessarie per la loro eliminazione”; e in Società, 2006,

pag. 1257 ss., con nota di F. Fanti, “Diritto di informazione del socio e modificabilità a maggioranza delle c.d. clausole di salvaguardia”; Tribunale

di Udine, ordinanza 21 ottobre 1998, in Società, 1998, pag. 1452 ss., con nota adesiva di P. Anello, S. Rizzini Bisinelli, “Modifica della clausola

“di salvaguardia” a maggioranza semplice”; da ultimo anche Tribunale di Ascoli Piceno, sentenza 12 aprile 2014, in Giur. it., 2015, pag. 135 ss.,

con nota adesiva di F. Occelli, “Modificazione di clausole statutarie di Srl e disposizioni di “salvaguardia””; Tribunale di Avellino, 1 giugno 2010,

in Not., V, 2011, pag. 528 ss., con nota di M. Guarini, “È sempre valida la clausola statutaria di quorum assembleari particolarmente elevati?”;

Tribunale di Trento, decreto 22 dicembre 2004, in Società, IX, 2005, pag. 1157 ss., con nota di E. L. Ntuk, “Maggioranze per la modifica dei diritti

particolari dei soci di Srl”. 7 Si veda per tutti, A. Cerrai, A. Mazzoni, “La tutela del socio e delle minoranze”, in Riv. Soc., I-II, 1993, pag. 69 ss.; A. Ruotolo, “Clausole di

“salvaguardia negli statuti societari””, Risposta a Quesito n. 174-2007/I del 22 novembre 2007, in Studi e materiali del Consiglio Nazionale del

Notariato, 2007, pag. 1613 ss.. Si veda anche S. Clericò, “Le clausole di salvaguardia e le maggioranze necessarie per la loro eliminazione”; F. Fanti,

“Diritto di informazione del socio e modificabilità a maggioranza delle c.d. clausole di salvaguardia”; P. Anello, S. Rizzini Bisinelli, “Modifica della

clausola “di salvaguardia” a maggioranza semplice”; F. Occelli, “Modificazione di clausole statutarie di Srl e disposizioni di “salvaguardia””; M. Guarini,

Giurisprudenza

44 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

clausole che impongono dei quorum assembleari per determinate deliberazioni societarie, avrebbero

innanzitutto natura eccezionale: non ne sarebbe, quindi, consentita l'interpretazione estensiva o

analogica al di là delle sole ipotesi espressamente previste dallo statuto8.

Tale ricostruzione, facendo leva sul dato letterale, ritiene che la formulazione della clausola statutaria

de qua esaurisca l'ambito interpretativo della stessa, ergo la delibera di modifica della citata clausola

potrebbe essere adottata dall'assemblea applicando gli ordinari quorum deliberativi fissati dalla legge9.

E ciò in base anche alle comuni regole di ermeneutica contrattuale di cui agli articoli 1362 e ss., cod.

civ., per le quali l'intenzione delle parti – ove il tenore letterale della clausola pattizia sia chiaro e

univoco – dovrebbe essere desunta esclusivamente dalla lettera della norma10.

Più precisamente, tale orientamento rileva come sia del tutto arbitrario ritenere che la volontà dei soci

sia sicuramente volta a “blindare” anche la clausola che preveda i c.d. quorum rafforzati, in quanto non

si comprenderebbe il motivo per cui le parti, avendo esplicitamente previsto maggioranze qualificate

per l'adozione di delibere aventi a oggetto specifiche materie, non abbiano previsto pari maggioranze

anche per la modifica della clausola che li dispone11.

“È sempre valida la clausola statutaria di quorum assembleari particolarmente elevati?”; E. L. Ntuk, “Maggioranze per la modifica dei diritti particolari

dei soci di Srl”. 8 In tal senso Tribunale di Reggio Emilia, sezione I, sentenza 2 dicembre 2005: “Il “quorum” qualificato richiesto dallo statuto per l'approvazione

delle deliberazioni concernenti specifiche modificazioni statutarie non può ritenersi necessario anche per l'approvazione della delibera modificativa

della clausola statutaria contemplante il suddetto quorum rafforzato. L'articolo dello statuto sociale, che dispone maggioranze qualificate, è, infatti,

norma eccezionale non suscettibile di interpretazione analogica o estensiva, né nel caso di specie sarebbe possibile individuare, in ordine alle materie

per le quali si prevede il quorum rafforzato, la sussistenza di diritti indisponibili che possano giustificare l'estensione delle suddette maggioranze

qualificate anche alla clausola che le dispone”. Cfr. amplius in commento al provvedimento de qua, S. Clericò, “Le clausole di salvaguardia e le

maggioranze necessarie per la loro eliminazione”, pag. 685 ss.; F. Fanti, “Diritto di informazione del socio e modificabilità a maggioranza delle c.d.

clausole di salvaguardia”, pag. 1259 ss.. 9 In tal senso, si veda Tribunale di Milano, sentenza 8 marzo 2007: “La clausola statutaria che, in una società a responsabilità limitata, prevede la

maggioranza rafforzata dei 4/5 del capitale per l'approvazione di deliberazioni di aumento del capitale sociale può essere modificata, al pari di ogni

altra clausola statutaria ed in assenza di una disciplina pattizia ad hoc, con le maggioranze di legge”. 10 Si veda amplius nota a Cassazione n. 4967/2016, in Riv. Not., pag. 322. 11 Cfr. sul punto, S. Clericò, “Le clausole di salvaguardia e le maggioranze necessarie per la loro eliminazione”, pag. 687 e 688, il quale ritiene

condivisibile l'opinione di chi, al fine di risolvere la questione dell'applicazione o meno di quorum rafforzati anche alla modifica della

disposizione che li contempla, “focalizza l'attenzione sull'interpretazione dell'atto costitutivo. La Suprema Corte ha più volte affermato che lo statuto

di un ente collettivo deve essere interpretato secondo le regole dell'ermeneutica contrattuale. Ciò determina, innanzitutto, il venir meno

dell'argomentazione basata sull'eccezionalità e, quindi, sull'inapplicabilità analogica della previsione statutaria contemplante maggioranze rafforzate.

Quello della natura eccezionale è, infatti, criterio ermeneutico che attiene all'interpretazione della legge e non del contratto, e quindi non applicabile

all'atto costitutivo di una Spa. La Suprema Corte ha, altresì, specificato che non tutte le regole dell'ermeneutica contrattuale devono essere applicate

all'atto costitutivo, ma solamente quelle oggettive, che cioè ricercano il significato del negozio non sulla base della comune intenzione delle parti ma

sulla base di valutazioni normative. Il contratto sociale è, infatti, stipulato per lo svolgimento di un'attività, e quindi, non si esaurisce nell'interesse

delle parti ma crea un'organizzazione che ha il compito di svolgere l'attività programmata, ponendo in essere nei confronti dei terzi una serie indefinita

di atti. In altre parole, l'atto costitutivo, in particolar modo quello di società per azioni, è destinato per sua stessa natura ad incidere sugli interessi di

soggetti diversi da quelli che l'hanno formato e che sono i destinatari diretti dei suoi effetti. Tutto ciò spiega perché il Legislatore, per le società di

capitali, abbia istituito un sistema di pubblicità legale ed abbia escluso che possano essere opposti ai terzi fatti non iscritti, e dimostra, altresì, per

quale motivo nell’interpretazione dell’atto costitutivo di Spa occorra far riferimento esclusivamente alle regole oggettive. In caso contrario si darebbe

la possibilità alla parte contrattuale di opporre al terzo la volontà non iscritta del Registro e, quindi, di dare alla propria dichiarazione un significato

diverso da quello oggettivo.

Esclusa quindi la possibilità di esaminare lo statuto alla ricerca di un’ipotetica volontà dei contraenti, sembrano perdere vigore le argomentazioni

proposte da chi afferma la modificabilità a maggioranza rafforzata della clausola di salvaguardia. L’orientamento che sostiene tale tesi, infatti, prende

spunto proprio da un’implicita volontà dei contraenti che, al contrario, le regole d’interpretazione oggettiva non considerano, essendo volte, come già

precisato, a ricostruire il significato del negozio esclusivamente sulla base di valutazioni normative. A ben vedere, però, nemmeno tali valutazioni

(esplicite nel principio di conservazione del contratto, in quello delle pratiche generali, delle espressioni polisense, dell’interpretazione contro l’autore

della clausola e nel principio dell’interpretazione equitativa) secondo la giurisprudenza prevalente, potrebbero trovare applicazione in un’ipotesi quale

Giurisprudenza

45 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Per estendere la portata delle disposizioni statutarie che importino maggioranze superiori a quelle

previste dalla legge, secondo tale orientamento è in ogni caso indispensabile un'ulteriore e apposita

previsione statutaria, rappresentando, l'imposizione di maggioranze rinforzate, una vera e propria

norma eccezionale, non suscettibile dunque di interpretazione analogica o estensiva12.

Come traspare dall'attuale disciplina codicistica, inoltre, essendo ampiamente riconosciuto ai soci un

elevato grado di autonomia nel determinare il contenuto dello Statuto, anche in tema di decisioni

assembleari, in difetto di una clausola espressa, non sembra lecito oltrepassare il limite

dell'interpretazione letterale, andando così a creare una volontà contrattuale mai espressa dalle parti13.

quella in esame. La Suprema Corte, infatti, ha più volte affermato come di fronte ad un testo contrattuale chiaro, quale quello sottoposto all’esame

del Tribunale di Reggio Emilia, non si potrebbe far ricorso ad alcun criterio ermeneutico; e anche quelle isolate decisioni della Suprema Corte che

hanno sostenuto il contrario hanno fatto sempre riferimento alla necessaria applicazione delle regole d’interpretazione soggettiva che già si è chiarito

non essere applicabili allo statuto di una Spa”. 12 Così, C. A. Busi, “I quorum assembleari della Srl e la loro derogabilità”, Studio 119-2011/I approvato dalla Commissione di Studi di Impresa del

Consiglio Nazionale del Notariato, in “Studi e materiali”, 2011, pag. 1211 e ss., cit., spec. 1275 ss..

Un esempio topico in cui vengono in rilievo maggioranza rafforzate è quello della introduzione di diritti particolari a favore dei soci di Srl. Per

una fattispecie concreta, si veda Tribunale di Trento, decreto 22 dicembre 2004, il quale, nel rigettare l'istanza, ha statuito “che l’introduzione

ex novo, nell’atto costitutivo, della clausola derogativa del consenso unanime dei soci, richiede a sua volta tale unanimità, poiché altrimenti verrebbe

sostanzialmente vanificata la regola dell’immodificabilità dei diritti particolari senza il consenso di tutti i soci, la cui deroga trova pur sempre

giustificazione nella manifestazione della volontà di costoro, nel senso che la clausola dell’atto costitutivo che preveda la modifica a maggioranza è

un regolamento contrattuale diverso dall’unanimità, espressamente pattuito da tutte le parti contraenti: è pur sempre dalla volontà dei soci,

manifestata all’atto della conclusione del contratto di società ovvero all’atto di una sua modifica pattuita all’unanimità, che deriva l’assoggettamento

di ciascuno di essi alle deliberazioni della maggioranza; che per rendere legittima la delibera non è sufficiente riproporre il testo dell’articolo 2468,

comma 4, cod. civ., laddove viene fatto salvo in ogni caso quanto previsto dall’articolo 2473, comma 1, cod. civ., poiché tale clausola di salvezza

consente al socio di recedere anche nell’ipotesi di legittima modifica a maggioranza dei particolari diritti previsti dall’atto costitutivo, ma non consente

all’assemblea di modificare a maggioranza l’atto costitutivo allo scopo di introdurvi ex novo la clausola derogativa dell’unanimità”. Sicché, è a dirsi,

per la corte territoriale trentina che deve essere modificata col consenso di tutti i soci l'introduzione di una clausola statutaria che consenta

la modifica a maggioranza dei diritti dei soci riguardanti l'amministrazione della società o la distribuzione degli utili; in caso contrario verrebbe

vanificata la norma (espressione della personalizzazione della partecipazione), introdotta ex novo dalla riforma delle società, con la quale si

prevede che tali diritti possono essere modificati solo col consenso di tutti i soci, salva diversa disposizione dell'atto costitutivo, cfr. sul punto,

la nota di E. L. Ntuk, “Maggioranze per la modifica dei diritti particolari dei soci di Srl”, pag. 1158. Cfr. in tema anche A. Cerrai, A. Mazzoni, “La

tutela del socio e delle minoranze”, pag 69 ss., ove si puntualizza come non sarebbe affatto “sufficiente, nell'ottica della minoranza interessata alla

preservazione di tali clausole, che lo statuto prevedesse separatamente, per ciascuna di esse, un particolare regime di supermajority in ordine alla

modifica o soppressione della clausola stessa. Invero, qualora, il regime generale di quorum deliberativo per l'assunzione di delibere straordinarie di

modifica dello statuto non fosse stato esso stesso elevato fino a conferire alla minoranza un concreto potere di blocco “a tutto campo”, rimarrebbe

aperta per la maggioranza la possibilità di modifica, con la sola osservanza del quorum deliberativo di legge, di quella parte di ogni singola clausola

contenente il regime particolare di auto-protezione della clausola stessa. In altre parole: senza un sostanziale potere di blocco rispetto ad ogni

modifica statutaria, rischia di rivelarsi illusorio (perché esso stesso modificabile con le maggioranze di legge) ogni regime deliberativo particolare,

previsto come specifica cintura di sicurezza attorno a determinate clausole, in sé e per sé considerate”. Tuttavia, anche il rimedio stesso della c.d.

“clausola di salvaguardia” è stato ritenuto non decisivo da un'autorevole opinione (M. Stella Richter jr, “Considerazioni generali in tema di

modificazione dell'atto costitutivo di società a responsabilità limitata”, in Giust. Civ., 2010, pag. 519 ss.), che contestando l'orientamento

giurisprudenziale prevalente (cfr. amplius in questo paragrafo), aveva ritenuto che la soluzione della modificabilità delle clausole in oggetto

secondo i quorum ordinari previsti dalla legge, da esse stesse derogati, non sarebbe corretta “né giuridicamente né, tanto meno, logicamente. Dal

punto di vista del diritto, infatti, propone una interpretazione formalistica che è contraria al principio di conservazione di cui all'articolo 1367, cod.

civ. e si direbbe anche al canone di interpretazione di buona fede (articolo 1366, cod. civ.)”. La critica posta in essere dall'Autore dal punto di vista

logico si basa sul fatto che nemmeno il ricorso a una clausola di salvaguardia potrebbe offrire un'adeguata soluzione di chiusura del sistema:

tale clausola sarebbe infatti pur sempre modificabile con le maggioranze ordinarie, salvo immaginare un'ulteriore norma di chiusura e così via

all'infinito (si veda in tale ultimo senso il paragone posto dall'Autore con la norma posta dall'articolo 139 della Costituzione, ove si prevede

che la forma repubblicana non può essere oggetto della c.d. revisione costituzionale). Ancora, per l'Autore - riprendendo i principi della teoria

generale del diritto -, “o si afferma che le norme di un sistema che prevedono una speciale procedura per le modificazioni di alcune o tutte le norme

del sistema stesso sono norme che si pongono ad un livello superiore e non sono perciò in alcun modo modificabili, posto che la proposizione nella

quale si sostanziano non può riferirsi a se stessa; oppure si ragiona ... nel senso di ammettere una sorta di autoreferenzialità o riflessività sulle norme

di produzione relative alle modifiche, ritenendole, attraverso processi di interpretazione o integrazione, anche riferite o riferibili a se stesse”. Cfr. su

quanto poc'anzi esposto anche M. Stella Richter jr., “Può una norma statutaria riferirsi a sé stessa?”, pag. 962 ss.. 13 Si veda in tal senso, da ultimo Tribunale di Ascoli Piceno, sentenza 12 aprile 2014: “... È, infatti, facoltà dei soci modificare a maggioranza

semplice una clausola che preveda maggioranze qualificate qualora la stessa non contenga alcun meccanismo di salvaguardia, ossia una regola che

estenda la maggioranza qualificata anche alla deliberazione della sua modifica. “La clausola che stabilisce maggioranze ultra qualificate è, infatti,

Giurisprudenza

46 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

L'interpretazione oggi preferibile: sempre necessaria una maggioranza rafforzata

(anche in caso di mancata espressa previsione)

Secondo l'altra interpretazione offerta dalla giurisprudenza, rimasta tuttavia (fino a oggi) minoritaria

anche in dottrina14, le clausole statutarie che impongono quorum assembleari rafforzati per

deliberazioni aventi a oggetto determinate materie, anche in assenza di un'apposita previsione

statutaria, potrebbero essere, invece, a loro volta modificate soltanto con gli stessi quorum qualificati,

salvo che, appunto, non sussista una “non equivoca diversa volontà negoziale”15.

Le argomentazioni poste a fondamento di tale tesi sono principalmente 2.

In primis, la previsione statutaria di una particolare maggioranza per le deliberazioni concernenti alcune

materie, renderebbe sostanzialmente “rigido” lo statuto relativamente a quelle specifiche materie, e,

conseguentemente, tali clausole sarebbero immodificabili a maggioranza semplice.

Diversamente opinando, verrebbe di fatto svuotato il contenuto del precetto che impone una soglia più

elevata16: il quorum rafforzato, sarebbe infatti espressione della volontà delle parti d'introdurre, per ciò

che attiene alle deliberazioni inerenti le materie in essa previste, elementi di “rigidità” nello statuto.

Sarebbe, infatti, oltremodo illogico e incoerente non attribuire questo carattere “rigido” anche alla

disposizione che tali quorum rafforzati prevede.

La tesi in questione, dunque, facendo leva sulla volontà implicita delle parti, giunge ad affermare come

sarebbe del tutto privo di senso interpretare una simile clausola non modificabile con gli stessi quorum

norma eccezionale rispetto al principio delle maggioranze assembleari stabilito dalla legge e, in quanto tale, non è, in generale, suscettibile di

interpretazione estensiva o analogica””. Cfr. anche, in commento al provvedimento ivi citato, F. Occelli, “Modificazione di clausole statutarie di Srl

e disposizioni di “salvaguardia”” pag. 137. In generale sul temasi veda. anche M. Guarini, “È sempre valida la clausola statutaria di quorum

assembleari particolarmente elevati?”, in commento a Tribunale di Avellino, sentenza 1° giugno 2010, secondo il quale “sono invalide le clausole

statutarie che prevedendo un'elevatissima maggioranza determinano una paralisi dell'azione della società, come nell'ipotesi in cui l'unico socio di

minoranza, per la situazione della compagine sociale, ha un potere di veto o di interdizione in ordine all'adozione delle deliberazioni di modifica dello

statuto”. In tema si veda anche Tribunale di Roma, sentenza 20 novembre 2001: “Può essere validamente modificata a maggioranza semplice la

clausola dello statuto di una società per azioni che preveda la necessità di un "quorum" deliberativo qualificato in relazione ad alcune materie, in

mancanza di una esplicita disposizione statutaria che imponga tale "quorum" anche per la modifica della clausola stessa”, in Gius., 2002, pag. 1088

ss..; Tribunale di Milano, sentenza 2 ottobre 1989: “La clausola statutaria che, in una società a responsabilità limitata, prevede la maggioranza

favorevole dell'ottantacinque per cento del capitale per l'approvazione delle deliberazioni di aumento del capitale sociale, può essere

modificata dall'assemblea straordinaria con il voto favorevole della maggioranza prevista in via generale dall'articolo 2486, cod. civ.”., in

Società, 1990, pag. 50 ss.. 14 Cfr. per tutti, M. Stella Richter jr., “Può una norma statutaria riferirsi a sé stessa?”, pag. 962 ss.; si veda anche Id., “Considerazioni generali in

tema di modificazione dell'atto costitutivo di società a responsabilità limitata”, in Giust. Civ., 2010, pag. 519 ss.. SI veda anche E. Bocchini, “Sulla

nullità della clausola statutaria che prevede l'unanimità per la delibera di modifica dell'atto costitutivo”, in nota a Corte di Appello di Napoli, 23

marzo 1978, in Banca, borsa, tit. cred., 1978, II, pag. 500 ss.. 15 In tal senso, Tribunale di Genova, sentenza del 7 maggio 1991. 16 In tal senso, Tribunale Genova, sentenza del 7 maggio 1991, secondo il quale “la previsione statutaria di una particolare maggioranza per le

deliberazioni concernenti alcune materie non può che rendere sostanzialmente “rigido” lo statuto stesso nella parte concernente le materie anzidette

ed immodificabile con maggioranze semplici la norma dotata di tali caratteristiche di rigidità. Del tutto elastico diverrebbe, infatti, tale precetto se di

esso fosse consentita la modificazione senza alcuna particolare maggioranza come invece prescritto per quelle materie sulle quali l'assemblea

dovrebbe con tali particolari quorum deliberare. Ancorché non sia stato espressamente previsto dallo statuto, infatti, non può non ritenersi che, come

le materie espressamente previste dall'art. 15 dovrebbero riportare la maggioranza dei quattro quinti dei voti favorevoli, altrettanto debba conseguire

una modificazione del medesimo art. 15 prevedente siffatte maggioranze sotto pena, in difetto, di veder svuotare di ogni pratico contenuto tale

previsione e, di fatto, assoggettata a minore maggioranza una deliberazione attinente le materie anzidette”.

Giurisprudenza

47 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

rafforzati, paventandosi altrimenti il rischio di un abuso di alcuni soci che, con due mere delibere a

maggioranza semplice, potrebbero arbitrariamente operare in quelle materie per cui i soci medesimi

abbiano predisposto particolari cautele17.

E ciò, pure in difetto di un'apposita clausola di salvaguardia18 - contenuta all'interno dello statuto

stesso, la quale estenda espressamente il regime di rafforzamento per le decisioni che intendano

modificare le suddette clausole statutarie

In secondo luogo, per il principio di conservazione dei contratti di cui all'articolo 1367, cod. civ. -

secondo il quale in ipotesi di dubbio interpretativo, i contratti e le clausole vanno interpretati nel senso

in cui possano avere un qualche effetto, anziché in quello in cui non ne avrebbero alcuno - , difronte a

clausole statutarie del tipo in discorso, lo statuto (in generale e la singola clausola in particolare) deve

comunque interpretarsi nel senso che anche le modificazioni di tali clausole siano rette (per identità di

ratio) dalla stessa identica maggioranza19.

Deve peraltro ricordarsi che già il Consiglio Notarile di Firenze, nel dare comunque atto dello "stato

dell'arte" in materia, aveva segnalato la possibilità di un'apertura alla tesi (allora) minoritaria.

La motivazione dell'orientamento fiorentino n. 42/201420 statuiva infatti che “... Occorre infine stabilire

se la clausola che innalza, ad esempio, automaticamente – al verificarsi del presupposto previsto nello statuto

medesimo – il quorum costitutivo o deliberativo sia soggetta, per la sua modificazione, a quello stesso regime

rafforzato oppure al generale regime vigente per le altre modifiche statutarie.

Da un lato non sembra ipotizzabile una sorta di “estensione automatica” del quorum rafforzato: non basta

prevedere che la clausola, ad esempio, relativa all’oggetto sociale possa essere – a seguito dell’innalzamento

del quorum – modificata “con una deliberazione approvata dai 9/10 del capitale sociale”, per fare in modo

che anche la predetta norma statutaria sia modificabile con le maggioranze rafforzate.

Da un altro lato appare sensato ritenere che la modificabilità della norma che rafforza i quorum non possa

avvenire a condizioni meno rigorose, con le minori maggioranze legali.

17 Secondo il citato provvedimento del Tribunale di Genova, sarebbe, dunque, “illegittima la deliberazione di modifica della clausola statutaria,

che per talune materie richiede la maggioranza qualificata di quattro quinti dei soci, adottata dall'assemblea con la maggioranza della metà più uno

dei soci”. In tal senso v. anche Tribunale di Napoli, 15 aprile 1981, per il quale “lo svuotamento del contenuto della stessa (clausola) appare

chiaramente dalla conseguenza che, a superare l'ostacolo, sarebbero sufficienti due deliberazioni successive a maggioranza ordinaria”. In dottrina, si

veda S. Clericò, “Le clausole di salvaguardia e le maggioranze necessarie per la loro eliminazione”, pag. 687; F. Fanti, “Diritto di informazione del

socio e modificabilità a maggioranza delle c.d. clausole di salvaguardia”, pag. 1262 ss.; F. Occelli, “Modificazione di clausole statutarie di Srl e

disposizioni di “salvaguardia””, pag. 137; A. Ruotolo, “Clausole di “salvaguardia negli statuti societari””. 18 Si veda nota a Cassazione, n. 4967/2016, in Riv. Not., pag. 321. 19 Così Tribunale di Napoli, sentenza 15 aprile 1981: “Quando vi è una clausola statutaria che per date deliberazioni prevede una maggioranza

rinforzata, lo statuto deve interpretarsi nel senso che anche le deliberazioni modificative di tale clausola siano rette dalla stessa maggioranza

rinforzata”. Si veda anche nota a Cassazione n. 4967/2016, in Riv. Not., pag. 323; A. Ruotolo, “Clausole di «salvaguardia negli statuti societari””. 20 "Quorum assembleari variabili" del Consiglio Notarile di Firenze, rinvenibile in

http://www.consiglionotarilefirenze.it/index.php/orientamenti/societa-di-capitali/organi-sociali/109-quorum-assembleari-variabili-42-2014.html.

Giurisprudenza

48 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

La prassi suggerisce quindi di prevedere espressamente che, al verificarsi del presupposto che innalza il

quorum per determinate decisioni, si accompagni un’espressa previsione statutaria che rende modificabile o

disattivabile tale quorum rafforzato solo con una maggioranza equivalente”.

Dalla sentenza della Corte di Cassazione alle Massime del Triveneto

Come già anticipato in questa sede, quest'ultimo secondo orientamento giurisprudenziale trova oggi

l'avallo della Corte di Cassazione, nonché del Consiglio Notarile del Triveneto.

Orbene, nel caso esaminato dai giudici di legittimità, l'articolo 17 dello statuto di una Spa - nel

richiedere la maggioranza del 60% per le delibere concernenti talune materie, sia in prima che in

seconda convocazione -, non menzionava espressamente anche quelle delibere aventi a oggetto la

modifica proprio di tale articolo (e, in particolare, la soglia azionaria richiesta per l'adozione di quelle

particolari decisioni).

Da qui il tentativo da parte dei soci di maggioranza - che tuttavia non raggiungevano la richiesta

maggioranza del 60% dei titoli azionari -, di modificare la previsione statutaria riportando le

maggioranze in tale articolo previste a quelle (più basse) di cui all'articolo 2369, cod. civ. (che nel

testo previgente ante riforma richiedeva per la valida assunzione delle delibere, il voto favorevole

dei soci titolari di azioni rappresentanti più di un terzo del capitale sociale) 21, con conseguente

lamentata lesione dei diritti degli altri soci per violazione di norma statutaria e per abuso della

maggioranza.

Sia in primo che in secondo grado la domanda di annullamento della delibera veniva rigettata dai

giudici aditi22, ergo i soci di minoranza proponevano ricorso per Cassazione la quale, con la citata

21 Articolo 2369, cod. civ. ante riforma operata grazie all'intervento dell'articolo 1, D.Lgs. 6/2003, con decorrenza dal 1° gennaio 2004. Seconda

convocazione e convocazione successive, “1. Se i soci intervenuti non rappresentano complessivamente la parte di capitale richiesta dall'articolo

precedente, l'assemblea deve essere nuovamente convocata. 2. Nell'avviso di convocazione dell'assemblea può essere fissato il giorno per la seconda

convocazione. Questa non può aver luogo nello stesso giorno fissato per la prima. Se il giorno per la seconda convocazione non è indicato nell'avviso,

l'assemblea deve essere riconvocata entro trenta giorni dalla data della prima, e il termine stabilito dal secondo comma dell'articolo 2366 è ridotto

ad otto giorni. 3. In seconda convocazione l'assemblea ordinaria delibera sugli oggetti che avrebbero dovuto essere trattati nella prima, qualunque

sia la parte di capitale rappresentata dai soci intervenuti, e l'assemblea straordinaria delibera con il voto favorevole di tanti soci che rappresentino

più del terzo del capitale sociale, a meno che l'atto costitutivo richieda una maggioranza più elevata. 4. Tuttavia anche in seconda convocazione è

necessario il voto favorevole di tanti soci che rappresentino più della metà del capitale sociale per le deliberazioni concernenti il cambiamento

dell'oggetto sociale, la trasformazione della società, lo scioglimento anticipato di questa, il trasferimento della sede sociale all'estero e l'emissione di

azioni privilegiate”. 22 “... 2. La Corte territoriale ha rilevato che l'articolo 17 dello statuto sociale, nel richiedere la maggioranza del 60% per le assemblee, sia in prima

che in seconda convocazione, per gli argomenti concernenti talune materie, riguardava soltanto le delibere aventi per oggetto tali materie e non

comprendeva anche quelle aventi ad oggetto la modifica di tale previsione. In conseguenza, essa ha ritenuto che legittimamente l'assemblea del 5

settembre 2001 aveva proceduto a mutare tale clausola, ai sensi dell'articolo 2369, cod. civ., nel testo previgente alle modifiche apportate dal D.Lgs.

6/2003, ossia con il voto favorevole di soci titolari di azioni rappresentanti più di un terzo del capitale sociale, ... . La Corte d'Appello ha ritenuto

insussistente il lamentato abuso della maggioranza in quanto: a) quest'ultimo non sarebbe configurabile con riferimento ad una delibera che, in sé

legittima, costituisce mero atto preparatorio della decisione asseritamente abusiva; b) pur volendo considerare il risultato finale di procedere, con la

diversa maggioranza risultante dalla modifica dello statuto, all'annullamento delle azioni proprie, con conseguente riduzione del capitale sociale e

ricostituzione dello stesso a titolo gratuito, ossia, in altre parole, l'obiettivo di rimuovere una situazione che ostacolava le finalità deliberative,

comunque l'articolo 17 dello statuto aveva sottratto alla maggioranza qualificata le delibere aventi ad oggetto le modifiche dello statuto, in tal modo

Giurisprudenza

49 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

sentenza n. 4967/2016 pubblicata in data 14 marzo dello scorso anno, si è per l'appunto pronunciata

sulla controversa questione giurisprudenziale.

Facendo proprio l'orientamento giurisprudenziale da ultimo esaminato, la Suprema Corte conclude

che, “alla stregua del fondamentale criterio di buona fede, illuminato dal rilievo della intenzione comune

delle parti”, appare “intrinsecamente contradditorio, in presenza di una clausola statutaria finalizzata a

garantire, con riferimento a determinate materie, un potere di interdizione ad una minoranza determinata,

contemporaneamente consentire alla maggioranza non qualificata di modificare liberamente la previsione

che tale potere attribuisce. In altre parole, salva una non equivoca diversa volontà negoziale, nella specie

insussistente, una clausola che protegga la minoranza richiedendo una maggioranza rafforzata per le

delibere aventi ad oggetto gli argomenti concernenti determinate materie non può essere modificata da

una maggioranza più limitata. E che tale fosse la funzione dell'articolo 17 dello statuto della ... Spa si

desume proprio dalla ricostruzione causale operata dalla sentenza impugnata che ha colto nella clausola

della quale si discute l'obiettivo di fissare i rapporti di forza esistenti al momento e di assicurare la

persistenza degli stessi attraverso la previsione di una maggioranza che imponeva l'accordo tra i diversi

gruppi”23.

La Corte giunge a una simile statuizione partendo dalla considerazione che gli statuti statutari sono

innanzitutto atti di autonomia privata e, in particolare, dei contratti.

Conseguentemente, gli stessi sono, dunque, sottoposti ai criteri ermeneutici previsti in tema di

contratti dal codice civile agli articoli 1362 ss., criteri a loro volta raggruppabili in due categorie:

criteri c.d. soggettivi (articoli 1362 – 1365, cod. civ.), e criteri c.d. oggettivi (articoli 1367 – 1371,

cod. civ.), intervallati dal generale criterio interpretativo secondo buona fede, ex articolo 1366, cod.

civ.24. In particolare, con riferimento alla disciplina dei contratti, dottrina e giurisprudenza sono

unanimi nell'affermare che i c.d. criteri soggettivi debbano prevalere, nel corso dell'attività

ermeneutica, sui c.d. criteri oggettivi, senza tuttavia porre tra gli stessi alcuna differenziazione

gerarchica: solo dopo aver verificato concretamente l'insufficienza dei criteri soggett ivi si potrà

ricorrere a quelli oggettivi25.

attribuendo solo temporaneamente e in modo precario ai soci di minoranza un peso determinante nell'adozione delle decisioni riguardanti le suddette

materie; c) non era stata dimostrata l'intenzionalità specificamente dannosa perseguita dal socio di maggioranza di sottrarsi al controllo della

minoranza sulle irregolarità contestate nell'amministrazione della società, alla luce della meritevolezza dell'interesse perseguito di superare gli

ostacoli all'efficienza assembleare derivanti dai dissidi tra i soci e, in ogni caso, dell'assenza di un vantaggio ingiustificatamente conseguito con

l'operazione descritta”. 23 Così testualmente Cassazione n. 4967/2016, in Riv. Not., pag. 321, cit.. 24 Articolo 1366, cod. civ. Interpretazione di buona fede: “Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede”. 25 Si veda amplius sul punto C. Marchetti, G. Terranova, “L'interpretazione delle clausole statutarie”, pag. 479 ss.. Cfr. in tema di interpretazione

dei contratti anche C. M. Bianca, “Diritto civile. III. Il contratto”, Milano, 2000, pag. 407 ss.; M. C. Diener, “Il contratto in generale”, Milano, 2015,

pag. 483 ss..

Giurisprudenza

50 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Orbene, in verità, non è altrettanto pacifica l'applicazione del citato ordine “gerarchico” tra i criteri

interpretativi; anzi è a dirsi che la posizione largamente prevalente26 in materia ritiene che

l'interpretazione degli statuti societari non sarebbe soggetto a tale gerarchia (così come elaborata con

riferimento in generale agli altri atti di autonomia privata), ma l'ermeneutica interpretativa dovrebbe

essere condotta soltanto in forza dei criteri oggettivi.

Ebbene la Corte di Cassazione, nella sentenza in argomento, in merito alle questioni poc'anzi esposte

prende una ben precisa posizione: discostandosi innanzitutto dalla citata interpretazione (maggioritaria)

in forza della quale gli statuti delle società andrebbero interpretati solo sulla base di criteri ermeneutici

oggettivi; nonché assumendo come cardine dell'ermeneutica statutaria il generale criterio della buona

fede di cui all'articolo 1366, cod. civ..

Orbene, la buona fede27, nell'ermeneutica contrattuale in generale, è intimamente connesso con gli

speculari articoli del codice civile in relazione alle fasi delle trattative e dell'esecuzione del contratto

(articolo 1337 e 1375, cod. civ.), nonché, con riferimento alle obbligazioni in generale (articolo 1175,

cod. civ.)28.

Ma, con riferimento a tale criterio, si discute in dottrina se debba essere annoverato fra i c.d. criteri

oggettivi o soggettivi; vi è inoltre una particolare tesi che, non qualificandolo né come oggettivo né

come soggettivo, lo considera piuttosto (in sintonia con la Relazione al codice, n. 622), quale “punto di

sutura” e criterio intermedio tra i due gruppi di criteri interpretativi29.

Nel solco del citato dibattito qualificatorio, la pronuncia della Cassazione in discorso annovera il

criterio della buona fede tra i criteri c.d. soggettivi e, in particolare, elevandolo la buona fede a criterio

"ancillare" del criterio (soggettivo per antonomasia), di cui all'articolo 1362, cod. civ.30. I giudici di

legittimità, infatti, hanno statuito che “Nel sistema normativo delineato dagli articoli 1362 e ss., cod. civ.,

si osserva che la verifica condotta alla stregua della formulazione letterale deve comunque essere

accompagnata dalla applicazione dei criteri dell'interpretazione funzionale, ai sensi dell'articolo 1369 cod.

26 Si veda amplius sul punto C. Marchetti, G. Terranova, ibidem. 27 "Buona fede" ovverosia parametro di condotta che le parti impegnate in una relazione contrattuale devono seguire e rispettare. Sul punto si

veda per tutti C. M. Bianca, “Diritto civile. III. Il contratto”, pag. 500 ss.; in giurisprudenza per tutti, Cassazione n. 11151/1995, in Vita not., 1996,

pag. 919 ss., la cui massima recita “Il principio dell'articolo 1375, cod. civ., secondo il quale "il contratto deve essere eseguito secondo buona fede"

si applica anche ai contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune. A ciò non osta

la personificazione delle società di capitali”. 28 Articolo 1337, cod. civ., Trattative e responsabilità precontrattuale: “Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del

contratto, devono comportarsi secondo buona fede”; articolo 1375, cod. civ., Esecuzione in buona fede: “Il contratto deve essere eseguito

secondo buona fede”; articolo 1175, cod. civ., Comportamento secondo correttezza: “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le

regole della correttezza”. 29 Si veda amplius sul punto C. Marchetti, G. Terranova, “L'interpretazione delle clausole statutarie”; pag. 479 ss.. 30 Articolo 1362, cod. civ., Intenzione dei contraenti: “1. Nell'interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle

parti e non limitarsi al senso letterale delle parole. 2. Per determinare la comune intenzione delle parti, si deve valutare il loro comportamento

complessivo anche posteriore alla conclusione del contratto”.

Giurisprudenza

51 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

civ., e dell'interpretazione secondo buona fede, ai sensi dell'articolo 1366, cod. civ., che si caratterizzano

quali primari criteri d'interpretazione soggettiva, e non già oggettiva, del contratto, avendo riguardo allo

scopo pratico perseguito dalle parti con la stipulazione del contratto e quindi alla relativa causa

concreta”31.

Da tale assunto istituzionale, la Suprema Corte deriva le conseguenze del caso concreto “Ed, infatti,

proprio alla stregua del fondamentale criterio di buona fede, illuminato dal rilievo della intenzione comune

delle parti, appare intrinsecamente contraddittorio, in presenza di una clausola statutaria finalizzata a

garantire, con riferimento a determinate materie, un potere di interdizione ad una minoranza determinata,

contemporaneamente consentire alla maggioranza non qualificata di modificare liberamente la previsione

che tale potere attribuisce.

In altre parole, salva una non equivoca diversa volontà negoziale, nella specie insussistente, una clauso la

che protegga la minoranza richiedendo una maggioranza rafforzata per le delibere aventi ad oggetto gli

argomenti concernenti determinate materie non può essere modificata da una maggioranza più

limitata”32.

Quanto concluso dalla Cassazione il 14 marzo 2016, è stato fatto proprio altresì nel settembre dello

stesso anno, dalle citate Massime del Triveneto.

In particolare, con riferimento alle Srl, l'Orientamento I.F.3. dell'Osservatorio Societario del Triveneto

ha affermato che:

“1. Si ritiene che qualora in uno statuto sociale vi sia una clausola che preveda un quorum decisionale

rinforzato per l’assunzione di una determinata deliberazione assembleare, tale clausola non possa essere

modificata con il quorum previsto in generale per le deliberazioni modificative dello statuto sociale.

2. Per la valida modifica di clausole che prevedono quorum deliberativi rinforzati occorrono i medesimi

quorum rinforzati previsti da dette clausole.

3. La regola esposta trova applicazione tutte le volte che nello statuto non sia contenuta una diversa

previsione, anche in assenza di una specifica clausola in tal senso.

4. Se, diversamente, fosse consentito alla medesima maggioranza cui è inibito di adottare determinate

delibere di rimuovere il divieto alla loro adozione, si renderebbe priva di effetto la clausola che introduce i

quorum rinforzati in violazione della regola ermeneutica contenuta nell’articolo 1367, cod. civ.33”.

31 Si veda amplius sul punto C. Marchetti, G. Terranova, “L'interpretazione delle clausole statutarie”; pag. 479 ss.; R. Bencini, “Quorum deliberativi

a tutela della minoranza: scacco matto alla maggioranza”; cfr. altresì A. Busani, “Massimario delle operazioni societarie”, Milano, 2016, pag. 823

ss.; in giurisprudenza, si veda anche Cassazione n. 22343/2014. 32 Così testualmente Cassazione, n. 4967/2016, in Riv. Not., pag. 321, cit.. 33 Così la Massima I.F.3 del Triveneto in tema di Srl (Modifiche statutarie di clausole che prevedono quorum rafforzati), pubblicata nel settembre

2016 e rinvenibile in http://www.notaitriveneto.it/dettaglio-massime-triveneto-72-srl-modifiche-dellatto-costitutivo-in-generale.html#inizio. Si

veda altresì A. Busani, “Massimario delle operazioni societarie”, pag. 824, nota 9; cfr. in tema Consiglio Nazionale del Notariato, “Quesito di

Giurisprudenza

52 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

Negli stessi termini, in materia di Spa, la Massima del Triveneto H.F.434 riprende pedissequamente il

medesimo tenore letterale e l'ordine di conclusioni succitato.

In conclusione, dunque, deve dirsi che oggi risulta (definitivamente?) adottato il principio secondo il

quale, qualora, dunque, in uno statuto di società di capitali sia stata inserita una clausola che preveda

un quorum deliberativo particolarmente rafforzato per l’assunzione di delibere assembleari inerenti

determinate materie, a fronte di quanto statuito dalla analizzata sentenza della Corte di Cassazione,

tale clausola non potrà essere modificata con il quorum previsto in generale per le deliberazioni

modificative dello statuto sociale; a contrario troveranno comunque applicazione i suddetti quorum

deliberativi rinforzati anche quando lo Statuto nulla dica sul punto.

A fronte dell'esposto dibattito dottrinale pregresso, nonché della posizione finora maggioritaria

sostenuta dalle corti di merito, l'operatore del diritto è consigliabile che adotti le opportune cautele nel

conformare gli statuti societari e le singole clausole, qualora le stesse, nel discostarsi dal dato

normativo, siano atte a normare una materia fino a oggi molto controversa.

In ogni caso, sarà opportuno, come suggerito a suo tempo dall'orientamento fiorentino citato

precedentemente, che i soci, per evitare l'insorgere di conflitti successivi, prevedano espressamente

che, al verificarsi del presupposto che innalza il quorum per determinate decisioni, si accompagni

un’espressa previsione statutaria che rende modificabile o disattivabile tale quorum rafforzato solo con

una maggioranza equivalente.

Impresa n. 174-2007/I, “Clausole di salvaguardia” negli statuti societari”, in CNN Notizie del 22 novembre 2007; Consiglio Nazionale del Notariato,

“Quesito di Impresa n. 209-2009/I, Atto costitutivo di Srl e modifica delle clausole che prevedano l'unanimità dei consensi”, in CNN Notizie del 30

giugno 2010; Consiglio Nazionale del Notariato, “Studio di Impresa n. 119-2011/I, I quorum assembleari della Srl e la loro derogabilità”, in CNN

Notizie del 27 luglio 2011. 34 Così la Massima H.F.4 del Triveneto in tema di Spa (Modifiche statutarie di clausole che prevedono quorum rafforzati), pubblicata nel

settembre 2016, rinvenibile in http://www.notaitriveneto.it/dettaglio-massime-triveneto-57-spa---modifiche-dellatto-costitutivo.html.

53 La rivista delle operazioni straordinarie n. 4/2017

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